Giovanni Battista Ramusio



NAVIGAZIONI E VIAGGI

Volume terzo




Tommaso Giunti ai lettori


Se gli uomini sapessero la vera cagione perchè spesse volte gli avvenimenti dell'altrui operazioni siano diversi da quel che pareva che si dovesse aspettare, non verriano sí facilmente ad incolpar gli altri o di negligenza, o di tardanza, o di poca prudenza nelle azioni; ma, perciochè nella maggior parte le cagioni sono ascose a coloro che non si ritrovano nel fatto istesso, avviene che per lo piú accusano chi meriteria d'essere scusato. Voglio dire ch'io negli anni passati, sí come voi avete potuto vedere, mandai fuori dalle nostre stampe due volumi di Navigazioni e di Viaggi, il primo cioè e non molto dapoi anche il terzo; il quale vi demmo prima del secondo perciochè, trovandoci gli esemplari che appartenevano a quella parte aver per buona ventura del tutto apparecchiati, giudicammo di farvi cosa grata se, in tanto che s'andava raccogliendo materia a bastanza per il secondo, vi facevamo partecipi di quello che già si trovava esser posto in ordine. E veramente per chiarissimi indizii abbiamo compreso che ciò vi è stato gratissimo, e appresso avemo conosciuto che con infinito desiderio avete aspettato questo secondo, negli altri a voi promesso, e forse molte fiate averete ripreso e vi sareti anco doluti della mia tardanza. La quale tengo per fermo che voi stessi scuserete, quando averete saputo che due gravissimi accidenti, sopravenutimi già due anni sono, m'hanno impedito che prima non ho potuto satisfare al desiderio vostro: l'uno de' quali è stata la morte di messer Gio. Battista Ramusio, che morí in Padova il mese di luglio nel 1557, e l'altro l'incendio della mia stamperia, il quale quattro mesi dopo avenne, il 4° giorno di novembre nel medesimo anno. E se questo mi è stato acerbo, quella mi è stata amarissima, e quanto dispiacere e dolore ella mi abbia apportato, ciascuno a cui veramente sia noto il grande amore che tra noi due è stato continuamente per sí lungo spazio d'anni, potrà facilissimamente imaginarlo.
Egli fu quel singulare intelletto che, mosso dal desiderio solamente del giovare alla posterità col darle notizia di tanti e sí lontani paesi, e in gran parte non conosciuti mai dagli antichi, raccolse da diversi li due volumi con incredibile diligenza e giudicio: e sotto 'l suo indirizzo e governo furono da noi publicati con le nostre stampe. E ben poteva egli ciò fare molto compiutamente, essendo tanto, oltra le scienze e la cognizione che aveva della latina e della greca lingua, quanto fusse alcun altro, intendente anco della geografia, la cui notizia s'aveva esso acquistata parte dal continovo e diligente studio che poneva nel legger i buoni auttori che n'hanno trattato, e parte dall'aver nella sua giovenezza praticato molti anni in diversi paesi, mandatovi per onorati servizii da questa serenissima Republíca; dove gli avenne che fece medesimamente acquisto della lingua francese e della spagnuola, avendole sí ben famíliari come la sua propria natia, ed essene servito nel tradur molte relazioni stampate nel primo e nel terzo volume. Le qual sue fatiche giudiciose e onorevoli, se non usciron fuori illustrate col suo nome, avvenne per la sua singular modestia, che in ciascuna sua azione continuamente era solito d'usare, di modo che vivendo non comportò mai che vi fusse posto, come uomo ch'era lontano da ogni ambizione e aveva l'animo indirizzato solamente a giovare altrui.
Ma io, che mentre egli visse l'amai infinitamente sopra ciascun altro e morto l'amerò infin che durerà la vita mia, sí come ho desiderato, cosí anche son tenuto a far tutte quelle cose le quali io stimi che siano per acquistargli alcuna fama: non posso e non debbo in queste sue utili e onorate fatiche ormai tener piú celato il nome suo, del quale ora vedrete ornato questo secondo, che pur finalmente mandiamo in luce, facendovi certi che alla grave e molta perdita che nella stamperia abbiamo ricevuto dal fuoco è stato congiunto anche il danno degli studiosi della geografia, essendosi arsi alcuni esemplari che 'l Ramusio, pochi mesi avanti ch'egli passasse di questa vita, aveva apparecchiati e daticigli per istampare, insieme con alcune tavole dei disegni de' paesi de' quali nel libro vien fatto menzione. Ma con tutto ciò tenete per certo che questi che vi sono raccolti gli troverete ben compiuti e ben ordinati: e ho speranza che ne riporterete dilettevole utilità, per la notizia che vi daranno di cose varie e maravigliose. E non vi maravigliate se, riguardando gli altri due, non vedrete questo secondo volume sí pieno e copioso di scrittori, come il Ramusio già s'aveva proposto di fare, che la morte vi s'interpose. Cosí fusse egli sopravivuto, che, se ben si trovava occupatissimo negl'importanti negozii della Republica, nel suo secretariato del Consiglio eccellentissimo de' Signori Dieci, non averebbe mancato d'accrescerlo anche con maggior numero di scrittori, e quel che in questa parte ci ha tolto la fiamma del fuoco, l'abbondantissimo fiume del suo alto intelletto ci averebbe doppiamente restituito. Sí che, avendo indugiato a publicar questo secondo assai piú di quello che non era il nostro proponimento e la vostra aspettazione, non ho dubbio alcuno che voi, considerando li detti rispetti, averete me per iscusato, e renderete grazie alla felice memoria del Ramusio col dargli quella vera laude e onore che gli si deve, avendovi con tanto vostro piacere e sodisfazione dato col suo sapere e diligenza cosí grande e cosí chiaro lume nelle cose della geografia.

Di Venezia, a' 9 di marzo MDLIX

Di messer Giovambattista Ramusio prefazione sopra il principio del libro del magnifico messer Marco Polo.
All'eccellente messer Ieronimo Fracastoro.


In quanta stima fusse la geografia appresso gli antichi, eccellente messer Ieronimo, si può questo facilmente comprendere, che essendovi bisogno di gran dottrina e contemplazione per venir alla cognizione di quella, ne volsero scrivere alcuni di piú illustri scrittori, tra' quali il primo fu Omero, che non seppe con altra forma di parole esprimer un uomo perfetto e pieno di sapienzia che dicendo ch'egli era andato in diverse parti del mondo e aveva veduto molte città e costumi de' popoli: tanto la cognizione di questa scienzia gli pareva atta a far un uomo savio e prudente. Ne scrissero dopo lui molti altri auttori greci, e fra gli altri Aristotele ad Alessandro, e Polibio maestro di Scipione, e Strabone molto copiosamente, il libro del quale, e di Tolomeo alessandrino, son pervenuti alla età nostra; appresso de' Latini, Agrippa genero d'Augusto, Iuba re di Mauritania e molti altri, le fatiche de' quali sono smarrite col tempo, né si sa altro di loro se non quanto si legge nei libri di Plinio, che ancor egli copiosamente ne scrisse. Di tutti i sopranominati, Tolomeo, per esser posteriore, n'ebbe maggior cognizione, perciochè verso di tramontana trapassa il mar Caspio e sa che gli è come un lago serrato d'intorno: la qual cosa al tempo di Strabone e di Plinio, quando i Romani eran signori del mondo, non si sapeva. Pur ancora con questa cognizione, oltra il detto mare per gradi quindici di latitudine mette terra incognita, e il medesimo fa verso il polo antartico, oltra l'equinoziale. Delle qual parti, quella verso mezogiorno i capitani portoghesi a' tempi nostri prima di tutti hanno scoperta; quella verso tramontana e greco levante il magnifico messer Marco Polo, onorato gentiluomo veneziano, già quasi trecento anni, come piú copiosamente si leggerà nel suo libro.
E veramente è cosa maravigliosa a considerare la grandezza del viaggio che fecero prima il padre e zio d'esso messer Marco fino alla corte del gran Cane imperatore de' Tartari, di continuo camminando verso greco levante, e dapoi tutti tre nel ritorno, nei mari orientali e dell'Indie. E oltra di questo, come il predetto gentiluomo sapesse cosí ordinatamente descrivere ciò che vidde, essendo pochi uomini di quella sua età intelligenti di cotal dottrina, ed egli allevato tanto tempo appresso quella rozza nazione de' Tartari, senza alcuna accommodata maniera di scrivere. Il libro del quale, per causa de infinite scorrezioni ed errori, è stato molte decine d'anni riputato favola, e che i nomi delle città e provincie fussero tutte fizioni e imaginazioni senza fondamento alcuno, e per dir meglio sogni. Ma da cento anni in qua si è cominciato, da quelli che han praticato nella Persia, pur a riconoscere la provincia del Cataio; poi la navigazione de' Portoghesi, oltra l'Aurea Chersoneso, verso greco han discoperto prima molte città e provincie dell'India e molte isole, con i medesimi nomi che 'l detto autor gli chiama; poi, avendo passata la regione della China, sono venuti in cognizione (come narra il signor Giovan di Barros, gentiluomo portoghese, nella sua Geografia, avuta da' popoli della China) che la città di Cantone, una delle principali del regno della China, è in gradi trenta e due terzi di latitudine, e corre la costa greco garbino; oltra ciò, che passando 275 leghe la detta costa gira verso maestro, e che le provincie che sono appresso il mare sono tre, cioè Mangi, Zanton e Quinsai, qual è anche la principal città dove dimora il re, ed è in quarantasei gradi di latitudine; e passando ancor piú oltre, la costa corre fino a gradi cinquanta.
Or, veduto che tante particolarità al tempo nostro di quella parte del mondo si scuoprono della qual ha scritto il predetto messer Marco, cosa ragionevole ho giudicato di far venir in luce il suo libro, col mezo di diversi esemplari scritti già piú di dugento anni, a mio giudicio perfettamente corretto e di gran lunga molto piú fidele di quello che fin ora si è letto, acciò ch'il mondo non perdesse quel frutto che da tanta diligenzia e industria intorno cosí onorata scienzia si può raccogliere, per la cognizione che si piglia della parte verso greco levante, posta dagli antichi scrittori per terra incognita. E benchè in questo libro siano scritte molte cose che pareno fabulose e incredibili, non si deve però prestargli minor fede nell'altre ch'egli narra, che sono vere, né imputargli per cosí grande errore, perciochè riferisce quello che gli veniva detto. E chi leggerà Strabone, Plinio, Erodoto e altri simili scrittori antichi, vi troverà di molto piú maravigliose e fuor d'ogni credenza. Ma che diremo degli scrittori de' nostri tempi, che narrano dell'Indie occidentali, trovate per il signor don Cristoforo Colombo? non dipingono monti d'oro e d'argento incredibili? arbori, frutti e animali di forma maravigliosa? E pur dell'oro e argento non si ingannano, e l'età nostra l'ha con suo grave danno sentito, per le tante guerre state tra' principi cristiani. Degli animali, frutti e piante, ogni ora ne vengono copiosamente portate in Italia, e si conosce ch'hanno scritto la verità. E sopra l'altre, la grandezza della città di Quinsai, nella provincia di Mangi, non si vede esser simile alla gran città di Temistitan della Nuova Spagna, trovata per il signor Hernando Cortese, dove erano i palazzi e giardini del re Mutezuma, cosí grandi e famosi? E molte volte ho fra me stesso pensato, sopra il viaggio fatto per terra da questi nostri gentiluomini veneziani, e quello fatto per mare per il predetto signor don Cristoforo, qual di questi due sia piú maraviglioso: e se l'affezione della patria non m'inganna, mi pare che per ragion probabile si possa affermare che questo fatto per terra debba esser anteposto a quello di mare, dovendosi considerare una tanta grandezza di animo con la quale cosí difficile impresa fu operata e condotta a fine, per una cosí disperata lunghezza e asprezza di cammino, nel qual, per mancamento del vivere, non di giorni ma di mesi, era loro necessario di portar seco vettovaglia per loro e per gli animali che conducevano; là dove il Colombo, andando per mare, portava commodamente seco ciò che gli faceva bisogno molto abondantemente, e in trenta o quaranta giorni col vento pervenne là dove disegnava; e questi stettero un anno intero a passar tanti deserti e tanti fiumi. E che sia piú difficile l'andar al Cataio ch'al Mondo Nuovo, e piú pericoloso e lungo, si comprende per questo, ch'essendovi stati due volte questi gentiluomini, alcuni di questa nostra parte di Europa non ha dipoi avuto ardire di andarvi; dove che, l'anno sequente che si scopersero queste Indie occidentali, immediate vi ritornarono molte navi, e ogni giorno al presente ne vanno infinite ordinariamente; e sono fatte quelle parti cosí note, e con tanto commerzio, che maggior non è quello ch'è ora fra l'Italia, Spagna e Inghilterra.
Or, venendo alla prima parte del primo libro (che ivi dentro è chiamata da messer Marco il proemio del presente libro), confesso ingenuamente che mai non averei inteso quel viaggio primo, che fecero alla corte di quel signor de' Tartari occidentali messer Mafio e messer Nicolò, il padre di messer Marco, e poi a quella del gran Cane, se la bona fortuna non mi avesse li mesi passati fatto capitar alle mani una parte d'un libro arabo, ultimamente tradotta in latino per un uomo di questa età ben intendente di molte lingue, composto già dugento e piú anni d'un gran principe di Soria detto Abilfada Ismael, correndo gli anni de legira 715, ch'è il millesimo de' Turchi, qual ora, del 1553, corre 950: del quale non credo dover esser a noia a' lettori se alcune cose brevemente narrerò, le quali degne di notizia ho riputate.
Questo principe si trovò quasi d'intorno a' tempi medesimi de' prefati tre gentiluomini de Ca' Polo e, per quello che da' suoi scritti si può anco vedere, sapeva molto ben le cose di filosofia e d'astrologia, e volse ancora egli far, al modo delle tavole di Tolomeo, una particolar descrizione di tutte le parti del mondo che al suo tempo si conoscevano. E a questo effetto ridusse, come in un compendio, tutto quello che già aveano scritto molti auttori arabi de' gradi delle longitudini e latitudini di dette parti; nel qual compendio non seguita l'ordine di Tolomeo, ancor che lo citi, perchè l'avea tradotto in arabo, ma tiene un altro modo: conciosiacosachè, tirando alcune linee per lungo e per traverso, dividendole in parti eguali come areole, immediate ne fa appresentar agli occhi prima il nome della città, poi di ciascuno che scriva di quella, e appresso la varietà de' gradi, sí di longitudine come di latitudine, clima, provincia, e in ultimo una brevissima e molto succinta descrizione di quella. Ordine veramente bellissimo e risoluto, che è proprio e peculiare degli scrittori arabi, perchè il medesimo fece Avicenna nel secondo libro, dove tratta dell'erbe, che mette prima il nome di quelle, poi la descrizione e in ultimo le virtú e malattie alle quali sono appropriate.
Or questo libro di geografia non è tradotto tutto, ma vi manca la maggior parte delle commentazioni sopra ciascuna provincia: che se fosse tutto latino, averemmo una geografia particolar delle parti di Asia e Africa delle quali s'avea notizia a' suoi tempi, e saperemo i nomi delle provincie, città, monti, fiumi e mari, come al presente si chiamano, co' gradi delle longitudini e latitudini, secondo che vengono scritte da questi auttori arabi, cioè Attual, Canon, Bensidio, Resum, Cusiro, e poi Tolomeo; che, scontrandoli col detto, si averia piú certa cognizione di molti nomi antichi, citati nell'istorie d'Alessandro e Strabone, ch'ora si vanno conietturando, che sarebbe una delle belle e rare cose che si potessero veder a questi tempi. Qual auttore nelle longitudini non comincia dall'isole Fortunate, come fa Tolomeo, ma dalli primi liti delle marine d'Africa, e dice essere differente dieci gradi di quello che fa Tolomeo. E però sempre il lettor advertisca, nelle longitudini che qui a basso si cittaranno del detto, volendole confrontar con quelle di Tolomeo, di batterne giú dieci gradi. Ma a far questo cosí gran beneficio al mondo sarebbe necessaria la liberalità di qualche gran principe, che lo volesse far venir in luce fornito: che non gli apportaria forse minor gloria, e piú stabile e fissa negli animi degli uomini e di tutta la posterità, di quella che può nascere da' grandi imperii e trionfi acquistati coll'armi.
Ma, ritornando al principio del libro che da messer Marco è chiamato per proemio, dice messer Marco che, partiti suo zio e padre di Constantinopoli, navigarono per il mar Maggiore ad un porto detto Soldadia, e non vi mette il nome della provincia: e ancor che in alcuni libri sia scritto d'Armenia, in quelli nondimeno che mi sono capitati nelle mani, antichissimi e scritti già centocinquanta anni, non vi è altro che Soldadia. E di qui presero il cammino per terra alla corte d'un gran signor de' Tartari occidentali detto Barca. Or nel suo libro il sopradetto Ismael, descrivendo le provincie che circondano il mar Maggiore dalla parte di tramontana, e la Taurica Chersoneso, dov'è la città di Caffa, dice la provincia di Chirmia ha tre città, una detta Sogdat, l'altra Zodat, e Caffa, e che Sogdat corre maestro ponente rispetto a Caffa, ch'è posta verso levante; qual Sogdat è in gradi 56 di longitudine e 50 di latitudine. Seguita poi che Comager è una provincia nel dominio de' Tartari di Barca, fra la Porta di Ferro e la città d'Asach, cioè rispetto alla detta Porta è verso ponente, ma rispetto ad Asach è verso levante. Continua ancora dicendo che vi è un'altra provincia, detta Elochzi, fra li Tartari di Barca e li Tartari meridionali d'Alaú, dove è la città di Iachz, i popoli della quale passano per la Porta di Ferro. Parlando poi della palude Meotide, la qual si chiama mar el Azach, dice che dalla parte di levante è la città di Eltaman con la provincia, la qual è il fine del reame Barca. Da tutte queste cose scritte per questo sultan Ismael si vien in cognizione che sopra la Taurica Chersoneso, dov'è Gazaria e Caffa, vi è la città di Sogdat, la qual al presente col porto si chiama Soldadia. Appresso, che del regno di Barca era la provincia di Comager, ch'è la Cumania, provincia grandissima nella qual vi è la città di Azach, cioè Assara: il che conferma il libro di Ayton Armeno, che dietro messer Marco Polo si leggerà. Dipoi, che vi erano li Tartari di Barca occidentali e quelli di Alaú meridionali, che passavan per la Porta di Ferro, la qual è quella che al presente si chiama Derbent, che (come dicono) fu fabricata d'Alessandro Magno appresso il mar Ircano, tal che il fin del regno di Barca era verso la parte di levante che circonda la palude Meotide, cioè di Zabacche. Di sorte che 'l cammino di questi duoi gentiluomini è questo: che, partiti di Constantinopoli, navigano per il mar Maggiore alla Taurica Chersoneso, ch'è l'isola attaccata con la terra ferma, lunga 24 miglia e 15 larga, dov'è il porto di Soldadia, appresso Caffa; e dapoi per terra vanno a trovar quel signor de' Tartari detto Barca nella Cumania, dov'è la città d'Assara; e fatto il fatto d'arme fra detto Barca e Alaú, della qual sconfitta ne fa anco menzion il sopradetto Ayton Armeno, non possendo ritornar indietro per la detta causa, convengono andar per la Cumania tanto verso levante che circondassero il regno di Barca e venissero ad Ouchacha, ch'è città ne' confini della Cumania verso la Porta di Ferro, e ne fa menzion detto messer Marco in questo primo libro due volte: e questa via fanno i popoli cercassi volendo venir nella Persia. Passata questa Porta di Ferro, passano anco il fiume Tigris, che Aython Armeno chiama Phison, quando parla di Sodochi figliuol di Occotacan che conquistò la Persia minore, e che 'l suo successore si chiama Barach. Or questi duoi fratelli, passato il Tigris e un deserto, arrivano alla città di Bochara, della qual era signor il sopradetto Barach. Questa città di Bochara, secondo Ismael sultan, è in gradi 86 e mezo di longitudine e 39 e mezo di latitudine, ed è la patria dove nacque Avicenna, che fra gli medici, per la sua eccellente dottrina, vien chiamato il principe infino alli tempi nostri: e questo è quanto appartien alla intelligenzia della prima parte di questo proemio.
Da Bochara poi vengono condotti alla volta di greco e tramontana alla corte del gran Can, dal qual son poi mandati ambasciadori al papa; e ritornando in qua pervengono al porto della Ghiazza, nell'Armenia minore, che anticamente si chiamava Issicus Sinus, che risponde per mezo l'isola di Cipro. E indi per mar vennero nella città d'Acre, che si teneva allora per i cristiani, e latinamente è chiamata Acca e Ptolemais, dove si trovava legato della sede apostolica messer Tebaldo de' Visconti da Piacenza, qual (come narra il Platina nelle vite de' pontifici) in luogo di Clemente IIII fu fatto papa, e chiamossi Gregorio X, ove dice ch'al tempo di costui alcuni prencipi tartari, mossi da l'auttorità sua, si fecero cristiani. Questi due fratelli, come nel detto proemio si racconta, partiti d'Acre andarono a Venezia, dove tolto seco messer Marco, l'autor di questo libro, di nuovo ritornarono in Acre; e quivi presa la benedizione del papa nuovamente creato, qual era stato insino allora legato, e tolti in sua compagnia due frati predicatori per condurli al gran Cane, come furono in Armenia la trovarono perturbata per la guerra mossa da Benhocdare, soltan di Babilonia, del qual ne scrive anco l'auttor armeno.
Della navigazion poi che fecero nel suo ritorno verso l'India con la regina assegnata per moglie del re Argon, e da che porto della provincia del Cataio e di Mangi si partissero, non si può dire cosa alcuna, perchè non lo nominano. Ma ben al presente si sa che da' porti di dette provincie venendo verso levante, e poi voltando verso siroco e mezodí, si vien nell'India, come nelle tavole della Geografia dello illustre signor Giovan de Barros portughese si potrà copiosamente vedere. Quivi giunti, trovarono che 'l re Argon era morto, e che, per esser suo figliuolo Casan giovane, uno nominato Chiaccato governava il regno: Hayton Armeno il chiama Regaito. Par poi che andassero a trovar detto Casan nelle parti dell'Arbore Secco, ne' confini della Persia; il qual Casan, come si leggerà nel predetto Hayton Armeno, divenne grandissimo capitano di guerra. E l'Arbore Secco è nella provincia di Timochain, come nel vigesimo capitolo del primo libro da lui viene piú copiosamente descritto. Ritornati poi a Chiaccato per aver la sua espedizione, ebbero le quattro tavole d'oro, per virtú delle quali furono accompagnati sicuramente fino in Trabisonda: e questo perchè i Tartari dominavano e aveano tutt'i signori tributarii loro fino al mar Maggiore, ancor che fussero cristiani. Che volta veramente pigliassero partendosi dal Chiaccato a far il detto viaggio, non si può se non per conietture pensare che, partiti dal regno del detto re Argon, dove stava questo Chiaccato, che poteva esser uno di quelli regni che sono fra terra sopra il fiume Indo, se ne venissero per mare fino nel sino Persico all'isola di Ormus, e smontati sopra la provincia della Carmania, la quale nel libro si chiama Chermain, tenessero poi per quella banda il camino verso la Persia, conciosiacosachè si vede detto auttore far molto menzione dell'isola d'Ormus, delle città e terre di Chermain, fino nella Persia; la quale egli non poteva aver veduta nel viaggio che fece dal porto della Ghiazza alla corte del gran Cane, ma ben in questo suo ritorno. E della Persia vennero verso il mar Maggior a Trabesonda, e poi a Constantinopoli, Negroponte, e ultimamente a Venezia.
Dove giunti che furono, intravenne loro quel medesimo ch'avenne ad Ulisse che, dapoi venti anni tornato da Troia in Itaca sua patria, non fu riconosciuto da alcuno:cosí questi tre gentiluomini, dapoi tanti anni ch'eran stati lontani dalla patria, non furno riconosciuti da alcuno de' loro parenti, i quali fermamente riputavano che fussero già molti anni morti, perchè cosí anche la fama era venuta. Si trovavan questi gentiluomini, per la lunghezza e sconci del viaggio, e per le molte fatiche e travagli dell'animo, tutti tramutati nella effigie, che rappresentavano un non so che del tartaro nel volto e nel parlare, avendosi quasi dementicata la lingua veneziana. Li vestimenti loro erano tristi e fatti di panni grossi, al modo de' Tartari. Andarono alla casa loro, la qual era in questa città nella contrada di S. Giovan Crisostomo, come ancora oggidí si può vedere, ch'a quel tempo era un bellissimo e molto alto palaggio, e ora è detta la corte del Millioni, per la caggione che qui sotto si narrerà: e trovarono che in quella erano entrati alcuni suoi parenti, alli quali ebbero grandissima fatica di dar ad intendere che fussero quelli che erano, perchè, vedendoli cosí trasfigurati nella faccia e mal in ordine d'abiti, non poteano mai credere che fussero quei da Ca' Polo, ch'aveano tenuti tanti e tanti anni per morti.
Or questi tre gentiluomini (per quello ch'io essendo giovanetto n'ho udito molte fiate dire dal clarissimo messer Gasparo Malipiero, gentiluomo molto vecchio e senatore di singular bontà e integrità ch'avea la sua casa nel canale di S. Marina, e sul cantone ch'è alla bocca del rio di San Giovan Crisostomo, per mezo a punto della ditta corte del Millioni, che riferiva d'averlo inteso ancor lui da suo padre e avo, e d'alcuni altri vecchi uomini suoi vicini) s'imaginarono di far un tratto col qual, in un istesso tempo, ricuperassero e la conoscenza de' suoi e l'onor di tutta la città, che fu in questo modo: che, invitati molti suoi parenti ad un convito, il qual volsero che fosse preparato onoratissimo e con molta magnificenza nella detta sua casa, e venuto l'ora del sedere a tavola, uscirono fuori di camera tutti tre vestiti di raso cremosino, in veste lunghe fino in terra, come solevano standosi in casa usare in que' tempi; e data l'acqua alle mani, e fatti seder gli altri, spogliatesi le dette vesti se ne misero altre di damasco cremosino, e le prime di suo ordine furono tagliate in pezzi e divise fra li servitori. Dapoi, mangiate alcune vivande, tornarono di nuovo a vestirsi di velluto cremosino e, posti di nuovo a tavola, le vesti seconde furono divise fra li servitori; e in fine del convito il simil fecero di quelle di velluto, avendosi poi rivestiti nell'abito de' panni consueti che usavano tutti gli altri. Questa cosa fece maravigliare, anzi restar come attoniti, tutti gli invitati; ma, tolti via li mantili e fatti andar fuori della sala tutt'i servitori, messer Marco, come il piú giovane, levato dalla tavola andò in una delle camere, e portò fuori le tre veste di panno grosso consumate con le quali erano venuti a casa; e quivi con alcuni coltelli taglienti cominciarono a discucir alcuni orli e cuciture doppie, e cavar fuori gioie preciosissime in gran quantità, cioè rubini, safiri, carboni, diamanti e smeraldi, che in cadauna di dette vesti erano stati cuciti con molto artificio, e in maniera ch'alcuno non si averia potuto imaginare che ivi fussero state: perchè, al partir dal gran Cane, tutte le ricchezze ch'egli aveva loro donate cambiarono in tanti rubini, smeraldi e altre gioie, sapendo certo che, s'altrimente avessero fatto, per sí lungo, difficile ed estremo cammino non saria mai stato possibile che seco avessero potuto portare tanto oro. Or questa dimostrazione di cosí grande e infinito tesoro di gioie e pietre preciose, che furono poste sopra la tavola, riempié di nuovo gli astanti di cosí fatta maraviglia che restarono come stupidi e fuori di se stessi, e conobbero veramente ch'erano quegli onorati e valorosi gentiluomini da Ca' Polo, di che prima dubitavano, e fecero loro grandissimo onore e riverenzia.
Divulgata che fu questa cosa per Venezia, subito tutta la città, sí de' nobili come de' populari, corse a casa loro ad abbracciargli e fare tutte quelle maggiori carezze e dimostrazioni d'amorevolezza e riverenzia che si potessero imaginare: e messer Maffio, ch'era il piú vecchio, onorarono d'un magistrato che nella città in que' tempi era di molta auttorità. E tutta la gioventú ogni giorno andava continuamente a visitare e trattenere messer Marco, ch'era umanissimo e graziosissimo, e gli dimandavano delle cose del Cataio e del Cane; il quale rispondeva con tanta benignità e cortesia che tutti gli restavano in uno certo modo obligati. E perchè nel continuo raccontare ch'egli faceva piú e piú volte della grandezza del gran Cane, dicendo l'entrate di quello esser da 10 in 15 millioni d'oro, e cosí di molt'altre ricchezze di quelli paesi, riferiva tutte a millioni, lo cognominarono messer Marco Millioni, che cosí ancora ne' libri publici di questa Republica, dove si fa menzion di lui, ho veduto notato; e la corte della sua casa a S. Giovan Crisostomo, da quel tempo in qua, è ancora volgarmente chiamata del Millioni.
Non molti mesi dapoi che furono giunti a Venezia, sendo venuta nuova come Lampa Doria, capitano dell'armata de' Genovesi, era venuto con settanta galee fino all'isola di Curzola, e d'ordine del principe dell'illustrissima Signoria fatte che furono armate 90 galee con ogni prestezza nella città, fu fatto per il suo valore governatore d'una messer Marco Polo; il quale insieme con l'altre, essendo capitan generale il clarissimo messer Andrea Dandolo procuratore di S. Marco, cognominato il Calvo, molto forte e valoroso gentiluomo, andò a trovar l'armata genovese; con la qual combattendo il giorno di nostra Donna di settembre, ed essendo rotta (come è commune la sorte del combattere) la nostra armata, fu preso, perciò che, avendosi voluto mettere avanti con la sua galea nella prima banda ad investir l'armata nimica, e valorosamente e con grande animo combattendo per la patria e per la salute de' suoi, non seguitato dagli altri, rimase ferito e prigione col Dandolo. E incontinente posto in ferri, fu mandato a Genova, dove, inteso delle sue rare qualità e del maraviglioso viaggio ch'egli avea fatto, concorse tutta la città per vederlo e per parlargli, non avendolo in luogo di prigione, ma come carissimo amico e molto onorato gentiluomo. E gli facevano tanto onore e carezze, che non era mai ora del giorno che dai piú nobili gentiluomini di quella città non fusse visitato, e presentato d'ogni cosa nel vivere necessaria.
Or trovandosi in questo stato messer Marco, e vedendo il gran desiderio ch'ognun avea d'intendere le cose del paese del Cataio e del gran Cane, essendo astretto ogni giorno di tornar a riferire con molta fatica, fu consigliato che le dovesse mettere in scrittura: per il qual effetto, tenuto modo che fusse scritto qui a Venezia a suo padre, che dovesse mandargli le sue scritture e memoriali che avea portati seco, e quelli avuti, col mezzo d'un gentiluomo genovese molto suo amico, che si dilettava grandemente di saper le cose del mondo e ogni giorno andava a star seco in prigione per molte ore, scrisse per gratificarlo il presente libro in lingua latina, sí come accostumano li Genovesi in maggior parte fino oggi di scrivere le loro facende, non possendo con la penna esprimere la loro pronuncia naturale. Quindi avenne che 'l detto libro fu dato fuori la prima volta da messer Marco in latino, del quale fatte che furono poi molte copie, e tradotto nella lingua nostra volgare, tutta Italia in pochi mesi ne fu ripiena, tanto desiderata e aspettata da tutti era questa istoria.
La prigionia di messer Marco perturbò grandemente gli animi di messer Maffio e messer Nicolò suo padre, perciò che, avendo eglino fin nel tempo del lor viaggio deliberato di maritarlo tantosto che fussero giunti in Venezia, vedendosi ora in questo infelice stato, con tanto tesoro e senza eredi alcuni, e dubitando che la prigionia del predetto dovesse durar molti anni e, quello che poteva avvenir peggio ancora, che non vi lasciasse la vita (perchè da molti era loro affermato che gran numero de prigioni veneziani erano stati in Genova le decine d'anni avanti che avessero potuto uscire), e vedendo di non poterlo ricuperar di prigione con alcuna condizione di denari, come piú volte avevano per molte vie tentato, consigliatisi insieme, deliberarono che messer Nicolò, ancor che fusse molto vecchio, ma però di complessione gagliarda, di novo dovesse pigliar moglie: e cosí, maritatosi, in termine d'anni quattro ebbe tre figliuoli, nominati l'un Stefano, l'altro Maffio e l'altro Giovanni. Non passarono molti anni dapoi che 'l detto messer Marco, per mezzo della molta grazia che egli aveva acquistata appresso i primi gentiluomini e tutta la città di Genova, fu liberato e tratto di prigione; di dove ritornato a casa, ritrovò che suo padre aveva in quel spazio di tempo avuto tre figliuoli: né per questo si perturbò punto, anzi, come savio e prudente, consentí ancor egli di pigliar moglie, il che fatto, non ebbe alcun figliuolo maschio, ma due femine, una chiamata Moretta e l'altra Fantina. Essendo poi morto suo padre, come a buono e pietoso figliuolo convenia, fece fargli una molto onorata sepoltura per la condizione di quei tempi, che fu un cassone grande di pietra viva, qual fino al giorno presente si vede sotto il portico ch'è avanti la chiesa di S. Lorenzo di questa città, nell'entrare da parte destra, con una inscrizione tale che denota quella esser la sepoltura di messer Nicolò Polo, della contrata di S. Giovan Crisostomo. L'arma della sua famiglia è una sbarra in pendente con tre uccelli dentro, li colori della quale, per alcuni libri d'istorie antiche, dove si vedono colorite tutte l'armi de' gentiluomini di questa nobil città, sono il campo azurro, la sbarra d'argento e li tre uccelli negri, che sono quella sorte d'uccelli che qui volgarmente si chiamano pole, dette da' Latini "gracculi".
Quanto tempo veramente durasse la descendenzia di questa nobile e valorosa famiglia, ritrovo che messer Andrea Polo da S. Felice ebbe tre figliuoli, il primo de' quali fu messer Marco, il secondo Maffio, il terzo Nicolò: questi due ultimi furono quelli che andarono a Constantinopoli prima, e poi al Cataio, come s'è veduto. Ed essendo venuto a morte messer Marco il primo, la moglie di messer Nicolò, ch'era rimasa gravida a casa, come ella partorí, per rinovar la memoria del morto pose nome Marco al figliuolo che nacque, ch'è l'autore di questo libro. De' fratelli del quale, che nacquero dapoi il secondo matrimonio di suo padre, cioè Stefano, Giovanni e Maffio, non trovo che altri avessero figliuoli se non Maffio, ch'ebbe cinque figliuoli maschi e una femina, nominata Maria, la qual, mancati che furono gli fratelli senza figliuoli, ereditò del 1417 tutta la facoltà di suo padre e fratelli, essendo onoratamente maritata in messer Azzo Trivisano, della contrata di S. Stai di questa città; onde poi venne descendendo la felice e onorata stirpe del clarissimo messer Domenico Trivisano, procurator di S. Marco e valoroso capitano generale di mare di questa Republica, la cui virtú e singolar bontà è rappresentata e accresciuta nella persona del serenissimo principe il signor Marcantonio Trivisano suo figliuolo. Questo è il corso di questa nobile famiglia da Ca' Polo, qual durò infino all'anno di nostra salute 1417; nel qual tempo, morto Marco Polo, ultimo delli cinque figliuoli di Maffio che abbiamo detto di sopra, senza alcun figliuolo, come porta la condizione e rivolgimento delle cose umane, in tutto mancò.
E avendo trovato due proemii avanti questo libro, che furono già composti in lingua latina, l'uno per quel gentiluomo di Genova molto amico del predetto messer Marco, e che l'aiutò a scrivere e comporre latinamente il viaggio mentre era in prigione, e l'altro per un frate Francesco Pipino bolognese, dell'ordine de' predicatori, che, non essendoli pervenuto alle mani alcuna copia dell'esemplar latino, né leggendosi allora questo viaggio altro che tradotto in volgare, lo ritornò di volgare in latino del 1320, non ho voluto lasciare di non rimettergli tutti due, per maggior satisfazione e contentezza de' lettori, acciò che uniti servino piú abbondantemente in vece di prefazione del detto libro. Il quale, insieme con questi altri eccellenti scrittori della parte verso levante e greco tramontana fino sotto il nostro polo, che abbiamo con non poca fatica cosí interi e fedeli in questo secondo volume fin ora raccolti, anderà sotto l'onorato nome di Vostra Eccellenza, in quella maniera che già gli abbiamo dedicato il primo delle cose dell'Africa e del paese del Prete Ianni, con li molti viaggi dalla città di Lisbona e dal mar Rosso a Calicut e insino alle Molucche, dove nascono le specierie; e come poi le sarà parimente dedicato anco il terzo, dove si conterano le navigazioni al Mondo Nuovo agli antichi incognito, fatte dal Colombo con molti acquisti, accresciuti poi dal Cortese, dal Pizzarro e da altri capitani, e della cognizione della Nuova Francia, nelle dette Indie posta dalla parte di verso maestro tramontana. Il che ho determinato di fare acciò che dalla grandezza e splendore del nome suo glorioso riceva questo volume, insieme con gli altri due, quella autorità e riputazione che non gli può dare la bassezza del mio debol ingegno. Vostra Eccellenza adunque lo riceverà con quella sincerità ch'io anche gliel'offero, e difendendolo quanto sarà in lei, insieme con l'altro fin ora dato in luce, dalle calunnie de' maldicenti, farà che, sí come io con molta fiducia e sicurtà l'ho dato in protezione al nome suo onorato, cosí anche egli sia già fatto sicuro col favor di Vostra Eccellenza, senza sospetto alcuno insieme col primo liberamente alle mani degli uomini pervenga. Di Venezia, a' sette di luglio MDLIII.


Esposizione di messer Gio. Battista Ramusio sopra queste parole di messer Marco Polo: "Nel tempo di Balduino, imperatore di Constantinopoli,
dove allora soleva stare un podestà di Venezia per nome di messer lo dose, correndo gli anni del nostro signore 1250".


Cominciando messer Marco Polo il suo viaggio dalle sopra dette parole, m'è sparso nel principio di questo libro cosa sommamente necessaria e da non essere in modo alcuno pretermessa, ancor che molti istorici n'abbino fatto diversamente menzione, l'esporre quanto piú brevemente si potrà, a piú compiuta satisfazione de' lettori, la cagione perchè in Constantinopoli in que' tempi stesse un podestà per nome del doge di Venezia, massimamente che appartiene la cognizione di cosí illustre e gloriosa memoria alla grandezza ed eccellenzia di questa veramente divina Republica, dalle cui antiche scritture e memorie, in antichissimi libri e a que' tempi notate, di questa impresa di Constantinopoli, n'ho io sommariamente tratte quelle particolar cose che qui sotto, sí come io stimo, con molto contento de' benigni lettori saranno descritte.
È adunque da sapere che l'anno di nostra salute 1202 vennero in questa città di Venezia que' gran principi francesi e fiamenghi, veramente cristianissimi, Baldovino conte di Fiandra e di Henaut, Enrico suo fratello, Luigi conte di Bles e di Chartres, e il conte Ugo di San Polo, con gran numero di baroni e signori e vescovi e abbati, che aveano gli anni avanti preso il segno della croce. E condussero seco numeroso esercito, il quale fu ordinato, per non dare incommodo alla città, che pigliasse gli alloggiamenti a San Nicolò sopra il lito del mare, ove erano mandate dalla città le vettovaglie di giorno in giorno per il lor bisogno (ed erane lor capitano generale il marchese Bonifacio di Monferrato terzo di questo nome), con proponimento d'andare a soccorrere ai cristiani nella Terra Santa; ove poco avanti per il Saladino soldano di Egitto era stato tolto a Guidone di Lusignano il regno di Ierusalem e di tutta la Soria, il quale essi, dopo quella famosa recuperazione di Gottofreddo Boglione e di tanti baroni, che fu d'intorno l'anno di nostra salute 1099, aveano posseduto ottantaotto anni continui. E montarono l'ottavo giorno d'ottobre, l'istesso anno 1202, al porto di San Nicolò de Lio sull'armata, la quale l'anno avanti, secondo l'ordine e convenzioni fatte con gli ambasciatori che essi avevano mandati a Venezia, era loro stata apparecchiata da messer Rigo Dandolo, allora serenissimo principe di questa Republica; il quale a cosí santa e cristiana impresa com'era quella della ricuperazione di Terra Santa volse andare in persona, come a buon e religioso principe conveniva, ancor che fosse molto vecchio e cieco; ma prima, con tutto il popolo che in quella impresa l'avea da seguitare, tolse l'insegna della croce nella chiesa di San Marco, avanti l'altare grande, con gran solennità e con bellissime ceremonie, lasciando d'ordine della Republica Reniero suo figliuolo al governo della città. Avendo la Republica in quel tempo perduta la città di Zara in Schiavonia, fu fatta convenzione con li baroni che s'andasse prima a ricuperarla; la quale, dopo lungo assedio dell'esercito e dell'armata, fu presa il mese di novembre e tolta dalle mani di Bela, re d'Ungheria, il quale se n'era per avanti impatronito. Sopragiunse poi il verno con gran freddo, che non li lasciò partire per andare al destinato viaggio di Soria e allo acquisto di Ierusalemme.
E in questo mezo vennero a Zara ambasciadori mandati da Filippo svevo, re della Magna, a' baroni, dicendo che, se volevano aver pietà d'Alessio, suo cognato e figliuolo d'Isaac Angelo imperatore di Constantinopoli, che s'era poco innanzi fuggito a lui dalle crudelissime mani di suo zio Alessio il tiranno (il quale, avendo cavati gli occhi ad Isaac suo fratello e padre di costui, s'era fatto signore e s'avea con gran tradimento usurpato quello imperio di Constantinopoli), fariano loro gran partiti, sí come aveano ampia facultà dal loro signore e da lui. Ottennero finalmente gli ambasciadori, per i molti preghi fatti a' baroni e al doge e per la pietà ch'ebbero del giovane, che, tantosto che si potesse navigare, sarebbe per loro rimesso il giovanetto in stato con suo padre: e fu allora molto solennemente promesso per gli ambasciadori e giurato che, se col padre lo rimettevano nell'imperio, egli, oltra che di subito rimetterebbe tutto 'l stato alla obedienzia della Chiesa romana, dalla quale era partito già molto tempo, darebbe ancora dugentomila marche d'argento alli baroni, con vettovaglia per tutto l'esercito, e diecimila fanti a sue spese per questo santo servigio per uno anno continuo; e di piú s'obligava a tener tutto il tempo della vita sua cinquecento cavallieri nella Terra Santa a sue spese.
Conchiuso questo partito, e solennemente dall'una e l'altra parte giurato, gli ambasciadori si partirono, ritornando a Filippo nella Magna, e facendo sapere il tempo al quale era stato a punto determinato dalli baroni e dal doge che 'l giovanetto dovesse venir a ritrovarli a Zara per partirsi, che fu alquanti giorni dopo Pasqua. Il quale giunto che fu, montati sull'armata e imbarcate le genti, andarono al diritto verso Constantinopoli, dove in pochi giorni giunti, e smontati alla riva di Calcedonia, che è dall'altra parte del stretto all'incontro di Constantinopoli, ov'era allora un bellissimo palazzo dell'imperatore greco, e tratti e' cavalli fuori degli uscieri (che ora si chiamano palanderie), ordinarono i baroni le lor battaglie in quel modo e forma a punto come doveano dipoi andare all'assalto della città. E fatta sopra il lito una picciola scaramuccia col megaduca del tiranno Alessio, e quello rotto e sconfitto, avendo anco mostrato dalla prora della galea del doge Dandolo il giovanetto Alessio alli Greci della città, che in gran numero erano adunati sopra le mura e sopra tutte le torri di Constantinopoli, per vedere se a lui s'avessero voluto arrendere, si rimbarcorono: e, passato lo stretto, smontarono nella terra di Constantinopoli, ove Alessio il tiranno era venuto sopra la riva, con gran numero di Greci a piedi e a cavallo, per vietarli il smontare. Spaventatosi l'imperatore da cosí grande ardire di nemici e avilitosi, subito si ritirò, e fu presa da' Francesi la torre di Pera, nella quale era tirata da Constantinopoli una molto forte catena che chiudeva il porto.
Posto l'assedio per loro dalla parte di terra, e per Veneziani dalla parte di mare con le loro navi e galee, ordinato l'assalto, incominciarono quelli del doge, poste in ordinanza le galee nel golfo di Pera, a drizzare nell'armata mangani e periere e dare la battaglia (perchè non era ancor trovata la maravigliosa machina dell'artegliaria, ch'oggidí si costuma nelle guerre): e batterono le mura della città molto gagliardamente, le quali, dopo non lungo combattere e di non molti giorni, furono prese quasi per beneficio divino, per ciò che, essendo stata veduta da' Greci la bandiera di San Marco sopra una delle torri della città, che da niun mai si seppe come vi fusse stata posta, in tal maniera si smarrirono che incontanente abbandonarono piú di vinticinque torri da quella parte e si fuggirono. Le quali subito prese dal doge, e postoli dentro la guardia de' Veneziani, fu mandata senza indugio la novella alli baroni ch'erano nella parte di terra; i quali, inteso questo, raddopiarono l'assalto, e in molte parti assalirono le mura con le scale: e cosí in breve spazio di tempo fu presa una parte della città, e messo il fuoco in molte case de' nemici. Allora Alessio il tiranno, visto non potere resistere alle forze de' nemici, con nuovo consiglio uscí fuori della città per tre porte, con tutto il suo sforzo, per assaltarli alla campagna. I baroni, vista sí gran moltitudine venirli incontro, avendo raccolto e ordinato il loro esercito, talmente che non potevano esser offesi se non davanti, si messeno in battaglia per aspettare l'affronto animosamente. Pareva che veramente tutta la campagna fusse coperta di battaglie de' nemici, le quali in ordinanza con saldo passo andavano alla volta de' baroni: ed era cosa maravigliosa a vedere che li baroni, che non avevono piú che sei battaglie, aspettassino l'assalto di cosí grande esercito; e già tanto s'era fatto innanzi il tiranno con le sue genti, che facilmente da lontano si potevano ferire.
Quando questo udí il doge di Venezia, fece incontinente imbarcare le sue genti e abbandonare quelle torri che egli aveva di già acquistate, dicendo che voleva andare a vivere e morire co' pellegrini: e cosí, dismontato in terra con tutte le sue genti, si uní con l'esercito. Stettero continuamente le battaglie de' pellegrini con tanto ordine e ardire a fronte de' nemici, che i Greci mai non ebbono animo d'assaltargli. Quando il tiranno vidde questo, perduto d'animo, incominciò incontinente a far ritirare le sue genti e ritornò nella città, ove tolta quella parte di gioie e di tesoro che seco poté portare, abbandonata la moglie e gli amici e di tutti scordatosi, solamente alla propria salute intento, la notte seguente fuggí e lasciò miserabilmente la città e l'imperio, avendo otto anni, tre mesi e dieci dí (come vogliono alcuni) tiranneggiato. E in quella ora a punto della fuga del tiranno, fu tratto di prigione l'imperatore cieco Isaac, e rimesso dal popolo nell'imperio, regalmente vestito, e portato da' suoi con molto onore e magnificenza nel palazzo di Blacherna. E benchè allora l'oscurità della notte a cosí gran facende apportasse grande impedimento, fu nondimeno, per il desiderio grande ch'egli avea d'abbracciare il figliuolo Alessio, mandatolo a chiamare nell'esercito, ordinando che fusse con gli altri baroni condotto con molto onore nella città. I quali, non consentendo a ciò se prima da esso imperatore Isaac il giorno seguente non fusse con solennità confermato quanto a Zara, per il figliuolo e per gli ambasciatori di Filippo suo genero, a suo nome era stato promesso, mandarono, fatto che fu il giorno chiaro, due Veneziani e due Francesi per nome del doge e delli baroni all'imperator, a farsi confermare le convenzioni fatte col figliuolo: le quali confermate che furono da lui con giuramento e con lettere imperiali, e suggellate con bolla d'oro, sí come egli usava, montarono a cavallo i baroni e accompagnarono il giovanetto nella città davanti il padre, dal quale fu ricevuto con grandissima allegrezza. E alquanti mesi dapoi fu ancora, con molta festa e grande onore, secondo il costume loro, nel primo giorno d'agosto coronato imperatore dal patriarca nella chiesa di Santa Sofia.
Fatta che fu questa bella e pietosa operazione per li baroni e il doge, e rimesso il padre col figliuolo in stato, volendo eglino ormai partirsi per andare a loro destinato viaggio di Soria, perciochè la lega loro fatta in Zara non durava se non sino a san Michele del mese di settembre, fecero dire ad Isaac il vecchio e Alessio il giovanetto imperatore che, approssimandosi il tempo della lor partita, volessero pagar loro le convenzioni e quanto erano rimasi d'accordo a Zara, acciochè passando il tempo non perdessero cosí bella occasione di fare la disegnata impresa. Alessio, con molte benigne parole e prieghi usati per coprire le sue astuzie e inganni, tanto seppe fare che, prolungata la lor partita da san Michele infino al mese di marzo, e giurata di nuovo la lega infino a san Michele de l'anno seguente, promesse di pagare fra quel termine interamente tutto quel debito ch'egli avea contratto con loro. Restarono per preghi d'Alessio li baroni, accettando la scusa con ferma speranza che, sí come l'avevano essi benissimo servito nel rimetterlo col padre in stato, egli parimente osservasse loro la fede promessa.
Non passò molto tempo che Alessio, o fusse per il mal consiglio de' suoi o per altra cagione, si mostrò apertamente molto perfido e disleale al doge e alli baroni, che gli erano stati tanto amorevoli e cortesi dell'aiuto loro, e avevangli fatto cosí grande e relevato beneficio; e venne a tale che un giorno ardí ancora negare quanto prima avea loro promesso, ben che di ciò chiara fede apparisse per lettere imperiali di suo padre, sugellate con la bolla d'oro, ch'erano appresso al doge di Venezia. Di modo che, dopo l'averlo fatto piú e piú volte dimandare che le convenzioni fussero loro osservate, li baroni furono astretti per onor loro finalmente, vedendosi in tal maniera beffati, a sfidarlo, con molta vergogna di lui e disonore dell'imperio, e stringerlo al pagamento con molte minaccie, rompendogli guerra: la qual si cominciò di nuovo molto forte e gagliarda, per la poca fede del giovanetto imperatore.
E mentre che Constantinopoli un'altra volta era da Francesi e da Veneziani assediato e dalla parte di terra e dalla parte di mare, Alessio fu tradito da un altro chiamato Alessio il Duca, molto suo familiare e benemerito, che, per aver congiunte le ciglia, volgarmente era in un certo modo e quasi per ischerno chiamato Marculfo: e una notte, su la piú bell'ora del dormire, fu posto in una oscura prigione, e pochi giorni dipoi, il sesto mese del suo imperio, occultamente strangolato, non avendo in lui operato il tossico che prima gli avea tre volte fatto dar a bere nella prigione. Morto Alessio, e fattolo imperialmente sepelire come s'egli fusse naturalmente morto, prese Marculfo con l'aiuto de' suoi seguaci l'imperio e la signoria della città, facendosi tiranno, con molto dolore de' Greci e passione del vecchio Isaac, il quale, udito il miserabil caso del figliolo, morí incontinente di cordoglio. I baroni e il doge, inteso il grande tradimento e continuando gli assalti, batteano con diverse machine le mura e le torri senza fine, giorno e notte; e radoppiata la guerra, facendosi fra l'una e l'altra parte molto grosse scaramuccie, fu in una di quelle valorosamente acquistato da' baroni e da' Veneziani lo stendardo imperiale del tiranno, ma con molto maggior allegrezza un quadro ov'era dipinta l'imagine della nostra Donna, il quale usavano continuamente gl'imperatori greci portare seco nelle loro imprese, avendo in quello riposta ogni lor speranza della salute e conservazione dell'imperio. Questa imagine pervenne nei Veneziani, e sopra tutte l'altre gran ricchezze e gioie che gli toccarono fu tenuta carissima, e oggidí è con grande riverenzia e devozione servata qui nella chiesa di San Marco, ed è quella la quale si porta a processione al tempo della guerra e della peste, e per impetrare la pioggia e il sereno.
Finalmente due galee de' Veneziani portate dal vento sotto le mura, e posta una scala dalla gabbia de' loro arbori, un Veneziano e un Francese entrarono ad una torre, e valorosamente posta la bandiera di San Marco, levato il grido nell'armata, e in quell'istesso tempo per Francesi dalla parte di terra con molta forza rotta e presa una porta della città, fu preso Constantinopoli la seconda volta e sconfitto il tiranno Marculfo: il quale incontinente, fuggendo per la porta Oria dalla parte di ponente, abbandonò la città, essendo stato nella sedia imperiale non piú che due mesi e giorni. Entrati li baroni e alloggiati nella città, dopo il sacco che fu molto grande e ricco, il quale, in esecuzioni dei patti conchiusi d'accordo ne' padiglioni avanti il dare l'assalto alla città, fu portato in tre gran chiese e quivi diviso fra li baroni e Veneziani egualmente, furno eletti dodici uomini che dovessero creare l'imperatore, sei veneziani dalla parte del doge e sei dalla parte de' baroni, che furono quattro vescovi francesi e due baroni lombardi. I quali, ridotti a far questa elezione in una ricca capella, che era nel palazzo ove alloggiava il doge di Venezia, crearono imperatore dopo lungo contrasto di molte ore Baldovino, il conte di Fiandra e di Hennault, nella maniera che s'erano, per l'instrumento fatto avanti il dare l'assalto alla città, convenuti: che fu tale, che colui il quale avesse piú voti nelli dodici s'intendesse essere imperatore, e caso che duoi avessero tanto e tanti per ciascuno, si dovesse allora trare la sorte, e a chi ella toccasse fusse imperatore; il quale dovesse signoreggiare una delle quattro parti del predetto imperio di Constantinopoli, e avere per l'abitazione sua i palazzi di Boccalione e di Blacherna nella città, ch'erano anticamente stata abitazione degl'imperatori greci; l'altre tre parti dell'imperio fussero per uguale porzione divise fra i Veniziani e li baroni francesi, ch'altramente si faceano chiamare pellegrini; con patto espresso che, dalla parte di coloro onde non fusse stato creato l'imperatore, li chierici avessero libertà di eleggere il patriarca e ordinare la chiesa di S. Sofia e instituire li canonici, con reggere tutto 'l stato ecclesiastico: il quale patriarca di Constantinopoli, e di riverenzia e di ricchezza, non era allora tra' Greci punto inferiore al nostro papa di Roma.
I Veneziani, creato ch'ebbero Baldovino imperatore, ch'era della parte francese, e dato che fo titolo al doge di Venezia di despote (titolo allora di grand'onore), elessero Tommaso Moresini per patriarca di Constantinopoli, e fu diviso incontinente l'imperio in quattro parti, cosí come prima s'erano convenuti: delle quali avuta che n'ebbe una l'imperatore Baldovino, l'altre tre furono divise fra gli altri baroni e il doge di Venezia per uguale porzione; onde poi il doge di Venezia e suoi successori per molti anni continoi ebbero il titolo di dominatori della quarta e meza parte di tutto l'imperio della Romania. Bonifacio il marchese di Monferrato, che non avea potuto conseguire l'imperio, benchè con ogni studio vi avesse atteso, e fatto gran fortuna a Baldovino, si fece suo uomo ligio, e da lui in contracambio e per segno d'amore fu creato re di Salonichi: e fra il tempo della incoronazione dell'imperatore (che fu l'anno 1204, il mese di maggio) sposò l'imperatrice Maria, sorella di Bela re d'Ungaria, che per avanti era stata moglie del morto imperator Isaac vecchio, e andò con le sue genti verso il regno di Salonichi. I Veneziani andarono al possesso e acquisto del loro imperio, che fu molte città della Tracia e molte isole dell'Arcipelago, con buona parte della Morea, facendo un editto, che cadauno Veneziano che armasse navilii a sue spese potesse andare a recuperare, delle dette isole, quelle che volesse, eccetto Candia e Corfú; dove che Rabano dalle Carcere veronese, uomo letterato in que' tempi, che era venuto per consigliero del principe Dandolo, andò con licenzia del doge a pigliar l'isola di Negroponte, la qual alquanti anni dapoi, conoscendosi non avere forze bastanti a mantenerla, volontariamente cesse al doge di Venezia: dove fu poi mandato continuamente per governo dell'isola un gentiluomo di Venezia per bailo, fino che ella fu sotto l'imperio di questi signori.
Morto il principe Dandolo nell'assedio della città d'Andrinopoli, ch'era delle toccate in sorte nella divisione dell'imperio, ma da' Greci che vi erano fuggiti e quivi raccolti dopo le lor miserie tenuta per nome di Ioanniza, re di Valachia e Bulgaria, e portato che fu a sepelire con onorate esequie in Constantinopoli nella chiesa di Santa Sofia, i Veneziani che si trovavano in Constantinopoli, avendo veduto, avanti la morte del doge, il grave caso della presa dell'imperatore Baldovino, che occorse come piú a basso si leggerà, e vedendosi privi e dell'imperatore e del doge, né avendo allora in Constantinopoli alcuno de' suoi che fusse loro capo e governo in cosí aspra e difficil impresa, essendosi tutti insieme ridotti un giorno, solennemente crearono, l'anno che allora correva 1205, loro podestà messer Marin Zeno (il qual si ritrovava in Constantinopoli), con ordine e deliberazione tale, che nell'avenire qualunche podestà o rettore che 'l doge di Venezia di tempo in tempo mandasse col suo consiglio, over ordinasse podestà in Constantinopoli, si dovesse accettare per podestà e vero rettore e amministratore di quella parte della città e dell'imperio ch'era nella divisione toccata in sorte a' Veneziani; il qual podestà s'intendesse aver anco il titolo di dominatore della quarta e meza parte dell'imperio di Romania, e portasse la calza di seta cremisina (insegna imperiale), come parimente portava l'imperator francese, e avea fin allora portata il Dandolo. Questo, con li suoi giudici, consiglieri e camarlenghi, e altri infiniti officiali e magistrati ch'appresso di lui onoratissimamente stavano, nel principio del suo reggimento confermò li feudi dell'imperio a quelli che dal doge Dandolo n'erano stati investiti, con ordine che non potessero da loro essere alienati in altri ch'in Veneziani, e fece molt'altre provisioni a publico beneficio della nazione e del stato. E dopo lui, mentre durarono gl'imperatori francesi in Constantinopoli, successero continuamente per diritto ordine altri podestà, mandati dalla Signoria di Venezia al governo di quella parte dell'imperio, ch'era de' Greci chiamata despotato, sí come n'avea avuto il titolo per avanti il doge Dandolo.
Dopo la morte di Baldovino imperatore, ch'in un conflitto era stato fatto prigione dai soldati di Ioanniza, re di Bulgaria e Valachia, e poi morto, fu per li baroni ch'erano in Constantinopoli eletto per suo successore Enrico suo fratello, che fino a quel giorno, con titolo di bailo dell'imperio, avea con molto valore e giudicio governato l'esercito. Egli, tolta la corona dell'imperio l'anno 1206, il vigesimo giorno d'agosto, in Constantinopoli nella chiesa di S. Sofia, solennemente datagli da Tomaso Moresini patriarca, qual era tornato allora da Roma, ove avea impetrata da papa Innocenzio terzo la confermazione del suo patriarcato, e di piú era stato eletto arcivescovo di Thebe, confermò a messer Marin Zeno, con molto onore e amorevolissime parole, in presenzia di Benedetto, cardinale di S. Susanna e legato del papa nella Romania, la quarta e meza parte dell'imperio che gli era toccata in sorte, promettendogli aiuto e favore per acquistare l'altre sue città tenute da' Greci e per conservarle. Questo imperatore Enrico dipoi prese per moglie Agnese, figliuola del marchese Bonifacio di Monferrato, che era stato creato re di Salonichi, la quale fu anco lei il mese febraro coronata imperatrice, e fece ch'il marchese suo socero divenne suo uomo ligio: il qual, abboccatosi con l'imperator Enrico suo genero presso al fiume che corre sotto la città di Cipsella, e ottenuta la confermazione da lui del regno di Salonichi, nel ritorno suo al regno fu assalito da una grande correria di Valachi e Cumani, e, nel combattere gravemente ferito, nel 1207 morí.
L'imperator Enrico, dopo molta e lunga guerra, fatta ora con Teodoro Lascari, che con l'aiuto de' Greci tiranneggiava molte città dell'imperio nell'Asia, ora con Ioannizza, re di Valachia e Bulgaria, il qual con grossissimo esercito de Bulgari e di Valachi gli veniva adosso, e tanto vicino che correva spesse volte sino sopra le porte di Constantinopoli, facendo grandissimi danni e menando via uomini e bestie in gran copia in Valachia, avendo dieci anni retto l'imperio, morí senza figliuoli in Salonichi, l'anno 1216 il mese di giugno, e lasciò Violante, sua sorella, erede dell'imperio. Questa, che si trovava in Francia maritata in Pietro di Cortenay, conte d'Auxerre, onorato cavalliero, udita la morte dell'imperatore Enrico suo fratello, venne col marito a Roma; dove da papa Onorio III ambidue coronati imperatori nella chiesa di San Giovanni Laterano, nel 1217 il mese d'aprile, con molto solenne trionfo, incontinente elessero duoi delli suoi baroni e mandarongli a Constantinopoli, acciochè solennemente giurassero in nome loro a messer Rogiero Permarino e Marin Storlato e Marin Zeno (che si trovavano in Constantinopoli legati per el doge Ziani, ch'era allora principe di Venezia) che per tutto il tempo dell'imperio loro gli saria osservata buona e real compagnia, e mantenute tutte le convenzioni e patti, ordinazioni e onorificenzie ch'aveano li Veneziani insino a quel giorno avute nella Romania, cosí con scritti come senza scritti, fatte per il già conte Baldovino di Fiandra imperatore, e dipoi per Enrico suo fratello e successore, con tutti li rettori e podestà di Constantinopoli stati nel despotato sino a quel tempo, per nome della signoria e del doge di Venezia.
Partitosi dipoi da Roma, l'imperatore, con la moglie imperatrice, venne a Brandicio, dove montato sopra le galee de' Veneziani insieme col cardinale Colonna, datogli legato dal papa, andò all'assedio di Durazzo, ch'essendo sino alla divisione prima dell'imperio toccato in sorte a' Veneziani e poi perso, desiderava per tante cortesie che le facevano in grazia loro prenderlo e consegnarglielo; ma non gli successe, però che un grand'uomo greco, detto Teodoro Conneno duca di Albania, vassallo di Teodoro Lascari, violentemente se n'era insignorito. Costui, mostrando con astuzia greca di volersi riconciliare con Pietro imperatore, l'alloggiò nella città, facendo finta di dargliela e volerlo di piú, per onorificenzia, accompagnare fino a Constantinopoli nell'imperio, dov'egli andava col legato per terra, avendo mandata l'imperatrice per mare sopra le galere de' Veneziani: e un giorno desinando a tavola l'ammazzò, facendo prigione il cardinale Colonna. Questa nuova cosí all'improviso e non aspettata, essendo intesa a Constantinopoli, turbò grandemente gli animi di tutti. Ma ritrovandosi allora messer Iacomo Tiepolo, podestà de' Veneziani, nella città e nell'imperio, con la sua prudenzia e buon consiglio operò sí che in poche ore acquietò tutto il tumulto nato per la morte dell'imperatore. E vedendo che le cose de' Francesi andavano ogni giorno declinando, e che di Francia non era mandato quel soccorso e aiuto che ragionevolmente si dovea aspettare, giudicò che, per star in pace e assicurare le cose della città, buona cosa era far tregua per alquanti anni col soldano e col Lascari e con gli altri signori vicini, che d'ogni parte facevano guerra con l'imperatore. Il che fatto col consiglio delli suoi giudici e consiglieri, e di Conone di Betuna, baron francese, ch'in luogo dell'imperatore morto essendo creato bailo governava la città nell'interregno, Roberto fra questo mezo, il figliuolo di Pietro imperatore, venuto di Francia a Constantinopoli, morta la madre che (come vogliono alcuni) governò l'imperio certo tempo, fu l'anno 1220 coronato imperatore in luogo di Pietro suo padre, avendogli volontariamente Filippo suo fratello, al quale per essere il primogenito s'apparteneva l'imperio, cessa la corona.
Questo, vedendo li buoni portamenti che facevano, e amorevoli consigli nel governo dell'imperio che raccordavano continuamente li podestà ch'erano mandati dalla signoria di Venezia, continuò a fare grandissime carezze e onori a messer Iacomo Tiepolo, che in quel tempo che egli venne ritrovò esser podestà; e ordinò ch'ogni facenda, di qualunche sorte ella si fosse, si consigliasse e trattasse prima con lui che con i consiglieri dell'imperio; e in ogni deliberazione che si faceva, seguendo il costume degli altri imperatori suoi precessori, voleva sempre il consiglio del podestà di Venezia, e negli scritti suoi nominava, come aveano fatto suo padre e zii, qualunche volta gli occorreva farne menzione, il doge di Venezia suo carissimo amico e collega dell'imperio. E ho letto io la copia del privilegio del prefato Roberto imperatore, che fece a' Veneziani in Selimbria il ventesimo giorno di febraro, l'anno quarto del suo imperio, che fu del 1224, all'istesso tempo di messer Iacomo Tiepolo, podestà di Constantinopoli; nel qual egli conferma, cosí ricercato per lettere da messer Pietro Ziani, doge di Venezia, tutte quelle altre parti che li suoi podestà aveano nuovamente acquistate dell'imperio della Romania oltra le prime, e vuole ch'egli e li successori suoi abbino le medesime giurisdizioni e auttorità nelle predette parti di nuovo acquistate dell'imperio, "sí come noi abbiamo nelle cinque", per dire le sue proprie e formali parole, perciò che già le parti de' primi baroni che l'acquistarono erano per la morte loro in gran parte pervenute nell'imperatore. E queste carezze e favori non già senza causa il predetto imperatore faceva a' Veneziani, perciò che, sapendo che le forze sue erano molto indebolite nella Grecia e ch'altrove non poteva avere né piú presto né maggior aiuto che da essi, sopra le spalle de' quali allora gran parte di tutto quell'imperio si riposava, gli avea in molto onore e riverenzia.
Messer Iacomo Tiepolo podestà fece in questo tempo tregua per cinque anni con Teodoro Lascari, il quale per conto di sua moglie, figliuola d'Alessio il fratricida, era stato da' Greci coronato imperatore poco dapoi la presa di Constantinopoli, e avea continuamente signoreggiata quella parte dell'Asia all'incontro di Constantinopoli che ora si chiama la Natolia. E convenne con lui con solenne giuramento molte cose, che dapoi apportarono grande utile e onore insieme alla nazione veneziana e al despotato della Romania; ma fra l'altre che i Veneziani e mercanti di Venezia sicuramente e senz'alcuno impedimento o danno potessero fare le loro mercanzie e negociare nelle terre del Lascari, essendo sempre liberi cosí per mare come per terra, e con patto di poter anco fare qualunche sorte di mercanzie loro piacesse nella sudetta terra senza pagare alcuna gravezza o il comerchio, ch'era una sorte di gabella che allora e oggi ancora si costuma pagare in Constantinopoli e in Soria, e in ogn'altro luogo soggetto all'imperio del Turco, da tutti egualmente e da' Turchi istessi (la quale gabella però del comerchio era pagata da quelli del Lascari, cosí in Constantinopoli come in qualunche altro luogo de' Veneziani nella Romania); e s'alcuna nave veneziana o de' loro sudditi pericolasse nelle terre a lui soggette, la robba fusse resa loro interamente. Appresso, che se alcuno Veneziano o mercante suddito, morendo nel stato suo, avesse fatto testamento, tutto l'aver suo fusse realmente reso agli eredi; e caso che ei fosse morto senza testamento, né avesse avuto appresso di sé alcuno de' suoi al tempo della sua morte, la robba sua dovesse esser conservata salva appresso il signor della città nella quale egli fusse morto, infin che apparisse colui a chi ragionevolmente aspettasse; con solenne giuramento e particolar promessa che né il Lascari nel suo imperio, né il doge di Venezia nel suo despotato nella Romania, avessero facultà di far battere ad un istesso modo iperperi né manulati (il manulato era una sorte di moneta di molta riputazione appresso i Greci, chiamata da questo nome per conto di Manoel imperator di Constantinopoli, che ne fu l'autore), né alcun'altra sorte di moneta che si assomigliasse l'una a l'altra, ma ciascuno diversamente battesse la sua; né potesse il Lascari a modo alcuno mandare sue navi o altri legni alla città di Constantinopoli né fare soldati sopra il despotato de' Veneziani durante la tregua, senza licenzia del doge di Venezia. Questo è quello messer Iacomo Tiepolo che per il suo valore ascese poi al principato de questa Republica, e fece raccore e ordinare tutti li statuti di Venezia riducendoli in un volume, ne' quali si vede ancora dichiarato l'ordine che in quel tempo che signoreggiavano Constantinopoli s'osservava in questa città circa li testamenti de' Veneziani che qui erano portati da Constantinopoli, fatti per modo di breviario: che non se gli avesse a prestar fede se non erano sottoscritti dal podestà de' Veneziani o suo sustituto, o almeno da uno de' conseglieri mandati di qui dalla Signoria.
Teodoro Lascari, dapoi fatta tregua col Tiepolo, desiderando fare anche parentado coll'imperator Roberto per fermar meglio le cose sue, tentò di dargli per moglie Eudocia sua figliuola; ma essendogli vietato per il suo patriarca, che non volse acconsentirvi, come che il far parentado con Latini fusse quasi contro gl'instituti loro, non gli riuscí il pensiero. Onde egli, volendo pur fornire questo suo desiderio, e tentate molte altre strade senza effetto, alla fine pieno di sdegno si morí, lasciando l'imperio a Giovanni Vatazo suo genero, ch'altrimente era chiamato il duca, marito di Irene sua figliuola, per non esser il figliuolo che gli era nato nel secondo matrimonio della moglie armena ancora in età matura e atto al governo, né vivendo allora alcuno di que' due figliuoli ch'ebbe della prima moglie Anna, figliuola del tiranno Alessio di Constantinopoli. Era Teodoro di età vicino a cinquanta anni quando morí, avendo regnato intorno a diciotto anni, e (per quello ch'io ho letto in una istoria greca di que' tempi non ancora publicata) di picciola statura, di color bruno, con la barba lunga divisa in due parti nella summità, quasi guercio d'un occhio, molto animoso e pronto nel combattere, ma uomo che dall'ira e dalla lussuria difficilmente si potea astenere; nel resto liberalissimo signore, e tanto magnifico che volea spesse volte quelli a' quali pur una volta alcuna cosa donava incontinente far ricchi. Nelle guerre specialmente fatte contro Latini e Persiani fu assai sfortunato. Ebbe il suo corpo sepoltura dov'erano l'ossa d'Anna sua prima moglie, nel monasterio del Iacinto nella città di Nicea in Bitinia.
Alla fine, Roberto imperatore di Constantinopoli (per ritornar a lui), come alle volte aviene ai giovani, innamoratosi imprudentemente d'una bellissima giovane greca, di nobil sangue e ricca, ancor che sapesse che dalla madre era stata promessa ad un Borgognone de' primi capitani del suo esercito, senz'alcun rispetto e con grande insolenzia tolta, la menò a casa. La quale ingiuria non potendo il Borgognone sostenere, pieno d'ira e di furore, non essendo l'imperatore in Constantinopoli, con molti suoi seguaci entrò una notte in palazzo, e rotte le porte, presa la giovane e la madre, a quella tagliò il naso e l'orecchie; e la madre, come quella che era stata cagione della rapina della figliuola, fece affogar in mare. Questo miserabil caso perturbò tanto l'imperatore che, pieno di sdegno e di cordoglio per lo scorno grande fattogli dal capitano, raccomandato ch'ebbe l'imperio a messer Marin Michele (ch'era allora, secondo alcuni, podestà de' Veneziani), come quello che faceva pensiero di non voler piú ritornar a Constantinopoli, si partí disperato e venne in Italia; dove, ito a Roma per dolersi col papa di questa sua miseria e sciagura che gli era avenuta, stato che fu alquanto tempo appresso sua Santità e amorevolmente da lei racconsolato, fu consigliato a ritornare a Constantinopoli: nel qual viaggio, gravemente ammalato, nella Morea morí, lasciando l'imperio a suo fratello Baldovino, per l'età non ancor atto a governar l'imperio. Il quale, essendo poi giunto all'età matura, morto Giovanni conte di Brena, re di Ierusalemme, suo suocero (che avendogli dopo la morte di Roberto suo fratello data la sua figliuola Marta per moglie, e col consiglio de' primi baroni del governo dell'imperio governato e molto valorosamente dall'impeto del Vatazzo difeso alquanti anni lo stato), fu coronato imperatore di Constantinopoli. Ed è quello del quale messer Marco Polo nel principio del suo libro scrivendo dice: "Nel tempo di Balduin imperatore di Constantinopoli, dove allora soleva stare un podestà di Venezia per nome di messer lo dose, correndo gli anni di nostro Signore 1250, etc.".
Di qui avenne che, volendo egli al tempo che compose e scrisse questo libro in Genova, che fu del 1298, notificar particolarmente e descrivere il tempo apunto nel quale suo padre e zio s'erano ritrovati in Constantinopoli, che fu l'anno 1250, nel principato di messer Marin Moresini doge di Venezia, giudicò lui cosa molto degna e lodevole (ancor che in quel tempo gran parte della porzione del stato di Veneziani nella Romania fosse già perduta con la signoria de' Francesi in Grecia) incominciar con la memoria di questo tempo a descriver il suo viaggio, per dimostrare l'onorificenzia e grandezza in che per avanti era stata la sua patria: perciò che, allora ch'egli dimorava prigione in Genova, erano già nel spacio di que' quarantaotto anni stati scacciati li Francesi dal Vatazzo, col sopradetto Baldovino imperatore che lui nomina, e per mezo di Michel Paleologo gli Greci ritornati nel lor primo imperio di Constantinopoli. Della quale impresa, come rara e illustre, io ne ho in questo luogo, parendomi fare molto al proposito nostro, cosí brevemente (toccando però alcune cose necessarie da sapere) voluto far menzione, acciochè a quelli lettori che non averanno alcuna cognizione, o almen poca, delle cose di que' tempi, né saperanno lo stato nel quale allora questi signori si ritrovavano, non paia cosa fabulosa il leggere che già trecento anni questa Republica abbia tenuto per cosí lungo spazio di tempo podestà in Constantinopoli, sí com'ella fece, e sia con molto beneficio della cristianità stata tanti anni patrona d'una parte di quella cosí bella e gloriosa città e di quel tanto maraviglioso imperio, che ora, per le molte discordie longamente state fra' principi cristiani, si truova soggetto agl'infideli.
Ma chi averà piacere d'intendere particolarmente e con piú diritto e continuato ordine il filo di tutta questa istoria, ch'io di sopra non ho raccontato né è sino ora stata scritta da alcuno, incominciando specialmente dal principio che Teobaldo conte di Campagna e di Bria, e Luis conte di Bles, con Baldovino e gl'altri baroni, l'anno 1200 presero la cruciata nella Fiandra, e fatto il loro parlamento in una città di Campagna, mandarono l'anno seguente sei onorati baroni loro ambasciatori al doge Dandolo a Venezia, con lettere di credenza e molti partiti, a dimandare navilii e un'armata per passare in Soria con uno esercito di trentotto in quarantamila persone che aveano raccolto, e andare alla recuperazione di Terra Santa, leggerà l'istoria di Paolo mio figliuolo, la quale egli latinamente scrive d'ordine dell'illustrissimo ed eccellentissimo Consiglio di Dieci di questa Republica. Il quale, acciochè la memoria di tanto illustre e gloriosa impresa non sia molto piú dalla longhezza del tempo fatta oscura di quello che ella è stata fin ora, gli ha con la sua solita liberalità e magnificenza dato carico che ne debba far un copioso volume, raccogliendo tutte quelle cose che si truovano scritte, parte ne' memoriali e scritture autentiche portate in que' tempi con molte gioie e tesori dell'acquisto di Constantinopoli in questa città, dagli altri istorici che ne hanno parlato pretermesse, e parte ne' commentari scritti a penna ritrovati a' nostri tempi, che mai il Sabellico né alcun altro scrittore ha veduti, d'un grande gentiluomo francese di molta auttorità e maneggio, il quale, ritrovandosi sempre presente col conte Baldovino di Fiandra ed Enrico suo fratello in questa impresa, la volse allora, come colui che la maneggiò e della quale n'era benissimo instrutto, nella lingua francese con molte belle particolarità e con ogni diligenzia descrivere. Questo libro già alquanti anni il clarissimo messer Francesco Contarino, il procuratore di San Marco, essendo ambasciator in Fiandra a Carlo V imperatore l'anno 1541, e avendolo a caso in una libraria d'un monastero trovato, portò seco in questa città, non volendo patire che cosí bella istoria, tanto diligentemente e con tanto onore della sua patria per un uomo francese descritta, che altrove non si trovava, rimanesse perpetuamente nascosta in un solo libro scritto a penna dentro una libraria della Fiandra.
Or in queste istorie di mio figliuolo si leggeranno le mutazioni e i rivolgimenti di quelle signorie, con la morte, creazioni e prigionie di tanti imperatori e tiranni ch'erano a quel tempo in molte parti della Grecia e dell'Asia, con la turbulenzia del stato loro, e finalmente la perdita di tutto quello imperio che pervenne nei Latini; il dominio de' Veneziani nella Romania, con suoi privilegii e onoratissime giurisdizioni, e co' nomi di ciascheduna città, luogo, castello o casale, che cosí nella Tracia come nella Morea e nel Peloponeso le toccarono in sorte nella divisione dell'imperio fatta da' partitori; e dell'isole dell'Arcipelago, e de' signori che l'occuparono, a chi furono tolte; la porzione dell'imperio venuto in sorte a' baroni francesi, ch'altrimente si chiamavano pellegrini, e quella del medesimo imperatore Balduino ed Enrico fratelli, incoronati imperatori l'un dopo l'altro, con lor nozze e parentadi dopo l'acquisto dell'imperio fatti; la creazione del marchese di Monferrato in re di Salonichi e l'imperio suo, col maritaggio nella sorella del re d'Ungaria; la morte di Balduino, primo imperatore de' Latini, al quale, dopo preso da Valachi e Bulgari il primo anno del suo imperio in un conflitto, e tenuto molti mesi prigione, fu tagliata la testa e portata a Ioannizza lor re in Ternoviza, il quale, fattala nettare e trattone gl'interiori, adornata in forma di vaso, con molto oro intorno, la facea adoperare per bere in vece d'una tazza. Si leggerà il valor e la morte del principe Dandolo nell'assedio d'Andrinopoli, ove guidava l'esercito dopo la perdita dell'imperatore; il modo con che fu primieramente instituito il podestà che tanti anni tenne questa Republica in Constantinopoli, del qual parla messer Marco Polo nel principio del suo viaggio, con tutti e' nomi de' magistrati veneziani che solevano sedere in quella città e nell'imperio; le gioie, i tesori, le colonne, i marmi che vennero di que' paesi e della Grecia mentre che signoreggiorno i Veneziani; come furno da Constantinopoli portati que' quattro bellissimi cavalli di metallo, di mirabil arteficio, che Costantino imperatore, tolti dall'arco di Nerone, ch'egli avea di prima tolti dall'arco d'Augusto, portò da Roma a Constantinopoli, e ch'ora si veggono nel corridore della chiesa di San Marco, sopra la piazza, da tutto 'l mondo sempre riguardati con somma maraviglia; le molte reliquie d'infiniti uomini santi e beati, di che son piene tutte le chiese e monasteri di questa città, e l'istessa chiesa di San Marco; con le longhe guerre, che parte Bonifacio re de Salonichi fece contro Leon Scrugo, tiranno del Peloponeso, che difendendosi con molte astuzie teneva Coranto e Napoli di Romania, dando di molto travaglio a' Latini, e parte che 'l podestà de' Veneziani insieme con Francesi e l'imperator Enrico, confederati con Teodoro Brana greco (che solo del rimanente de' Greci teneva lega con Francesi, per aver per moglie Anna, figliuola di Lodovico sesto re di Francia, padre di Filippo il Pietoso, la quale era stata avanti la presa di Constantinopoli nel primo maritaggio moglie d'Alessio, figliuolo di Manoel imperatore), fecero in diversi tempi nella Turchia, prima con Teodoro Lascari, il quale per conto della prima moglie greca pretendeva ragione sull'imperio, e signoreggiava gran parte di quel paese, facendo molti danni a' Veneziani e a' Francesi oltra lo stretto, e poi contra Ioannizza, re di Valachia e Bulgaria, nella Tracia; il quale, nemico per ragione ereditaria, insino dal tempo di Pietro e Asane suoi fratelli, del nome greco e latino, avea destrutta Napoli di Tracia, Panedò, Eraclea, Tzurolo, ora Chiorlich, e molt'altre città del loro stato insin a canto Constantinopoli; che finalmente, dopo l'avere molti anni guerreggiato con loro, si morí di mal di punta appresso Salonichi, essendogli paruto una notte in sogno, nel mezo del dormire, vedersi da un soldato passare il costato con una lancia, che fu detto allora esser il significato della qualità della morte che divinamente doveva essergli mandata.
Ma avendo sufficientemente, e forse piú che a bastanza, con tanta digressione e cosí longa diceria dimostrato quello ch'io da prima avevo tolto a narrare del principio del libro di questo scrittore, mettendo qui fine mi volgerò ad esporre alcuni pochi luoghi sparsi ne' libri de messer Marco Polo, i quali, per maggior intelligenzia de' benigni lettori, alcuna dichiarazione richieggono.


Dichiarazione d'alcuni luoghi ne' libri di messer Marco Polo,
con l'istoria del reubarbaro

La cagione perchè messer Marco Polo, nel primo capitolo del suo primo libro, incominciasse a scrivere il suo viaggio dall'Armenia minore fu questa: che partendosi egli di Acre, ov'era legato Teobaldo de' Visconti, che fu poi papa Gregorio X, andò per mare al porto della Ghiazzia, ch'è nell'Armenia minore, e fu questo il primo luogo dove smontasse per andare con suo padre e con suo zio al gran Cane. E allora le due Armenie, cioè minore e maggiore, erano sotto un principe cristiano, qual veniva col suo stato fino sopra il mare della Soria ed era tributario de' Tartari. Però lo descrisse secondo che li fu riferto da persone idiote; né bisogna che qui el lettore ricerchi da questo scrittore quella diligenzia e modo di scrivere che usano Strabone, Tolomeo e altri simili, per ciò che quella età era molto rozza, e non s'era ancora introdotto negli uomini quella politezza di lettere ed eleganza di stile e modo di descrivere la cosmografia che ora s'usa; aggiunto anco che in quelli tempi, per le continue guerre state lungamente de' Tartari, che occuparono tutto il Levante, sí come fecero i Gotti il Ponente, li termini antichi delle provincie erano tanto confusi, e in maniera cambiati li nomi e mescolata l'una con l'altra provincia, che quantunche egli avesse voluto usare maggiore diligenzia, non ci averebbe per ciò potuto dare miglior cognizione di quella che egli ha fatto. E questa mutazione de' nomi fu causa che quello che possedeva questo re cristiano d'Armenia, secondo che dice il principe Ismael, si chiamava allora il regno de' Romei, cioè Greci: e fino sopra il sino Issico, ch'è il golfo della Ghiazzia, giugnevano i suoi confini, de' quali informandosi messer Marco intese, come nel secondo capitolo scrive, che dalla parte di verso mezodí vi è la Terra Santa; da tramontana i Turcomani, ch'ora si chiaman Caramani; da greco levante Cayssaria e Sevesta; verso ponente il mare Mediterraneo. E come nel terzo capitolo dice, le due città insieme col Cogno erano nella Turcomania, le quali sono poste da Tolomeo nella Cilicia, e le chiama messer Marco Cayssaria e Sevaste, cioè Caesarea e Augusta, e Iconium il Cogno, nella Licaonia.
E dicendo Turcomani, nome moderno posto da' Tartari, avendo io voluto vedere quello che ne parla Ismael nella sua geografia, m'è parso doverlo qui includere, il quale, descrivendo il lito del mare di Soria e cominciando dalla città di Seleucia, che al suo tempo si chiamava Suidia, dice in questo modo: che 'l principia a voltar il suo corso verso ponente fino che 'l passa i confini del regno di musulmani, cioè Turchi (perchè al tempo d'Ismael tutta l'Asia minore era de' cristiani), e tirato un poco di tratto verso tramontana, va alle porte di Scanderona, che son le porte dell'Amano appresso Alessandretta (quivi è il confine fra musulmani e Aramani, cioè della Cilicia), e poi va alle porte della Ghiazza, ove è il porto della regione d'Araman, cioè Cilicia; e voltandosi il lito verso ponente tramontana, scorre fino alla città di Tarso, la qual è in longitudine cinquantotto gradi e in latitudine trentasette e mezo, e tirando pur in ponente passa i confini di Araman fino in Coruch, che si chiama dall'interprete d'Ismael Corycium Antrum; qual passato, vi è la region de' popoli della Turcomania, che sono discesi da Caraman Turcoman, e in quella regione vi è il monte Caraman che 'l detto interprete chiama monte Tauro, dove dice Ismael che al suo tempo abitava la moltitudine di Turcomani, il signor de' quali si chiamava Avad Caraman, e questo monte s'estende dalli confini della città di Tarso fino al regno de Lascari, che vuol dir all'imperio di Constantinopoli. Questo è quel Teodoro Lascari ch'ebbe per moglie Anna, una delle figliuole di quello Alessio che cavò gli occhi al fratello Isaac imperatore e si fece tiranno di Constantinopoli, come è detto di sopra; e per tal ragione, signoreggiando i Veneziani e Francesi la città di Constantinopoli e gran parte dell'imperio della Romania, lui tiranneggiava molte città alla marina e fra terra, in quella parte dell'Asia ch'è verso il mar Maggiore e la Propontide, all'incontro di Constantinopoli, la qual oggidí si chiama la Natolia, overo la Turchia. Da queste parole si vede (come dice messer Marco) che questi tal popoli turcomani abitavano sopra le montagne e luoghi inaccessibili, come è il monte Tauro e il monte Amano.
Darzizi, nel cap. quarto del primo libro, ora è chiamata Bargis; Paipurth, Carpurt.
Del monte altissimo di che nell'istesso capitolo si parla, ove si fermò l'arca di Noè dapoi il diluvio, dicono alcuni scrittori questo essere quello dove sono i monti Gordiei, quali Strabone vuole che siano una parte del monte Tauro.
La provincia della Zorzania, al quinto capitolo, è quella che, appresso Strabone, Plinio e Tolomeo detta Iberia, fu da questo nome chiamata per memoria del valoroso e glorioso martire san Zorzi, che ivi predicò la fede del nostro Signor Iesú Cristo: per il che è anco in grandissima venerazione appresso tutti que' popoli.
Del mar Abbacú, over Ircano o Caspio, di che si parla in questo istesso capitolo, dirò brevemente quello che ne ho trovato in diversi auttori, sí antichi come moderni, ancor che si comprenda che poco ne sappino, e che messer Marco istesso ne tocchi un poco: e questo è che tutti mettono terra incognita sopra quello alla volta di tramontana, dove dicono essere la regione detta Turquestan da Ismael, e da messer Marco la gran Turchia; di verso mezodí vi sono due città famose per li suoi porti, l'una Derbent, cioè la Porta di Ferro over Porte Caspie, e l'altra Abbacú, che dette il nome al mare; qual al tempo di Augusto Cesare non si sapeva che 'l fusse serrato di sopra, come al presente si sa ch'è come un lago, ma pensavasi che 'l fusse un braccio del mare Oceano che dalla parte di tramontana entrasse in quello, come recita Strabone, dicendo che Pompeo, nella guerra contra Mitridate, n'avea scoperto gran parte. Ismael, parlando di quello, dice: "Questo mare è salso, né v'entra in quello l'Oceano, ma è del tutto separato e quasi come rotondo, e s'estende in lunghezza per ottocento miglia e per larghezza seicento, e che la sua rotundità è forma ovale, ancor che altri vogliono che la sia triangulare; e chiamasi con tre nomi, cioè el Cunzar, Giorgian, Terbestan. La sua parte di verso ponente sono gradi 66 di longitudine e 41 di latitudine. Appresso la Porta di Ferro, andando verso mezodí per 153 miglia, vi sono le bocche del fiume Elcur, che si chiama Cyro appresso Tolomeo. Andando verso sirocco si trova la città di Mogan della provincia di Ardiul; ma a l'ultima volta di mezodí, passati 231 miglia, si trova la region del Terbestan, e in quel lito vi sono le provincie d'Elgil e Deilun. Poi, voltatosi verso levante, si viene alla città di Abseron, la qual è in longitudine gradi 79.45, e in latitudine 37.20, e scorre verso levante fino a 80 gradi di longitudine e 40 di latitudine; e andando avanti fino a gradi 50 di latitudine e 79 di longitudine si volta verso tramontana, dove sono le provincie del Turquestan e il monte Sehacuat. E in questo progresso il fiume Elatach, per essere il maggiore di tutti quelli che sono in quelle regioni, scarica in mare le sue acque con molte bocche, e fa grandissimi canneti e paludi; e gli abitanti vicini che ivi navicano referiscono che, come l'acque del detto giungono in mare, l'acque salse e chiare divengono di varii colori, e si navica molti giorni sempre trovando l'acqua dolce". La qual cosa conferma Plinio dicendo che, essendo Pompeo nella istessa guerra contra Mitridate, li fo affermato che alcune parti del detto mare erano dolci, per la gran moltitudine de' fiumi che correno in quello. Questo fiume Elatah è quello che Tolomeo chiama Rha, e li volgari Herdil, over Volga.
Del miracolo de' pesci, che dice nel quinto capitolo messer Marco Polo che si pigliano per li quaranta giorni della quadragesima nel lago di Geluchalat, dove è il monasterio di San Leonardo, dico che 'l prefato Abylfada Ismael fa menzione di questo istesso lago e lo chiama Argis, e lo mette nelli confini di tre provincie, cioè Armenia, Assiria e Media, sopra le ripe del quale vi sono queste città: Calat, che si deve credere che li desse il nome, secondo che lo chiama messer Marco, e poi Argis, Van e Vastan. E dice che si pesca per 40 giorni nella primavera una sola sorte di pesce detto tarichio, quale si secca all'aere dal vento e si porta poi per gran mercanzia per tutte le regioni vicine, e dapoi per tutto l'anno piú non si vede. In conformità delle quali parole leggesi scritto in alcuni commentari non ancor stampati d'un uomo francese molto dotto, nominato messer Pietro Gyllio d'Alby, che mi fur mostrati alli mesi passati: qual del 1547 si trovò nel campo del gran Turco Solyman ottoman, quando egli andò contra siac Tecmes il Sofí, e vidde questo istesso lago, quale dice credere che sia quello che da Strabone vien detto Martiana Palus; ne' quali esso messer Pietro scrive che per 40 giorni solamente della primavera pigliano di detto pesce in tanta quantità che seccato ne cargano i carri per mandare nelli paesi circonvicini, per essere bonissimo e molto desiderato da ognuno: passati li detti 40 giorni, piú non si vede. Che veramente al tempo di messer Marco Polo sopra detto lago vi fusse un monastero de' monachi di San Leonardo è cosa credibile e molto verisimile, perchè gli abitatori erano allora tutti armeni, cioè cristiani. Questo lago di Argis, secondo Ismael, è in gradi 67.5 di longitudine, 38.30 di latitudine; secondo altri poi 66.20, 40 e 8 overo 68.5 di longitudine, 40.35 di latitudine.
Dell'andanico, di che parla messer Marco nel capitolo 19 del primo libro, quando dice che nella città di Cobinam, dove si fanno i specchi d'azzale finissimo molto belli e grandi, vi è assai andanico, è da sapere che, avendone io per mezo di messer Michele Mambré, interprete di questa illustrissima Signoria nella lingua turca, dimandato molte volte a molti Persiani venuti qui in Venezia in diversi tempi con loro mercanzie, m'hanno detto tutti in conformità andanico essere una sorte di ferro over azzale, tanto eccellente e precioso e stato sempre di tanta stima in tutte quelle parti che, quando uno alli tempi antichi poteva avere un specchio overo una spada di andanico, li teneva non piú come una spada o come un specchio, ma come molto cara gioia.
Nel capitolo 38 del primo libro di messer Marco Polo, trattandosi del reubarbaro, che nasce nella provincia di Succuir ed è di lí portato in queste nostre parti e per tutto il mondo, parendomi questa cosa fra tutte l'altre degna di cognizione, per l'uso grande in che tutti gli uomini communemente l'adoperano nelle lor malattie oggidí, né sapendo io che fin ora in alcuno libro si legga tanto di quello quanto già intesi da un uomo persiano di molto bello ingegno e giudicio, mi pare qui essere sommamente necessario ch'io particolarmente descriva quel poco che gli anni passati ebbi ventura d'intendere da costui, il quale era chiamato Chaggi Memet, nativo della provincia di Chilan, appresso al mare Caspio, d'una città detta Tabas; ed era personalmente stato fino in Succuir, essendo dipoi in Venezia quelli mesi venuto con molta quantità di detto reubarbaro. Questo adunche, essendo io andato quel giorno che ne ragionammo a desinare a Murano fuori di Venezia (e per uscire della città, per ciò che ero assai libero da' servigi della Republica, e per goderlo con nostro maggiore contento), avendo per sorte in mia compagnia l'eccellente architetto messer Michele San Michele di Verona e messer Tomaso Giunti, miei carissimi amici, doppo levato il mantile di tavola nel fine del desinare, per il mezo di messer Michele Mambré, uomo dottissimo nella lingua araba, persiana e turca, e persona di molto gentili costumi, il quale è per il suo valore oggidí interprete di questa illustrissima Signoria nella lingua turca, incominciò a dire cosí, e il Mambré interpretava. Primieramente che egli era stato a Succuir e Campion, cittadi della provincia di Tanguth nel principio del stato del gran Cane, il quale disse che si nominava Daimir Can e mandava suoi rettori al governo di dette cittadi (delle quali parla messer Marco nel libro primo al capitolo 38, 39), le quali son le prime verso il paese de' musulmani che siano idolatre; e vi andò con la caravana che va con mercanzie del paese della Persia e da quelli vicini al mare Caspio per le regioni del Cataio, la qual caravana non lassano costoro che penetri piú avanti di Succuir e Campion, né similmente alcun mercante che sia in quella, eccetto che se non andasse ambasciatore al gran Cane.
Questa città di Succuir è grande e populatissima, con bellissime case fatte di pietre cotte all'italiana, e ha molti tempii grandi con loro idoli di pietra viva; posta in una pianura dove corrono infiniti fiumicelli, la quale è abbondantissima di vettovaglie d'ogni sorte, e dove si fanno sete con gli alberi di more negre in grandissima quantità. Non vi nasce vino, ma fanno la lor bevanda con mele a modo di cervosa; de frutti, per esser il paese freddo, non vi nascono altri che peri, pomi, armellini e persichi, melloni e angurie. Dipoi disse che il reubarbaro nasce da per tutto in quella provincia, ma molto miglior che altrove in alcune montagne ivi vicine, alte e sassose, dove sono molte fontane e boschi di diverse sorti d'altissimi alberi; e la terra è di color rosso, e per le molte pioggie e fontane che da per tutto corrono quasi sempre fangosa.
Quanto alla radice e foglie, avendone il predetto mercante per sorte portata seco dal paese una picciola pittura, per quello che si vedeva diligentemente e con molto arteficio dipinta, trattosela di seno ce la mostrò e descrisse, dicendo quella esser la vera e natural figura del reubarbaro: della quale ne presi un ritratto per metterlo qui sotto in disegno, insieme con la sua istoria e dichiarazione, secondo la relazione avuta da lui.


Sono adunche dette foglie lunghe ordinariamente, come disse, due spanne, ma piú e meno poi secondo la grandezza della pianta, astrette da basso e larghe di sopra. Hanno nella loro circonferenzia un certo pelo piccolino, o lanugine che vogliamo dire; il tronco che viene sopra la terra, al quale sono attaccate le foglie, è verde e alto quattro dita e anco un palmo da terra, e nascono le foglie similmente verdi, ma come s'invecchiscono divengono gialle, sí come erano in pittura, e si distendono per terra. Produce il detto tronco nel mezo un certo ramicello sottile con alcuni fiori attaccati d'ogn'intorno, simili alle viole mammole nella forma, ma di colore di latte e azzurro e alquanto maggiori delle viole mammole sopradette, l'odor de' quali è molto acuto e fastidioso, e in modo che dispiace assai a coloro che l'odorano. La radice similmente che sta sotto terra è lunga un palmo o due fino in tre, di color nella scorza tanè, sí come ve ne sono di grosse e sottili secondo la proporzione; de' quali anco se ne ritrovano fino della grossezza come è la coscia d'un uomo e come è il mezo della gamba. Ha questa radice molte altre radicette piccioline intorno che nascono da lei e sono sparse per la terra, le quali prima si levano via, e poi si taglia la radice grossa per fare in pezzi; la quale di dentro è di color giallo e ha molte vene di bellissimo rosso, ed è piena di molto sugo giallo e rosso, e di modo viscoso che, toccandolo, facilmente s'attacca alle dita e fa la mano gialla. Dipoi tagliata la radice e fatta in pezzi, disse che se la volessero appicar allora allora per seccarla, tutto 'l sugo giallo viscoso uscirebbe fuori e cosí diventerebbe leggiera, onde credono che perderebbe assai della sua bontà e perfezione: per ciò mettono detti pezzi tutti sopra alcune lunghe tavole, e ogni giorno tre e quattro volte gli vanno voltando e rivoltando, acciò il sugo s'incorpori dentro e resti nella radice congelato. Nel fine poi di quattro o sei giorni gli bucano e gli appicano con cordicelle all'aria e al vento, dove però non v'aggiunghino i raggi del sole: e in questo modo si ha il reubarbaro in due mesi secco, e si fa molto buono e perfetto. Mi disse ancora che loro osservano ordinariamente di cavare il reubarbaro della terra l'invernata, perchè in tal tempo (avanti che cominci a mandare fuora le foglie) il sugo e la virtú è tutta unita e raccolta nella sua radice: il qual tempo è avanti la primavera, la quale nel paese di Campion e Succuir viene alla fine di maggio. E di piú mi disse che quelle radici del reubarbaro che si cavano la state, e in quei tempi che le foglie sono fuora, non sono mature né hanno quel sugo giallo ch'hanno quelle che son cavate l'invernata, e di piú sono fungose, rare, leggieri e asciutte, né manco hanno quel colore rosso, né sono di quella bontà che quelle che sono cavate l'inverno.
Disse ancora che quelli che vanno a cavare dette radici sopra i detti monti dove le nascono, portate che l'hanno alla pianura cosí verde e con le foglie in quel modo che l'hanno cavate della terra, le mettono sopr'alcuni lor carri, e ne vendono pieno un carro con le foglie per sedici saggi d'argento; perchè quivi non hanno moneta battuta, ma fanno l'argento e l'oro in alcune verghette sottili e le tagliano in pezzetti picciolini del peso d'un saggio, ch'è quasi simile al nostro: quale essendo d'argento, vale venti soldi di Venezia in circa, ed essendo d'oro vale uno scudo e mezo d'oro. Il qual reubarbaro, cosí frescamente comperato, è dipoi dalli compratori acconcio e secco nel modo che di sopra s'è detto. E mi raccontò cosa di gran maraviglia, cioè che, se non vi andassero in quelle parti del continuo i mercanti a dimandarglielo, non lo ricoglierebbero mai, perchè d'esso non ne fanno stima. E coloro che vengono dalla China e India ne levano maggior quantità di tutti gli altri, li quali, quando è condotto in Succuir sopra quei carri over some, se non lo tagliassero e governassero prestamente, in termine di quattro o sei giorni diventerebbe marcio e sobbollirebbe. E mi affermò ancora, di quello ch'egli aveva portato seco in questa città, che ne comperò ben sette some di verde, il qual poi fatto secco e acconcio non venne piú che una picciola soma. E mi disse ancora che quando gli è verde è tanto amaro che non si può gustare, e che nelle terre del Cataio non l'adoperano per medicina sí come facciamo noi qua, ma lo pestano e compongono con alcune altre misture molto odorifere e ne fanno profumo agl'idoli; e in alcuni altri luoghi ve n'è tanta copia che l'abbrucciano continuamente secco in cambio di legne; altri, come hanno i lor cavalli ammalati, gli ne danno di continuo a mangiare, tanto è poco stimata questa radice in quelle parti del Cataio. Ma ben apprezzano molto piú un'altra picciola radice, la quale nasce nelle montagne di Succuir, dove nasce il reubarbaro, e la chiamano mambroni cini, ed è carissima; e' l'adoperano ordinariamente nelle lor malattie, e massime in quella degli occhi, perchè, se trita sopra una pietra con acqua rosa ungano gl'occhi, sentono un mirabile giovamento; né crede che di quella radice ne sia portata in queste parti, né meno disse di saperla descrivere. E di piú, vedendo il piacer grande ch'io sopra gl'altri pigliavo di questi ragionamenti, mi disse che in tutto 'l paese del Cataio s'adopera anco un'altra erba, cioè le foglie, la quale da que' popoli si chiama chiai catai: e nasce nella terra del Cataio ch'è detta Cacianfu, la quale è commune e apprezzata per tutti que' paesi. Fanno detta erba, cosí secca come fresca, bollire assai nell'acqua, e pigliando di quella decozione uno o doi bichieri a digiuno, leva la febre, il dolor di testa, di stomaco, delle coste e delle giunture, pigliandola però tanto calda quanto si possa soffrire; e di piú disse esser buona ad infinite altre malattie, delle quali egli per allora non si ricordava, ma fra l'altre alle gotte; e che se alcuno per sorte si sente lo stomaco grave per troppo cibo, presa un poco di questa decozione, in breve tempo arà digerito. E per ciò è tanto cara e apprezzata ch'ognuno che va in viaggio ne vuol portare seco, e costoro volentieri darebbono, per quello ch'egli diceva, sempre un sacco di reubarbaro per un'oncia di chiai catai; e che quelli popoli cataini dicono che, se nelle nostre parti e nel paese della Persia e Franchia la si conoscesse, i mercanti senza dubio non vorrebbono piú comperare ravend cini (che cosí chiamano loro il reubarbaro).
Quivi fatto un poco di pausa, e fattoli dimandare s'egli mi voleva dire altro del reubarbaro, e rispostomi non aver altro, essendo il giorno molto lungo ancora, e per non perdere quel resto della giornata che avanzava senza qualche altro piacere, come avevamo fatto fin allora, gli domandai che viaggio egli nel suo ritorno da Campion e Succuir avea fatto venendo a Constantinopoli, e se me lo avesse saputo raccontare. Risposemi per il Mambré nostro interprete che mi narrarebbe il tutto volentieri, e incomminciò a dire ch'egli non era già ritornato per quella istessa via che avea prima fatta andando con la carovana, per ciò che, al tempo ch'egli si voleva partire, occorse che que' signori tartari dalle berrette verdi, chiamati Iescilbas, mandarono per sorte un loro ambasciatore con molta compagnia per la via della Tartaria deserta sopra il mar Caspio al gran Turco a Constantinopoli, per far lega e andare contra il Soffí, lor commune nimico: per la qual occasione di compagnia gli parve bene di venire con loro, avendo, oltra la commodità del viaggio, molto vantaggio anche nel vivere, e cosí venne con loro fino a Caffa; ma che per ciò non restarebbe di raccontare volentieri il viaggio ch'egli averia fatto se fusse ritornato per la strada che l'era andato. Onde disse che 'l viaggio sarebbe stato questo: cioè che, partendosi dalla città di Campion, sarebbe venuto a Gauta, ch'è lo spacio di sei giornate lontana, perchè ogni giorno fanno tante farsenc (e una farsenc persiana è tre delle nostre miglia), e fanno che una giornata sia 8 farsenc, ma per causa de deserti e monti non ne fanno la metà, ancora che le giornate che fecero per li deserti fossero la metà dell'altre ordinarie. Da Gauta si viene a Succuir in 5 giornate, e da Succuir a Camul in quindici, dove incomminciano ad essere musulmani, essendo fin qui stati idolatri; e da Camul a Turfon in tredeci, e da Turfon si passano tre città: la prima Chialis, che vi sono 10 giornate; poi Chuchi, altre 10; poi Acsú, 20 giornate. Da Acsú a Cascar altre 20 giornate di asprissimo deserto, essendo stato il primo viaggio fin lí per luoghi abitati; da Cascar a Samarcand 25; da Samarcand a Bochara, nel Corassam, cinque; da Bochara ad Eri 20; e quindi si viene a Veremi in 15 giornate, e poi a Casibin in 6, e da Casibin a Soltania in 4, e da Soltania alla gran città di Tauris in sei. Questo è quanto sottrassi da questo mercante persiano, e la relazione di tal viaggio mi fu tanto piú grata quanto che riconobbi, con mio molto contento, li medesimi nomi di molte città e alcune provincie essere scritti nel primo libro del viaggio de messer Marco Polo, per causa del quale mi è parso in parte necessario doverla qui raccontare.
Parmi conveniente qui ancora aggiungere un breve sommario fattomi dal sudetto Chaggi Memet, mercante persiano, avanti il suo partire di questa città, d'alcuni pochi particolari della città de Campion e di quelle genti; li quali sí come da lui brevemente e per capi furono referiti, cosí io qui nel medesimo modo gli racconterò a beneficio e utile de' benigni lettori.
La città di Campion è abitata da popoli che sono idolatri, soggetta alla signoria de Daimir Can, grande imperatore de' Tartari; la qual città è posta in una fertilissima pianura tutta coltivata e abbondante d'ogni sorte di vivere. Vanno vestiti quei popoli di tele di bombagio di color negro, l'inverno fodrate di pelle di lupi e di castroni li poveri, e li ricchi di zibellini e martori di gran prezzo; portano le berrette nere, aguzze come un pane di zucchero. Gl'uomini sono piú tosto piccioli che grandi; usano di portare barba come noi, e massime certo tempo dell'anno. Le fabriche delle lor case son fatte al modo nostro, di pietre cotte e di pietre vive, con due e tre solari, quali sono soffittati e dipinti di pittura di varii e diversi colori e di figure; vi sono anco infiniti pittori, e vi è una contrada dove non abita altri che pittori. I signori per pompa e magnificenza fanno fare un solare grande, sopra il quale vi fanno dirizzare duoi padiglioni di seta, riccamati d'oro e d'argento e con molte perle e gioie, dove stanno loro e gli amici suoi, e lo fanno portare da 40 in 50 schiavi, e cosí vanno per la città a sollazzo; i gentiluomini vanno sopra un solaro scoperto semplicemente portato da 4 over 6 uomini, senza altro ornamento.
I tempii loro sono fatti al modo delle nostre chiese, con le colonne per lungo, e ve ne sono de cosí grandi che vi sarebbono capaci di quattro o cinquemila persone; e vi sono ancora due statue, cioè d'un uomo e d'una donna, lunghe 40 piedi l'una, distese per terra, tutte dorate, e sono tutte d'un pezzo. E vi sono valenti tagliapietre; fanno condurre pietre vive da due e tre mesi di cammino sopra carri di 40 ruote ferrate, alti di ruote, tirati da 500 e 600 fra cavalli e muli. Sonvi altre statue picciole, che hanno sei e sette capi e dieci mani, che tengono ciascuna diverse cose, come saria dire una un serpe, l'altra un uccello e l'altra un fiore.
Sonvi alcuni monasterii dove stanno molti uomini di santissima vita, e hanno le porte delle lor stanzie murate, sí che non possono mai uscire in vita loro: e gli viene ogni giorno portato il vivere. Sonvi poi infiniti, come nostri frati, che vanno per la città.
Hanno per costume, quando muore alcun lor parente, di vestirsi per molti giorni di bianco, cioè di tele di bombagio; ma le veste sue sono fatte però al modo nostro, lunghe fino in terra e con le maniche assai grandi, simili alle nostre a gomedo che portiamo a Venezia.
Hanno la stampa in quel paese, con la quale stampano i suoi libri. E desiderando io chiarirmi se quel loro modo di stampare è simile al nostro di qua, lo condussi un giorno nella stamparia di messer Tomaso Giunti a San Giuliano per fargliela vedere: il quale, vedute le lettere di stagno e li torcoli con che si stampa, disse parergli che avessero insieme grande similitudine.
Hanno la città fortificata con un muro grosso e di dentro pieno di terra, sí che vi possono andare 4 carra al pari; sonvi li suoi torrioni sulle mura e le artigliarie poste tanto spesse, non altrimente che sono quelle del gran Turco. Usano la fossa larga, asciutta, ma però che vi possono far correre l'acqua ad ogni lor piacere.
Hanno alcuna sorte di buoi molto grandi, che hanno il pelo lungo, sottilissimo e bianchissimo.
È vietato alli Cataini e idolatri partirsi del suo nativo paese e andare per mercanzie per il mondo.
Oltra il deserto che è sopra il Corassam, fino a Samarcand e fino alle città idolatre, signoreggiano Iescilbas, cioè le berrette verdi, le quali berrette verdi son alcuni Tartari musulmani che portano le loro berrette di feltro verde acute, e cosí si fanno chiamare a differenzia de' Soffiani, suoi capitali nemici, che signoreggiano la Persia, pur anche essi musulmani, i quali portano le berrette rosse. Quali berrette verdi e rosse hanno continuamente avuta fra sé guerra crudelissima, per causa di diversità de opinione nella loro religione e discordia de' confini. Delle cittadi delle berrette verdi che hanno imperio e signoreggiano sono fra l'altre, al presente, l'una Bochara e l'altra Samarcand, che ciascuna ha signoria da sua posta.
Hanno tre scienzie particolari, che chiamano l'una chimia, ch'è quella che noi chiamiamo alchimia; l'altra limia, per fare innamorare; e l'altra simia, per fare vedere quello che non è. Le monete qui non sono battute, ma ogni gentiluomo e mercante fa fare in verghette sottili l'oro o vero argento, e quello fa dividere in saggi e spende quelli: e cosí fanno tutti gli abitanti di Campion e Succuir. Si riducono ogni giorno sulla piazza di Campion molti cerrettani, che hanno la scienzia di simia, mediante la quale, circondati da infinita moltitudine di persone, fanno vedere cose maravigliose, come è dire di passare un uomo ch'hanno seco da un canto all'altro con una spada, tagliarli un braccio, fare vedere a tutti il sangue, e simil cose.
Nel capitolo 42 e 53 del primo libro, ove dice messer Marco Polo che sotto la tramontana v'era un gran signore detto Um Can, che vogliono alcuni questo nome dire Preti Ianni nella nostra lingua, e che la sua prencipale sedia era in due regioni, Og e Magog, è da sapere che in tutte quelle carte da navigare che si veggono oggidí, fatte già 200 e 300 anni, v'è posto questo Prete Ianni sotto la tramontana e sopra l'India fra il Gange e l'Indo, e di quello ch'è nell'Etiopia non v'è fatta menzione alcuna. E Abylfada Ismael istesso, descrivendo li confini della regione delle Cine, dice che ha dalla parte di ponente le Indie, da mezogiorno il mare Indico, e da levante il mare Orientale, e da tramontana le provincie de Gogi Magogi, cioè de' Tartari. Descrivendo poi il predetto i luoghi della terra abitabile che circuendo il mare Oceano tocca, dice cosí: "Rivoltasi l'Oceano da levante verso le regione delle Cine e va alla volta di tramontana, e passata finalmente la detta regione se ne giunge a Gogi e Magogi, cioè alli confini degli ultimi Tartari, e di quivi ad alcune terre che sono incognite; e correndo sempre per ponente, passa sopra li confini settentrionali della Rossia e va alla volta di maestro". Di qui è che, avendo udito messer Marco e veduto in carte da navicare il detto Prete Ianni posto sotto la tramontana con le provincie de Gogi e Magogi, descrisse quello di tramontana e tacque di quello dell'Etiopia. E ancor che metta un signore cristiano nell'Etiopia, non dice però il suo nome, anzi dice nel capitolo 38 del terzo libro che ad un suo vescovo, quale lui avea mandato in Ierusalemme, fu fatto un grandissimo oltraggio dal soldano di Adem, che lo fece per dispregio circoncidere: il che manifestamente dimostra che non ebbe mai notizia di quello d'Etiopia, perchè sempre tutti gli Abissini sono stati circoncisi.
Resta ch'io dica ancora in generale alquante cose sopra questo libro, ch'io già essendo giovane udi' piú volte dire dal molto dotto e reverendo don Paolo Orlandino di Firenze, eccellente cosmografo e molto mio amico, che era priore del monasterio di Santo Michele di Murano a canto Venezia, dell'ordine de Camaldoli, che mi narrava averle intese da altri frati vecchi pur del suo monasterio. E questo è come quel bel mappamondo antico miniato in carta pecora, e che oggidí ancor in un grande armaro si vede a canto il lor coro in chiesa, la prima volta fu per uno loro converso del monasterio, quale si dilettava della cognizione di cosmografia, diligentemente tratto e copiato da una belissima e molto vecchia carta marina e da un mappamondo, che già furono portati dal Cataio per il magnifico messer Marco Polo e suo padre; il quale, cosí come andava per le provincie d'ordine del gran Can, cosí aggiugneva e notava sopra le sue carte le città e luoghi che egli ritrovava, come vi è sopra descritto. Ma per ignoranzia d'un altro che dopo lui lo dipinse e forní, aggiugnendovi la descrizione d'uomini e animali di piú sorti e altre sciocchezze, vi furono aggiunte tante cose piú moderne e alquanto ridiculose, che appresso gli uomini di giudicio quasi per molti anni perse tutta la sua auttorità. Ma poi che non molti anni sono per le persone giudiciose s'è incominciato a leggere e considerare alquanto piú diligentemente questo presente libro di messer Marco Polo che fin ora non si avea fatto, e confrontare quello ch'egli scrive con la pittura di lui, immediate si è venuto a conoscere che 'l detto mappamondo fu senza alcuno dubbio cavato da quello di messer Marco Polo, e incominciato secondo quello con molto giuste misure e bellissimo ordine: onde fin al presente giorno è dapoi continuamente stato in tanta venerazione e precio appresso tutta questa città, e coloro massime che si dilettano delle cose di cosmografia, che non è mai giorno che d'alcuno non sia con molto piacere veduto e considerato, e fra gli altri miracoli di questa divina città, nell'andare de' forestieri a vedere i lavori di vetro a Murano, non sia per bella e rara cosa mostrato. E ancor che quivi si vegghino molte cose essere fatte alquanto confusamente e senza ordine, grado o misura (il che si deve attribuire a colui che 'l dipinse e forní), vi si comprendono per ciò di molto belle e degne particularità, non sapute ancora né conosciute meno dagli antichi: come che verso l'antartico, ove Tolomeo e tutti gli altri cosmografi mettono terra incognita senza mare, in questo di San Michele di Murano già tanti anni fatto si vede che 'l mare circonda l'Africa e che vi si può navicare verso ponente, il che al tempo di messer Marco si sapeva, ancor che a quel capo non vi sia posto nome alcuno, qual fu per Portughesi poi a' nostri tempi l'anno 1500 chiamato di Buona Speranza.
Vi si vede appresso l'isola di Magastar, ora detta di San Lorenzo, e quella di Zinzibar, delle quali messer Marco parla ne' capitoli 35 e 36 del terzo libro, e molte altre particularità nelli nomi dell'isole orientali, che dapoi per Portughesi a' tempi nostri sono state scoperte. Dalla parte poi di sotto la nostra tramontana, che ciascuno scrittore e cosmografo di questi e de' passati tempi fin ora vi ha messo e mette mare congelato, e che la terra corra continuatamente fin a 90 gradi verso il polo, sopra questo mappamondo, all'incontro, si vede che la terra va solamente un poco sopra la Norvega e Svezia, e voltando corre poi greco e levante nel paese della Moscovia e Rossia e va diritto al Cataio. E che ciò sia la verità, le navigazioni che hanno fatte gl'Inglesi con le loro navi volendo andare a scoprire il Cataio al tempo del re Odoardo sesto d'Inghilterra, questi anni passati, ne possono far vera testimonianza: perchè nel mezo del loro viaggio, capitate per fortuna ai liti di Moscovia, dove trovarono allora regnare Giovanni Vaschelluich, imperatore della Rossia e granduca di Moscovia, il quale con molto piacere e maraviglia vedutogli fece grandissime carezze, hanno trovato quel mare essere navigabile e non agghiacciato. La qual navigazione (ancor che con l'esito fin ora non sia stata bene intesa), se col spesso frequentarla e col lungo uso e cognizione di que' mari si continuerà, è per fare grandissima mutazione e rivolgimento nelle cose di questa nostra parte del mondo. E tutte queste particolarità senza dubio alcuno furono cavate dalle carte e mappamondo del Cataio, perchè messer Marco non fu mai nel seno Arabico né verso l'isole quivi vicine, e gran parte dell'informazione del terzo libro è da credere che gli fusse data da marinari di quelli mari d'India, li quali grossamente gli dicevano per arbitrio loro quanto era da un'isola all'altra (e mille e duemila miglia a loro non pareva troppo gran cosa); e anche per qual vento vi s'andasse non sapevano cosí chiaramente come al presente si sa, per le carte sí diligentemente e con tanta misura fatte e con li venti e con li gradi. E vi sono anco de' nomi di una medesima provincia duplicati, di che il lettore non piglierà ammirazione; e alcuna volta in cambio d'isole dice regni: come nella Zava minore, al capitolo decimo del terzo libro, mette otto regni, li quali a giudicio d'uomini pratichi sono isole, come saria dire che il regno di Samatra (chiamata da lui Samara) è quella grandissima isola di Sumatra, e cosí di molte altre le quali al presente ci sono incognite, che nell'avenire, col tempo e per la navigazione de' Portughesi, facilmente si saperanno.
Si conosce ancora come al suo tempo non v'era el bussolo e la calamita a' nostri tempi ritrovata, cosa tanto maravigliosa e rara, né si sapeva la elevazione del polo con li gradi come ora si sa, ma grossamente guardandolo dicevano: la stella tramontana può essere tanti cubiti o braccia alta dal mare.
Il fabricare delle navi, nel principio del terzo libro, è simile a quello che usano nell'isole delle Moluche e della China.
Ultimamente nel fine del terzo libro, ove parla della Rossia e del regno delle Tenebre, come quello che in varii mappamondi antichi è posto per fine del nostro abitabile sotto la tramontana non s'inganna punto del sito del detto regno, nelli mesi però ch'egli scrive dell'inverno.
E questo basti per ora per dichiarazione d'alcuni luoghi del libro di messer Marco Polo.

Di Venezia, a' sette di luglio MDLIII.


Gio. Battista Ramusio alli lettori

Queste longitudini e latitudini che qui sotto descriveremo sono state cavate dal libro del signore Abilfada Ismael, una copia del quale io mi ritrovo nelle mani, e tengo molto cara; e serviranno ad alcune terre e luoghi nominati nel presente volume, a questo fine publicate da noi, acciò che 'l benigno lettore gusti in qualche parte della beltà del libro del predetto signore Ismael, venuto divinamente in luce a' nostri tempi.

Longitudini Latitudini
Mosu1 67 20 33 35
Merdin 64 8 37 55
Assamchief 64 37 37 35
Cayssaria 60 8 40 8
Esdrun 69 8 41 8
64 8 42 30
66 8 39 15
Mus 64 8 39 8
Biffis 65 30 38 45
Argis 67 5 38 30
66 20 40 8
68 5 40 35
Vastan 67 30 37 50
Choi 69 40 37 40
70 8 40 8
Merend 73 8 37 30
72 45 37 50
Tauris 73 8 39 10
Tiflis 73 8 43 8
62 8 42 8
Sultania 76 8 39 8
Cassibin 75 8 36 8
75 8 37 8
Como 75 40 34 45
74 15 35 40
77 8 34 10
Sirac 78 8 29 36
Samarcant 89 8 40 8
89 30 37 50
88 20 40 8
Cambalú 144 8 35 25
Lor, regione
di Persia 74 32




Proemio primo sopra il libro di messer Marco Polo, gentiluomo di Venezia,
fatto per un genovese.

Signori, principi, duchi, marchesi, conti, cavallieri e gentiluomini, e ciascuna persona che ha piacere e desidera di conoscer varie generazioni di uomini e diverse regioni e paesi del mondo e saper li costumi e usanze di quelli, leggete questo libro, perchè in esso troverete tutte le grandi e maravigliose cose che si contengono nelle Armenie maggiore e minore, Persia, Media, Tartaria e India, e in molte altre provincie dell'Asia, andando verso il vento di greco levante e tramontana; le qual tutte per ordine in questo libro si narrano secondo che 'l nobil messer Marco Polo, gentiluomo veneziano, le ha dettate, avendole con gli occhi proprii vedute. E perchè ve ne sono alcune le quali non ha vedute, ma udite da persone degne di fede, però nel suo scrivere le cose per lui vedute mette come vedute, e le udite come udite: il che fu fatto acciò che questo nostro libro sia vero e giusto senz'alcuna bugia, e ciascun che 'l leggerà overo udirà gli dia piena fede, perchè il tutto è verissimo. Credo certamente che non sia cristiano né pagano alcuno al mondo che abbia tanto cercato né camminato per quello com'il prefato messer Marco Polo, perciò che dal principio della sua gioventú sino all'età di quaranta anni ha conversato in dette parti. E ora, ritrovandosi prigione per causa della guerra nella città di Genova, non volendo star ozioso, gli è parso, a consolazion de' lettori, di voler metter insieme le cose contenute in questo libro, le quali son poche rispetto alle molte e quasi infinite ch'egli averia potuto scrivere, s'egli avesse creduto di poter ritornar in queste nostre parti. Ma pensando esser quasi impossibile di partirsi mai dall'obedienza del gran Can re de' Tartari, non scrisse sopra i suoi memoriali se non alcune poche cose, le quali ancora gli pareva grande inconveniente che andassero in oblivione, essendo cosí mirabili, e che mai da alcun altro erano state scritte, acciò che quelli che mai le sono per vedere, al presente col mezo di questo libro le conoschino e intendino qual fu fatto l'anno del MCCXCVIII.


Proemio secondo sopra il libro di messer Marco Polo, fatto da fra Francesco Pipino bolognese dell'ordine de' frati predicatori, quale lo tradusse in lingua latina e abbreviò, del MCCCXX.

Per prieghi di molti reverendi padri miei signori, io tradurrò in lingua latina dalla volgare il libro del nobile, savio e onorato messer Marco Polo, gentiluomo di Venezia, delle condizioni e usanze delle regioni e paesi dell'Oriente, dilettandosi ora i prefati miei signori piú di leggerlo in lingua latina che nella volgare. E acciò che la fatica di questo tradurre non paia vana e inutile, ho considerato che pel leggere di questo libro, che per me sarà fatto latino, i fedel uomini che son fuori d'Italia possino ricever merito da Dio di molte grazie, però ch'essi, vedendo le maravigliose operazioni d'Iddio, si potranno molto maravigliare della sua virtú e sapienza; e considerando che tanti popoli pagani sono pieni di tanta cecità e orbezza e di tante spurcizie, li cristiani ringraziarann'Iddio il qual, illuminando i suoi fedeli di luce di verità, s'ha degnato di voler cavargli da cosí pericolose tenebre, menandogli nel suo maraviglioso lume di gloria; o che que' cristiani, avendo compassione e cordoglio dell'ignoranza de' detti pagani, pregherann'Iddio per l'illuminazione de' cuori di quelli; o che per questo libro la durezza e ostinazione de' non devoti cristiani si confonderà, vedendo gl'infedeli popoli piú pronti ad adorare gl'idoli falsi che molti cristiani il Dio vero; o forse che alcuni religiosi per amplificare la fede cristiana, vedendo che 'l nome del nostro Signor dolcissimo è incognito in tanta moltitudine di popoli, si commoveranno ad andare in quei luoghi per illuminar quelle accecate nazioni degl'infedeli: nel qual luogo, secondo che dice l'Evangelio, è molta biada e pochi lavoratori. E acciò che le cose che noi non usiamo né avemo udite, le quali sono scritte in molte parti di questo libro, no paiano incredibili a tutti quelli che le leggeranno, si dinota e fa manifesto che 'l sopradetto messer Marco, rapportator di queste cosí maravigliose cose, fu uomo savio, fedele, devoto e adornato d'onesti costumi, avendo buona testimonianza da tutti quelli che lo conoscevano, sí che pel merito di molte sue virtú questo suo rapportamento è degno di fede; e messer Nicolò suo padre, uomo di tanta sapienza, similmente le confermava; e messer Maffio suo barba (del quale questo libro fa menzione), come vecchio devoto e savio, essendo sul ponto della morte, familiarmente parlando affermò al suo confessore sopra la conscienza sua che questo libro in tutte le cose conteneva la verità. Il che avend'io inteso da quelli che gli hanno conosciuti, piú sicuramente e piú volentieri m'affaticarò a traslatarlo, per consolazione di quelli che lo leggeranno, e a laude del Signor nostro Iesú Cristo, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. Qual libro fu scritto per il detto messer Marco del MCCXCVIII, trovandosi prigione nella città di Genova, e si parte in tre libri, i quali si distinguono per proprii capitoli.



Dei viaggi di messer Marco Polo, gentiluomo veneziano


LIBRO PRIMO


Dovete adunque sapere che nel tempo di Balduino, imperatore di Constantinopoli, dove allora soleva stare un podestà di Venezia per nome di messer lo dose, correndo gli anni del N.S. 1250, messer Nicolò Polo, padre di messer Marco, e messer Maffio Polo, fratello del detto messer Nicolò, nobili, onorati e savi di Venezia, trovandosi in Constantinopoli con molte loro grandi mercanzie, ebbero insieme molti ragionamenti, e finalmente deliberorno andar nel mar Maggiore, per vedere se potevan accrescere il loro capitale. E comprate molte bellissime gioie e di gran prezzo, partendosi di Constantinopoli navigorno per il detto mar Maggiore ad un porto detto Soldadia, dal quale poi presero il cammino per terra alla corte d'un gran signor de' Tartari occidentali detto Barcha, che dimorava nella città di Bolgara e Assara, ed era reputato un de' piú liberali e cortesi signori che mai fosse stato fra' Tartari. Costui della venuta di questi fratelli ebbe grandissimo piacere e fece loro grande onore; quali avendo mostrate le gioie portate seco, vedendo che gli piacevano, gliele donarono liberamente. La cortesia cosí grande usata con tant'animo di questi due fratelli fece molto maravigliare detto signore, qual, non volendo essere da loro vinto di liberalità, fece a loro donar il doppio della valuta di quelle, e appresso grandissimi e ricchissimi doni.
Ed essendo stati un anno nel paese del detto signore, volendo ritornar a Venezia, subitamente nacque guerra tra il predetto Barcha e un altro nominato Alaú, signore de' Tartari orientali. Gli eserciti de' quali avendo combattuto insieme, Alaú ebbe la vittoria e l'esercito di Barcha n'ebbe grandissima sconfitta; per la qual cagione, non essendo sicure le vie, non poterno ritornar a casa per la strada ch'erano venuti. E avendo dimandato come essi potessero ritornar a Constantinopoli, furno consigliati d'andar tanto alla volta di levante che circondassero il reame di Barcha per vie incognite: e cosí vennero ad una città detta Ouchacha, qual è nel fin del regno di questo signor de' Tartari di ponente. E partendosi da quel luogo e andando piú oltre, passorno il fiume Tigris, ch'è uno de' quattro fiumi del paradiso e poi un deserto di 17 giornate, non trovando città, castello overo altra fortezza, se non Tartari che vivono alla campagna in alcune tende, con li loro bestiami. Passato il deserto, giunsero ad una buona città detta Bocara, e la provincia similmente Bocara, nella regione di Persia, la qual signoreggiava un re chiamato Barach: nel qual luogo essi dimororno tre anni, che non poterno ritornar indietro né andar avanti, per la guerra grande ch'era fra li Tartari.
In questo tempo un uomo dotato di molta sapienzia fu mandato per ambasciatore dal sopradetto signor Alaú al gran Can, ch'è il maggior re di tutti i Tartari, qual sta ne' confini della terra fra greco e levante, detto Cublai Can. Il qual, essendo giunto in Bocara e trovando i sopradetti due fratelli, i quali già pienamente avevano imparato il linguaggio tartaresco, fu allegro smisuratamente, però ch'egli non avea veduto altre volte uomini latini, e desiderava molto di vederli: e avendo con loro per molti giorni parlato e avuto compagnia, vedendo i graziosi e buoni costumi loro, gli confortò che andassino seco insieme al maggior re de' Tartari, che gli vederia molto volentieri, per non esservi mai stato alcun latino, promettendo loro che riceveriano da lui grandissimo onore e molti beneficii. I quali, vedendo che non poteano ritornar a casa senza grandissimo pericolo, raccomandandosi a Dio, furono contenti d'andarvi, e cosí cominciarono a camminare col detto ambasciatore alla volta di greco e tramontana, avendo seco molti servitori cristiani ch'avevano menati da Venezia. E un anno intiero stettero ad aggiungere alla corte del prefato maggior re de' Tartari, e la cagione perchè indugiassero e stessero tanto tempo in questo viaggio fu per le nevi e per le acque de' fiumi ch'erano molto cresciute, sí che, camminando, bisognò che aspettassero fino a tanto che le nevi si disfacessero e che l'acque discrescessero. E trovorno molte cose mirabili e grandi, delle quali al presente non si fa menzione, perchè sono scritte per ordine da messer Marco, figliuolo di messer Nicolò, in questo libro seguente.
I quali messer Nicolò e messer Maffio essendo venuti davanti il prefato gran Can, il qual era molto benigno, gli ricevette allegramente e fece grandissimo onore e festa della loro venuta, perciochè mai in quelle parti erano stati uomini latini; e cominciolli a dimandare delle parti di ponente e dell'imperatore de' Romani e degli altri re e principi cristiani, e della grandezza, costumi e possanza loro, e come ne' suoi reami e signorie osservavano giustizia, e come si portavano nelle cose della guerra; e sopra tutto gli domandò diligentemente del papa de' cristiani, delle cose della Chiesa e del culto della fede cristiana. E messer Nicolò e messer Maffio, come uomini savi e prudenti, gli esposero la verità, parlandoli sempre bene e ordinatamente d'ogni cosa in lingua tartara, che sapevano benissimo: per il che spesse volte detto gran Can comandava che venissero a lui, ed erano molto grati avanti gli occhi di quello.
Avendo adunque il gran Can inteso tutte le cose de' latini, come li detti due fratelli gli avevano saviamente esposto, si era molto sodisfatto; e proponendo nell'animo suo di volerli mandar ambasciatori al papa, volse aver prima il consiglio sopra di questo de' suoi baroni, e dopo, chiamati a sé i detti due fratelli, gli pregò che per amor suo volessero andar al papa de' Romani, con uno de' suoi baroni che si domandava Chogatal, a pregarlo che li piacesse di mandargli cento uomini savi e bene instrutti della fede cristiana e di tutte le sette arti, i quali sapessero mostrar a' suoi savi, con ragioni vere e probabili, che la fede de' cristiani era la migliore e piú vera di tutte l'altre, e che gli dei de' Tartari e li suoi idoli qual adorano nelle loro case erano demonii, e ch'egli e gli altri d'Oriente erano ingannati nell'adorare de' suoi dei. E oltre di questo commise alli detti fratelli che nel ritorno li portassero di Ierusalem dell'olio della lampada che arde sopra il sepolcro del nostro Signor messer Iesú Cristo, nel qual aveva grandissima devozione, e teneva quello essere vero Iddio, avendolo in somma venerazione. Messer Nicolò e messer Maffio, udito quanto gli veniva comandato, umilmente inginocchiati dinanzi al gran Can dissero ch'erano pronti e apparecchiati di far tutto ciò che gli piaceva; qual li fece scriver lettere in lingua tartaresca al papa di Roma e gliele diede, e ancora comandò che li fosse data una tavola d'oro, nella qual era scolpito il segno reale, secondo l'usanza della sua grandezza: e qualunche persona che porta detta tavola deve essere menata e condotta di luogo a luogo da tutti i rettori delle terre sottoposte all'imperio, sicura con tutta la compagnia; e per il tempo che vuole dimorar in alcuna città, fortezza o castello o villa, a lei e a tutti i suoi gli vien provisto e fatte le spese e date tutte l'altre cose necessarie.
Ora, essendo essi dispacciati cosí onoratamente, pigliata licenza dal gran Can, cominciorno a camminare, portando con esso loro le lettere e la tavola d'oro; e avendo cavalcato insieme venti giornate, il barone sopradetto s'ammalò gravemente, per volontà del quale e per consiglio di molti lasciandolo seguitorno il loro viaggio, e per la tavola d'oro ch'aveano erano in ogni parte ricevuti con grandissimo favore, e fattoli le spese e datoli le scorte. E per i gran freddi, nevi e giazze, e per l'acque de' fiumi che trovorno molto cresciute in molti luoghi, fu necessario di ritardare il lor viaggio, nel quale stettero tre anni avanti che potessero venire ad un porto dell'Armenia minore detto la Giazza; dalla qual dipartendosi per mare vennero in Acre, del mese d'aprile nell'anno 1269. Giunti che furono in Acre, e inteso che Clemente papa quarto nuovamente era morto, si contristorno fortemente. Era in Acre allora legato di quel papa uno nominato messer Tebaldo de' Vesconti di Piacenza, al qual essi dissero tutto ciò che tenevano d'ordine del gran Can; costui gli consigliò che al tutto aspettassero la elezione del papa, e che poi esequiriano la loro ambasciaria. Li quali fratelli, vedendo che questo era il meglio, dissero che cosí fariano, e che fra questo mezo volevano andar a Venezia a veder casa sua. E partiti d'Acre con una nave, vennero a Negroponte e di lí a Venezia dove giunti, messer Nicolò trovò che sua moglie era morta, la quale nella sua partita aveva lasciata gravida, e avea partorito un figliuolo al qual avean posto nome Marco, il qual era già di anni 19: questo è quel Marco che ordinò questo libro, il quale manifestarà in esso tutte quelle cose le quali egli vidde.
In questo mezo la elezione del papa si indugiò tanto ch'essi stettero in Venezia due anni continuamente aspettandola; quali essendo passati, messer Nicolò e messer Maffio, temendo che 'l gran Can non si sdegnasse per la troppo dimoranza loro, overo credesse che non dovessino tornar piú da lui, ritornarono in Acre, menando seco Marco sopradetto; e con parola del prefato legato andorno in Ierusalem a visitar il sepolcro di messer Iesú Cristo, dove tolsero dell'oglio della lampada, sí come dal gran Can gli era stato comandato. E pigliando le lettere del detto legato drizzate al gran Can, nelle quali si conteneva come essi avevano fatto l'officio fedelmente, e che ancora non era eletto il papa de' cristiani, andorno alla volta del porto della Giazza. Nel medesimo tempo che costoro si partirono di Acre, il prefato legato ebbe messi d'Italia dalli cardinali com'egli era stato eletto papa, e si mise nome Gregorio decimo: qual, considerando che al presente che gl'era fatto papa poteva amplamente satisfar alle dimande del gran Can, spacciò immediate sue lettere al re d'Armenia, dandoli nuova della sua elezione e pregandolo che, se gli due ambasciatori che andavano al gran Can non fossero partiti, gli facesse ritornare a lui. Queste lettere gli trovorno ancora in Armenia, li quali con grandissima allegrezza volsero tornar in Acre; e per il detto re gli fu data una galea e uno ambasciatore, che s'allegrasse col sommo pontefice. Alla presenza del quale gionti, furono da quello ricevuti con grande onore, e dapoi espediti con lettere papali; con li quali volse mandar due frati dell'ordine de' predicatori, ch'erano gran teologi e molto letterati e savii, e allora si trovavano in Acre, de' quali uno era detto fra Nicolò da Vicenza, l'altro fra Guielmo da Tripoli: e a questi dette lettere e privilegi, e autorità di ordinare preti e vescovi e di far ogni absoluzione, come la sua persona propria; e appresso gli dette presenti di grandissima valuta e molti belli vasi di cristallo per appresentare al gran Can. E con la sua benedizione si partirono e navigorno alla dritta al porto della Giazza, e di lí per terra in Armenia, dove intesero che 'l soldan di Babilonia, detto Benhochdare, era venuto con grande esercito, e avea scorso e abbruciato gran paese dell'Armenia: della qual cosa impauriti, li due frati, dubitando della vita loro, non volsero andar piú avanti, ma, consegnate tutte le lettere e li presenti avuti dal papa alli prefati messer Nicolò e messer Maffio, rimasero col maestro del Tempio, con il quale si tornorno indietro.
Messer Nicolò e messer Maffio e messer Marco, partiti d'Armenia, si misero in viaggio verso il gran Can, non stimando pericolo o travaglio alcuno. E attraversando deserti di lunghezza di molte giornate e molti mali passi, andorno tanto avanti, sempre alla volta di greco e tramontana, che intesero il gran Can essere in una grande e nobil città detta Clemenfu; ad arrivare alla quale stettero anni tre e mezo, però che nell'inverno, per le nevi grandi e per il molto crescere dell'acque e per i grandissimi freddi, poco potevan camminare. Il gran Can, avendo presentita la venuta di costoro, e come erano molto travagliati, per quaranta giornate gli mandò ad incontrare, e fecegli preparare in ogni luogo ciò che gli facea bisogno, di modo che con l'aiuto d'Iddio si condussero alla fine alla sua corte: dove gionti, gli accettò con la presenza di tutti i suoi baroni, con grandissima onorificenzia e carezze. Messer Nicolò, messer Maffio e messer Marco, come viddero il gran Can, s'inginocchiarono distendendosi per terra, ma lui gli comandò che si levassero e stessero in piedi, e che gli narrassero come erano stati in quel viaggio, e tutto ciò ch'avevano fatto con la santità del papa: i quali avendogli detto il tutto, e con grand'ordine ed eloquenza, furono ascoltati con sommo silenzio. Dopo gli diedero le lettere e li presenti di papa Gregorio, quali udite che ebbe il gran Can, laudò molto la fedel solecitudine e diligenza de' detti ambasciatori, e riverentemente ricevendo l'oglio della lampada del sepolcro del nostro Signor Iesú Cristo, comandò che fosse governato con grandissimo onore e riverenza. Dopo, dimandando il gran Can di Marco chi egli era, e rispondendogli messer Nicolò ch'egli era servo di sua Maestà, ma suo figliuolo, l'ebbe molto a grato, e fecelo scrivere tra gli altri suoi famigliari onorati: per la qual cosa da tutti quelli della corte era tenuto in gran conto ed existimazione; e in poco tempo imparò i costumi de' Tartari, e quattro linguaggi variati e diversi, ch'egli sapea scrivere e leggere in ciascuno. Dove che 'l gran Can, volendo provar la sapienza del detto messer Marco, mandollo per una facenda importante del suo reame ad una città detta Carazan, nel cammino alla qual consumò sei mesi: quivi si portò tanto saviamente e prudentemente in tutto ciò che gli era stato commesso, che il gran Can l'ebbe molto accetto. E perchè lui si dilettava molto di udir cose nuove, e de' costumi e delle usanze degli uomini e condizioni delle terre, messer Marco, per ciascuna parte che egli andava, cercava d'esser informato con diligenza, e facendo un memoriale di tutto ciò ch'intendeva e vedeva, per poter compiacere alla voluntà del detto gran Can. E in ventisei anni ch'egli stette suo familiare, fu sí grato a quello che continuamente veniva mandato per tutti i suoi reami e signorie per ambasciatore per fatti del gran Can, e alcune volte per cose particular di esso messer Marco, ma di volontà e ordine del gran Can. Questa adunque è la ragione che 'l prefato messer Marco imparò e vidde tante cose nuove delle parti d'oriente, le quali diligentemente e ordinatamente si scriveranno qui di sotto.
Messer Nicolò, Maffio e Marco essendo stati molti anni in questa corte, trovandosi molto ricchi di gioie di gran valuta e d'oro, un estremo desiderio di rivedere la sua patria di continuo era lor fisso nell'animo, e ancor che fossero onorati e accarezzati, nondimeno non pensavan mai ad altro che a questo. E vedendo il gran Can esser molto vecchio, dubitavan che se 'l morisse avanti il loro partire, che per la lunghezza del cammino e infiniti pericoli che li soprastavano mai piú potessino tornare a casa, il che, vivendo lui, speravan di poter fare. E per tanto messer Nicolò un giorno, tolta occasione vedendo il gran Can esser molto allegro, inginocchiatosi, per nome di tutti tre gli dimandò licenza di partirsi: alla qual parola si turbò tutto, e gli disse che causa gli moveva a voler mettersi a cosí lungo e pericoloso cammino, nel qual facilmente potriano morire; e s'era per causa di robba o d'altro, gli voleva dare il doppio di quello che aveano a casa, e accrescerli in quanti onori che loro volessero, e per l'amor grande che li portava li denegò in tutto il partirsi.
In questo tempo accadette che morse una gran regina detta Bolgana, moglie del re Argon, nelle Indie orientali, la quale nel punto della sua morte dimandò di grazia al re, e cosí fece scriver nel suo testamento, che alcuna donna non sentasse nella sua sedia né fosse moglie di quello se non era della stirpe sua, la qual si trovava al Cataio, dove regnava il gran Can. Per la qual cosa il re Argon elesse tre savii suoi baroni, un de' quali si domandava Ulatay, l'altro Apusca, il terzo Goza, e li mandò con gran compagnia per ambasciatori al gran Can, dimandandoli una donzella della progenie della regina Bolgana. Il gran Can, ricevutili allegramente e fatta trovare una giovane di anni 17, detta Cogatin, del parentado della detta regina, ch'era molto bella e graziosa, la fece mostrar alli detti ambasciatori: la qual piacque loro sommamente. Ed essendo state preparate tutte le cose necessarie e una gran brigata per accompagnar con onorificenza questa novella sposa al re Argon, gli ambasciatori, dopo tolta grata licenza dal gran Can, si partirono cavalcando per spazio di mesi otto per quella medesima via ch'erano venuti. E nel cammino trovarono che, per guerra nuovamente mossa fra alcuni re de' Tartari, le strade erano serrate, e non potendo andar avanti, contra 'l loro volere furono astretti di ritornar di nuovo alla corte del gran Can, al qual raccontorono tutto ciò che era loro intravenuto.
In questo tempo messer Marco, ch'era ritornato dalle parti d'India, dove era stato con alcune navi, disse al gran Can molte nuove di quelli paesi e del viaggio che egli avea fatto, e fra l'altre che molto sicuramente si navigavano que' mari. Le qual parole essendo venute all'orecchie degli ambasciatori de re Argon, desiderosi di tornarsene a casa, dalla quale erano passati anni tre che si trovavano absenti, andorno a parlar con li detti messer Nicolò, Maffio e Marco, i quali similmente trovorno desiderosissimi di riveder la loro patria: e posto fra loro ordine che detti tre ambasciatori con la regina andassero al gran Can e dicessero che, potendosi andar per mare sicuramente fino al paese del re Argon, manco spesa si faria per mare e il viaggio saria piú corto (sí come messer Marco avea detto, che avea navigato in que' paesi); sua Maestà fosse contenta di farli questa grazia, che andassero per mare, e che questi tre latini, cioè messer Nicolò, Maffio e Marco, che avevano pratica del navigare detti mari, dovessero accompagnarli fino al paese del re Argon. Il gran Can, udendo questa loro dimanda, dimostrava gran dispiacere nel volto, perciò che non voleva che questi tre latini si partissero; nondimeno, non potendo far altrimenti, consentí a quanto li richiesero: e se non era causa cosí grande e potente che l'astringesse, mai li detti latini si partivano. Per tanto fece venire alla sua presenza messer Nicolò, Maffio e Marco, e gli disse molte graziose parole dell'amor grande che gli portava, e che gli promettessero che, stati che fossero qualche tempo in terra di cristiani e a casa sua, volessero ritornare a lui. E gli fece dar una tavola d'oro, dove era scritto un comandamento, che fossero liberi e sicuri per tutto il suo paese, e che in ogni luogo fossero fatte le spese a loro e alla sua famiglia, e datagli scorta, che sicuramente potessero passare, ordinando che fossero suoi ambasciatori al papa, re di Francia, di Spagna e altri re cristiani. Poi fece preparar quattordici navi, ciascuna delle quali avea quattro arbori, e potevano navigar con nove vele, le quali come fossero fatte si potria dire, ma, per esser materia lunga, si lascia al presente. Fra le dette navi ve ne erano almanco quattro o cinque che avevano da dugentocinquanta in dugentosessanta marinari. Sopra queste navi montorno gli ambasciatori, la regina e messer Nicolò, Maffio e Marco, tolta prima licenza dal gran Can, qual gli fece dare molti rubini e altre gioie finissime e di grandissima valuta, e appresso la spesa che gli bastasse per due anni.
Costoro, avendo navigato circa tre mesi, vennero ad una isola verso mezodí nominata Iava, nella quale sono molte cose mirabili che si diranno nel processo del libro. E partiti dalla detta isola navigorono per il mare d'India mesi deciotto, avanti che potessero arrivare al paese del re Argon, dove andavano; e in questo viaggio viddero diverse e varie cose, che saranno similmente narrate in detto libro. E sappiate che, dal dí che introrno in mare fino al giunger suo, morirono, fra marinari e altri ch'erano in dette navi, da seicento persone; e de' tre ambasciatori non rimase se non uno, che avea nome Goza, e di tutte le donne e donzelle non morí se non una. Giunti al paese del re Argon, trovorno ch'egli era morto, e ch'uno nominato Chiacato governava il suo reame per nome del figliuolo, che era giovane: al qual parse di mandar a dire come di ordine del re Argon avendo condotta quella regina, quel che gli pareva che si facesse. Costui gli fece rispondere che la dovessero dare a Casan, figliuolo del re Argon, il qual allora si trovava nelle parti dell'Arbore Secco, ne' confini della Persia, con sessantamila persone, per custodia di certi passi, acciò che non v'intrassero certe genti nemiche a depredare il suo paese: e cosí loro fecero. Il che fornito, messer Nicolò, Maffio e Marco tornarono a Chiacato, perciochè de lí dovea essere il suo camino, e quivi dimorarono nove mesi. Dapoi avendo tolta licenza, Chiacato gli fece dare quattro tavole d'oro, ciascuna delle quali era lunga un cubito e larga cinque dita, ed erano d'oro, di peso di tre o quattro marche l'una: ed era scritto in quelle che, in virtú dell'eterno Iddio, il nome del gran Can fosse onorato e laudato per molti anni, e ciascuno che non obedirà sia fatto morire e confiscati i suoi beni. Dopo si conteneva che quelli tre ambasciatori fossero onorati e serviti per tutte le terre e paesi sí come fosse la propria sua persona, e che gli fosse fatto le spese, dati cavalli e le scorte, come fosse necessario. Il che fu amplamente esequito, perciò che ebbero e spese e cavalli e tutto ciò che gli era di bisogno, e molte volte avevano dugento cavalli, piú e manco, secondo che accadeva; né si poteva far altramente, perchè questo Chiacato non aveva riputazione, e gli popoli si mettevan a far molti mali e insulti; il che non averian avuto ardire di fare se fossero stati sotto un suo vero e proprio signore.
Faccendo messer Nicolò, Maffio e Marco questo viaggio, intesero come il gran Can era mancato di questa vita, il che gli tolse del tutto la speranza di poter piú tornar in quelle parti; e cavalcorno tanto per le sue giornate che vennero in Trabisonda, e di lí a Constantinopoli e poi a Negroponte; e finalmente sani e salvi con molte ricchezze giunsero in Venezia, ringraziando Iddio che gli aveva liberati da tante fatiche e preservati da infiniti pericoli: e questo fu dell'anno 1295.
E le cose di sopra narrate sono state scritte in luogo di proemio, che si suol far a ciascun libro, acciò che chi lo leggerà conosca e sappia che messer Marco Polo puoté sapere e intendere tutte queste cose in anni ventisei che 'l dimorò nelle parti d'oriente.

Dell'Armenia minore e del porto della Giazza, e delle mercanzie che vi son condotte,
e de' confini di detta provincia.
Cap. 2.

Per dar principio a narrar delle provincie che messer Marco Polo ha viste nell'Asia, e delle cose degne di notizia che in quelle ha ritrovate, dico che sono due Armenie, una detta minore e l'altra maggiore. Del reame dell'Armenia minore è signore un re che abita in una città detta Sebastoz, il qual osserva giustizia in tutto il suo paese; e vi sono molte città, fortezze e castelli, e d'ogni cosa è molto abondevole e di solazzo, e molte cacciagioni di bestie e d'uccelli; è ben vero che non vi è troppo buon aere. I gentiluomini di Armenia anticamente solevan essere molto buoni combattitori e valenti con l'arme in mano; ora son divenuti gran bevitori, e spaurosi e vili. Sopra il mare è una città detta la Giazza, terra di gran traffico: al suo porto vengono molti mercanti da Venezia, da Genova e da molt'altre regioni, con molte mercanzie di diverse speciarie, panni di seta e di lana e di altre preziose ricchezze; e anco quelli che vogliono intrare piú dentro nelle terre di levante, vanno primieramente al detto porto della Giazza. I confini dell'Armenia minore son questi: verso mezodí è la Terra di Promissione, che vien tenuta dalli saraceni; da tramontana i Turcomani, che si chiamano Caramani; e da greco levante Cayssaria e Sevasta e molte altre città, tutte suddite a' Tartari; verso ponente vi è il mare, per il qual si naviga alle parti de' cristiani.

Della provincia detta Turcomania, dove sono le città di Cogno, Cayssaria e Sevasta, e delle mercanzie che vi si trovano.
Cap. 3.

Nella Turcomania sono tre sorti di genti, cioè Turcomani, i quali adorano Macometto e tengono la sua legge: sono genti semplici e di grosso intelletto, abitano nelle montagne e luoghi inaccessibili, dove sanno esser buoni pascoli, perchè vivono solamente di animali; e ivi nascono buoni cavalli, detti turcomani, e buoni muli che sono di gran valuta; e l'altre genti sono Armeni e Greci, che stanno nelle città e castelli e vivono di mercanzie e arti: e quivi si lavorano tapedi ottimi e li piú belli del mondo, ed eziandio panni di seta cremesina e d'altri colori belli e ricchi. E vi sono fra l'altre città Cogno, Cayssaria e Sevasta, dove il glorioso messer san Biagio patí il martirio. Tutti sono sudditi al gran Can, imperatore de' Tartari orientali, il quale gli manda rettori.
Poi ch'abbiamo detto di questa provincia, diciamo della grande Armenia.

Dell'Armenia maggiore, dove son le città di Arcingan, Argiron, Darzizi; del castel Paipurth, e del monte dell'arca di Noè; de' confini di detta provincia e del fonte dell'oglio.
Cap. 4.

L'Armenia maggiore è una gran provincia, che comincia da una città nominata Arcingan, nella quale si lavorano bellissimi bocassini di bambagio, e vi si fanno molte altre arti che a narrarle saria lungo, e hanno li piú belli e migliori bagni d'acque calde che scaturiscono che trovar si possano. Sono le genti per la maggior parte Armeni, ma sottoposte a' Tartari. In questa provincia sono molte città e castelli, e la piú nobil città è Arcingan, la quale ha arcivescovo; l'altre sono Argiron e Darziz. È molto gran provincia, e in quella nell'estate sta una parte dell'esercito di Tartari di levante, perchè vi trovano buoni pascoli per le lor bestie; ma l'inverno non vi stanno per il gran freddo e neve, perchè vi nevica oltre modo e le bestie non vi possono vivere: e però li Tartari si partono l'inverno e vanno verso mezodí per il caldo, per causa di pascoli ed erbe per le sue bestie. E in un castello che si chiama Paipurth è una ricchissima minera d'argento, e trovasi questo castello andando da Trebisonda in Tauris. E nel mezo dell'Armenia maggiore è uno grandissimo e altissimo monte, sopra il quale si dice essersi firmata l'arca di Noè: e per questa causa si chiama il monte dell'arca di Noè, ed è cosí largo e lungo che non si potria circuire in due giorni, e nella sommità di quello vi si truova di continuo tant'alta la neve che niuno vi può ascendere, perchè la neve non si liquefa in tutto, ma sempre una casca sopra l'altra e cosí accresce. Ma nel descendere verso la pianura, per l'umidità della neve la qual liquefatta scorre giú, talmente il monte è grasso e abondante d'erbe che nell'estate tutte le bestie dalla lunga circonstanti si riducono a stanziarvi, né mai vi mancano; e anco per il discorrere della neve si fa gran fango sopra il monte.
Ne' confini veramente dell'Armenia verso levante sono queste provincie: Mosul, Meridin, delle quali si dirà di sotto, e ve ne sono molte altre che saria lungo a raccontarle. Ma verso la tramontana è Zorzania, ne' confini della quale è una fonte dalla qual nasce olio in tanta quantità che molti camelli vi si potrebbono cargare, e non è buono da mangiare, ma da ungere gli uomini e gli animali per la rogna e per molte infirmità, e anco per brusciare. Vengono da parti lontane molti a pigliare questo oglio, e le contrate vicine non brusciano di altra sorte.
Avendosi detto dell'Armenia maggiore, ora diciamo di Zorzania

Della provincia di Zorzania e de' suoi confini sopra il mar Maggiore e sopra il mar Ircano, ora detto di Abaccú, dove è quel passo stretto sopra il qual Alessandro fabricò le porte di ferro; e del miracolo della fontana del monasterio di San Lunardo; della città di Tiflis.
Cap. 5.

In Zorzania è un re che in ogni tempo si chiama David Melich, che in lingua nostra si dice re David; una parte della qual provincia è soggetta al re de' Tartari, e l'altra parte (per le fortezze che l'ha) al re David. In questa provincia tutti i boschi sono di legni di bosso, e guarda due mari, uno de' quali si chiama il mar Maggiore, quale è dalla banda di tramontana, l'altro di Abaccú verso l'oriente, che dura nel suo circuito per duomila e ottocento miglia ed è come un lago, perchè non si mischia con alcun altro mare. E in quello sono molte isole con belle città e castelli, parte delle quali sono abitate dalle genti che fuggirono dalla faccia del gran Tartaro, quando l'andava cercando pel regno overo per la provincia di Persia qual città e terre si reggevano per commune, per volerle destruggere: e le genti fuggendo si redussero a queste isole e ai monti, dove credevano star piú sicuri; ve ne sono anco di deserte di dette isole. Detto mare produce molti pesci, e specialmente storioni, salmoni alle bocche de' fiumi e altri gran pesci. Mi fu detto che anticamente tutti i re di quella provincia nascevano con certo segno dell'aquila sopra la spalla destra; e sono in quella belle genti e valorose nel mare, e buoni arcieri e franchi combattitori in battaglia; e sono cristiani che osservano la legge de' Greci, e portano i capelli corti a guisa di chierici di Ponente.
Questa è quella provincia nella qual il re Alessandro non poté mai intrare quando volse andare alle parti di tramontana, perchè la via è stretta e difficile, e da una banda batte il mare, dall'altra sono monti alti e boschi che non vi si può passar a cavallo: ed è molto stretta intra il mare e i monti, di lunghezza di quattro miglia, e pochissimi uomini si difenderebbono contra tutto il mondo. E per questo Alessandro appresso a quel passo fece fabricar muri e gran fortezze, acciò che quelli che abitano piú oltre non gli potessero venire a far danno: onde il nome di quel passo dipoi si chiamò Porta di Ferro, e per questo vien detto Alessandro aver serrato i Tartari fra due monti. Ma non è vero che siano stati Tartari, perchè a quel tempo non erano, anzi fu una gente chiamata Cumani, e di altre generazioni e sorti.
Sono ancora in detta provincia molte città e castelli, le quali abondano di seta e di tutte le cose necessarie; quivi si lavorano panni di seta e di oro, e vi sono astori nobilissimi, che si chiamano avigi. Gli abitatori di questa regione vivono di mercanzie e delle sue fatiche. Per tutta la provincia sono monti e passi forti e stretti, di modo che li Tartari non gli hanno mai potuto dominare del tutto. Qui è un monasterio intitolato di San Lunardo di monachi, dove vien detto esser questo miracolo, che essendo la chiesa sopra un lago salso che circonda da quattro giornate di camino, in quello per tutto l'anno non appareno pesci, salvo dal primo giorno di quaresima fino alla vigilia di Pasqua della resurrezione del Signore, che ve n'è abondanzia grandissima; e fatt'il giorno di Pasqua, piú non appariscono. E chiamasi il lago Geluchalat.
In questo mare di Abaccú mettono capo Herdil, Geichon e Cur, Araz e molti altri grandissimi fiumi; è circondato da monti, e novamente i mercatanti genovesi han cominciato a navigare per quello, e di qui si porta la seta detta ghellie. In questa provincia è una bella città detta Tiflis, circa la quale sono molti castelli e borghi, e in quella abitano cristiani, armeni, giorgiani e alcuni saraceni e giudei, ma pochi. Qui si lavorano panni di seta e di molte altre e diverse sorti; gli uomini vivono dell'arte loro, e sono soggetti al gran re de' Tartari.
Ed è da sapere che noi solamente scriviamo delle principal città delle provincie due o tre, ma ve ne sono di molte altre, che saria lungo scriverle per ordine se non avessero qualche spezial cosa maravigliosa: ma di quelle che abbiam pretermesse, che si ritrovano ne' luoghi predetti, piú pienamente di sotto si dichiarano. Poi che s'ha detto de' confini dell'Armenia verso tramontana, ora diciamo degli altri che sono verso mezodí e levante.

Della provincia di Moxul, e della sorte di abitanti e popoli curdi, e mercanzie che si fanno.
Cap. 6.

Moxul è una provincia nella qual abitano molte sorti di genti, una delle quali adorano Macometto, e chiamansi Arabi; l'altra osserva la fede cristiana, non però secondo che comanda la Chiesa, perchè falla in molte cose, e sono nestorini, iacopiti e armeni; e hanno un patriarca che chiamano iacolit, il qual ordina arcivescovi, vescovi e abbati, mandandoli per tutte le parti dell'India e al Cairo e in Baldach, e per tutte le bande dove abitano cristiani, come fa il papa romano. E tutti i panni d'oro e di seta che si chiamano mossulini si lavorano in Moxul, e quelli gran mercatanti che si chiamano mossulini, che portano di tutte le spezierie in gran quantità, sono di questa provincia. Ne' monti della qual abitano alcune genti che si chiamano Curdi, che sono in parte cristiani e nestorini e iacopiti, e in parte saraceni, che adorano Macometto: sono uomini cattivi e di mala sorte, e robbano voluntieri a' mercatanti. Appresso questa provincia ve n'è un'altra che si chiama Mus e Meridin, nella quale nasce infinito bambagio, del qual si fa gran quantità di boccassini e di molti altri lavori. Vi sono artefici e mercatanti, e tutti sono sottoposti al re dei Tartari.
Avendosi detto della provincia di Moxul, ora narraremo della gran città di Baldach.

Della gran città di Baldach overo Bagadet, che anticamente si chiamava Babilonia; e come da quella si navica alla Balsara sopra il mare che chiamano d'India, ancor che sia il sino Persico; e del studio che è in quella di diverse scienzie.
Cap. 7.

Baldach è una città grande, nella quale era il califa, cioè il pontefice di tutti li saraceni, sí come è il papa di tutti i cristiani. E per mezo di quella corre un gran fiume, per il quale li mercadanti vanno e vengono con le lor mercanzie dal mare dell'India: e la sua lunghezza, dalla città di Baldach fino al detto mare, si computa communemente secondo il corso dell'acque 17 giornate. E li mercatanti che vogliono andare alle parti dell'India navigano per detto fiume ad una città detta Chisi, e de lí partendosi entran in mare; e avanti che si pervenga da Baldach a Chisi, si trova una città detta Balsara, intorno la quale nascono per li boschi li miglior dattali che si trovino al mondo. E in Baldach si trovano molti panni d'oro e di seta, e lavoransi quivi damaschi e velluti, con figure di varii e diversi animali; e tutte le perle che dall'India sono portate nella cristianità per la maggior parte si forano in Baldach. In questa città si studia nella legge di Macometto, in negromanzia, fisica, astronomia, geomanzia e fisionomia. Essa è la piú nobile e la maggior città che trovar si possa in tutte quelle parti.


Come il califa signor di Baldach fu preso e morto, e del miracolo che intravenne del muovere di uno monte.
Cap. 8.


Dovete sapere che detto califa signor di Baldach si trovava il maggiore tesoro che si sappia avere avuto uomo alcuno, qual perse miseramente in questo modo. Nel tempo che i signori de' Tartari cominciorono a dominare, erano quattro fratelli, il maggiore de' quali, nominato Mongú, regnava nella sedia. E avendo a quel tempo, per la gran potenzia loro, sottoposto al suo dominio il Cattayo e altri paesi circonstanti, non contenti di questi, ma desiderando aver molto piú, si proposero di soggiogare tutto l'universo mondo; e però lo divisero in quattro parti, cioè che uno andasse alla volta dell'oriente, un altro alla banda del mezodí, per acquistare paesi, e gli altri alle altre due parti. Ad uno di loro, nominato Ulaú, venne per sorte la parte di mezodí. Costui, ragunato un grandissimo esercito, primo di tutti cominciò a conquistar virilmente quelle provincie, e se ne venne alla città di Baldach del 1250 e, sapendo la gran fortezza di quella, per la gran moltitudine del popolo che vi era, pensò con ingegno piú tosto che con forze di pigliarla. Avendo egli adunque da centomila cavalli senza i pedoni, acciò che al califa e alle sue genti che eran dentro della città paressino pochi, avanti che s'appressasse alla città pose occultamente da un lato di quella parte delle sue genti, e dall'altro ne' boschi un'altra parte, e col resto andò correndo fino sopra le porte. Il califa, vedendo quel sforzo essere di poca gente e non ne facendo alcun conto, confidandosi solamente nel segno di Macometto, si pensò del tutto destruggerla, e senza indugio con la sua gente uscí della città. La qual cosa veduta da Ulaú, fingendo di fuggire lo trasse fino oltre gli arbori e chiusure di boschi dove la gente s'era nascosta, e qui serratoli in mezo gli ruppe, e il califa fu preso insieme con la città. Dopo la presa del qual, fu trovata una torre piena d'oro, il che fece molto maravigliare Ulaú. Dove che, fatto venire alla sua presenza il califa, lo riprese grandemente, perciò che, sapendo della gran guerra che gli veniva adosso, non avesse voluto spendere del detto tesoro in soldati che lo difendessero: e però ordinò che 'l fosse serrato in detta torre senza dargli altro da vivere, e cosí il misero califa se ne morí fra il detto tesoro.

Io giudico che il nostro Signor messer Iesú Cristo volesse far vendetta de' suoi fedeli cristiani, dal detto califa tanto odiati, imperochè del 1225, stando in Baldach detto califa, non pensava mai altro ogni giorno se non con che modo e forma potesse far convertire alla sua legge gli cristiani abitanti nel suo paese, o vero, non volendo, di farli morire. E dimandando sopra di ciò il consiglio de' savii, fu trovato un punto della scrittura nell'Evangelio che dice cosí: "Se alcuno cristiano avesse tanta fede quanto è un grano di senapa, porgendo i suoi preghi alla divina Maestà faria muover i monti dal suo luogo". Del qual punto rallegratosi, non credendo per alcun modo questo essere mai possibile, mandò a chiamare tutti i cristiani, nestorini e iacopiti che abitavano in Baldach, ch'erano in gran quantità, e disse loro: "È vero tutto quello che 'l testo del vostro Evangelio dice?" A cui risposero: "È vero". Disse loro il califa: "Ecco che s'egli è vero qui si proverà la vostra fede. Certamente, se tra voi tutti non è almanco uno il qual sia fedele verso il suo Signore in cosí poco di fede quanto è un grano di senapa, allora vi riputarò iniqui, reprobi e infidelissimi. Per il che vi assegno dieci giorni, fra li quali o che voi per virtú del vostro Dio farete muovere i monti qui astanti, o vero torrete la legge di Macometto nostro profeta e sarete salvi, o vero non volendo farovvi tutti crudelmente morire". Quando li cristiani udirono tal parole, sapendo la sua crudel natura, che solo faceva questo per spogliarli delle loro sostanze, dubitarono grandemente della morte; nondimeno, confidandosi nel suo Redentore che gli libereria, si congregorono tutti insieme ed ebbero fra loro diligente consiglio, né trovorno rimedio alcuno se non pregare la Maestà divina che gli porgesse l'aiuto della sua misericordia. Per la qual cosa tutti, cosí piccoli come grandi, giorno e notte prostrati in terra con grandissime lacrime non attendevano ad altro che a far orazioni al Signore, e cosí perseverando per otto giorni, ad un vescovo di santa vita fu divinamente rivelato in sogno che andassero a trovar un calzolaio il qual avea solamente un occhio, il cui nome non si sa, che lui comandasse al monte che per la divina virtú dovesse muoversi.
Mandato adunque per il calzolaio, narratoli la divina rivelazione, gli rispose che lui non era degno di quest'impresa, perchè i meriti suoi non ricercavan il premio di tanta grazia; nondimeno, facendoli di ciò grande instanzia i poveri cristiani, il calzolaio assentí. E sappiate ch'egli era uomo di buona vita e di onesta conversazione, puro e fedele verso il nostro Signor Iddio: frequentando le messe e i divini officii, attendeva con gran fervore alle limosine e a' digiuni. Al qual intravenne che, essendo andata a lui una bella giovane per comprarsi un paio di scarpe, e mostrand'il piede per provar quelle, si alzò i panni per modo che gli vidde la gamba, per bellezza della quale si commosse in disonesti pensieri; ma subito ritornato in sé, mandò via la donna e, considerata la parola dell'Evangelio che dice: "Se l'occhio tuo ti scandaleza, cavatelo e gettalo via da te, perchè è meglio andar con un occhio in paradiso che con due nell'inferno", immediate con una delle stecche che adoprava in bottega si cavò l'occhio destro; la qual cosa dimostrò manifestamente la grandezza della sua constante fede.
Venuto il giorno determinato, la mattina a buon'ora, celebrati i divini officii, con grandissima devozione andarono alla pianura dove era il monte, portando avanti la croce del nostro Signore. Il califa similmente, credendo essere cosa vana che i cristiani potessero mandar queste cose ad effetto, volse ancor lui esser presente con gran sforzo di gente per distruggerli e mandarli in perdizione. E quivi il calzolaio, levate le mani al cielo, stando avanti la croce in ginocchioni, umilmente pregò il suo Creatore che pietosamente riguardando in terra, a laude ed eccellenza del nome suo e a fermezza e corroborazione della fede cristiana, volesse porgere aiuto al popolo suo circa il comandamento a loro ingiunto, e dimostrasse la sua virtú e potenza ai detrattori della sua fede. E finita l'orazione con voce alta disse: "In nome del Padre e del Figliuolo e del Spirito Santo, comando a te monte che ti debbi muovere". Per le qual parole il monte si mosse, con mirabil e spauroso tremor della terra. E il califa e tutti i circonstanti con grandissimo spavento rimasero attoniti e stupefatti, e molti di loro si fecero cristiani, e il califa in occulto confessò esser cristiano, e portò sempre la croce nascosa sotto i panni: la qual dopo morto trovatali adosso, fu causa che non fosse sepolto nell'arca de' suoi predecessori. E per questa singular grazia concessali da Iddio tutti i cristiani, nestorini e iacopiti da quel tempo in qua celebrano solennemente il giorno che tal miracolo intravenne, digiunando la sua vigilia.

Della nobil città di Tauris, che è nella provincia di Hirach, e delli mercatanti e abitanti in quella.
Cap. 9.

Tauris è una città grande, situata in una provincia nominata Hirach, nella quale sono molte altre città e castelli, ma Tauris è la piú nobile e piú popolata. Gli abitatori vivono delle mercanzie e arti loro, perchè vi si lavora di diverse sorti di panni d'oro e di seta di gran valuta, ed è posta questa città in tal parte che dall'India, da Baldach, da Moxul, da Cremessor e dalle parti de' cristiani i mercatanti vengono per comprare e vender diverse mercanzie. Quivi si trovano eziandio pietre preziose e perle abbondantemente. Quivi li mercatanti forastieri fanno gran guadagno, ma gli abitatori sono generalmente poveri, e mescolati di diverse generazioni, cioè nestorini, armeni, iacopiti, giorgiani e persi, e le genti che adorano Macometto è il popolo della città, che si chiamano Taurisini e hanno il parlar diverso fra loro. La città è circondata di giardini molto dilettevoli, che producono ottimi frutti. E i saraceni di Tauris sono perfidi e mali uomini, e hanno per la legge di Macometto che tutto quello che tolgono e robbano alle genti che non sono della sua legge sia ben tolto, né gli sia imputato ad alcun peccato, e se i cristiani gli ammazzassero o gli facessero qualche male, sono riputati martiri; e per questa causa, se non fossero proibiti e ritenuti per il suo signore che governa, commetterebbono molti mali. E questa legge osservano tutti i saraceni. E in fine della vita loro va a loro il sacerdote, e dimandali se credono che Macometto sia stato vero nunzio di Dio, e se rispondono che lo credono sono salvi: e per questa facilità di assoluzione, che gli concede il campo largo a commettere ogni sceleraggine, hanno convertito una gran parte de' Tartari alla sua legge, per la quale non gli è proibito alcun peccato. Da Tauris in Persia sono dodici giornate.

Del monasterio del beato Barsamo, che è nelli confini di Tauris.
Cap. 10.

Ne' confini di Tauris è un monasterio intitolato il beato Barsamo santo, molto devoto: quivi è uno abbate con molti monachi, i quali portano l'abito a guisa di carmelitani. E questi, per non darsi all'ocio, lavorano continuamente cintole di lana, le quali poi mettono sopra l'altare del beato Barsamo quando si celebrano gli officii. E quando vanno per le provincie cercando (come li frati di San Spirito), donano di quelle alli loro amici e agli uomini nobili, perchè sono buone a rimuovere il dolore che alcun avesse nel corpo: e per questo ognuno ne vuole avere per devozione.

Del nome di otto regni che sono nella provincia di Persia,
e della sorte di cavalli e asini che ivi si truovano.
Cap. 11.

Nella Persia, qual è una provincia molto grande, vi sono molti regni, i nomi de' quali sono gli sottoscritti: il primo regno, il quale è in principio, si chiama Casibin; il secondo, qual è verso mezodí, si chiama Curdistan; il terzo Lor, verso tramontana; il quarto Suolistan; il quinto Spaan; il sesto Siras; il settimo Soncara; l'ottavo Timocaim, qual è nel fine della Persia. Tutti questi regni nominati sono verso mezodí, eccetto Timocaim, il quale è appresso l'Arbor Secco verso tramontana. In questi regni sono cavalli bellissimi, molti de' quali si menano a vendere nell'India, e sono di gran valuta, perchè se ne vendono per lire dugento di tornesi, e sono per la maggior parte di questo prezio. Sonvi ancora asini, li piú belli e li maggiori che siano al mondo, i quali si vendono molto piú che i cavalli, e la ragione è perchè mangiano poco e portano gran carghi e fanno molta via in un giorno, la qual cosa né cavalli né muli potriano fare, né sostenire tanta fatica quanta sostengono gli asini sopradetti. Imperochè li mercatanti di quelle parti, andando di una provincia nell'altra, passano per gran deserti e luoghi arenosi dove non si truova erba alcuna, e appresso, per la distanza de' pozzi e di acque dolci, gli bisogna far lunghe giornate: per tanto adoprano piú volentieri quegli asini, perchè sono piú veloci e corrono meglio e si conducono con manco spesa. Usano ancora i camelli, i quali similmente portano gran pesi e fanno poca spesa; nondimeno non sono cosí veloci come gli asini. E le genti della sopradetta provincia menano i detti cavalli a Chisi e Ormus e a molte altre città che sono sopra la riviera del mare dell'India, perchè vengono comprati quivi e condotti in India, dove sono in grandissimo prezio, nella qual essendo gran caldo non possono durare longamente, essendo nasciuti in paese temperato.
E ne' sopradetti regni sono genti molto crudeli e omicidiali, imperochè ogni giorno l'un l'altro si feriscono e uccidono, e fariano continovamente gran danni a' mercanti e a' viandanti, se non fosse per la paura del signore orientale, il quale severamente gli fa castigare, e ha ordinato che in tutti i passi pericolosi, richiedendo i mercanti, debbano gli abitanti di contrata in contrata dar diligenti e buoni conduttori per tutela e sicurtà loro, e per satisfazione delli conduttori li sia dato per ciascuna soma due o tre grossi, secondo la lunghezza del cammino. Tutti osservano la legge di Macometto. Nelle città di questi regni veramente sono mercanti e artefici in grandissima quantità, e lavorano panni d'oro, di seta e di ciascuna sorte; e quivi nasce il bombagio, ed evvi abondanzia di formento, orzo, miglio e d'ogni sorte biava, vini e di tutti i frutti. Ma potria dir alcuno: i saraceni non bevono vino, per essergli proibito dalla sua legge; si risponde che glosano il testo di quella in questo modo, che se 'l vino solamente bolle al fuoco, e che si consumi in parte e divenghi dolce, lo possono bere senza rompere il comandamento, perchè non lo chiamano dopo piú vino, conciosiacosachè, avendo mutato il sapore, muta eziandio il nome del vino.

Della città di Iasdi, e de' lavori di seta che si fanno in quella;
e di animali e uccelli che si trovano venendo verso Chiermain.
Cap. 12.

Iasdi è ne' confini della Persia, città molto nobile e di gran mercanzia, nella quale si lavorano molti panni di seta, che si chiamano iasdi, quali portano li mercanti in diverse parti. Osservano la legge di Macometto. E quando l'uomo si parte da questa città per andar piú oltre, cavalca otto giornate per via piana, nelle quali si truovano solamente tre luoghi dove possino alloggiare, e il cammino è pieno di molti boschi che producono dattali, per li quali si può cavalcare; e vi sono molte cacciagioni d'animali salvatichi, e pernici e quaglie in abondanza, e li mercanti che cavalcano per quelle parti, e altri che si dilettano di cacciagioni di bestie e d'uccelli, vi prendono gran sollazzi. Si truovano ancora asini salvatichi. E nel fine delle dette otto giornate, s'arriva ad un regno che si chiama Chiermain.

Del regno di Chiermain, che anticamente si diceva Carmania,
e delle pietre turchese azal e andanico, e de' lavori d'armi e seta, e de' falconi;
e di una gran discesa che si truova partendosi da quello.
Cap. 13.

Chiermain è un regno ne' confini della Persia verso levante, il qual anticamente andava d'erede in erede, ma dopo che 'l Tartaro lo soggiogò al suo dominio non succedettero gli eredi, anzi il Tartaro vi manda signore secondo il voler suo. In detto regno nascono le pietre che si chiamano turchese, quali si cavano nelle vene de' monti; si truovano ancora in quelli vene di azzaio e andanico in grandissima quantità. Si lavorano molto eccellentemente in questo regno tutti i fornimenti pertinenti alla guerra, cioè selle, freni, sproni, spade, archi, turcassi, e tutte le sorti d'armi secondo i loro costumi. Le donne e tutte le giovani lavorano similmente con l'ago in drappi di seta e d'oro d'ogni colore uccelli e animali e molte altre varie e diverse imagini, e anco cortine, coltre e cussini per letti di grandi uomini, cosí bene e con tanto artificio che è cosa maravigliosa a vedere. Ne' monti di questo regno nascono falconi, li migliori che volino al mondo, e sono minori de' falconi pellegrini, e rossi nel petto e fra le gambe sotto la coda, e sono tanto veloci che niuno uccello gli può scampare. Partendosi da questo regno si cavalca per otto giornate per pianura, cammino molto sollazzoso e dilettevole per l'abondanza delle pernici e molte cacciagioni, trovando continuamente città e castelli e molte altre abitazioni; e alla fine si truova una gran discesa, per la qual si cavalca due giornate trovando arbori fruttiferi in grandissima quantità. Questi luoghi si abitavano anticamente, ma al presente sono disabitati; quivi nondimeno stanno i pastori per pascer le bestie loro. E da questo regno di Chiermain fin alla discesa predetta, nel tempo dell'inverno vi è cosí gran freddo, che appena l'uomo si può riparare portando continuamente molte vesti e pelli.

Della città di Camandu, che si truova dopo una discesa, e della region di Reobarle, e delli uccelli francolini e buoi bianchi con una gobba; e dell'origine delli Caraunas, che vanno depredando.
Cap. 14.

Dopo la discesa di questo luogo per le dette due giornate si truova una gran pianura, la qual verso mezodí dura per cinque giornate, nel principio della qual è una città chiamata Camandu, che già fu nobile e grande, ma non è cosí al presente, perchè i Tartari piú volte l'hanno destrutta. E la regione si chiama Reobarle, e quella pianura è caldissima e produce frumento, orzo e altre biade. Per le coste de' monti di detta pianura nascono pomi granati, codogni e molti altri frutti, e pomi d'Adamo, i quali nelle nostre parti fredde non nascono. Ivi sono infinite tortore, per le molte pomelle che vi truovano da mangiare, né li saraceni mai le pigliano, perchè le hanno in abominazione. Vi si truovano ancora molti fagiani e francolini, li quali non s'assimigliano alli francolini delle altre contrade, perchè sono mescolati di color bianco e negro e hanno li piedi e becco rossi. Vi sono eziandio bestie dissimili dalle altre parti, cioè buoi grandi tutti bianchi che hanno il pelo picciolo e piano, il che avviene per il caldo del luogo, le corna corte e grosse e non acute; hanno sopra le spalle una gobba rotonda alta due palmi, sono bellissimi da vedere, portano gran peso perchè sono fortissimi, e quando si dieno cargare si posano a guisa di camelli e poi si levano su. Vi sono ancora castroni di grandezza d'asini, che hanno le code grosse e larghe, di sorte che una pesarà libre trenta e piú, e sono grassi e buoni da mangiare.
In questa provincia vi sono molti castelli e città che hanno le mura di terra alte e grosse, e questo per potersi difendere dalli Caraunas, che vanno scorrendo per tutti que' luoghi depredando il tutto. E acciò che si sappi quello che vuol dire questo nome di Caraunas, dico che fu uno Nugodar, nepote di Zagathai, fratello del gran Can, qual Zagathai signoreggiava la Turchia maggiore. Questo Nugodar, stando nella sua corte, si pensò di voler ancor lui signoreggiare, e però, sentendo che nell'India v'era una provincia chiamata Malabar, sotto ad un re nominato Asidin soldano, la quale non era soggiogata al dominio de' Tartari, sottrasse circa diecimila uomini, di quelli ch'egli pensava esser peggiori e piú crudeli, e con questi partendosi da suo barba Zagathai senza fargli intendere cosa alcuna, passò per Balaxan e per certa provincia chiamata Chesmur, dove perse molte delle sue genti e bestie per le vie strette e cattive; e finalmente entrò nella provincia di Malabar e prese per forza una città detta Dely, e tolse molte altre città circonstanti al detto Asidin, perchè li sopravenne alla sprovista. E quivi cominciò a regnare, e li Tartari bianchi cominciorno a mescolarsi con le donne indiane, quali erano negre, e di quelle procreorno figliuoli che furono chiamati Caraunas, cioè meschiati nella lingua loro: e questi son quelli che vanno scorrendo per le contrade di Reobarle e per ciascun'altra come meglio possono. E come vennero in Malabar imparorno l'arti magice e diabolice, con le quali sanno far venir tenebre e oscurar il giorno, di modo che, s'uno non è appresso a l'altro, non si veggono; e ogni volta che vogliono far correrie fanno simil arti, acciò le genti non s'avvegghino di loro. E cavalcano il piú delle volte verso le parti di Reobarle, perciò che tutti i mercanti che vengono a negociare in Ormus, fin che s'avisano che venghino i mercanti dalle parti d'India, mandan al tempo del verno i muli e camelli, che si son smagrati per la lunghezza del cammino, alla pianura di Reobarle, dove per l'abondanza dell'erbe debbano ingrassarsi: e questi Caraunas, che attendono a questo, vanno depredando ogni cosa, e prendono gli uomini e vendongli; nondimeno se possono riscatarsi li lascian andare. E messer Marco quasi fu preso una fiata da loro per quell'oscurità, ma egli se ne fuggí ad un castello di Consalmi; de' sui compagni alcuni furono presi e venduti, altri furono morti.

Della città di Ormus, che è posta in isola vicina alla terra sopra il mar dell'India,
e della condizione e vento che vi soffia cosí caldo.
Cap. 15.

Nel fine della pianura che abbiam detto di sopra, che dura verso mezodí per cinque giornate, si perviene ad una discesa che dura ben venti miglia, ed è via pericolosissima per l'abondanza de' rubatori che di continuo assaltano e rubbano quelli che vi passano. E quando si giugne al fine di questa discesa, si truova un'altra pianura molto bella, che dura di lunghezza per due giornate e chiamasi pianura di Ormus: ivi sono riviere bellissime e dattali infiniti, e trovansi francolini e papagalli e molti altri uccelli che non s'assomigliano alli nostri. Alla fine si giugne al mare Oceano, dove, sopra un'isola vicina, vi è una città chiamata Ormus, al porto della qual arrivano tutti i mercanti di tutte le parti dell'India con speciarie, pietre preziose, perle, panni d'oro e di seta, denti d'elefanti e molte altre mercanzie, e quivi le vendono a diversi altri mercanti che le conducono poi per il mondo. La città nel vero è molto mercantesca, e ha città e castelli sotto di sé, ed è capo del regno Chermain; e il signore della città si chiama Ruchmedin Achomach, il qual signoreggia per tirannide, ma ubbidisce al re di Chiermain. E se vi muore alcun mercante forestiero, il signor della terra gli toglie tutto il lor avere e riponlo nel suo tesoro. L'estate le genti non abitano nella città, per il gran caldo ch'è causa di mal aere, ma vanno fuori a' loro giardini, appresso le rive dell'acque e fiumi, dove con certe graticcie fanno solari sopra l'acque, e quelli d'una parte fermano con pali fitti nell'acque e dall'altra parte sopra la riva, e di sopra per difendersi dal sole cuoprono con le foglie, e vi stanno un certo tempo. E dall'ora di meza terza fino mezodí ogni giorno vien un vento dall'arena cosí estremamente caldo che per il troppo calore vieta all'uomo il respirare, e subito lo soffoca e muore: e da detto vento niuno che si truovi su l'arena può scampare, per la qual cosa, subito che sentono il vento, si mettono nell'acque fin alla barba e vi stanno fin che 'l cessi.
E in testimonio della calidità di detto vento, disse messer Marco che si trovò in quelle parti quando intravenne un caso in questo modo: che, non avend'il signor d'Ormus pagato il tributo al re di Chiermain, pretendendo averl'al tempo che gl'uomini d'Ormus dimoravano fuori della città nella terra ferma, fece apparecchiare mille e seicento cavalli e cinquemila pedoni, i quali mandò per la contrata di Reobarle per prendergli alla sprovista. E cosí un giorno, per essere mal guidati, non potendo arrivar al luogo designato per la sopravenente notte, si riposarono in un bosco non molto lontano da Ormus; e la mattina, volendosi partire, il detto vento gl'assaltò e soffocò tutti, di modo che non si trovò alcuno che portasse la nuova al lor signore. Questo sapendo gli uomini d'Ormus, acciò che que' corpi morti non infettassero l'aere, andorno per sepelirgli, e pigliandogli per le braccie per porgli nelle fosse, erano cosí cotti pel grandissimo calore che le braccia si lasciavano dal busto, per il che fu di bisogno far le fosse appresso alli corpi e gettargli in quelle.

Delle sorti delle navi d'Ormus; e della stagione nella qual nascono i frutti loro,
e del viver e costumi degli abitanti.
Cap. 16.

Le navi d'Ormus sono pessime e pericolose, onde li mercanti e altri spesse volte in quelle pericolano: e la causa è questa, perchè non si ficcano con chiodi, per esser il legno col quale si fabricano duro e di materia fragile a modo di vaso di terra, e subito che si ficca il chiodo si ribatte in se medesimo e quasi si rompe; ma le tavole si forano con trivelle di ferro piú leggiermente che possono nelle estremità, e dopo vi si mettono alcune chiavi di legno con le quali si serrano, dopo le legano overo cuciono con un filo grosso che si cava di sopra il scorzo delle noci d'India. Le quali sono grandi, e sopra vi sono fili come sete di cavalli, li quali, posti in acqua, com'è putrefatta la sostanza rimangono mondi, e se ne fanno corde con le quali legano le navi, e durano longamente in acqua; alle qual navi non si pone pece per difesa della putrefazione, ma s'ungono con olio fatto di grasso di pesci, e calcasi la stoppa. Ciascuna nave ha un arbor solo e un timone e una coperta, e quando è carica si cuopre con cuori, e sopra i cuori pongono i cavalli che si conducono in India. Non hanno ferri da sorzer, ma con altri lor instrumenti sorzeno, e però con ogni leggier fortuna periscono, per esser molto terribile e tempestoso quel mare.
Quelle genti sono negre e osservano la legge di Macometto. Seminano il frumento, orzo e altre biade nel mese di novembre e le raccolgono il mese di marzo, e cosí hanno tutti i loro frutti degli altri mesi nel detto mese, eccetto i dattoli, che si raccogliono nel mese di maggio, de' quali si fa vino con molte altre specie mescolatevi, il qual è molto buono: e se gli uomini che non vi sono assuefatti beono di quello, subito patiscono flusso, ma risanati quel vino molto gli giova e ingrassali. Non usano i nostri cibi, perchè se mangiassero pan di frumento e carni subito s'infermarebbono, ma mangiano dattoli e pesci salati, cioè pesci tonni, e cipolle e altre simil cose che si confanno alla sanità loro. In quella terra non si truova erba che duri sopra la terra, salvo che ne' luoghi acquosi, e questo pel troppo caldo che dissecca ogni cosa. Quando gl'uomini grandi muoiono, le moglie loro gli piangono quattro settimane continue una volta al giorno; ivi si truovano donne ammaestrate nel pianto, le quali si conducono a prezzo, che pianghino ogni giorno sopra gl'altrui morti.

Della campagna che si truova partendosi d'Ormus e ritornando verso Chiermain,
e del pan amaro per causa dell'acque salse.
Cap. 17.

Avendosi detto d'Ormus, voglio che lasciamo star il parlare dell'India, la qual sarà descritta in un libro particolare, e che retorniamo di nuovo a Chiermain verso tramontana. E però dico che, partendosi da Ormus e andando verso Chiermain per un'altra strada, si truova una pianura bellissima e abondante d'ogni sorte di vettovaglie: ma il pan di frumento che nasce in quella terra non si può mangiare se non da quelli che vi sono usi per longo tempo, per esser amaro per causa dell'acque, le quali son tutte amare e salse. E da ogni canto si veggono scorrere bagni caldi, molto utili a guarire e sanare molte infermità che vengono agli uomini sopra la persona. Vi sono anco molti dattoli e altri frutti.

Come partendosi da Chiermain si va per un deserto di sette giornate alla città di Cobinam, e dell'acque amare che si truovano, e alla fine di un fiume d'acqua dolce.
Cap. 18.

Partendosi di Chiermain e cavalcando per tre giornate s'arriva a un deserto pel quale si va fino a Cobinam, e dura sette giornate, e ne' primi tre giorni non si trova salvo che un poco d'acqua: e quella è salsa e verde come l'erba d'un prato, ed è tanto amara che niuno ne può bere, e s'alcuno ne bee pur una gocciola va da basso piú di dieci volte, e similmente gli avviene se mangiasse un sol grano di sale che si fa di quell'acqua. E però gli uomini che passano per que' deserti si portano dietro dell'acqua, ma le bestie ne beono per forza constrette dalla sete, e subito patiscono flusso di corpo. In tutte queste tre giornate non si truova pur un'abitazione, ma tutto è deserto e secco; non vi sono bestie, perchè non hanno che mangiare. E nella quarta s'arriva ad un fiume d'acqua dolce, il quale scorre sotto terra, e in alcuni luoghi vi sono certe caverne dirotte e fosse pel scorrere del fiume, per le quali si vede passare, qual poi subito entra sotto terra; nondimeno s'ha abondanza d'acqua, appresso la quale i viandanti, stanchi per l'asprezza del deserto precedente, ricreandosi con le loro bestie si riposano. Nell'ultime tre giornate truovasi come nelle tre precedenti, e nella fine si truova la città di Cobinam.

Della città di Cobinam, e delli specchi di acciaio, e dell'andanico,
e della tucia e spodio che si fa ivi.
Cap. 19.

Cobinam è una gran città, la cui gente osserva la legge di Macometto, dove si fanno li specchi d'acciaio finissimo molto belli e grandi. Vi è anco assai andanico, e ivi si fa la tucia, la qual è buona all'egritudine degli occhi, e il spodio, in questo modo: tolgono la terra d'una vena ch'è buona a quest'effetto e la mettono in una fornace ardente, e sopra la fornace sono poste graticcie di ferro molto spesse, e il fumo e l'umor che ne viene ascendendo s'attacca alle graticcie, e raffreddato s'indurisce, e questa è tucia; e il resto di quella terra che rimane nel fuoco, cioè il grosso che resta arso, è il spodio.

Come da Cobinam si va per un deserto di otto giornate alla provincia di Timochaim
nelle confine della Persia verso tramontana, e dell'Alboro del Sole,
che si chiama l'Alboro Secco, e della forma de' frutti di quello.
Cap. 20.

Partendosi da Cobinam si va per un deserto d'otto giornate, nel qual è gran siccità, né vi sono frutti né arbori, e l'acqua è anco amara, onde i viandanti portano seco le cose al vivere necessarie; nondimeno le bestie loro per la gran sete le fanno per forza bere di quell'acqua, imperochè meschiano farina con quell'acqua e bellamente le inducono a bere. E in capo delle otto giornate si trova una provincia nominata Timochaim, la qual è posta verso tramontana ne' confini della Persia, nella quale sono molte città e castelli. Vi è ancora una gran pianura nella quale v'è l'Alboro del Sole, che si chiama per i cristiani l'Albor Secco, la qualità e condizione del quale è questa: è un arbore grande e grosso, le cui foglie da una parte son verdi, dall'altra bianche, il quale produce ricci simili a quei delle castagne, ma niente è in quelli, e il suo legno è saldo e forte, di color giallo a modo di busso; e non v'è appresso arbor alcuno per spazio di cento miglia se non da una banda, dalla qual vi sono arbori quasi per dieci miglia, e dicono gli abitanti in quelle parti che quivi fu la battaglia tra Alessandro e Dario. Le città e castelli abondano di tutte le belle e buone cose, perchè quel paese è d'aere non molto caldo né molto freddo, ma temperato. La gente osserva la legge di Macometto; sono in quelle belle genti, e specialmente donne, le qual a mio giudicio sono le piú belle del mondo.

Del Vecchio della Montagna, e del palagio fatto far per lui, e come fu preso e morto.
Cap. 21.

Detto di questa contrata, ora dirassi del Vecchio della Montagna. Mulehet è una contrada nella quale anticamente soleva stare il Vecchio detto della Montagna, perchè questo nome di Mulehet è come a dire luogo dove stanno li eretici nella lingua saracena; e da detto luogo gli uomini si chiamano mulehetici, cioè eretici della sua legge, sí come, appresso li cristiani, patarini. La condizion di questo Vecchio era tale, secondo che messer Marco affermò aver inteso da molte persone: ch'egli avea nome Aloadin ed era macomettano, e avea fatto far in una bella valle serrata fra due monti altissimi un bellissimo giardino, con tutti i frutti e arbori che aveva saputo ritrovare, e d'intorno a quelli diversi e varii palagi e casamenti, adornati di lavori d'oro e di pitture e fornimenti tutti di seta. Quivi per alcuni piccioli canaletti che rispondevan in diverse parti di questi palagi si vedeva correr vino, latte e melle e acqua chiarissima, e vi avea posto ad abitar donzelle leggiadre e belle, che sapean cantar e sonar d'ogni instrumento e ballar, e sopra tutto ammaestrate a far tutte le carezze e lusinghe agli uomini che si possin imaginare. Queste donzelle, benissimo vestite d'oro e di seta, si vedevan andar sollazzando di continuo per il giardino e per i palagi, perchè quelle femine che l'attendevano stavan serrate e non si vedevano mai fuori all'aere.
Or questo Vecchio avea fabricato questo palagio per questa causa, che, avendo detto Macometto che quelli che facevano la sua volontà anderiano nel paradiso, dove troverian tutte le delicie e piaceri del mondo, e donne bellissime, con fiumi di latte e melle, lui voleva dar ad intendere ch'egli fosse profeta e compagno di Macometto, e potesse far andar nel detto paradiso chi egli voleva. Non poteva alcun entrare in questo giardino, perchè alla bocca della valle vi era fatto un castello fortissimo e inespugnabile, e per una strada secreta si poteva andare dentro. Nella sua corte detto Vecchio teneva giovani da 12 fino a 20 anni, che li pareva essere disposti alle armi e audaci e valenti degli abitanti in quelle montagne, e ogni giorno gli predicava di questo giardino di Macometto, e come lui poteva fargli andar dentro. E quando li pareva faceva dar una bevanda a dieci o dodici de' detti giovani, che gli addormentava, e come mezi morti li faceva portar in diverse camere de' detti palagi; e quivi, come si risvegliavano, vedevan tutte le sopradette cose, e a ciascuno le donzelle eran intorno cantando, sonando e facendo tutte le carezze e solazzi che si sapevan imaginare, dandoli cibi e vini delicatissimi, di sorte che quelli, imbriacati da tanti piaceri e dalli fiumicelli di latte e vino che vedevano, pensavano certissimamente essere in paradiso e non s'averian mai voluto partire.
Passati quattro o cinque giorni, di nuovo li faceva addormentare e portar fuori, e quelli fatti venir alla sua presenza, gli dimandava dove eran stati, quali dicevano: "Per grazia vostra, nel paradiso", e in presenza di tutti raccontavano tutte le cose che aveano veduto, con estremo desiderio e admirazione di chi gli ascoltavano. E il Vecchio gli rispondeva: "Questo è il comandamento del nostro profeta, che chi difende il signor suo gli fa andar in paradiso, e se tu sarai obediente a me tu averai questa grazia", e con tal parole gli avea cosí inanimati che beato si reputava colui a cui il Vecchio comandava ch'andasse a morire per lui. Di sorte che quanti signori overo altri che fossero inimici del detto Vecchio, con questi seguaci e assassini erano uccisi, perchè niuno temeva la morte, pur che facessero il comandamento e volontà del detto Vecchio, e s'esponevano ad ogni manifesto pericolo disprezzando la vita presente: e per questa causa era temuto in tutti quei paesi come un tiranno, e avea constituito due suoi vicarii, uno alle parti di Damasco, l'altro in Curdistana, che osservano il medesimo ordine con li giovani che gli mandava; e per grand'uomo che si fosse, essendo inimico del detto Vecchio, non poteva campare che non fosse ucciso.
Era detto Vecchio sottoposto alla signoria di Ulaú, fratello del gran Can, qual, avendo inteso delle sceleratezze di costui (perchè oltre le cose sopradette faceva rubbar tutti quelli che passavan per il suo paese), nel 1262 mandò un suo esercito ad assediarlo nel castello, dove stette anni tre che non li poterno far cosa alcuna; al fine, mancandogli le vettovaglie, fu preso e morto, e spianato il castello e il giardino del paradiso.

D'una pianura abondante di sei giornate, e poi d'un deserto d'otto, che si passa per arrivare alla città di Sapurgan; e delle buone pepone che vi sono, le qual fatte in coreggie seccano.
Cap. 22.

Partendosi da questo castello, si cavalca per una bella pianura e per valli e colline, dove sono erbe e pascoli e molti frutti in grande abondanza (e per questo l'esercito d'Ulaú vi dimorò volentieri): e dura questa contrata per spazio ben di sei giornate. Qui sono città e castelli, e li uomini osservano la legge di Macometto. Dipoi s'entra in un deserto che dura quaranta miglia e cinquanta, dove non è acqua, ma bisogna che gli uomini la portino seco, e le bestie mai non beono fino che non son fuori di quello, il quale è necessario di passar con gran prestezza perchè poi trovan acqua. E cavalcato che s'è le dette sei giornate, s'arriva ad una città detta Sapurgan, la qual è abondantissima di tutte le cose necessarie al vivere, e sopra tutto delle miglior pepone del mondo, le quali fanno seccare in questo modo: le tagliano tutte a torno a torno a modo di correggie, sí come si fanno delle zucche, e poste al sole le seccano, e poi le portano a vendere alle terre prossime per gran mercanzia, e ognuno ne compra perchè son dolci come mele. Sono in quella cacciagioni di bestie e d'uccelli.
Ora lasciasi questa città e dirassi d'un'altra, che si truova passando la sopradetta, chiamata Balach, la quale è città nobile e grande, ma piú nobile e piú grande fu già, perciò che li Tartari, facendoli molte volte danno, l'hanno malamente trattata e rovinata: e già furono in quella molti palagi di marmo e corti, e sonvi ancora, ma distrutti e guasti. In questa città dicono gli abitanti che Alessandro tolse per moglie la figliuola del re Dario, i quali osservano la legge di Macometto. E fino a questa città durano li confini della Persia fra greco e levante, e partendosi dalla sopradetta città si cavalca per due giornate tra levante e greco, nelle quali non si truova abitazione alcuna, perchè le genti se ne fuggono alli monti e alle fortezze, per paura di molte male genti e de' ladri che vanno scorrendo per quelle contrade facendoli gran danni. Vi sono molte acque e molte cacciagioni di diversi animali, e vi sono anco de' leoni. Vettovaglie non si truovano in questi monti per dette due giornate, ma bisogna che quelli che passano se le portino seco per loro e per li suoi cavalli.

Del castello detto Thaican, e de' monti del sale, e de' costumi degli abitanti.
Cap. 23.

Poi che s'è cavalcato le dette due giornate, si truova un castello detto Thaican, nel quale è un grandissimo mercato di biade, però ch'egli è posto in un bello e grazioso paese. I suoi monti verso mezodí sono grandi e alti, alcuni de' quali sono d'un sale bianco e durissimo, e li circonstanti per trenta giornate ne vengono a torre, perchè egli è il miglior che sia in tutto 'l mondo; ma è tanto duro che non se ne può torre se non rompendolo con pali di ferro, e ve n'è in tanta copia che tutto 'l mondo si potria fornire. Gli altri monti sono abondanti di mandole e pistacchi, de' quali si ha grandissimo mercato. E partendosi dal detto castello, si va per tre giornate fra greco e levante, sempre trovando contrade bellissime, dove sono molte abitazioni abondanti de frutti, biade e vigne. Gli abitatori osservano la legge di Macometto, e sono micidiali, perfidi e maligni, e attendono molto alle crapole e bere, perchè hanno buon vino cotto. In capo non portano cosa alcuna, se non una cordella di dieci palmi, con la quale circondano il capo. Sono ancora buoni cacciatori e prendono assai bestie salvatiche, e non portano altre vesti se non delle pelli di quelle che uccideno, delle quali acconcie se ne fanno fare vesti e scarpe.

Della città di Scassem, e de' porci spinosi che ivi si truovano.
Cap. 24.

Dopo il cammino di tre giornate si truova una città nominata Scassem, qual è d'un conte, e sono altre sue città e castelli ne' monti. Per mezo di questa città corre un fiume assai ben grande. Ivi sono porci spinosi, contra i quali come il cacciatore instiga i cani, immediate si reducono insieme e con gran furia tirano le spine agli uomini e ai cani, e gli feriscono con le spine che hanno sopra la pelle. Gli abitanti han lingua per sé, e li pastori che hanno bestie abitano in que' monti, in alcune caverne che da loro medesimi s'hanno fatte; il che possono far facilmente, perchè i monti sono di terra e non sassosi.

E quando si parte dalla città sopradetta, si va per tre giornate che non si truova abitazione alcuna né cosa pel viver de' viandanti, salvo che acqua, ma per li cavalli si truovano erbe sufficientemente: per il che gli viandanti si portano seco le cose necessarie. In capo veramente di tre giornate si truova una provincia detta Balaxiam.

Della provincia di Balaxiam, e delle pietre preziose, detti balassi, che ivi si cavano, le qual sono tutte del re; e de' cavalli e falconi che si truovano, e dell'aer eccellente e sano che è nelle sommità d'alcuni monti; e de' vestimenti che portano le donne per parer belle.
Cap. 25.

Balaxiam è una provincia le cui genti osservano la legge macomettana e hanno parlare da sé; e certamente è gran regno, che per longhezza dura ben 12 giornate. Reggesi per successione d'eredità, cioè tutti i re sono d'una progenie, la qual discese dal re Alessandro e dalla figliuola di Dario, re de' Persiani: e tutti quei re si chiamano Zulcarnen, che vuol dire Alessandro. Quivi si trovano quelle pietre preziose che si chiamano balassi, molto belli e di gran valuta, e nascono ne' monti grandi. Ma questo però è in un monte solo, il qual si chiama Sicinan, nel qual il re fa far caverne simili a quelle dove si cava l'argento e l'oro, e a questo modo truovano queste pietre; né alcun altro salvo che 'l re può farne cavare, sotto pena della vita, se di special grazia per il re non viene concesso. E qualche volta ne dona ad alcuni gentiluomini che passano di là, qual non possono comprarne da altri né portarne fuori del suo regno senza sua licenza: e questo fa egli perchè vuole che i suoi balassi per onor suo siano di maggior valuta e tenuti piú cari, perchè, se ciascuno a suo piacere li potesse cavare o comprare e portar fuori, trovandosene in tanta copia verrebbono a vilissimo prezzo. E però il re dona di quelli ad alcuni re e prencipi per amore, ad alcuni ne dà per tributo, e anco ne cambia per oro: e questi si possono trarre per altre contrade. Si trovano similmente monti nelli quali vi è la vena delle pietre delle qual si fa l'azzurro, il migliore che si truovi nel mondo, e vene che producono argento, rame e piombo in grandissima quantità. È provincia certamente fredda.
Ivi ancora nascono buoni cavalli, che sono buoni corridori, e hanno l'unghie de' piedi cosí dure che non hanno bisogno di portar ferri: e gli uomini corrono con quelli per le discese de' monti, dove altre bestie non potriano correre né avrebbono ardire di corrervi. E gli fu detto che non era passato molto tempo che si trovavano in questa provincia cavalli ch'erano discesi dalla razza del cavallo d'Alessandro, detto Bucefalo, i quali nascevano tutti con un segno in fronte, e n'era solamente la razza in poter d'un barba del re; qual, non volendo consentir che 'l re ne avesse, fu fatto morire da quello, e la moglie per dispetto della morte del marito distrusse la detta razza, e cosí s'è perduta. Oltre di ciò, ne' monti di quella provincia nascono falconi sacri, che sono molto buoni e volano bene, e similmente falconi laneri, astori perfetti e sparavieri. Sono gli abitanti cacciatori di bestie e uccellatori; hanno buon frumento, e vi nasce l'orzo senza scorza. Non hanno olio di olivo, ma lo fanno di noci e di susimano, il quale è simile alle semenze di lino, ma quelle del susiman sono bianche, e l'olio è migliore e piú saporito di qualunque altro olio, e l'usano i Tartari e altri abitanti in quelle parti.
In questo regno sono passi molto stretti e luoghi molto forti, di modo che non temono d'alcuna persona che possa entrar nelle loro terre per far lor danno. Gli uomini sono buoni arcieri e ottimi cacciatori, e quasi tutti si vestono di cuori di bestie, perchè hanno carestia dell'altre veste. In quei monti abondano montoni infiniti, e vanno alle volte in un gregge quattrocento, cinquecento e seicento, e tutti sono salvatichi, e se ne prendono molti né mai mancano. La proprietà di quei monti è tale che sono altissimi, di modo che un uomo ha che fare dalla mattina insino alla sera a poter ascendere in quelle sommità, nelle quali vi sono grandissime pianure e grande abondanza d'erbe, e arbori, e fonti grandi di purissime acque, che discorrono a basso per quei sassi e rotture. In detti fonti si trovano temali e molti altri pesci delicati, e l'aere è cosí puro in quelle sommità e l'abitarvi cosí sano, che gli uomini che stanno nella città e nel piano e valli, come si sentono assaltar dalla febre di ciascuna sorte o d'altra infirmità accidentale, immediate ascendono il monte e stanvi due o tre giorni e si ritrovano sani, per causa dell'eccellenza dell'aere: e messer Marco affermò averlo provato, perciò che ritrovandosi in quelle parti stette ammalato circa un anno, e subito che fu consigliato d'andar sopra detto monte si risanò.
Le donne di questo luogo grande e onorevole si fanno dalla cintura in giú veste a modo di braghesse, e mettono in quelle secondo le sue facoltà chi cento, chi ottanta, chi sessanta braccia di bambasina, e le fanno increspate: e questo acciò che paiano piú grosse nelle parti dalla cinta in giú, però che i suoi mariti si dilettano di donne che abbino quelle parti grosse, e quelle che l'han maggiori vengono riputate piú belle.

Della provincia di Bascià, che è verso mezodí, e come gli abitanti portano molti lavori d'oro all'orecchie, e costumi loro.
Cap. 26.

Partendosi da Balaxiam e cavalcando verso mezodí per dieci giornate, si truova una provincia detta Bascià, gli uomini della qual hanno il parlar da per sé e adorano gl'idoli, e sono genti brune, e molto esperti nell'arte magica, e di continuo attendono a quella. Portano all'orecchie circoli d'oro e d'argento pendenti, con perle e pietre preziose, lavorati con grande artificio. Sono genti perfide e crudeli e astute secondo i costumi loro. La provincia è in luogo molto caldo. Il viver loro sono carne e risi.

Della provincia di Chesmur, che è verso sirocco, e degli abitanti, che sanno l'arte magica; e come sono vicini al mare dell'India, e della sorte di eremiti che son ivi, e vita loro di grand'astinenzia.
Cap. 27.

Chesmur è una provincia ch'è distante da Bascià per sette giornate, la cui gente ha il parlar da sua posta; e sanno l'arte magica sopra tutti gli altri, di sorte che constringono gl'idoli, che sono muti e sordi, a parlare, fann'oscurar il giorno e molte altre cose maravigliose, e sono il capo di tutti quelli ch'adorano gl'idoli, e da loro discesero gl'idoli. Da questa contrata si può andar al mare degl'Indiani. Gli uomini di questa provincia sono bruni e non del tutto negri, e le donne, ancor che siano brune, sono però bellissime. Il viver loro è carne, riso e altre cose simili; nondimeno sono magri. La terra è calda temperatamente, e in quella provincia sono di molte altre città e castelli. Sonvi ancora boschi e luoghi deserti e passi fortissimi, di modo che gli uomini di quella contrada non hanno paura di persona alcuna che li vada ad offendere; il re loro non è tributario d'alcuno. Hanno eremiti secondo la loro consuetudine, i quali stanno ne' suoi monasterii, e sono molto astinenti nel mangiare e bere e osservano grandissima castità, e guardansi grandemente dalli peccati, per non offender li lor idoli ch'adorano, e vivono longo tempo. Di questa tal sorte di uomini vi sono abbazie e molti monasterii, e da tutt'il popolo gli viene portata gran riverenzia e onore. E gli uomini di quella provincia non uccidono animali né fanno sangue, e se vogliono mangiare carne è necessario che li saraceni, che sono mescolati tra loro, uccidano gli animali. Il corallo che si porta dalla patria nostra in quelle parti si spende per maggior prezzo che in alcun'altra parte.
Se io volessi andar seguendo alla dritta via intrarei nell'India, ma ho deliberato di scriverla nel terzo libro, e per tanto ritornarò alla provincia Balaxiam, per la quale si drizza il camino verso il Cataio tra levante e greco, trattando come s'è cominciato delle provincie e contrate che sono nel viaggio, e dell'altre che vi sono a torno a destra e a sinistra confinanti con quelle.

Della provincia di Vochan, dove si va ascendendo per tre giornate fino sopra un grandissimo monte, e de' montoni che son ivi; e come il fuoco che si fa in quell'altezza non ha la forza che ha nel piano; e degli abitanti, che sono come salvatichi.
Cap. 28.

Partendosi dalla provincia di Balaxiam e caminando per greco e levante, si truovano sopra la ripa d'un fiume molti castelli e abitazioni, che sono del fratello del re di Balaxiam; e passate tre giornate s'entra in una provincia che si chiama Vochan, la qual tien per longhezza e larghezza tre giornate: e le genti di quella osservano la legge di Macometto, e hanno parlar da per sé, e sono uomini d'approbata vita e valenti nell'arme. Il loro signore è un conte che è soggetto al signore di Balaxiam. Hanno bestie e uccellatori d'ogni maniera.
E partendosi da questa contrata si va per tre giornate tra levante e greco sempre ascendendo per monti, e tanto s'ascende che la sommità di quei monti si dice esser il piú alto luogo del mondo. E quando l'uomo è in quel luogo truova fra due monti un gran lago, dal qual per una pianura corre un bellissimo fiume: e in quella sono i migliori e i piú grassi pascoli che si possino trovare, dove in termine di dieci giorni le bestie (siano quanto si voglian magre) diventano grasse. Ivi è grandissima moltitudine d'animali salvatichi, e specialmente montoni grandissimi, che hanno le corna alla misura di sei palmi e almanco quattro o tre, delle qual li pastori fanno scodelle e vasi grandi dove mangiano, e con quelli serrano anco i luoghi dove tengono le lor bestie; e gli fu detto che vi sono lupi infiniti che uccidono molti di quei becchi, e che si trova tanta moltitudine di corna e ossa, che di quelli atorno le vie si fanno gran monti per mostrar alli viandanti la strada che passano al tempo della neve. E si cammina per dodici giornate per questa pianura, la qual si chiama Pamer, e in tutto questo cammino non si truova alcuna abitazione, per il che bisogna che i viandanti portino seco le vettovaglie. Ivi non appare sorte alcuna d'uccelli, per l'altezza de' monti, e gli fu affermato per miracolo che per l'asprezza del freddo il fuoco non è cosí chiaro come negli altri luoghi, né si può ben con quello cuocere cosa alcuna.
Poi che si ha cavalcato le dette dodici giornate, bisogna cavalcare circa quaranta giornate pur verso levante e greco, continuamente per monti, coste e valli, passando molti fiumi e luoghi deserti, ne' quali non si truova abitazione né erba alcuna, ma bisogna che li viandanti portino seco da vivere: e questa contrada si chiama Beloro. Nelle sommità di quei monti altissimi vi abitano uomini che sono idolatri e come salvatichi, quali non vivono d'altro che di cacciagioni di bestie, si vestono di cuori e sono genti inique.

Della città di Cascar, e delle mercanzie che fanno gli abitanti.
Cap. 29.

Dopo si perviene a Cascar, che (come si dice) già fu reame, ma ora è sottoposto al dominio del gran Can, le cui genti osservano la legge di Macometto. La provincia è grande, e in quella sono molte città e castella, delle quali Caschar è la piú nobile e maggiore; sono tra levante e greco. Gli abitanti di questa provincia hanno parlar da per sé, vivono di mercanzie e arti, e specialmente de' lavorieri di bambagio. Hanno belli giardini e molte possessioni fruttifere e vigne; vi nasce bambagio in grandissima quantità, lino e canevo. La terra è fertile e abondante di tutte le cose necessarie. Da questa contrata si partono molti mercanti che vanno pel mondo, e nel vero sono genti avare e misere, perchè mangiano male e peggio bevono. Oltre li macomettani vi abitan alcuni cristiani nestorini, che hanno la loro legge e chiese. E la sopradetta provincia è di longhezza di cinque giornate.

Della città di Samarchan, e del miracolo della colonna nella chiesa di San Giovan Battista.
Cap. 30.

Samarchan è una città nobile, dove sono bellissimi giardini e una pianura piena di tutti i frutti che l'uomo può desiderare. Gli abitanti parte son cristiani e parte saraceni, e sono sottoposti al dominio d'un nepote del gran Can, del qual non è però amico, anzi è di continuo fra loro inimicizia e guerra. Ed è posta la detta città verso il vento maestro. E in questa città gli fu detto esser accaduto un miracolo, in questo modo: che già anni cento e venticinque uno nominato Zagathai, fratello germano del gran Can, si fece cristiano, con grand'allegrezza de' cristiani abitanti, quali col favor del signore fecero fabricar una chiesa in nome di s. Giovan Battista: e fu fatta con tal artificio che tutt'il tetto di quella (ch'era ritonda) si fermava sopra una colonna ch'era in mezzo, e di sotto di quella vi metterono una pietra quadra, la quale tolsero col favor del signore d'un edificio de' saraceni, li quali non ebbero ardimento di contradirgli per paura. Ma, venuto a morte Zagathai, gli successe un suo figliuolo qual non volse esser cristiano, e allora i saraceni impetrorno da lui che li cristiani li restituissero la lor pietra; la qual ancor che i cristiani s'offerissero di pagarla, non volsero, perciochè pensavano che, levandola via, la chiesa dovesse rovinare: per la qual cosa li cristiani dolenti ricorsero a raccomandarsi al glorioso S. Giovanni, con grande lacrime e umiltà. E venuto il giorno nel quale doveano restituire la detta pietra, per intercession del santo, la colonna si levò alta dalla base della detta pietra per palmi tre in aere, che facilmente si poteva levar via la pietra de' saraceni senza che gli fosse posto sostentamento alcuno, e cosí fin al presente si vede detta colonna senz'alcuna cosa sotto.
Si è detto a bastanza di questo, dirassi della provincia di Carchan.

Della città di Carchan, dove gli uomini hanno le gambe grosse e il gosso nella gola.
Cap. 31.

Di qui partendosi si vien nella provincia di Carchan, la cui longhezza dura cinque giornate. Le genti osservano la legge di Macometto, e vi sono alcuni cristiani nestorini, e sono soggetti al dominio del sopradetto nepote del gran Can. Sono copiosi delle cose necessarie, e massimamente di bambagio. Gli abitanti sono grandi artifici, e hanno per la maggior parte le gambe grosse e un gran gosso nella gola, il che avviene per la proprietà dell'acque che bevono. E in questa provincia altro non v'è degno di memoria.

Della città di Cotam, e abondanza d'ogni cosa necessaria al vivere.
Cap. 32.

Dopo si perviene alla provincia di Cotam, fra greco e levante, la cui longhezza è otto giornate, ed è subdita al gran Can, e quelle genti osservano la legge di Macometto. Sono in essa molte città e castelli, e la piú nobil città, e dalla quale il regno ha tolto il nome, è Cotam, la quale è abondantissima di tutte le cose necessarie al vivere umano. Vi nasce bambagio, lino e canevo, biada e vino e altro. Gli abitanti hanno vigne, possessioni e molti giardini; vivono di mercanzie e d'arti, e non sono uomini da guerra.
Si è detto di questa provincia, dirassi d'un'altra detta Peym.

Della provincia di Peym, e delle pietre calcedonie e diaspri che si truovano in un fiume; e della consuetudine che hanno di maritarsi di nuovo ogni fiata che vogliono.
Cap. 33.

Peym è una provincia la cui longhezza è di cinque giornate tra levante e greco, le cui genti sono macomettane e soggette al gran Can. Vi son molte città e castella, ma la piú nobile si chiama Peym; per quella discorre un fiume, nel qual si truovano molte pietre di calcedonii e diaspri. Sono in questa provincia tutte le cose necessarie; ivi ancor nasce il bambagio. Gli uomini vivono d'arti e di mercanzie, e hanno questo brutto costume, che se la donna ha marito al qual accada andar ad altro luogo dove abbia a stare per venti giorni, la donna, secondo la loro consuetudine, subito può torre un altro marito, s'ella vuole; e gli omini ovunque vadano similmente si maritano.
E tutte le provincie sopradette, cioè Caschar, Cotam, Peym, fino alla città di Lop, sono comprese nelli termini della gran Turchia. Seguita della provincia Ciarcian.

Della provincia di Ciarcian, e delle pietre di diaspri e calcedonii che si trovano ne' fiumi e sono portati in Aucata; e come gli abitanti fuggono ne' deserti quando passa l'esercito de' Tartari.
Cap. 34.

Ciarcian è una provincia della gran Turchia, tra greco e levante; già fu nobile e abondante, ma da' Tartari è stata destrutta. Le sue genti osservano la legge di Macometto. Sono in detta provincia molte città e castelli, ma la città maestra del regno è Ciarcian. Vi sono molti fiumi grossi, ne' quali si trovano molti diaspri e calcedonei che si portano fino ad Ouchah a vendere, e di quelli ne fanno gran mercanzia, per esservene gran copia. Da Peym fino a questa provincia e anco per essa è tutta arena, e sonvi molte acque triste e amare, e in pochi luoghi ve n'è di dolci e buone. E quando avviene che qualche esercito de' Tartari, cosí d'amici come di nemici, passa per quelle parti, se sono nemici depredano tutti i suoi beni, e se sono amici uccidono e mangiano tutte le loro bestie: e però, quando sentono che deono passare, subitamente con le mogli, co' figliuoli e bestie fuggon nell'arena per due giornate, a qualche luogo dove siano buone acque e che possono vivere. E sappiate che, quando raccogliono le lor biade, le ripongono lontano dalle abitazioni in quelle arene, in alcune caverne, per paura degli eserciti, e d'indi riportano le cose necessarie a casa di mese in mese; né altri ch'essi conoscono que' luoghi, né mai alcuno può sapere dove vadano, perchè soffiando il vento subito cuopre le loro pedate con l'arena.
E poi, partendosi da Ciarcian, si va per cinque giornate per l'arena, dove sono cattiv'acque e amare, e in alcuni luoghi sono buone e dolci, ma non vi sono altre cose che siano da dire. E al fine delle cinque giornate si trova una città detta Lop, la quale confina col gran deserto.

Della città di Lop e del deserto ch'è vicino; delle cose mirabili che sentono passando per quello.
Cap. 35.

Lop è una città dalla qual partendosi s'entra in un gran deserto, il qual similmente si chiama Lop, posto fra greco e levante; e la città è del gran Can, le cui genti osservano la legge di Macometto. E quelli che vogliono passar il deserto riposano in questa città per molti giorni, per preparar le cose necessarie per il cammino, e cargati molti asini forti e camelli di vettovaglie e mercanzie, se le consumano avanti che possino passarlo, ammazzano gli asini e camelli e li mangiano; ma menano per il piú li camelli, perchè portano gran cariche e sono di poco cibo. E le vettovaglie deono essere per un mese, perchè tanto stanno a passarlo per il traverso, perchè alla lunga saria quasi impossibile a poterlo passare, non potendosi portare vittuaria a sofficienza, per la longhezza del cammino, che dureria quasi un anno. E in queste trenta giornate sempre si va per pianura d'arena e per montagne sterili, e sempre in capo di ciascuna giornata si truova acqua, non già a bastanza per molta gente, ma per cinquanta overo cento uomini con le loro bestie: e in tre overo quattro luoghi si truova acqua salsa e amara, e tutte l'altre acque sono buone e dolci, che sono circa ventotto. In questo deserto non abitano bestie né uccelli, perchè non vi truovano da vivere.
Dicono per cosa manifesta che nel detto deserto v'abitano molti spiriti, che fanno a' viandanti grandi e maravigliose illusioni per fargli perire, perchè a tempo di giorno, s'alcuno rimane adietro o per dormire o per altri suoi necessarii bisogni, e che la compagnia passi alcun colle che non lo possino piú vedere, subito si sentono chiamar per nome e parlare a similitudine della voce de' compagni, e credendo che siano alcun di quelli vanno fuor del camino, e non sapendo dove andare periscono. Alcune fiate di notte sentiranno a modo d'impeto di qualche gran cavalcata di gente fuor di strada, e credendo che siano della sua compagnia se ne vanno dove senton il romore, e fatt'il giorno si truovan ingannati e capitano male. Similmente di giorno, s'alcun rimane adietro, gli spiriti appariscono in forma di compagni e lo chiaman per nome e lo fann'andar fuor di strada. E ne son stati di quelli che, passando per questo deserto, hanno veduto un esercito di gente che gli veniva incontro, e dubitando che vogliano rubbarli s'hanno messo a fuggire, e lasciata la strada maestra, non sapendo piú in quella ritornare, miseramente sono mancati dalla fame. E veramente sono cose maravigliose e fuor d'ogni credenza quelle che vengono narrate che fanno questi spiriti in detto deserto, che alle fiate per aere fanno sentire suoni di varii e diversi instrumenti di musica e similmente tamburi e strepiti d'arme: e però costumano d'andar molto stretti in compagnia, e avanti che comincino a dormire mettono un segnale verso che parte hanno da camminare, e a tutti li loro animali legano al collo una campanella, qual sentendosi non li lascia uscire di strada; e con grandi travagli e pericoli è di bisogno di passar per detto deserto.

Della provincia di Tanguth e della città di Sachion, e de' costumi quando nasce loro un figliuolo, e del modo come abbruciano li corpi de' morti.
Cap. 36.

Quando s'è cavalcato queste trenta giornate pel deserto, si truova una città detta Sachion, la qual è del gran Can, e la provincia si chiama Tanguth. E adorano gl'idoli, e vi sono turchi e alcuni pochi cristiani nestorini e anco saraceni, ma quelli che adorano gli idoli hanno linguaggio da per sé. La città è tra levante e greco. Non sono genti che vivino di mercanzie, ma delle biade e frutti che raccogliono delle lor terre. Oltre di ciò hanno molti monasterii e abbazie, che sono piene d'idoli di diverse maniere, alli quali sacrificano e onorano con grandissima riverenza. E come nasce lor un figliuolo maschio, lo raccomandan ad alcun de' detti idoli, ad onor del quale nutriscono un montone in casa quell'anno, in capo del quale, quando vien la festa del detto idolo, lo conducono avanti di quello insieme col figliuolo: dove sacrificano il montone, e cotte le carni gliele lasciano per tanto spazio fino che compino le lor orazioni, nelle quali pregano gl'idoli che conservino il lor figliuolo in sanità, e dicono ch'essi idoli fra questo spazio hanno succiato tutta la sostanza overo sapore delle carni. Fatto questo portano quelle carni a casa, e congregati i parenti e amici con grand'allegrezza e riverenza le mangiano, e salvano tutte l'ossa in alcuni belli vasi; e li sacerdoti degl'idoli hanno il capo, li piedi, gl'interiori e la pelle e qualche parte della lor carne.
Similmente questi idolatri nella lor morte osservano questo costume, che quando manca alcun di loro che sia di condizione, che gli vogliono abbruciar il corpo, li parenti mandan a chiamare gli astrologhi e li dicono l'anno, il giorno e l'ora che 'l morto nacque; quali, poi ch'hanno veduto sotto che constellazione, pianeta e segno egli era nato, dicono in tal giorno die' esser abbruciato. E s'allora quel pianeta non regna, fanno ritener il corpo tal volta una settimana morto e anco sei mesi avanti che l'abbrucino, aspettando che 'l pianeta gli sia propizio e non contrario, né mai gl'abbruciarebbono fino che gli astrologhi non dicono: ora è il tempo. Di sorte che, bisognando tenerlo in casa longamente, per schiffar la puzza fanno far una cassa di tavole grosse un palmo, molto ben congionte e dipinte, dove posto il corpo con molte gomme odorifere, canfora e altre speciarie, gli stroppano le congiunture con pece e calcina, coprendola di panni di seta. E in questo tempo che lo tengono in casa, ogni giorno gli fanno preparar la tavola con pane, vino e altre vivande, lasciandogliela per tanto spazio quanto uno potria mangiare commodamente, perchè dicono che 'l spirito, ch'è ivi presente, si sazia dell'odore di quelle vivande.
Alcune fiate detti astrologhi dicon alli parenti che 'l non è buon che 'l corpo sia portato per la porta maestra, perchè truovano cause delle stelle o altra cosa che gli è in opposito alla detta porta, e lo fanno portar fuori per un'altra parte della casa, e alle volte fanno rompere i muri li quali guardano a drittura verso il pianeta che gli è secondo e prospero, e per quell'apritura fanno portar fuori il corpo: e se fosse fatto altramente, dicono che gli spirti de' morti offenderebbono quelli di casa e gli farian danno. E s'accade che ad alcuno di casa gl'intravenghi qualche male o disgrazia overo muora, subito gli astrologi dicono che 'l spirito del morto ha fatto questo per non esser stato portato fuori essendo in esaltazion il pianeta sotto il qual nacque, overo che gli era contrario, overo che non è stato per quella debita parte della casa che si dovea. E dovendosi abbruciar fuori della città, li fanno fare per le strade dov'egli ha da passar alcune casette di legname col suo portico, coperte di seta; e quando vi giugne il corpo lo mettono in quelle, ponendogli avanti pane, vino, carne e altre vivande, e cosí fanno fin che giungono al luogo determinato, avendo per opinione che 'l spirito del morto si restauri alquanto e pigli vigore, dovendo esser presente a veder abbruciare il corpo. Usano anco un'altra cerimonia, che pigliano molte carte fatte di scorzi d'arbori, e sopra quelle dipingono uomini, donne, cavalli, camelli, denari e veste, e quelle abbruciano insieme col corpo, perchè dicono che nell'altro mondo l'averà servitori, cavalli e tutte le altre cose che son state dipinte sopra le carte. E a tutto quest'officio vi sono presenti tutti li stromenti della città, di continuo sonando.
Avendo detto di questa, dirassi delle altre città che sono verso maestro, appresso al capo del deserto.

Della provincia di Chamul, e del costume che hanno di lasciar che le lor mogli e figliuole dormino con li forestieri che passano per il paese.
Cap. 37.

Chamul è una provincia posta fra la gran provincia di Tanguth soggetta al gran Can, e sono in quella molte città e castella, delle quali la città maestra è detta similmente Chamul; e la provincia è in mezzo di due deserti, cioè del gran deserto che di sopra s'è detto e d'un altro picciol forse di tre giornate. Tutte quelle genti adorano gl'idoli e hanno linguaggio da per sé; vivono di frutti della terra, perchè ne hanno grande abondanza, e di quelli vendono a' viandanti. Gli uomini di questa provincia sono sollazzosi, e non attendono ad altro che a sonare instrumenti, cantare, ballare, e a scrivere e leggere secondo la loro consuetudine, e darsi piacere e diletto. E s'alcun forestiero va ad alloggiar alle loro case molto si rallegrano, e comandano strettamente alle loro mogli, figliuole, sorelle e altre parenti che debbano integramente adempire tutto quello che li piace; e loro, partendosi di casa, se ne vanno alle ville e di lí mandano tutte le cose necessarie al lor oste, nondimeno col pagamento di quelli, né mai ritornano a casa fin che 'l forestiero vi sta. Giaceno con le lor moglie, figliuole e altre, pigliandosi ogni piacere come se fossero proprie sue mogli: e questi popoli reputano questa cosa essergli di grand'onore e ornamento, e molto grata alli loro idoli, facendo cosí buon ricetto a' viandanti bisognosi di ricreazione, e che per questo siano moltiplicati tutti li loro beni, figliuoli e facoltà, e guardati da tutti i pericoli, e che tutte le cose gli succedino con grandissima felicità. Le donne veramente sono molto belle e molto sollazzose, e obedientissime a quanto li mariti comandano.
Ma avvenne al tempo che Manghú gran Can regnava in questa provincia, avendo inteso i costumi e consuetudine cosí vergognosi, comandò strettamente agli uomini di Chamul che per lo innanzi dovessero lasciare questa cosí disonesta opinione, non permettendo che alcun di quella provincia alloggiasse forestieri, ma che li provedessero di case communi dove potessero stare. Costoro, dolenti e mesti, per tre anni in circa osservarono i comandamenti del re; ma finalmente, vedendo che le terre loro non rendevano i soliti frutti, e nelle case loro succedevano molte adversità, ordinarono ambasciatori al gran Can, pregandolo che quello che dalli lor antichi padri e avi a loro era stato lasciato con tanta solennità fosse contento che potessero osservare, perciò che, dapoi che mancavano di far questi piaceri ed elemosine verso i forestieri, le loro case andavano di mal in peggio e in rovina. Il gran Can, intesa questa domanda, disse: "Poi che tanto desiderate il vituperio e ignominia vostra, siavi concesso: andate e vivete secondo i vostri costumi, e fate che le donne vostre siano limosinarie verso i viandanti". E con questa risposta tornarono a casa, con grandissima allegrezza di tutt'il popolo, e cosí fin al presente osservano la prima consuetudine.

Della provincia di Succuir, dove si trova il reubarbaro, che vien condotto per il mondo.
Cap. 38.

Partendosi dalla provincia predetta si va per dieci giornate fra greco e levante, e in quel cammino vi sono poche abitazioni, né cose degne di raccontarle; e in capo di dieci giornate si truova una provincia chiamata Succuir, nella qual sono molte città e castella, e la principal città è ancor lei nominata Succuir, le cui genti adorano gl'idoli, e sono ancora in quella alcuni cristiani. Sono sottoposti alla signoria del gran Can, e la gran provincia generale nella qual si contiene questa provincia, e altre due provincie subsequenti, si chiama Tanguth. E per tutti li suoi monti si truova reubarbaro perfettissimo in grandissima quantità, e i mercanti che ivi lo cargano lo portano per tutt'il mondo. Vero è che li viandanti che passano di lí non ardiscono andar a quei monti con altre bestie che di quella contrata, perchè vi nasce un'erba venenosa, di sorte che se le bestie ne mangiano perdono l'unghie: ma quelle di detta contrata conoscono l'erba e la schifano di mangiare. Gli uomini di Succuir vivono de' frutti della terra e delle lor bestie, e non usano mercanzie. La provincia è tutta sana, e le genti sono brune.

Della città di Campion, capo della provincia di Tanguth, e della sorte de' lor idoli, e della vita de' religiosi idolatri, e il lunario che hanno; e de' costumi degli altri abitanti nel maritarsi.
Cap. 39.

Campion è una città che è capo della provincia di Tanguth: la città è molto grande e nobile e signoreggia a tutta la provincia. Le sue genti adorano gl'idoli, alcuni osservano la legge di Macometto, e altri sono cristiani, i quali hanno tre belle e grandi chiese in detta città. Quelli che adorano gl'idoli hanno secondo la loro consuetudine molti monasterii e abbazie, e in quelle gran moltitudine d'idoli, de' quali alcuni sono di legno, alcuni di terra e alcuni di pietra, coperti d'oro e molto maestrevolmente fatti. Di questi ne sono di grandi e piccioli: quelli che sono grandi sono ben passa dieci di longhezza e giaceno distesi, e li piccioli gli stanno adietro, quasi che paiono come discepoli a fargli riverenza. Vi sono idole grande e picciole, che similmente hanno in gran venerazione. I religiosi idolatri vivono, secondo che par a loro, piú onestamente degli altri idolatri, perchè s'astengono da certe cose, cioè dalla lussuria e altre cose disoneste; quantunque reputino la lussuria non essere gran peccato, perchè questa è la loro conscienza, che se la donna ricerca l'uomo d'amore possino usare con quella senza peccato, ma s'essi sono primi a ricercar la donna allora lo reputano a peccato. Item che hanno un lunario di mesi quasi come abbiamo noi, secondo la cui ragione quelli che adorano gl'idoli per cinque o quattro overo tre giorni al mese non fanno sangue, né mangiano uccelli né bestie, come è usanza appresso di noi ne' giorni di venere, di sabbato e vigilie de' Santi. E i secolari togliono fino a trenta mogli, e piú e manco secondo che le loro facoltà ricercano, e non hanno dote da quelle, ma loro danno alle donne dote di bestie, schiavi e denari. E la prima moglie tiene sempre il luogo della maggiore, e se veggono ch'alcuna di loro non si porti bene con l'altre, overo non li piace, la possono scacciare. Pigliano anco le parenti e congiunte di sangue per mogli, e le matrigne. E molti peccati mortali appresso loro non si reputano peccati, perchè vivono quasi a modo di bestie. In questa città messer Marco Polo dimorò con suo padre e barba per sue facende circa un anno.

Della città di Ezina, e degli animali e uccelli che ivi si trovano, e del deserto che è di quaranta giornate verso tramontana.
Cap. 40.


Partendosi da questa città di Campion e cavalcando per dodici giornate, si truova una città nominata Ezina, in capo del deserto dell'arena verso tramontana: e contiensi sotto la provincia di Tanguth. Le sue genti adorano idoli; hanno camelli e molte bestie di molte sorti. In quella si truovano falconi laneri, e molti sacri molto buoni. Gli uomini vivono di frutti della terra e di bestie, e non usano mercanzie. I viandanti che passano per questa città togliono vettovaglia per quaranta giornate, però che, partendosi da quella verso tramontana, si cavalca per un deserto quaranta giornate, dove non si trova abitazion alcuna, né stanno le genti se non l'estate ne' monti e in alcune valli. Ivi si truovan acque e boschi di pini, asini salvatichi e molt'altre bestie similmente salvatiche. E quando s'è cavalcato per questo deserto quaranta giornate, si truova una città verso tramontana detta Carachoran. E tutte le provincie sopradette e città, cioè Sachion, Chamul, Chinchitalas, Succuir, Campion ed Ezina, sono pertinenti alla gran provincia di Tanguth.

Della città di Carchoran, che è il primo luogo dove li Tartari si ridussero ad abitare.
Cap. 41.


Carchoran è una città il cui circuito dura tre miglia, e fu il primo luogo appresso al quale ne' tempi antichi si ridussero i Tartari. E la città ha d'intorno un forte terraglio, perchè non hanno copia di pietre; appresso la quale di fuori è un castello molto grande, e in quello è un palagio bellissimo dove abita il rettore di quella.

Del principio del regno di Tartari, e di che luogo vennero, e come erano sottoposti ad Umcan, che chiamano un Prete Gianni, che è sotto la tramontana.
Cap. 42.

Il modo adunque pel quale i Tartari cominciarono primamente a dominare si dichiarerà al presente. Essi abitavano nelle parti di tramontana, cioè in Giorza e Bargu, dove sono molte pianure grandi e senza abitazione alcuna, cioè di città e castella, ma vi sono buoni pascoli e gran fiumi e molte acque. Fra loro non aveano alcun signore, ma davano tributo ad un gran signore che, come intesi, nella lingua loro si chiama Umcan, qual è opinion d'alcuni che vogli dire nella nostra Prete Gianni: a costui i Tartari davano ogni anno la decima di tutte le lor bestie. Procedendo il tempo, questi Tartari crebbero in tanta moltitudine che Umcan, cioè Prete Gianni, temendo di loro si propose separarli per il mondo in diverse parti; onde, qualunque volta gli veniva occasione che qualche signoria si ribellasse, eleggeva tre e quattro per centinaio di questi Tartari e mandavali a quelle parti: e cosí la loro potenza si diminuiva; e similmente faceva nell'altre sue facende, e deputò alcuni de' suoi principali ad esequir quest'effetto. Allora, vedendosi i Tartari a tanta servitú cosí indegnamente soggiogati, non volendo separarsi l'un dall'altro, e conoscendo che non si cercava altro che la sua ruina, si partirono da' luoghi dove abitavano e andarono tanto per un lungo deserto verso tramontana che per la lontananza parse a loro esser sicuri, e allora denegorno di dare ad Umcan il solito tributo.

Come Cingis Can fu il primo imperator di Tartari, e come combatté con Umcan e lo ruppe e prese tutt'il suo paese.
Cap. 43.


Avvenne che, circa l'anno del nostro Signore 1162, essendo stati i Tartari per certo tempo in quelle parti, elessero in loro re uno che si chiamava Cingis Can, uomo integerrimo, di molta sapienza, eloquente e valoroso nell'armi, qual cominciò a reggere con tanta giustizia e modestia, che non come signore ma come dio era da tutti amato e riverito; di modo che, spargendosi pel mondo la fama del valor e virtú sua, tutti i Tartari che erano in diverse parti del mondo si ridussero all'obedienza sua. Costui, vedendosi signore di tanti valorosi uomini, essendo di gran cuore, volse uscire di que' deserti e luoghi salvatichi, e avendo ordinato che si preparassero con gli archi e altre armi, perchè con gli archi erano valenti e ben ammaestrati, avendosi con quelli esercitati mentre erano pastori, cominciò a soggiogar città e provincie. E tanta era la fama della giustizia e bontà sua, che dove egli andava ciascuno veniva a rendersi, e beato era colui che poteva essere nella grazia sua, di modo ch'egli acquistò circa nove provincie. E questo puoté ragionevolmente avvenire, perchè allora in quelle parti le terre e provincie o si reggevano a commune, overo ciascuna avea il suo re e signore, fra li quali non v'essendo unione, da se stessi non potean resistere a tanta moltitudine. E acquistate e prese che avea le provincie e città, metteva in quelle governatori di tal sorte giusti che li popoli non erano offesi né in la persona né in la robba, e tutti li principali menava seco in altre provincie, con gran provisione e doni.
Vedendo Cingis Can che la fortuna cosí prosperamente li succedea, si propose di tentar maggior cose. Mandò adunque suoi ambasciatori al Prete Gianni simulatamente, conciosiach'egli veramente sapeva che 'l detto non prestarebbe audienza alle lor parole, e gli fece domandare la figliuola per moglie. Il che udito dal Prete Gianni, tutto adirato disse: "Onde è tanta prosonzione in Cingis Can, che sapendo che è mio servo mi domandi mia figliuola? Partitevi dal mio cospetto immediate, e diteli che se mai piú mi farà simil domande lo farò morire miseramente". La qual cosa avendo udito Cingis Can, si turbò fuor di modo e, congregato un grandissimo esercito, andò con quello a mettersi nel paese del Prete Gianni, in una gran pianura che si chiama Tenduch, e mandò a dire al re che si difendesse: qual similmente con grand'esercito se ne venne nella detta pianura, ed erano lontani un dall'altro circa dieci miglia. E quivi Cingis comandò alli suoi astrologhi e incantatori che dovessero dire qual esercito dovea aver vittoria: costoro, presa una canna verde, la divisero in due parti per longo, le qual posero in terra lontane una dall'altra, e scrissero sopra una il nome di Cingis e sopra l'altra quello d'Umcan, e dissero al re che, come loro leggeranno le loro scongiure, per potenza degl'idoli queste canne veniranno una contra l'altra, e quel re averà la vittoria la cui canna monterà sopra l'altra. Ed essendo concorso tutto l'esercito a vedere questa cosa, mentre che gli astrologhi leggevano i libri de' suoi incanti, questi due pezzi di canne si mossero, e pareva che uno si levasse contra l'altro: alla fine, dopo alquanto di spazio, quella di Cingis montò sopra di quella d'Umcan. Il che veduto da' Tartari e da Cingis, con grand'allegrezza andorno ad affrontar l'esercito d'Umcan, e quello ruppero e fracassarono, e fu morto Umcan e tolto il regno, e Cingis prese per moglie la figliuola di quello. Dopo questa battaglia, Cingis andò anni sei continuamente acquistando regni e cittade; alla fine, essendo sotto un castello detto Thaigin, fu ferito con una saetta in un ginocchio e morse, e fu sepolto nel monte Altay.

Della successione di sei imperatori di Tartari, e solennità che gli fanno quando li sepeliscono nel monte Altay.
Cap. 44.


Doppo Cingis Can fu secondo signore Cyn Can; il terzo Bathyn Can; il quarto Esu Can; il quinto Mongú Can; il sesto Cublai Can, il quale fu piú grande e piú potente di tutti gli altri, perch'egli ereditò quel che ebbero gli altri, e dopo acquistò quasi il resto del mondo, perchè lui visse circa anni sessanta nel suo reggimento. E questo nome Can in lingua nostra vuol dir imperatore. E dovete sapere che tutti i gran Can e signori che descendono dalla progenie di Cingis Can si portano a sepelire ad un gran monte nominato Altay, e in qualunque luogo muoiono, se ben fossero cento giornate lontani da quel monte, bisogna che vi sian portati. E quando si portano i corpi di questi gran Cani, tutti quelli che conducono il corpo ammazzano tutti quelli che riscontrano pel cammino, e li dicono: "Andate all'altro mondo a servire al vostro signore", perchè credono che tutti quelli ch'uccidono debbano servire al suo signore nell'altro mondo; il simile fassi de' cavalli, e uccidono tutti li migliori, acciò che li possa aver nell'altro mondo. Quando il corpo di Mongú fu portato a quel monte, li cavallieri che 'l portavano, avendo questa scelerata e ostinata persuasione, uccisero piú di diecimila uomini che incontrarono.

Della vita de' Tartari, e come non stanno mai fermi, ma vanno sempre camminando; e delle lor case sopra carrette, costumi e vivere; e dell'onestà delle lor mogli, delle quali ne cavano grandissima utilità.
Cap. 45


I Tartari non stanno mai fermi, ma conversano al tempo del verno ne' luoghi piani e caldi, dove trovino erbe a bastanza e pascoli per le lor bestie, e l'estate ne' luoghi freddi, cioè ne' monti, dove siano acque e buoni pascoli: e anco per questa causa, perchè dove è il luogo freddo non si truovano mosche né tafani e simili animali, che molestano loro e le bestie. E vanno per due o tre mesi ascendendo di continuo e pascolando, perchè non averebbono erbe sofficienti, per la moltitudine delle lor bestie, pascendo sempre in un luogo. Hanno le case coperte di bacchette e feltroni e rotonde, cosí ordinatamente e con tale artificio fatte che le verghe si raccolgono in un fascio, e si ponno piegare e acconciar a modo d'una soma: quali case portano seco sopra carri di quattro ruote ovunque vadano, e sempre quando le drizzano pongono le porte verso mezzodí. Hanno oltre ciò carrette bellissime di due ruote solamente, coperte di feltro, e cosí bene che se piovesse tutt'il giorno non si potria bagnar cosa che fosse in quelle, qual menano con buoi e camelli. Sopra quelle conducono li loro figliuoli e mogli, e tutte le massarie e vettovaglie che li bisognano. Le donne fanno mercanzie, comprano e vendono e revendono di tutte quelle cose che sono necessarie ai loro mariti e famiglia, perchè gli uomini non s'intromettono in cosa alcuna, salvo che in cacciare, uccellare e nelle cose pertinenti all'armi. Hanno falconi li miglior del mondo, e similmente cani. Vivono solamente di carne e latte e di ciò che pigliano alla caccia, e mangiano alcuni animaletti ch'assimigliano a conigli, che appresso noi si chiamano sorzi di faraone, de' quali si truova gran copia per le pianure nell'estate e in ogni parte, e carne d'ogni sorte, e cavalli e camelli e cani, pur che sian grassi; bevono latte di cavalle, qual acconciano di sorte che par vin bianco e saporito, e lo chiamano nella loro lingua chemurs.
Le donne loro sono le piú caste e oneste del mondo, e che piú amano e reveriscano i loro mariti, e si guardano sopra ogn'altra cosa di commettere adulterio, qual vien riputato in grandissimo disonore e vituperio. Ed è cosa maravigliosa la lealtà de' mariti verso le mogli, le quali se sono dieci o venti, fra loro è una pace e un'unione inestimabile, né mai si sente che dican una mala parola; ma tutte sono (com'è detto) intente e sollecite alle mercanzie, cioè al vendere e comprare, e cose pertinenti agli esercizii loro, al viver di casa e cura della famiglia e de' figliuoli, che sono fra loro communi. E tanto piú son degne di admirazione di questa virtú della pudicizia e onestà, quanto che agli omini è concesso di pigliare quante mogli vogliono, le qual sono alli mariti di poca spesa, anzi di gran guadagno e utile, per li traffichi ed esercizii che di continuo fanno. E per questo, quando le pigliano, loro danno le dote alle madri per aver quelle, e la prima ha questo privilegio, d'essere tenuta la piú cara e la piú legitima, e similmente i figliuoli che di quella nascono; e perchè possono pigliare quante mogli a lor piace, perciò hanno piú numero di figliuoli di tutte l'altre genti. Se 'l padre muore, il figliuolo può pigliar per mogli tutte quelle che son state lasciate dal padre, eccettuando la madre e le sorelle, e pigliano anco le cognate, se sono morti i fratelli, e celebrano ogni fiata le nozze con gran solennità.

Del Dio de' Tartari celeste e sublime, e d'un altro detto Natigay, e come l'adorano; e della sorte delli loro vestimenti e armi, e della ferocità loro nel combattere; e come sono pazientissimi in ogni disagio e bisogno, e obedientissimi al loro signore.
Cap. 46.


La legge e fede de' Tartari è tale: dicono esservi il Dio alto, sublime e celeste, al qual ogni giorno col turribolo e incenso non domandan altro se non buon intelletto e sanità; ne hanno poi un altro che chiamano Natigay, ch'è a modo di una statua coperta di feltre overo d'altro, e ciascuno ne tien uno in casa sua. Fanno a questo dio la moglie e figliuoli, e pongongli la moglie dalla parte sinistra e i figliuoli avanti di lui, quali pare che li facciano riverenza. Questo dio lo chiamano dio delle cose terrene, il qual custodisce e guarda i loro figliuoli e conserva le bestie e le biade, al quale fanno grande riverenza e onore; e sempre quando mangiano togliono della parte delle carni grasse, e con quelle ungono la bocca del dio, della moglie e de' figliuoli; dopo gettano del brodo delle carni fuor della porta agli altri spiriti. Fatto questo, dicono che 'l loro dio con la sua famiglia ha avuto la parte sua, e poscia mangiano e bevono a lor piacere.
I ricchi si vestono di drappi d'oro e di seta e di pelle di zibellini, armellini e vari, e tutti i loro fornimenti sono di gran prezzo e valore. L'arme loro sono archi, spade e mazze ferrate, e alcune lancette, ma con gli archi meglio s'esercitano che con l'altre arme, perchè sono ottimi arcieri ed esercitati da picciolini; e indosso portan arme di cuori di buffali e altri animali, molto grossi, cotti, e per questo sono molto duri e forti. Sono uomini fortissimi in battaglia e quasi furibondi e che poco stimano la lor vita, la qual mettono ad ogni pericolo senz'alcun rispetto. Sono crudelissimi e sofferenti d'ogni disagio, e bisognando viveranno un mese solamente con latte di cavalle e d'animali che pigliano. Li lor cavalli si pascono di erbe, né hanno bisogno d'orzo né d'altra biada; e stann'armati a cavallo due giorni e due notte che mai smontano, e similmente vi dormono, e i lor cavalli in tanto vanno pascendo. Non è gente al mondo che piú di loro duri affanno e piú pazienti in ogni necessità, obedientissimi alli lor signori e di poca spesa: e per queste parti cosí eccellenti nell'esercizio delle armi, sono atti a soggiogare il mondo, come hanno fatto d'una gran parte.

Dell'esercito de' Tartari, in quante parti è diviso; e del modo col quale cavalcano, e di ciò che portano per loro vivere, e del latte secco; e modo del loro combattere.
Cap. 47.


Quando alcun signor di Tartari va ad alcuna espedizione, mena seco l'esercito di centomila cavalli, e ordina le sue genti in questa maniera: egli statuisce un capo a ciascuna decina e a ciascun centenaio e a ciascun migliaio e a ogni diecimila, e cosí ogni dieci capi di decina rispondono alli capi di centinaia, e ogni dieci capi di centenaia rispondono alli capi di migliaia, e ogni dieci capi di migliaia rispondono alli capi di dieci migliaia, e in questo modo ciascun uomo overo capo, senz'altro consiglio overo fastidio, non ha da cercare altri se non dieci. Per il che, quando il signore di questi centomila vuol mandarne alcuna parte a qualche espedizione, comanda al capo di diecimila che li dia mille uomini, e il capo di diecimila comanda al capo di mille, e il capo di mille al capo di cento, e il capo di cento al capo di dieci, e allora tutti i capi delle decine sanno le parti che li toccano, e subito danno quelle a' suoi capi: cento capi a' cento di mille, e mille capi ai capi di diecimila, e cosí subito si discernono; e tutti sono obedientissimi a' suoi capi. Item ciascun centinaio si chiama un tuc, dieci un toman, per migliaio, centinaio e decina. E quando si muove l'esercito per andar a far qualche impresa, essi mandano avanti gli altri uomini per la loro custodia per due giornate, e mettono genti da dietro e da' lati, cioè da quattro parti, a questo effetto, acciò che qualche esercito non possi assaltargli all'improviso.
E quando vanno con l'esercito lontani, non portano seco cosa alcuna, di quelle massimamente che sono necessarie pel dormire. Vivono il piú delle volte di latte (come s'è detto), e fra cavalli e cavalle sono per ciascun uomo circa diciotto: e quando alcun cavallo è stracco pel cammino si cambia un altro; nondimeno portano seco vasi per cuocer la carne. Portano anco seco le sue picciole casette di feltro alla guerra, dentro alle quali stanno al tempo della pioggia. E alle volte, quando ricerca il bisogno e pressa di qualche impresa che si facci presta, cavalcano ben dieci giornate senza vettovaglie cotte, e vivono del sangue de' suoi cavalli, però che ciascuno punge la vena del suo e beve il sangue. Hanno ancora latte secco a modo di pasta, e seccasi in questo modo: fanno bollire il latte, e allora la grassezza che nuota di sopra si mette in un altro vaso, e di quella si fa il butiro, perchè fin che stesse nel latte non si potria seccare; si mette poi il latte al sole, e cosí si secca. E quando vanno in esercito portano di questo latte circa dieci libre, e la mattina ciascuno ne piglia mezza libra e la mette in un fiasco picciolo di cuoio, fatto a modo d'un utre, con tant'acqua quanto li piace; e mentre cavalca, il latte nel fiasco si va sbattendo e fassi come sugo, il qual bevono: e questo è il suo desinare. Oltre di ciò, quando i Tartari combattono co' nemici, mai si meschiano totalmente con loro, anzi continuamente cavalcano a torno qua e là saettando, e alle volte fingono di fuggire, e fuggendo saettano da dietro li nemici che seguitano, sempre uccidendo cavalli e uomini come se combattessero a faccia a faccia: e a questo modo i nemici, credendo aver avuto vittoria, si trovano aver perso, e allora i Tartari, vedendo avergli fatto danno, ritornano di nuovo contra di loro, e quelli virilmente combattendo conquistano e prendono. E hanno li lor cavalli cosí ammaestrati a voltarsi che ad un signo si voltan in ogni parte che vogliono, e in questo modo hanno vinto molte battaglie.
Tutto quello che v'abbiam narrato è nella vita e costumi de' rettori dei Tartari. Ma al presente sono molto bastardati, perchè quelli che conversano in Ouchacha osservano la vita e costumi di quelli ch'adorano gl'idoli e hanno lasciata la sua legge; quelli che conversano in Oriente osservano i costumi de' saraceni.

Della giustizia che osservano, e della vanità de' matrimonii che fanno de' figliuoli morti.
Cap. 48


Mantengono la giustizia come vi narraremo al presente. Quando alcuno ha rubbato alcuna picciola cosa, per la qual non meriti la morte, lo battono sette volte con un bastone, o vero dicesette volte, o ventisette o trentasette o quarantasette, fino a cento sempre crescendo, secondo la quantità del furto e qualità del delitto: e molti muoiono per queste battiture. Se uno rubba un cavallo o altre cose per le quali debba morire, con una spada si taglia per mezo; ma se quel che ha rubbato può pagare, e dare nove volte piú di quello che ha rubbato, scapola. Item qualunque signore o altr'uomo che ha molti animali li fa bollare del suo segno, cioè cavalli e cavalle, camelli e buoi, vacche e altre bestie grosse, poi li lascia andar a pascere per le pianure e monti in qualunque luogo senza custodia di uomo; e se una bestia si mischia con qualche altra, ciascuno ritorna la sua a colui del quale si truova il segno. I castrati e becchi li fanno custodire dagli uomini, e le loro bestie sono tutte grasse e grandi e belle oltra modo.
Quando ancora sono due uomini, de' quali uno abbia avuto un figliuol maschio, e quello sia mancato di tre anni o altramente, e l'altro abbia avuto una figliuola, ed ella parimenti sia mancata, fanno insieme le nozze, perchè danno la fanciulla morta al fanciullo morto: e allora fanno dipingere in carte uomini in luogo di servi, e cavalli e altri animali, e drappi d'ogni maniera, denari e ciascuna sorte di massarizie, e fanno far gl'instrumenti a corroborazione della dote e matrimonio predetti; le qual cose fanno tutte abbruciare, e del fumo che indi viene dicono che tutte queste cose son portate ai loro figliuoli nell'altro mondo, dove si pigliano per marito e moglie; e li padri e madri de' morti si hanno per parenti, come se veramente le nozze fossero state celebrate e che vivessero.
Ora abbiamo dichiarato li costumi e consuetudini de' Tartari; non però che abbiamo detto i grandissimi fatti e imprese del gran Can, signor di tutti i Tartari. Ma vogliamo ritornare al nostro proposito, cioè alla gran pianura nella quale eravamo quando cominciammo de' fatti di Tartari.

Come, partendosi da Carachoran, si trova la pianura di Bargu, e de' costumi degli abitanti in quella; e come doppo quaranta giornate si trova il mare Oceano; e delli falconi e girifalchi che vi nascono; e come la Tramontana a chi la guarda appar verso mezodí.
Cap. 49.


Partendosi da Carachoran e dal monte Altay, dove si sepeliscono i corpi degl'imperatori de' Tartari, come abbiam detto di sopra, si va per una contrata verso tramontana, che si chiama la pianura di Bargu e dura ben circa sessanta giornate; le cui genti si chiamano Mecriti, e sono genti salvatiche, perchè vivono di carne di bestie, la maggior delle quali sono a modo di cervi, li qual anco cavalcano. Vivono similmente d'uccelli, perchè vi sono molti laghi, stagni e paludi, e detta pianura confina verso tramontana col mare Oceano, e quelli uccelli che si spogliano delle piume vecchie conversano il piú dell'estate circa quell'acque, e quando sono del tutto ignudi, che non possono volare, quelli prendono al loro buon piacere; e vivon ancora de pesci. Queste genti osservano le consuetudini e costumi de' Tartari, e sono sudditi al gran Can. Non hanno né biade né vino, e nell'estate hanno cacciagioni e prendono gran quantità d'uccelli; ma il verno, pel grandissimo freddo, non vi possono stare bestie né uccelli.
E quando s'è cavalcato (come è detto) quaranta giornate, si truova il mare Oceano, presso al quale è un monte nel quale fanno nido astori e falconi pellegrini, e nella pianura. Ivi non sono uomini, né vi abitano bestie né uccelli, salvo ch'una maniera d'uccelli che si chiamano bargelach, e i falconi si pascono di quelli: sono della grandezza delle pernici, e nella coda son simili alle rondini, e ne' piedi alli papagalli; volano velocemente. E quando il gran Can vuol avere un nido di falconi pellegrini, manda fino a detto luogo per quelli; e nell'isola, che è circondata dal mare, nascono molti girifalchi. Ed è quel luogo tanto verso la tramontana che la stella di tramontana pare alquanto rimaner dipoi verso mezodí. E i girifalchi che nascono nell'isola predetta sono in tanta copia che 'l gran Can ne puol avere quanti ne vuole a suo piacere. Né crediate che i girifalchi che delle terre de' cristiani si portano a' Tartari siano portati al gran Can, ma portansi in Levante solamente, cioè a qualche signore tartaro e altri nobili di Levante che sono a' confini de' Cumani e Armeni.
Ora, avendo detto delle provincie che sono verso la tramontana fino al mare Oceano, diremo delle provincie verso il gran Can, e ritorniamo alla provincia detta Campion, la qual di sopra è descritta.

Come, partendosi da Campion, si vien al regno di Erginul; e della città di Singui; e de' buoi, che hanno un pelo sottilissimo; e della forma dell'animal che fa il muschio, e come lo prendono; e de' costumi degli abitanti, e bellezza delle lor donne.
Cap. 50.


Partendosi dalla provincia di Campion si va per cinque giornate, nelle quali s'odono piú volte la notte parlar molti spiriti, con gran paura de' viandanti; e in capo di quelle, verso levante, si truova un regno nominato Erginul, qual è sottoposto al gran Can, e contiensi sotto la provincia di Tanguth. In detto regno sono molti altri regni, le cui genti adorano gl'idoli; vi sono alcuni cristiani nestorini e turchi, e molte città e castella, de' quali la maestra città è Erginul. Dalla qual partendosi poi verso scirocco si può andare alle parti del Cataio, e andando per scirocco verso 'l Cataio si truova una città nominata Singui, e ancor la provincia si chiama Singui, nelle quali sono molte città e castella: e contengonsi in detta provincia di Tanguth e sotto il dominio del gran Can. Le genti di questa provincia adorano gl'idoli; alcuni osservano la legge di Macometto, e alcuni sono cristiani. Ivi si trovano molti buoi salvatichi, i quali sono della grandezza quasi degl'elefanti e bellissimi da vedere, però che sono bianchi e neri. I loro peli sono in ciascuna parte del corpo bassi, eccetto che sopra le spalle, che sono lunghi tre palmi; qual pelo overo lana è sottilissima e bianca, e piú sottile e bianca che non è la seta: e messer Marco ne portò a Venezia come cosa mirabile, e cosí da tutti che la viddero fu reputata per tale. Di questi buoi molti si sono dimesticati, che furon presi salvatichi. E fanno coprire le vacche dimestiche, e i buoi che nascono di quelle sono maravigliosi animali, e atti a fatiche piú che niun altro animale: e gli uomini gli fanno portare gran carichi, e lavorano con quelli la terra il doppio piú di quello che lavorano gli altri, e sono molto forti e gagliardi.
In questa contrata si truova il piú nobile e fino muschio che sia nel mondo, ed è una bestia picciola come una gazella, cioè della grandezza d'una capra, ma la sua forma è tale: ha i peli a similitudine di cervo, molto grossi, li piedi e la coda a modo d'una gazella; non ha corne come la gazella. Ha quattro denti, cioè due dalla parte di sopra e due dalla parte di sotto, lunghi ben tre dita e sottili, bianchi come avolio, e due ascendono in su e due descendono in giú, ed è bello animale da vedere. Nasce a questa bestia, quando la luna è piena, nell'umbilico sotto il ventre un'apostema di sangue, e i cacciatori nel tondo della luna escono fuori a prender de' detti animali, e tagliano questa apostema come la pelle e la seccano al sole: e questo è il piú fin muschio che si sappi. E la carne del detto animal è molto buona da mangiare, e pigliasene in gran quantità, e messer Marco ne portò a Venezia la testa e i piedi di detto animale secchi.
Gli uomini veramente vivono di mercanzie e d'arti; hanno abondanza di biade. Il transito della provincia è di venticinque giornate, nella quale si truovano fagiani il doppio maggiori de' nostri, ma sono alquanto minori de' pavoni, e hanno le penne della coda lunghe otto o dieci palmi. Ne sono anco della grandezza e statura come sono li nostri, e vi sono ancora altri uccelli di molte altre maniere, che hanno bellissime penne di diversi colori. Quelle genti adorano gli idoli, e sono grassi e hanno il naso picciolo; i loro capelli sono neri, e non hanno barba, salvo che quattro peli nel mento. Le donne onorate non hanno similmente pelo alcuno eccetto i capelli, e sono bianche, di belle carne e ben formate in tutti i membri, ma molto lussuriose. Gli uomini molto si dilettano di star con quelle, perchè, secondo le lor consuetudini e leggi, possono aver quante mogli vogliono, pur che possino sostentarle. E se alcuna donna povera è bella, li ricchi per la sua bellezza la pigliano per moglie, e danno alla madre e parenti molti doni per averle, perchè non apprezzano altro che la bellezza.
Ora si partiremo di qui, e diremo d'una provincia verso levante.

Della provincia di Egrigaia e della città di Calacia, e de' costumi degli abitanti, e zambellotti che vi si lavorano.
Cap. 51.

Partendosi da Erginul, andando verso levante per otto giornate, si truova una provincia nominata Egrigaia, nella quale sono molte città e castella, pur nella gran provincia di Tanguth. La maestra città si chiama Calacia, le cui genti adorano gl'idoli; vi sono ancora tre chiese de' cristiani nestorini, e sono sotto il dominio del gran Can. In questa città si lavorano zambellotti di peli di camelli, li piú belli e migliori che si truovin al mondo, e similmente di lana bianca in grandissima quantità, i quali i mercatanti, partendosi de lí, portano per molte contrade, e specialmente al Cataio.
Or lasciamo di questa provincia, e diremo d'un'altra verso levante nominata Tenduc, e cosí entraremo nelle terre del Prete Gianni.

Della provincia di Tenduc, dove regnano quelli della stirpe del Prete Gianni, e la maggior parte sono cristiani; e come ordinano li loro preti; e d'una sorte d'uomini detti Argon, che son piú belli e savi di quel paese.
Cap. 52.


Tenduc del Prete Gianni è una provincia verso levante, nella quale sono molte città e castella, e sono sottoposti al dominio del gran Can, perchè tutti i Preti Gianni che vi regnano sono sudditi al gran Can, dopo che Cingis, primo imperatore, la sottomesse. La maestra città è chiamata Tenduc, e in questa provincia è re uno della progenie del Prete Gianni, nominato Georgio, ed è prete e cristiano, e la maggior parte degli abitanti sono cristiani. E questo re Georgio mantien la terra per il gran Can, non però tutta quella ch'avea il Prete Gianni, ma certa parte; e li gran Cani danno sempre in matrimonio delle sue figliuole e altre che discendono dalla sua stirpe ai re che siano discesi dalla progenie delli Preti Gianni. In questa provincia si truovano pietre delle quali si fa l'azzurro; ve ne sono molte e buone. Quivi fanno i zambellotti molto buoni di peli di camelli. Gli uomini vivono di frutti della terra e di mercanzie e arti. E il dominio è de' cristiani, perchè 'l re è cristiano (come s'è detto), quantunque sia soggetto al gran Can; ma vi sono molti che adorano gl'idoli, e osservano la legge macomettana. Vi è anco una sorte di genti che si chiamano Argon, perchè sono nati di due generazioni, cioè da quelli di Tenduc, che adorano gl'idoli, e da quelli che osservano la legge di Macometto: e questi sono i piú belli uomini che si truovino in quel paese, e piú savi e piú accorti nella mercanzia.

Del luogo dove regnano quelli del Prete Gianni, detto Og e Magog, e de' costumi degli abitanti e lavori di seta di quelli, e della minera d'argento.
Cap. 53.


Nella sopradetta provincia era la principal sedia del Prete Gianni di tramontana quando el dominava li Tartari, e a tutte l'altre provincie e regni circonstanti, e fino al presente ritiene nella sua sedia i successori. E questo Georgio sopradetto dopo il Prete Gianni è il quarto di quella progenie, ed è tenuto il maggior signore. E vi sono due regioni dove questi regnano, che nelle nostre parti chiamano Og e Magog, ma quelli che ivi abitano lo chiamano Ung e Mongul, in ciascuno de' quali è una generazione di gente: in Ung sono Gog, e in Mongul sono Tartari.
E cavalcandosi per questa provincia sette giornate, andando per levante verso 'l Cataio, si truovano molte città e castella, nelle quali le genti adorano gl'idoli, e alcune osservano la legge di Macometto, e altri sono cristiani nestorini. Vivono di mercanzie e arti, perchè si fanno panni d'oro nasiti fin e nach, e panni di seta di diverse sorti e colori come abbiamo noi, e panni di lana di diverse maniere. Quelle genti sono suddite al gran Can, e vi è una città nominata Sindicin, nella quale s'esercitano l'arti di tutte le cose e fornimenti che s'appartengono all'armi e ad un esercito. E ne' monti di questa provincia è un luogo nominato Idifa, nel quale è un'ottima minera d'argento, dalla qual se ne cava grandissima quantità; e oltre di ciò hanno molte cacciagioni.

Della provincia di Cianganor, e della sorte di grue che si trovano, e della quantità di pernici e quaglie che 'l gran Can fa allevare.
Cap. 54.


Partendosi dalla sopradetta provincia e città e andando per tre giornate, si truova la città nominata Cianganor, che vuol dire stagno bianco, nella qual è un palagio del gran Can, nel quale vi suol abitare molto volentieri, perchè vi sono intorno laghi e riviere dove abitano molti cigni, e in molte pianure grue, fagiani, pernici e uccelli d'altra sorte in gran quantità. Il gran Can piglia grandissimo piacere andando ad uccellare con girifalchi e falconi e prendendo uccelli infiniti. Vi sono cinque sorti di grue: la prima sono tutte nere come corvi, con l'ale grandi; la seconda ha l'ali maggiori dell'altre, bianche e belle, e le penne dell'ali son piene d'occhi rotondi come quelli de' pavoni, ma gli occhi sono di color d'oro molto risplendenti, il capo rosso e nero molto ben fatto, il collo nero e bianco, e sono bellissime da vedere; la terza sorte sono grue della statura delle nostre d'Italia; la quarta sono grue picciole, ch'hanno le penne rosse e azzurre divisate molto belle; la quinta sorte sono grue grise, col capo rosso e nero, e sono grandi.
Presso a questa città è una valle, nella quale è grandissima abondanza di pernici e quaglie, e pel nutrimento delle quali sempre il gran Can fa seminar l'estate sopra quelle coste miglio e panizzo e altre semenze che tali uccelli appetiscono, comandando che niente si raccolga, acciò abondevolmente si possano nudrire; e vi stanno molti uomini per custodia di questi uccelli, acciò non siano presi, ed eziandio li buttano il miglio al tempo del verno, e sono tanto assuefatti al pasto che se li getta per terra che, subito che l'uomo sibila, ovunque si siano vengono a quello. E ha fatto fare il gran Can molte casette dove stanno la notte, e quando 'l vien a questa contrada ha di questi uccelli abondantemente, e l'inverno, quando sono ben grasse (perchè ivi pel gran freddo non sta a quel tempo), ovunque egli si sia, se ne fa portare carghi i camelli.
Ma si partiremo di qui, e andaremo tre giornate verso tramontana e greco.

Del bellissimo palagio del gran Can nella città di Xandú; e della mandria di cavalli e cavalle bianche, del latte de' quali fanno ogn'anno sacrificio; e delle cose maravigliose che li loro astrologhi fanno far quando vien mal tempo, e anco della sala del gran Can, e delli sacrificii che li detti fanno; e di due sorti di religiosi, cioè poveri, e de' costumi e vita loro.
Cap. 55.


Quando si parte da questa città di sopra nominata, andando tre giornate per greco si truova una città nominata Xandú, la qual edificò il gran Can che al presente regna, detto Cublai Can; e quivi fece fare un palagio di maravigliosa bellezza e artificio, fabricato di pietre di marmo e d'altre belle pietre, qual con un capo confina in mezo della città e con l'altro col muro di quella. Dalla qual parte, a riscontro del palagio, un altro muro ferma un capo da una parte del palagio nel muro della città, e l'altro dall'altra parte circuisce, e include ben sedici miglia di pianura, talmente ch'entrare in quel circuito non si può se non partendosi dal palagio. In questo circuito e serraglia sono prati bellissimi e fonti e molti fiumi, e ivi sono animali d'ogni sorte, come cervi, daini, caprioli, quali vi fece portar il gran Can per pascere i suoi falconi e girifalchi, ch'egli tiene in muda in questo luogo, i quali girifalchi sono piú di dugento: ed esso medesimo va sempre a vederli in muda, al manco una volta la settimana. E molte volte, cavalcando per questi prati circondati di mura, fa portar un leopardo, overo piú, sopra le groppe de' cavalli, e quando vuole lo lascia andare, e subito prende un cervo o vero capriolo o daini, li quali fa dare ai suoi falconi e girifalchi: e questo fa egli per suo solazzo e piacere.
In mezo di quei prati, ov'è un bellissimo bosco, ha fatto fare una casa regal, sopra belle colonne dorate e invernicate, e a ciascuna è un dragone tutto dorato che rivolge la coda alla colonna, e col capo sostiene il soffittato, e stende le branche, cioè una alla parte destra a sostentamento del soffittato e l'altra medesimamente alla sinistra. Il coperchio similmente è di canne dorate, e vernicate cosí bene che niun'acqua li potria nuocere, le quali sono grosse piú di tre palmi e lunghe da dieci braccia, e tagliate per ciascun groppo si parteno in due pezzi per mezo e si riducono in forma di coppi: e con queste è coperta la detta casa, ma ciascun coppo di canna per defensione de' venti è ficcato con chiodi. E detta casa a torno a torno è sostentata da piú di dugento corde di seta fortissime, perchè dal vento (per la leggierezza delle canne) saria rivoltata a terra. Questa casa è fatta con tanta industria e arte che tutta si può levar e metter giú e poi di nuovo reedificarla a suo piacere; e fecela far il gran Can per sua dilettazione, per esservi l'aere molto temperato e buono, e vi abita tre mesi dell'anno, cioè giugno, luglio e agosto, e ogn'anno, alli ventotto della luna del detto mese d'agosto, si suol partire e andare ad altro luogo, per far certi sacrificii in questo modo. Ha una mandria di cavalli bianchi e cavalle come neve, e possono essere da diecimila, del latte delle quali niuno ha ardimento bere s'egli non è descendente della progenie di Cingis Can. Nondimeno Cingis Can concesse l'onore di bere di questo latte ad un'altra progenie, la quale al tempo suo una fiata si portò molto valorosamente seco in battaglia, ed è nominata Boriat. E quando queste bestie vanno pascolando per li prati e per le foreste se gli porta gran riverenza, né ardiria alcun andargli davanti overo impedirli la strada. E avendo gli astrologhi suoi, che sanno l'arte magica e diabolica, detto al gran Can che ogn'anno, al vigesimo ottavo dí della luna d'agosto, debbia far spandere del latte di queste cavalle per l'aria e per terra per dar da bere a tutti i spiriti e idoli che adorano, acciò che conservino gli uomini e le femine, le bestie, gli uccelli, le biade e l'altre cose che nascono sopra la terra, però per questa causa il gran Can in tal giorno si parte dal sopradetto luogo e va a far di sua mano quel sacrificio del latte.
Fanno ancora questi astrologhi, o vogliam dire negromanti, una cosa maravigliosa a questo modo: che come appar che 'l tempo sia turbato e vogli piovere, vanno sopra il tetto del palagio ove abita il gran Can, e per virtú dell'arte loro lo difendono dalla pioggia e dalla tempesta, talmente che a torno a torno descendono pioggie, tempeste e baleni, e il palagio non vien tocco da cosa alcuna. E costoro che fanno tal cose si chiamano tebeth e chesmir, che sono due sorti d'idolatri quali sono i piú dotti nell'arte magica e diabolica di tutte l'altre genti, e danno ad intendere al vulgo che queste operazioni siano fatte per la santità e bontà loro, e per questo vanno sporchi e immondi, non curandosi dell'onor loro né delle persone che li veggono; sostengono il fango nella lor faccia, né mai si lavano né si pettinano, ma sempre vanno lordamente. Hanno costoro un bestiale e orribil costume, che quand'alcuno per il dominio è giudicato a morte, lo tolgono e cuocono e mangianselo; ma se muore di propria morte non lo mangiano. Oltre il nome sopradetto si chiamano anco bachsi, cioè di tal religione overo ordine come si direbbono frati predicatori overo minori, e sono tanto ammaestrati ed esperti in quest'arte magica o diabolica che fanno quasi ciò che vogliono, e fra l'altre se ne dirà una fuor di ogni credenza.
Quando il gran Can nella sua sala siede a tavola, la quale, come si dirà nel libro di sotto, è d'altezza piú d'otto braccia, e in mezo della sala, lontano da detta tavola, è apparecchiata una credenziera grande, sopra la quale si tengono i vasi da bere, essi operano con l'arti sue che le caraffe piene di vino overo latte o altre diverse bevande da se stesse empiono le tazze loro senza ch'alcuno con le mani le tocchino, e vanno ben per dieci passa per aere in mano del gran Can; e poi ch'ha bevuto, le dette tazze ritornano al luogo d'onde erano partite: e questo fanno in presenza di coloro i quali il signore vuol che veggano. Questi bachsi similmente, quando sono per venire le feste delli suoi idoli, vanno al gran Can e li dicono: "Signore, sappiate che, se li nostri idoli non sono onorati con gli olocausti, faranno venire mal tempo e pestilenze alle nostre biade, bestie e altre cose: per il che vi supplichiamo che vi piaccia di darne tanti castrati con li capi neri e tante libre d'incenso e legno di aloè, che possiamo fare il debito sacrificio e onore". Ma queste parole non dicono personalmente al gran Can, ma a certi principi che sono deputati a parlar al signore per gli altri, ed essi dopo lo dicono al gran Can, qual li dona integramente ciò che domandano. E venuto il giorno della festa, fanno i sacrificii de' detti castrati, e spargono il brodo avanti gl'idoli, e a questo modo gli onorano.
Hanno questi popoli grandi monasterii e abbazie, e cosí grandi che pareno una picciola città, in alcuna delle quali potriano essere quasi duemila monachi, i quali secondo i costumi loro servono agl'idoli, e si vestono piú onestamente degli altri uomini, e portano il capo raso e la barba, e fanno festa agl'idoli con piú solenni canti e lumi che sia possibile; e di questi alcuni possono pigliar moglie. Vi è poi un altro ordine di religiosi, nominati sensim, quali sono uomini di grand'astinenza, e fanno la loro vita molto aspra, però che tutt'il tempo della vita sua non mangiano altro che semole, le quali mettono in acqua calda e lasciano stare alquanto, fin che si levi via tutto il bianco della farina: e allora le mangiano cosí lavate, senz'alcuna sostanza di sapore. Questi adorano il fuoco e dicono gli uomini dell'altre regole che questi che vivono in tant'astinenza sono eretici della sua legge, perchè non adorano gl'idoli come loro; ma è gran differenza tra loro, cioè tra l'una regola e l'altra, e questi tali non tolgono moglie per qualsivoglia causa del mondo. Portano il capo raso e la barba, e le lor vesti sono di canapo, nere e biave, e se fossero anco di seta, le portarebbero di tal colore. Dormono sopra stuore grosse, e fanno la piú aspra vita di tutti gli uomini del mondo.
Or lasciamo di questi, e diremo de' grandi e maravigliosi fatti del gran signore e imperator Cublai Can.



LIBRO SECONDO


De' maravigliosi fatti di Cublai Can, che al presente regna, e della battaglia ch'egli ebbe con Naiam suo barba, e come vinse.
Cap. 1.


Ora nel libro presente vogliamo cominciar a trattar di tutti i grandi e mirabili fatti del gran Can che al presente regna, detto Cublai Can, che vuol dir in nostra lingua "signor de' signori". E ben è vero il suo nome, perchè egli è piú potente di genti, di terre e di tesoro di qualunque signor che sia mai stato al mondo né che vi sia al presente, e sotto il quale tutti i popoli sono stati con tanta obedienza quanto che abbino mai fatto sotto alcun altro re passato; la qual cosa si dimostrerà chiaramente nel processo del parlar nostro, di modo che ciascuno potrà comprendere che questa è la verità.
Dovete adunque sapere che Cublai Can è della retta e imperial progenie di Cingis Can primo imperator, e di quella dee esser il vero signor de' Tartari. Questo Cublai Can è il sesto gran Can, che cominciò a regnar nel 1256 essendo d'anni 27, e acquistò la signoria per la sua gran prodezza, bontà e prudenzia, contra la volontà de' fratelli e di molti altri suoi baroni e parenti che non volevano: ma a lui la succession del regno apparteneva giustamente. Avanti che 'l fosse signor andava volentier nell'esercito e voleva trovarsi in ogni impresa, perciò che, oltre ch'egli era valente e ardito con l'armi in mano, veniva riputato di consiglio e astuzie militari il piú savio e aventurato capitano che mai avessero i Tartari; e dopo ch'ei fu signore non v'andò se non una sol fiata, ma nelle imprese vi mandava i suoi figliuoli e capitani. E la causa perchè vi andasse fu questa. Nel 1286 si trovava uno nominato Naiam, giovane d'anni trenta, qual era barba di Cublai e signor di molte terre e provincie, di modo che poteva facilmente metter insieme da quattrocentomila cavalli, e i suoi predecessori erano soggetti al dominio del gran Can. Costui, commosso da leggierezza giovenile, veggendosi signor di tante genti, si pose in animo di non voler esser sottoposto al gran Can, anzi di volergli torre il regno, e mandò suoi nonzii secreti a Caidu, qual era grande e potente signor nelle parti verso la gran Turchia, e nepote del gran Can, ma suo ribello, e portavagli grand'odio, perciochè ognora dubitava che 'l gran Can non lo castigasse. Caidu, uditi i messi di Naiam, fu molto contento e allegro e promisegli di venir in suo aiuto con centomila cavalli, e cosí ambedue cominciorno a congregar le lor genti, ma non poterno fare cosí secretamente che non ne venisse la fama all'orecchie di Cublai; qual, intesa questa preparazione, subito fece metter guardie a tutti i passi ch'andavan verso i paesi di Naiam e Caidu, acciò che non sapessero quel che lui volesse fare, e poi immediate ordinò che le genti ch'erano d'intorno alla città di Cambalú per il spazio di dieci giornate si mettessero insieme con grandissima celerità. E furono da trecentosessantamila cavalli e centomila pedoni, che sono li deputati alla persona sua, e la maggior parte falconieri e uomini della sua famiglia, e in venti giorni furono insieme; perchè, se egli avesse fatto venir gli eserciti che 'l tien di continuo per la custodia delle provincie del Cataio, sarebbe stato necessario il tempo di trenta o quaranta giornate, e l'apparecchio s'averia inteso, e Caidu e Naiam si sarian congiunti insieme e ridotti in luoghi forti e al loro proposito; ma lui volse con la celerità (la qual è compagna della vittoria) prevenir alle preparazioni di Naiam e trovarlo solo, che meglio lo poteva vincer che accompagnato.
E perchè nel presente luogo è a proposito di parlar d'alcuna cosa delli eserciti del gran Can, è da sapere che in tutte le provincie del Cataio, di Mangi e in tutt'il resto del dominio suo vi si truovano assai genti infideli e disleali, che se potessero si ribellerian al lor signore: e però è necessario, in ogni provincia ove sono città grandi e molti popoli, tenervi eserciti che stanno alla campagna 4 o 5 miglia lontani dalla città, quali non possono avere porte né muri, di sorte che non se gli possa entrar dentro a ogni suo piacere. E questi eserciti il gran Can gli fa mutar ogni due anni, e il simil fa de' capitani che governano quelli, e con questo freno li popoli stanno quieti e non si possono movere né far novità alcuna. Questi eserciti, oltre il denaro che li dà di continuo il gran Can delle intrate delle provincie, vivono d'un infinito numero di bestie che hanno, e del latte qual mandano alla città a vendere, e si comprano delle cose che gli bisognano, e sono sparsi per 30, 40 e 60 giornate in diversi luoghi; la mità de' quali eserciti se avesse voluto congregar Cublai, sarebbe stato un numero maraviglioso e da non credere.
Fatto il sopradetto esercito, Cublai Can s'aviò con quello verso il paese di Naiam, cavalcando dí e notte, e in termine di 25 giornate vi aggionse; e fu cosí cautamente fatto questo viaggio che Naiam né alcun de' suoi lo presentí, perch'erano state occupate tutte le strade, che niuno poteva passare che non fosse preso. Giunto appresso un colle oltre il quale si vedea la pianura dove Naiam era accampato, Cublai fece riposare le sue genti per due giorni e, chiamati li astrologhi, volse che con le loro arti in presenza di tutto l'esercito vedessero chi dovea aver la vittoria, li quali dissero dover esser di Cublai: questo effetto di divinazione sogliono sempre far li gran Cani per far innanimar li loro eserciti. Con questa adunque ferma speranza, una mattina a buon'ora l'esercito di Cublai, asceso il colle, si dimostrò a quello di Naiam, qual stava molto negligentemente, non tenendo in alcuna parte spie né persona alcuna per guardia, ed era in un padiglione dormendo con una sua moglie; pur risvegliato si mise ad ordinar meglio che poté il suo esercito, dolendosi di non aversi congionto con Caidu. Cublai era sopra un castel grande di legno pieno di balestrieri e arcieri, e nella sommità v'era alzata la real bandiera con l'imagine del sole e della luna; e questo castello era portato da quattro elefanti tutti coperti di cuori cotti fortissimi, e di sopra v'erano panni di seta e d'oro. Cublai ordinò il suo esercito in questo modo: di 30 schiere di cavalli, ch'ognuna avea 10 mila tutti arcieri, ne fece tre parti, e quelle dalla man sinistra e destra fece prolongare molto atorno l'esercito di Naiam; avanti ogni schiera di cavalli erano 500 uomini a piedi con lancie corte e spade, ammaestrati che, ogni fiata che mostravano di voler fuggire, costoro saltavan in groppa e fuggivan con loro, e fermati smontavano e ammazzavano con le lancie i cavalli de' nemici.
Preparati gli eserciti, si cominciò a udire il suon d'infiniti corni e altri varii instrumenti, e poi molti canti, che cosí è la consuetudine de' Tartari avanti che cominciano a combattere, e quando le nacchere e tamburi suonano vengono allora alle mani. Il gran Can fece prima cominciar a sonar le nacchere dalle parti destra e sinistra, e si cominciò una crudele e aspra battaglia, e l'aere fu immediate tutto pieno di saette che piovean da ogni canto, e vedevansi uomini e cavalli in terra cader morti in gran numero; e tanto era orribil il grido degli uomini e strepito dell'armi e cavalli, che rappresentava un estremo spavento a chi l'udiva. Tirate che ebbero le saette, vennero alle mani con le lancie e spade e con le mazze ferrate, e fu tanta la moltitudine degli uomini, e sopra tutto di cavalli, che restorno morti uno sopra l'altro, che una parte non poteva trapassare ov'era l'altra, e la fortuna stette indeterminata per longhissimo spazio di tempo dove l'avesse a dar la vittoria di questo conflitto, qual durò dalla mattina sino a mezogiorno, perchè la benevolenza delle genti di Naiam verso il lor signore, ch'era liberalissimo, ne fu causa, conciosiacosachè ostinatamente per amor suo volevano piú tosto morire che voltar le spalle. Pur alla fine, vedendosi Naiam circondato dall'esercito nemico, si mise in fuga, ma subito fu preso e condotto alla presenzia di Cublai, qual ordinò ch'ei fosse fatto morire cucito fra due tapeti, che fossino tanto alzati su e giú che 'l spirito gli uscisse del corpo: e la causa di tal sorte di morte fu acciochè il sole e l'aria non vedesse sparger il sangue imperiale. Le genti di Naiam che restorno vive vennero a dar obedienza e giurar fedeltà a Cublai, che furono di quattro nobil provincie, cioè Ciorza, Carli, Barscol e Sitingui.
Naiam, occultamente avendosi fatto battezzar, non volle però mai far l'opera di cristiano, ma in questa battaglia gli parve di voler portar il segno della croce sopra le sue bandiere, e avea nel suo esercito infiniti cristiani, li quali tutti furono morti. E vedendo dopo li giudei e saraceni che le bandiere della croce erano state vinte, si facevano beffe de' cristiani, dicendoli: "Vedete come le vostre bandiere e quelli che le hanno seguite sono stati trattati". E per questa derisione furono astretti i cristiani di farlo intender al gran Cane, qual, chiamati a sé li giudei e li saraceni, gli riprese aspramente dicendoli: "Se la croce di Cristo non ha giovato a Naiam, ragionevolmente e giustamente ha fatto, perchè lui era perfido e ribello al suo signore, e la croce non ha voluto aiutar simili uomini tristi e malvagi: e però guardatevi di mai piú aver ardimento di dire che 'l Dio de' cristiani sia ingiusto, perchè quello è somma bontà e somma giustizia".

Come, dopo ottenuta tal vittoria, il gran Can ritornò in Cambalú; e dell'onore ch'egli fa alle feste de' cristiani, giudei, macomettani e idolatri; e la ragione perchè dice che non si fa cristiano.
Cap.2.

Dopo ottenuta tal vittoria, il gran Can ritornò con gran pompa e trionfo nella città principal, detta Cambalú, e fu del mese di novembre, e quivi stette fin al mese di febraio e marzo, quando è la nostra Pasqua; dove, sapendo che questa era una delle nostre feste principali, fece venir a sé tutti i cristiani e volse che li portassero il libro dove sono li quattro Evangelii, al quale fattogli dar l'incenso molte volte con gran cerimonie, devotamente lo basciò, e il medesimo volse che facessero tutti i suoi baroni e signori ch'erano presenti. E questo modo sempre serva nelle feste principali de' cristiani, com'è la Pasqua e il Natale; il simil fa nelle principal feste di saraceni, giudei e idolatri. Ed essendo egli domandato della causa, disse: "Sono quattro profeti che son adorati e a' quali fa riverenza tutt'il mondo: li cristiani dicono il loro Dio essere stato Iesú Cristo, i saraceni Macometto, i giudei Moysè, gl'idolatri Sogomombar Can, qual fu il primo iddio degl'idoli; e io faccio onor e riverenza a tutti quattro, cioè a quello ch'è il maggior in cielo e piú vero, e quello prego che m'aiuti". Ma, per quello che dimostrava il gran Can, egli tien per la piú vera e miglior la fede cristiana, perchè dice ch'ella non comanda cosa che non sia piena d'ogni bontà e santità. E per niun modo vuol sopportare che li cristiani portino la croce avanti di loro, e questo perchè in quella fu flagellato e morto un tanto e cosí grand'uomo come fu Cristo.
Potrebbe dir alcuno: "Poi ch'egli tiene la fede di Cristo per la migliore, perchè non s'accosta a lei e fassi cristiano?" La causa è questa, secondo ch'egli disse a messer Nicolò e Maffio, quando li mandò ambasciatori al papa, i quali alle volte movevano qualche parola circa la fede di Cristo. Diceva egli: "In che modo volete voi che mi faccia cristiano? Voi vedete che li cristiani che sono in queste parti sono talmente ignoranti che non sanno cosa alcuna e niente possono, e vedete che questi idolatri fanno ciò che vogliono, e quando io seggo a mensa vengono a me le tazze che sono in mezo la sala, piene di vino o bevande e d'altre cose, senza ch'alcuno le tocchi, e bevo con quelle. Constringono andar il mal tempo verso qual parte vogliono e fanno molte cose maravigliose, e come sapete gl'idoli loro parlano e gli predicono tutto quello che vogliono. Ma se io mi converto alla fede di Cristo e mi faccia cristiano, allora i miei baroni e altre genti, quali non s'accostano alla fede di Cristo, mi direbbono: "Che causa v'ha mosso al battesimo e a tener la fede di Cristo? Che virtuti o che miracoli avete veduto di lui?' E dicono questi idolatri che quel che fanno lo fanno per santità e virtú degl'idoli; allora non saprei che rispondergli, tal che saria grandissimo errore tra loro e questi idolatri, che con l'arti e scienzie loro operano tali cose, mi potriano facilmente far morire. Ma voi andrete dal vostro pontefice, e da parte nostra lo pregherete che mi mandi cento uomini savii della vostra legge, che avanti questi idolatri abbino a riprovare quel che fanno, e dichinli che loro sanno e possono far tal cose ma non vogliono, perchè si fanno per arte diabolica e di cattivi spiriti, e talmente li constringano che non abbino potestà di far tal cose avanti di loro. Allora, quando vedremo questo, riprovaremo loro e la loro legge, e cosí mi battezzerò, e quando sarò battezzato tutti li miei baroni e grand'uomini si battezzeranno, e poi li subditi loro torranno il battesimo, e cosí saranno piú cristiani qui che non sono nelle parti vostre". E se dal papa, come è stato detto nel principio, fossero stati mandati uomini atti a predicarli la fede nostra, il detto gran Can s'avria fatto cristiano, perchè si sa di certo che n'avea grandissimo desiderio. Ma, ritornando al proposito nostro, diremo del merito e onore che egli dà a coloro che si portano valorosamente in battaglia.

Della sorte de' premii ch'egli dà a quelli che si portano bene in battaglia,
e delle tavole d'oro ch'egli dona.
Cap. 3.


Dovete adunque sapere che 'l gran Can ha dodici baroni savii, ch'hanno carico d'intendere e informarsi delle operazioni che fanno li capitani e soldati, particolarmente nelle imprese e battaglie ove si ritruovano, e quelle poi riferir al gran Can, qual, conoscendoli benemeriti, se sono capo di cent'uomini gli fa di mille, e dona molti vasi d'argento e tavole di commandamento e signoria. Imperochè quello che è capo di cento ha la tavola d'argento, e quello che è capo di mille ha la tavola d'oro overo d'argento indorato, e quello che è capo di diecimila ha la tavola d'oro con un capo di leone; e il peso di queste tavole è tale: di quelli che hanno il dominio di mille, sono ciascuna di peso di saggi cento e venti; e quella che ha il capo di leone è di peso di saggi dugento e venti. Sopra tal tavola è scritto un commandamento che dice cosí: "Per la forza e virtú del magno Iddio, e per la grazia che ha dato al nostro imperio, il nome del Can sia benedetto, e tutti quelli che non l'obediranno morino e siano destrutti". Tutti quelli ch'hanno queste tavole hanno ancora privilegii in scrittura di tutte quelle cose che far debbono e possono nel suo dominio. E quello che ha il dominio di centomila, overo sia capitano generale di qualche grand'esercito, ha una tavola d'oro di peso di saggi trecento con le parole sopradette, e sotto la tavola è scolpito un lione con le imagini del sole e della luna, e oltre di ciò ha il privilegio del gran comandamento che appare in questa nobil tavola. Ogni volta che cavalcano in publico gli viene portato un pallio sopra la testa, per mostrar la grand'auttorità e potere che hanno, e quando seggono deono sempre sedere sopra una catedra d'argento. E il gran Can dona ad alcuni baroni una tavola dove è scolpita la imagine del girifalco, e questi possono menare seco tutto l'esercito d'ogni gran principe per sua guardia; e può pigliar il cavallo del gran Can, volendolo, e il medesimo può pigliare i cavalli degli altri che siano di minor dignità.

Della forma e statura del gran Can, e delle quattro mogli principali ch'egli ha, e delle giovani che ogni anno fa eleggere nella provincia di Ungut, e del modo che le eleggono.
Cp. 4.


Chiamasi Cublai gran Can signor de' signori, il qual è di comune statura, cioè non è troppo grande né troppo picciolo, e ha le membra ben formate, che proporzionatamente si corrispondono. La faccia sua è bianca e alquanto rossa, risplendentemente a modo di rosa colorita, che 'l fa parer molto grazioso; gli occhi sono neri e belli, il naso ben fatto e profilato. Ha eziandio quattro donne signore, quali tiene di continuo per mogli legitime, e il primo figliuolo che nasce di quelle è successor dell'imperio dopo la morte del gran Can, e si chiamano imperatrici, e tengono corte regale da per sé. Né alcuna è di loro che non abbia trecento donzelle molto belle e molti donzelli e altri uomini castrati e donne, talmente che ciascuna di queste ha nella sua corte diecimila persone; e quando il gran Can vuol esser con una di queste tali, la fa venir alla sua corte, overo egli va alla corte di lei.
E ha oltre di ciò molte concubine; e dirovvi come è una provincia nella qual abitano Tartari che si chiaman Ungut, e la città similmente, le genti della qual sono bellissime e bianchissime, e il gran Can ogni due anni, secondo che lui vuole, manda alla detta provincia suoi ambasciatori, che li truovino delle piú belle donzelle, secondo la stima della bellezza che lui li commette, quattrocento, cinquecento, piú e manco secondo che li pare, le quali donzelle si stimano in questo modo. Giunti che sono gli ambasciatori, fanno venir a sé tutte le donzelle della provincia, e vi sono li stimatori a questo deputati, i quali, vedendo e considerando tutte le membra di ciascuna a parte a parte, cioè i capelli, il volto e le ciglia, la bocca, le labra e l'altre membra, che siano condecenti e conformi alla persona, e stimano alcune in caratti sedici, altre dicessette, diciotto, venti e piú e manco, secondo che sono piú e manco belle. E se 'l gran Can ha commesso che le conduchino della stima di caratti venti o ventuno, secondo il numero a loro ordinatoli quelle conducono. E giunte alla sua presenza le fa stimare di nuovo per altri stimatori, e di tutte ne fa eleggere per la sua camera trenta o quaranta che siano stimate piú caratti, e ne fa dare una a ciascuna delle moglie de' baroni, che nelle sue camere le debbano la notte diligentemente vedere, che non siano brutte sotto panni o difettose in alcun membro, e se dormono soavemente e non roncheggino, e se rendono buon fiato e soave, e che in alcuna parte non abbino cattivo odore. E quando sono state diligentemente esaminate si dividono a cinque a cinque, secondo che sono, e ciascuna parte dimora tre dí e tre notti nella camera del signore, per far ciascuna cosa che li sia necessaria; quali compiuti si cambiano e l'altra parte fa il simile, e cosí fanno fin che compino il numero di quante sono, e dopo ricominciano un'altra volta. Vero è che, mentre una parte dimora nella camera del signore, l'altre stanno in un'altra camera ivi propinqua, di modo che se il signore ha bisogno di qualche cosa estrinseca, come è bere e mangiare e altre cose, le donzelle che sono nella camera del signore comandano a quelle dell'altra camera che debbano apparecchiare, e quelle subito apparechiano, e cosí non si serve al signor per altre persone che per le donzelle. E l'altre donzelle che furono stimate manco caratti dimorano con l'altre del signore nel palagio, e gl'insegnano a cucire e tagliar guanti e far altri nobili lavori; e quando alcun gentiluomo ricerca moglie, il gran Can li dà una di quelle con grandissima dote, e a questo modo le marita tutte nobilmente.
E potrebbesi dire: non s'aggravano gli uomini della detta provincia che il gran Can li toglia le lor figliuole? Certamente no, anzi si reputano a gran grazia e onore e molto si rallegrano color che hanno belle figliuole che si degni d'accettarle, perchè dicono: "Se la mia figliuola è nata sotto buon pianeto e con buona ventura, il signor potrà meglio sodisfarla, e la mariterà nobilmente, la qual cosa io non sarei sufficiente a sodisfare". E se la figliuola non si porta bene overo non gl'intraviene bene, allora dice il padre: "Questo gli è intravenuto perchè il suo pianeto non era buono".

Del numero de' figliuoli del gran Can che ha delle quattro mogli, e di Cingis, ch'era il primogenito; de' quali ne fa re di diverse provincie, e li figliuoli delle concubine li fa signori.
Cap. 5.


Sappiate che 'l gran Can avea ventidue figliuoli maschi delle sue quattro mogli leggittime, il maggior de' quali era nominato Cingis, qual dovea essere gran Can e aver la signoria dell'imperio, e già vivendo il padre era stato confermato signore. Avvenne che egli mancò della presente vita, e di lui rimase un figliuolo nominato Themur, il qual dovea succeder nel dominio ed esser gran Can, perchè egli è figliuolo del primo figliuolo del gran Can, cioè di Cingis: e questo Themur è uomo pieno di bontà, savio e ardito, e ha riportato di molte vittorie in battaglia. Item il gran Can ancora ha dalle sue concubine venticinque figliuoli, i quali sono valenti nell'arme, perchè di continuo li fa esercitar nelle cose pertinenti alla guerra, e sono gran signori. E de' figliuoli ch'egli ha dalle quattro mogli sette sono re di gran provincie e regni, e tutti mantengono bene il suo regno, perchè sono savii e prudenti: e non può esser altrimenti, essendo nasciuti di tal padre, che è opinione firmissima che uomo di maggior valore non fosse mai in tutta la generazion de' Tartari.

Del grande e maraviglioso palagio del gran Can, appresso la città di Cambalú.
Cap. 6.


Ordinariamente il gran Can abita tre mesi dell'anno, cioè dicembre, gennaio e febraio, nella gran città detta Cambalú, qual è in capo della provincia del Cataio verso greco; e quivi è situato il suo gran palagio, appresso la città nuova nella parte verso mezodí, in questa forma. Prima è un circuito di muro quadro, e ciascuna facciata è longa miglia otto, attorno alle quali vi è una fossa profonda, e nel mezo di ciascuna facciata v'è una porta, per la quale intrano tutte le genti che da ogni parte quivi concorrono. Poi si truova il spazio d'un miglio a torno a torno, dove stanno i soldati, dopo il qual spazio si truova un altro circuito di muro di miglia sei per quadro, il qual ha tre porte nella facciata di mezogiorno e altre tre nella parte di tramontana; delle quali quella di mezo è maggiore, e sta sempre serrata e mai non s'apre, se non quando il gran Can vuol entrare o uscire, e l'altre due minori, che vi sono una da una banda e l'altra dall'altra, stanno sempre aperte, e per quelle entrano tutte le genti. E in ciascun cantone di questo muro e nel mezo di ciascuna delle facciate v'è un palagio bello e spacioso, talmente che atorno atorno il muro sono otto palagi, ne' quali si tengono le munizioni del gran Cane, cioè in ciascuno una sorte di fornimenti, come freni, selle, staffe e altre cose che s'appartengono all'apparecchio di cavalli; e in un altro archi, corde, turcassi, frezze e altre cose appartenenti al saettare; in un altro corazze, corsaletti e simili cose di cuoro cotto; e cosí degli altri. Intra questo circuito di muro è un altro circuito di muro, il qual è grossissimo, e la sua altezza è ben dieci passa, e tutti i merli sono bianchi; il muro è quadro e circuisce ben quattro miglia, cioè un miglio per ciascun quadro, e in questo terzo circuito sono sei porte, similmente ordinate come nel secondo circuito. Sonvi ancora otto palagi grandissimi, ordinati come nel secondo circuito predetto, ne' quali similmente si tengono i paramenti del gran Can. Fra l'uno e l'altro muro son arbori molto belli e prati ne' quali sono molte sorti di bestie, come cervi e bestie che fanno il muschio, caprioli, daini, vari e molte altre simili, di modo che fra le mura, in qualunque luogo dove si truova vacuo, vi conversano bestie. I prati hanno erba abondantemente, perchè tutte le strade sono saleggiate e sollevate piú alte della terra ben due cubiti, talmente che sopra quelle mai non si raguna fango né vi si ferma acqua di pioggia, ma discorrendo per i prati ingrassa la terra e fa crescer l'erba in abondanza.
E dentro a questo muro, che circuisce quattro miglia, è il palagio del gran Can, il qual è il piú gran palagio che fosse veduto giamai. Esso adunque confina con il predetto muro verso tramontana e verso mezodí, ed è vacuo, dove i baroni e i soldati vanno passeggiando. Il palagio adunque non ha solaro, ma ha il tetto overo coperchio altissimo; il pavimento dove è fondato è piú alto della terra dieci palmi, e a torno a torno vi è un muro di marmo ugual al pavimento, largo per due passa, e tra il muro è fondato il palagio, di sorte che tutto il muro fuor del palagio è quasi come un preambulo, pel quale si va a torno a torno passeggiando, dove possono gli uomini veder per le parti esteriori. E nell'estremità del muro di fuori è un bellissimo poggiolo con colonne, al quale si possono accostar gli uomini. Nelle mura delle sale e camere vi sono dragoni di scoltura indorati, soldati, uccelli e diverse maniere di bestie e istorie di guerre; la copritura è fatta in tal modo ch'altro non si vede ch'oro e pittura. In ciascun quadro del palagio è una gran scala di marmo, ch'ascende da terra sopra il detto muro di marmo che circonda il palagio, per la qual scala s'ascende nel palagio. La sala è tanto grande e larga che vi potria mangiar gran moltitudine d'uomini. Sono in esso palagio molte camere, che mirabil cosa è a vederle; esso è tanto ben ordinato e disposto, che si pensa che non si potria trovar uomo che lo sapesse meglio ordinare. La copertura di sopra è rossa, verde, azurra e pavonazza e di tutti i colori; vi sono vitreate nelle fenestre cosí ben fatte e cosí sottilmente che risplendono come cristallo, e sono quelle coperture cosí forti e salde che durano molti anni. Dalla parte di dietro del palagio sono case grandi, camere e sale, nelle quali sono le cose private del signore, cioè tutto il suo tesoro, oro, argento, pietre preziose e perle, e i suoi vasi d'oro e d'argento, dove stanno le sue donne e concubine, e dove egli fa fare le cose sue commode e opportune, a' quali luoghi altre genti non v'entrano. E dall'altra parte del circuito del palagio, a riscontro del palagio del gran Can, vi è fatto un altro simile in tutto a quel del gran Can, nel quale dimora Cingis, primo figliuolo del gran Can, e tien corte, osservando i modi e costumi e tutte le maniere del padre: e questo perciochè dopo la morte di quello è per aver il dominio.
Item appresso al palagio del gran Can, verso tramontana per un tiro di balestra, intra i circuiti delle mura è un monte di terra fatto a mano, la cui altezza è ben cento passa, e a torno a torno cinge ben per un miglio, il qual è tutto pieno e piantato di bellissimi arbori, che per tempo alcuno mai perdono le foglie e sono sempre verdi. E il signore, quand'alcuno li riferisse in qualche luogo essere qualche bell'arbore, lo fa cavare con tutte le radici e terra, e fosse quanto si volesse grande e grosso, che con gli elefanti lo fa portare a quel monte: e in questo modo vi sono bellissimi arbori sempre tutti verdi, e per questa causa si chiama Monte Verde, nella sommità del qual è un bellissimo palagio, ed è verde tutto, onde, riguardando il monte, il palagio e gli arbori, è una bellissima e stupenda cosa, perciochè rende una vista bella, allegra e dilettevole.
Item verso tramontana similmente nella città è una gran cava larga e profonda molto, ben ordinata, della cui terra fu fatto il detto monte; e un fiume non molto grande empie detta cava e fa a modo d'una peschiera, e quivi si vanno ad acquare le bestie. E dopo si parte il detto fiume, passando per un acquedutto appresso il monte predetto, ed empie un'altra cava molto grande e profonda, tra il palagio del gran Can e quello di Cingis suo figliuolo, della terra della quale fu similmente inalzato il detto monte. In queste cave overo peschiere sono molte sorti di pesci, de' qual il gran Can ha grand'abondanza quando vuole. E il fiume si parte dall'altra parte della cava e scorre fuori, ma è talmente ordinato e fabricato che nell'entrare e uscire vi sono poste alcune reti di rame e di ferro, che d'alcuna parte non può uscire il pesce. Vi sono ancora cigni e altri uccelli d'acqua, e da un palagio all'altro si passa per un ponte fatto sopra quell'acqua.
Detto è adunque del palagio del gran Can; ora si dirà della disposizione e condizione della città di Taidu.

Della nuova città di Taidu, fabricata appresso la città di Cambalú; degli ordini che s'osservano cosí nell'alloggiare gli ambasciatori come nell'andar di notte.
Cap. 7.


La città di Cambalú è posta sopra un gran fiume nella provincia del Cataio, e fu per il tempo passato molto nobile e regale; e questo nome di Cambalú vuol dire città del signore. E trovando il gran Can, per opinione degli astrologhi ch'ella dovea ribellarsi dal suo dominio, ne fece ivi appresso edificar un'altra, oltre il fiume, ove sono li detti palagi, di modo che niuna cosa è che la divida salvo che 'l fiume che indi discorre. La città adunque nuovamente edificata si chiama Taidu, e tutti li Cataini, cioè quelli che aveano origine dalla provincia del Cataio, li fece il gran Can uscir della vecchia città e venir ad abitar nella nuova, e quelli di che egli non si dubitava che avessero ad essere ribelli lasciò nella vecchia, perchè la nuova non era capace di tanta gente quanto abitava nella vecchia, la qual era molto grande; e nondimeno la nuova era della grandezza come al presente potrete intendere.
Questa nuova città ha di circuito ventiquattro miglia ed è quadra, di sorte che niun lato del quadro è maggiore o piú lungo dell'altro e ciascun è di sei miglia, ed è murata di mura di terra che sono grosse dalla parte di sotto circa dieci passa, ma dalli fondamenti in su si vanno minuendo, talmente che nella parte di sopra non sono piú di grossezza di tre passa, e a torno a torno sono merli bianchi. Tutta la città adunque è tirata per linea, imperochè le strade generali dall'una parte all'altra sono cosí dritte per linea che, s'alcuno montasse sopra il muro d'una porta e guardasse a drittura, può vedere la porta dall'altra banda a riscontro di quella. E per tutto, dai lati di ciascuna strada generale, sono stanze e botteghe di qualunque maniera, e tutti i terreni sopra li quali sono fatte le abitazioni per la città sono quadri e tirati per linea, e in ciascun terreno vi sono spaziosi e gran palagi, con sufficienti corti e giardini. E questi tali terreni sono dati a ciascun capo di casa, cioè il tale di tal progenie ebbe questo terreno, e il tale della tale ebbe quell'altro, e cosí di mano in mano. E circa ciascun terreno cosí quadro sono belle vie per le quali si cammina, e in questo modo tutta la città di dentro è disposta per quadro, com'è un tavoliero da scacchi, ed è cosí bella e maestrevolmente disposta che non saria possibile in alcun modo raccontarlo. Il muro della città ha dodici porte, cioè tre per ciascun quadro, e sopra ciascuna porta e cantone di quadro è un gran palagio molto bello, talmente che in ciascun quadro di muro sono cinque palagi, i quali hanno grandi e larghe sale, dove stanno l'armi di quelli che custodiscono la città, perchè ciascuna porta è custodita per mille uomini. Né credasi che tal cosa si faccia per paura di gente alcuna, ma solamente per onore ed eccellenza del signore; nondimeno, per il detto degli astrologhi, si ha non so che di sospetto della gente del Cataio. E in mezo della città è una gran campana, sopra un grande e alto palagio, la quale si suona di notte, acciò che dopo il terzo suono niun ardisca andare per la città, se non in caso di necessità per donna che partorisca o d'uomo infermo; e quelli che vanno per giusta causa deono portar lumi con esso loro.
Item fuor della città per ciascuna porta sono grandissimi borghi overo contrade, di modo che 'l borgo di ciascuna porta si tocca con li borghi delle porte dell'uno e l'altro lato, e durano per longhezza tre e quattro miglia, a tal che sono piú quelli che abitano ne' borghi che quelli che abitano nella città. E in ciascun borgo overo contrada, forse per un miglio lontano dalla città, sono molti fondachi e belli, ne' quali alloggiano i mercanti che vengono di qualunque luogo; e a ciascuna sorte di gente è diputato un fondaco, come si direbbe a' Lombardi uno, a' Tedeschi un altro e a' Francesi un altro. E vi sono femine da partito venticinquemila, computate quelle della città nuova e quelle de' borghi della città vecchia, le quali servono de' suoi corpi agli uomini per denari. E hanno un capitano generale, e per ciascun centenaio e ciascun migliaio vi è un capo, e tutti rispondono al generale; e la causa perchè queste femine hanno capitano è perchè, ogni volta che vengono ambasciatori al gran Can per cose e facende di esso signore, e che stanno alle spese di quello, le quali lor vengono fatte onoratissime, questo capitano è obligato di dare ogni notte a detti ambasciatori e a ciascuno della famiglia una femina da partito, e ogni notte si cambiano, e non hanno alcun prezzo, imperochè questo è il tributo che pagano al gran Can. Oltre di ciò, le guardie cavalcano sempre la notte per la città a trenta e a quaranta, cercando e investigando s'alcuna persona ad ora straordinaria, cioè dopo il terzo suono della campana, vada per la città: e trovandosi alcuno si prende e subito si pone in prigione, e la mattina gli officiali a ciò deputati l'esaminano, e trovandolo colpevole di qualche mensfatto li danno, secondo la qualità di quello, piú e manco battiture con un bastone, per le quali alcune volte ne periscono. E a questo modo sono puniti gli uomini de' loro delitti, e non vogliono tra loro sparger sangue, però che i loro bachsi, cioè sapienti astrologhi, dicono esser male a spargere il sangue umano.
Detto è adunque delle continenzie della città di Taidu; ora diremo come nella città i Cataini si volsero ribellare.

Del tradimento ordinato di far ribellar la città di Cambalú, e come gli auttori furono presi e morti.
Cap. 8.


Vera cosa è, come di sotto si dirà, che sono deputati dodici uomini, i quali hanno a disporre delle terre e reggimenti e di tutte l'altre cose come meglio lor pare. Tra' quali v'era un saraceno nominato Achmac, uomo sagace e valente, il qual oltre gli altri avea gran potere e auttorità appresso il gran Can, e il signore tanto l'amava ch'egli avea ogni libertà, imperochè, come fu trovato dopo la sua morte, esso Achmac talmente incantava il signor con suoi veneficii che 'l signore dava grandissima credenza e udienza a tutti i detti suoi, e cosí facea tutto quello che volea fare. Egli dava tutti i reggimenti e officii e puniva tutti i malfattori, e ogni volta ch'egli volea far morir alcuno ch'egli avesse in odio, o giustamente o ingiustamente, egli andava dal signore e dicevagli: "Il tale è degno di morte, perchè cosí ha offeso vostra Maestà". Allora diceva il signore: "Fa' quel che ti piace", ed egli subito lo facea morire. Per il che, vedendo gli uomini la piena libertà ch'egli avea, e che 'l signore al detto di costui dava sí piena fede che non ardivano di contradirli in cosa alcuna, non v'era alcuno cosí grande e di tant'auttorità che non lo temesse. E s'alcuno fosse per lui accusato a morte al signore e volesse scusarsi, non potea riprovare e usar le sue ragioni, perchè non avea con chi, conciosiachè niun ardiva di contradire ad esso Achmach: e a questo modo molti ne fece morire ingiustamente.
Oltre di questo non era alcuna bella donna che, volendola, egli non l'avesse alle sue voglie, togliendola per moglie s'ella non era maritata, overo altramente facendola consentire. E quando sapeva ch'alcuno aveva qualche bella figliuola, esso aveva i suoi ruffiani ch'andavano al padre della fanciulla dicendogli: "Che vuoi tu fare? Tu hai questa tua figliuola: dàlla per moglie al bailo, - cioè ad Achmach, perchè si diceva bailo come si diria vicario, - e faremo ch'egli ti darà il tal reggimento overo tal officio per tre anni". E cosí quello li dava la sua figliuola, e allora Achmach diceva al signore: "El vacua tal reggimento, overo si finisce il tal giorno; tal uomo è sufficiente a reggerlo"; e il signor li rispondeva: "Fa' quello che ti pare", onde l'investiva subito di tal reggimento. Per il che, parte per ambizione di reggimenti e officii, parte per esser temuto questo Achmach, tutte le belle donne o le toglieva per mogli o le avea a' suoi piaceri. Avea ancora figliuoli circa venticinque, i quali erano ne' maggiori officii, e alcuni di loro, sotto nome e coperta del padre, commettevano adulterio come il padre e facevano molt'altre cose nefande e scelerate. Questo Achmach avea ragunato molto tesoro, perchè ciascuno che volea qualche reggimento overo officio li mandava qualche gran presente.
Regnò adunque costui anni ventidue in questo dominio; finalmente gli uomini della terra, cioè i Cataini, vedendo le infinite ingiurie e nefande sceleratezze ch'egli fuor di misura commetteva, cosí nelle lor mogli come nelle lor proprie persone, non potendo per modo alcuno piú sostenere, deliberorno d'ammazzarlo e ribellare al dominio della città. E tra gli altri era un Cataino nominato Cenchu, che avea sotto di sé mille uomini, al qual il detto Achmach avea sforzata la madre, la figliuola e la moglie; dove che pien di sdegno parlò sopra la destruzione di costui con un altro Cataino nominato Vanchu, il qual era signore di diecimila, che dovessero far questo quando il gran Can sarà stato tre mesi in Cambalú, e poi si parte e va alla città di Xandú, dove sta similmente tre mesi, e similmente Cingis suo figliuolo si parte e va alli luoghi soliti, e questo Achmach rimane per custodia e guardia della città; e quando intraviene qualche caso esso manda a Xandú al gran Can, ed egli li manda la risposta della sua volontà. Questi Vanchu e Cenchu, avendo fatto questo consiglio insieme, volsero communicarlo con li Cataini maggiori della terra, e di comun consenso lo fecero intender in molte altre città e alli suoi amici, cioè che avendo deliberato in tal giorno far il tal effetto, che subito che vedranno i segni del fuoco debbino ammazzar tutti quelli che hanno barba, e far segno con il fuoco alle altre città che faccino il simile: e la cagion per la qual si dice che li barbuti sian ammazzati, è perchè i Cataini sono senza barba naturalmente, e li Tartari e saraceni e cristiani la portavano. E dovete sapere che tutti i Cataini odiavano il dominio del gran Can, perchè metteva sopra di loro rettori tartari e per lo piú saraceni, e loro non li potevano patire, parendoli d'essere come servi. E poi il gran Can non avea giuridicamente il dominio della provincia del Cataio, anzi l'avea acquistato per forza, e non confidandosi di loro dava a regger le terre a Tartari, saraceni e cristiani ch'erano della sua famiglia, a lui fideli, e non erano della provincia del Cataio.
Or li sopradetti Vanchu e Cenchu, stabilito il termine, entrarono nel palagio di notte, e Vanchu sentò sopra una sedia e fece accendere molte luminarie avanti di sé, e mandò un suo nuncio ad Achmach bailo, che abitava nella città vecchia, che da parte di Cingis figliuolo del gran Can, il quale or ora era gionto di notte, dovesse di subito venire a lui. Il che inteso, Achmach molto maravigliandosi andò subitamente, perchè molto lo temeva, ed entrando nella porta della città incontrò un Tartaro nominato Cogatai, il qual era capitano di docimila uomini co' quali continuamente custodiva la città, qual gli disse: "Dove andate cosí tardi?" "A Cingis, il qual or ora è venuto". Disse Cogatai: "Come è possibile che lui sia venuto cosí nascosamente ch'io non l'abbia saputo?", e seguitollo con certa quantità delle sue genti. Ora questi Cataini dicevano: "Pur che possiamo ammazzare Achmach, non abbiamo da dubitare d'altro". E subito che Achmach entrò nel palagio, vedendo tante luminarie accese, s'inginocchiò avanti Vanchu, credendo che 'l fosse Cingis, e Cenchu che era ivi apparecchiato con una spada li tagliò il capo. Il che vedendo Cogatai, che s'era fermato nell'entrata del palagio, disse: "Ci è tradimento", e subito saettando Vanchu che sedeva sopra la sedia l'ammazzò, e chiamando la sua gente prese Cenchu e mandò per la città un bando che, s'alcuno fosse trovato fuori di casa, fosse di subito morto.
I Cataini, vedendo che i Tartari aveano scoperta la cosa, e che non aveano capo alcuno, essendo questi due l'un morto l'altro preso, si riposero in casa, né poterono far alcun segno all'altre città che si ribellassero com'era stato ordinato. E Cogatai subito mandò i suoi nunzii al gran Can, dichiarandoli per ordine tutte le cose ch'erano intravenute, il quale li rimandò dicendo che lui dovesse diligentemente esaminarli, e secondo che loro meritassero per i loro mensfatti li dovesse punire. Venuta la mattina, Cogatai esaminò tutti i Cataini, e molti di loro distrusse e uccise che trovò esser de' principali nella congiura; e cosí fu fatto nell'altre città, poi che si seppe ch'erano partecipi di tal delitto. Poi che fu ritornato il gran Can a Cambalú, volse sapere la causa per la quale ciò era intravenuto, e trovò come questo maledetto Achmach, cosí lui come i suoi figliuoli, aveano commessi tanti mali e tanto enormi come di sopra s'è detto. E fu trovato che tra lui e sette suoi figliuoli (perchè tutti non erano cattivi) aveano prese infinite donne per mogli, eccettuando quelle ch'aveano avute per forza. Poi il gran Can fece condurre nella nuova città tutto il tesoro che Achmach avea ragunato nella città vecchia, e quello ripose con il suo tesoro: e fu trovato ch'era infinito. E volse che fosse cavato di sepoltura il corpo di Achmach e posto nella strada, acciò che fosse stracciato da' cani, e i figliuoli di quello che aveano seguitato il padre nelle male opere li fece scorticare vivi. E venendogli in memoria della maledetta setta di saraceni, per la qual ogni peccato gli vien fatto lecito e che possono uccidere qualunque non sia della sua legge, e che il maledetto Achmach con i suoi figliuoli non pensando per tal causa di far alcun peccato, la disprezzò molto ed ebbe in abominazione; chiamati a sé li saraceni gli vietò molte cose che la lor legge li comandava, imperochè li diede un comandamento ch'ei dovessero pigliar le mogli secondo la legge de' Tartari, e che non dovessero scannare le bestie come facevano per mangiar la carne, ma quelle dovessero tagliare pel ventre. E nel tempo ch'intravenne questa cosa messer Marco si trovava in quel luogo. Detto si è di questo; ora diremo come il gran Can mantiene e regge la sua corte.

Della guardia della persona del gran Can, ch'è di dodicimila persone.
Cap. 9.


Il gran Can, come a ciascun è manifesto, si fa custodire da dodicimila cavallieri, i quali si chiamano casitan, cioè soldati fideli del signore: e questo non fa per paura ch'egli abbia d'alcuna persona, ma per eccellenza. Questi dodicimila uomini hanno quattro capitani, ciascuno de' quali è capitano di tremila, e ciascun capitano con li suoi tremila dimora continuamente nel palagio tre dí e tre notti, e compiuto il suo termine si cambia un altro, e quando ciascun di loro ha custodito la sua volta ricominciano di nuovo la guardia. Il giorno certamente gli altri novemila non si partono di palagio, s'alcuno non andasse per facende del gran Can overo per cose a loro necessarie, mentre però che fossero lecite, e sempre con parola del loro capitano. E se fosse qualche caso grave, come se il padre o il fratello o qualche suo parente fosse in articulo di morte, overo li soprastesse qualche gran danno per il qual non potesse ritornar presto, bisogna dimandar licenza al signore. Ma la notte li novemila ben vanno a casa.

Del modo che 'l gran Can tien corte solenne e generale, e come siede a tavola con tutti i suoi baroni; e della credenza che è in mezo della sala, con li vasi d'oro da bere e altri pieni di latte di cavalle e camelle, e cerimonie che si fanno quando beve.
Cap. 10.


E quando il gran Can tiene una corte solenne, gli uomini seggono con tal ordine: la tavola del signor è posta avanti la sua sedia molto alta, e siede dalla banda di tramontana, talmente che volta la faccia verso mezodí; e appo lui siede la sua moglie dalla banda sinistra, e dalla banda destra, alquanto piú basso, seggono i suoi figliuoli e nepoti e parenti, e altri che sono congiunti di sangue, cioè quelli che discendono dalla progenie imperiale. Nondimeno Cingis, suo primo figliuolo, siede alquanto piú alto degli altri figliuoli. E i capi di questi stanno quasi uguali alli piedi del gran Can, e altri baroni e principi seggono ad altre tavole piú basse, e similmente è delle donne, imperochè tutte le mogli de' figliuoli del gran Can e parenti e nepoti seggono dalla banda sinistra piú a basso; dopo le mogli de' baroni e soldati ancora piú basse, di modo che ciascuna siede secondo il suo grado e dignità nel luogo a lui deputato e conveniente. E le tavole sono talmente ordinate che 'l gran Can, sedendo nella sua sedia, può veder tutti. Né crediate che tutti segghino a tavola, anzi la maggior parte de' soldati e baroni mangia in sala sopra tapedi, perchè non hanno tavole; e fuor della sala sta gran moltitudine d'uomini che vengono da diverse parti, con varii doni di cose strane e non solite a vedersi, e sonvi alcuni che hanno avuto qualche dominio e desiderano di riaverlo, e questi sogliono sempre venire in tali giorni che 'l tien corte bandita overo fa nozze. E nel mezo della sala dove il signor siede a tavola è un bellissimo artificio grande e ricco, fatto a modo d'un scrigno quadro, e ciascun quadro è di tre passa, sottilmente lavorato con bellissime scolture d'animali indorati, e nel mezo è incavato e vi è un grande e precioso vaso a modo d'un pittaro, di tenuta d'una botte, nel quale vi è il vino; e in ciascun cantone di questo scrigno è posto un vaso di tenuta d'un bigoncio, in uno de' quali è latte di cavalle e nell'altro di camelle, e cosí degli altri, secondo che sono diverse maniere di bevande. E in detto scrigno stanno tutti i vasi del signore, co' quali se li porge da bere, e sonvi alcuni d'oro bellissimi, che si chiamano vernique, le quali sono di tanta capacità che ciascuna, piena di vino overo d'altra bevanda, sarebbe a bastanza da bere per otto o dieci uomini; e a ogni due persone che seggono a tavola si pone una verniqua piena di vino con una obba, e le obbe sono fatte a modo di tazze d'oro che hanno il manico, con le quali cavano il vino dalla verniqua, e con quelle bevono, la qual cosa si fa cosí alle donne come alli uomini. E questo signor ha tanti vasi d'oro e d'argento e cosí preziosi che non si potrebbe credere. Item sono deputati alcuni baroni, i quali hanno a disporre alli luoghi loro debiti e convenevoli i forestieri che sopravengono, che non sanno i costumi della corte: e questi baroni vanno continuamente per la sala qua e là, ricercando da quelli che seggono a tavola se cosa alcuna lor manca, e se alcuni vi sono che vogliano vino o latte o carni o altro, gliene fanno subito portar dalli servitori.
A tutte le porte della sala, overo di qualunque luogo dove sia il signore, stanno due uomini grandi a guisa di giganti, uno da una parte l'altro dall'altra, con un bastone in mano: e questo perchè a niuno è lecito toccare la soglia della porta, ma bisogna che distenda il piede oltre, e se per aventura la tocca i detti guardiani li tolgono le vesti, e per riaverle bisogna che le riscuotino; e se non li togliono le vesti, li danno tante botte quante li sono deputate. Ma se sono forestieri che non sappino il bando, vi sono deputati alcuni baroni, che gl'introducono e ammoniscono del bando: e questo si fa perchè se si tocca la soglia si ha per cattivo augurio. Nell'uscire veramente della sala, perchè alcuni sono aggravati dal bere né potrebbono per modo alcuno guardarsi, non si ricerca tal bando. E quelli che fanno la credenza al gran Can e che gli ministrano il mangiare e bere sono molti, e tutti hanno fasciato il naso e la bocca con bellissimi veli overo fazzoletti di seta e d'oro, a questo effetto, acciò che il loro fiato non respiri sopra i cibi e sopra il vino del gran Can. E sempre, quando il signor vuol bere, subito che 'l donzello glielo appresenta si tira adietro per tre passa e inginocchiasi, e tutti i baroni e altre genti s'inginocchiano, e tutte le sorti d'instrumenti che ivi sono in grandissima quantità cominciano a sonare fin che lui beve, e quando ha bevuto cessano gl'instrumenti e le genti si levano; e sempre quando beve se gli fa questo onore e riverenza. Delle vivande non si dice, perchè ciascuno deve credere che vi siano in grandissima abondanza; e non è alcun barone che seco non meni la sua moglie, e mangiano con l'altre donne. E quando hanno mangiato e sono levate le tavole, vengono in sala molte genti, e tra l'altre gran moltitudine di buffoni e sonatori di diversi instrumenti e molte maniere d'esperimentatori, e tutti fanno gran sollazzi e feste avanti il gran Can, laonde tutti si rallegrano e consolansi. E quando tutto questo si è fatto, le genti si partono e ciascuno se ne torna a casa sua.

Della festa grande che si fa per tutto il dominio del gran Can alli ventotto di settembre, ch'è il giorno della sua natività, e come egli veste ben ventimila uomini.
Cap. 11.


Tutti li Tartari e quelli che sono subditi del gran Can fanno festa il giorno della natività d'esso signore, qual nacque alli ventotto della luna del mese di settembre; e in quel giorno si fa la maggior festa che si faccia in tutto l'anno, eccettuando il primo giorno del suo anno, nel qual si fa un'altra festa, come di sotto si dirà. Nel giorno adunque della sua natività, il gran Can si veste un nobil drappo d'oro, e ben circa ventimila baroni e soldati si vestono d'un colore e d'una maniera simile a quella del gran Can: non che siano drappi di tanto prezzo, ma sono d'un medesimo color d'oro e di seta, e insieme con la veste a tutti vien data una cintura di camoscia lavorata a fila d'oro e d'argento molto sottilmente, e un paro di calze, e ne sono alcune delle vesti che hanno pietre preziose e perle per la valuta piú che di mille bisanti d'oro, come sono quelle delli baroni che per fedeltà sono prossimi al signore, e si chiamano quiecitari; e queste tali veste sono deputate solamente in feste tredeci solenni, le quali fanno i Tartari con gran solennità secondo tredeci lune dell'anno, di maniera che, come sono vestiti e adornati cosí riccamente, paiono tutti re. E quando il signore si veste alcuna vesta, questi baroni similmente si vestono d'una del medesimo colore, ma quelle del signore sono di maggior valuta e piú preciosamente ornate; e dette vesti de' baroni di continuo sono apparecchiate: non che se ne facciano ogn'anno, anzi durano dieci anni, e piú e manco. E di qui si comprende la grand'eccellenza del gran Can, conciosiacosachè in tutt'il mondo non si troverà principe alcuno che possa far tante cose quanto egli fa.
In questo giorno della natività del detto signore tutti i Tartari del mondo e tutte le provincie e regni a lui sottoposti li mandano grandissimi doni, secondo che è l'usanza e l'ordine, e vengono assaissimi uomini con presenti, che pretendono impetrare grazia di qualche dominio: e il gran signore ordina alli dodici baroni sopra di ciò deputati che diano dominio e reggimento a questi tali uomini, secondo che a loro si conviene. E in questo giorno tutti i cristiani, idolatri e saraceni e tutte le sorti di genti pregano grandemente i loro iddii e idoli che salvino e custodiscano il loro signore, e a lui concedino longa vita, sanità e allegrezza. Tale e tanta è l'allegrezza in quel giorno della natività del signore.
Or, lasciando questa, diremo d'un'altra festa che si fa in capo dell'anno, chiamata la festa bianca.

Della festa bianca, che si fa il primo giorno di febraio, che è il principio del suo anno,
e la quantità de' presenti che li sono portati, e delle cerimonie che si fanno
a una tavola dove è scritto il nome del gran Can.
Cap. 12.


Certa cosa è che li Tartari cominciano l'anno del mese di febraio, e il gran Can e tutti quelli che a lui sono sottoposti per le lor contrade celebrano tal festa, nella qual è consuetudine che tutti si vestino di vesti bianche, perchè li pare che la vesta bianca significhi buon augurio: e però nel principio dell'anno si vestono di tal sorte vesti, acciò che tutto l'anno gl'intravenga bene e abbino allegrezza e solazzo. E in questo dí tutte le genti, provincie e regni che hanno terre e dominio del gran Can li mandano grandissimi doni d'oro e d'argento e molte pietre preziose e molti drappi bianchi, il che fanno loro acciò che il signore abbia tutto l'anno allegrezza e gaudio e tesoro a sufficienza da spendere; e similmente i baroni, principi e cavalieri e popoli si presentano l'un l'altro cose bianche per le sue terre, e abbracciansi l'un l'altro e fanno grand'allegrezza e festa, dicendosi l'un l'altro (come ancora si dice appresso di noi): "In questo anno vi sia in buon augurio, e v'intravenga bene ogni cosa che farete": e ciò fanno acciò che tutto l'anno le cose loro succedano prosperamente. Presentasi al gran Can in questo giorno gran quantità di cavalli bianchi molto belli, e se non sono bianchi per tutto sono almanco bianchi per la maggior parte; e trovansi in quei paesi assaissimi cavalli bianchi.
Adunque è consuetudine appresso di loro, nel far de' presenti al gran Cane, che tutte le provincie che lo possono fare osservino questo modo, che di ciascun presente nove volte nove presentano nove capi, cioè, se gli è una provincia che manda cavalli, presenta nove volte nove capi di cavalli, cioè ottantuno; se presenta oro, nove volte manda nove pezzi d'oro; se drappi, nove volte nove pezze di drappi; e cosí di tutte l'altre cose, di sorte che alle volte averà per questo conto centomila cavalli. Item in quel giorno vengono tutti gli elefanti del signore, che sono da cinquemila, coperti di drappi artificiosamente e riccamente lavorati d'oro e di seta, con uccelli e bestie intessuti, e ciascuno ha sopra le spalle due scrigni, pieni di vasi e fornimenti per quella corte. Vengono dopo molti camelli coperti di drappo di seta, carichi delle cose per la corte necessarie, e tutti cosí adornati passano avanti al gran signore, il che è bellissima cosa a vedere.
E la mattina di questa festa, prima che apparecchino le tavole tutti i re, duchi, marchesi, conti, baroni e cavalieri, astrologhi, medici e falconieri, e molti altri che hanno officii, e rettori delle genti, delle terre e delli eserciti entrano nella sala principale avanti il gran signore, e quelli che non vi possono stare stanno fuor del palagio, in tal luogo che 'l signor li vede benissimo. E tutti sono ordinati in questo modo: primieramente sono i suoi figliuoli e nepoti e tutti della progenie imperiale; dopo questi sono i re, dopo i re i duchi, e dapoi tutti gli ordini, un dopo l'altro, come è conveniente. E quando tutti sono posti alli luoghi debiti, allora un grande uomo, come sarebbe a dire un gran prelato, levandosi dice ad alta voce: "Inchinatevi e adorate", e subito tutti s'inchinano e abbassano la fronte verso la terra. Allora dice il prelato: "Dio salvi e custodisca il nostro signore per longo tempo con allegrezza e letizia", e tutti rispondono: "Iddio lo faccia". E dice un'altra volta il prelato: "Dio accresca e moltiplichi l'imperio suo di bene in meglio, e conservi tutta la gente a lui sottoposta in tranquilla pace e buona volontà, e in tutte le sue terre succedino tutte le cose prospere", e tutti rispondono: "Iddio lo faccia". E in questo modo adorano quattro volte. Fatto questo, detto prelato va ad un altare che ivi è, riccamente adornato, sopra il qual è una tavola rossa nella qual è scritto il nome del gran Can, e vi è il turibolo con l'incenso, e il prelato in vece di tutti incensa quella tavola e l'altare con gran riverenza, e allora tutti riveriscono grandemente la detta tavola dell'altare. Il che fatto, tutti ritornano alli luoghi loro, e allora si presentano i doni che abbiamo detto; e quando sono fatti i presenti e che il gran signore ha veduto ogni cosa, s'apparecchiano le tavole e le genti seggono a tavola, al modo e ordine detto negli altri capitoli, cosí le donne come gli uomini. E quando hanno mangiato vengono li musici e buffoni alla corte, solazzando, come di sopra s'è detto, e si mena alla presenza del signore un leone, ch'è tanto mansueto che subito si pone a giacer alli piedi di quello; e quando tutto ciò è fatto, ognun va a casa sua.

Della quantità degli animali del gran Can, che fa pigliar il mese di dicembre,
gennaio e febraio e portar alla corte.
Cap. 13.


Mentre il gran Can dimora nella città del Cataio tre mesi, cioè dicembre, gennaio e febraio, ne' quali è il gran freddo, ha ordinato per il spazio di quaranta giornate, atorno atorno il luogo dove egli è, che tutte le genti debbano andare a caccia, e li rettori delle terre debbino mandare alla corte tutte le bestie grosse, cioè cingiali, cervi, daini, caprioli, orsi. E tengono questo modo in prenderle: ciascun signore della provincia fa venire con esso lui tutti i cacciatori del paese, e vanno ovunque si siano le bestie serrandole a torno, e quelle con li cani e il piú con le freccie uccidono, e a quelle bestie che vogliono mandare al signore fanno cavar l'interiora, e poi le mandano sopra carri. E ciò fanno quelli che sono lontani trenta giornate in grandissima quantità; quelli veramente che sono distanti quaranta giornate, per essere troppo lontani, non mandano le carni, ma solamente le pelli acconcie e altre che non sono acconcie, acciò che il signor possa far fare le cose necessarie, cioè per conto dell'arme ed eserciti.

Delli leopardi, lupi cervieri e leoni assuefatti a pigliar degli animali,
e dell'aquile che pigliano lupi.
Cap. 14.


Il gran Can ha molti leopardi e lupi cervieri usati alla caccia, che prendono le bestie, e similmente molti leoni che sono maggiori de' leoni di Babilonia, e hanno bel pelo e bel colore, perchè sono vergati per il longo di verghe bianche, nere e rosse, e sono abili a prender cinghiali, buoi e asini salvatici, orsi e cervi e caprioli e molte altre fiere: ed è cosa molto maravigliosa a vedere, quando un leone prende simili animali, con quanta ferocità e prestezza fa questo effetto; quali leoni il signor fa portar nelle gabbie sopra i carri, e con quelli un cagnolino con il qual si domesticano. E la cagione perchè si conduchino nelle gabbie è perchè sarebbono troppo furiosi e rabbiosi nel correre alle bestie né si potriano tenere, e bisogna che li siano menati a contrario di vento, perchè, se le bestie sentissero l'odor di quelli, subito fuggirebbono e non gli aspettarebbono. Ha il gran Can ancora aquile atte a prender lupi, volpi, caprioli e daini: e di quelli ne prendono molti; ma quelle che sono assuefatte a prendere lupi sono grandissime e di gran forza, imperochè non è lupo cosí grande che da quelle possa campare che non sia preso.

Di due fratelli che sono capitani della caccia del gran Can, con diecimila uomini
per uno e con cinquemila cani.
Cap. 15.


Il gran signore ha due fratelli, che sono germani fratelli, uno de' quali si chiama Bayan e l'altro Mingan, e chiamansi ciuici in lingua tartaresca, cioè signori della caccia, e tengono i cani da caccia e da paisa, da lepori e mastini; e ciascun di questi fratelli ha diecimila uomini sotto di sé, e gli uomini che sono sottoposti ad uno di questi vanno vestiti di rosso, e li sottoposti all'altro di turchino celeste: e ogni volta che vanno alla caccia portano queste vesti, e menano seco cani segusii, levrieri e mastini sino al numero di cinquemila, perchè sono pochi che non abbino cani. E sempre uno di questi fratelli con li suoi diecimila va alla destra del signore, e l'altro alla sinistra con li suoi diecimila, e vanno l'un appresso all'altro con le schiere in ordinanza, sí che occupano ben una giornata di paese: per il che non vi è bestia che da loro non sia presa. Ed è una bella cosa e molto dilettevole a veder il modo de' cacciatori e de' cani, imperochè, mentre ch'il gran Can va in mezo cacciando, si veggono questi cani seguitar cervi, orsi e altre bestie da ogni banda. E questi due fratelli sono obligati per patto dare alla corte del gran Can ogni giorno, cominciando del mese d'ottobre sino per tutto il mese di marzo, mille capi tra bestie e uccelli, eccettuando quaglie, e ancora pesci, secondo che meglio possono, computando tanta quantità di pesce per un capo quanto potrebbono tre persone sufficientemente mangiare ad un pasto.

Del modo che va il gran Can a veder volare li suoi girifalchi e falconi, e delli falconieri; e della sorte de' padiglioni, che sono fodrati d'armellini e zibellini.
Cap. 16.

Quando il gran signore è stato tre mesi nella sopradetta città, cioè dicembre, gennaio e febraio, indi partendosi il mese di marzo va verso greco al mare Oceano, il quale da lí è discosto per due giornate; e con lui cavalcano ben diecimila falconieri, i quali portano con loro gran moltitudine di girifalchi, falconi pellegrini e sacri e gran quantità d'astori, per conto d'uccellare per le riviere. Ma non crediate che il gran Can li ritenga seco in un medesimo luogo, anzi si dividono in molte parti, cioè in cento e dugento e piú per parte, i quali vanno uccellando: e la maggior parte della loro cacciagione portano al gran signore, il qual, quando va ad uccellare con li suoi girifalchi e altri uccelli, ha ben seco diecimila persone, che si chiamano toscaol, cioè uomini che stanno alla custodia, perchè sono deputati tutti a due a due, qua e là per qualche spazio, una parte discosta dall'altra, talmente che occupano gran parte del paese, e ciascuno ha un richiamo e un cappelletto per chiamare e tenere gli uccelli. E quando il gran signor comanda che si gettino gli uccelli, non accade che quelli che li gettano abbino a seguitarli, perchè li sopradetti guardiani cosí bene li custodiscono che non volano in parte alcuna che non siano presi, e se bisogna soccorrerli subito li guardiani gli soccorrono. E tutti gli uccelli del gran Can e degli altri baroni hanno una picciola tavoletta d'argento legata alli piedi, nella quale è scritto il nome di colui di chi è l'uccello e chi l'ha in governo: e per questo modo, subito che l'uccello è preso, si conosce immediate di chi egli è e ritornasegli, e se non si sa, overo perchè quello che l'ha preso non lo conosce personalmente, ancor che sappia il nome, allora si porta a un barone nominato bulangazi, che vuol dire custode delle cose delle quali non appare il padrone. Perchè, se si trovasse alcun cavallo overo spada over uccello o qualch'altra cosa, e non fosse denunciata di chi si sia, subito si porta al detto barone, il quale lo toglie e lo fa custodire diligentemente: e s'alcuno truova qualche cosa che sia persa e non la porti al barone, è riputato ladro. E tutti quelli che perdono cosa alcuna vanno da questo barone, il qual gli fa restituire le cose perdute; e questo barone sempre dimora in luogo piú alto di tutto l'esercito con la sua bandiera a questo effetto, acciò che quelli che hanno perso le loro cose lo possino veder chiaramente tra gli altri. E in questo modo non si perde cosa alcuna che non si possa recuperare.
Oltre di ciò, quando il gran Can va a questa via appresso al mare Oceano, allora si veggono molte cose belle in prendere gli uccelli, di modo che non è sollazzo al mondo che a questo possa aguagliarsi. E il gran Can sempre va sopra due elefanti, overo uno, specialmente quando va ad uccellare, per la strettezza de' passi che si truovano in alcuni luoghi, imperochè meglio passano due over uno che molti; ma nell'altre sue faccende va sopra quattro, e sopra quelli v'è una camera di legno nobilmente lavorata, e dentro tutta coperta di panni d'oro e di fuori coperta di cuori di leoni, nella qual dimora continuamente il gran Can quando va ad uccellare, per essere molestato dalle gotte. E tiene nella detta camera dodici de' migliori girifalchi ch'egli abbia, con dodici baroni suoi favoriti per sua compagnia e solazzo. E gli altri che cavalcano d'intorno fanno intendere al signor che passano le grue o altri uccelli, ed egli fa levar il coperchio di sopra della camera e, vedute le grue, comanda che si lascino volare li girifalchi, li quali prendono le grue combattendo con quelle per gran spazio di tempo, vedendo il signore e stando nel letto, con grandissimo suo solazzo e consolazione, e cosí di tutti gli altri baroni e cavallieri che cavalcano d'intorno.
E quando ha uccellato per alquante ore, se ne viene ad un luogo chiamato Caczarmodin, dove sono le trabacche e i padiglioni de suoi figliuoli e d'altri baroni, cavallieri e falconieri, che passano diecimila, molto belli. Il padiglione veramente del signore, nel quale tiene la sua corte, è tanto grande e amplo che sotto vi stanno diecimila soldati, oltre li baroni e altri signori; ha la porta verso mezodí, e v'è ancora un'altra tenda verso levante, a questa congiunta, dove è una gran sala dove stanzia il signore con alcuni suoi baroni, e quando vuol parlare ad alcuno lo fa entrare in quella. Dopo la detta sala è una camera grande, molto bella, nella qual dorme. Sonvi molte altre tende e camere, ma non sono insieme congiunte con le grandi. E tutte le sopradette camere e sale sono ordinate in questo modo, che ciascuna ha tre colonne di legno intagliate con grandissimo artificio e indorate. E detti padiglioni e tende di fuori sono coperte di pelli di leoni, e vergate di verghe bianche, nere e rosse, e cosí ben ordinate che né vento né pioggia li può nuocere; e dalla parte di dentro sono fodrate e coperte di pelli armelline e zibelline, che sono le pelli di maggior valuta di qualunque altra pelle, perchè la pelle zibellina, s'ella è tanta che sia a bastanza per un paro di veste, vale duemila bisanti d'oro s'ella è perfetta, ma s'ella è commune ne vale mille; e li Tartari la chiamano regina delle pelli, e gli animali si chiamano rondes, della grandezza d'una fuina. E di queste due sorti di pelle le sale del signor sono cosí maestrevolmente ordinate, in varie divisioni, che è una cosa mirabile a vedere; e la camera dove dorme, che è congiunta alle due sale, è similmente dalla parte di fuori coperta di pelli di leoni, e di dentro di pelli zibelline e armelline divisate; e le corde che tengono le tende delle sale e camere sono tutte di seta. E atorno queste sono tutte l'altre tende delle mogli del signore, molto ricche e belle, le quali hanno girifalchi, falconi e altri uccelli e bestie, e vanno ancora loro a piacere.
E sappiate per certo che in questo campo è tanta moltitudine di gente che gli è cosa incredibile, e a ciascuno pare essere nella miglior città che sia in queste parti, perchè ivi sono genti di tutto il dominio, e con il signor vi è tutta la sua famiglia, cioè medici, astronomi, falconieri e tutti gli altri che hanno diversi officii. E sta in questo luogo fino alla prima vigilia della nostra Pasqua, nel qual spazio di tempo non cessa d'andare continuamente appresso alli laghi e riviere, uccellando e prendendo grue e cigni, argironi e molti altri uccelli; le sue genti ancora, che sono sparse per molti luoghi, li portano molte cacciagioni. In questo tempo adunque sta in tanto solazzo e allegrezza che niuno lo potria credere che non lo vedesse, però che la sua eccellenza e grandezza è molto maggiore di quello che a noi saria possibile d'esprimere.
Un'altra cosa è ancora ordinata, che niuno mercatante o artifice o villano abbia ardire di ritenere astore, falcone over altro uccello che sia atto ad uccellare, né cane da caccia, per tutto il dominio del gran Can; e niuno barone o cavalier od altro nobile qualsivoglia ardisce di cacciare o uccellare circa il luogo dove dimora il gran Can, d'alcuna parte per cinque giornate e d'alcuna parte per dieci e d'alcuna altra per quindeci, se 'l non è scritto sotto il capitano de' falconieri, overo abbia privilegio sopra queste cose, ma ben fuor de' confini determinati. Item per tutte le terre le quali signoreggia il gran Cane niuno re overo barone o altro uomo ardisce di pigliare lepori, caprioli, daini o cervi e simili bestie e uccelli grossi dal mese di marzo fino al mese d'ottobrio, acciò che creschino e moltiplichino: e chi contrafacesse verrebbe punito. E per questa causa moltiplicano gli animali e uccelli in grandissima quantità. E poi il gran Can se ne ritorna alla città di Cambalú, per quella medesima via che ei fu alla campagna, uccellando e cacciando.

Della moltitudine delle genti che di continuo vanno e vengono alla città di Cambalú,
e mercanzie di diverse sorti.
Cap. 17.

Giunto il gran Can nella città, tien la sua corte grande e ricca per tre giorni, e fa festa e grandissima allegrezza con tutta la sua gente ch'è stata seco; e la solennità ch'egli fa in questi tre giorni è cosa mirabile a vedere.
Ed evvi tanta moltitudine di gente e di case nella città e di fuori (perchè vi sono tanti borghi come porte, che sono dodici, molto grandi) che niuno potria comprendere il numero, però che sono piú genti ne' borghi che nella città. E in questi borghi stanno e alloggiano li mercanti, e altri uomini che vanno là per sue faccende, i quali sono molti, per causa della residenzia del signore: e dovunque egli tiene la sua corte, là vengono le genti da ogni banda, per diverse cagioni. E ne' borghi sono belle case e palagi come nella città, eccettuando il palagio del gran Can. E niuno che muore è sepelito nella città, ma s'egli è idolatro è portato al luogo dove si deve abbruciare, il qual è fuor di tutti i borghi; e parimente niun maleficio si fa nella città, ma solamente fuor de' borghi. Item niuna meretrice (salvo se non è secreta), come altre volte s'è detto, ha ardimento di star nella città, ma abitano tutte ne' borghi, e passano venticinquemila, che servono gli uomini per denari: nondimeno tutte sono necessarie, per la gran moltitudine de' mercanti e altri forestieri che là vanno e vengono di continuo per la corte. Item a questa città si portano le piú care cose e di maggior valuta che siano in tutt'il mondo, però che primamente dall'India si portano pietre preciose e perle e tutte le speciarie; item tutte le cose di valuta della provincia del Cataio e che sono in tutte l'altre provincie, e questo per la moltitudine della gente che quivi dimora di continuo per causa della corte: e quivi si vendono piú mercanzie che in alcun'altra città, perchè ogni giorno v'entrano piú di mille fra carrette e some di seta, e si lavorano panni d'oro e di seta in grandissima quantità. E intorno a questa città vi sono infinite castella e altre città, le genti delle quali vivono per la maggior parte, quando la corte è quivi, vendendo le cose necessarie alla città e comprando quelle che a loro fa di bisogno.

Della sorte della moneta di carta che fa fare il gran Can, qual corre per tutto il suo dominio.
Cap. 18.

In questa città di Cambalú è la zecca del gran Can, il quale veramente ha l'alchimia, però che fa fare la moneta in questo modo: egli fa pigliar i scorzi degli arbori mori, le foglie de' quali mangiano i vermicelli che producono la seta, e tolgono quelle scorze sottili che sono tra la scorza grossa e il fusto dell'arbore, e le tritano e pestano, e poi con colla le riducono in forma di carta bambagina, e tutte sono nere; e quando son fatte le fa tagliare in parti grandi e picciole, e sono forme di moneta quadra, e piú longhe che larghe. Ne fa adunque fare una picciola che vale un denaro d'un picciolo tornese, e l'altra d'un grosso d'argento veneziano; un'altra è di valuta di due grossi, un'altra di cinque, di dieci, e altra d'un bisante, altra di due, altra di tre, e cosí si procede sin al numero di dieci bisanti. E tutte queste carte overo monete sono fatte con tant'auttorità e solennità come s'elle fossero d'oro o d'argento puro, perchè in ciascuna moneta molti officiali che a questo sono deputati vi scrivono il loro nome, ponendovi ciascuno il suo segno; e quando del tutto è fatta com'ella dee essere, il capo di quelli per il signor deputato imbratta di cinaprio la bolla concessagli e l'impronta sopra la moneta, sí che la forma della bolla tinta nel cinaprio vi rimane impressa: e allora quella moneta è auttentica, e s'alcuno la falsificasse sarebbe punito dell'ultimo supplicio. E di queste carte overo monete ne fa far gran quantità, e le fa spendere per tutte le provincie e regni suoi, né alcuno le può rifiutare, sotto pena della vita; e tutti quegli che sono sottoposti al suo imperio le tolgono molto volentieri in pagamento, perchè dovunque vanno con quelle fanno i loro pagamenti di qualunque mercanzia di perle, pietre preciose, oro e argento, e tutte queste cose possono trovare col pagamento di quelle. E piú volte l'anno vengono insieme molti mercanti con perle e pietre preciose, con oro e argento e con panni d'oro e di seta, e il tutto presentano al gran signore, qual fa chiamare dodici savii, eletti sopra di queste cose e molto discreti ad esercitar quest'officio, e li comanda che debbano tansar molto diligentemente le cose che hanno portato li mercanti, e per la valuta le debbano far pagare. Essi, stimate che l'hanno secondo la lor conscienzia, immediate con vantaggio le fanno pagare con quelle carte, e li mercanti le tolgono volentieri, perchè con quelle (come s'è detto) fanno ciascun pagamento; e se sono di qualche regione ove queste carte non si spendono, l'investono in altre mercanzie buone per le lor terre. E ogni volta ch'alcuno averà di queste carte che si guastino per la troppa vecchiezza, le portano alla zecca, e gliene son date altretante nuove, perdendo solamente tre per cento. Item, s'alcuno vuol avere oro o argento per far vasi o cinture o altri lavori, va alla zecca del signore, e in pagamento dell'oro e dell'argento li porta queste carte; e tutti li suoi eserciti vengono pagati con questa sorte di moneta, della qual loro si vagliono come s'ella fosse d'oro o d'argento: e per questa causa si può certamente affermare che il gran Can ha piú tesoro ch'alcun altro signor del mondo.

De' dodici baroni deputati sopra gli eserciti, e di dodici altri deputati
sopra la provisione de l'altre universali facende.
Cap. 19.

Il gran Can elegge dodici grandi e potenti baroni (come di sopra s'è detto) sopra qualunque deliberazione che si fa degli eserciti, cioè di mutarli dal luogo dove sono e mutare i capitani, overo mandargli dove veggono esser necessario, e di quella quantità di gente che 'l bisogno ricerca, e piú e manco, secondo l'importanza della guerra. Oltre di ciò, hanno a far la scelta de' valenti e franchi combattenti da quelli che sono vili e abietti, esaltandoli a maggior grado, e per il contrario deprimendo quelli che sono da poco e paurosi. E s'alcuno è capitano di mille, e abbisi portato vilmente in qualche fazione, i baroni predetti, reputandolo indegno di quella capitaneria, lo disgradano e abbassano al capitaneato di cento; ma se nobilmente e francamente si sarà portato, riputandolo sofficiente e degno di maggior grado, lo fanno capitano di diecimila: ogni cosa però facendo con saputa del gran signore, però che, quando vogliono deprimere e abbassare alcuno, dicono al signore: "Il tale è indegno di tal onore", ed egli allora risponde: "Sia depresso e fatto di grado inferiore", e cosí è fatto. Ma se vogliono esaltare alcuno, cosí ricercando i meriti suoi, dicono: "Il tal capitano di mille è degno e sofficiente d'esser capitano di diecimila", e il signor lo conferma, e dàlli la tavola del comandamento a tal signoria convenevole, come di sopra s'è detto, e appresso gli fa dare grandissimi presenti, per inanimire gli altri a farsi valenti.
La signoria adunque de' detti dodici baroni si chiama thai, che tanto è a dire come corte maggiore, perchè non hanno signor alcun sopra di sé salvo che 'l gran Can; e oltre i sopradetti son constituiti dodici altri baroni sopra tutte le cose che sono necessarie a trentaquattro provincie, quali hanno nella città di Cambalú un bel palagio e grande, con molte camere e sale. E ciascuna provincia ha un giudice e molti notari, che stanziano in detto palagio separatamente, e quivi fanno ogni cosa necessaria alla sua provincia, secondo la volontà e comandamento de' detti dodici baroni. Questi hanno auttorità d'eleggere signori e rettori di tutte le provincie di sopra nominate, e quando hanno eletto quelli che li paiono sofficienti lo fanno sapere al gran Can, ed egli li conferma e dàlli le tavole d'argento o d'oro, secondo che li pare a ciascuno esser conveniente. Hanno ancora questi a provedere sopra le esazioni de' tributi e intrate, e circa il governo e dispensazione di quelle, e sopra tutte l'altre faccende del gran Can, eccetto che sopra gli eserciti. E l'officio overo signoria loro chiamasi singh, che vuol dire quanto seconda maggior corte, perchè similmente non hanno sopra di loro signore, eccetto che 'l gran Can. L'una e l'altra adunque delle dette corti, cioè di singh e di thai, non hanno alcun signore sopra di loro, eccetto che 'l gran Can; nondimeno thai, cioè la corte deputata alla disposizione degli eserciti, è riputata piú nobile e piú degna di qualunque altra signoria.

De' luoghi deputati sopra tutte le strade maestre, dove tengono cavalli per correre le poste, e de' corrieri che vanno a piedi, e del modo ch'ei tiene a mantenere tutta la spesa delle dette poste.
Cap. 20.

Uscendo della città di Cambalú, vi sono molte strade e vie per le quali si va a diverse provincie, e in ciascuna strada, dico di quelle che sono le piú principali e maestre, sempre, in capo di venticinque miglia o trenta, e piú e manco secondo le distanzie delle città, si truovano alloggiamenti che nella lor lingua si chiamano lamb, che nella nostra vuol dire poste di cavalli, dove sono palagi grandi e belli, che hanno bellissime camere con letti forniti e paramenti di seta e tutte le cose condecenti a' gran baroni. E in ciascuna di simil poste potrebbe un gran re onoratamente alloggiare, e gli vien provisto del tutto per le città o castelli vicini, e ad alcuni la corte vi provede. Quivi sono di continuo apparecchiati quattrocento buoni cavalli, e acciochè tutti li nunzii e ambasciatori che vanno per le faccende del gran Can possino dismontare quivi e, lasciati i cavalli stracchi, pigliarne di freschi.
Ne' luoghi veramente fuor di strada e montuosi, dove non sono villaggi e che le città siano lontane, il gran Can ha ordinato che vi siano fatte le poste, overo palagi similmente forniti di tutti gli apparecchi, cioè di cavalli quattrocento per posta e di tutte l'altre cose necessarie come le sopradette, e vi manda genti che v'abitano e lavorino le terre e servino a esse poste. E vi si fanno di gran villaggi, e cosí gli ambasciatori e nuncii del gran Can vanno e vengono per tutte le provincie e regni e altre parti sottoposte al suo dominio con gran commodità e facilità: e questa è la maggior eccellenza e altezza che già mai avesse alcun imperatore o re over altro uomo terreno, perchè piú di dugentomila cavalli stanno in queste poste per le sue provincie, e piú di diecimila palagi forniti di cosí ricchi apparecchi. E questo è sí mirabil cosa e di tanta valuta che a pena si potrebbe dire o scrivere. E s'alcuno dubitasse come siano tante genti a far tante facende e onde vivono, si risponde che tutti gl'idolatri e similmente saraceni tolgono ciascuno sei, otto o dieci mogli, pur che gli possino far le spese, e generano infiniti figliuoli: e saranno molti uomini, de' quali ciascuno averà piú di trenta figliuoli, e tutti armati lo seguitano, e questo per causa delle molte mogli. Ma appresso di noi non s'ha se non una moglie, e se quella sarà sterile l'uomo finirà la sua vita con lei, né genera alcun figliuolo: e però non abbiamo tante genti come loro. E circa le vettovaglie, n'hanno a bastanza, perchè usano per la maggior parte risi, panizzo e miglio, spezialmente Tartari, Cataini e della provincia di Mangi, e queste tre semenze, nelle loro terre, per ciascun staro ne rendono cento. Non usano pane queste genti, ma solamente cuocono queste tre sorti di biade col latte, overo carni, e mangiano quelle; e il frumento appresso di loro non moltiplica cosí, ma quello che ricogliono mangiano solamente in lasagne e altre vivande di pasta. Appresso di loro non vi resta terra vacua che si possa lavorare, e i lor animali senza fine crescono e moltiplicano, e quando vanno in campo non è alcuno che non meni seco sei, otto e piú cavalli per la persona sua, onde si può chiaramente comprendere per che causa in quelle parti sia cosí gran moltitudine di genti, e che abbino da vivere cosí abbondantemente.
Item fra il spazio di ciascuna delle sopradette poste è ordinato un casale ogni tre miglia, nel qual possono essere circa quaranta case, e piú e manco secondo che i casali sono grandi, dove stanno corrieri a piedi, i quali similmente sono nunzii del gran Can. Costoro portano intorno cinture piene di sonagli, acciochè siano uditi dalla lunga, perchè corrono solamente tre miglia, cioè dalla sua posta ad un'altra; odendosi il strepito de' sonagli, subitamente s'apparecchia un altro, e giunto piglia le lettere e corre fino all'altra posta, e cosí di luogo in luogo, di sorte che il gran Can in due giorni e due notti ha nuove di lontano per dieci giornate. E al tempo de' frutti spesse volte la mattina si raccolgono frutti nella città di Cambalú, e il giorno seguente verso sera sono portati al gran Can nella città di Xandú, la qual è discosto per dieci giornate. In ciascuna di queste poste di tre miglia è deputato notaio, che nota il giorno e l'ora che giugne il corriero, e similmente il giorno e l'ora che si parte l'altro, e cosí si fa in tutte le poste. E vi sono alcuni ch'hanno questo carico, d'andare ogni mese ad esaminar tutte queste poste, e veder quei corrieri che non hanno usato diligenza, e li castigano. E il gran Can da questi tali corrieri e da quelli che stanno nelle poste non fa pagare alcuno tributo, anzi li dona buona provisione, e ne' cavalli che si tengono in dette poste non fa quasi alcuna spesa, perchè le città, castelli e ville che sono circonstanti ad esse poste li pongono e mantengono in quelle, però che, di comandamento del signore, i rettori della città fanno cercare ed esaminar per li pratichi delle città quanti cavalli possa tenere la città nella posta a sé propinqua, e quanti ve ne possono tenere i castelli e quanti le ville, e secondo il loro potere ve li pongono. E sono le città concordevoli l'una con l'altra, perchè fra una posta e l'altra v'è alle volte una città, la qual con l'altre vi pone la sua porzione; e queste città mantengono i cavalli dell'entrate che doverebbono pervenire al gran Can, imperochè tal uomo doverebbe pagare tanto che potria tenere un cavallo e mezo, comandandosegli che quello tenga nella posta a sé propinqua. Ma dovete sapere che le città non mantengono di continuo quattrocento cavalli nelle poste, anzi ne tengono dugento al mese che sostenghino le fatiche, e in questo mezo altri dugento n'ingrassano, e in capo del mese gl'ingrassati si pongono nella posta e gli altri similmente s'ingrassano, e cosí vanno facendo di continuo. Ma se gli accade che in alcun luogo sia qualche fiume o lago, per il qual bisogni che i corrieri e quelli a cavallo vi passino, le città propinque tengono tre e quattro navilii apparecchiati di continuo a questo effetto, e se bisogna passar alcun deserto di molte giornate, nel qual far non si possa abitazione alcuna, la città ch'è appresso tal deserto è tenuta a dar li cavalli agli ambasciatori del signore fino oltre il deserto, e le vettovaglie con le scorte, ma il signor dà aiuto a quella città. E nelle poste che son fuor di strada il signor tiene in parte suoi cavalli, e in parte ve gli tengono le città, castella, ville lí propinque. Ma quando è di bisogno che i nunzii del signore affrettino il cammino, per causa di fargli intendere di qualche terra che se gli sia ribellata, o per alcun barone o altre cose necessarie, cavalcano in un giorno ben dugento miglia o dugentocinquanta, e fanno cosí, quando vogliono andare con grandissima celerità: portano la tavola del girifalco, in segno che vogliono andar velocissimamente; se sono due, e che si partono d'un medesimo luogo, quando sono sopra due buoni cavalli corsieri si cingono tutt'il ventre e si rivolgono il capo, e si mettono a correr quanto piú possono, e come sono appresso gli alloggiamenti suonano una sorte di corno che si sente di lontano, acciò che preparino i cavalli, quali trovati freschi e riposati, saltano sopra quelli: e cosí fanno di posta in posta sino a sera, e in tal guisa potranno far in un giorno da dugentocinquanta miglia. E s'egli è caso molto grave cavalcano la notte, e se non luce la luna quelli della posta gli vanno correndo avanti con lumiere sino all'altra posta; nondimeno i detti nunzii al tempo di notte non vanno con tanta celerità come di giorno, per rispetto di quelli che corrono a piedi con le lumiere, che non possono essere cosí presti. E molto s'apprezzano tal nunzii che possono sostenere una simil fatica di correre.

Delle provisioni che fa il gran Can in tutte le sue provincie
in tempo di carestia o mortalità d'animali.
Cap. 21.

Il gran Can manda sempre ogn'anno suoi nunzii e proveditori per vedere se le sue genti hanno danno delle loro biade per difetto di tempo, cioè per cagione di tempesta o di molte pioggie e venti, o per cavallette, vermi o altre pestilenzie. E se in luogo alcuno vi troveranno esser tal danno, il signore non fa scuoter da quelle genti il solito tributo quell'anno, anzi le fa dare tanta biada de' suoi granari quanto lor bisogna per mangiare e per seminare, conciosiacosachè, ne' tempi della grand'abbondanza, il gran Can fa comprare grandissima quantità di biade della sorte che loro adoperano, e le fa salvare ne' granari che sono deputati in ciascuna provincia, e con gran diligenzia le fa governare, che per tre e quattro anni non si guastano. E sempre vuole che li detti granari siano pieni, per provedere ne' tempi di carestia; e quando in detti tempi egli fa vendere le sue biade a denari, riceve di quattro misure da quelli che le comprano quanto se ne riceve d'una misura dagli altri che ne vendono. Similmente fa proveder di bestie, che in qualche provincia per mortalità fossero perse, e gli fa dare delle sue, ch'egli ha per decima dell'altre provincie. E tutto il suo pensiero e intento principale è di giovar alle genti che sono sotto di lui, che possono vivere, lavorare e moltiplicare i loro beni.
Ma vogliamo dire un'altra proprietà del gran Can, che se per caso fortuito la saetta ferisse alcun greggie di pecore o montoni o altri animali di qualunque sorte, che fosse d'una o piú persone, e sia il gregge quanto si voglia grande, il gran Can non torrebbe per tre anni la decima. E parimente, s'avviene che la saetta ferisca qualche nave piena di mercanzie, lui non vuole alcuna rendita o porzione da quella, perchè reputa cattivo augurio quando la saetta percuote ne' beni d'alcuno; e dice il gran Can: "Dio aveva in odio colui, però l'ha percosso di saetta", onde non vuole che tali beni da ira divina percossi entrino nel suo tesoro.

Come il gran Can fa piantare arbori appresso le strade maestre e principali,
e come le fa tenere sempre acconcie.
Cap. 22.

Un'altra cosa bella e commoda fa fare il gran Can, che appresso le strade maestre dall'uno e l'altro lato fa piantar arbori, quali siano della sorte che venghino grandi e alti, e discosti l'un dall'altro per due passa, acciochè i viandanti possino discernere la dritta strada: il che è di grande aiuto e consolazione a quelli che camminano. Fa piantare adunque sopra tutte le principali, pur che 'l luogo sia abile ad essere piantato; ma ne' luoghi arenosi e deserti e ne' monti sassosi, dove passano dette strade e non è possibile di piantarvegli, fa mettere altri segnali di pietre e colonne che dimostrano la strada. E ha alcuni baroni, ch'hanno il carico d'ordinare che di continuo siano tenute acconcie. E oltre quanto di sopra s'è detto degli arbori, il gran Can piú volentieri gli fa piantare perchè i suoi divinatori e astrologhi dicono che chi fa piantar arbori vive longo tempo.

Della sorte di vino che si fa nella provincia del Cataio,
e delle pietre che abbruciano a modo di carboni.
Cap. 23.

La maggior parte della gente della provincia del Cataio beve questa sorte di vino: fanno una bevanda di riso e di molte speciarie mescolate insieme, e bevono questa bevanda overo vino cosí bene e saporitamente che miglior non saperiano desiderare, ed è chiaro e splendido e gustevole, e piú presto inebria d'ogn'altro, per essere calidissimo.
Per tutta la provincia del Cataio si truova una sorte di pietre nere, le quali si cavano da' monti a modo di vena, ch'ardono e abbruciano come carboni, e tengon il fuoco molto meglio delle legne, e lo conservano tutta la notte, di sorte ch'ei si truova la mattina acceso. Queste pietre non fanno fiamma, se non un poco in principio quando s'accendono, come fanno i carboni, e stando cosí affocati rendono gran calore. Per tutta la provincia s'abbruciano queste pietre. Vero è ch'hanno molte legne, ma tanta è la moltitudine delle genti, e stuffe e bagni che continuamente si scaldano, che le legne non potrebbono esser a bastanza, perchè non è alcuno che almanco per tre volte la settimana non vada alla stuffa e facciasi bagni, e l'inverno ogni giorno, pur che far lo possino; e ciascuno nobile o ricco ha la sua stuffa in casa nella qual si lava, talmente che le legne non basterebbono a tanto abbruciamento. E di queste pietre si trovano in grandissima quantità, e costano poco.

Della grande e mirabile liberalità che 'l gran Can usa verso i poveri di Cambalú
e altre genti che vengono alla sua corte.
Cap. 24.

Poi ch'abbiamo detto come il gran Can fa far abbondanza delle biade alle genti a lui sottoposte, ora diremo della gran carità e provisione ch'egli fa fare alle povere genti che sono nella città di Cambalú. Com'egli intende che qualche famiglia di persone onorate e da bene per qualche infortunio siano diventate povere, o per qualche infermità non possino lavorare e non abbino modo di ricogliere sorte alcuna di biade, a queste tal famiglie ne fa dar tante che gli possino far le spese per tutto l'anno; e dette famiglie al tempo solito vanno agli officiali che sono deputati sopra tutte le spese che si fanno per il gran Can, i quali dimorano in un palagio a tal officio deputato, e ciascuna mostra un scritto di quanto gli fu dato per il vivere dell'anno passato, e secondo quello gli proveggono quell'anno. Provedesi ancora del vestir loro, conciosiacosachè il gran Can ha la decima di tutte le lane e sete e canave delle quali si possono far vesti, e queste tal cose le fa tessere e far panni, in una casa a questo deputata dove sono riposte; e perchè tutte l'arti sono obligate per debito di lavorargli un giorno la settimana, il gran Can fa far delle vesti di questi panni, quali fa dar alle sopradette famiglie di poveri, secondo si richiede al tempo dell'inverno e al tempo della state. Provede ancora di vestimenta a' suoi eserciti, e in ciascuna città fa tessere panni di lana, quali si pagano della decima di quella.
Ed è da sapere come i Tartari, secondo i loro primi costumi, avanti che conoscessino la legge idolatra, non facevan alcuna elemosina, anzi, quando alcun povero andava da loro, lo scacciavano con villanie, dicendoli: "Va' col malanno che Dio ti dia, perchè s'ei t'amasse come ama me t'averia fatto del bene". Ma perchè li savii degl'idolatri, e specialmente i sopradetti bachsi, proposero al gran Can che gli era buona opera la provisione de' poveri, e che gli suoi idoli se ne rallegrarebbono grandemente, egli per tanto cosí providde a' poveri come di sopra è detto, e nella sua corte mai è negato il pane a chi lo viene a domandare, e non è giorno che non siano dispensate e date via ventimila scodelle fra risi, miglio e panizzo per li deputati officiali. Per questa mirabile e stupenda liberalità che 'l gran Can usa verso i poveri, tutte le genti l'adorano com'un dio.

Degli astrologhi che sono nella città di Cambalú.
Cap. 25.

Sono adunque nella città di Cambalú, tra cristiani, saraceni e cataini, circa cinquemila astrologhi e divinatori, alli quali il gran Can ogn'anno fa provedere del vivere e del vestire com'alli poveri sopradetti, i quali continuamente esercitano la lor arte nella città. Hanno costoro un astrolabio, nel quale son scritti i segni de' pianeti, l'ore e i punti di tutto l'anno. Ogn'anno adunque i sopradetti cristiani, saraceni e cataini astrologhi, cioè ciascuna setta da per sé, in questo astrolabio veggono il corso e la disposizione di tutto l'anno, secondo il corso di ciascuna luna, perchè veggono e trovano che temperanza debbe esser dell'aere, secondo il natural corso e disposizione de' pianeti e segni, e le proprietà che produrrà ciascuna luna di quell'anno: cioè in tal luna saranno tuoni e tempesta, e nella tal terremoti, e nella tal saette e baleni e molte pioggie, nella tal saranno infermità, mortalità, guerre, discordie e insidie, e cosí di ciascuna luna, secondo che troveranno, diranno dover seguitare, aggiungendovi ch'Iddio può far piú e manco, secondo la sua volontà. Scriveranno adunque sopra alcuni quaderni piccioli quelle cose ch'hanno da venire in quell'anno, e questi quaderni si chiamano tacuini, quali vendono un grosso l'uno a chi gli vuole comprare per sapere le cose future; e quelli che sono trovati aver detto piú il vero sono tenuti maestri piú perfetti nell'arte, e conseguiscono maggior onore.
Item, s'alcuno preporrà nell'animo di voler far qualche grand'opera, o d'andar in qualche parte lontana per mercanzie o qualch'altra sua facenda, e vorrà sapere il fine del negocio, andrà a trovare uno di questi astrologhi e li dirà: "Guardate sopra li vostri libri in che modo or ora si ritruova il cielo, perch'io vorrei andare a far il tal negocio o mercanzia". Allora l'astrologo li dirà che oltre questa domanda li debba dire l'anno, il mese e l'ora che nacque, il che dettoli vorrà vedere come si confanno le constellazioni della sua natività con quelle che nell'ora della domanda si ritruova il cielo, e cosí li predice o bene o male che gli ha da venire, secondo la disposizione in che si troverà il cielo.
Ed è da sapere che li Tartari numerano il millesimo de' loro anni di dodici in dodici, e il primo anno è significato per il Leone, il secondo per il Bue, il terzo per il Dragone, il quarto per il Cane, e cosí discorrendo degli altri, procedendo sino al numero di dodici, di modo che, quando alcuno è domandato quando nacque, egli risponde: correndo l'anno del Leone, in tal giorno overo notte, e l'ora e il punto; e questo osservano li padri di far con diligenza sopra un libro. E compiuti che s'hanno i dodici segni, che vuol dire i dodici anni, allora, ritornando al primo segno, ricominciano sempre per questo ordine procedendo.

Della religione de' Tartari, e delle opinioni ch'hanno dell'anima, e usanze loro.
Cap. 26.

E com'abbiamo detto disopra, questi popoli sono idolatri, e per suoi dei tutti hanno una tavola posta alta nel pariete della sua camera, sopra la qual è scritto un nome che rappresenta Dio alto, celeste e sublime: e quivi ogni giorno col turibulo dell'incenso l'adorano in questo modo, che, levate le mani in alto, sbattono tre volte i denti, pregandolo che li dia buon intelletto e sanità, e altro non li domandano. Dopo, giuso in terra, hanno una statua che si chiama Natigai, qual è dio delle cose terrene che nascono sopra tutta la terra, e li fanno una moglie e figliuoli, e l'adorano nell'istesso modo, col turibulo e sbattendo i denti e alzando le mani, e a questo li domandano temperie dell'aere e frutti della terra, figliuoli e simil cose. Dell'anima la tengono immortale, in questo modo, che, subito morto l'uomo, l'entri in un altro corpo, e secondo che in vita s'ha portato bene o male, di bene in meglio e di male in peggio procedano: cioè, se sarà pover'uomo e s'abbi portato bene e modestamente in vita, rinascerà dopo morto del ventre d'una gentildonna e sarà gentiluomo, e poi del ventre d'una signora e sarà signore, e cosí sempre ascendendo, finchè sarà assunto in Dio; ma se s'averà portato male, essendo figliuol d'un gentiluomo rinascerà figliuol d'un rustico, e d'un rustico in un cane, descendendo sempre a vita piú vile.
Hanno costoro un parlar ornato, salutano onestamente col volto allegro e giocondo, portansi nobilmente e con gran mundizia mangiano. Al padre e alla madre portano gran riverenza, e se si trova ch'alcun figliuolo faccia qualche dispiacere a quelli, overo non li sovegna nelle loro necessità, v'è un officio publico che non ha altro carico se non di punir severamente li figliuoli ingrati, quali si sappino aver commesso alcun atto d'ingratitudine verso di quelli. Li malfattori di diversi delitti che venghino presi e posti in prigione, se non sono spacciati, come viene il tempo determinato del gran Can, ch'è ogni tre anni, di rilasciar i prigioneri, allora escono, ma gli viene fatto un segno sopra una mascella, acciochè siano conosciuti. Vietò questo presente gran Can tutti i giuochi e barattarie, che appresso di costoro s'usavano piú che in alcun luogo del mondo, e per levarli da quelli li diceva: "Io v'ho acquistati con l'armi in mano, e tutto quello che possedete è mio, e se giocate voi giocate del mio". Non però per questo li toglieva cosa alcuna.
Non voglio restar di dir l'ordine e modo come si portano le genti e baroni del gran Can quando vanno a lui. Primamente, appresso il luogo dove sarà il gran Can, per mezo miglio per riverenza di sua eccellenza stanno le genti umili, pacifiche e quiete, ch'alcun suono o rumore né voce d'alcuno che gridi o parli altamente non s'ode; e ciascun barone o nobile porta continuamente un vasetto picciolo e bello, nel qual sputa mentre ch'egli è in sala, perchè niuno avrebbe ardire di sputar sopra la sala, e come ha sputato lo cuopre e salva. Hanno similmente alcuni belli bolzachini di cuoro bianco quali portano seco, e giunti alla corte, se vorranno entrar in sala, che 'l signor li domandi, si calzano questi bolzachini bianchi e danno gli altri alli servitori, e questo per non imbrattar li belli e artificiosi tapeti di seta e d'oro e d'altri colori.

Del fiume Pulisangan e ponte sopra quello.
Cap. 27.

Poi che s'è compiuto di dir li governi e amministrazioni della provincia del Cataio e della città di Cambalú, e della magnificenza del gran Can, si dirà dell'altre regioni nelle qual messer Marco andò per l'occorrenzie dell'imperio del gran Can.
Come si parte dalla città di Cambalú e che s'ha camminato dieci miglia, si truova un fiume nominato Pulisangan, il qual entra nel mare Oceano, per il qual passano molte navi con grandissime mercanzie. Sopra detto fiume è un ponte di pietra molto bello, e forse in tutt'il mondo non ve n'è un altro simile. La sua longhezza è trecento passa e la larghezza otto, di modo che per quello potriano commodamente cavalcare dieci uomini l'uno a lato all'altro. Ha ventiquattro archi e venticinque pile in acqua che li sostengono, ed è tutto di pietra serpentina, fatto con grand'artificio. Dall'una all'altra banda del ponte è un bel poggio di tavole di marmo e di colonne maestrevolmente ordinate, e nell'ascendere è alquanto piú largo che nella fine dell'ascesa, ma, poi che s'è asceso, si truova uguale per longo come se fosse tirato per linea. E in capo dell'ascesa del ponte è una grandissima colonna e alta, posta sopra una testuggine di marmo; appresso il piede della colonna è un gran leone, e sopra la colonna ve n'è un altro. Verso l'ascesa del ponte è un'altra colonna molto bella, con un leone, discosta dalla prima per un passo e mezo; e dall'una colonna all'altra è serrato di tavole di marmo, tutte lavorate a diverse scolture e incastrate nelle collonne da lí per longo del ponte infino al fine. Ciascune colonne sono distanti l'una dall'altra per un passo e mezo, e a ciascuna è sopraposto un leone, con tavole di marmo incastratevi dall'una all'altra, acciochè non possino cadere coloro che passano: il che è bellissima cosa da vedere. E nella discesa del ponte è come nell'ascesa.

Delle condizioni della città di Gonza.
Cap. 28.

Partendosi da questo ponte e andando per trenta miglia alla banda di ponente, trovando di continuo palagi, vigne e campi fertilissimi, si truova una città nominata Gonza, molto bella e molto grande, nella quale sono molte abbazie d'idoli, le cui genti vivono di mercanzie e arti. Quivi si lavorano panni d'oro e di seta e belli veli sottilissimi, e vi sono molti alloggiamenti per i viandanti.
Partendosi da questa città e andando per un miglio si truovano due vie, una delle quali va verso ponente, l'altra verso scirocco: per la via di ponente si va per la provincia del Cataio, per la via di scirocco alla provincia di Mangi. E sappiate che dalla città di Gonza fino al regno di Tainfu si cavalca per la provincia del Cataio dieci giornate, sempre trovando molte belle città e castella, fornite di grand'arti e mercanzie, e trovando vigne e campi lavorati: e di qui si porta il vino nella provincia del Cataio, perchè in quella non ve ne nasce; vi sono anche molti alberi mori, che con la foglia sua gli abitanti fanno di gran seta. Tutte quelle genti sono domestiche, per la moltitudine delle città poco discoste l'una dall'altra e frequentazione che fanno gli abitanti di quelle, perchè sempre vi si truovano genti che passano, per le molte mercanzie che si portano continuamente d'una città all'altra; e in ciascuna di quelle si fanno le fiere. E in capo di cinque giornate delle predette dieci, dicono esservi una città piú bella e maggior dell'altre chiamata Achbaluch, fino alla quale verso quella parte confina il termine della cacciagione del signore, dove niun ardisce d'andar alla caccia, eccettuando il signore con la sua famiglia e chi è scritto sotto il capitano de' falconieri; ma da quel termine innanzi può andarvi, pur che sia nobile. Nondimeno quasi mai il gran Can andava alla caccia per quella banda, per la qual cosa gli animali salvatichi erano tanto cresciuti e moltiplicati, e specialmente le lepori, che guastavano le biade di tutta la detta provincia; la qual cosa fatta intendere al gran Can, v'andò con tutta la corte, e furono presi animali senza numero.

Del regno di Tainfu.
Cap. 29.

Poi che s'è cavalcato dieci giornate partendosi da Gonza, si truova un regno nominato Tainfu, ed è capo di questa provincia, con una città che ha il medesimo nome, la qual è grandissima e molto bella. E quivi si fanno gran mercanzie e molte arti, e gran quantità di munizioni d'armi, che sono molto a proposito per gli eserciti del gran Can. Vi sono ancora molte vigne, dalle quali si raccoglie vino in grand'abbondanza; e benchè in tutta Tainfu non si truovi altro vino di quello che nasce nel distretto di questa città, nondimeno s'ha vino a bastanza per tutta la provincia. Quivi hanno ancora frutti in abbondanza, perchè hanno molti morari e vermicelli che producono la seta.

Della città di Pianfu.
Cap. 30.

Partendosi da Tainfu si cavalca sette giornate per ponente, trovando belle contrade, nelle quali si truovano molte città e castella, dove si fanno gran mercanzie e arti. Vi sono molti mercanti che vanno per diverse parti, facendo i loro guadagni e profitti. Fatto il camino di sette giornate si truova una città chiamata Pianfu, la qual è molto grande e molto pregiata, e sono in quella molti mercanti, e vivono di mercanzie e d'arti. Quivi nasce la seta in grandissima quantità.
Or lasciaremo di questa, e diremo d'un'altra grandissima città, nominata Cacianfu; ma prima diremo d'un nobile castello chiamato Thaigin.

Di Taigin castello.
Cap. 31.

Partendosi da Pianfu, andando verso ponente, si truova un grande e bel castello nominato Thaigin, qual dicesi aver edificato anticamente un re chiamato Dor. In questo castello è un bellissimo e spazioso palagio, nel quale è una sala grande dove sono dipinti tutti i re famosi che furono anticamente in quelle parti, il che è bellissima cosa da vedere. E di questo re nominato Dor diremo una cosa nuova che gl'intravenne. Era costui potente e gran signore, e mentre stava nella terra non erano al servizio della persona sua altri che bellissime giovanette, delle quali teneva in corte gran moltitudine. Quando egli andava a spasso per il castello sopra una carretta, le donzelle la menavano (e conducevasi leggiermente, per esser picciola), e facevano tutte le cose ch'erano a commodo e in piacere del detto re. E dimostrava egli la potenzia sua nel suo governo, e si portava molto nobilmente e giustamente.
Era quel castello fortissimo oltre modo, e come referiscono le genti di quelle contrade, questo re Dor era sottoposto ad Uncan, ch'è quel che di sopra abbiam detto chiamarsi Prete Gianni, e per la sua arroganza e alterezza si ribellò a quello. La qual cosa intesa da Umcan, non potendo andarli contra né offenderlo, per esser in luogo fortissimo, si doleva grandemente. Dopo certo tempo sette cavallieri suoi vassalli l'andarono a trovar, dicendoli che li bastava l'animo di condurli vivo il re Dor; qual li promise grandissime ricchezze. Costoro partiti andorno a trovar il re Dor, fingendo di venir di lontani paesi, e alli servizii suoi s'acconciarono, dove cosí bene e diligentemente lo servivano che 'l re Dor gli amava e avea carissimi, e voleva sempre che quando egli andava alla caccia li fossero appresso. Questi cavallieri un giorno, essendo fuori il re e avendo passato un fiume, e lasciato il resto della compagnia dall'altra banda, vedendosi soli in luogo opportuno a fare il suo disegno, cavate fuori le spade furono intorno al re Dor e per forza lo condussero alla volta di Umcan, ch'alcun de' suoi non lo poté mai aiutare. Dove giunto, per ordine di quello, vestito di panni vili, fu posto al governo dell'armento del signore, per volerlo dispregiare e abbassare; e quivi stette in gran miseria per due anni, con grandissima guardia, ch'egli non poteva fuggire. Alla fine Umcan lo fece condurre alla sua presenza, tutto pieno di paura e timore, pensando che lo volesse far morire; ma Umcan, fattagli un'aspra e terribile ammonizione che mai piú per superbia e arroganza non volesse levarsi dall'obedienza sua, li perdonò e fece vestirlo di vestimenti regali, e con onorevole compagnia lo mandò al suo regno; qual d'indi innanzi fu sempre obediente e amico ad Umcan. E questo è quanto mi fu referito di questo re Dor.

D'un grandissimo e nobil fiume detto Caramoran.
Cap. 32.

Partendosi da questo castello di Thaigin e andando circa venti miglia, si truova un fiume detto Caramoran, qual è cosí grande, largo e profondo che sopra di quello non si può fermar alcun ponte; e scorre questo fiume fino al mare Oceano, come di sotto si dirà. Appresso a questo fiume sono molte città e castella, ne' quali sono molti mercanti e vi si fanno molte mercanzie; e intorno a questo fiume per la contrada nasce zenzero e seta in gran quantità, e v'è tanta moltitudine d'uccelli ch'egli è cosa incredibile, e massime di fagiani, che se n'ha tre per un grosso veneziano. Per luoghi circonstanti di questo fiume nasce infinita quantità di canne grosse, alcune delle quali sono d'un piè, altri d'un piè e mezo, e gli abitatori se ne vagliono in molte cose necessarie.

Della città di Cacianfu.
Cap. 33.

Poi che s'è passato questo fiume e fatto il cammino di due giornate, si truova la città di Cacianfu, le cui genti adorano gli idoli. In questa città si fanno gran mercanzie e molte arti, e quivi nascono in grand'abondanza, tra l'altre cose, seta, zenzero, galanga e spigo e molte altre sorti di speciarie, delle quali niuna quantità si conduce in queste nostre parti. Quivi si fanno panni d'oro e di seta e d'ogn'altra maniera.
Or, partendosi di qui, diremo della nobile e celebre città di Quenzanfu, il regno della quale similmente è chiamato con detto nome.

Della città di Quenzanfu.
Cap. 34.

Partendosi da Cacianfu, si cavalca sette giornate per ponente, truovando continuamente molte città e castella dove s'esercitano gran mercanzie; e trovansi molti giardini e campi, e tutta la contrata è piena di morari, cioè d'arbori co' quali si fa la seta. E quelle genti adorano gl'idoli, e quivi sono cristiani, turchi, nestorini, e vi sono alcuni saraceni. Quivi eziandio son molte cacciagioni di bestie salvatiche, e si pigliano molte sorti d'uccelli. E cavalcando sett'altre giornate si truova una grande e nobil città chiamata Quenzanfu, che anticamente fu un gran regno nobile e potente; in quello furono molti re generosi e valenti, e vi regna al presente un figliuolo del gran Can nominato Mangalú, qual esso gran Can coronò di questo reame. Ed è questa patria certamente di gran mercanzie e molte arti: ivi nasce la seta in gran quantità, e vi si lavorano panni d'oro e di seta e d'ogni sorte, e di tutte le cose che s'appartengono a fornir un esercito; item hanno grande abondanza di tutte le cose necessarie al corpo umano, e compranle per buon mercato. Quelle genti adorano gl'idoli; quivi sono alcuni cristiani e turchi e saraceni. Fuori della città forse per cinque miglia è un palagio del re Mangalú, il qual è bellissimo ed è posto in una pianura dove sono molte fontane e fiumicelli, che li discorrono dentro e d'intorno, e vi sono bellissime cacciagioni e luoghi da uccellare. Primamente v'è un muro grosso e alto, con merli a torno a torno, che circonda circa cinque miglia, dove sono tutti gli animali selvaggi e uccelli, e in mezo di questa muraglia v'è un palagio grande e spazioso, cosí bello che niuno lo potrebbe meglio ordinare, il qual ha molte sale e camere grandi e belle, e tutte depinte d'oro, con azzurri finissimi e con infiniti marmori. Questo Mangalú, seguendo le vestigie del padre, mantiene il suo regno in grand'equità e giustizia, ed è molto amato dalle sue genti, e si diletta di cacciagioni e d'uccellare.

De' confini che sono nel Cataio e Mangi.
Cap. 35.

Partendosi di questo palagio di Mangalú, si cammina tre giornate per ponente, trovandosi di continuo molte città e castella, nelle quali gli abitanti vivono di mercanzie e d'arti, e hanno seta abbondantemente. E in capo di tre giornate si truova una regione piena di gran monti e valli, che sono nella provincia di Cunchin, e sono quei monti e valli piene di genti, ch'adorano gl'idoli e lavorano la terra. Vivono di cacciagioni, perchè quivi sono molti boschi e molte bestie salvatiche, cioè leoni, orsi, lupi cervieri, daini, caprioli, cervi e molti altri animali, delli quali conseguiscono grande utilità. E questa regione s'estende per venti giornate, camminando sempre per monti, valli e boschi, e trovando di continuo città, nelle quali commodamente alloggiano i viandanti. E poi che s'è cavalcato le dette giornate verso ponente, si truova una provincia nominata Achbaluch Mangi, che vuol dire città bianca de' confini di Mangi, la qual è piana e tutta populatissima, e le genti vivono di mercanzie e arti. E quivi nasce zenzero in gran quantità, il qual si porta per tutta la provincia del Cataio, con grande utilità de' mercanti; v'è frumento, riso e altre biade in abondanza e per buon mercato. E questa pianura dura due giornate, con infinite abitazioni; e in capo di due giornate si truovano gran monti e valli e molti boschi, e si cammina ben venti giornate per ponente trovando il tutto abitato. Adorano gl'idoli, e vivono di frutti delle lor terre e di cacciagioni di bestie salvatiche. Quivi sono molti leoni, orsi, lupi cervieri, daini, caprioli, e v'è gran quantità di bestie che producon il muschio.

Della provincia di Sindinfu, e del grandissimo fiume detto Quian.
Cap. 36.

Poi che s'è camminato venti giornate per quei monti, si truova una pianura e provincia, ch'è ne' confini di Mangi, nominata Sindinfu, e la maestra città si chiama similmente, la qual è molto nobile e grande. E già furono in quella molti re ricchi e potenti. La città gira per circuito venti miglia, ma ora è divisa, perciò che quando morse il re vecchio lasciò tre figliuoli, e avanti la sua morte volse divider la città in tre parti, ciascuna delle quali è separata per muri: e nondimeno ciascuna è dentro il muro generale che la cinge intorno. E questi tre fratelli furono re, e ciascun avea nella sua parte molte terre e grandi e molto tesoro, perchè il loro padre era molto potente e ricco; ma il gran Can, preso ch'ebbe questo regno, destrusse questi tre re, tenendolo per sé. Per questa città discorrono molti gran fiumi, che descendono da' monti di lontano e corrono per la città intorno intorno e per mezo in molte parti. Questi fiumi sono larghi per mezo miglio, altri per dugento passa, e sono molto profondi, e sopra quelli sono fabricati molti ponti di pietra belli e grandi, la larghezza de' quali è otto passa, e la longhezza è secondo che i fiumi sono piú e manco larghi. E per la longhezza de' fiumi sono dall'una e l'altra banda colonne di marmo, le quali sostengono il coperchio de' ponti, perchè tutti hanno bellissimi coperchi di legname dipinti con pitture di color rosso, e sono anco coperti di coppi. E per longhezza di ciascun ponte sono bellissime stanze e botteghe, dove s'esercitano arti e mercanzie. E quivi è una casa maggior dell'altre, dove stanno di continuo quelli che scuotono li dazii delle robbe e mercanzie, e pedagio di quelli che vi passano, e ci fu detto che 'l gran Can ne cavava ogni giorno piú di cento bisanti d'oro. E quando i detti fiumi si partono dalla città, si ragunano insieme e fanno un grandissimo fiume, che vien detto Quian, qual scorre per cento giornate fin al mare Oceano, della cui qualità si dirà di sotto nel libro.
Appresso a questi fiumi e luoghi circostanti sono molte città e castella, e vi sono molti navilii, per li quali si portano alla città e traggonsi molte mercanzie. Le genti di questa provincia sono idolatri. E partendosi dalla città si cavalca cinque giornate per pianure e valli, trovando molti casamenti, castelli e borghi; e gli uomini vivono della agricultura e anche d'arti, perchè in questa città si fanno tele sottilmente e drappi di velo. E vi si truovano similmente molti leoni, orsi e altre bestie salvatiche. E poi che s'è cavalcato cinque giornate, si truova una provincia desolata nominata Thebeth.

Della gran provincia detta Thebeth.
Cap. 37.

Questa provincia chiamata Thebeth è molto destrutta, perchè Mangi Can la destrusse al tempo suo, per la guerra ch'egli ebbe con quella: e vi si veggono per questa provincia molte città e castella tutte rovinate e desolate, per longhezza di venti giornate. E perchè vi mancano gli abitatori, però le fiere salvatiche, e massime i leoni sono moltiplicati in tanto numero ch'è grandissimo pericolo a passarvi la notte: e li mercanti e viandanti, oltre il portar seco le vettovaglie, bisogna che alloggino la sera con grand'ordine e rispetto, per causa che non li siano devorati i cavalli. E fanno in questo modo, che, trovandosi in quella regione, e massime appresso i fiumi, canne di longhezza dieci passa e grosse tre palmi, e da un nodo all'altro sono tre palmi, i viandanti fanno la sera fasci grandi di quelle che sono verdi, mettendole alquanto lontane dall'alloggiamento, e v'appizzano il fuoco; le quali sentendo il caldo si scorzano e sfendono schioppando terribilmente, ed è tanto orribile lo schioppo ch'el rumor si sente per duoi miglia, e le fiere udendolo fuggono e allontanansi. E li mercatanti portano seco pastore di ferro, con le quali inchiavano tutti quattro i piedi alli cavalli, perchè altramente, spaventati dal rumore, romperiano le corde e fuggiriano via: ed è accaduto che molti per negligenza gl'hanno perduti. Cavalcasi adunque per questa contrada venti giornate, continuamente trovando simili salvatichezze, e non trovando alloggiamenti né vettovaglie, se non forse ogni terza o quarta giornata, nelle quali si forniscono delle cose al viver necessarie. In capo delle quali giornate si comincia pur a veder qualche castello e borghi, che sono fabricati sopra dirupi e sommità de' monti, e s'entra in paese abitato e coltivato, dove non v'è piú pericolo d'animali salvatichi.
Gli abitanti di quei luoghi hanno una vergognosa consuetudine, messagli nel capo dalla cecità dell'idolatria, che niuno vuol pigliar moglie che sia vergine, ma vogliono che prima sia stata conosciuta da qualche uomo, dicendo che questo piace alli loro idoli. E però, come passa qualche carovana di mercanti, e che mettono le tende per alloggiare, le madri ch'hanno le figliuole da maritare le conducono subito fino alle tende, pregando i mercanti, a ragatta una dell'altra, che vogliono pigliar la sua figliuola e tenersela a suo buon piacere fino che stanno quivi: e cosí le giovani che piú gli aggrada vengono elette dalli mercanti, e l'altre tornano a casa dolenti. Queste dimorano con li detti fino al suo partire e poi le consegnano alle lor madri, né mai per cosa al mondo le menarebbono via, ma sono obligati a farli qualche presente di gioie, anelletti overo qualche altro signale, qual portano a casa: e quando si maritano portano al collo overo addosso tutti li detti presenti, e quella che ne ha piú viene reputata esser stata piú apprezzata dalle persone. E per questo sono richieste piú volentieri da' giovani per moglie, né piú degna dote possono dare a' mariti che li molti presenti ricevuti, riputandosi quelli per gran gloria a laude: e nelle solennità delle loro nozze li mostrano a tutti, e li mariti le tengono piú care, dicendo che li lor idoli l'hanno fatte piú graziose appresso gli uomini. E d'indi innanzi non è alcuno ch'avesse ardire di toccare la moglie d'un altro, e di tal cosa si guardano grandemente. Queste genti adorano gl'idoli, e sono perfidi e crudeli, e non tengono a peccato il rubbare né il far male, e sono i maggiori ladri che siano al mondo. Vivono di cacciagioni e d'uccellare e di frutti della terra.
Quivi si truovano di quelle bestie che fanno il muschio, e in tanta quantità che per tutta quella contrada si sente l'odore, perchè ogni luna una volta spandono il muschio. Nasce a questa bestia, come altre volte s'è detto, appresso l'umbilico un'apostema in modo d'un bognone pieno di sangue, e quell'apostema ogni luna per troppa replezione sparge di quel sangue, qual è muschio. E perchè vi sono molti di simili animali in quelle parti, però in molti luoghi si sente l'odore di quello. E queste tal bestie si chiamano nella loro lingua gudderi, e se ne prendono molte con cani.
Essi non hanno monete, né anche di quelle di carta del gran Can, ma spendono corallo, e vestono poveramente di cuoio e di pelle di bestie e di canevaccia. Hanno linguaggio da per sé e s'appartengono alla provincia di Thebeth, la qual confina con Mangi, e fu altre volte cosí grande e nobile che in quella erano otto regni e molte città e castella, con molti fiumi, laghi e monti; ne' quali fiumi si truova oro di paiola in grandissima quantità. Ne' regni di detta provincia si spende, come ho detto, il corallo per moneta, e anco le donne lo portano al collo; e adorano li suoi idoli. E si fanno molti zambellotti e panni d'oro e di seta, e vi nascono molte sorti di specie, che non si portano mai ne' nostri paesi. E quivi gli uomini sono grandissimi negromanti, imperochè fanno per arte diabolica i maggior veneficii e ribalderie che mai fossero viste overo udite: fanno venir tempesta e fulgori, con saette, e molte altre cose mirabili. Sono uomini di mali costumi. Hanno cani molto grandi, come asini, che sono valenti a pigliar ogni sorte d'animali, e massime buoi salvatichi, che si chiamano beyamini, qual sono grandissimi e feroci. Quivi nascono ottimi falconi laneri e sacri, molto veloci al volare, e ottimamente uccellano. Questa detta provincia di Thebeth è subdita al dominio del gran Can, e similmente tutte le regioni e provincie soprascritte; dopo la quale si truova la provincia di Caindú.

Della provincia di Caindú.
Cap. 38.

Caindú è una provincia verso ponente, qual già si reggeva per il suo re; ma, poi che fu soggiogata dal gran Can, egli vi manda i suoi rettori. E non intendiate per questo dir ponente che le dette contrade siano nelle parti di ponente, ma perchè ci partiamo dalle parti che sono tra levante e greco venendo verso ponente, e però descriviamo quelle verso ponente. Le genti di questa provincia adorano gl'idoli, e sono in quella molte città e castella: e la maestra città similmente si chiama Caindú, la qual è edificata nel cominciamento della provincia. E ivi è un gran lago salso nel quale si truova gran moltitudine di perle, le qual sono bianche, ma non rotonde; e ne sono in tanta abbondanza che, se 'l gran Can lasciasse che ciascun ne pigliasse, veneriano in vil prezio: ma senza sua licenza non si possono pescare. V'è similmente un monte, nel quale si truova la minera delle pietre dette turchese, che non si lasciano cavar senza il voler del detto gran Can.
Quivi gli abitanti di questa provincia hanno un costume vergognoso e vituperoso, che non si reputano a villania se quelli che passano per quella contrada giaciono con le loro mogli, figliuole o sorelle: e per questo, come giungono forestieri, ciascuno cerca di menarsegli a casa, dove giunti consegnano tutte le loro donne in sua balia e si dipartono, lasciando quelli come patroni; e le donne attaccano subito sopra la porta un segnale, né quello muovono se non quando si partono, acciochè i loro mariti possino ritornarsene. E questo fanno gli abitanti per onorificenza de' loro idoli, credendo con questa umanità e benignità usata verso detti forestieri di meritare la grazia de' loro idoli, e che li concedino abbondanza di tutti i frutti della terra.
La loro moneta è di tal maniera, che fanno verghe d'oro e le pesano, e secondo ch'è il peso della verghetta cosí vagliono: e questa è la loro moneta maggiore, sopra la quale non v'è alcun segno. E la picciola veramente è di questo modo: hanno alcun'acque salse, con le quali fanno il sale facendole bollire in padelle, e poi ch'hanno bollito per un'ora si congelano a modo di pasta, e si fanno forme di quantità d'un pane di due denari, le quali sono piane dalla parte di sotto e di sopra sono rotonde; e quando sono fatte si pongono sopra pietre cotte ben calde appresso al fuoco, e ivi si seccano e fansi dure, e sopra queste tal monete si pone la bolla del signore. Né le monete di questa sorte si possono far per altri che per quelli del signore, e ottanta di dette monete si danno per un saggio d'oro. Ma i mercanti vanno con queste monete a quelle genti ch'abitano fra i monti ne' luoghi salvatichi e inusitati, e truovano un saggio d'oro per sessanta, cinquanta e quaranta di quelle monete di sale, secondo che le genti sono in luogo piú salvatico e discosto dalle città e gente domestica, perchè ogni volta che vogliono non possono vendere il lor oro e altre cose, sí come il muschio e altre cose, perchè non hanno a cui venderle: e però fanno buon mercato, perchè truovano l'oro ne' fiumi e laghi, come s'è detto. E vanno questi mercanti per monti e luoghi della provincia di Tebeth sopradetta, dove similmente si spaccia la moneta di sale, e fanno grandissimo guadagno e profitto, perchè quelle genti usano di quel sale ne' cibi, e compransi anco delle cose necessarie. Ma nelle città usano quasi solamente i fragmenti di dette monete ne' cibi, e spendono le monete intiere.
Hanno molte bestie in quel paese le quali producono il muschio, e di quelle molte ne prendono e traggono muschio in abbondanza. Prendono ancora molti buoni pesci nel lago sopradetto, e vi sono molti leoni, orsi, daini, cervi e caprioli, e uccelli di qualunque maniera in abbondanza. Non hanno vino di vigne, ma fanno vino di frumento e riso, con molte specie mescolate insieme: ed è un'ottima bevanda. In questa provincia nascono ancora molti garofali, e l'arbore che li produce è picciolo, e ha li rami e foglie a modo di lauro, ma alquanto piú longhe e strette; produce li fiori bianchi e piccioli come sono i garofali, e quando sono maturi sono negri e foschi. Vi nasce il zenzero e la cannella in abbondanza e molte altre specie, delle quali non è portato quantità alcuna in queste parti.
E partendosi dalla città di Caindú, si va fino a' confini della provincia circa quindici giornate, trovando casamenti e molti castelli e molti luoghi da caccia e uccellare, e genti ch'osservano i sopradetti costumi e consuetudini. In capo di dette giornate si truova un gran fiume nominato Brius, che disparte la detta provincia, nel quale si truova molta quantità d'oro di paiola, e v'è molta quantità di cannella; e scorre questo fiume fino al mare Oceano.
Or lasciaremo questo fiume, perchè altro non v'è da dire in quello, e diremo d'una provincia nominata Caraian.

Delle condizioni della gran provincia di Caraian, e di Iaci, città principale.
Cap. 39.

Dopo che s'è passato il fiume predetto, s'entra nella provincia detta Caraian, cosí grande e larga che quella è partita in sette regni, ed è verso ponente. Le genti adorano gli idoli e sono sotto il dominio del gran Can: ma suo figliuolo, nominato Centemur, è constituito re di detta provincia, il qual è gran ricco e potente, e mantiene la sua terra con molta giustizia, perchè egli è ornato di molta sapienzia e integrità. E partendosi dal sopradetto fiume si cammina verso ponente per cinque giornate, e si truova tutt'abitato e castelli assai. Vivono di bestie e di frutti della terra; quivi si truovano i migliori cavalli che naschino in quelle parti. Hanno linguaggio da per sé, il quale non si può facilmente comprendere.
A capo di cinque giornate si truova la città maestra, capo del regno, nominata Iaci, ch'è grandissima e nobile. Sono in quella molti mercanti e artefici e molte sorti di genti: sonvi idolatri e cristiani, nestorini e saraceni e macometani, ma i principali sono quelli ch'adorano gl'idoli. Ed è la terra fertile in produr riso e frumento; ma quelle genti non mangiano pane di frumento, perchè è malsano, ma il riso, del quale ne fanno vino con specie, ch'è chiaro e bianco e molto dilettevole a bere. Spendono per moneta porcellane bianche, le quali si truovano al mare, e ne pongono anco al collo per ornamento: e ottanta porcellane vagliono un saggio d'argento, il qual è di valuta di due grossi veneziani, e otto saggi di buon argento vagliono un saggio d'oro perfetto. Hanno ancora pozzi salsi de' quali fanno sale, il qual usano tutti gli abitanti: e di questo sale il re ne conseguisce grand'entrata e profitto.
Le genti di questa provincia non reputano esserli fatta ingiuria s'uno tocca la lor moglie carnalmente, pur che sia con volontà di quella. V'è ancora un lago, che circuisce circa cento miglia, nel quale si piglia gran quantità di buoni pesci d'ogni maniera, e sono pesci molto grandi. In questo paese mangiano carni crude di galline, montoni, buoi e buffali, e in questo modo, che le tagliano molto minutamente, e le mettono prima in sale, in un sapore fatto di diverse sorti di lor specie: e questi sono gentiluomini; ma li poveri le mettono cosí minute in salsa d'aglio, e le mangiano come facciam noi le cotte.

Della provincia detta Carazan.
Cap. 40.

Quando si parte dalla detta città di Iaci, e che s'è camminato dieci giornate per ponente, si truova la provincia di Carazan, sí com'è nominata la maestra città del regno. Adorano gl'idoli, e sono sotto il dominio del gran Can, e suo figliuolo nominato Cogatin tiene la dignità regale. Trovasi in essa oro di paiola ne' fiumi, e anco oro piú grosso che di paiola, e ne' monti oro di vena; e per la gran quantità che n'hanno, danno per sei saggi d'argento un saggio d'oro. Quivi ancora si spendono le porcellane delle quali s'è detto di sopra, le quali non si truovan in questa provincia, ma sono portate dalle parti d'India.
Nascono in questi paesi grandissimi serpenti, quali sono di longhezza dieci passa e di grossezza spanne dieci. Hanno nella parte dinanzi, appresso il capo, due gambe picciole con tre unghie a modo di leone, e gli occhi maggiori d'un pane da quattro denari, tutti lucenti. La bocca è cosí grande ch'inghiottirebbe un uomo; i denti grandi e acuti: e per essere tanto spaventevoli, non è uomo né animal alcuno ch'approssimandoseli non tremi tutto. Se ne truovano di minori, cioè di passa otto, di sei e cinque longhi, quali si prendono in questo modo, conciosiachè pel gran caldo stiano di giorno nelle caverne e di notte escono fuori a pascere, e quante bestie, o leoni o lupi o altre che si siano, che possono toccare, tutte le mangiano, e poi si vanno strascinando verso a' laghi, fonti o fiumi per bere; e mentre che vanno a questo modo per l'arena, per la troppa gravezza del peso loro appaiono i vestigii cosí grandi come s'una gran trave fosse stata tirata per quell'arena; e i cacciatori, dove veggono il sentiero per il qual sono usati d'andare, ficcano molti pali sotto terra che non appareno, e in quelli mettono alcuni ferri acutissimi ponendoli spessi, e copronli con l'arena che non si veggono: e ne mettono in diversi luoghi, secondo i sentieri dove piú veggono andar i serpenti, i quali, andando a' luoghi soliti, subito si feriscono e muoiono facilmente. E le cornacchie, come li veggono morti, cominciano a stridare, e li cacciatori a' cridi di quelle conoscono che sono morti e gli vanno a truovare e gli scorticano, cavandoli immediate il fiele, ch'è molto apprezzato ad infinite medicine e fra l'altre al morso de' cani arrabbiati, dandolo a bere al peso d'un denaro in vino; ed è cosa presentanea a far partorire una donna quando ell'ha i dolori; e a' carboni e pustule che nascono sopra la persona, postovene un poco, subito li risolve, e a molte altre cose. Vendono ancor le carni di questo serpente molto care, per esser piú saporite dell'altre carni, e ognuno le mangia volentieri. Oltre di ciò in detta provincia nascono cavalli grandi, i quali si conducono in India a vendere mentre sono giovani, e a tutti li cavano un osso della coda, acciochè non possino menarla in qua e là ma rimanghi pendente, perchè li par cosa brutta che 'l cavallo correndo meni la coda in giro.
Quelle genti cavalcano tenendo le staffe longhe, come appresso di noi i Franceschi, e dicesi longhe perchè i Tartari e quasi tutte l'altre genti per il saettare le portano curte, perciochè quando saettano si rizzano sopra i cavalli. Hanno arme perfette di cuori di buffali, e hanno lancie, scudi, balestre, e intossicano tutte le loro freccie. E mi fu detto per cosa certa che molte persone, e massime quelli che vogliono far qualche male, portano di continuo il tossico con loro, acciò, se per qualche caso fortuito per qualche mancamento fossero presi, e li volessero poner al tormento, piú tosto che patirlo si pongono subito del tossico in bocca e l'inghiottono, acciò prestamente muoiano. Ma li signori, che sanno questa usanza, hanno sempre apparecchiato sterco di cane: li fanno di subito inghiottire per farli vomitar il tossico, e cosí hanno trovato il rimedio contra la malizia di quei tristi.
Le dette genti, avanti che fossero soggiogate al dominio del gran Can, osservavano una brutta e scelerata consuetudine, che s'alcun uomo nobile e bello, che paresse di grande e bella apparenza e valoroso, veniva ad alloggiare in casa loro, era ammazzato la notte, non per torli i denari, ma acciò che l'anima sua, con la grazia del valor suo e la prosperità del senso, rimanesse in quella casa, e per il stanziar di quell'anima tutte le cose li succedessero con felicità: e ognun si riputava beato d'aver l'anima di qualche nobile, e a questo modo si facevano morire molti uomini. Ma, dopo che il gran Can cominciò a signoreggiare, li levò via quella maledetta consuetudine, di modo che, per le gran punizioni che sono state fatte, piú non s'osserva.

Della provincia di Cardandan e città di Vociam.
Cap. 41.

Partendosi dalla città di Carazan, poi che s'è camminato cinque giornate verso ponente, si truova la provincia di Cardandan, la qual è sottoposta al gran Can, e la principal città è detta Vociam. La moneta che quivi spendono è oro a peso, e anco porcellane, e danno un'oncia d'oro per cinque oncie d'argento, e un saggio d'oro per cinque saggi di argento, perchè in quella regione non si truova minera alcuna d'argento, ma oro assai, e i mercanti vi portano d'altrove l'argento e ne fanno gran guadagni. Gli uomini e le donne di questa provincia usano di portare li denti coperti d'una sottil lametta d'oro, fatta molto maestrevolmente a similitudine di denti, che li coprono, e vi sta di continuo. Gli uomini si fanno ancora atorno le braccia e le gambe a modo d'una lista overo cinta, con punti neri, designata in questo modo: hanno cinque agucchie tutte legate insieme, e con quelle si pungono talmente la carne che n'esce il sangue, e poi vi mettono sopra una tintura nera, che mai piú si può cancellare; e reputano per cosa nobile e bella aver questa tal lista di punti neri. E non attendono ad altro se non a cavalcare e andare alla caccia e uccellare, e a cose che s'appartengono all'armi ed esercizii di guerra, e di tutti gli altri officii appartenenti al governo di casa lasciano la cura alle loro donne. Hanno servi comprati, e anco che hanno presi in guerra, ch'aiutano le loro donne in simil bisogno.
Hanno un'usanza, che subito ch'una donna ha partorito si leva del letto, e lavato il fanciullo e ravolto ne' panni, il marito si mette a giacere in letto in sua vece e tiene il figliuolo appresso di sé, avendo la cura di quello per quaranta giorni, che non si parte mai. E gli amici e parenti vanno a visitarlo per rallegrarlo e consolarlo, e le donne che sono da parto fanno quel che bisogna per casa, portando da mangiare e bere al marito ch'è nel letto, e dando il latte al fanciullo che gli è appresso. Dette genti mangiano carni crude e cotte, come s'è detto di sopra, e il loro cibo è risi con carne; il loro vino è fatto di risi con molte specie mescolatevi, ed è buono.
In questa provincia non vi sono idoli né tempii, ma adorano il piú vecchio di casa, perchè dicono: "Siamo usciti di costui, e tutt'il bene che abbiamo procede e viene da lui". Non hanno lettere né scrittura alcuna, e non è maraviglia alcuna, però che quel paese è molto salvatico, e fra montagne e selve foltissime, e l'aere nella state v'è molto tristo e cattivo; e li forestieri e mercanti non vi possono stare, perchè moririano. E s'hanno da far qualche faccenda un con l'altro, e vogliono far le lor obligazioni overo carte di quello che deono dare e avere, il principal piglia un legno quadro e lo sfende per mezo, e segnano sopra quello quanto hanno da fare insieme, e ciascun tiene una delle parti del bastone, come facciamo noi a modo nostro in tessera; e quando è venuto il termine, e il debitor averà pagato, il creditore li restituisce la sua parte del legno: e cosí restano contenti e sodisfatti.
Né in questa provincia né in Caindú e Vociam e Iaci si truovano medici, ma, come si ammala qualche grand'uomo, le sue genti di casa fanno venir li maghi, ch'adorano gli idoli, alli quali l'infermo narra la sua malattia. Allora detti maghi fanno venir sonatori con diversi instrumenti, e ballano e cantano canzoni in onore e laude de' loro idoli, e continuano questo tanto ballare, cantare e sonare che 'l demonio entra in alcun di loro, e allora non si balla piú. Li maghi domandano a questo indemoniato per che cagione colui sia ammalato, e ciò che si dee fare per liberarlo. Il demonio risponde, per bocca di colui nel corpo del qual egli è entrato, quell'essere ammalato per aver fatta offensione a tal dio. Allora li maghi pregano quel dio che li perdoni, che guarito che sia li farà sacrificio del proprio sangue: ma se 'l demonio vede che quell'infermo non possa scampare, dice che l'ha offeso cosí gravemente che per niun sacrificio si potria placare; ma se giudica che 'l debbia guarire, dice ch'ei facci sacrificio di tanti montoni ch'abbino i capi neri, e che faccino ragunare tanti maghi con le loro donne, e che per le mani loro sia fatto il sacrificio, e che a questo modo il dio si placherà verso l'infermo. Allora i parenti fanno tutto ciò che gli è stato imposto, ammazzando li montoni e gettando verso il cielo il sangue di quelli, e i maghi con le loro donne maghe fanno gran luminarie e incensano tutta la casa dell'infermo, facendo fumo di legni d'aloe e gettando in aere l'acqua nella qual sono state cotte le carni sacrificate, insieme con parte delle bevande fatte con specie, e ridono, cantano e saltano, in riverenza di quell'idolo overo dio. Dopo questo domandano a quell'indemoniato se per tal sacrificio è satisfatto all'idolo, e s'egli comanda che si faccia altro; e quando risponde essere satisfatto, allora detti maghi e maghe, che di continuo hanno cantato, sentano a tavola e mangiano la carne sacrificata con grand'allegrezza, e bevono di quelle bevande che sono state offerte. Compiuto il desinare e avuto il loro pagamento, ritornano a casa, e se per providenzia d'Iddio guarisce l'infermo, dicono che l'ha guarito quell'idolo al quale è stato fatt'il sacrificio; ma s'ei muore, dicono che 'l sacrificio è stato defraudato, cioè che quelli che hanno preparate le vivande l'hanno gustate prima che sia stata data la sua parte all'idolo. E queste ceremonie non si fanno per qualunque infermo, ma una o due volte al mese per qualche grand'uomo ricco, la qual cosa ancora s'osserva in tutta la provincia del Cataio e di Mangi e quasi da tutti gl'idolatri, perchè non hanno copia di medici: e in questo modo li demonii scherniscono la cecità di quelle misere genti.

Come il gran Can soggiogò il regno di Mien e di Bangala.
Cap. 42.

Prima che procediamo piú oltre, narreremo una memorabile battaglia che fu nel sopradetto regno di Vociam. Avvenne che nel 1272 il gran Can mandò un esercito nel regno di Vociam e Carazan, per custodirlo e defenderlo da genti strane che lo volessero offendere, imperochè fino a quel tempo il gran Can ancora non avea mandato alcuno de' suoi figliuoli al governo de' suoi reami, come dopo vi mandò, perchè sopra questo regno ordinò in re Centemur suo figliuolo. Il re veramente di Mien e Bangala dell'India, ch'era potente di genti, terre e tesoro, udendo che l'esercito de' Tartari era venuto a Vociam, deliberò di volerlo combattere e scacciare, acciochè piú il gran Can non ardisse di mandar genti a' suoi confini. Però preparò un esercito grandissimo e gran moltitudine d'elefanti (perchè di continuo ne teneva infiniti ne' suoi regni), sopra li quali fece far alcune baltresche e castelli di legno, dove stavano uomini a saettare e combattere: e in alcuni ve n'erano da dodici e sedici che commodamente potevano combattere. E oltre di questi messe insieme gran numero di cavalli armati e fanti a piedi, e prese il cammino verso Vociam, dove l'esercito del gran Can s'era fermato, e quivi s'accampò con tutto l'oste per riposarlo alquanti giorni.
Quando Nestardin, ch'era capitano dell'esercito del gran Can, uomo prudente e valoroso, intese la venuta dell'oste del re di Mien e Bangala con tanto numero di genti, temette molto, perchè non aveva seco piú di dodicimila uomini, ma esercitati e franchi combattitori, e il detto re n'avea sessantamila, e da circa mille elefanti tutti armati, con castelli sopra. Costui, come savio ed esperto, non mostrò paura alcuna, ma discese nel piano di Vociam e si pose alle spalle un bosco folto e forte d'altissimi arbori, con opinione che se gli elefanti venissero con tanta furia che non se li potesse resistere, di ritirarsi nel bosco e saettarli al sicuro. Però, chiamati a sé li principali dell'esercito, li confortò che non volessero esser di minor virtú di quello ch'erano stati per avanti, e che la vittoria non consisteva nella moltitudine ma nella virtú di valorosi ed esperti cavalieri, e che le genti del re di Mien e Bangala erano inesperte e non pratiche della guerra, nella qual non s'aveano trovato, come aveano fatto loro, tante volte: e però non volessero dubitare della moltitudine de' nemici, ma sperar nella perizia sua esperimentata in tante imprese, che già il nome loro era non solamente a' nemici, ma a tutto il mondo pauroso e tremendo, promettendoli ferma e indubitata vittoria.
Saputo il re di Mien che l'oste de' Tartari era disceso al piano, subito si mosse e venne ad accamparsi vicino a quel de' Tartari un miglio, e messe le sue schiere ad ordine, ponendo nella prima fronte gli elefanti e dopo di dietro i cavalli e i fanti, ma lontani come in due ali, lasciandovi un gran spazio in mezo. E quivi cominciò ad inanimare i suoi, dicendoli che volessero valorosamente combattere, perch'erano certi della vittoria, essendo loro quattro per uno, e avendo tanti elefanti con tanti castelli che li nemici non averiano ardire d'aspettarli, non avendo mai con tal sorte d'animali combattuto. E fatti sonare infiniti strumenti, si mosse con gran vigore con tutto l'oste suo verso quello de' Tartari, i quali stettero fermi e non si mossero, ma li lasciarono venir vicini al suo alloggiamento; poi immediate uscirono con grand'animo all'incontro. E, non mancando altro che l'azzuffarsi insieme, avvenne che i cavalli de' Tartari, vedendo gli elefanti cosí grandi e con que' castelli, si spaurirono di maniera che cominciavano a voler fuggire e voltarsi adietro, né v'era modo che li potessero ritenere, e il re con tutto l'esercito s'avvicinava ognora piú innanti. Onde il prudente capitano, veduto questo disordine sopravenutoli all'improviso, senza perdersi punto prese partito di far immediate smontar tutti dai cavalli, e quelli mettere nel bosco, ligandogli agli arbori. Smontati adunque andorno a piedi alla schiera d'elefanti e cominciorno fortemente a saettarli; e quelli ch'erano sopra li castelli, con tutte le genti del re, ancor loro con grand'animo saettavano li Tartari, ma le loro freccie non impiagavano cosí gravemente come facevano quelle de' Tartari, ch'erano da maggior forza tirate. E fu tanta la moltitudine delle saette in questo principio, e tutte al segno degli elefanti (che cosí fu ordinato dal capitano), che restorno da ogni canto del corpo feriti, e subito cominciorno a fuggire e a voltarsi adietro verso le genti loro proprie, mettendole in disordine. Né vi valeva forza o modo alcuno di quelli che li governavano, che, per il dolore e rabbia delle ferite e per il tuono grande delle voci, erano talmente impauriti che senza ritegno o governo andavano or qua or là vagabondi, e alla fine con gran furia e spavento si cacciorno in una parte del bosco dove non erano li Tartari; e quivi entrando per forza, per la foltezza e grossezza degli arbori, fracassavano con grandissimo strepito e rumore li castelli e baltresche che avevano sopra, con ruina e morte di quelli che v'erano dentro.
Alli Tartari, veduta la fuga di questi animali, crebbe l'animo, e senza dimorar punto a parte a parte con grand'ordine e magisterio andavano montando a cavallo e ritornavano alle loro schiere, dove cominciorno una crudele e orrenda battaglia. Né le genti del re manco valorosamente combattevano, perchè egli in persona le andava confortando, dicendoli che stessero saldi e non si sbigottissero per il caso intravenuto agli elefanti. Ma li Tartari, per la perizia del saettare, li caricavano grandemente addosso e offendevano fuor di misura, perchè non erano armati come li Tartari. E poi che l'un e l'altro esercito ebbero consumate le saette, posero man alle spade e mazze di ferro, facendo empito un contra l'altro: dove si vedeva in un instante tagliare e troncar piedi, mani, teste, e dare e ricever grandissimi colpi e crudeli, cadendo in terra molti feriti e morti, con tanta uccisione e spargimento di sangue ch'era cosa spaventevole e orribile a vedere; ed era tanto lo strepito e grido grande che le voci andavano sin al cielo.
Il re veramente di Mien, come valoroso capitano, arditamente in ogni parte dove vedeva il pericolo maggiore si metteva, inanimando e pregando che stessero fermi e constanti, e faceva che le schiere di dietro, ch'erano fresche, venissero inanti a soccorrere quelle ch'eran stracche. Ma, vedendo che non era possibile da fermarsi né sostener l'empito de' Tartari, essendo la maggior parte del suo esercito o ferita o morta, e tutto il campo pieno di sangue e coperto di cavalli e uomini uccisi, e che cominciavano a voltar le spalle, si mise anch'egli a fuggire col resto delle sue genti, le quali, seguitate da' Tartari, furono per la maggior parte uccise.
Questa battaglia fu molto crudele da una banda e dall'altra, e durò dalla mattina fino a mezogiorno: e li Tartari ebbero la vittoria, e la causa fu perchè il re di Bangala e Mien non aveva il suo esercito armato come quello de' Tartari, e similmente non erano armati gli elefanti che venivano nella prima fila, che averiano potuto sostenere il primo saettamento de' nimici, e andargli addosso e disordinarli. Ma, quello che piú importa, detto re non doveva andar ad assaltar li Tartari in quell'alloggiamento ch'aveva il bosco alle spalle, ma aspettarli in campagna larga, dove non averiano potuto sostener l'empito de' primi elefanti armati, e poi con le due ale di cavalli e fanti gli averia circondati e messi di mezo.
Raccoltisi i Tartari dopo l'uccisione de' nemici, andorno verso il bosco nel quale erano gli elefanti per pigliargli, e trovorno che quelle genti ch'erano campate tagliavano arbori e sbarravano le strade per difendersi. Ma i Tartari immediate, rotti i loro ripari, ne uccisero molti e fecero prigioni, col mezo di quelli che sapevano il maneggiar di detti elefanti, e n'ebbero dugento e piú. E dal tempo della presente battaglia in qua, il gran Can ha voluto aver di continuo elefanti ne' suoi eserciti, che prima non ve n'aveva. Questa giornata fu causa che 'l gran Can acquistò tutte le terre del re di Bangala e Mien, e le sottomise al suo imperio.

Di una regione salvatica e della provincia di Mien.
Cap. 43.

Partendosi dalla detta provincia di Cardandan, si truova una grandissima discesa, per la quale si discende continuamente due giornate e meza e non si truova abitazione né altro, se non una pianura ampla e spaziosa, nella quale tre giorni di ciascuna settimana si raguna molta gente al mercato, perchè molti descendono da' monti di quelle regioni e portan oro per cambiarlo con argento, qual li mercanti da longhi paesi arrecano per questo effetto, e danno un saggio d'oro per cinque d'argento. E non è permesso che gli abitanti portino l'oro fuori del paese, ma vogliono che vi venghino li mercanti con l'argento a pigliarlo, portando le mercanzie che faccino per li loro bisogni, perchè niuno potrebbe andar alle loro abitazioni se non quelli della contrada, per essere in luoghi ardui, forti e inaccessibili: e però fanno questi mercati nella detta pianura, la qual passata si truova la città di Mien, andando verso mezodí, ne' confini dell'India; e si camina quindici giornate per luoghi molto disabitati e per boschi, ne' quali si truovano molti elefanti, alicorni e altri animali salvatichi, né vi sono uomini né abitazione alcuna.

Della città di Mien e d'un bellissimo sepolcro del re di quella.
Cap. 44.

Dopo le dette quindici giornate, si truova la città di Mien, la qual è grande e nobile e capo del regno, e sottoposta al gran Can; gli abitatori sono idolatri, e hanno lingua propria. Fu in questa città (come si dice) un re molto potente e ricco, qual venendo a morte ordinò che appresso la sua sepoltura vi fossero fabricate due torri a modo di piramidi, una da un capo e l'altra dall'altro, tutte di marmo, alte dieci passa e grosse secondo la convenienzia dell'altezza e di sopra v'era una balla ritonda. Queste torri, una era coperta tutta d'una lama d'oro grossa un dito, che altro non si vedeva che oro, e l'altra d'una lama d'argento della medesima grossezza, e aveano congegnate campanelle d'oro e d'argento atorno la balla, che ogni fiata che soffiava il vento sonavano, che era cosa molto stupenda a vedere; e similmente la sepoltura era coperta parte di lame d'oro e parte d'argento: e questo fece far detto re per onor dell'anima sua, acciò che la memoria sua non perisse.
Or, avendo il gran Can deliberato d'aver quella città, vi mandò un valoroso capitano, e la maggior parte dell'esercito volse ch'andassero giocolari overo buffoni della corte sua, che ne sono di continuo in gran numero. Or, entrati nella città e trovate le due torri tanto ricche e adorne, non le volsero toccare senza saputa del gran Can, qual, inteso che ebbe che erano state fatte per quella memoria dell'anima sua, non permesse che le toccassero né guastassero, per esser questo costume di Tartari, che reputano gran peccato il movere alcuna cosa pertinente a' morti. Quivi si truovano molti elefanti, buoi salvatichi grandi e belli, cervi e daini, e ogni sorte d'animali in grand'abondanza.

Della provincia di Bangala.
Cap. 45.

La provincia di Bangala è posta ne' confini dell'India verso mezodí, la qual, al tempo che messer Marco Polo stava alla corte, il gran Can la sottomesse al suo imperio: e stette l'oste suo gran tempo all'assedio di quella, per esser potente il paese e il re, come di sopra si ha inteso. Ha lingua da per sé; quelle genti adorano gl'idoli, e hanno maestri che tengono scole e insegnano le idolatrie e incanti, e questa dottrina è molto universale a tutti i signori e baroni di quella regione. Hanno buoi di grandezza quasi come elefanti, ma non sono cosí grossi. Vivono di carne, latte e risi, de' quali ne hanno abondanza; il paese produce assai bambagio, e fanno molte mercanzie. Quivi nasce molto spigo, galanga, zenzero, zucchero e di molte altre speciarie, e molti Indiani vengono a comprar di quelle, e anco di eunuchi schiavi, che ne hanno in gran quantità, perchè quanti in guerra si prendono per quelle genti subito sono castrati, e tutti i signori e baroni ne vogliono di continuo aver alla custodia delle lor donne: e perciò i mercanti gli vengono a comprar, per portarli a vendere in diverse regioni con grandissimo guadagno. Dura questa provincia trenta giornate, in capo delle quali, andando verso levante, si truova una provincia detta Cangigú.

Della provincia di Cangigú.
Cap. 46.

Cangigú è una provincia verso levante, la qual ha un re, e quelle genti adorano gl'idoli e hanno lingua da sé, e si diedero al gran Can e ogn'anno li danno tributo. Il re di questa provincia è molto lussurioso, e ha forse trecento mogli, e ove sa che vi sia qualche bella donna, subito la fa venire e la piglia per moglie. Si truova oro in grandissima quantità e anco molte sorti di specie, ma per esser fra terra e molto discosto dal mare v'è poca vendita di quelle; sonvi molti elefanti e altre sorti di bestie. Vivono di carne, risi e latte; non hanno vino d'uve, ma lo fanno di riso con molte specie mescolate. Quelle genti, cosí uomini come donne, hanno tutto il corpo dipinto di diverse sorti d'animali e uccelli, perchè vi sono maestri che non fanno altr'arte se non con un'agucchia di designarle, o sopra il volto, mani, gambe e ventre, e vi mettono color negro, che mai per acqua over altro può levarsi via: e quella femina overo uomo che n'ha piú di dette figure è riputato piú bello.

Della provincia di Amú.
Cap.47.

Amú è una provincia verso levante, la qual è sotto il gran Can, le cui genti adorano gli idoli, e vivono di bestie e frutti della terra. Hanno lingua da per sé, e vi sono molti cavalli e buoni, che vendono a' mercanti e li conducono in India; hanno buffoli e buoi in gran quantità, per esservi grandissimi e buoni pascoli. Gli uomini e le donne portano alle mani e alle braccia manigli d'oro e d'argento, e similmente intorno alle gambe, ma quelli che portano le donne sono di maggior valuta. E sappiate che da questa provincia di Amú fino a quella di Cangigú vi sono venticinque giornate.
Or diremo d'un'altra provincia detta Tholoman, la qual è discosto da queste ben otto giornate.

Di Tholoman.
Cap. 48.

Tholoman è una provincia verso levante, le cui genti adorano gl'idoli. Hanno linguaggio da per sé; sono sottoposti al gran Can. Questi abitanti sono belli e grandi, e piú presto bruni che bianchi. Sono uomini giusti e valenti nell'arme, e molte città e castella sono in questa provincia sopra grandi e alti monti. Abbruciano i corpi de' loro morti, e l'ossa che non s'abbruciano mettono in cassette di legname e le portan alle montagne, e le mettono in alcune caverne e dirupi, acciò ch'animal alcuno non le possa andar a toccare. Quivi si truova oro in grand'abondanza, e si spendono porcellane che vengono d'India per moneta picciola, e cosí spendono le due provincie sopradette di Cangigú e Amú. Vivono di carne e risi e bevono vino di risi, com'è detto di sopra.

Delle città di Cintigui, Sidinfu, Gingui, Pazanfu.
Cap. 49.

Partendosi della provincia di Tholoman e andando verso levante, si camina dodici giornate sopra un fiume, atorno il quale vi sono molte città e castella, le qual finite si truova la bella e gran città di Cintigui, le cui genti adorano gl'idoli e sono sotto il dominio del gran Can. Vivono di mercanzie e arti; fanno drappi di scorzi d'alcune sorti d'arbori, che sono molto belli, e gli vestono nel tempo dell'estate, cosí uomini come donne. Gli uomini sono valenti nell'armi; non hanno altra sorte di moneta se non quella di carta della stampa del gran Can.
In questa provincia v'è tanta quantità di leoni che niun ardisce dormir la notte fuor della città per timor de' detti leoni, e quelli che navigano pel fiume non si metteriano a dormire con loro navilii appresso le ripe, perchè si sono trovati i leoni gettarsi all'acqua e nuotar alli navilii e tirar per forza fuori gli uomini; ma sorgeno nel mezo del fiume, ch'è molto largo, e cosí sono sicuri. Si ritruovan ancora in detta provincia i maggiori e piú feroci cani che si possano dire, e sono di tant'animo e possanza che un uomo con due cani ammazza un leone, perchè andando per camino con due de' detti cani, con l'arco e le saette, va sicuramente, e, se si truova il leone, li cani arditi gli vanno addosso, essendo incitati dall'uomo. E la natura del leone è di cercare qualch'arbore per appoggio, acciò che i cani non li possan andar da dietro, ma che tutti due li stiano in faccia; e però, veduti i cani e conoscendoli, se ne va passo passo né per alcun modo correria, per non voler parere ch'egli abbia paura, tanta è la sua superbia e altezza d'animo. E in questo andar di passo i cani lo vanno mordendo e l'uomo saettando, e ancor che 'l leone, sentendosi mordere da' cani, si volti verso loro, sono però tanto presti che sanno ritrarsi, e il leone torna alla via sua passeggiando, per modo che, avanti ch'egli abbia trovato appoggio, con le saette è tanto ferito e morsicato e sparto il sangue che indebolito cade: e a questo modo con i cani prendono il leone.
Fanno molta seta, della quale, portandosene fuor del paese, si fa di gran mercanzie, per via di questo fiume, qual si naviga per dodici giornate, sempre trovando città e castella. Adorano gl'idoli e sono sotto il dominio del gran Can; la sua moneta è di carta, e il loro vivere e mantenersi consiste in mercanzie; sono valenti nell'arme.
E in capo delle dodici giornate si truova la città di Sidinfu, della quale abbiamo trattato di sopra, e da Sidinfu per venti giornate si truova Gingui, e da Gingui per altre quattro giornate si truova la città di Pazanfu, la qual è verso mezodí, ed è della provincia del Cataio, ritornando per l'altra parte della provincia, le cui genti adorano gl'idoli e fanno abbruciare i corpi quando muoiono. Vi sono ancor certi cristiani, che hanno una chiesa, e sono sotto il dominio del gran Can, e spendono le monete di carta. Vivono di mercanzie e arti, e hanno seta in abondanza, e fanno panni d'oro e di seta e veli sottilissimi. Ha questa città molte città e castella sotto di sé; per quella passa un gran fiume, per il quale si porta gran mercanzie alla città di Cambalú, perchè con molti alvei e fosse lo fanno scorrere fino alla detta città.
Ma al presente partiremo di qui, e per tre giornate procedendo trattaremo d'una città detta Cianglú.

Della città di Cianglú.
Cap. 50.

Cianglú è una gran città verso mezodí, della provincia del Cataio, subdita al gran Can, le cui genti adorano gl'idoli e fanno abbruciare i corpi morti; spendono le monete di carta del gran Can. In questa città e distretto fanno grandissima quantità di sale, in questo modo: hanno una sorte di terra salmastra, della quale ne fanno gran monti e gettanli sopra dell'acqua, la quale, ricevuta la salsedine per virtú della terra, discorre di sotto, e raccolgonla per condotti, e dopo la mettono in padelle spaziose e larghe, non alte piú di quattro dita, facendola bollire molto bene; e poi ch'ell'ha bollito quanto li pare, congela in sale, ed è bello e bianco, e si porta fuori in molti paesi, e quelle genti ne fanno gran guadagno, e il gran Can ne riceve grand'entrata e utilità. Nascono in questa contrata persiche molto buone e saporite, e di tanta grandezza che pesano due libre l'una alla sottile.
Or, lasciando questa città, diremo d'un'altra detta Ciangli.

Della città di Ciangli.
Cap. 51.

Ciangli è una città nel Cataio verso mezodí, subdita al gran Can: sono idolatri e hanno la moneta di carta; ed è discosta da Cianglú per cinque giornate, nel camino delle quali si truovano molte città e castella soggette al gran Can, e sono molto mercantesche, delle quali il gran Can ne conseguisce grand'entrata. Passa per mezo della città di Ciangli un largo e profondo fiume, per il quale portano molte mercanzie di seta, specie e molte altre cose di grande valuta.

Or lasciaremo Ciangli, e narraremo d'un'altra città detta Tudinfu.

Della città di Tudinfu.
Cap. 52.

Quanto si parte da Ciangli, caminando verso mezodí sei giornate, di continuo si truovano città e castella di gran valore e nobiltà; e le genti adorano gl'idoli, abbruciano i loro corpi, sono soggetti al gran Can, e le loro monete sono di carta; vivono di mercanzie e arti e hanno abondanza di vettovaglie. E in capo di dette sei giornate si truova una città, qual fu già un regno nobile e grande, detto Tudinfu: ma il gran Can la soggiogò al suo dominio per forza d'armi. Ed è molto dilettevole per li giardini che vi sono intorno, che producono belli e buoni frutti. Fanno seta in grand'abondanza.
Ha sotto la sua iurisdizione undici città imperiali, cioè nobili e grandi, per esser città di gran traffichi di mercanzie e di gran copia di seta, e soleva avere re, avanti ch'ella fosse sottoposta al gran Can, qual nel 1272 mandò al governo della città e a guardia del paese un suo barone nominato Lucansor, capitano d'ottantamila cavalli. Costui, vedendosi con tanta gente e in cosí ricco e abondante paese, insuperbito, deliberò di ribellarsi al suo signore, e parlato ch'ebbe con li primi della detta città, li persuase ad assentire a questo suo mal volere, e col mezzo di detti fece ribellare tutti i popoli delle città e castella sottoposte a quella provincia. Il gran Can, inteso che ebbe questo tradimento, mandò subito due suoi baroni, de' quali un era chiamato Angul, l'altro Mongatai, con centomila persone. Lucansor, inteso ch'ebbe questo esercito che gli veniva contra, si sforzò di ragunare non minor numero delle genti de' sopradetti, e quanto piú presto fu possibile venne alle mani con loro. E con grande uccisione dell'una parte e l'altra, fu finalmente morto Lucansor, la qual cosa veduta dall'oste suo, si misero a fuggire. E seguitandoli i Tartari, molti ne furono morti e molti presi, quali menati alla presenza del gran Can, tutti i principali fece morire; a li altri perdonò e tolsegli alli servizii suoi, e sempre li furono fedeli.

Della città di Singuimatu.
Cap. 53.

Da Tudinfu caminando sette giornate verso mezodí, si trovan sempre città e castelli nobili e grandi, di molte mercanzie e arti; sono idolatri e sottoposti al gran Can, e hanno diverse cacciagioni di bestie e uccelli e abondanza di tutte le cose. E in capo di sette giornate si trova la città di Singuimatu, dentro della quale, dalla banda di mezodí, passa un fiume grande e profondo, qual dagli abitanti è stato diviso in due parti, una delle quali, che scorre alla volta di levante, tende verso il Cataio, e l'altra, che va verso ponente, alla provincia di Mangi. In questo fiume vi navigano tanto numero di navilii ch'è quasi incredibile, e si portano da queste due provincie, cioè dall'un'all'altra, tutte le cose necessarie, onde è cosa maravigliosa a vedere la moltitudine di navilii e la grandezza di quelli, che continuamente navigano carichi di tutte le mercanzie di grandissima valuta.
Or partendosi da Singuimatu e andando verso mezodí sedici giornate, continuamente si truovano città e castella, nelle qual vi sono gran mercanti: e tutte le genti di queste contrade sono idolatri, sottoposti al gran Can.

Del gran fiume detto Caramoran, e delle città di Coiganzu e Quanzu.
Cap. 54.

Compiute le dette sedici giornate, si truova di nuovo il gran fiume Caramoran, che discorre dalle terre del re Umcan, nominato di sopra il Prete Gianni di tramontana, qual è molto profondo che vi può andare liberamente navi grandi, con tutti i suoi carichi. Si pigliano in quello molti pesci grandi e in gran copia. In questo fiume, appresso il mare Oceano una giornata, si truovano da quindicimila navilii, che portano ciascuno di loro quindici cavalli e venti uomini, oltre la vettovaglia e li marinari che li governano: e questi tiene il gran Can, acciochè li siano apparecchiati per portar un esercito ad alcuna delle isole che sono nel mare Oceano quando si ribellassero, overo in qualche region remota e lontana. E dove detti navilii si servan, appresso la ripa del fiume, v'è una città detta Coiganzu, e dall'altra banda a riscontro di questa ve n'è un'altra detta Quanzu: ma una è grande e l'altra picciola. Passato detto fiume s'entra nella nobilissima provincia di Mangi.
E non crediate che abbiamo trattato per ordine di tutta la provincia del Cataio, anzi non ho detto la ventesima parte, però che messer Marco, passando per la detta provincia, non ha descritto se non quelle città che ha trovato sopra il camino, lasciando quelle che sono per i lati e per il mezo, perchè saria stato cosa troppo longa e rincrescevole. Però, lasciando il dire di questo, comincieremo a trattare prima dell'acquisto fatto della provincia di Mangi e sue città, la cui magnificenza e ricchezza mostrerassi nel seguente parlare.

Della nobilissima provincia di Mangi, e come il gran Can la soggiogò.
Cap. 55.

La provincia di Mangi è la piú nobile e piú ricca che si truova in tutt'il Levante. E nel 1269 v'era un signore detto Fanfur, il piú ricco e piú potente principe che si sapesse essere stato già centenara d'anni, ma era signor pacifico e uomo che faceva grandi elemosine, né credeva che signor del mondo li potesse nuocere, per l'amore che li portavano i popoli e per la fortezza del paese, circondato da grandissimi fiumi: dal che processe che 'l detto non s'esercitò nelle armi, né manco volse che li suoi popoli vi s'esercitassero. Le città del suo regno erano fortissime, perchè ciascuna avea intorno una fossa profonda e larga quanto poteva tirare un arco, piena d'acqua, né teneva cavalli a suo soldo, non avendo paura di alcuno. Né ad altro era rivolto l'animo del re e tutti i suoi pensieri, se non a darsi buon tempo e star di continuo in piaceri: avea nella sua corte e a' suoi servizii circa mille bellissime giovani, con le quali si vivea in grandissime delizie. Amava la pace e manteneva la giustizia severamente, e non voleva che ad alcuno fosse fatto un minimo torto, né che alcuno offendesse il prossimo, perchè il re li faceva punire senz'alcun riguardo. Ed era tanta la fama della sua giustizia, che alcune fiate le persone si domenticavano le loro botteghe aperte piene di mercanzie, e nondimeno non v'era alcuno che ardisse d'intrarli dentro o levarli alcuna cosa. Tutti i viandanti di giorno e di notte potevano andare liberi e sicuramente per tutto il regno, senza paura d'alcuno. Era pietoso e misericordioso verso poveri e bisognosi: ogni anno faceva raccogliere ventimila bambini che dalle madri povere erano esposti, per non poterli far le spese, e questi fanciulli faceva allevare, e come erano grandi li faceva mettere a far qualche arte, overo li maritava con le fanciulle che similmente avea fatto allevare.
Or Cublai Can signor de' Tartari di contraria natura era del re Fanfur, perchè di niuna altra cosa si dilettava che di guerre e conquistar paesi e farsi gran signore. Costui, dopo grandissimi conquisti di molte provincie e regni, deliberò di conquistar la provincia di Mangi e, messo insieme gran sforzo di genti da cavallo e da piedi, sí che era un potente esercito, vi fece capitano uno nominato Chinsambaian, che vuol dire in lingua nostra Cento Occhi e quello con le genti mandò con molte navi nella provincia di Mangi. Dove giunto, fece richiedere gli abitatori della città di Coiganzu che volessero dare obedienza al suo re, la qual cosa recusorno di fare; poi, senza far assalto alcuno, processe alla seconda città, la qual similmente denegò d'arrendersi, e partitosi andò alla terza, alla quarta, e da tutte ebbe la medesima risposta. E non volendo lasciarsi adietro tante città, ancor ch'egli avesse un fortissimo esercito, e che il gran Can li mandasse un altro per terra di non minor numero e fortezza, deliberò d'espugnarne una, e quivi con tutt'il suo potere e sapere la prese, facendo uccidere quanti in quella si trovorno: la qual cosa udita da tutte l'altre fu di tanto spavento e terrore che spontaneamente tutte vennero alla obedienza sua. E dopo se n'andò con tutti due gli eserciti che avea sotto la real città di Quinsai, nella qual trovandosi il re Fanfur tutto spauroso e tremante, come quello che mai non avea veduto combattere né stato in guerra alcuna, dubitando della sua persona, montò sopra le navi che erano state preparate per questo effetto, con tutto il suo tesoro e robbe sue, lasciando la guardia della città alla moglie, con ordine che si difendesse al meglio che potesse, perchè, essendo femina, non avea da dubitare che, capitando nelle mani de' nemici, la facessero morire; e partito andossene per il mare Oceano ad alcune sue isole dove erano luoghi fortissimi, e quivi finí la sua vita.
Or, lasciata la moglie in questo modo, si dice che 'l re Fanfur era stato admonito da' suoi astrologhi che non li poteva esser tolta la signoria, salvo da un capitano che avesse cento occhi: la qual cosa sapendo la regina, essendo ogni giorno piú stretta la città, stava pur con speranza di non poterla perdere, parendoli impossibile che un uomo avesse cento occhi. E un giorno, volendo sapere come avea nome il capitano nemico, le fu detto Chinsambaian, cioè Cent'Occhi: il qual nome la impaurí e mise gran terrore, pensando costui dover esser quello che gli astrologhi aveano detto al re che 'l cacciaria di signoria; però, come femina piena di paura, senza pensarvi piú sopra si rese. Avuta la città di Quinsai da' Tartari, subito tutto il resto della provincia venne in suo potere, e fu mandata la regina alla presenza di Cublai Can, e da quello fu ricevuta onorevolmente, qual li fece dar di continuo tanti denari che si mantenne di continuo come regina.
Or che abbiam detto del conquistar della provincia di Mangi, diremo delle città che sono in quella, e prima di Coiganzu.

Della città di Coiganzu.
Cap. 56.

Coiganzu è una città molto bella e ricca, posta verso scirocco e levante nell'entrare nella provincia di Mangi, dove si truovano di continuo grandissime quantità di navilii, per essere (come di sopra abbiamo detto) sopra il fiume Caramoran. Portansi a questa città molte mercanzie, le quali mandano per detto fiume a diverse altre città. Fassi quivi tanta quantità di sale che, oltre l'uso suo, ne mandano a molte altre città: del qual sale il gran Can ne conseguisce grande utilità.

Della città di Paughin.
Cap. 57.

Or, partendosi da Coiganzu, si camina verso scirocco una giornata per un terraglio che è nell'entrar di Mangi, fatto di belle pietre, e appresso questo terraglio da un lato e dall'altro vi sono paludi grandissime con acqua profonda, per la quale si può navigare: né per altra strada si può entrare in detta provincia se non per questo terraglio, salvo se non vi s'entrasse con navi, come fece il capitano del gran Can, che vi smontò con tutto l'esercito. In capo di detta giornata si truova una città detta Paughin, grande e bella. Le genti adorano gl'idoli, e abbruciano i corpi morti; hanno moneta di carta e sono sotto il gran Can. Vivono di mercanzie e arti: hanno seta assai e fanno panno d'oro e di seta in quantità, ed è abondante di tutte le cose da vivere.

Della città di Caim.
Cap. 58.

Quando si parte dalla città di Paughin si va una giornata per scirocco, e trovasi una città detta Caim, grande e nobile. Le genti adorano gl'idoli, spendono moneta di carta e sono sott'il gran Can. Vivono di mercanzie e d'arti, e hanno abondanza di pesci e cacciagioni di animali salvatichi e d'uccelli, e li fagiani vi sono in tanta copia che, per tanto argento quanto è un grosso veneziano, si ha tre buoni fagiani, i quali sono grossi come pavoni.

Della città di Tingui e Cingui.
Cap. 59.

Partendosi dalla detta città e cavalcando per una giornata, sempre si truova casali e terre lavorate, e dopo una città detta Tingui, la quale non è molto grande, ma abondante di tutti i beni necessarii al vivere umano. Sono idolatri e sottoposti al gran Can, e spendono moneta di carta; sono mercanti, e hanno gran copia di navilii, animali assai e uccelli. La qual città tende verso scirocco, e dalla sinistra parte verso levante, per tre giornate alla longa, si truova il mare Oceano: e in tutto quel spazio vi sono molte saline, e fassi gran copia di sale. Poi si truova una gran città detta Cingui, la qual è nobile e grande, e di questa città si cava grandissima quantità di sale, e fornisce tutte le provincie vicine, e il gran Can ne cava grandissima utilità e tributo, che a pena si potria credere. Adorano gl'idoli e hanno moneta di carta, e sono sotto il dominio del gran Can.

Della città di Iangui, che governò messer Marco Polo.
Cap. 60.

Caminando per scirocco da Cingui si truova la nobil città di Iangui, la qual è nobile e ha sotto di sé ventisette città, e per questo è potentissima, ed è sottoposta al gran Can. E in questa città fa residenzia uno de' dodici baroni avanti nominati, che sono governatori delle provincie, eletti per il gran Can. Sono idolatri, e vivono di mercanzie e d'arti: fannosi quivi molte armi e arnesi da battaglia, però che per quelle contrade v'abitano genti d'arme assai. E messer Marco Polo, di commissione del gran Can, n'ebbe il governo tre anni continui, in luogo d'un de' detti baroni.

Della provincia di Nanghin.
Cap. 61.

Nanghin è una provincia verso ponente, ed è di quelle di Mangi, molto nobile e grande. Sono idolatri e spendono moneta di carta, ed è luogo di gran mercanzie. Hanno seta, e lavorano panni d'oro e di seta in gran quantità e di molte maniere; abondantissima di tutte le biade e d'animali cosí domestici come salvatici e d'uccelli; sono ricchi mercanti, e per questo è utilissima provincia al signore, massime per le gabelle delle mercanzie.
Or trattaremo della nobil città di Saianfu.

Della città di Saianfu, che fu espugnata per messer Nicolò e messer Maffio Polo.
Cap. 62.

Saianfu è una nobile e gran città nella provincia di Mangi, alla cui iurisdizione rispondono dodici città ricche e grandi. Ivi si fanno molte mercanzie e arti, e abbruciano i loro corpi; spendono moneta di carta, e sono idolatri, sotto l'imperio del gran Can. E hanno gran quantità di seta, e fassene de' bellissimi panni, e similmente d'oro; hanno belle caccie, e da uccellare in gran copia. Ed è dotata di tutte le cose che s'appartengano ad una nobil città, la qual per la sua potenza si tenne anni tre che non si volse rendere al gran Can, dopo ch'egli ebbe acquistata la provincia di Mangi. E la causa era questa, che non si poteva approssimar l'esercito alla città se non dalla banda di tramontana, perchè dall'altre parte vi erano laghi grandissimi, d'onde si portavano alla città vettovaglie di continuo, né si poteva vietar: la qual cosa essendo riferita al gran Can, ne pigliava un estremo dispiacere, che tutta la provincia di Mangi fosse venuta alla sua obedienza e che questa sola stesse in questa ostinazione.
Il che venuto ad orecchie di messer Nicolò e di messer Maffio fratelli, che si truovavano in corte del gran Can, andorno subito a quello e si profersero di far fare mangani al modo di Ponente, con li quali gettariano pietre di trecento libre che ammazzariano gli uomini e ruinariano le case. Questo ricordo piacque al gran Can ed ebbelo molto caro, e subito ordinò che li fossero dati fabri eccellenti e maestri di legnami, de' quali n'erano alcuni cristiani nestorini, che sapevano benissimo lavorare. Costoro in pochi giorni fabricorno tre mangani, secondo che li detti fratelli gli ordinavano, quali furno provati in presenza del gran Can e di tutta la corte, che li viddero tirare pietre di trecento libre di peso l'una. E subito, posti in nave, furno mandati all'esercito, dove, drizzati dinanzi la città di Saianfu, la prima pietra che tirò il mangano cadde con tanto fracasso sopra una casa che gran parte di quella si ruppe e cadette a terra: la qual cosa impaurí talmente tutti gli abitatori, che pareva che le saette venissero dal cielo, che deliberorno di rendersi, e cosí, mandati ambasciatori, si dettono con li medesimi patti e condizioni con le quali s'era resa tutta la provincia di Mangi. Questa espedizione fatta cosí presta crebbe la reputazione e credito a questi due fratelli veneziani appresso il gran Can e tutta la corte.

Della città di Singui, e del grandissimo fiume detto Quian.
Cap. 63.

Quando si parte dalla città di Saianfu e si va oltre quindici miglia verso sirocco, si truova la città di Singui, la quale non è molto grande, ma molto buona per le mercanzie. Ha grandissima quantità di navi, per esser fabricata appresso il maggior fiume che sia in tutto il mondo, nominato Quian, qual è di larghezza in alcuni luoghi dieci miglia, in altri otto e sei, e per longhezza, fino dove mette capo nel mare Oceano, sono da cento e piú giornate. In detto fiume entrano infiniti altri fiumi che discorrono d'altre regioni, tutti navigabili, che 'l fa esser cosí grosso, e sopra quello infinite città e castella: e vi sono oltra dugento città e provincie sedici che participano sopra di quello, per il quale corrono tante mercanzie d'ogni sorte che è quasi incredibile a chi non l'avesse vedute. Ma, avendo sí longo corso, dove riceve (come abbiamo detto) tanto numero di fiumi navigabili, non è maraviglia se la mercanzia che per quello corre da ogni banda di tante città è innumerabile e di gran ricchezza, e la maggior che sia è il sale, qual navigandosi per quello e per gli altri fiumi, forniscono le città che vi sono sopra e quelle che sono fra terra. Messer Marco vidde una volta che fu a questa città di Singui da cinquemila navi, e nondimeno le altre città che sono appresso detto fiume ne hanno in maggior numero. Tutte dette navi sono coperte, e hanno un arbore con una vela, e il cargo che porta la nave per la maggior parte è di quattromila cantari, e fino a dodici che alcune ne portano, intendendo il cantaro al modo di Venezia. Non usano corde di canevo se non per l'arbore della nave, per la vela, ma hanno canne longhe da quindici passa, come abbiamo detto di sopra, le quali sfendono da un capo all'altro in molti pezzi sottili, e poi le piegano insieme e fanno di quelle tortizze longhe trecento passa, non meno forti che le tortizze di canevo, tanto sono con gran diligenza fatte. Con queste in luogo d'alzana si tirano su per il fiume le navi, e ciascuna ha dieci o dodici cavalli per far questo effetto di tirarle all'incontro dell'acqua, e anco a seconda. Sono sopra questo fiume, in molti luoghi, colline e monticelli sassosi, sopra i quali sono edificati monasterii d'idoli e altre stanzie, e di continuo si truovano villaggi e luoghi abitati.

Della città di Cayngui.
Cap. 64.

Cayngui è una città picciola appresso il sopradetto fiume verso la parte di scirocco, dove ogn'anno si raccoglie grandissima quantità di biade e risi, e portasi la maggior parte alla città di Cambalú per fornir la corte del gran Can, perciochè passano da questa città alla provincia del Cataio per fiumi e per lagune, e per una fossa profonda e larga, che il gran Can ha fatto fare acciochè le navi abbino il transito da un fiume all'altro, e che dalla provincia di Mangi si possa andar per acqua fino in Cambalú senza andar per mare: la qual opera è stata mirabile e bella per il sito e longhezza di quella, ma molto piú per la grande utilità che ricevono dette città. Vi ha fatto similmente far appresso dette acque terragli grandi e larghi, acciochè vi si possa andar anco per terra commodatamente. Nel mezo del detto fiume, per mezo la città di Cayngui, v'è un'isola tutta di roca, sopra la quale è edificato un gran tempio e monasterio, dove sono dugento a modo di monachi che servono agl'idoli: e questo è il capo e principale di molti altri tempii e monasterii.
Or parleremo della città di Cianghianfu.

Della città di Cianghianfu.
Cap. 65.

Cianghianfu è una città nella provincia di Mangi, e li popoli sono tutti idolatri e sottoposti alla signoria del gran Can. Spendono moneta di carta, e vivono di mercanzie e arti, e sono molto ricchi. Lavorano panni d'oro e di seta; ed è paese dilettevole da cacciare ogni sorte di salvaticine e uccelli, ed è abondante di vettovaglie. Sono in questa città due chiese di cristiani nestorini, le quali furono fabricate nel 1274, quando il gran Can mandò per governatore di questa città per tre anni Marsachis, ch'era cristiano nestorino: e costui fu quello che le fece edificare, e da quel tempo in qua vi sono, che per avanti non v'erano.
Or, lasciando questa città, diremo della città di Tinguigui.

Della città di Tinguigui.
Cap. 66.

Partendosi da Cianghianfu e cavalcando per scirocco tre giornate, si truovano città assai e castella, e tutti sono idolatri, e vivono di arti e anco mercanzie; sono sotto il gran Can, e spendono moneta di carta. In capo di dette tre giornate si truova la città di Tinguigui, ch'è bella e grande, e produce quantità di seta, e fanno panni d'oro e di seta di piú maniere e molto belli, ed è molto abondante di vettovaglie, ed è paese molto dilettevole di caccie e d'uccellare. Gli abitanti sono pessima gente e di mala natura. Nel tempo che Chinsanbaiam, cioè Cento Occhi, soggiogò il paese del Mangi, mandò all'acquisto di questa città di Tinguigui alcuni cristiani alani con parte della sua gente, quali, appresentatisi, senza contrasto entrorno dentro. Avea la città due circuiti di mura, e gli Alani, entrati nel primo, vi trovorno grandissima quantità di vini; e avendo patito grande incommodità e disagio, disiderosi di cavarsi la sete, senz'alcun rispetto si misero a bere, di tal maniera che inebriati s'addormentorno. I cittadini, ch'erano nel secondo circuito, veduti tutti i nemici addormentati e distesi in terra, si misero ad ucciderli, di modo che niuno vi campò. Inteso Chinsambaian la morte delle sue genti, acceso di grandissima ira e sdegno, di nuovo mandò esercito all'espugnazione della città, la qual presa, fece ugualmente andar per fil di spada tutti gli abitanti, grandi e piccioli, cosí uomini come femine.

Della città di Singui e Vagiu.
Cap. 67.

Singui è una grande e nobile città, la qual gira d'intorno da venti miglia. Sono tutti idolatri e sottoposti al gran Can; spendono moneta di carta, e hanno gran quantità di seta e ne fanno panni, perchè tutti vanno vestiti di seta, e anco ne vendono. Vi sono mercanti ricchissimi, e tanta moltitudine di gente che è cosa mirabile. Sono uomini pusillanimi, e non sanno far altro che mercanzie e arti, ma in quelle dimostrano grande ingegno, conciosiacosachè, se fossero audaci e virili e atti alle battaglie, con la gran moltitudine che sono conquistarebbono tutta quella provincia e molto piú oltre. Hanno molti medici, e quelli eccellenti, che sanno conoscere le infirmità e darli i debiti rimedii, e alcuni che chiamano savii, come appresso di noi filosofi, e altri detti maghi e indovini. Sopra li monti vicini a questa città vi nasce il reobarbaro in somma perfezione, che va per tutta la provincia; vi nasce anco in quantità il gengevo, e v'è tanto buon mercato che quaranta libre di fresco si può aver per tanta moneta che vagli un grosso d'argento veneziano. Sono sotto la giurisdizione di Singui da sedici buone città, e ricche di gran mercanzie e arti. E Singui vuol dire città di terra, come all'incontro Quinsai città del cielo.
Or, partendosi da Singui, si truova un'altra città di Vagiu, lontana una giornata, dove è similmente abondanza di seta, e vi sono molti mercanti e artefici: e quivi lavorano tele sottilissime e di diverse sorti, e vengono condotte per tutta la provincia. Né altro essendovi degno di memoria, trattaremo della maestra e principale città della provincia di Mangi, nominata Quinsai.

Della nobile e magnifica città di Quinsai.
Cap. 68.

Partendosi da Vagiu, si cavalca tre giornate, di continuo trovando città, castelli e villaggi, tutti abitati e ricchi. Le genti sono idolatre e sotto la signoria del gran Can. Dopo tre giornate si truova la nobile e magnifica città di Quinsai, che per l'eccellenza, nobiltà e bellezza è stata chiamata con questo nome, che vuol dire città del cielo, perchè al mondo non vi è una simile, né dove si truovino tanti piaceri, e che l'uomo si reputi essere in paradiso. In questa città messer Marco Polo vi fu assai volte e volse con gran diligenzia considerare e intender tutte le condizion di quella, descrivendola sopra i suoi memoriali, come qui di sotto si dirà con brevità.
Questa città, per commune opinione, ha di circuito cento miglia, perchè le strade e canali di quella sono molto larghi e ampli; poi vi sono piazze dove fanno mercato, che per la grandissima moltitudine che vi concorre è necessario che siano grandissime e amplissime. Ed è situata in questo modo, che ha da una banda un lago di acqua dolce, qual è chiarissimo, e dall'altra v'è un fiume grossissimo, qual, entrando per molti canali grandi e piccioli che discorrono in ciascuna parte della città, e leva via tutte le immondizie e poi entra in detto lago e da quello scorre fino all'oceano, il che causa bonissimo aere: e per tutta la città si può andar per terra e per questi rivi. E le strade e canali sono larghi e grandi, che commodamente vi possono passar barche e carri a portar le cose necessarie agli abitanti. Ed è fama che vi siano dodicimila ponti, fra grandi e piccioli: ma quelli che sono fatti sopra i canali maestri e la strada principale sono stati voltati tanto alti e con tanto magisterio che una nave vi può passare di sotto senz'albero; e nondimeno vi passano sopra carrette e cavalli, talmente sono accommodate piane le strade con l'altezza. E se non vi fossero in tanto numero non si potria andar da un luogo all'altro.
Dall'altro canto della città v'è una fossa, longa forse quaranta miglia, che la serra da quella banda, ed è molto larga e piena d'acqua, che viene dal detto fiume; la qual fu fatta far per quelli re antichi di quella provincia, per poter derivar il fiume in quella ogni fiata che 'l cresce sopra le rive, e serve anco per fortezza della città; e la terra cavata fu posta dentro, che fa la similitudine di picciol colle che la circonda. Ivi sono dieci piazze principali, oltre infinite altre per le contrade, che sono quadre, cioè mezo miglio per lato. E dalla parte davanti di quelle v'è una strada principale, larga quaranta passa, che corre dritta da un capo all'altro della città, con molti ponti che la traversano, piani e commodi; e ogni quattro miglia si truova una di queste tal piazze, che hanno di circuito (com'è detto) due miglia. V'è similmente un canale larghissimo, che corre all'incontro di detta strada dalla parte di dietro delle dette piazze, sopra la riva vicina del quale vi sono fabricate case grandi di pietra, dove ripongono tutti i mercanti che vengono d'India e d'altre parti le sue robbe e mercanzie, acciò che le siano vicine e commode alle piazze. E in ciascuna di dette piazze, tre giorni alla settimana, vi è concorso di quaranta in cinquantamila persone, che vengono al mercato e portano tutto ciò che si possi desiderare al vivere, perchè sempre v'è copia grande d'ogni sorte di vittuarie, di salvaticine, cioè caprioli, cervi, daini, lepri, conigli, e d'uccelli, pernici, fagiani, francolini, coturnici, galline, capponi, e tante anitre e oche che non si potriano dir piú, perchè se ne allevano tante in quel lago che per un grosso d'argento veneziano se ha un paro d'oche e due para d'anitre. Vi sono poi le beccarie, dove ammazzano gli animali grossi, come vitelli, buoi, capretti e agnelli, le qual carni mangiano gli uomini ricchi e gran maestri; ma gli altri che sono di bassa condizione non s'astengono da tutte l'altre sorti di carni immonde, senza avervi alcun rispetto. Vi sono di continuo sopra le dette piazze tutte le sorti d'erbe e frutti, e sopra tutti gli altri peri grandissimi, che pesano dieci libre l'uno, quali sono di dentro bianchi come una pasta e odoratissimi; persiche alli suoi tempi gialle e bianche, molto delicate. Uva né vino non vi nasce, ma ne viene condotto d'altrove di secca, molto buona, e similmente del vino, del quale gli abitanti non si fanno troppo conto, essendo avezzi a quel di riso e di specie. Vien condotto poi dal mare Oceano ogni giorno gran quantità di pesce all'incontro del fiume per il spazio di venticinque miglia, e v'è copia anco di quel del lago, che tutt'ora vi sono pescatori che non fanno altro, qual è di diverse sorti, secondo le stagioni dell'anno, e per le immondizie che vengono dalla città è grasso e saporito, che chi vede la quantità del detto pesce non penseria mai che 'l si dovesse vendere; e nondimeno in poche ore vien tutto levato via, tanta è la moltitudine degli abitanti avezzi a vivere delicatamente, perchè mangiano e pesce e carne in un medesimo convito.
Tutte le dette dieci piazze sono circondate di case alte, e di sotto vi sono botteghe dove si lavorano ogni sorte d'arti e si vende ogni sorte di mercanzie e speciarie, gioie, perle; e in alcune botteghe non si vende altro che vino fatto di risi con speciarie, perchè di continuo lo vanno facendo di fresco in fresco, ed è buon mercato. Vi sono molte strade che rispondono sopra dette piazze, in alcune delle quali vi sono molti bagni d'acqua fredda, accommodati con molti servitori e servitrici, che attendono a lavare e uomini e donne che vi vanno, perciochè da piccioli sono usati a lavarsi in acqua fredda d'ogni tempo, la qual cosa dicono essere molto a proposito della sanità. Tengono ancora in detti bagni alcune camere con l'acqua calda per forestieri, che non potriano patire la fredda, non essendovi avezzi. Ogni giorno hanno usanza di lavarsi, e non mangiariano se non fossero lavati.
In altre strade stanziano le donne da partito, che sono in tanto numero che non ardisco a dirlo, e non solamente appresso le piazze, dove sono ordinariamente i luoghi loro deputati, ma per tutta la città; le qual stanno molto pomposamente, con grandi odori e con molte serve e le case tutte adornate. Queste donne sono molto valenti e pratiche in sapere far lusinghe e carezze, con parole pronte e accommodate a ciascuna sorte di persone, di maniera che i forestieri che le gustano una volta rimangono come fuor di sé, e tanto sono presi dalla dolcezza e piacevolezza loro che mai se le possono domenticare: e da qui adviene che, come ritornano a casa, dicono esser stati in Quinsai, cioè nella città del cielo, e non veggono mai l'ora che di nuovo possano ritornarvi. In altre strade vi stanziano tutti li medici, astrologhi, quali anco insegnano a leggere e scrivere e infinite altre arti. Hanno li loro luoghi atorno atorno dette piazze, sopra ciascuna delle quali vi sono due palagi grandi, un da un capo e l'altro dall'altro, dove stanziano i signori deputati per il re, che fanno ragione immediate se accade alcuna differenza fra li mercanti, e similmente fra alcuni degli abitanti in quelli contorni. Detti signori hanno carico d'intendere ogni giorno se le guardie che si fanno ne' ponti vicini (come di sotto si dirà) vi siano state overo abbino mancato, e le puniscono come a loro pare.
Al lungo la strada principale, che abbiamo detto che corre da un capo all'altro della città, vi sono da una banda e dall'altra case e palagi grandissimi con li loro giardini, e appresso case d'artefici che lavorano nelle sue botteghe. E a tutte l'ore s'incontrano genti che vanno su e giú per le sue facende, che li accade che a vedere tanta moltitudine ognun crederia che non fosse possibile che si trovasse vittuarie a bastanza di poterla pascere: e nondimeno in ogni giorno di mercato tutte le dette piazze sono coperte e ripiene di genti e mercanti, che le portano e sopra carri e sopra navi, e tutta si spaccia. E per dire una similitudine del pevere che si consuma in questa città, acciochè da questa si possa considerare la quantità delle vittuarie, carni, vini, speciarie, che alle spese universale che si fanno si ricerchino, messer Marco sentí far il conto, da un di quelli che attendono alle dogane del gran Can, che nella città di Quinsai, per uso di quella, si consumava ogni giorno quarantatre some di pevere: e ciascuna soma è libre dugento e ventitre.
Gli abitatori di questa città sono idolatri, e spendono moneta di carta; e cosí gli uomini come le donne sono bianchi e belli, e vestono di continuo la maggior parte di seta, per la grand'abondanza che hanno di quella, che nasce in tutt'il territorio di Quinsai, oltre la gran quantità che di continuo per mercanti vien portata d'altre provincie. Vi sono dodici arti che sono reputate le principali che abbino maggior corso dell'altre, ciascuna delle quali ha mille botteghe, e in ciascuna bottega overo stanza vi dimorano dieci, quindici e venti lavoranti, e in alcune fino a quaranta, sotto il suo patrone overo maestro. Li ricchi e principal capi di dette botteghe non fanno opera alcuna con le loro mani, ma stanno civilmente e con gran pompa. Il medesimo fanno le loro donne e mogli, che sono bellissime, com'è detto, e allevate morbidamente e con gran delicatezze, e vestono con tanti adornamenti di seta e di gioie che non si potria stimare la valuta di quelle. E ancor che per li re antichi fosse ordinato per legge che ciascun abitante fosse obligato ad esercitare l'arte del padre, nondimeno, come diventino ricchi, gli è permesso di non lavorar piú con le proprie mani, ma ben erano obligati di tenere la bottega, e uomini che v'esercitassino l'arte paterna. Hanno le loro case molto ben composte e riccamente lavorate, e tanto si dilettano negli ornamenti, pitture e fabriche, che è cosa stupenda la gran spesa che vi fanno.
Gli abitanti naturali della città di Quinsai sono uomini pacifici, per esser stati cosí allevati e avezzi dalli loro re, ch'erano della medesima natura. Non sanno maneggiar armi, né quelle tengono in casa; mai fra loro s'ode o sente lite overo differenzia alcuna. Fanno le loro mercanzie e arti con gran realtà e verità; si amano l'un l'altro, di sorte ch'una contrada, per l'amorevolezza ch'è fra gli uomini e le donne per causa della vicinanza, si può riputare una casa sola, tanta è la domestichezza ch'è fra loro, senz'alcuna gelosia o sospetto delle lor donne, alle quali hanno grandissimo rispetto: e saria reputato molto infame uno che osasse dir parole inoneste ad alcuna maritata. Amano similmente i forestieri che vengono a loro per causa di mercanzie e gli accettano volentieri in casa, facendoli carezze, e li danno ogni aiuto e consiglio nelle facende che fanno. All'incontro non vogliono veder soldati né quelli delle guardie del gran Can, parendoli che per la loro causa siano stati privati de' loro naturali re e signori.
D'intorno di questo lago vi sono fabricati bellissimi edificii e gran palagi, dentro e di fuori mirabilmente adorni, che sono di gentiluomini e gran maestri; vi sono anco molti tempii degl'idoli con li loro monasterii, dove stanno gran numero di monachi che li servono. Sono ancora in mezo di questo lago due isole, sopra ciascuna delle quali v'è fabricato un palagio, con tante camere e loggie che non si potria credere: e quando alcuno vuol celebrar nozze, overo far qualche solenne convito, va ad uno di questi palagi, dove gli vien dato tutto quello che per questo effetto gli è necessario, cioè vasellami, tovaglie, mantili e ciascun'altra cosa, le qual sono tenute tutte in detti palagi per il commune di detta città a quest'effetto, perchè furono fabricati da quello. E alle volte vi saranno cento, che alcuni voranno far conviti e altri nozze: e nondimeno tutti saranno accommodati in diverse camere e loggie, con tanto ordine che uno non dà impedimento agli altri. Oltre di questo si ritruovano in detto lago legni overo barche in gran numero grandi e picciole per andar a solazzo e darsi piacere, e in queste vi ponno stare dieci, quindici e venti e piú persone, perchè sono longhe quindici fino a venti passa, con fondo largo e piano, che navigano senza declinare ad alcuna banda; e ciascuno che si diletta di solazzarsi con donne overo con suoi compagni piglia una di queste tal barche, le qual di continuo sono tenute adorne con belle sedie e tavole e con tutti gli altri paramenti necessarii a far un convito; di sopra sono coperte e piane, dove stanno uomini con stanghe qual ficcano in terra (perchè detto lago non è alto piú di due passa), e conducono dette barche dove gli vien comandato. La coperta della parte di dentro è dipinta di varii colori e figure, e similmente tutta la barca, e vi sono a torno a torno finestre che si possono serrare e aprire, acciochè quelli che stanno a mangiar sentati dalle bande possino riguardare di qua e di là, e dare dilettazione agli occhi per la varietà e bellezza de' luoghi dove vengono condotti. E veramente l'andare per questo lago dà maggior consolazione e solazzo che alcun'altra cosa che aver si possa in terra, perchè 'l giace da un lato a longo della città, di modo che di lontano, stando in dette barche, si vede tutta la grandezza e bellezza di quella, tanti sono i palagi, tempii, monasterii, giardini con alberi altissimi posti sopra l'acqua. E si truovano di continuo in detto lago simil barche con genti che vanno a solazzo, perchè gli abitatori di questa città non pensano mai ad altro se non che, fatti che hanno i loro mestieri overo mercanzie, con le loro donne overo con quelle da partito dispensano una parte del giorno in darsi piacere, o in dette barche overo in carrette per la città, delle qual è necessario che ne parliamo alquanto, per esser un de' piaceri che gli abitanti pigliano per la città, al medesimo modo che fanno con le barche per il lago.
E prima è da sapere che tutte le strade di Quinsai sono saleggiate di pietre e di mattoni, e similmente sono saleggiate tutte le vie e strade che corrono per ogni canto della provincia di Mangi, sí che si può andare per tutti i paesi di quella senza imbrattarsi i piedi. Ma perchè i corrieri del gran Can con prestezza non potriano con cavalli correre sopra le strade saleggiate, però è lasciata una parte di strada dalla banda senza saleggiare, per causa di detti corrieri. La strada veramente principale, che abbiamo detto di sopra che corre da un capo all'altro della città, è saleggiata similmente di pietre e di mattoni dieci passa per ciascuna banda, ma nel mezo è tutta ripiena d'una giara picciola e minuta, con li suoi condotti in volto che conducono le acque che piovono ne' canali vicini, di sorte che di continuo sta asciutta. Or sopra questa strada di continuo si veggono andar su e giú alcune carrette longhe, coperte e acconcie con panni e cussini di seta, sopra le quali vi possono stare sei persone, e vengono tolte ogni giorno da uomini e donne che vogliono andar a solazzo: e si veggono tutt'ora infinite di queste carrette andar a longo di detta strada pel mezo di quella, e se ne vanno a' giardini, dove vengono accettati dagli ortolani sotto alcune ombre fatte per questo effetto, e quivi stanno a darsi buon tempo tutto il giorno con le lor donne, e poi la sera se ne ritornano a casa sopra dette carrette.
Hanno un costume gli abitatori di Quinsai, che come nasce un fanciullo il padre o la madre fa subito scriver il giorno e l'ora e il punto del suo nascere, e si fanno dire agli astrologhi sotto qual segno egli è nato, e il tutto scrivono: e come egli è venuto grande volendo far mercanzia, viaggio o nozze, se ne va all'astrologo con la nota sopradetta, qual, veduto e considerato il tutto, dice alcune volte cose che, trovate esser vere, le genti li danno grandissima fede. E di questi tal astrologhi overo maghi ve n'è grandissimo numero sopra ciascuna piazza; non si celebraria sponsalizio se l'astrologo non li dicesse il parer suo.
Hanno similmente per usanza che, quando alcun gran maestro ricco muore, tutti i suoi parenti si vestono di canevaccio, cosí uomini come donne, andandolo accompagnare fino al luogo dove lo vogliono abbruciare, e portano seco diverse sorti d'instrumenti, con li qual vanno sonando e cantando in alta voce orazioni agl'idoli; e giunti al detto luogo gettano sopra il fuoco molte carte bombagine, dove hanno dipinti schiavi, schiave, cavalli, camelli, drappi d'oro e di seta e monete d'oro e d'argento, perchè dicono che 'l morto possederà nell'altro mondo tutte queste cose vive di carne e d'ossa, e averà denari, drappi d'oro e di seta. E compiuto d'abbruciare suonano ad un tratto con grand'allegrezza tutti li stromenti di continuo cantando, perchè dicono che con tal onore li loro idoli ricevono l'anima di quello che s'è abbruciato, e ch'egli, rinasciuto nell'altro mondo, comincia una vita di nuovo.
In questa città in ciascuna contrata vi sono fabricate torri di pietra, nelle qual, in caso che s'appiccia fuoco in qualche casa (il che spesso suol accadere, per esservene molte di legno), le genti scampano le loro robbe in quelle. E ancor è ordinato per il gran Can che sopra la maggior parte de' ponti vi stiano notte e giorno sott'un coperto dieci guardiani, cioè cinque la notte e cinque il giorno, e in ciascuna guardia v'è un tabernacolo grande di legno con un bacino grande e un oriuolo, con il quale conoscono l'ore della notte e cosí quelle del giorno. E sempre al principio della notte, com'è passata un'ora, un de' detti guardiani percuote una volta nel tabernacolo e nel bacino, e la contrata sente ch'egli è un'ora; alla seconda danno due botte, e il simil fanno in ciascun'ora moltiplicando i colpi, e non dormono mai, ma stanno sempre vigilanti. La mattina poi al spontare del sole cominciano a battere un'ora come hanno fatto la sera, e cosí d'ora in ora. Vanno parte di loro per la contrata vedendo s'alcuno tiene lume acceso o fuoco oltre le ore deputate, e vedendolo segnano la porta, e fanno che la mattina il patrone compare avanti i signori, qual, non trovando scusa legitima, viene condannato. Se truovano alcuno che vada di notte oltre le ore limitate, lo ritengono e la mattina l'appresentano alli signori; item, se 'l giorno veggono alcun povero, qual per esser storpiato non possa lavorare, lo fanno andar a stare negli spedali, che infiniti ve ne sono per tutta la città fatti per li re antichi, che hanno grand'entrate; ed essendo sano lo constringono a fare alcun mestiero. Immediate che veggono il fuoco acceso in alcuna casa, con il battere nel tabernacolo lo fanno assapere, e vi concorrono li guardiani d'altri ponti a spegnerlo e salvare le robbe de' mercanti o d'altri in dette torri, e anche le mettono in barche e portano all'isole che sono nel lago, perchè niun abitante della città in tempo di notte averia ardimento d'uscir di casa né andar al fuoco, ma solamente vi vanno quelli di chi sono le robbe e queste guardie che vanno ad aiutare, le qual non sono mai manco di mille o duemila. Fanno anco guardia in caso d'alcuna ribellione o sollevazione che facessero gli abitanti della città, e sempre il gran Can tien infiniti soldati da piedi e da cavallo nella città e ne' contorni di quella, e massime de' maggior suoi baroni e suoi fedeli ch'egli abbi, per esserli questa provincia la piú cara, e sopra tutto questa nobilissima città, ch'è il capo e piú ricca d'alcun'altra che sia al mondo. Vi sono similmente fatti in molti luoghi monti di terra, lontani un miglio un dall'altro, sopra i quali v'è una baldescra di legname dove è appiccata una tavola grande di legno, la qual, tenendola un uomo con la mano, la percuote con l'altra con un martello, sí che s'ode molto di lontano: e vi stanno delle dette guardie di continuo per far segno in caso di fuoco, perchè, non li facendo presta provisione, anderia a pericolo d'ardere meza la città; overo, come è detto, in caso di ribellione, che udito il segno tutti i guardiani de' ponti vicini pigliano l'armi e corrono dove è il bisogno.
Il gran Can, dopo ch'ebbe redutta a sua obedienza tutta la provincia di Mangi, qual era un regno solo, lo volse dividere in nove parti, constituendo sopra ciascuna un re, li quali vi vanno a star per governare e administrare giustizia alli popoli. Ogn'anno rendono conto alli fattori d'esso gran Can di tutte l'entrate e di ciascun'altra cosa pertinente al suo regno, e si cambian ogni tre anni, come fanno tutti gli altri officiali. In questa città di Quinsai tiene la sua corte e fa residenzia un di questi nove re, qual domina piú di cento e quaranta città, tutte ricche e grandi. Né alcuno si maravigli, perchè nella provincia di Mangi vi sono 1200 città, tutte abitate da gran moltitudine di genti ricche e industriose; in ciascuna delle quali, secondo la grandezza e bisogno, tiene la custodia il gran Can, perchè in alcune vi saranno mille uomini, in altre diecimila overo ventimila, secondo ch'egli giudicherà che quella città sia piú e manco potente. Né pensiate che tutti siano Tartari, ma della provincia del Cataio, perchè li Tartari sono uomini a cavallo, e non stanno se non appresso le città che non siano in luoghi umidi, ma nelle situate in luoghi sodi e secchi, dove possino esercitarsi a cavallo. In queste città di luoghi umidi vi manda Cataini e di quelli di Mangi che siano uomini armigeri, perchè di tutti li suoi subditi ogn'anno ne fa eleggere quelli che paiono atti alle armi e scriver nel suo esercito, che tutti si chiamano eserciti; e gli uomini che si cavano della provincia di Mangi non si mettono alla custodia delle lor proprie città, ma si mandano ad altre che siano discoste venti giornate di camino, dove dimorano da quattro in cinque anni e poi ritornano a casa, e vi si mandan degli altri in loro luogo. E questo ordine osservano i Cataini e quelli della provincia di Mangi, e la maggior parte dell'entrate delle città che si riscuotono nella camera del gran Can è deputata al mantenere di queste custodie de' soldati. E se avviene che qualche città ribelli (perchè spesse fiate gli uomini, soprapresi da qualche furore o ebrietà, ammazzano i suoi rettori), subito come s'intende il caso, le città propinque mandano tanta gente di questi eserciti che distruggono quelle città che hanno commesso l'errore, perchè saria cosa longa il voler far venire un esercito d'altra provincia del Cataio, che importaria il tempo di due mesi. E di certo la città di Quinsai ha di continua guardia trentamila soldati, e quella che n'ha meno n'ha mille fra da piedi e da cavallo.
Or parleremo d'un bellissimo palagio dove abitava il re Fanfur, li predecessori del quale fecero serrare un spazio di paese che circondava da dieci miglia con muri altissimi, e lo divisero in tre parti. In quella di mezo s'entrava per una grandissima porta, dove si trovava da un canto e dall'altro loggie a piè piano grandissime e larghissime, col coperchio sostentato da colonne, le quali erano dipinte e lavorate con oro e azzurri finissimi; in testa poi si vedeva la principale e maggior di tutte l'altre, similmente dipinta con le colonne dorate, e il solaro con bellissimi ornamenti d'oro, e d'intorno alle pareti erano dipinte le istorie de' re passati, con grand'artificio. Quivi ogn'anno, in alcuni giorni dedicati alli suoi idoli, il re Fanfur soleva tener corte e dar da mangiare a' principali signori, gran maestri e ricchi artefici della città di Quinsai: e ad un tratto vi sentavano a tavola commodamente sotto tutte dette loggie diecimila persone. E questa corte durava dieci o dodici giorni, ed era cosa stupenda e fuor d'ogni credenza il vedere la magnificenza de' convitati, vistiti di seta e d'oro, con tante pietre preziose addosso, perchè ognun si sforzava d'andare con maggior pompa e ricchezza che li fosse possibile. Dietro di questa loggia ch'abbiamo detto, ch'era per mezo la porta grande, v'era un muro con un uscio che divideva l'altra parte del palagio, dove entrati si trovava un altro gran luogo, fatto a modo di claustro, con le sue colonne che sostentavano il portico ch'andava atorno detto claustro: e quivi erano diverse camere per il re e la reina, le quali erano similmente lavorate con diversi lavori, e cosí tutti i pareti. Da questo claustro s'entrava poi in un andito largo sei passa, tutto coperto, ma era tanto longo che arrivava fino sopra il lago. Rispondevano in questo andito dieci corti da una banda e dieci dall'altra, fabricate a modo di claustri longhi, con li loro portichi intorno, e ciascun claustro overo corte avea cinquanta camere con li suoi giardini, e in tutte queste camere vi stanziavano mille donzelle che 'l re teneva a' suoi servizii; qual andava alcune fiate, con la regina e con alcune delle dette, a solazzo per il lago, sopra barche tutte coperte di seta, e anco a visitar li tempii degl'idoli. L'altre due parti del detto serraglio erano partite in boschi, laghi e giardini bellissimi, piantati d'arbori fruttiferi, dove erano serrati ogni sorte d'animali, cioè caprioli, daini, cervi, lepori, conigli: e quivi il re andava a piacere con le sue damigelle, parte in carretta e parte a cavallo, e non v'entrava uomo alcuno, e faceva che le dette correvano con cani e davano la caccia a questi tal animali; e dopo ch'erano stracche andavano in quei boschi che rispondevano sopra detti laghi, e quivi lasciate le vesti, se n'uscivano nude fuori ed entravano nell'acqua e mettevansi a nuotare, chi da una banda e chi dall'altra, e il re con grandissimo piacere le stava a vedere, e poi se ne ritornava a casa. Alcune fiate si faceva portar da mangiar in quei boschi, ch'erano folti e spessi d'alberi altissimi, servito dalle dette damigelle. E con questo continuo trastullo di donne s'allevò senza saper ciò che si fossero armi, la qual cosa alla fine li partorí che, per la viltà e dapocaggine sua, il gran Can li tolse tutt'il stato, con grandissima sua vergogna e vituperio, come di sopra si ha inteso.
Tutta questa narrazione mi fu detta da un ricchissimo mercante di Quinsai, trovandomi in quella città, qual era molto vecchio e stato intrinseco familiar del re Fanfur, e sapeva tutta la vita sua e avea veduto detto palagio in essere, nel quale lui volse condurmi. E perchè vi stanzia il re deputato per il gran Can, le loggie prime sono pure come solevan essere, ma le camere delle donzelle sono andate tutte in ruina, e non si vede altro che vestigii; similmente il muro che circondava li boschi e giardini è andato a terra, e non vi sono piú né animali né arbori.
Discosto da questa città circa venticinque miglia v'è il mare Oceano, fra greco e levante, appresso il quale v'è una città detta Gampu, dove è un bellissimo porto, al quale arrivano tutte le navi che vengono d'India con mercanzie. E il fiume che viene dalla città di Quinsai entrando in mare fa questo porto, e tutt'il giorno le navi di Quinsai vanno su e giú con mercanzie, e ivi caricano sopra altre navi, che vanno per diverse parti dell'India e del Cataio.
Avendosi trovato messer Marco in questa città di Quinsai quando si rendé conto alli fattori del gran Can dell'entrate e numero degli abitanti, ha veduto che sono stati descritti 160 toman di fuochi, computando per un fuoco la famiglia che abita in una casa (e ciascun toman contiene diecimila), sí che in tutta la detta città sariano famiglie un millione e seicentomila: e in tanto numero di genti non v'è altra ch'una chiesa di cristiani nestorini. Sono obligati tutti i padri di famiglia di tener scritto sopra la porta della sua casa il nome di tutta la famiglia, cosí di maschi come di femine; item il numero de' cavalli: e quando alcuno manca si cancella il nome, e se nasce o si toglie di nuovo s'aggiugne il nome, e a questo modo i signori e rettori delle città sanno di continuo il numero delle genti. E questo s'osserva nelle provincie del Mangi e del Cataio; e similmente tutti quelli che tengono ostarie scrivono sopra un libro il nome di quelli che vengon ad alloggiare, col giorno e l'ora che partono, e mandano di giorno in giorno detti nomi alli signori che stanno sopra le piazze. Item nella provincia di Mangi la maggior parte de' poveri bisognosi, che non possono allevare i loro figliuoli, li vendono alli ricchi, acciò che meglio sian allevati e piú abondantemente possino vivere.

Dell'entrata del gran Can.
Cap. 69.

Or parliamo alquanto dell'entrata che ha il gran Can della città di Quinsai e dell'altre a quella aderenti: il gran Can riceve da detta città e dall'altre che a quella rispondono, ch'è la nona parte overo il nono regno di Mangi; e prima del sale, che val piú quanto alla rendita. Di questo ne cava ogn'anno ottanta toman d'oro, e ciascun toman è ottantamila saggi d'oro, e ciascun saggio vale piú d'un fiorin d'oro, che ascenderia alla somma di sei millioni e quattrocentomila ducati: e la causa è ch'essendo detta provincia appresso l'oceano, vi sono molte lagune, overo paludi, dove l'acqua del mare l'estate si congela, e vi cavano tanta quantità di sale che ne forniscono cinque altri regni della detta provincia. Quivi nasce gran copia di zucchero, qual paga come fanno tutte l'altre specie tre e un terzo per cento; similmente, del vino che si fa di risi; delle dodici arti ch'abbiamo detto di sopra, che hanno dodicimila botteghe per una. Item tanti mercanti che portano le loro robbe a questa città, e da quella ad altre parti per terra riportano, overo traggono fuori per mare, pagano similmente tre e un terzo per cento; ma, venendo per mare e di lontani paesi e regioni, come dell'Indie, pagano dieci per cento. E similmente, di tutte le cose che nascono nel paese, cosí animali come di quel che produce la terra, e seta, si paga la decima al re. E fatt'il conto in presenza del detto messer Marco, fu trovato che l'entrata di questo signore, non computando l'entrata del sale detta di sopra, ascende ogn'anno alla somma di 210 tomani, e ogni toman, com'è detto di sopra, vale ottantamila saggi d'oro, che saria da sedici millioni d'oro e ottocentomila.

Della città di Tapinzu.
Cap. 70.

Partendosi dalla città di Quinsai, si camina una giornata verso scirocco, di continuo trovando case, ville e giardini molti belli e dilettevoli, dove nasce ogni sorte di vittuarie in abondanza; e poi s'arriva alla città di Tapinzu, molto bella e grande, che risponde alla città di Quinsai. Adorano idoli, e hanno la moneta di carta; abbruciano i corpi, e sono sotto il gran Can, e vivono di mercanzie e arti.
E altro non v'essendo, si dirà della città di Uguiu.

Della città di Uguiu.
Cap. 73.

Da Tapinzu andando verso scirocco tre giornate, si truova la città di Uguiu, e per due altre giornate pur per scirocco si cammina, di continuo trovando città, castella e luoghi abitati; ed è tanta la continuazione e vicinità che hanno insieme, che par a' viandanti passare per una sola città; le qual città rispondono a Quinsai. Tutte le genti adorano gl'idoli, e hanno abondanza grande di vittuarie. Quivi si truovano canne piú grosse e piú longhe di quelle dette di sopra, perchè ne sono alcune grosse quattro palmi e quindici passa longhe.

Della città di Gengui e di Zengian.
Cap. 74.

Andando piú oltre due giornate, si truova la città di Gengui, la qual è molto bella e grande; e dopo, camminando per scirocco, si truovan sempre luoghi abitati e tutti pieni di genti che fanno arti e lavorano la terra, e in questa parte della provincia di Mangi non si truovano montoni, ma sí ben buoi, vacche, buffali, capre e porci in grandissimo numero. In capo di quattro giornate, si trova la città di Zengian, edificata sopra un monte, ch'è come un'isola in mezo un fiume, perchè la diparte in due rami, che la circonda, e poi corrono all'opposito l'un dall'altro, cioè uno verso scirocco e l'altro verso maestro. Questa città è sottoposta al gran Can e risponde a Quinsai; adorano gl'idoli e vivono di mercanzie, e hanno gran copia di salvaticine e uccelli. E passando avanti tre giornate per una bellissima contrada, tutta abitata, con infinite ville e castelli, si truova la città di Gieza, nobile e grande: ed è l'ultima della provincia del regno di Quinsai, perchè quello è il capo al qual tutte corrispondono. Passata questa città di Gieza s'entra in un altro regno de' nove della provincia di Mangi, detto Concha.

Del regno di Concha, e della città principale detta Fugiu.
Cap. 75.

Partendosi dall'ultima città del regno di Quinsai, qual si chiama Gieza, s'entra nel regno di Concha (e la città principale è detta Fugiu), per il quale si camina sei giornate alla volta di scirocco sempre per monti e valli, e si truovano di continuo luoghi abitati, dove è gran copia di vittuarie, e vi fanno gran cacciagioni e vanno ad uccellare, per esservi varie sorti d'uccelli. Sono idolatri e sottoposti al gran Can, e fanno mercanzie. In questi contorni si trovano leoni fortissimi. Vi nasce il zenzero e galanga in gran copia e d'altre sorti di specie, e per una moneta che vaglia un grosso d'argento veneziano s'averà ottanta libre di zenzero fresco, tanto ve n'è abondanza. Vi nasce un'erba che produce un frutto che fa l'effetto e opera come se 'l fosse vero zaffarano, cosí nell'odore come nel colore, e nondimeno non è zaffarano, ed è molto stimata e adoperata da tutti gli abitanti ne' loro cibi, e per questo è molto cara. Gli uomini in questa regione mangiano volentieri carne umana, non essendo morta di malattia, perchè la reputano piú delicata al gusto che alcun'altra. E quando vanno a combattere si fanno levar i capelli fino all'orecchie, e dipingere la faccia con color azzurro finissimo; portano lancie e spade, e tutti vanno a piedi, eccetto che 'l capitano a cavallo. Sono uomini crudelissimi, di modo che, come uccidono li nemici in battaglia, immediate li vogliono bevere il sangue e dopo mangiar la carne.
Or, lasciando di questo, diremo della città di Quelinfu.

Della città di Quelinfu.
Cap. 76.

Camminato che s'ha per questo paese per sei giornate, si truova la città di Quelinfu, la qual è nobile e grande. In detta città vi sono tre ponti bellissimi, perchè sono longhi piú di cento passa l'uno e larghi otto, di pietra con colonne di marmo. Le donne di questa città sono bellissime e vivono con gran delicatezza. Hanno gran copia di seta, la qual lavorano in diverse sorti di drappi; item panni bombagini di fil tinto, che va per tutta la provincia di Mangi. Fanno gran mercanzie, e hanno zenzero e galanga in gran quantità. Mi fu detto (ma io non le viddi) che si truovan certe sorti di galline che non hanno penne, ma sopra la pelle vi sono peli negri come di gatte, ch'è una strana cosa a vederle, le qual fanno ova come quelle de' nostri paesi, e sono molto buone da mangiare. Per la moltitudine de' leoni che si truovano il passar per quella contrata è molto pericoloso, se non vanno in gran numero le persone.

Della città di Unguem.
Cap. 77.

Da Quelinfu partendosi, fatte che s'hanno tre giornate, sempre vedendo e trovando città e castella, dove sono genti idolatre e hanno seta in gran copia, della qual fanno gran mercanzie, si trova la città di Unguem, dove si fa gran copia di zucchero, che si manda alla città di Cambalú per la corte del gran Can. E prima che questa città fusse sotto il gran Can non sapevano quelle genti far il zucchero bello, ma lo facevano bollire spiumandolo e dapoi raffreddito rimaneva una pasta nera; ma, venuta all'obedienza del gran Can, vi si truovorno nella corte alcuni uomini di Babilonia che, andati in questa città, gl'insegnorono ad affinarlo con cenere di certi arbori.

Della città di Cangiu.
Cap. 78.

Passando avanti per miglia quindeci si truova la città di Cangiu, la qual è del reame di Concha, ch'è uno delli nove reami di Mangi. In questa città dimora grande esercito del gran Can, per guardar quel paese e per esser sempre apparecchiato se alcuna città volesse ribellarsi. Passa per mezo di questa città un fiume che ha di larghezza un miglio, sopra le rive del quale, da un canto e dall'altro, vi sono bellissimi casamenti, e vi stanno di continuo assai navi che vanno per questo fiume con mercanzie, e massime di zucchero, che ne fanno in grandissima copia. Vi capitano a questa città molte navi d'India, dove sono mercanti con gran quantità di gioie e perle, delle qual fanno grosso guadagno. Questo fiume mette capo non molto lontano dal porto detto Zaitum, ch'è sopra il mare Oceano; e quivi le navi d'India entrano nel fiume e se ne vengono su per quello fino alla detta città, la qual è abondantissima di tutte le sorti di vittuarie, e di dilettevoli giardini e perfettissimi frutti.

Della città e porto di Zaithum e città di Tingui.
Cap. Ultimo.

Partendosi da Cangiu, passato che si ha il fiume, camminando per scirocco cinque giornate, di continuo si truova terre, castelli e grandi abitazioni, ricche e molto abbondanti di ogni vittuaria, e camminasi per monti e anco per piani e boschi assai, nelli quali si truovano alcuni arboscelli di quali si raccoglie la canfora. È paese molto abbondante di salvaticine; sono idolatri, e sotto il gran Can, della iurisdizione di Cangiu. E passate cinque giornate, si truova la città di Zaitum, nobile e bella, la qual ha un porto sopra il mare Oceano, molto famoso per il capitare che fanno ivi tante navi con tante mercanzie, le qual si spargono per tutta la provincia di Mangi. E vi viene tanta quantità di pevere che quella che viene condotta di Alessandria alle parti di ponente è una minima parte, e quasi una per cento a comparazione di questa; e saria quasi impossibile di credere il concorso grande di mercanti e mercanzie a questa città, per esser questo un de' maggiori e piú commodi porti che si truovino al mondo. Il gran Can ha di quel porto grande utilità, perchè cadauno mercante paga di dretto, per cadauna sua mercanzia, dieci misure per centenaro. La nave veramente vuole di nolo dalli mercanti delle mercanzie sottili trenta per centenaro, del pevere quarantaquattro per centenaro, del legno di aloe e sandali e altre specie e robbe quaranta per centenaro, di sorte che li mercanti, computato i dretti del re e il nolo della nave, pagano la metà di quello che conducono a questo porto: e nondimeno di quella metà che li avanza fanno cosí grossi guadagni che ogni ora desiderano di ritornarvi con altre mercanzie.
Sono idolatri, e hanno abondanza di tutte le vittuarie. È molto dilettevol paese e le genti sono molto quiete e dedite al riposo e ozioso vivere. Vengono a questa città molti della superior India, per causa di farsi dipingere la persona con gli aghi (come di sopra abbiamo detto), per essere in questa città molti valenti maestri di questo officio. Il fiume che entra nel porto di Zaitum è molto grande e largo, e corre con grandissima velocità, ed è un ramo che fa il fiume che viene dalla città di Quinsai; e dove si parte dall'alveo maestro vi è la città di Tingui, della qual non si ha da dir altro se non che in quella si fanno le scodelle e piadene di porcellane, in questo modo, secondo che li fu detto. Raccolgono una certa terra come di una minera e ne fanno monti grandi, e lascianli al vento, alla pioggia e al sole per trenta e quaranta anni, che non li muovono: e in questo spazio di tempo la detta terra si affina, che poi si può far dette scodelle, alle qual danno di sopra li colori che voglion, e poi le cuocono in la fornace. E sempre quelli che raccolgono detta terra la raccolgono per suoi figliuoli o nepoti. Vi è in detta città gran mercato, di sorte che per un grosso veneziano si averà otto scodelle.
Or, avendo detto di alcune città del regno di Concha, che è uno delli nove della provincia di Mangi, del quale il gran Can ha quasi cosí grande entrata come del regno di Quinsai, lassaremo di parlar piú di questi tali regni, perchè messer Marco non vi fu in alcun d'essi, come fu in questi duoi di Quinsai e di Concha. Ed è da sapere che in tutta la provincia di Mangi si osserva una sola favella e una sola maniera di lettere; nondimeno vi è diversità nel parlare per le contrade, come saria a dir Genovesi, Milanesi, Fiorentini e Pugliesi, che, ancor che parlino diversamente, nondimeno si possono intendere.
Ma, perchè ancor non è compiuto quanto messer Marco ha deliberato di scrivere, si metterà fine a questo secondo libro, e si cominciarà a parlare de' paesi, città e provincie dell'India maggior, minor e mezzana, nelle parti delle quali è stato quando si trovava a' servizii del gran Can, mandato da quello per diverse facende, e dapoi quando li venne con la regina del re Argon, con suo padre e barba, e ritornò alla patria: però si dirà delle cose maravigliose ch'ei vidde in quelle, non lasciando adietro l'altre che udí dire da persone di riputazione e degne di fede, e ancor che li fu mostrato sopra carte di marinari di dette Indie.



LIBRO TERZO

Dell'India maggiore, minore e mezzana, e de' costumi e consuetudini degli abitanti in quella, e molte cose notabili e maravigliose che vi sono, e prima della sorte delle navi di quella.
Cap. 1.

Poi ch'abbiamo detto di tante provincie e terre, come avete udito disopra, lasciaremo di parlar di quella materia e cominciaremo a entrare nell'India, per referire tutte le cose maravigliose che vi sono, principiando dalle navi de' mercanti, le quali sono fabricate di legno d'abete e di zapino, e cadauna ha una coperta sotto la qual vi sono piú di sessanta camerette, e in alcune manco, secondo che le navi sono piú grandi e piú picciole, e in cadauna vi può stare agiatamente un mercante. Hanno un buon timone e quattro arbori con quattro vele, e alcune due arbori, che si levano e pongono ogni volta che vogliono. Hanno oltra di ciò alcune navi, cioè quelle che sono maggiori, ben tredici colti, cioè divisioni dalla parte di dentro fatte con ferme tavole incastrate, di modo che, s'egli accade che la nave si rompa per qualche fortuito caso, cioè o che ferisca in qualche sasso o vero qualche balena mossa dalla fame quella percotendo rompa (il che spesse volte avviene), perchè quando la nave, navigando di notte, facendo inondare l'acqua passa a canto la balena, essa, vedendo biancheggiar l'acqua, pensa di ritrovarvi cibo e corre velocemente e ferisce la nave, e spesse fiate la rompe in qualche parte, e allora, entrando l'acqua per la rottura, discorre alla sentina, la qual mai non è occupata d'alcuna cosa; onde i marinari, trovando in che parte è rotta la nave, votano il colto negli altri che a quella rottura respondono, perchè l'acqua non può passare d'un colto all'altro, essendo quelli cosí ben incastrati, e allora acconciano la nave, e poi vi ripongono le mercanzie ch'erano state cavate fuori. Sono le navi inchiavate in questo modo: tutte sono doppie, cioè che hanno due mani di tavole una sopra l'altra intorno intorno, e sono calcate con stoppa dentro e di fuori e inchiodate con chiovi di ferro; non sono impegolate, perchè non hanno pece, ma l'ungono in questo modo: tolgono calcina e canapo e taglianlo minutamente, e pestato il tutto insieme mescolano con un certo olio d'arbore, che si fa a modo d'un unguento, ch'è piú tenace del vischio e miglior che la pece. Queste navi che sono grandi vogliono trecento marinari, altre dugento, altre centocinquanta, piú e manco, secondo che sono piú grandi e piú picciole, e portano da cinque in seimila sporte di pevere. E già per il passato solevano esser maggiori che non sono al presente, ma, avendo l'empito del mare talmente rotto l'isole in molti luoghi, e massime nei porti principali, che non si trovava acqua sofficiente a levar quelle navi cosí grandi, però sono state fatte al presente minori.
Con queste navi si va anco a remi, e cadauno remo vuol quattro uomini che 'l voghi. E queste navi maggiori menano seco due e tre barche grandi, che sono di portata di 1000 sporte di pevere e piú, e vogliono al suo governo da sessanta marinari, altre da ottanta, altre da cento. E quelle piú picciole aiutano spesso a tirare le grandi con corde quando vanno a remi, e ancora quando vanno a vela, se il vento è alquanto da traverso, perchè le picciole vanno avanti le grandi e, legate con le corde, tirano la nave grande; ma se hanno il vento per il dritto no, perchè le vele della maggior nave impedirebbono che 'l vento non ferirebbe nelle vele delle minori, e cosí la maggiore andrebbe adosso alle minori. Item queste navi conducono ben dieci battelli piccioli per l'ancora, e per cagione di pescare e di far tutti li servigii, e questi battelli si legano di fuori dei lati delle navi grandi, e quando vogliono si mettono in acqua; e le barche similmente hanno li suoi battelli. E quando vogliono racconciar la nave, poi che ha navigato un anno o piú, avendo bisogno di concia li ficcano tavole a torno a torno sopra le due prime tavole, di modo che sono tre man di tavole, e le calcano e ungonle; e volendole pur racconciare un'altra volta vi ficcano di novo un'altra man di tavole, e cosí procedono di concia in concia fino al numero di sei tavole l'una sopra l'altra, e da lí in su la nave si manda alla mazza né piú si naviga con quella per mare.
Or, avendo detto delle navi, diremo dell'India; ma prima vogliamo dire d'alcune isole che sono nel mare Oceano, dove siamo al presente, e cominciaremo dall'isola chiamata Zipangu.

Dell'isola di Zipangu.
Cap. 2.

Zipangu è un'isola in Oriente, la qual è discosto dalla terra e lidi di Mangi in alto mare millecinquecento miglia, ed è isola molto grande, le cui genti sono bianche e belle e di gentil maniera. Adorano gl'idoli e mantengonsi per se medesimi, cioè che si reggono dal proprio re. Hanno oro in grandissima abbondanza, perchè ivi si truova fuor di modo e il re non lo lascia portar fuori; però pochi mercanti vi vanno, e rare volte le navi d'altre regioni. E per questa causa diremovi la grand'eccellenza delle ricchezze del palagio del signore di detta isola, secondo che dicono quelli ch'hanno pratica di quella contrada: v'ha un gran palagio tutto coperto di piastre d'oro, secondo che noi copriamo le case o vero chiese di piombo, e tutti i sopracieli delle sale e di molte camere sono di tavolette di puro oro molto grosse, e cosí le finestre sono ornate d'oro. Questo palagio è cosí ricco che niuno potrebbe giamai esplicare la valuta di quello. Sono ancora in questa isola perle infinite le quali sono rosse, ritonde e molto grosse, e vagliono quanto le bianche, e piú. E in questa isola alcuni si sepeliscono quando son morti, alcuni s'abbruciano, ma a quelli che si sepeliscono vi si pone in bocca una di queste perle, per esser questa la loro consuetudine. Sonvi eziandio molte pietre preciose.
Questa isola è tanto ricca che per la fama sua il gran Can ch'al presente regna, che è Cublai, deliberò di farla prendere e sottoporla al suo dominio. Mandò adunque duoi suoi baroni con gran numero di navi piene di gente per prenderla, de' quali uno era nominato Abbaccatan e l'altro Vonsancin, quali, partendosi dal porto di Zaitum e Quinsai, tanto navigorno per mare che pervennero a questa isola. Dove smontati, nacque invidia fra loro, che l'uno dispregiava d'obedire alla volontà e consiglio dell'altro, per la qual cosa non poteron pigliare alcuna città o castello, salvo che uno che presono per battaglia, però che quelli ch'erano dentro non si volsero mai rendere: onde, per comandamento di detti baroni, a tutti furono tagliate le teste, salvo che a otto uomini, li quali si trovò ch'avevano una pietra preciosa incantata per arte diabolica cucita nel braccio destro fra la pelle e carne, che non potevano esser morti con ferro né feriti. Il che intendendo, quei baroni fecero percotere li detti con un legno grosso, e subito morirono.
Avvenne un giorno che 'l vento di tramontana cominciò a soffiar con grande impeto, e le navi de' Tartari, ch'erano alla riva dell'isola, sbattevano insieme. Li marinari adunque consigliatisi deliberarono slontanarsi da terra, onde, entrato l'esercito nelle navi, si allargarono in mare, e la fortuna cominciò a crescere con maggior forza, di sorte che se ne ruppero molte, e quelli che v'erano dentro, notando con pezzi di tavole, si salvorono ad una isola vicina a Zipangu quattro miglia. Le altre navi che non erano vicine, scapolate dal naufragio con li duoi baroni, avendo levati gli uomini da conto, cioè li capi de' centenari di mille e diecimila, drizzorono le vele verso la patria e al gran Can. Ma i Tartari rimasti sopra l'isola vicina (erano da circa trentamila), vedendosi senza navi e abbandonati dalli capitani, non avendo né arme da combattere né vettovaglie, credevano di dovere essere presi e morti, massimamente non vi essendo in detta isola abitazione dove potessero ripararsi. Cessata la fortuna ed essendo il mare tranquillo e in bonaccia, gli uomini della grande isola di Zipangu, con molte navi e grande esercito, andorno all'isola vicina per pigliar li Tartari che quivi s'erano salvati, e smontati delle navi si misero ad andarli a trovare con poco ordine. Ma li Tartari prudentemente si governarono, perciochè l'isola era molto elevata nel mezo, e mentre che li nemici per una strada s'affrettavano di seguitarli, essi andando per un'altra circondarono a torno l'isola e pervennero a' navilii de' nemici, quali truovorno con le bandiere e abbandonati; e sopra quelli immediate montati andarono alla città maestra del signor di Zipangu, dove, vedendosi le loro bandiere, furono lasciati entrare, e quivi non trovorno altro che donne, le qual tennero per loro uso, scacciando fuori tutto il resto del popolo. Il re di Zipangu, intesa la cosa come era passata, fu molto dolente, e subito se ne venne a mettere l'assedio, non vi lasciando entrare né uscire persona alcuna, qual durò per mesi sei; dove, vedendo i Tartari che non potevano aver aiuto alcuno, al fine si resero salve le persone: e questo fu correndo gli anni del Signore 1264.
Il gran Can dopo alcuni anni, avendo inteso il disordine sopradetto, successo per causa della discordia di due capitani, fece tagliar la testa ad un di loro, l'altro mandò ad un'isola salvatica detta Zorza, dove suol far morire gli uomini che hanno fatto qualche mancamento, in questo modo: gli fa ravolgere tutte due le mani in un cuoio di buffalo allora scorticato e strettamente cucire, qual come si secca si strigne talmente intorno che per niun modo si può muovere, e cosí miseramente finiscono la loro vita, non potendosi aiutare.

Della maniera degl'idoli di Zipangu, e come gli abitanti mangiano carne umana.
Cap. 3.

In quest'isola di Zipangu e nell'altre vicine tutti i loro idoli sono fatti diversamente, perchè alcuni hanno teste di buoi, altri di porci, altri di cani e di becchi e di diverse altre maniere; ve ne sono poi alcuni ch'hanno un capo e due volti, altri tre capi, cioè uno nel luogo debito e gli altri due sopra ciascuna delle spalle, altri ch'hanno quattro mani, alcuni dieci e altri cento, e quelli che n'hanno piú si tiene ch'abbiano piú virtú, e a quelli fanno maggior riverenza. E quando i cristiani li domandano perchè fanno li loro idoli cosí diversi, rispondono: "Cosí i nostri padri e predecessori gli hanno lasciati, e parimente cosí noi li lasciamo a' nostri figliuoli e successori". Le operazioni di questi idoli sono di tante diversità, e cosí scelerate e diaboliche, che saria cosa empia e abominabile a raccontarle nel libro nostro. Ma vogliamo che sappiate almeno questo, che tutti gli abitatori di queste isole che adorano gl'idoli, quando prendono qualcuno che non sia loro amico e che non si possa riscuotere con denari, convitano tutti i loro parenti e amici a casa sua, e fanno uccidere quell'uomo suo prigione e lo fanno cuocere, e mangianselo insieme allegramente, e dicono che la carne umana è la piú saporita e migliore che si possa truovar al mondo.

Del mare detto Cin, ch'è per mezo la provincia di Mangi.
Cap. 4.

Avete da sapere che 'l mare dov'è quest'isola si chiama mare Cin, che tanto vuol dire quanto mare ch'è contra Mangi: e nella lingua di costoro dell'isola, Mangi si chiama Cin. E questo mare Cin ch'è in Levante è cosí longo e largo che i savi pilotti e marinari, che per quello navigano e conoscono la verità, dicono che in quello vi sono settemilaquattrocento e quaranta isole, e per la maggior parte abitate, e che non vi nasce arbore alcuno dal quale non esca un buono e gentil odore, e vi nascono molte specie di diverse maniere, e massime legno aloe; il pevere in grand'abondanza, bianco e nero. Non si potrebbe dire la valuta dell'oro e altre cose che si truovan in queste isole, ma sono cosí discoste da terra ferma che con gran difficultà e fastidio vi si può navigare; e quando vi vanno le navi di Zaitum o di Quinsai ne conseguiscono grandissima utilità, ma stanno un anno continuo a far il loro viaggio, perchè vanno l'inverno e ritornano la state, però ch'hanno solamente venti di due sorti, de' quali uno regna la state e l'altro l'inverno, di modo che vanno con un vento e ritornano con l'altro. E questa contrada è molto lontana dall'India. E perchè dicemmo che questo mare si chiama Cin, è da sapere che questo è il mare Oceano, ma, come noi chiamiamo il mare Anglico e il mare Egeo, cosí loro dicono il mare Cin e il mare Indo: ma tutti questi nomi si contengono sotto il mare Oceano.
Or lasciaremo di parlar di questo paese e isole, perchè sono troppo fuor di strada e io non vi son stato, né quelle signoreggia il gran Can; ma ritorniamo a Zaitum.

Del colfo detto Cheinan e de' suoi fiumi.
Cap. 5.

Partendosi dal porto di Zaitum, si naviga per ponente alquanto verso garbin mille e cinquecento miglia, passando un colfo nominato Cheinan, il qual colfo dura di longhezza per il spazio di due mesi, navigando verso la parte di tramontana, il qual per tutto confina verso scirocco con la provincia di Mangi, e dall'altra parte con Ania e Toloman e molte altre provincie con quelle di sopra nominate. Per dentro a questo colfo vi sono isole infinite, e quasi tutte sono bene abitate, e in quelle si truova gran quantità d'oro di paiola, qual si raccoglie dell'acqua del mare dove sboccano i fiumi, e ancora di rame e d'altre cose: e fanno mercanzie di quello che si truova in un'isola e non si truova nell'altra. E contrattano ancora con quei di terra ferma, perchè li vendon oro, rame e altre cose, e da loro comprano le cose che sono loro necessarie. Nella maggior parte di dette isole vi nasce assai grano. Questo colfo è tanto grande, e tante genti abitano in quello, che par quasi un altro mondo.

Della contrata di Ziamba, e del re di detto regno, e come si fece tributario del gran Can.
Cap. 6.

Or ritorniamo al primo trattato, cioè che partendosi da Zaitum, poi che s'ha navigato al traverso di questo colfo (come s'ha detto di sopra) millecinquecento miglia, si truova una contrata nominata Ziamba, la qual è molto ricca e grande. Reggesi dal proprio re, e ha favella da per sé. Le sue genti adorano gl'idoli, e danno tributo al gran Can di elefanti e legno d'aloe ogn'anno: e narrerenvi il come e perchè.
Avvenne che Cublai gran Can nel 1268, intesa la gran ricchezza di quest'isola, volse mandar un suo barone nominato Sagatu, con molte genti a piedi e a cavallo, per acquistarla, e mosse gran guerra a quel regno. E il re, ch'era molto vecchio, nominato Accambale, non avendo genti con le quali potesse far resistenza alle forze d'esso gran Can, si ridusse alle fortezze de' castelli e città, ch'erano sicurissime e si difendevano francamente. Ma i casali e abitazioni ch'erano per le pianure furono rovinate e guaste, e il re, vedendo che queste genti distruggevano e rovinavano del tutto il suo regno, mandò ambasciatori al gran Can, esponendoli ch'essendo egli uomo vecchio e avendo sempre tenuto il suo regno in tranquilla pace, li piacesse di non volere la destruzione di quello, ma che, volendo indi rimovere detto barone con le sue genti, li farebbe onorati presenti ogn'anno, col tributo d'elefanti e legno d'aloe. Il che intendendo il gran Can, mosso a pietà, comandò subito al detto Sagatu che dovesse partirsi e andar ad acquistar altre parti, il che fu eseguito immediate. E da quel tempo in qua il re manda al gran Can per tributo ogn'anno grandissima quantità di legno di aloe, e venti elefanti de' piú belli e maggiori che trovar si possano nelle sue terre: e in tal modo questo re si fece subdito del gran Can.
Ora, lasciando di questo, diremo delle condizioni del re e della sua terra. E prima, in questo regno alcuna donzella di conveniente bellezza non si può maritare se prima non è presentata al re, e s'ella gli piace se la tiene per alcun tempo, e poi le fa dare tanti denari che, secondo la sua condizione, ella si possa onorevolmente maritare. E messer Marco Polo nel 1280 fu in questo luogo, e trovò che 'l detto re avea trecento e venticinque figliuoli tra maschi e femine, i quali maschi per la maggior parte erano valenti nell'arme. Sono in questo regno molti elefanti e gran copia di legno d'aloe; vi sono ancora molti boschi d'ebano, il qual è molto nero, e vi si fanno di quei bellissimi lavori. Altre cose degne di relazione non vi sono, onde, partendoci di qui, narraremo dell'isola chiamata Giava maggiore.

Dell'isola detta Giava.
Cap. 7.

Partendosi da Ziamba, navigando tra mezodí e scirocco mille e cinquecento miglia, si truova una grandissima isola chiamata Giava, la quale, secondo che dicono alcuni buoni marinari, è la maggior isola che sia al mondo, imperochè gira di circuito piú di tremila miglia: ed è sotto il dominio d'un gran re, le cui genti adoran gl'idoli, né danno tributo ad alcuno. Quest'isola è piena di molte ricchezze: il pevere, noci moscate, spico, galanga, cubebe, garofali, e tutte l'altre buone specie nascono in quest'isola, alla qual vanno molte navi con gran mercanzie, delle quali ne conseguiscono gran guadagno e utilità, perchè vi si truova tant'oro che niuno lo potrebbe mai credere né raccontarlo. E il gran Can non ha procurato di soggiogarla, e questo per la longhezza del viaggio e il pericolo di navigare. E da quest'isola i mercanti di Zaitum e di Mangi hanno tratto molt'oro e lo traggono tutto 'l giorno, e la maggior parte delle specie che si portano pel mondo si cavan da questa isola.

Dell'isole di Sondur e Condur e del paese di Lochac.
Cap. 8.

Partendosi da quest'isola di Giava, si naviga verso mezodí e garbin settecento miglia, e si truovano due isole, una delle quali è maggiore e l'altra minore: la prima è nominata Sondur e l'altra Condur, le quali due isole son disabitate, e per ciò si lascia di parlarne. E partendosi da queste, come s'ha navigato per scirocco da cinquanta miglia, si truova una provincia ch'è di terra ferma, molto ricca e grande, nominata Lochac, le cui genti adorano gl'idoli. Hanno favella da per sé e si reggono dal proprio re, né danno tributo ad alcuno, perchè sono in tal luogo che niuno può andarvi a far danno; perchè, se ivi si potesse andare, il gran Can immediate la sottometteria al suo dominio. In quest'isola nasce verzin domestico in gran quantità; hanno oro in tant'abondanza ch'alcuno non lo potrebbe mai credere, e hanno elefanti e molte cacciagioni da cani e da uccelli; e da questo regno si traggono tutte le porcellane che si portano per gli altri paesi, e si spende per moneta, com'è detto di sopra. E vi nasce una sorte di frutti chiamati berci, che sono domestici e grandi come limoni, e molto buoni da mangiare. Altre cose non vi sono da conto, se non che 'l luogo è molto salvatico e montuoso, e pochi uomini vi vanno, perchè il re non consente ch'alcuno li vada, acciochè non conosca il tesoro e i secreti suoi.

Dell'isola di Pentan e regno di Malaiur.
Cap. 9.

Partendosi di Lochac, si naviga cinquecento miglia per mezodí, e si truova un'isola chiamata Pentan, la quale è in un luogo molto salvatico. E tutti i boschi di quell'isola producon arbori odoriferi. E fra la provincia di Lochac e l'isola di Pentan, per miglia sessanta, in molti luoghi non si truova acqua, se non per quattro passa alta, e per questo bisogna che li naviganti levino piú alto il timone, perchè non hanno acqua se non da circa quattro passa. E quando s'ha navigato questi sessanta miglia verso scirocco, si va piú oltre circa trenta miglia e si truova un'isola ch'è regno, e chiamasi la città Malaiur, e cosí l'isola Malaiur, le cui genti hanno re e linguaggio per sé. La città certamente è nobilissima e grandissima, e si fanno in quella molte mercanzie d'ogni specie, perchè quivi ne sono in abondanza. Né vi sono altre cose notabili, onde, procedendo piú oltre, trattaremo della Giava minore.

Dell'isola di Giava minore.
Cap. 10.

Quando si parte dall'isola Pentan e che s'è navigato circa a cento miglia per scirocco, si truova l'isola di Giava minore: ma non è però cosí picciola che non giri circa duemila miglia a torno a torno. E in quest'isola son otto reami e otto re, le genti della quale adorano gl'idoli, e in ciascun regno v'è linguaggio da sua posta, diverso dalla favella degli altri regni. V'è abondanza di tesoro e di tutte le specie e di legno d'aloe, verzino, ebano, e di molte altre sorti di specie, che alla patria nostra, per la longhezza del viaggio e pericoli del navigare, non si portano, ma si portan alla provincia di Mangi e del Cataio.
Or vogliamo dire della maniera di queste genti, di ciascuna partitamente per sé. Ma primamente è da sapere che quest'isola è posta tanto verso le parti di mezogiorno che quivi la stella tramontana non si può vedere. E messer Marco fu in sei reami di quest'isola, de' quali qui se ne parlerà, lasciando gli altri due che non vidde.

Del regno di Felech, ch'è sopra la Giava minore.
Cap. 11.

Cominciamo adunque a narrare del regno di Felech, il qual è uno delli detti otto. In questo regno tutte le genti adorano gl'idoli, ma per li mercanti saraceni, che del continuo ivi conversano, si sono convertiti alla legge di Macometto, cioè quelli che abitano nelle città; e quelli che abitano ne' monti sono come bestie, però che mangiano carne umana, e generalmente ogni sorte di carni monde e immonde; e adorano diverse cose, perchè quand'alcuno si leva su la mattina adora la prima cosa ch'ei vede per tutto quel dí.

Del secondo regno di Basma.
Cap. 12.

Partendosi da questo regno, s'entra nel regno di Basma, il qual è da per sé e ha linguaggio da sua posta, le cui genti non hanno legge, ma vivono come le bestie. Si chiamano per il gran Can, nondimeno non li danno tributo, perchè sono lontani, di sorte che le genti del gran Can non posson andar a quelle parti: ma tutti dell'isola si chiamano per lui, e alle volte, per quelli che passano di là, li mandano qualche bella cosa e strana per presenti, e specialmente di certa sorte d'astori.
Hanno molti elefanti salvatichi e leoncorni, che sono molto minori degli elefanti, simili a' buffali nel pelo, e li loro piedi sono simili a quelli degli elefanti; hanno un corno in mezzo del fronte, e nondimeno non offendono alcuno con quello, ma solamente con la lingua e con le ginocchia, perchè hanno sopra la lingua alcune spine longhe e aguzze, e quando vogliono offendere alcuno lo calpestano con le ginocchia e lo deprimono, poi lo feriscono con la lingua. Hanno il capo come d'un cinghiale, e portano il capo basso verso la terra. E sta volentieri nel fango, e sono bruttissime bestie, e non sono tali quali si dicono esser nelle parti nostre, che si lasciano prendere dalle donzelle, ma è tutt'il contrario. Hanno molte simie e di diverse maniere, e hanno astori tutti neri come corbi, i quali sono molto grandi e prendono gli uccelli benissimo.
Sappiate esser una gran bugia quello che si dice, che gli uomini picciolini morti e secchi siano portati dall'India, perchè tali uomini in quest'isola sono fatti a mano, e direnvi in che modo. In quest'isola è una sorte di simie, che sono molto picciole e hanno il volto simile al volto umano. I cacciatori le prendono e pelano, lasciandogli solamente i peli nelle barbe e altri luoghi, a similitudine dell'uomo; dopo le mettono in alcune cassette di legno, e le fanno seccare e acconciare con canfora e altre cose, talmente che pareno propriamente che siano stati uomini. Le vendono a' mercanti che le portano per lo mondo, e questo è un grande inganno, però che sono fatti al modo che avete inteso, perchè né in India né in alcune altre parti salvatiche mai furono veduti uomini cosí picciolini come paiono quelli.
Ora non diciamo piú di questo regno, perchè non vi sono altre cose da dire; e però diremo del regno nominato Samara.

Del terzo regno di Samara.
Cap. 13.

Partendosi da Basma, si truova il regno di Samara, il qual è nell'isola sopradetta, dove messer Marco Polo stette cinque mesi, per il tempo contrario che lo costrinse a starvi a suo mal grado. La Tramontana quivi ancora non si vede, né si veggono anco le stelle che sono nel Carro. Quelle genti adorano gl'idoli; hanno re grande e potente, e chiamansi per il gran Can. E cosí stando detto messer Marco tanto tempo in queste isole, discese in terra con circa duemila uomini in sua compagnia, e per paura di quelle genti bestiali, che volentieri prendono gli uomini e gli ammazzano e li mangiano, fece cavar fosse grandi verso la isola intorno di sé, i capi delle quali finivano sopra il porto del mare dall'una parte e l'altra, e sopra le fosse fece far alcuni edificii overo baltresche di legname; e cosí stette sicuramente cinque mesi in quelle fortezze con la sua gente, perchè v'è moltitudine di legname, e quei dell'isola contrattavano con loro di vettovaglie e altre cose, perchè si fidavano.
Quivi sono i migliori pesci che si possano mangiare al mondo; e non hanno frumento, ma vivono di risi; non hanno vino, ma hanno una sorte d'arbori che s'assomiglian alle palme e dattaleri che, tagliandogli un ramo e mettendoli sotto un vaso, getta un liquore che l'empie in un giorno e una notte, ed è ottimo vino da bere, ed è di tanta virtú che libera gli idropici e tisici e quelli che patiscono il male di spienza. E quando quei tronchi non mandano piú liquore fuori adacquano gli arbori, secondo che veggono esser necessario, con condotti che si traggono da' fiumi, e quando sono adacquati mandano fuori il liquore come prima. E sonvi alcuni arbori che di natura mandano fuori il liquor rosso, e alcuni bianco. Truovasi anco noci d'India, grosse com'è il capo dell'uomo, le quali sono buone da mangiare, dolci e saporite e bianche come latte, e il mezo della carnosità di detta noce è pieno d'un liquore come acqua chiara e fresca, e di miglior sapore e piú delicato che 'l vino overo d'alcun'altra bevanda che mai si bevesse. Mangiano finalmente ogni sorte di carni, buone e cattive, senza farli differenza alcuna.

Del quarto regno di Dragoian.
Cap. 14.

Dragoian è un regno che ha re e favella da sua posta; quelle genti sono salvatiche e adorano gl'idoli, e si chiamano per il gran Can. E direnvi un'orrenda loro consuetudine, ch'osservano quand'alcun di loro casca in qualche infermità. Li parenti suoi mandano per li maghi e incantatori, e fanno che costoro vedino ed esaminino diligentemente se questi infermi hanno da guarire o no; e questi maghi, secondo la risposta che fanno li diavoli, gli rispondono s'ei dee guarire. E se dicono di no, i parenti dell'infermo mandano per alcuni uomini (a questo specialmente deputati), che sanno con destrezza chiudere la bocca dell'infermo, e soffocato che l'hanno lo fanno in pezzi e lo cuocono, e cosí cotto i suoi parenti lo mangiano insieme allegramente, e tutto integramente fino alle midolle che sono nell'ossa, di modo che di lui non resta sostanza alcuna, perciochè se vi rimanesse dicono che crearebbe vermini, e mancando ad essi il cibo morrebbono: e per la morte di questi tal vermini dicono che l'anima del morto patirebbe gran pena. E poi, tolte l'ossa, le ripongono in una bella cassetta picciola, e portanla in qualche caverna ne' monti e la sepeliscono, acciochè non siano tocche da bestia alcuna. E ancora, se possono prendere qualche uomo che non sia del suo paese, non potendosi riscattare, l'uccidono e lo mangiano.

Del quinto regno di Lambri.
Cap. 15.

Lambri è un regno che ha re e favella da sua posta, le sue genti adorano gl'idoli, e chiamansi del gran Can. Hanno verzino in gran quantità, e canfora e molte altre specie. Seminano una pianta ch'è simile al verzino, e quand'ell'è nata e cresciuta in piccioli ramuscelli li cavano e li piantano in altri luoghi, dove li lasciano per tre anni; dopo li cavano con tutte le radici e adoperano a tingere. E messer Marco portò di dette semenze a Venezia e seminolle, ma non nacque nulla, e questo perchè richiedono luogo calidissimo. Sono in questo regno uomini che hanno le code piú longhe d'un palmo, a modo di cane, ma non sono pilose: e per la maggior parte sono fatti a quel modo. Questi tali uomini abitano fuori delle città ne' monti. Hanno leoncorni in gran copia e molte cacciagioni di bestie e d'uccelli.

Del sesto regno di Fanfur, dove cavano farina d'arbori.
Cap. 16.

Fanfur è regno e ha re da per sé, le cui genti adorano gl'idoli, e chiamansi per il gran Can, e sono dell'isola sopradetta. Quivi nasce la miglior canfora che trovar si possa, la qual si chiama canfora di Fanfur, ed è miglior dell'altra, e dassi per tant'oro a peso. Non hanno frumento né altro grano, ma mangiano riso e latte, e vino hanno degli arbori, come di sopra s'è detto nel capitolo di Samara.
Oltre di ciò v'è un'altra cosa maravigliosa, cioè che in questa provincia cavano farina d'arbori, perchè hanno una sorte d'arbori grossi e longhi, alli quali levatali la prima scorza, ch'è sottile, si truova poi il suo legno grosso intorn'intorno per tre dita, e tutta la midolla di dentro è farina come quella del carvolo: e sono quegli arbori grossi come potrian abbracciar due omini. E mettesi questa farina in mastelli pieni d'acqua, e menasi con un bastone dentro all'acqua: allora la semola e l'altre immondizie vengono di sopra, e la pura farina va al fondo. Fatto questo si getta via l'acqua, e la farina purgata e mondata che rimane s'adopra, e si fanno di quella lasagne e diverse vivande di pasta, delle qual ne ha mangiato piú volte il detto messer Marco, e ne portò seco alcune a Venezia, qual è come il pane d'orzo e di quel sapore. Il legno di quest'arbore l'assomigliano al ferro, perchè gettato in acqua si sommerge immediate, e si può sfendere per dritta linea da un capo all'altro come la canna, perchè, quando s'ha cavata la farina, il legno, come s'è detto, riman grosso per tre dita: del quale quelle genti fanno lancie picciole e non longhe, perchè se fossero longhe niuno le potria portare, non ch'adoperarle, per il troppo gran peso; e le aguzzano da un capo, qual poi abbruciano, e cosí preparate sono atte a passare ciascun'armatura, e molto meglio che se fossero di ferro. Or abbiamo detto di questo regno, qual è delle parti di quest'isola. Degli altri regni che sono nell'altre parti non diremo, perchè il detto messer Marco non vi fu, e però, procedendo piú oltre, diremo d'una picciola isola nominata Nocueran.

Dell'isola di Nocueran.
Cap. 17.

Partendosi dalla Giava e dal regno di Lambri, poi che s'ha navigato da circa centocinquanta miglia verso tramontana, si truovano due isole, una delle quali si chiama Nocueran e l'altra Angaman. E in questa di Nocueran non è re, e quelle genti sono come bestie, e tutti, cosí maschi come femine, vanno nudi e non cuoprono parte alcuna della loro persona; e adorano gl'idoli. Tutti i loro boschi sono di nobilissimi arbori e di grandissima valuta, e si truovano sandali bianchi e rossi, noci di quelle d'India, garofani, verzino e altre diverse sorti di speciarie.
Né v'essendo altre cose da dire, piú oltre procedendo, diremo dell'isola d'Angaman.

Dell'isola di Angaman.
Cap. 18.

Angaman è un'isola grandissima, che non ha re, le cui genti adoran gl'idoli, e sono come bestie salvatiche, conciosiacosachè mi fosse detto ch'hanno il capo simile a quello de' cani, e gli occhi e denti. Sono genti crudeli, e tutti quegli uomini che possono prendere gli ammazzano e mangiano, pur che non siano della sua gente. Hanno abondanza di tutte le sorti di specie. Le sue vettovaglie sono risi e latte e carne d'ogni maniera, e hanno noci d'India, pomi paradisi, e molti altri frutti diversi da' nostri.

Dell'isola di Zeilan.
Cap. 19.

Partendosi dall'isola d'Angaman, poi che s'è navigato da mille miglia per ponente, e alquanto meno verso garbin, si truova l'isola di Zeilan, la qual al presente è la miglior isola che si truovi al mondo della sua qualità, perchè gira di circuito da duemila e quattrocento miglia. E anticamente era maggiore, perchè girava a torno a torno ben tremila e seicento miglia, secondo che si truova ne' mapamondi de' marinari di quei mari; ma il vento di tramontana vi soffia con tanto empito che ha corroso parte di quei monti, quali sono cascati e sommersi in mare, e cosí è perso molto del suo territorio: e questa è la causa perchè non è cosí grande al presente come fu già per il passato. Quest'isola ha un re, che si chiama Sendernaz; le genti adorano gl'idoli, e non danno tributo ad alcuno. Gli uomini e le donne sempre vanno nudi, eccetto che cuoprono la loro natura con un drappo. Non hanno biade, se non risi e susimani, de' quali fanno olio. Vivono di latte, risi e carne, e vino degli arbori sopradetti, e hanno abondanza del miglior verzino che si possa trovar al mondo.
In questa isola nascono buoni e bellissimi rubini, che non nascono in alcun altro luogo del mondo, e similmente zafiri, topazii, ametisti, granate, e molt'altre pietre preciose e buone. E il re di quest'isola vien detto aver il piú bel rubino che giamai sia stato veduto al mondo, longo un palmo e grosso com'è il braccio d'un uomo, splendente oltre modo, e non ha pur una macchia, che pare che sia un fuoco che arda; ed è di tanta valuta che non si potria comprare con denari. Cublai gran Can mandò ambasciatori a questo re, pregandolo che, s'ei volesse concederli quel rubino, li daria la valuta d'una città; egli rispose che non glielo daria per tesoro del mondo, né lo lasciarebbe andar fuori delle sue mani, per essere stato de' suoi predecessori: e per questa causa il gran Can non lo poté avere. Gli uomini di quest'isola non sono atti all'arme, per essere vili e codardi, e se hanno bisogno d'uomini combattitori truovano gente d'altri luoghi vicini a' saraceni.
E non essendovi altre cose memorabili, procedendo piú oltre narreremo di Malabar.

Della provincia di Malabar.
Cap. 20.

Partendosi dall'isola di Zeilan, e navigando verso ponente miglia sessanta, si truova la gran provincia di Malabar, la qual non è isola ma terra ferma, e si chiama India maggiore, per essere la piú nobile e la piú ricca provincia che sia al mondo. Sono in quella quattro re, ma il principale, ch'è capo della provincia, si chiama Senderbandí. Nel suo regno si pescano le perle, cioè che fra Malabar e l'isola di Zeilan v'è un colfo overo seno di mare, dove l'acqua non è piú alta di dieci in dodici passa, e in alcuni luoghi due passa, e pescansi in questo modo: che molti mercanti fanno diverse compagnie, e hanno molte navi e barche grandi e picciole, con ancore per poter sorgere, e menano seco uomini salariati, che sanno andare nel fondo a pigliar le ostriche, nelle quali sono attaccate le perle, e le portano di sopra in un sacchetto di rete legato al corpo, e poi ritornano di nuovo, e quando non possono sostenere piú il fiato vengono suso, e stati un poco se ne descendono, e cosí fanno tutt'il giorno. E pigliansi in grandissima quantità, delle quali si fornisce quasi tutt'il mondo, per essere la maggior parte di quelle che si pigliano in questo colfo tonde e lustri. Il luogo dove si truovano in maggior quantità dette ostreche si chiama Betala, ch'è sopra la terra ferma, e di lí vanno al dritto per sessanta miglia per mezogiorno. Ed essendovi in questo colfo pesci grandi ch'uccideriano i pescatori, però i mercanti conducon alcuni incantatori d'una sorte di Bramini, quali per arte diabolica sanno constringere e stupefare i pesci, che non li fanno male; e perchè pescano il giorno, però la sera disfanno l'incanto, temendo ch'alcuno nascosamente, senza licenza de' mercanti, non discenda la notte a pigliar l'ostreche: e i ladri, che temono detti pesci, non osano andarvi di notte. Questi incantatori sono gran maestri di saper incantare tutti gli animali, e anco gli uccelli. Questa pescagione comincia per tutto il mese d'aprile fino a mezo maggio, la qual comprano dal re, e li danno solamente la decima (e ne cava grandissima utilità), e alli incantatori la vigesima. Finito detto tempo piú dette ostriche non si truovano, ma fanno passaggio ad un altro luogo, distante da questo colfo trecento e piú miglia, dove si truovano per il mese di settembre fino a mezo ottobrio. Di queste perle, oltre la decima che danno i mercanti, il re vuol tutte quelle che sono grosse e tonde, e le paga cortesemente, sí che tutti gliele portano volentieri.
Il popolo di questa provincia in ogni tempo va nudo, eccetto che (com'è detto) si cuoprono le parti vergognose con un drappo, e il re similmente va come gli altri: vero è ch'ei porta alcune cose per onorificenzia regale, cioè atorno il collo una collana piena di pietre preciose, zafiri, smeraldi e rubini, che vagliono un gran tesoro; li pende al collo ancor un cordone di seta sottile che discende fin al petto, nel quale sono cento e quattro perle grosse e belle e rubini, che sono di gran valuta. E la causa è questa, perchè gli conviene ogni giorno dir cento e quattro orazioni all'onor de' suoi idoli, perchè cosí comanda la lor legge e cosí osservarono i re suoi predecessori. L'orazione che dicono ogni giorno sono queste parole: "Pacauca, Pacauca, Pacauca", e le dicono cento e quattro volte. Item porta alle braccia in tre luoghi braccialetti d'oro ornati di perle e gioie, e alle gambe in tre luoghi cintole d'oro, tutte coperte di perle e gioie, e sopra le dita de' piedi e delle mani, ch'è cosa maravigliosa da vedere, non che stimare si potesse la valuta: ma a questo re è facile, nascendo tutte le gioie e perle nel suo regno. Questo re ha ben mille concubine e mogli, perchè, subito ch'ei vede una bella donna, la vuol per sé: e per questo tolse la moglie ch'era di suo fratello, qual, per esser uomo prudente e savio, sostenne la cosa in pace e non fece altro scandalo, ancor che molte volte fosse in procinto di farli guerra; ma la lor madre li mostrava le mammelle, dicendogli: "Se farete scandalo tra voi, io mi taglierò le mammelle che v'hanno nutriti", e cosí rimaneva la quistione. Ha ancora questo re molti cavalieri e gentiluomini, che si chiamano fedeli del re in questo mondo e nell'altro. Questi servono al re nella corte, e cavalcano con lui standoli sempre appresso, e come va il re questi l'accompagnano, e hanno gran dominio in tutt'il regno. Quand'ei muore, s'abbrucia il suo corpo: allora tutti questi suoi fedeli si gettano volontariamente lor medesimi nel fuoco e s'abbruciano, per causa d'accompagnarlo nell'altro mondo.
In questo regno è ancora tal consuetudine, che quando muore il re i suoi figliuoli che succedono non toccano il tesoro di quello, perchè dicono che saria sua vergogna che, succedendo in tutt'il regno, lui fosse cosí vile e da poco ch'ei non se ne sapesse acquistare un altro simile: e però è opinione che si conservi infiniti tesori nel palagio del re, per memoria degli altri re passati. In questo reame non nascono cavalli, e per questa causa il re di Malabar e gli altri quattro re suoi fratelli consumano e spendono ogn'anno molti denari in quelli, perchè ne comprano dalli mercanti d'Ormus, Diufar, Pecher e Adem, e d'altre provincie, che glieli conducono: e si fanno ricchi, perchè gliene vendono da cinquemila per cinquecento saggi d'oro l'uno, che vagliono cento marche d'argento; e in capo dell'anno non ne rimangono vivi trecento, perchè non hanno chi li sappino governare, né mariscalchi che li sappino medicare, e bisogna che ogn'anno li rinovino. Ma io penso che l'aere di questa provincia non sia conforme alla natura de' cavalli, perchè quivi non nascono, e però non si possono conservare. Li danno da mangiare carne cotta con risi, e molti altri cibi cotti, perchè non vi nasce altra sorte di biade che risi. Se una cavalla grande sarà pregna di qualche bel cavallo, non però partorisce se non un poledro picciolo, mal fatto e con li piedi storti, e che non è buono per cavalcare.
S'osserva in detto regno quest'altra consuetudine, che quand'alcun ha commesso qualche delitto, per il quale si giudichi ch'ei meriti la morte, e il signore lo voglia far morire, allora il condannato dice ch'egli si vuole uccidere ad onore e riverenza di tal idolo, e immediate tutti i suoi parenti e amici lo pongono sopra una catedra, con dodici coltelli ben ammolati e taglienti, e lo portano per la città esclamando: "Questo valent'uomo si va ad ammazzar se medesimo per amor del tal idolo". E giunti al luogo dove si dee far giustizia, quel che dee morire piglia due coltelli e grida in alta voce: "Io m'uccido per amor di tal idolo", e subito in un colpo si darà due ferite nelle cosse, e dopo due nelle braccia, due nel ventre e due nel petto, e cosí ficca tutti i coltelli nella sua persona, gridando ad ogni colpo: "Io mi uccido per amor di tal idolo". E poi che s'ha fitti tutti i coltelli nella vita, l'ultimo si ficca nel cuore, e subito muore. Allora i suoi parenti con grand'allegrezza abbruciano quel corpo, e la moglie immediate si getta nel fuoco, lasciandosi abbruciare per amor del marito: e le donne che fanno questo sono molto laudate dall'altre genti, e quelle che non lo fanno sono vituperate e biasimate.
Questi del regno adorano gl'idoli, e per la maggior parte adorano buoi, perchè dicono ch'il bue è cosa santa, e niun mangierebbe delle carni del bue per alcuna causa del mondo. Ma v'è una sorte d'uomini, che si chiamano gavi, i quali, benchè mangino carne di bue, non però ardiscono d'ucciderli, ma quando alcun bue muore di propria morte, overo altrimenti, essi gavi ne mangiano, e tutti imbrattano le loro case di sterco di buoi. Hanno queste genti per costume di sedere in terra sopra tapeti, e se sono domandati perchè ciò fanno, dicono che 'l sedere sopra la terra è cosa molto onorata, perchè essendo noi di terra ritorneremo in terra, e niuno potrebbe mai tanto onorare la terra che fosse bastevole, e però non si dee dispregiarla. E questi gavi e tutti della loro progenie sono di quelli i predecessori de' quali ammazarono san Tommaso apostolo, e niuno de' detti potria entrare nel luogo dov'è il corpo del beato apostolo, ancor che vi fosse portato per dieci uomini, perchè detto luogo non riceve alcuno di loro, per la virtú di quel corpo santo.
In questo regno non nasce alcuna biada, se non risi e susimani. Queste genti vanno alla battaglia con lancie e scudi, e sono nude, e sono genti vili e da poco, senz'alcuna prattica di guerra. Non ammazzano bestie alcune overo animali, ma quando vogliono mangiar carne di montoni o altre bestie overo uccelli, le fanno uccidere da saraceni e da altre genti che non osservano i costumi e leggi loro. Si lavano, cosí uomini come donne, due volte il giorno in acqua tutto il corpo, cioè la mattina e la sera, altrimenti non mangiariano né beveriano, se prima non fossero lavati: e quello che non si lavasse due volte il giorno saria tenuto come eretico. Ed è da sapere che nel suo mangiare adoperano solamente la mano destra, né toccariano cibo alcuno con la mano sinistra, e tutte le cose monde e belle operano e toccano con la mano destra, perchè l'officio della mano sinistra è solamente circa le cose necessarie brutte e immonde, come saria far nette le parti vergognose e altre cose simili a queste. Item bevono solamente con boccali, e ciascuno col suo, né alcuno beveria col boccale d'un altro, e quando bevono non si mettono il boccale alla bocca, ma lo tengono elevato in alto e gettansi il vino in bocca, né toccariano il boccale con la bocca per modo alcuno, né dariano bere con quei boccali ad alcun forestiere; ma, se il forestiero non averà vaso proprio da bere, essi gli gettano del vino intra le mani ed egli berà con quelle, adoperando le mani in luogo d'una tazza.
In questo regno si fa grandissima e diligente giustizia di ciascun maleficio; e de' debiti s'osserva tal ordine appresso di loro: s'alcun debitore sarà piú volte richiesto dal suo creditore, ed ei vada con promissioni differendo di giorno in giorno, e il creditore lo possa toccare una volta, talmente ch'ei li possa designare un circolo a torno, il debitore non uscirà fuor di quel circolo fin che non avrà sodisfatto al creditore, overo gli darà una cauzione che sarà sodisfatto; altramente, uscendo fuori del circolo, come transgressore della ragione e giustizia sarà punito col supplicio della morte. E vidde il sopradetto messer Marco nel suo ritorno a casa, essendo nel detto regno, che, dovendo dare il re ad un mercante forestiero certa somma di denari, ed essendo piú volte stato richiesto, lo menava con parole alla longa; un giorno, cavalcando per la terra il re, il mercante, trovata l'opportunità, li fece un circolo a torno, circuendo anco il cavallo: il che vedendo, il re non volse col cavallo andar piú oltre, né di lí si mosse fin che 'l mercante non fu sodisfatto. La qual cosa veduta dalle genti circonstanti, molto si maravigliarono, dicendo che giustissimo era il re, avendo ubbidito alla giustizia.
Detti popoli si guardano grandemente da bere vino fatto d'uva, e quello che ne bee non si riceve per testimonio, né quello che naviga per mare, perchè dicono che chi naviga per mare è disperato, e però non lo ricevono in testimonio. Non reputano che la lussuria sia peccato. E vi è cosí gran caldo che gli è una cosa mirabile, e però vanno nudi; e non hanno pioggia se non solamente del mese di giugno, luglio e agosto, e se non fosse quest'acqua, che piove questi tre mesi, che dà refrigerio all'aria, non si potria vivere.
Ivi sono ancora molti savii in una scienzia che si chiama fisionomia, la quale insegna a conoscere la proprietà e qualità degli uomini che sono buoni o cattivi: e questo conoscono subito che veggono l'uomo e la donna. Conoscono anco quel che significa incontrandosi in uccelli o bestie, e danno mente al volare degli uccelli piú di tutti gli uomini del mondo, e preveggono il bene e male. Item per ciascun giorno della settimana hanno un'ora infelice, qual chiamano choiach, come il giorno del lunedí l'ora di meza terza, il giorno del martedí l'ora di terza, il giorno di mercordí l'ora di nona, e cosí di tutti i giorni per tutto l'anno, li quali hanno descritti e determinati ne' loro libri; e conoscono l'ore del giorno al conto de' piedi che fa l'ombra dell'uomo quando sta ritto, e si guardano in tal ore di far mercati o altre facende di mercanzie, perchè dicono che li riescono male. Item, quando nasce alcun fanciullo o fanciulla in questo regno, subito il padre o la madre fanno metter in scritto il giorno della sua natività e della luna il mese e l'ora: e questo fanno perchè esercitano tutti i loro fatti per astrologia. E tutti quelli ch'hanno figliuoli mascoli, subito che sono in età d'anni tredici, li licenziano di casa, privandoli del vivere di casa, perchè dicono che oramai sono in età di potersi acquistar il vivere, e far mercanzie e guadagnare: e a ciascuno danno venti o ventiquattro grossi, overo moneta di tanta valuta. Questi fanciulli non cessano tutto il giorno correre or qua or là, comprando una cosa e dopo vendendola; e al tempo che si pescano le perle corrono alli porti, e comprano dalli pescatori e da altri cinque o sei perle, secondo che possono, e le portano a' mercanti che stanno nelle case per paura del sole, dicendoli: "A me costano tanto, datemi quello che vi piace di guadagno", ed essi li danno qualche cosa di guadagno, oltre il prezzo che sono costate loro. E cosí s'esercitano in molte altre cose, facendosi ottimi e sottilissimi mercanti, e dopo portano a casa delle loro madri le cose necessarie, ed esse le cucinano e apparecchiano, ma non mangiano cosa alcuna a spese de' padri loro.
Item in questo regno e per tutta l'India tutte le bestie e uccelli sono diversi da' nostri, eccetto le quaglie, le quali s'assomigliano alle nostre; ma tutte l'altre cose sono diverse da quelle che abbiamo noi. Hanno pipistrelli grandi come sono astori, e gli astori negri come corbi, e molto maggiori de' nostri, e volano velocemente e prendono uccelli.
Hanno ancora molti idoli ne' loro monasterii, di forma di maschio e di femina, a' quali i padri e le madri offeriscono le figliuole; e quando l'hanno offerte, ogni volta che li monachi di quel monasterio ricercano ch'elle venghino a dar solazzo agl'idoli, subito vanno, e cantano e suonano facendo gran festa: e dette donzelle sono in gran quantità e con gran compagnie, e portano molte volte la settimana a mangiare agl'idoli a' quali sono offerte, e dicono che gl'idoli mangiano, e gli apparecchiano la tavola avanti di loro, con tutte le vettovaglie ch'hanno portato, e la lasciano apparecchiata per il spazio d'una buona ora, sonando e cantando continuamente e facendo gran sollazzo, qual dura tanto quanto un gentiluomo potria desinare a suo commodo. Dicono allora le donzelle che gli spiriti degl'idoli hanno mangiato ogni cosa, e loro poi si pongono a mangiare atorno gl'idoli, e dopo ritornan alle loro case. E la causa perchè le fanno venire a fare queste feste è perchè dicono i monachi che 'l dio è turbato e adirato con la dea, né si congiungono l'uno con l'altro né si parlano, e che, se non faranno pace, tutte le facende loro andranno di male in peggio e non vi daranno la benedizione e grazia loro: e però fanno venir le dette donzelle al modo sopradetto, tutte nude, eccetto che si cuoprono la natura, e che cantino avanti il dio e la dea. E hanno opinione quelle genti che 'l dio molte volte si solazza con quella, e che si congiungano insieme.
Gli uomini hanno le loro lettiere di canne leggierissime, e con tale artificio che, quando vi sono dentro e vogliono dormire, si tirano con corde appresso al solaro e quivi si fermano. Questo fanno per schifare le tarantole, le quali mordono grandemente, e per schifare i pulici e altri verminezzi, e per pigliar il vento, per mitigar il gran caldo che regna in quelle bande. La qual cosa non fanno tutti, ma solamente i nobili e grandi, però che gli altri dormono sopra le strade.
Nella provincia detta di Malabar v'è il corpo del glorioso messer san Tommaso apostolo, ch'ivi sostenne il martirio: ed è in una picciola città, alla qual vanno pochi mercanti, per non essere luogo a loro proposito; ma vi vanno infiniti cristiani e saraceni per devozione, perchè dicono ch'egli fu gran profeta, e lo chiamano anania, cioè uomo santo. E li cristiani che vanno a questa divozione togliono della terra di quel luogo dov'egli fu ucciso, la qual è rossa, e portansela seco con riverenzia, e spesso fanno miracoli, perchè, distemperata in acqua, la danno a bere agli ammalati e guariscono di diverse infermità. E nell'anno del Signore 1288 un gran principe di quella terra, nel tempo che si raccogliono le biade, avea raccolto grandissima quantità di risi, e non avendo case a bastanza dove potesse reponerli, li parve di metterli nelle case della chiesa di S. Tomaso, contra la volontà delle guardie di quelle, quali pregavano che non dovesse occupare le case dove alloggiavano li peregrini che venivano a visitar il corpo di quel glorioso santo; ma lui, ostinato, glieli fece mettere. Or la notte seguente questo santo apostolo apparve in visione al principe, tenendo una lancetta in mano, e ponendogliela sopra la gola gli disse: "Se non svoderai le case che m'hai occupato, io ti farò malamente morire". Il principe, svegliatosi tutto tremante, immediate fece far quanto gli era stato comandato, e disse publicamente a tutti come egli aveva veduto in visione detto apostolo. E molti altri miracoli tutt'il giorno si veggono, per intercessione di questo beato apostolo. I cristiani che custodiscono detta chiesa hanno molti arbori che fanno le noci d'India, com'abbiamo scritto di sopra, quali li danno il vivere, e pagan ad un di questi re fratelli un grosso ogni mese per arbore. Dicono che quel santissimo apostolo fu morto in questo modo, ch'essendo lui in un romitorio in orazione, v'erano intorno molti pavoni, de' quali quelle contrade sono tutte ripiene: un idolatro della generazione de' gavi detti di sopra, passando di quivi né vedendo detto santo, tirò con una saetta ad un pavone, la qual andò a ferire nel costato di quel santissimo apostolo, qual, sentendosi ferito, referendo grazie al nostro Signor Iddio rese l'anima a quello.
In detta provincia di Malabar gli abitanti sono negri, ma non nascono cosí com'essi si fanno con artificio, perchè reputano la negrezza per gran beltà, e però ogni giorno ungono li fanciullini tre volte con olio di susimani. Gli idolatri di questa provincia fanno le imagini de' loro idoli tutte nere, e dipingon il diavolo bianco, dicendo che tutti li demoni sono bianchi. E quelli ch'adorano il bue, come vanno a combattere, portano seco del pelo del bue salvatico, e li cavallieri legano del detto pelo alle crene del cavallo, tenendolo che sia di tanta santità e virtú che ciascuno che n'ha sopra di sé sia sicuro da ogni pericolo: e per questa causa i peli de' buoi salvatichi vagliono assai denari in quelle parti.

Del regno di Murphili, overo Monsul.
Cap. 21.

Il regno di Murphili si truova quando si parte da Malabar e si va per tramontana cinquecento miglia. Adorano gl'idoli e non danno tributo ad alcuno; vivono di risi, carne, latte, pesce e frutti. Ne' monti di questo regno si truovano i diamanti, perchè quando piove l'acqua descende da quelli con grand'impeto e ruina per le rupi e caverne, e poi ch'è scorsa l'acqua gli uomini li vanno cercando per li fiumi, e ne truovano molti. E fu detto al prefato messer Marco che la state, ch'è grandissimo caldo e non piove, montano sopra detti monti con gran fatica, e per la moltitudine de' serpi che si trovano in quelli, e nelle sommità vi sono alcune valli circondate da grotte e caverne dove si truovano detti diamanti, e vi pratticano di continuo molte aquile e cicogne bianche, che si cibano de' detti serpi. Quelli adunque che vogliono averne gettano, stando sopra le grotte, molti pezzi di carne in dette valli, e l'aquile e cicogne, vedendo le carni, le vanno a pigliare e portano a mangiare sopra le grotte overo sommità de' monti, dove immediate corrono gli uomini e le discacciano, togliendoli le carni: e spesse fiate truovano attaccati in quelle i diamanti. E se l'aquile mangiano le carni, vanno al luogo dove dormono la notte, e truovano alle fiate de' diamanti nel sterco e immondizie di quelle. In questo regno si fanno i migliori e piú sottili boccascini che si truovino in tutta l'India.

Della provincia di Lac overo Loac e Lar.
Cap. 22.

Partendosi dal luogo dove è il corpo del glorioso apostolo s. Tommaso, e andando verso ponente, si truova la provincia di Lac. Di qui hanno origine li Bramini, che sono sparsi poi per tutta l'India: questi sono li migliori e piú veridici mercanti che si truovino, né direbbono mai una bugia per qualunque cosa che dir si potesse, ancor se v'andasse la vita. Si guardano grandemente di robbare e tor la robba d'altrui; son ancora molto casti, perchè si contentano d'una moglie sola. E se alcuno mercante forestiero e che non conosca li costumi della contrada si raccomandi a loro e li dia in salvo le sue mercanzie, questi Bramini le custodiscono, vendono e barattanle lealmente, procurando l'utilità del forestiero con ogni cura e sollicitudine, non li dimandando alcuna cosa per premio, se per sua gentilezza il mercante non gliene dona. Mangiano carne e bevono vino; non uccideriano alcun animale, ma lo fanno uccidere da' saraceni. Si conoscono i Bramini per certo segnale che portano, che è un fil grosso di bambagio sopra la spalla, e leganlo sotto il braccio, di modo che quel filo appare avanti il petto e dopo le spalle. Hanno un re qual è molto ricco e potente, e che si diletta di perle e pietre preciose; e quando i mercanti di Malabar gliene possono portare qualcuna che sia bella, credendo alla parola del mercante, li dà due volte tanto quanto la gli costa: però li vengono portate infinite gioie. Sono grandi idolatri, e si dilettano d'indovinare, e massime negli augurii, e se vogliono comprare alcuna cosa, riguardano subito nel sole la sua propria ombra, e facendo le regole della sua disciplina procedono nella sua mercanzia. Sono molto astinenti nel mangiare e vivono lungamente; i suoi denti sono molto buoni, per certa erba che usano a masticare, la qual fa ben digerire ed è molto sana a' corpi umani.
Sono fra costoro in detta regione alcuni idolatri, quali sono religiosi e si chiamano tingui, e a reverenzia de' loro idoli fanno una vita asprissima. Vanno nudi e non si cuoprono parte alcuna del corpo, dicendo che non si vergognano d'andare nudi, perchè nacquero ancor nudi, e circa le parti vergognose dicono che, non facendo alcuno peccato con quelle, non si vergognano di mostrarle. Adorano il bue, e ne portan un picciolo di lattone o d'altro metallo indorato legato in mezo la fronte. Abbruciano ancor l'ossa de' buoi e ne fanno polvere, con la quale fanno un'unzione che si ungono il corpo in piú luoghi con gran riverenzia; e se incontrano alcuno che li facci buona cera, li mettono in mezo la fronte un poco di detta polvere. Non uccideriano animale alcuno, né mosche né pulici né pidocchi, perchè dicono che hanno anima, né mangiariano d'animal alcuno, perchè li pareria di commetter gran peccato. Non mangiano alcuna cosa verde, né erbe né radici, fino che non sono secche, perchè tutte le cose verdi dicono che hanno anima. Non usano scodelle né taglieri, ma mettono le sue vivande sopra le foglie secche di pomi d'Adamo, che si chiamano pomi di paradiso. Quando vogliono alleggerire il ventre vanno al lido del mare, dove in la rena depongono il peso naturale, e subito lo dispergono in qua e là, acciò che 'l non faccia vermini, che poi morirebbono di fame, e loro farebbono grandissimo peccato per la morte di tante anime.
Vivono lungamente sani e gagliardi, perchè alcuni di loro arrivano fino a cento e cinquanta anni, ancor che dormino sopra la terra: ma si pensa che sia per l'astinenzia e castità che servano; e come sono morti abbruciano i loro corpi.

Dell'isola di Zeilan.
Cap. 23.

Non voglio restare di scrivere alcune cose che ho lasciato di sopra quando ho parlato dell'isola di Zeilan, le quali intesi ritrovandomi in quei paesi quando ritornavo a casa. Nell'isola di Zeilan dicono esservi un monte altissimo, cosí dirupato nelle sue rupi e grotte che niuno vi può ascendere se non in questo modo, che da questo monte pendono molte catene di ferro, talmente ordinate che gli uomini possono per quelle ascendere fino alla sommità, dove dicono esservi il sepolcro d'Adamo primo padre. Questo dicono i saraceni, ma gl'idolatri dicono che vi è il corpo di Sogomonbarchan, che fu il primo uomo che trovasse gl'idoli, e l'hanno per un uomo santo. Costui fu figliuolo d'un re di quell'isola, e si dette alla vita solitaria, e non voleva né regno né alcuna altra cosa mondana, ancor che 'l padre, con il mezo di bellissime donzelle, con tutte le delizie che imaginar si possa, si sforzasse di levarlo da questa sua ostinata opinione. Ma non fu mai possibile, di modo che 'l giovane nascosamente si fuggí sopra questo altissimo monte, dove castamente e con somma astinenzia finí la vita sua: e tutti gl'idolatri lo tengono per santo. Il padre, disperato, ne ebbe grandissimo dolore, e fece far un'imagine a similitudine sua, tutta d'oro e di pietre preciose, e volse che tutti gli uomini di quella isola l'onorassero e adorassero come iddio: e questo fu principio dell'adorare gl'idoli, e gl'idolatri hanno questo Sogomonbarchan per il maggior di tutti gli altri, e vengono di molte parti lontane in peregrinaggio a visitare questo monte dove egli è sepolto. E quivi si conservano ancor de' suoi capelli, denti e un suo catino, che mostrano con gran cerimonie. Li saraceni dicono che sono di Adam, e vi vanno ancor loro a visitarlo per devozione. E accadette che nel 1281 il gran Can intese, da saraceni ch'erano stati sopra detto monte, come vi si truovano le cose sopradette del nostro padre Adam, per il che li venne tanto desiderio di averne ch'ei fu forzato di mandar ambasciatori al detto re di Zeilan a dimandargliene; quali vennero dopo gran cammino e giornate al re, e impetrorono duoi denti mascellari, ch'erano grandi e grossi, e un catino, ch'era di porfido molto bello, e ancora delli capelli. E inteso il gran Can come li suoi ambasciatori ritornavano con le dette reliquie, li mandò ad incontrare fuori della città da tutto il popolo di Cambalú, e furono condotte alla sua presenzia con gran festa e onore.
E avendo parlato di questo monte di Zeilan, ritorniamo al regno di Malabar e alla città di Cael.

Della città di Cael.
Cap. 24.

Cael è una nobile e gran città, la quale signoreggia Astiar, un di quattro fratelli, re della provincia di Malabar, qual è molto ricco d'oro e gioie, e mantiene il suo paese in gran pace; e li mercanti forestieri vi capitano volentieri, per essere da quel re ben visti e trattati. Tutte le navi che vengono di ponente, Ormus, Chisti, Adem, e di tutta l'Arabia, cariche di mercanzie e cavalli, fanno porto in questa città, per essere posta in buon luogo per mercadantare. Ha questo re ben trecento moglie, le quali mantiene con grandissima pompa.
Tutte le genti di questa città e anco di tutta l'India hanno un costume, che di continuo portano in bocca una foglia chiamata tembul, per certo abito e delettazione, e vannola masticando, e sputano la spuma che la fa. I gentiluomini, signori e re hanno dette foglie acconcie con canfora e altre specie odorifere, ed eziandio con calcina viva mescolata: e mi fu detto che questo li conservava molto sani. E se alcuno vuol far ingiuria ad un altro o villaneggiarlo, come l'incontra gli sputa nel viso di quella foglia o spuma, e subito costui corre al re e dice l'ingiuria che gli è stata fatta e ch'ei vuol combattere: e il re li dà l'armi, che è una spada e rotella, e tutto il popolo vi concorre, e qui combattono fin che un di loro resta morto. Non possono menare di punta, perchè gli è proibito dal re.

Del regno di Coulam.
Cap. 25.

Coulam è un regno che si truova partendosi dalla provincia di Malabar verso garbin cinquecento miglia. Adorano gl'idoli; vi sono anco cristiani e giudei, che hanno parlare da per sé. Il re di questo regno non dà tributo ad alcuno. Vi nasce verzino molto buono e pevere in grande abondanzia, perchè in tutte le foreste e campagne se ne truova. Lo raccolgono nel mese di maggio, giugno e luglio, e gli arbori che lo producono sono domestichi. Hanno ancora endego molto buono e in grande abondanzia, qual fanno d'erbe alle quali, levateli le radici, pongono in mastelli grandi pieni di acqua, dove le lassano star fin che si putrefanno, e poi di quelle esprimono fuor il sugo; qual post'al sole bolle tanto che si disecca e fassi come una pasta, qual poi si taglia in pezzi, al modo che si vede che viene condotta a noi. Qui è grandissimo caldo in alcuni mesi, che a pena si può sopportare; pur li mercanti vi vengono di diverse parti del mondo, come del regno di Mangi e dell'Arabia, per il gran guadagno che truovano delle mercanzie che portano dalla loro patria e di quelle che riportano con le loro navi di questo regno.
Vi si truovano molte bestie diverse dall'altre del mondo, perchè vi sono leoni tutti negri, e pappagalli di piú sorte, alcuni bianchi come neve con li piedi e becco rosso, altri rossi e azzurri e alcuni picciolissimi. Hanno anco pavoni, piú belli e maggiori de' nostri e di altra forma e statura, e le loro galline sono molto diverse dalle nostre; e il simile è in tutti li frutti che nascono appresso di costoro: la causa dicono che sia per il gran caldo che regna in quelle parti. Fanno vino di un zucchero di palma, qual è molto buono e fa imbriacare piú di quello d'uva. Hanno abondanzia di tutte le cose necessarie al vivere umano, eccetto che di biave, perchè non vi nasce se non riso, ma quello in gran quantità. Hanno molti astrologhi e medici che sanno ben medicare; e tutti, cosí uomini come donne, sono neri e vanno nudi, eccetto che si pongono alcuni belli drappi avanti la natura. Sono molto lussuriosi, e pigliano per mogli le parenti germane, le matrigne (se 'l padre è morto), e le cognate: e questo s'osserva, per quello ch'io intesi, per tutta l'India.

De Cumari.
Cap. 26.

Cumari è una provincia nell'India, della quale si vede un poco della stella della nostra tramontana, la quale non si può vedere dall'isola della Giava fino a questo luogo, dal quale, andando in mare trenta miglia, si vede un cubito di sopra l'acqua. Questa contrada non è molto domestica, ma salvatica, e vi sono bestie di diverse maniere, specialmente simie, di tal sorte fatte e cosí grandi che pareno uomini. Vi sono ancora gatti maimoni, molto differenti in grandezza e piccolezza dagli altri; hanno leoni, leonpardi e lupi cervieri in grandissimo numero.

Del regno di Dely.
Cap. 27.

Partendosi dalla provincia di Cumari e andando verso ponente per trecento miglia si truova il regno di Dely, che ha proprio re e favella; non dà tributo ad alcuno. Questa provincia non ha porto, ma un fiume grandissimo che ha buone bocche. Gli abitatori adorano gl'idoli. Questo non è potente in moltitudine o vero valore delli suoi popoli, ma è sicuro per la fortezza de' passi della regione, che sono di tal sorte che li nimici non vi possono andare ad assaltare. Vi è abondanza di pevere e gengero che vi nasce, e altre speciarie. Se alcuna nave venisse ad alcuna di queste bocche del detto fiume o vero porto per qualche accidente e non per propria volontà, li togliono tutto quello che hanno in nave di mercanzie, dicendo: "Voi volevate andare altrove, e il nostro dio vi ha condutto qui acciochè abbiamo le robbe vostre". Le navi di Mangi vengono per la estate e si cargano per ventura in otto giorni, e piú tosto che possono si partono, perchè non vi è molto buon stare, per essere la spiaggia tutta di sabbione e molto pericolosa, ancor che le dette navi portino assai ancore di legno, cosí grandi che in ogni gran fortuna ritengono le navi. Vi sono leoni e molte altre bestie feroci e salvatiche.

Di Malabar.
Cap. 28.

Malabar è un regno grandissimo nell'India maggiore verso ponente, del quale non voglio restare di dire ancora alcune altre particularità, le cui genti hanno re e lingua propria; non danno tributo ad alcuno. Da questo regno appare la stella della tramontana sopra la terra due braccia. Sono in questo reame e in quello di Guzzerat, qual è poco lontano, molti corsari, i quali vanno in mare ogni anno con piú di cento navilii, e prendono e rubano le navi di mercanti che passano per quei luoghi. Detti corsari menano in mare le lor mogli e figliuoli, e grandi e piccioli, e vi stanno tutta la state. E acciochè non vi possi passar nave alcuna che non la prendino, si mettono in ordinanza, cioè che un navilio sta sorto con l'ancora per cinque miglia lontano un dall'altro, sí che venti navilii occupano il spazio di cento miglia; e subito che veggono una nave fanno segno con fuoco o con fumo, e cosí tutti si ragunano insieme e pigliano la nave che passa. Non gli offendono nella persona, ma, svaligiata la nave, mettono quelli sopra il lito, dicendoli: "Andate a guadagnare dell'altra robba; forsi che passerete di qua di nuovo, dove ne arrichirete".
In questa regione v'è grandissima copia di pevere, zenzero e cubebe e noci d'India. Fanno ancora boccascini, i piú belli e piú sottili che si trovino al mondo. E le navi di Mangi portano del rame per saorna delle navi, e appresso panni d'oro, di seda, veli e oro e argento, e molte sorti di specie che non hanno quelli di Malabar, e queste tal cose contracambiano con le mercanzie della detta provincia. Si truovano poi mercanti che le conducono in Adem, e di lí vengono portate in Alessandria.
E avendo parlato di questo regno di Malabar, diremo di quello di Guzzerati, che è vicino. E sappiate che, se vogliamo parlare di tutte le città de' regni d'India, saria cosa troppo longa e tediosa, ma toccheremo solamente quelli delli quali abbiamo avuto qualche informazione.

Del regno di Guzzerat.
Cap. 29.

Il reame di Guzzerati ha proprio re e propria lingua; è appresso il mare d'India verso l'occidente. Quivi appare la stella tramontana alta sei braccia. Vi sono in questo reame li maggior corsari che si possino imaginare, perchè vanno fuori con li suoi navilii e, come prendono alcuno mercante, subito li fanno bere un poco di acqua di mare mescolata con tamarindi, che li muove il corpo e fa andar da basso: e la causa è questa, perchè li mercanti, vedendo venire i corsari, inghiottono le perle e gioie che hanno per asconderle, e costoro gliele fanno uscir fuori del corpo.
Quivi è grand'abbondanza di zenzeri, pevere ed endego; hanno bambagio in gran quantità, perchè hanno gli arbori che lo producono, quali sono d'altezza di sei passa, e durano anni venti: ma il bambagio che si cava di quelli cosí vecchi non è buon da filare, ma solamente per coltre, ma quello che fanno fino a dodici anni è perfettissimo per far veli sottili e altre opere. In questo regno s'acconciano gran quantità di pelli di becchi, buffali, buoi salvatichi, leocorni e di molte altre bestie, e se n'acconcia tante che se ne cargano le navi e si portano verso li regni d'Arabia. Si fanno in questo regno molte coperte di letto di cuoio rosso e azzurro, sottilmente lavorate e cucite con fil d'oro e d'argento: e sopra quelle li saraceni dormono volentieri. Fanno ancora cussini tessuti d'oro tirato, con pitture d'uccelli e bestie, che sono di gran valuta, perchè ve ne sono di quelli che vagliono ben sei marche d'argento l'uno. Quivi si lavora meglio d'opere da cucire, e piú sottilmente e con maggior artificio, che in tutt'il resto del mondo.
Or, procedendo piú oltre, diremo d'un regno detto Canam.

Del regno di Canam.
Cap. 30.

Canam è un grande e nobil regno verso ponente, e intendasi verso ponente perchè allora messer Marco veniva di verso levante, e secondo il suo cammino si tratta delle terre che lui trovava. Questo ha re e non rende tributo ad alcuno; le genti adorano gli idoli, e hanno lingua da per sé. Quivi non nasce pevere né zenzero, ma incenso in gran quantità, qual non è bianco ma è come nero. Vi vanno molte navi per levare di quello, e di molte altre mercanzie che quivi si truovano. Si cavano molte mercanzie, e massime di cavalli per tutta l'India, alla qual ne portano gran quantità.

Del regno di Cambaia.
Cap. 31.

Questo è un gran regno verso ponente, il qual ha re e favella da per sé; non danno tributo ad alcuno; adorano le genti gl'idoli. E da questo regno si vede la stella della tramontana piú alta, perchè quanto piú si va verso maestro tanto meglio ella si vede. Si fanno quivi molte mercanzie, e v'è endego molto e in grand'abbondanza; hanno boccascini e bambagio in gran copia. Si traggono di questo regno molti cuoi ben lavorati per altre provincie, e da quelle si riportano per il piú oro, argento, rame e tucia.
E non v'essendo altre cose degne da essere intese, procederò a dir del regno di Servenath.

Del regno di Servenath.
Cap. 32.

Servenath è un regno verso ponente, le cui genti adorano gl'idoli e hanno re e favella da per sé; non danno tributo ad alcuno, e sono buona gente. Vivono delle loro mercanzie e arti, e vi vanno ben de' mercanti con le loro robbe, e riportano di quelle del regno. Mi fu detto che quelli che servono agl'idoli e tempii sono i piú crudeli e perfidi che abbi il mondo.
Or passaremo ad un regno detto Chesmacoran.

Del regno di Chesmacoran.
Cap. 33.

Questo è un regno grande, e ha re e favella da sua posta. Alcune di quelle genti adorano gl'idoli, ma la maggior parte sono saraceni. Vivono di mercanzie e arti, e il loro vivere è riso e frumento, carne, latte, che hanno in gran quantità. Quivi vengono molti mercanti per mare e per terra. E questa è l'ultima provincia dell'India maggiore andando verso ponente maestro, perchè partendosi da Malabar quivi la finisce: della quale India maggiore abbiamo parlato solamente delle provincie e città che sono sopra il mare, perchè a parlare di quelle che sono fra terra saria stata l'opera troppo prolissa.
Ora parleremo d'alcune isole, una delle quali si chiama Mascola, l'altra Femina.

Dell'isola Mascola e Femina.
Cap. 34.

Oltre il Chesmacoran a cinquecento miglia in alto mare verso mezodí vi sono due isole, l'una vicina all'altra trenta miglia: e in una dimorano gli uomini senza femine, e si chiama isola Mascolina; nell'altra stanno le femine senza gli uomini, e si chiama isola Feminina. Quelli che abitano in dette due isole sono una cosa medesima, e sono cristiani battezzati. Gli uomini vanno all'isola delle femine e dimorano con quelle tre mesi continui, cioè marzo, aprile e maggio, e ciascuno abita in casa con la sua moglie, e dopo ritorna all'isola Mascolina, dove dimorano tutt'il resto dell'anno facendo le loro arti senza femina alcuna. Le femine tengono seco i figliuoli fino a' dodici anni, e dopo li mandano alli loro padri; se ella è femina la tengono fin ch'ella è da marito, e poi la maritano negli uomini dell'isola. E par che quell'aere non patisca che gli uomini continuino a stare appresso le femine, perchè moririano. Hanno il loro vescovo, qual è sottoposto a quello dell'isola di Soccotera. Gli uomini proveggono al vivere delle loro mogli, perchè seminano le biave, e le donne lavorano le terre, e raccogliono il grano e molti altri frutti che nascono di diverse sorti. Vivono di latte, carne, risi e pesci, e sono buoni pescatori, e pigliano infiniti pesci: de' freschi e salati vendono a' mercanti che vengono a comprarli, e massime dell'ambra, che qui se ne truova assai.

Dell'isola di Soccotera.
Cap. 35.

Partendosi da dette isole verso mezodí, dopo cinquecento miglia si truova l'isola di Soccotera, la quale è molto grande e abbondante del vivere. Trovasi per gli abitanti alle rive di quest'isola molto ambracano, che vien fuori del ventre delle balene, e per esser gran mercanzia s'ingegnano d'andarle a prendere, con alcuni ferri ch'hanno le barbe che, ficcati nella balena, non si possono piú cavare, alli quali è attaccata una corda longhissima con una bottesella che va sopra il mare, acciochè, come la balena è morta, la sappino dove trovare, e la conducono al lito, dove li cavano fuori del ventre l'ambracano e della testa assai botte d'olio. Vanno tutti nudi, sí mascoli come femine, solamente coperti davanti e da drieto, come fanno gl'idolatri; e non hanno altre biade se non risi, delli quali vivono, e di carne e latte. Sono cristiani battezzati, e hanno un arcivescovo, ch'è come signore, qual non è sottoposto al papa di Roma, ma ad un zatolia che dimora nella città di Baldach, ch'è quello che l'elegge, overo, se quelli dell'isola lo fanno, lui lo conferma. Arrivano a quella isola molti corsari con la robba ch'hanno guadagnata, la quale questi abitatori comprano, però che dicono ch'ella era d'idolatri e saraceni, e la possono tenere licitamente. Vengono quivi tutte le navi che vogliono andare alla provincia d'Adem, e di pesci e d'ambracano (che ne hanno gran copia) si fanno di gran mercanzie. Lavorano quivi ancora panni di bambagio di diverse sorti e in quantità, quali vengono levati per i mercanti. Sono gli abitanti di detta isola i maggiori incantatori e venefici che si possano trovare al mondo, ancor che 'l suo arcivescovo non glielo permetta, e che gli scommunichi e maledisca. Pur non curano cosa alcuna, perciochè, s'una nave di corsari facesse danno ad alcuno di loro, constringono ch'ella non si possi partire se non sodisfanno i danneggiati, conciosiacosachè, se 'l vento li fosse prospero e in poppa, loro fariano venire un altro vento che la ritorneria all'isola al suo dispetto. Fanno il mare tranquillo, e quando vogliono fanno venir tempeste, fortune, e molte altre cose maravigliose che non accade a parlarne.
Ma diremo dell'isola di Magastar.

Della grand'isola di Magastar, ora detta di San Lorenzo.
Cap. 36.

Partendosi dall'isola di Soccotera, e navigando verso mezodí e garbino per mille miglia, si truova la grand'isola di Magastar, qual è delle maggiori e piú ricche che siano al mondo. Il circuito di quest'isola è di tremila miglia; gli abitatori sono saraceni e osservano la legge di Macometto. Hanno quattro siechi, che vuol dire in nostra lingua vecchi, che hanno il dominio dell'isola e quella governano. Vivono questi popoli di mercanzie e arti, e sopra l'altre vendono infinita quantità di denti d'elefanti, per la moltitudine grande che vi nasce di detti animali: ed è cosa incredibile il numero che si cava di questa isola e di quella di Zenzibar. Quivi si mangia tutto l'anno per la maggior parte carne di cameli, ancor che ne mangiano di tutti gli altri animali, ma di cameli sopra gli altri, per averla provata ch'ella è piú sana e piú saporita carne che si possa trovare in quella regione. Vi sono boschi grandi d'arbori di sandali rossi, e per la gran quantità sono in picciol prezio. Hanno ancora molto ambracano, qual le balene gettano, e il mare lo fa andare al lito e loro lo raccolgono. Prendono anco lupi cervieri, leoni, leonze, e infiniti altri animali, come cervi, caprioli, daini, e molte cacciagioni di diverse bestie e uccelli diversi da' nostri. E vanno a quest'isola molte navi di diverse provincie con mercanzie di varie sorti, con panni d'oro, di seta, e con sete di diverse maniere: e quelle vendono overo barattano co' mercanti dell'isola, e caricano poi delle mercanzie dell'isola, e sempre fanno gran profitto e guadagno. Non si naviga ad altre isole verso mezodí, le quali sono in gran moltitudine, se non a questa e a quella di Zenzibar, perchè il mare corre con grandissima velocità verso mezodí, di sorte che non potriano ritornare piú adietro. E le navi che vanno da Malabar a quest'isola fanno il viaggio in venti overo venticinque giorni, ma nel ritorno penano da tre mesi, tanta è la correntia dell'acque che di continuo caricano verso mezogiorno.
Dicono quelle genti che a certo tempo dell'anno vengono di verso mezodí una maravigliosa sorte d'uccelli, che chiamano ruch, qual è della simiglianza dell'aquila, ma di grandezza incomparabilmente grande: ed è di tanta grandezza e possanza ch'egli piglia con l'unghie de' piedi un elefante e, levatolo in alto, lo lascia cadere, qual more, e poi, montatoli sopra il corpo, si pasce. Quelli ch'hanno veduto detti uccelli riferiscono che, quando aprono l'ali, da una punta all'altra vi sono da sedici passa di larghezza, e le sue penne sono longhe ben otto passa, e la grossezza è corrispondente a tanta longhezza. E messer Marco Polo, credendo che fossero griffoni, che sono dipinti mezi uccelli e mezi leoni, interrogò questi che dicevano d'averli veduti, i quali li dissero la forma de' detti esser tutta d'uccello, come saria dir d'aquila. E avendo il gran Can inteso di simil cose maravigliose, mandò suoi nunzii alla detta isola, sotto pretesto di far rilasciar un suo servitore, che quivi era stato ritenuto; ma la verità era per investigare la qualità di detta isola, e delle cose maravigliose ch'erano in quella. Costui di ritorno portò (sí come intesi) al gran Can una penna di detto uccello ruch, la qual li fu affermato che, misurata, fu trovata da nonanta spanne, e che la canna della detta penna volgea due palmi, ch'era cosa maravigliosa a vederla: e il gran Can n'ebbe un estremo piacere, e fece gran presenti a quello che gliela portò. Li fu portato ancor un dente di cinghiale, che nascono grandissimi in detta isola, come buffali, qual fu pesato e si trovò di quattordici libre. Vi sono ancor giraffe, asini e altre sorti d'animali salvatichi molto diversi da' nostri.
Or, avendo parlato di quell'isola, parlaremo di quella di Zenzibar.

Dell'isola di Zenzibar.
Cap. 37.

Dopo questa di Magastar, si truova quella di Zenzibar, la qual, per quel che s'intese, volge a torno duemila miglia. Gli abitatori adorano gl'idoli, e hanno favella da sua posta, e non rendono tributo ad alcuno. Hanno il corpo grosso, ma la longhezza di quello non corrisponde alla grossezza secondo saria conveniente, perchè, s'ella fosse corrispondente, pareriano giganti. Sono nondimeno molto forti e robusti, e un solo porta tanto carico quanto fariano quattro di noi altri, e mangiano per cinque. Sono neri e vanno nudi, si cuoprono la natura con un drappo, e hanno li capelli cosí crespi che a pena con l'acqua si possono distendere, e hanno la bocca molto grande, e il naso elevato in suso verso il fronte, l'orecchie grandi, e occhi grossi e spaventevoli, che paiono demonii infernali. Le femine similmente sono brutte, la bocca grande, il naso grosso e gli occhi, ma le mani sono fuor di misura grosse, e le tette grossissime. Mangiano carne, latte, risi e dattali; non hanno vigne, ma fanno vino di risi con zucchero e d'alcune lor delicate specie, ch'è molto buono al gusto e imbriaca come fa quel d'uva.
Vi nascono in detta isola infiniti elefanti, e de' denti ne fanno gran mercanzia; de' quali elefanti non voglio restar di dire che, quando il maschio vuol giacere con la femina, cava una fossa in terra quanto conveniente li pare, e in quella distende la femina col corpo in suso a modo d'una donna, perchè la natura della femina è molto verso il ventre, e poi il maschio vi monta sopra come fa l'uomo. Hanno delle giraffe, ch'è bel animale a vederlo: il busto suo è assai giusto, le gambe davanti longhe e alte, quelle da dietro basse, il collo molto longo, la testa picciola; ed è quieto animale. Tutta la persona è bianca e vermiglia a rodelle, e giungeria alto con la testa passa tre. Hanno montoni molto differenti da' nostri, perchè sono tutti bianchi, eccettuando il capo ch'è negro; e cosí sono fatti tutti i cani di detta isola, e cosí l'altre bestie sono dissimili dalle nostre. Vi vengono molte navi con mercanzie, quali barattano con quelle della detta isola, e sopra l'altre co' denti d'elefanti e con ambracano, che gran copia ne truovano sopra i liti dell'isola, per esservi in quei mari assai balene.
Alcune fiate li signori di quest'isola vengono fra loro alla guerra, e gli abitanti sono franchi combattitori e valorosi in battaglia, perchè non temono morire. Non hanno cavalli, ma combattono sopra elefanti e camelli, sopra i quali fanno castelli, e in quelli vi stanno quindeci o venti, con spade, lancie e pietre; e a questo modo combattono, e quando vogliono entrare in battaglia danno a bere del loro vino agli elefanti, perchè dicono che quello li fa piú gagliardi e furiosi nel combattere.

Della moltitudine dell'isole nel mare d'India.
Cap. 38.

Ancor ch'abbi scritto delle provincie dell'India, non ho però scritto se non delle piú famose e principali, e il simile ho fatto dell'isole, le quali sono in tanta moltitudine ch'alcuno non lo potria credere, perchè, come ho inteso da' marinari e gran pilotti di quelle regioni, e come ho veduto per scrittura da quelli ch'hanno compassato quel mare d'India, se ne ritruovano da dodicimila e settecento fra le abitate e deserte. E detta India maggior comincia da Malabar fino al regno di Chesmacoran, nel quale sono tredici regni grandissimi, e noi n'abbiamo nominati dieci. E l'India minore comincia da Ziambi fino a Murfili, nella quale sono otto regni, eccettuando quelli dell'isole, che sono in gran quantità.
Ora parleremo dell'India seconda overo mezana, che si chiama Abascia.

Dell'India seconda overo mezana, detta Abascia.
Cap. 39.

Abascia è una gran provincia, e si chiama India mezana overo seconda. Il maggior re di quella è cristiano; gli altri re sono sei, cioè tre cristiani e tre saraceni, subditi pure al sopradetto. Mi fu detto che li cristiani, per essere conosciuti, li fanno tre segnali, cioè un in fronte e un per gota: e sono fatti con ferro caldo, e dopo il battesimo d'acqua questo è il secondo con fuoco. Li saraceni n'hanno un solo, cioè nel fronte fino a mezo il naso; e perchè vi sono assai giudei, ancor loro sono segnati con due, cioè uno per gota. Il maggior re cristiano sta nel mezo di detta provincia, e li re saraceni hanno i loro reami verso la provincia d'Adem. Il venire di detti popoli alla fede cristiana fu in questo modo, che, avendo il glorioso apostolo s. Tommaso predicato nel regno di Nubia e fattolo cristiano, venne poi in Abascia, dove con le prediche e miracoli fece il simile. Poi andò ad abitare nel regno di Malabar, dove, dopo l'aver convertite infinite genti, come abbiamo detto, fu coronato di martirio, e ivi sta sepolto. Sono questi popoli abiscini molto valenti nell'armi e gran guerrieri, perchè di continuo combattono col soldano d'Adem e co' popoli di Nubia e con molti altri che sono ne' loro confini; e per il continuo esercitarsi sono reputati i miglior uomini da guerra di tutte le provincie dell'India.
Or nel 1288, sí come mi fu narrato, accadé che questo gran signore d'Abiscini avea deliberato d'andare a visitar il sepolcro di Cristo in Ierusalem in persona, perchè ogn'anno ve ne vanno infiniti de' detti popoli a questa devozione, ma fu disconfortato da tutti i suoi baroni di non lo fare, per il pericolo grande che v'era, dovendo passar per tanti luoghi e terre di saraceni suoi nemici. E però deliberò di mandarvi un vescovo, ch'era reputato uomo di buona e santa vita, quale andatovi e fatte le sue orazioni in Ierusalem, e offerte che gli avea ordinato il re, nel ritorno capitò nella città d'Adem, dove il soldano di quella lo fece venire alla sua presenza, e quivi con minaccie lo voleva constringere a farsi macomettano. Ma lui stando constante e ostinato di non voler lasciare la fede cristiana, il soldano lo fece circuncidere, in dispregio del re d'Abiscini, e lo licenziò. Costui tornato e narrato al suo signore il dispregio e villania che li era stata fatta, subito comandò che 'l suo esercito si mettesse ad ordine, e con quello andò a destruzione e ruina del soldano d'Adem; qual, intesa la venuta di questo re grande d'Abiscini, fece venire in suo aiuto due gran re saraceni suoi vicini, con infinita gente da guerra. Ma, azzuffatosi insieme, il re d'Abiscini fu vincitore e prese la città d'Adem e li diede il guasto, per vendetta del dispregio ch'era stato fatto al suo vescovo.
La gente di questo reame d'Abiscini vive di frumento, risi, carne, latte, e fanno olio di susimani, e hanno abbondanza d'ogni sorte di vettovaglie. Hanno elefanti, leoni, giraffe e altri animali di diverse maniere, e similmente uccelli e galline molto diverse, e altri infiniti animali, cioè simie, gatti mamoni, che paiono uomini. Ed è provincia molto ricchissima d'oro, e quivi se ne truova assai, e li mercanti vi vanno volentieri con le loro mercanzie, perchè riportano gran guadagno.
Or parleremo della provincia di Adem.

Di Adem provincia.
Cap. 40.

La provincia d'Adem ha un re, qual chiamano soldano; gli abitatori sono tutti saraceni, e odiano infinitamente li cristiani. In questa provincia vi sono molte città e castella, e v'è un bellissimo porto, dove arrivano tutte le navi che vengono d'India con speciarie. E li mercanti che le comprano per condur in Alessandria le cavano delle navi e mettono in altre navi piú picciole, con le quali attraversano un colfo di mare per venti giornate, o piú o manco, secondo il tempo che fa; e giunti in un porto le caricano sopra cameli e le fanno portar per terra per trenta giornate fino al fiume Nilo, dove le caricano in navilii piccioli, chiamati zerme, e con quelle vengono a seconda del fiume fino al Cairo, e de lí per una fossa fatta a mano detta calizene fino in Alessandria: e questa è la via piú facile e piú breve che possino far i mercanti che d'Adem vogliono condur le speciarie d'India in Alessandria. Similmente li mercanti in questo porto d'Adem caricano infiniti cavalli d'Arabia, e li conducono per tutti li regni e isole d'India, dove cavano grandissimo prezio o guadagno. E il soldan d'Adem è ricchissimo di tesoro, per la grandissima utilità che trae de' dretti delle mercanzie che vengono d'India, e similmente di quelle che si cavano del suo porto per India, perchè questa è la maggior scala che sia in tutte quelle regioni per contrattare mercanzie, e ognun vi concorre con le sue navi. E nel 1200, che soldano di Babilonia andò la prima volta col suo esercito sopra la città d'Acre e la prese, mi fu detto che questo d'Adem vi mandò da trentamila cavalli e quarantamila camelli, per l'odio grande che portava a' cristiani.
Or parleremo della città d'Escier.

Della città d'Escier.
Cap. 41.

Il signor di questa città è macomettano, e mantiene la sua città con gran giustizia, ed è sottoposto al soldan d'Adem, ed è lontana da Adem da quaranta miglia verso scirocco. Ha molte città e castella sotto di sé; e questa città ha un buon porto, dove capitano molte navi d'India con mercanzie, e di qui traggono assai cavalli buoni ed eccellenti, che sono di gran valuta e prezio nell'India.
In questa regione nasce grandissima copia d'incenso bianco molto buono, il quale a goccie a goccie scorre giú da alcuni arbori piccioli simili all'albedo. Gli abitatori alcune volte forano overo tagliano le scorze di quelli, e da' tagli overo buchi scorron fuori goccie dell'incenso; e ancor che non si facciano detti tagli, pur questo liquore non resta di venir fuori da detti arbori, per il grandissimo caldo che vi fa, e poi s'indurisce. Sono quivi molti arbori di palme, che fanno buoni dattali in abbondanza; non vi nascono biade, se non risi e miglio, e bisogna che vi siano condotte delle biade d'altre regioni. Non hanno vino d'uva, ma lo fanno di risi, zucchero e dattali, ch'è delicato da bere. Hanno montoni piccioli, li quali non hanno l'orecchie dove hanno gli altri, ma vi sono due cornette, e piú a basso verso il naso hanno due buchi in luogo dell'orecchie.
Sono questi popoli gran pescatori, e quivi si truovan infiniti pesci tonni, che per la grande abbondanza se n'averiano due per un grosso veneziano, e ne seccano. E perchè pel gran caldo tutto il paese è come abbruciato, né vi si truova erba verde, però hanno assuefatto li loro animali, cioè buoi, montoni, cameli e poledri, a mangiar pesci secchi, e gliene danno di continuo, e li mangiano volentieri. E detti pesci sono d'una sorte picciolini, quali prendono il mese di marzo, aprile e maggio in grandissima quantità, e secchi ripongono in casa, dove per tutto l'anno ne danno a mangiare alle bestie, le quali eziandio ne mangiano de' freschi come li secchi, ancor che siano piú avezzi a' secchi. E per la carestia delle biade fanno anco detti popoli biscotto di pesci grandi, in questo modo, che li tagliano minutamente in pezzi, e con certa farina fanno un liquor che li fa tenire insieme a modo di pasta, e ne formano pani che nell'ardente sole s'asciugano e induriscono, e cosí riposti in casa li mangiano tutto l'anno come biscotto. L'incenso che abbiamo detto di sopra è tanto buon mercato che 'l signor lo compra per dieci bisanti il cantaro, e poi lo rivende a' mercanti, che poi lo danno per 40 bisanti: e questo fa egli ad instanzia del soldano di Adem, qual piglia tutto l'incenso che nasce nel suo territorio per il detto prezio, e poi lo rivende al modo detto di sopra, onde ne conseguisce grandissimo utile e guadagno.
Altro non v'essendo da dire, procederò a parlar della città di Dulfar.

Di Dulfar città.
Cap. 42.


Dulfar è una città nobile e grande, qual è discosto dalla città d'Escier venti miglia verso scirocco. Le sue genti sono macomettane, e il suo signor è sott'il soldan d'Adem. Questa città è posta sopra il mare e ha buon porto, dove vengon assai navi; e quivi si conducono assai cavalli arabi d'altre contrade fra terra, e li mercanti li levano e conducono in India, per il grandissimo guadagno che ne conseguiscono. Ha sotto di sé città e castella, e nasce nel suo territorio assai incenso, qual vien condotto via per li mercanti.
E altre cose non v'essendo da dire, diremo del colfo di Calaiati.

Di Calaiati città.
Cap. 43.

Calaiati è una città grande, ed è nel colfo che medesimamente si dimanda di Calatu; è discosto dal Dulfar cinquecento miglia verso scirocco. Osservano la legge di Macometto; è sottoposta al melich d'Ormus, e ogni fiata che 'l detto ha guerra con alcuno re, ricorre a questa città, perchè è molto forte e posta in forte luogo, di modo che non teme d'alcuno. Non ha biade di sorte alcuna, ma le traggono d'altri luoghi. E questa città ha un buon porto, e molti mercanti vi vengono dell'India con gran numero di navi, e vendono le lor robbe e speciarie benissimo, perchè da questa città si portano fra terra a molte città e castella. Si cavano ancora di questo porto per l'India molti cavalli, e ne guadagnano grandemente. Questa città è posta nell'entrata e bocca del detto colfo di Calatu, di modo che niuna nave non può entrare in quello né uscire senza sua licenzia. E molte volte che 'l melich di questa città, qual ha patti e obligazione col re di Chermain e li è subdito, non lo vuol obedire, perchè 'l detto gl'impone qualche dazio oltre l'ordinario ed esso ricusa di pagarlo, subito il re li manda un esercito per constringerli per forza; lui si parte d'Ormus e viene a questa città di Calaiati, dove stando non lascia entrare né passar alcuna nave: dal che advien che 'l re di Chermain perde i suoi dretti e, ricevendo gran danno, è necessitato a far patto col detto melich. Ha un castello molto forte, che tiene a modo di dir serrato il colfo e il mare, perchè discuopre tutte le navi da ogni tempo che passano. Le genti di questa contrata vivono di dattali e di pesci freschi e salati, perchè d'ambedue n'hanno di continuo gran copia; ma li gentiluomini e ricchi vivono di biade, che vengono condotte d'altri paesi.
Or, partendosi da Calaiati, si va trecento miglia verso greco e tramontana, e si truova l'isola d'Ormus.

Di Ormus.
Cap. 44.

L'isola d'Ormus ha una bella e gran città, posta sopra il mare; ha un melich, ch'è nome di dignità come saria a dire marchese, qual ha molte città e castella sotto il suo dominio. Gli abitanti sono saraceni, tutti della legge di Macometto. Vi regna grandissimo caldo, e per questa causa in tutte le case hanno ordinate le sue ventiere, per le qual fanno venire il vento in tutte le loro stanzie e camere dove li piace, ch'altramente non potriano vivere. Or di questo non diremo altro, perchè di sopra nel libro abbiamo parlato di Chisi e Chermain.
Poi che s'ha scritto a bastanza delle provincie e terre dell'India maggiore che sono appresso il mare, e d'alcune regioni di popoli d'Etiopia, che noi chiamiamo India mezana, avanti che facciamo fine al libro, ritornerò a narrare d'alcune regioni che sono vicine alla tramontana, delle quali io lasciai di dire ne' libri di sopra. Per tanto è da sapere che nelle parti vicine alla tramontana v'abitano molti Tartari, ch'hanno re nominato Caidu, il qual è della stirpe di Cingis Can, e parente prossimo di Cublai gran Can; non è subdito ad alcuno. Questi Tartari osservano l'usanza e modi degli antichi suoi predecessori, e vengono reputati veri Tartari. E questo re col suo popolo non abita in castelli né fortezze né città, ma sta sempre alla campagna in pianure e valli e nelle foreste di quella regione, che sono in grandissima moltitudine. Non hanno biade di sorte alcuna, ma vivono di carne e latte, e in grandissima pace, perchè il loro re non procura mai altro (al quale tutti obediscono) se non di conservarli in pace e unione, ch'è il proprio carico di re. Hanno moltitudine grande di cavalli, buoi, pecore e altri animali; quivi si truovan orsi tutti bianchi, grandi e longhi la maggior parte venti palmi. Hanno volpi tutte nere e molto grandi, e asini salvatichi in gran copia, e alcuni animali piccioli, chiamati rondes, ch'hanno la pelle delicatissima, ch'appresso di noi si chiamano zibellini; item vari arcolini, e di quelli che si chiamano sorzi di faraon, e ve n'è tanta copia ch'è cosa incredibile: e questi Tartari li sanno pigliar cosí destramente e con tant'arte ch'alcuno non può scampar dalle lor mani. E perchè, avanti che s'arrivi dove abitano detti Tartari, v'è una pianura longa il cammino di quattordici giornate, tutta disabitata e come un deserto, e la causa è perchè vi sono infinite lagune e fontane che l'inonda, e per il gran freddo stanno quasi di continuo agghiacciati, eccettuando alcuni mesi dell'anno che 'l sole le disfà, e v'è tanto fango che piú difficilmente vi si può passar a quel tempo che quando v'è il ghiaccio: e però detti popoli, acciochè li mercanti possano andare a comprar le loro pelli, ch'è la sola mercanzia che si truovi appresso di loro, s'hanno ingegnato di far che questo deserto si possa passare, in questo modo, che in capo d'ogni giornata v'hanno fabricate case di legname alte da terra, dove commodamente vi possano star le persone che ricevono i mercanti, e che poi li conducono la seconda giornata all'altra posta overo casa; e cosí di posta in posta se ne vanno fino alla fine di detto deserto. E per esser i ghiacci grandi hanno fatto una sorte di carri, che quelli ch'abitano appresso di noi sopra monti aspri e inaccessibili li sogliono usare, e si chiamano tragule, che sono senza ruote, piani nei fondi, e si vengono alzando da' capi a modo di un semicirculo, e scorrono per sopra la ghiaccia facilmente. Hanno per condur dette carrette preparata una sorte d'animali simili a' cani, e quasi che si possono chiamar cani, grandi come asini, fortissimi e usati a tirare, de' quali ne ligano sotto al carro sei a due a due, e il carrettier li governa, e sopra detto carro non vi sta altro che lui e il mercante con le dette pelli. E, camminato ch'hanno una giornata, mettono giú il carro e li cani, e a questo modo di giorno in giorno mutando carri e cani, e cosí passano detto deserto, conducendo fuori la mercanzia di dette pelli, che poi si vendono in tutte le parti nostre.

Della regione detta delle Tenebre.
Cap. 45.

Nell'ultime parti del reame di questi Tartari, dove si truovano le pelli sopradette, v'è un'altra regione che s'estende fino nell'estreme parti di settentrione, la qual è chiamata dall'oscurità, perchè la maggior parte de' mesi dell'inverno non v'apparisce il sole, e l'aere è tenebroso o al modo che gli è avanti che si faccia l'alba del giorno, che si vede e non si vede. Gli uomini di queste regioni sono belli e grandi, ma molto pallidi; non hanno re né principe alla cui iurisdizione siano sottoposti, ma vivono senza costumi e a modo di bestie. Sono d'ingegno grosso e come stupidi. Li Tartari spesse fiate vanno ad assaltare detta regione, rubbandoli il bestiame e li beni di quelli, e li vanno ne' mesi ch'hanno questa oscurità, per non esser veduti; e perchè non saperiano tornare a casa con la preda, però cavalcano cavalle che abbiano poledri, quali menano seco fino a' confini, e li fanno tenere alle guardie nell'entrare di detta regione; e poi che hanno rubbato in quelle tenebre e vogliono ritornare alla regione della luce, lasciano le briglie alle cavalle, che possano andare liberamente in qualunque parte le vogliono, e le cavalle, sentendo l'usta de' poledri, se ne vengono al dritto dove li lasciarono: e a questo modo ritornano a casa.
Gli abitatori di questa regione delle Tenebre pigliano la state (che hanno di continuo giorno e luce) gran moltitudine di detti armellini, vari, arcolini, volpi e altri simili animali, che hanno le pelli molto piú delicate e preciose e di maggior valore che non sono quelle de' Tartari, quali per questa causa le vanno a rubbare. Detti popoli conducono la state le loro pelli a' paesi vicini, dove si vendono, e ne fanno grandissimo guadagno. E per quello che mi fu detto vengono di dette pelli fino nella provincia di Rossia, della qual parleremo, mettendo fine al nostro libro.

Della provincia di Rossia.
Cap. 46.

La provincia di Rossia è grandissima e divisa in molte parti, e guarda verso la parte di tramontana, dove si dice essere questa regione delle Tenebre. Li popoli di quella sono cristiani, e osservano l'usanza de' Greci nell'officio della Chiesa. Sono bellissimi uomini, bianchi e grandi, e similmente le loro femine bianche e grandi, co' capelli biondi e longhi; e rendono tributo al re de' Tartari detti di ponente, col quale confinano nella parte di loro regione che guarda il levante. In questa provincia si truovano abbondanza grande di pelli d'armellini, arcolini, zibellini, vari, volpi, e cera molta; vi sono ancora molte minere, dove si cava argento in gran quantità. La Rossia è regione molto fredda, e mi fu affermato ch'ella s'estende fino sopra il mare Oceano, nel quale (come abbiamo detto di sopra) si prendono li girifalchi, falconi pellegrini in gran copia, che vengono portati in diverse regioni e provincie.



Di messer Gio. Battista Ramusio discorso sopra il libro del signor Hayton Armeno.

Non sarà, secondo ch'io stimo, né cosa fuori di proposito né senza dilettazione, poi che l'uomo averà nel libro di messer Marco Polo veduto il principio e l'origine degl'imperatori de' Tartari, per maggiore e piú compita notizia leggere ancora quel che ne scrisse un gentiluomo armeno chiamato Hayton, che fu nel medesimo tempo del detto messer Marco. Del quale Hayton volend'io parlare, è necessario un poco ad alto incominciare la mia narrazione. E però dico che nel 1290 tutta la Terra Santa fu tolta a' cristiani e occupata dalle forze del soldano d'Egitto, 190 anni dopo che quell'illustre e valoroso principe Gottifredo di Boglione la ricuperò la prima volta dalle mani degl'infedeli: della qual perdita espressamente ne fu cagione la grandissima discordia che si truovò in que' tempi, non solamente fra li re e principi, ma fra le cittadi e popoli cristiani, che non volsero mai dar soccorso alla misera e povera città d'Acre, la qual sola di tutta la Terra Santa fino allora s'era mantenuta e difesa, onde l'anno seguente, che fu del 1291, li defensori di quella furono constretti ad abbandonarla e fuggirsene in Cipro. Volse poi la fortuna che, dopo questa cosí notabile e vergognosa perdita, fosse creato in Perugia dal Collegio de' cardinali (nove mesi dopo la sede vacante) pontefice Clemente V, del 1305, il qual era di nazione francese di Guascogna e allora si ritrovava a Bordeos, in Francia, il qual fu quello che condusse la corte romana in Francia, dove stette per spazio d'anni settanta. Costui, stimando niuna cosa essere piú conveniente alla professione d'un vero e fedel cristiano e alla gloria d'un sommo e legitimo pontefice che ricuperar il sepolcro di Cristo, si pose con tutta la mente e spirito suo a pensarvi sopra, facendo un nobilissimo concilio a Vienna, nel Delfinato, per soccorrere alle cose di Terra Santa, e cercando d'aver ogni diligente e particolar informazione del modo e via che si dovesse tenere per mandare ad effetto cosí grande, onorevole e debita impresa. E fra l'altre cose gli fu fatto intendere da alcuni, i quali eran stati gli anni adietro nelle guerre di Terra Santa, che l'aver in aiuto di quell'impresa qualche principe di Tartari, ch'allora signoreggiavano a' confini della Soria ed erano inimici del soldano d'Egitto, gioveria molto e daria la vittoria dell'impresa; e similmente che si ritrovava nell'isola di Cipro, nel monasterio dell'Episcopia, un frate nominato Hayton Armeno, monaco dell'ordine premonstratense, che era parente del re dell'Armenia minore, ch'è la Cilicia, e nella sua gioventú era stato in tutte le guerre ch'aveano fatte i Tartari co' soldani di Egitto, e n'era informatissimo, dal quale sua Santità potria intendere ciò ch'ella desiderava. Questa cosa gli piacque molto, e subito lo fece venir di Cipro in Francia. Egli portò seco tutti li memoriali e scritture che avea delle guerre de' Tartari, lasciategli da un suo zio, re d'Armenia, ch'era stato alla corte del gran Can e quivi l'avea fatte scrivere particolarmente. Giunto che fu costui nella città Poitteres, diede ordine il pontefice ch'un Nicolò di Falcon francese, persona dotta e ch'era stato per il mondo, trascrivesse in latino le dette scritture, le quali frate Hayton di lingua armena recitava in lingua francese, avendola imparata in Cipro, dove regnavano allora i re di Cipro di casa Lusignana, di nazione francesi, eredi de' re di Ierusalem: e l'isola era piena di Francesi che servivano li re. E questo fu nell'anno 1308.
Or essendomi venuta alle mani quest'istoria scritta già piú di 150 anni in un libro vecchio, ho voluto d'essa pigliar solamente quella parte nella qual si parla de' Tartari, giudicandola esser conforme a quanto è narrato nel libro del detto messer Marco, e il resto lasciar come cosa molto longa e lontana dalla presente materia. Quivi si può veder l'origine e la successione degl'imperatori de' Tartari, e se v'è qualche differenzia, come saria a dir di Cangio a Cingis e da Cobila a Cublai, e che l'uno metta sei imperatori, l'altro cinque, questo non deve dar noia a' lettori, vedendo aver un'istoria delle medesime cose che scrive il sopradetto messer Marco Polo, e della guerra che fu tra Barca e Halaú, da costui chiamato Halaon, che ebbe un figliuolo detto Abaga Can, del qual nacque il re Argon, e di costui Casam, nominati nel proemio del detto messer Marco; e oltre di questo di Barach, signor della città di Boccara, e di molte altre simil cose, come della presa del califfo di Baldach per Halaú, e del castello che messer Marco chiama il Vecchio della Montagna: nella narrazione delle qual cose, se 'l filo dell'istoria non è cosí continuato come saria il dovere, abbiano pazienzia i lettori, sapendo che gli uomini non sogliono narrare una cosa tutti ad un istesso modo, ma variamente, secondo la diversità de' loro intelletti.
E quello che mi fa maravigliare in questo scrittore armeno è la divisione dell'Asia in due parti, una detta profonda, l'altra maggiore, che similmente la fece Strabone, dividendola in due parti per linea retta da levante in ponente. La parte ch'è verso tramontana chiama Asia interiore, e quella verso mezogiorno esteriore, e fa che 'l monte Caucaso sia quello che vi vada per mezo, il qual chiama con diversi nomi: e questo nostro Armeno lo chiama Cocas. Oltre il qual Caucaso dice Strabone che non v'andarono mai le genti né d'Alessandro né di Pompeo, né mai s'ebbe molta cognizione de' popoli che v'abitano, ma gli nomina universalmente Sciti (come facciamo noi al presente, che li chiamiamo tutti Tartari) e anco Massageti, Nomadi, Amaxovii, e dalla vita loro che facevano sopra carri e a modo di pastori in diversi lordò, che cosí chiamano la congregazione di quei popoli che abitando ne' carri vivono insieme. E li primi ch'abbiano scritto di questi Tartari e di quest'Asia profonda overo interiore, per quel ch'io ho potuto leggere, sono il sopradetto messer Marco Polo e questo gentiluomo armeno, perciochè ambedue v'andarono in persona, sí come si legge ne' loro scritti: ne' quali, e massimamente in quelli dell'Armeno, è pur cosa troppo mirabile da considerare come da questa parte incognita al mondo verso greco levante, ch'è chiusa e circondata con tanti e cosí longhi deserti, potesse venire una tanta inondazione di popoli per ordine di quelli imperatori che copersero tutta l'Asia. E non è piú di 250 anni che, non contenti di quella, volsero anco entrare nell'Europa, imperochè, passato il fiume della Tana e soggiogata la Cumania, andarono ruinando la Rossia, Polonia, Sclesia, Moravia, Ungaria, e finalmente vennero nell'Austria. E quel capitano che fece tal impresa vien dall'Armeno nominato Baydo, figliuolo d'Hoccota Can, e nell'istorie de' Poloni e Ungari Batto, il qual venne con cinquecentomila Tartari; e non dicono ch'egli s'annegasse nel fiume dell'Austria, come dice l'Armeno, ma che tre anni continui andò abbruciando le sopradette provincie, dando molte sconfitte a' popoli di quelle, e alla fine se ne ritornò con grandissima preda oltre il fiume della Tana nell'Asia. Della generazione de' quali affermano le istorie polone e persiane che fu anco quel gran capitano detto Tamberlan, ch'in lingua tartara era chiamato Timirlanes, cioè ferro felice. Qual nacque nella città di Samarcand, sopra il fiume Iaxarte, ch'è la principale nella provincia Sogdiana, secondo Ismael geografo, ove congregato un esercito d'un millione e dugentomila Tartari, metteva spavento dovunque egli andava. Portava seco padiglioni di tre sorte colori, cioè bianchi, rossi e negri, e appresentatosi ad una città, se li miseri abitanti aspettavano ch'ei facesse levare li padiglioni negri, tutti andavano per fil di spada, né v'era rimedio alcuno alla salute loro. Or questo terror del mondo, occupata ch'ebbe tutta l'Asia, se ne venne nella Natolia, dove combattendo ruppe Baiazette, quarto imperator de' Turchi, il qual fu preso e posto in una gabbia con catene d'oro al collo: e questo fu del 1397, e vi morirono da dugentomila Turchi. Queste sono state pur imprese troppo grandi e incredibili a chi leggerà.
Del monte Belgian, appresso il quale abitavano anticamente i Tartari, che dice l'Armeno parlarsene nell'istorie d'Alessandro, dico che non si sa ch'in alcuna scrittura d'Alessandro appresso Greci né appresso Latini vi sia questo nome; ma m'è affermato che nell'istorie armene e persiane, che ne sono molte d'Alessandro, viene nominato questo monte Belgian. De' fatti del quale Alessandro nelle predette istorie, in loro versi e prose, si raccontano cose tanto grandi e di tante meraviglie, che superano di gran lunga tutte quelle che scrivono gli Italiani d'Orlando. Questo monte Belgian penso sia quello ch'appresso messer Marco vien detto Altai, dove si sepelivano gl'imperatori de' Tartari, che secondo l'Armeno è appresso il mare Oceano, dove passarono i Tartari per quella strada stretta di nove piedi, e vennero poi nel paese coltivato e fertile. Né si deve pensare che quel mare fosse il Caspio, perchè dopo l'imperator Hoccota Can mandò quel gran numero di Tartari col capitano Baydo per la via della città del Derbent e soggiogò l'Asia. La qual città è quella che si chiama con diversi nomi: Porte di Ferro, Caspie e Caucase, oltre le quali né Alessandro né alcuno de' suoi capitani mai passarono, ma solamente, come ben dice Strabone, v'andò la fama.
Della provincia veramente detta Cumania e de' popoli detti Cumani è cosa molto difficile a saper determinare li confini, perciochè l'istorie armene vogliono che dalla parte di levante vadano fin presso il Corassam, e da ponente abbiano la palude Meotide, da tramontana una provincia detta Cassia, da mezogiorno il fiume Herdil, ch'è la Volga; nondimeno alcuni altri istorici moderni la mettono sopra la Taurica Chersoneso, dove è la città di Caffa, e che s'estendono li suoi confin al fiume della Tana, e ch'arrivano anco fin appresso la Rossia. E questi dicono che furono delle reliquie di quelli che furono scacciati da' Tartari dell'Asia e che quivi si fermarono; altri vogliono che ne sian anco nell'Ungaria, oltre il fiume Danubio, sí che v'è grandissima varietà fra gli scrittori. Ma poi ch'ora viene in proposito, non voglio restare di parlar alquanto di questi popoli cumani. Nel tempo che la republica de' Mamaluchi era in piedi e signoreggiava tutto l'Egitto, il soldano di quella ogn'anno mandava a comprare de' schiavi fin sopra la Tana e nella Rossia, e ne venivano condotte gran caravane al Cairo di questi giovani cumani e rossi, i quali il soldano faceva ammaestrare con grandissima diligenzia nell'arte militare: e tutta la republica de' Mamaluchi era fondata sopra tali schiavi. E si legge nell'istorie grandi che 'l suo principio fu da schiavi cumani in questo modo, che dopo la morte di Xaracon, che fu il primo soldano ch'occupasse il regno d'Egitto, avendo fatto morir il soldan d'Aleppo del quale egli era capitano, successe il figliuolo, che fu quel gran principe detto Saladino, qual con la virtú e potenzia sua scacciò l'anno 1187 li cristiani di tutta Terra Santa. Dopo la morte del quale la signoria pervenne in due suoi figliuoli e nepoti, fin al tempo d'un soldano detto Melechxala, qual, vedendo che per mantenere l'imperio era necessario tener gran numero di soldati che fossero valenti nell'armi, mandò a comprare schiavi cumani, de' quali intese che i Tartari sopra le parti della Tana di continuo prendevano e vendevano per buon mercato: e quelli faceva esercitare e insegnar tutte le cose appartenenti alla guerra, facendoli tutte le carezze e onori ch'ei si sapeva imaginare, perchè veramente conosceva che loro riuscivano valentissimi uomini nel mestiero dell'armi. Or questi schiavi, vedendosi essere in gran numero, s'insuperbirono al tempo del detto soldano, di modo che l'uccisero e crearono in suo luogo uno di loro, con legge e ordini che mai non potesse esser alcun soldano che non fosse stato schiavo comprato. La qual republica con questo modo è durata da trecento anni poi che la principiò fino a' tempi nostri, che nel 1517 Selino XIII, imperator de' Turchi, preso Tomumbey, ultimo soldano d'Egitto, e fattolo morire appiccato, agli undici d'aprile, alla porta Bassuella al Cairo, com'hanno fine tutte le cose del mondo, la destrusse del tutto.
E per ritornar a parlare alcuna cosa della città del Derbent, che vuol dir porta di ferro, ch'è sopra il mare Caspio, dico ch'è opinione di molti scrittori ch'Alessandro Magno l'edificasse per impedire che li popoli della Scizia non venissero a predare nella Persia; e la chiamano con diversi nomi le Porte, delle quali parlando Plinio cosí dice: "Partendosi da' confini dell'Albania v'è una fronte di monti, dove abitano alcune genti salvatiche dette Helvi, e dopo Lubieni, Diduci e Sodii, e dopo quelli sono le Porte Caucase, le quali da molti per errore vengono chiamate Caspie, opera mirabile e grande della natura, che li monti si vedano interrotti dove siano le porte chiuse con travi ferrati; sotto il mezo delle quali vi passa il fiume Diriodoro, e di qua alquanto sopra una rupe v'è un castello detto Cumania, fortificato per vietar il passo ad infinite genti. Sopra il qual sito di paese il mondo è come diviso con porte". E chi sa che dal nome di questo castello, detto da Plinio Cumania, non pigliassero nome li popoli ch'erano sopra l'Asia, detti i Cumani, oltre le Porte Caspie verso tramontana, delle quali ne scrive in molti luoghi il detto messer Marco Polo e Hayton Armeno.
Non voglio restar di dir, a proposito del feltro negro, sopra il quale scrive l'Armeno che distendevano gl'imperatori nuovi li principi de' Tartari nella loro creazione, quello che n'è stato affermato essere scritto nell'istorie persiane, dove parlano di questi Tartari orientali, cioè ch'eletto ch'hanno l'imperator loro e fatto seder sopra la sede imperiale, lo levano di quella con gran cerimonie e lo fanno sedere sopra un panno di feltro negro disteso in terra, e poi li dicono che guardi in su e conosca Iddio grande e immortale per suo superiore, e da lui riconosca ogni cosa; dopo riguardi il feltro e sappia che, se governerà l'imperio con giustizia, Iddio lo prospererà in tutte le sue azioni e lo farà star sempre sopra la sedia imperiale, ma facendo altrimenti, Iddio l'abbatterà, di sorte che non averà né anco quel feltro dove egli possa sedere. E questa credo sia la cagione del feltro, sopra la quale tanto dubita l'Armeno.
Ma, parendomi aver detto a bastanza intorno a quello che mi aveva proposto, farò fine, rendendo certi gli studiosi di simil lezione ch'io, con animo d'apportar loro e dilettazione e giovamento, mi son affaticato di raccoglier da diversi libri le cose che di sopra abbiamo narrate, e con la medesima intenzione di continuo usata ogni diligenza a me possibile in questi volumi de' Viaggi e Navigazioni, sapendo che 'l proprio officio dell'uomo è di giovare altrui in tutto ciò ch'egli puote.



Parte seconda dell'istoria del signor Hayton Armeno,
che fu figliuolo del signor Curchi, parente del re d'Armenia.



Del paese e origine dove abitavano le sette nazioni de' Tartari, e come per una visione fu eletto primo imperatore Cangio Can, e in che guisa lo posero nella sedia imperiale.
Cap. 1.

Il paese nel quale primieramente abitarono i Tartari è di là dal gran monte Belgian, del qual è fatta menzione nell'istorie di Alessandro. Vivevano i detti in quella regione a guisa di bestie, non avendo né lettere né fede, pascolando i loro armenti di luogo in luogo, dove trovavano i pascoli migliori, né esperienza alcuna avevano nell'arte dell'armi, tal che conto alcun d'essi non era fatto, anzi come gente rozza da tutti erano stimati e angarizati. Furono anticamente piú nazioni di Tartari, i quali comunemente si chiamavano Moglí; dopo crebberon tanto che si divisero in sette principali: la prima chiamarono Tatar, pigliando il nome dalla provincia dove abitavano, la seconda Tangur, la terza Cunath, la quarta Thalair, la quinta Sonich, la sesta Monghi, la settima Tebeth.
Stando queste sette nazioni tartare (come abbiamo detto) sotto l'ubbidienza de' loro vicini, avvenne che ad un uomo, vecchio fabro, in visione apparve un cavaliero tutto armato, sedendo sopra un cavallo bianco, il quale chiamandolo per nome gli disse:"Oh Cangio, il volere di Dio immortale è che tu sia guida de' Tartari e signore di queste nazioni di Moglí, e che mediante il tuo aiuto siano liberati dalla dura servitú nella quale sono cosí longamente stati, imperochè signoreggieranno i loro vicini e da quelli riceveranno il tributo, il qual essi soleano pagare". Udendo Cangio la parola d'Iddio, fu molto allegro e a tutti narrò la sua visione; ma, non volendo li principi delle nazioni credere questo, beffavano il povero vecchio. Nella seguente notte i predetti viddero in sogno l'istesso soldato bianco, non altrimenti che Cangio gli avea narrato, comandando loro da parte di Dio vivo ch'ubbidissero a Cangio e facessino che i suoi comandamenti fossero da tutti osservati; laonde, congregati i detti principi de' Tartari, insieme con tutti i popoli delle predette sette nazioni, ordinarono che fosse data ubbidienza a Cangio come a loro proprio signore. Dopo, fattagli una sedia grande nel mezo di loro e disteso quivi appresso in terra un feltro negro, ve lo fecero sedere sopra, e poi i sette principi, levatolo con gran festa e allegrezza, lo misero nella detta sedia, chiamandolo Can, cioè imperatore, e con grandissima reverenzia se gl'inginocchiarono davanti, come a loro signore e imperatore. E niuno si maravigli di tal sorte di solennità che fecero i Tartari nella creazione del loro primo imperatore, facendolo sedere sopra il feltro, perciochè forse non avevano allora piú bel panno sopra del quale lo mettessero, o veramente erano cosí grossi e rozzi che non seppero far meglio. Pur, sia come esser si voglia, ancor che quelli dopo acquistassero molti regni e signorie (perciochè hanno soggiogata tutta l'Asia, con tutte le sue ricchezze, e passato con le loro forze fino a' confini dell'Ungheria), nondimeno perciò non volsero mai lasciare l'antica consuetudine del feltro, anzi l'osservano fin oggidí, non altrimenti che fecero i loro maggiori: e io l'ho veduto in fatti, che sono stato due volte presente alla confermazione del detto imperatore.


Degl'ordini e leggi che fece Cangio Can, e come soggiogò tutti i popoli vicini; e dell'onore che fanno i Tartari all'uccello chiamato allocco, per avere scapolata la vita a Cangio Can.
Cap. 2.

Or ritorniamo al predetto Cangio Can, il quale, come si vidde fatto imperatore di commune volontà di tutti i Tartari, avanti che procedesse ad altre cose volse tentare se tutti fedelmente l'ubbidivano, per il che fece alcuni commandamenti che fossero da tutti osservati. Il primo, che tutti i Tartari credessero e ubbidissero a Dio immortale, per volontà del quale esso aveva ottenuto l'imperio: questo fu da' Tartari osservato, laonde d'allora in qua cominciarono ad invocare il nome d'Iddio immortale, e al presente nel principio di tutte le loro operazioni chiamano il suo divino aiuto. Il secondo comandamento fu che fossero annoverati tutti quelli che fossero atti alla milizia, e fatto la rassegna ordinò ch'ogni dieci avessero un capo, e ogni cento un altro capo, e sopra mille un altro, e similmente sopra diecimila un altro, e la squadra di diecimila armati chiamò toman. Comandò ancora a' sette maggior capi, i quali erano sopra sette nazioni de' Tartari, che deponessero tutte le loro prime dignità, il che subito fu fatto. Il terzo comandamento fu molto stupendo, imperochè lui comandò a' sette principi sopradetti che ciascuno li conducesse dinanti il suo primogenito figliuolo e con la propria mano gli tagliasse la testa: e benchè tal comandamento paresse loro essere crudelissimo e iniquo, nondimeno niuno ebbe ardire in cosa alcuna contradirgli, imperochè sapevano quello essere stato fatto signore per divina volontà, e cosí tutti l'eseguirono alla sua presenza. Dopo che Cangio Can ebbe conosciuto il volere de' suoi, e che fino alla morte erano pronti ad ubbidirlo, ei disegnò un giorno determinato, nel quale tutti fossero apparecchiati alla battaglia; e cosí messi all'ordinanza cavalcarono contra i popoli loro vicini, i quali con gran facilità soggiogarono, per la qual cosa quelli ch'inanzi erano stati loro signori dopo li diventorno servi, onde Cangio Can dopo andò contro a molte altre nazioni, le quali ben presto mise sotto il suo imperio.
Faceva Cangio Can le sue imprese con poca gente, e tutte gli riuscivano prospere. Accadde che un giorno, cavalcando quello con pochi de' suoi, s'incontrò ne' nemici, i quali per numero erano molto piú de' suoi; nondimeno Cangio Can non volse restare di combattere con quelli, e nella battaglia gli fu morto il cavallo sotto. Vedendo i Tartari che il loro signore era caduto tra le squadre de' nemici, non ebbero piú speranza della sua vita, onde, voltati indietro, col fuggire scapolorno sicuri dalle mani de' nemici, i quali raccolti insieme gli andorno perseguitando, non sapendo cosa alcuna che Cangio Can fosse stato gettato a terra. In questo tanto Cangio Can correndo s'ascose in alcuni boschetti, per fuggire il pericolo della morte. Ritornati gli nemici dalla battaglia per spogliare i morti, e cercando s'alcuno vi fosse ascoso, accadé ch'un certo uccello, chiamato allocco, venne sopra quel boschetto dove era nascosto l'imperatore: e vedendo li nemici l'uccello sedere sopra quei rami, non credettero che vi fosse ascoso alcuno, e cosí si partirono. La notte seguente Cangio Can, fuggendo per alcuni luoghi fuor di strada, andò a truovare i suoi; a' quali avendo narrato per ordine ciò che gli era accaduto, i Tartari allora riferirono grazie infinite a Dio immortale, poi che gli era piacciuto (mediante tal uccello) scapolar dalla morte il loro imperatore. Il qual uccello fu dopo tra' Tartari in tanta reverenza che qualunque può avere una delle sue penne si reputa felice e beato, portandole sopra la testa con gran venerazione. Mi è parso a proposito dire questo, acciò si sappia la cagione per la qual i Tartari portano sopra la testa le penne dell'allocco. L'imperatore Can rendette grazie a Dio dell'averlo da cosí gran pericolo liberato e raccolto. L'oste suo assaltò di nuovo i nemici, e valentemente combattendo gli messe sotto il suo imperio, e cosí Cangio Can rimase signore di tutte le terre che sono vicine al monte Belgian, e quivi tenne il suo imperio senz'alcuno impedimento, fintanto ch'esso vidde un'altra visione, come di sotto si dirà. Né si deve maravigliare alcuno se in quest'istorie non viene messo il tempo: avvenga che da molti l'addomandasse, non potei però mai trovare alcuno che me lo sapesse dire. Ed è cosa verisimile che 'l tempo non si sappia, perciochè nel loro principio i Tartari non aveano lettere, e passando i fatti di quelli senza ch'alcuno li scrivesse, sono dopo andati in oblivione.


Della seconda visione ch'ebbe Cangio Can, per la quale uscí del suo paese, e dell'adorazioni che fece per numero novenario appresso il mare per aver il passaggio; e come dopo s'ammalò, e degli ammaestramenti ch'esso diede a dodici suoi figliuoli prima che lui morisse; e la causa per la quale i Tartari hanno in somma reverenzia il numero novenario.
Cap. 3.

Dopo che Cangio Can ebbe superato tutti i regni e le terre ch'eran appresso il monte Belgian, vidde un'altra visione. Gli apparve di nuovo in sogno il cavaliero bianco, il qual li disse: "La volontà d'Iddio immortale è che tu passi il monte Belgian e facci il tuo viaggio verso ponente, ove piglierai molti regni, paesi e terre, e metterai molti popoli sotto il tuo imperio; e acciò che tu sia certo quello ch'io ti dico essere il voler d'Iddio immortale, levati suso e va' con la tua gente al monte di Belgian, ove quello si congiugne col mare, e quivi dismonta, e voltatoti verso l'oriente, nove volte inginocchiato adorerai Dio immortale, e lui, ch'è onnipotente, ti mostrerà la strada per la quale potrai commodatamente passare". Veduta ch'ebbe tal visione, Cangio Can si levò tutto allegro, non temendo di cosa alcuna, imperochè la prima visione, per esser stata vera, gli dava ferma credenza di questa seconda. E subito raccolti da ogni parte tutti i suoi, comandò loro che lo seguissero con le mogli e i figliuoli e con tutto il loro avere. Andarono adunque per fino al luogo dove il mare grande e profondo s'accostava al monte Belgian, né si vedea in quel luogo via alcuna né modo da potervi passare. Subito Cangio Can, come gli era stato comandato da Dio, smontò da cavallo, e cosí feceron tutti, e voltatisi verso oriente, inginocchiati, nove volte adoraron, domandando grazia e perdono all'onnipotente e immortal Iddio, che gli mostrasse il modo e la via di passare. Stati tutta quella notte in orazione e levatisi la seguente mattina, viddero che 'l mare s'era ritirato adietro del monte per nove piedi e avea lasciata la via larga. Stupironsi adunque tutti i Tartari vedendo questo, e renderono grazie a Dio immortale, e se n'andarono verso ponente, per quella strada che avevano veduta aperta. Ma, come si ritruova nell'istorie de' Tartari, poi ch'ebbero passato il detto monte, per alquanti giorni patirono gran pena di fame e di sete, imperochè truovarono la terra deserta, e l'acque tanto amare e salse che per modo alcuno non ne potevano gustare; pur al fine vennero in un paese fertile e abbondante, dove per molti giorni si riposorno.
Ma accadé per volontà di Dio che l'imperatore s'ammalò d'una infermità tanto grave che di quella non speravano i medici alcuna salute, onde, vedendosi in tal stato, chiamati a sé dodici suoi figliuoli, gli esortò che dovessero essere sempre uniti d'un animo e d'un volere, dando loro un tale esempio, cioè che ciascuno portasse una saetta, e adunate tutte insieme ordinò al maggiore che cosí legate le rompesse, s'ei potesse. Costui, avendole prese in mano, si sforzò romperle, e per modo alcuno non poté; dopo le diede al secondo, al terzo, e cosí a tutti, né vi fu alcuno che le potesse rompere. Fatto questo, comandò che le saette fossero disligate e separate l'una dall'altra, e disse al figliuol minore che ne rompesse una per volta, il che fece facilmente. Allora Cangio Can, voltatosi a quelli, disse loro: "Per qual cagione non avete voi potuto rompere le saette ch'io vi diedi?" Risposero: "Perchè erano tutte insieme". "E il vostro fratello minore perchè le ha rotte?" "Perchè eran separate l'una dall'altra". Disse allora Cangio Can: "Cosí di voi averrà: fin che sarete d'accordo e d'una medesima volontà e d'un medesimo animo, tanto il vostro imperio durerà; ma subito che sarete divisi, le vostre signorie si ridurranno in niente". Diede loro ancora molti altri buoni ricordi ed esempi, i quali furno da' Tartari osservati, e diconsi nella loro lingua "iasack Cangis Can", cioè costituzioni di Cangio Can. Fatte queste cose, prima ch'ei morisse fece signore e successore il piú savio e migliore de' suoi figliuoli, nominato Hoccota Can: questo dopo la morte del padre fu fatto imperatore.
Ma prima che facciamo fine a questa narrazione, diremo perchè il numero di nove è appresso i Tartari in grande venerazione. Pensano loro il numero di nove essere felice, in memoria delle nove volte che s'inginocchiorno all'immortale Dio appresso al monte Belgian, come dal cavalliero bianco gli era stato comandato, e per i nove piedi ch'era larga la strada per la quale passorno; per il che qualunque vuol presentare cosa alcuna al signore de' Tartari gli conviene offerire nove cose, se vuole che 'l suo dono sia graziosamente ricevuto, ed essendo nove cose quelle che sono presentate, il dono è reputato buono e felice, laonde tal consuetudine sino al presente tempo tra' Tartari s'osserva.


Di Hoccota Can, secondo imperatore de' Tartari, il qual mandò nell'Asia un capitano per soggiogarla, e passando vicino alla città d'Alessandria quella ruinò, e scontratosi poi nel soldano di Turchia, per paura se ne ritornò a Cambalú. E come Hoccota Can mandò tre suoi figliuoli in diverse parti del mondo a conquistare reami, e d'un suo capitano detto Baydo, che ruppe il soldan di Turchia e prese il reame.
Cap. 4.

Hoccota Can, il quale successe nell'imperio al padre, fu uomo strenuo e prudente e molto amato da' Tartari, obedendoli fedelmente. Pensando costui adunque in che modo potesse sottomettere tutta l'Asia, li parse di voler provare la potenza de' re di quella, prima che personalmente si movesse, e conoscere il piú forte principe. Laonde mandò diecimila cavallieri, dando loro un valente capitano, il qual si chiamava Gebesabada, e comandoli che dovesse cercare diverse terre e popoli, e vedere lo stato e costumi di quelli, e se trovasse alcun principe al quale esso non potesse resistere, non procedesse piú avanti, ma se ne tornasse quanto prima potesse indietro.
Andò Gebesabada con la sua gente, e cominciò a entrare per diversi paesi e prese alcune terre e castelli; e a quelli che gli erano venuti incontro armati, per mettere loro terrore, faceva cavar gli occhi, levandoli tutti i cavalli e vettovaglie ch'aveano, e al popolo minuto faceva buona compagnia, sempre sforzandosi di procedere piú avanti che poteva. Al fine pervenne al monte detto Cochas, quale è fra due mari, perchè dalla parte di ponente v'è il mar Maggiore e da levante il mare Caspio, qual s'estende dal detto monte fino in capo del reame di Persia: questo monte divide tutta la terra d'Asia in due parti, e quella ch'è verso levante si chiama Asia profonda, e quella verso ponente Asia maggiore. Quivi giunto Gebesabada, non potendo passare piú oltre, se non per una città la qual fece edificare Alessandro Magno sopra uno stretto che è fra detto monte Cochas e il mare Caspio, pensò di pigliarla, e all'improviso gli diede l'assalto: e fu tanto presto che gli abitanti non se n'accorsero né poterno far difesa alcuna, e tutti furono morti, e destrutta la città fino sopra i fondamenti; e questo fece perchè si dubitava che nel ritorno non gli fosse proibito il passaggio. Questa città anticamente si chiamava Alessandria, e al presente è chiamata Porta di Ferro.
E tanto stettero a disfare le mura, che la fama della venuta de' Tartari pervenne al paese de' Giorgiani, onde Yuanus principe, che signoreggiava detti popoli, congregato gran numero delle sue genti, in una pianura detta Mogran s'incontrò co' Tartari; dove essendone morti assai dall'una e l'altra banda, al fine i Giorgiani furno sconfitti e rotti, e li Tartari restando vincitori si misero andare piú avanti, fin che pervennero a una città del soldano di Turchia chiamata Arscor. Ove avendo inteso Gebesabada che 'l soldano l'aspettava con gran numero di gente molto ben guernite per combattere con loro, essi non ebbero ardire d'affrontargli, ma schivarono la battaglia, trovandosi, sí per il cammino, sí ancora per i disagi sofferti, mezi rovinati. E per questa causa se ne tornarono indietro piú presto che poterono all'imperatore Hoccota Can, il qual allora si trovava in Cambalú, dove il capitano Gebesabada gli narrò tutt'il viaggio e tutto quello che gli era incontrato da che esso da lui s'era partito. Le quali cose avendo intese l'imperatore, volendo pur al tutto soggiogar l'Asia, chiamati a sé tre suoi figliuoli, dando a ciascuno d'essi gran numero di genti, arme e ricchezze, comandò loro ch'andassero in Asia e quella sottomettessero al suo imperio. E al primogenito, chiamato Iochi, ordinò ch'andasse verso ponente fino al fiume Phison, ch'è il Tigris, e piú oltre non passasse; al secondo, detto Baydo, verso settentrione; al terzo, detto Chagoday, dovesse andare verso mezodí. E a questo modo divise li reami dell'Asia tra' suoi figliuoli. Esso veramente con l'esercito suo se n'andò per le terre e provincie, dove s'estese sino al reame di Zagathai, e l'altra parte entrò nel regno detto Cassia, dove li popoli, che non erano soggetti a' Tartari, adoravano gl'idoli.
In questo tempo Hoccota Can elesse un valente capitano e molto prudente, nominato Baydo, al qual diede trentamila cavalli, di quelli che si chiamano thamachi, cioè conquistatori, e gli comandò ch'andasse per quella medesima strada per la quale era andato Gebesabada con li diecimila Tartari sopra nominati, né dovesse far dimora in altro luogo fin che non pervenisse al regno di Turchia, il signor del quale fra tutti i principi d'Asia era reputato il piú potente; e conoscendosi essere inferiore a lui, non dovesse combattere, ma ritirarsi al sicuro in qualche buona città, e quivi darne aviso ad alcuno de' suoi figliuoli che li fosse piú vicino, avisandolo che gli mandasse aiuto per potere sicuramente combattere. Baydo, andando con li detti trentamila cavalli a buone giornate, gionse al regno di Turchia, dove intese che quel soldano che aveva cacciato la prima volta li Tartari era morto, e in suo luogo era successo un suo figliuolo detto Guyatadin, il quale, inteso la venuta de' Tartari, ebbe grandissima paura, e per difendersi chiamò al suo soldo ogni sorte di gente ch'esso poteva avere, cosí barbari come latini: e fra gli altri ebbe duemila latini sotto due capitani, uno nominato Giovanni da Liminada, ch'era dell'isola di Cipro, l'altro Bonifacio da Molin, nato in Venezia. Mandò similmente detto soldano a' suoi vicini, promettendo a quelli che, venendo, darebbe loro gran somma di denari e diverse sorti presenti: onde, congregato l'oste d'una gran moltitudine di combattenti, s'aviò verso il luogo dove erano accampati i Tartari, i quali per la venuta del detto soldano non si smarrirono punto, ma in un luogo detto Cosedrach s'affrontorno insieme valorosamente, e quivi al fine i Tartari ruppero l'esercito del soldan di Turchia e s'insignorirno del detto reame. Questo fu nell'anno del nostro Signore 1244.


Di Gino Can figliuolo di Hoccota Can, terzo imperatore, che vivette poco tempo, dopo la cui morte fu eletto un suo parente detto Mangú, qual andato per pigliar un'isola s'annegò; e come fu eletto Cobila Can suo fratello, qual nel Cataio edificò Ions.
Cap. 5.

Poco tempo durò dopo Hoccota Can, che di questa vita mancò, al quale successe Gino Can suo figliuolo, ma visse poco tempo. A questo successe Mangú Can suo parente, il quale fu valentissimo, e al suo imperio sottomesse molte provincie. Finalmente come magnanimo imperatore andò per il mare del Cataio per pigliare un'isola, ed essendoli in assedio, gli uomini di quella, astuti e sagaci, mandarono per sott'acqua alcuni alla nave nella quale era Mangú, e tanto vi stettero che la fororno in molti luoghi, per il che l'acqua poi (non s'accorgendo alcuno) entrò nella nave, tal che s'affondò insieme con l'imperatore. I Tartari i quali eran andati con quello ritornorno, ed elessero per loro signore Cobila Can, fratello del predetto Mangú. Costui tenne l'imperio de' Tartari anni 42, e fu cristiano, ed edificò nel regno del Cataio la città di Ions, la quale (come si dice) è maggiore di Roma, ove lui dimorò tutt'il tempo della sua età.
Ma lasciamo l'imperatore de' Tartari, e parliamo de' figliuoli di Hoccota Can, e di Haolono e de' suoi eredi.


Di Iochi, primogenito di Hoccota Can, il quale conquistò il regno di Turquestan e quivi stette con tutti li suoi.
Cap. 6.

Iochi, primogenito di Hoccota Can, cavalcò verso ponente con tutta quella gente che gli avea dato il padre, e ritrovò alcuni paesi fertili, dilettevoli e pieni di tutte le ricchezze; e quivi fermatosi, conquistò il regno di Turquestan e la Persia minore, e fino al fiume Phison distese il suo dominio, e quivi stando con li suoi moltiplicò in ricchezze e gente, e al presente ancora i suoi eredi hanno in quelle parti il dominio. Quelli che di presente signoreggiano sono due fratelli, cioè Capar e Doay, i quali, divise tra loro le terre e le genti, pacificamente le posseggono.


Di Baydo, figliuol secondo di Hoccota Can, il quale andò verso tramontana e conquistò molti regni, tanto ch'ei venne nell'Austria, dove passando un fiume s'annegò.
Cap. 7.

Baydo, secondo figliuol di Hoccota Can, cavalcò verso tramontana co' Tartari che 'l padre gli avea dato, fin ch'egli venne al regno di Cumania. I Cumani, i quali aveano gran copia d'uomini armati, gli andorno incontro, credendo poter difendere il lor paese, ma al fine furno sconfitti e fuggirno fino nel regno d'Ungheria, ove al presente ancora sono molti Cumani che quivi abitano. Poi che Baydo ebbe scacciato i Cumani del loro regno, si voltò a quello di Russia e soggiogollo; prese ancora la terra di Gazaria, il regno di Bulgaria, e per la via ch'erano fuggiti i Cumani, esso similmente andò fin al regno d'Ungheria. Dopo queste vittorie i Tartari presero il cammino verso Alemagna, e pervennero a un certo fiume, il quale corre per il ducato d'Austria: e volendo passare quello sopra un ponte, furno dal duca d'Austria e da' popoli circonvicini impediti. Vedendo Baydo esserli proibito il passare il ponte, infiammato d'ira comandò a tutti che passassero a guazzo, ed esso primo, per far loro la strada, entrò col cavallo nel fiume, esponendo e sé e i suoi al pericolo della morte: ma, per la gran larghezza e per il veloce corso dell'acqua, i cavalli si straccarono, in modo che Baydo con gran numero de' suoi s'annegarono. E vedendo questo, quelli che sopra la ripa erano restati ebbero gran dolore, e se ne ritornarono al regno di Russia e di Cumania, che prima avevano occupato; né dopo i Tartari ebberon piú ardire d'andare nell'Alemagna, e gli eredi del detto Baydo conservorno per successione le terre ch'esso avea acquistate. Quello che di presente è signore si chiama Tochai, e vive in tranquillo e pacifico stato.


Di Cangaday, terzo figliuolo di Hoccota Can, il qual, andato nell'India, perse assai gente, e per questo ritornò a trovare il suo fratello Iochi, e con lui stette; e del successore di Iochi, che si chiamava Barach.
Cap. 8.

Cangaday, terzo figliuolo di Hoccota Can, cavalcò verso mezogiorno co' Tartari che gli erano stati assegnati, per fino che pervenne alle parti dell'India minore, dove trovò molti deserti, monti e terre aride e del tutto deserte, per le quali non fu possibile che potesse passare, anzi perse gran quantità d'animali e uomini; onde fu bisogno di voltarsi verso ponente, e dopo molte adversità pervenne a suo fratello Iochi, al qual narrò ciò che in viaggio gli era intravenuto. Iochi, mosso a compassione, amorevolmente gli diede parte di quelle terre ch'avea acquistate, e alle sue genti, per il che detti due fratelli abitorno sempre insieme, e al presente i loro eredi abitano in quelle parti, tal che gli eredi del fratello minore hanno in riverenza gli eredi del maggiore, e contenti delle loro porzioni vivono in pace e riposo. Il successore di Iochi che al presente vive si chiama Barach.


Dell'andata del re d'Armenia a Mangú Can, e delle domande che gli fece, le qual il detto imperatore benignamente li confirmò.
Cap. 9.

Nell'anno del Signore 1253 il signore Hayton, re d'Armenia, secondo ch'aveano i Tartari soggiogato tutti i regni, paesi e terre fino al regno di Turchia, avuto il consiglio de' suoi savii, deliberò d'andare in persona all'imperatore de' Tartari, acciò piú facilmente potesse acquistare la sua benevolenza e amore, e fare con quello sempiterna pace. Ma prima volse mandarvi suo fratello messer Sinibaldo, contestabile del regno d'Armenia, acciò che, presa licenza dall'imperatore, potesse dopo piú sicuramente andarvi. Onde il predetto messer Sinibaldo, partitosi con molta bella compagnia e con molti presenti, andò all'imperatore de' Tartari, e quivi a pieno eseguí ciò che gli era stato ordinato, e nel viaggio stette quattro anni. Onde tornato, e particolarmente referito tutto quello ch'avea veduto e fatto, il re d'Armenia senz'altro indugio ascosamente si partí, dubitando non esser conosciuto nel paese di Turquia, per onde gli conveniva passare. Ma per volontà d'Iddio in quel tempo il soldano di Turquia fu sconfitto per un capitano de' Tartari, al quale il re di Armenia andò e se gli diede a conoscere; il quale, inteso ch'andava all'imperatore, lo ricevé graziosamente e gli fece grandissimo onore, comandando che fosse accompagnato sicuramente fino al regno di Cumania, ch'è di là dalla Porta di Ferro. Dopo il re trovò altri capitani de' Tartari, i quali lo fecero accompagnare per tutte le terre e luoghi, tanto ch'ei pervenne alla città di Cambalú, dove faceva residenza Mangú Can, imperatore de' Tartari; il quale, com'intese che 'l re era venuto, fu molto contento, perciò che, dopo che Cangio Can passò il monte Belgian, niun gran principe l'era venuto a visitare: e per questo gli fece molte accoglienze e grand'onore, e gli diede in sua compagnia alcuni de' primi della sua corte, che l'onorassero dovunque esso andava.
Dopo che 'l re d'Armenia si fu alquanti giorni riposato, supplicò all'imperatore che si degnasse d'espedirlo de' negozii per i quali esso era venuto, e gli desse buona licenza di ritornarsene. L'imperatore gratamente gli rispose, dicendo che molto volentieri farebbe tutt'il suo volere, e che gli avea fatto singular appiacere per esser di propria volontà venuto al suo imperio. Allora il re formò sette petizioni in tal guisa: prima, pregò l'imperatore che con la sua gente si convertissero alla fede di Cristo, e che lasciate tutte l'altre sette si battezzassero; seconda, che tra i cristiani e Tartari fosse una ferma e perpetua pace confermata; terza, che in tutte le terre che i Tartari avevano acquistate e acquistassero tutte le chiese de' cristiani e i chierici di quelle, cosí laici come religiosi, fossero liberi ed esenti da ogni servitú e da tutti i dazii; quarta, ch'esso togliesse di mano a' saraceni la Terra Santa e il santo Sepolcro e lo restituisse a' cristiani; quinta, ch'attendessero alla destruzione del califo di Baldach, il qual era capo e dottore della setta del perfido Maumetto; sesta, che tutti i Tartari, e specialmente li piú propinqui al re d'Armenia, fossero obligati senz'alcun indugio darli soccorso, qualunque volta fossero richiesti; settima, domandò che tutte le terre della iurisdizione del re d'Armenia, le quali i saraceni aveano occupate e dopo erano venute alle mani de' Tartari, gli fossero restituite, e quelle che il re potesse acquistare contra li saraceni le potesse tenere e in pace possedere.
Mangú Can, udite e intese le domande del re d'Armenia, convocò i suoi baroni e consiglieri, dove, essendo il re presente, rispose in tal guisa: "Conciosiachè il re d'Armenia sia venuto di lontani paesi volontariamente al nostro imperio e non sforzatamente, cosa convenevole è alla nostra imperiale Maestà di compiacere alle sue domande, e particolarmente a quelle che sono giuste e oneste; e cosí diamo risposta a voi, re d'Armenia, che tutte le vostre domande accettiamo, e con l'aiuto d'Iddio le faremo adempire. E io, imperatore e signore de' Tartari, primo mi voglio far battezzare, tenendo la medesima fede ch'ora tengono i cristiani, e conforterò tutti quelli che sono sotto il mio imperio che faccino il simile, non già sforzandoli. Secondo, ci piace che tra' cristiani e Tartari sia perpetua pace: con questo però, che dobbiate constituirvi per la principale securezza che i cristiani inviolabilmente osserveranno la concordia e la pace verso noi, come noi verso d'essi. Vogliamo ancora che tutte le chiese de' cristiani e li chierici di ciascuna sorte abbino il privilegio di libertà, né possino da alcuno esser molestati. Alla parte ch'aspetta alla Terra Santa, se non fossero le facende ch'abbiamo, in quelle parti per riverenza del nostro Signor Giesú Cristo noi personalmente veniressimo; ma daremo l'impresa ad Haloon nostro fratello, ch'esso espedisca questa cosa come porta il dovere, e liberi la città di Gierusalem e tutta la Terra Santa dalle mani de' saraceni, e la restituisca a' cristiani. Contra califo di Baldach comanderemo a Baydo, capitano de' Tartari i quali sono nel regno di Turquia e altri che sono in quei paesi circonvicini, che tutti debbino ubbidire al nostro fratello, il quale vogliamo che lo destrugga, come nostro capitale e pessimo nemico. Quanto al sussidio che cerca avere il re d'Armenia da' Tartari, vogliamo gli sia concesso sí come ei domanda. Ancora per special grazia gli concedemo che tutte quelle terre del suo regno le quali da' saraceni gli erano state tolte, e dopo sono state occupate da' Tartari, che Haloon nostro fratello subito le restituisca, per augmento e sicurtà del suo regno".


Come Mangú Can si battezzò, e come mandò Haloon suo fratello all'espugnazione del castello degli Assassini.
Cap. 10.

Dopo che Mangú Can liberamente ebbe adempito le domande del re d'Armenia e confermate con privilegio, di subito volse ricevere il sacramento del battesimo, e fu battezzato da un vescovo ch'era cancelliere del re d'Armenia, il quale dopo battezzò tutta la famiglia dell'imperatore, cosí uomini come donne, con molti principi e persone nobili. Dopo l'imperatore ordinò quelli che dovessero seguire Haloon suo fratello, per sussidio della Terra Santa. Cavalcarono adunque insieme Haloon e il re d'Armenia per le sue giornate, fino che passarono il gran fiume Fison; dopo Haloon occupò col suo esercito tutti i paesi e terre da ogni parte, e in manco di sei mesi soggiogò tutt'il reame della Persia, il che gli fu facile, ritrovandosi allora senza signore e governatore. Prese ancora senza contrasto tutte le terre fino al paese degli Assassini, i quali sono uomini infedeli e senza legge; ubbidiscono però al loro signore, che gl'instruisce e ammaestra, il qual si chiama vulgarmente Sexmontio, a compiacenza e comandamento del quale, spontaneamente e senza dubitazione alcuna, s'offerivan alla morte. Aveano detti Assassini un castello inespugnabile, chiamato Tigado, il qual era fornito di tutte le cose necessarie, ed era tanto forte che non temeva da alcuna banda esser assaltato. Tuttavolta Haloon comandò a un certo capitano che, tolti diecimila Tartari, i quali esso avea lasciati per guardia della Persia, e che con quelli assediasse il detto castello, e di quivi non si partisse fin che non lo prendesse. Onde i predetti Tartari stettero in quell'assedio sette anni intieri, cosí di verno come di state, che mai lo poterno conquistare; alla fine gli Assassini s'arresero per bisogno di vestimenta, non di vettovaglie o d'altre cose necessarie.
Nel tempo che Haloon attendeva alla guardia del regno di Persia e all'assedio del detto castello, il re d'Armenia prese da lui licenza di tornarsene nel suo regno, per esser stato molto tempo lontano da quello. Haloon gliela diede, e appresso grandissimi doni, comandando ancora a Baydo, il quale faceva residenza nel regno di Turquia, ch'ei lo facesse accompagnare sicuramente fino al suo regno: il comandamento del quale fu al tutto adempito, e cosí in termine di tre anni e mezo il re d'Armenia se ne ritornò a casa sano e salvo, per la grazia di messer Giesú Cristo.


Come Haloon prese la città di Baldach, e della sorte di morte che fece fare al califo, e della moglie cristiana di Haloon.
Cap. 11.

Dopo che Haloon ebbe ordinata la guardia nel regno di Persia (come li parse esser sufficiente), se n'andò a una certa provincia vicina d'Armenia, detta Sorloch, ove tutta quella state si diede spasso e riposo; e venuto l'inverno deliberò di voler pigliare la città di Baldach, nella quale era il califo, maestro e dottore della setta del perfido Maumetto. E raccolto un esercito di trentamila Tartari combattenti, i quali erano nel regno di Turquia, insieme con l'altre sue genti diede la battaglia alla detta città, la quale di subito fu presa, e il califo fu menato prigione innanzi Haloon. Nella città furono ritrovate tante ricchezze che non è uomo che credesse che tante ne fossero in tutt'il mondo. Fu presa nell'anno del Signore 1258. Haloon, avendo alla sua presenza il califo, gli fece mettere innanzi tutto il suo tesoro, domandandogli se sapeva essere stato suo tutto quello che vedea; il qual rispose che sí. Disse adunque Haloon: "Perchè con tanto tesoro non chiamavi tanti soldati e tuoi vicini, che defendessero te e la tua terra dalla potenza de' Tartari?" Rispose califo: "Perchè io credea che fossero assai sufficienti le genti mie". Al che replicò Haloon: "Essendo adunque tu chiamato dottore di tutti quelli che credono nella falsa setta di Maumetto, è ben conveniente che da' tuoi sii rimunerato come un tale e tanto maestro merita, qual non deve essere d'altri cibi nutrito che di quelle cose preciose le quali ha tant'amate e con grande avidità custodite". E comandò ch'ei fosse serrato in una camera, e avanti gettate le perle e l'oro, acciochè di quelle si cibasse a sua satisfazione, né gli fosse portato cosa di sorte alcuna: e cosí il misero avaro finí la sua miserabil vita, né dopo fu alcuno califo nella città di Baldach.
Soggiogata ch'ebbe Haloon la città di Baldach e l'altre terre vicine, divise le provincie per duchi e per rettori come gli piacque, e comandò che in ogni parte i cristiani fossero ben trattati, e a loro fosse data la guardia delle città e castella, e che i saraceni fossero deposti d'ogni dignità e onore. Aveva Haloon la mogliera cristiana, chiamata Doucoscaro, la qual fu della progenie di quei re che viddero la stella nella natività del Signore e vennero d'Oriente. E questa madonna come devotissima cristiana esortava che si rovinassero i templi de' saraceni, e vietava che non facessero la solennità di Maumetto, e pose i saraceni in tanta servitú che piú non ardivano lasciarsi vedere.


Come Haloon prese la città d'Aleppo per forza.
Cap. 12.

Essendosi riposato Haloon per spazio d'un anno, mandò a dire al re d'Armenia che venisse con la sua gente alla città di Rochais, ch'è nel regno di Mesopotamia, imperochè lui voleva andare a conquistare Terra Santa per renderla a' cristiani. Udito questo, il buon re Hayton si mise in viaggio con grand'esercito d'uomini armati, cosí a cavallo come a piedi, perciochè allora il regno d'Armenia era in tanta prosperità che poteva far dodicimila cavallieri e sessantamila fanti armati: e io, ch'al mio tempo l'ho veduto, ne posso far fede. Giunto che fu il re d'Armenia, e ragionato insieme sopra l'espedizione di Terra Santa, disse verso di Haloon essere molto a proposito primieramente assaltare il soldano di Aleppo, il quale tiene il principato di tutta la Soria, nella quale è la città di Gierusalem, imperochè, avuto Aleppo, sarà facile soggiogare tutte l'altre terre circonvicine. Questo consiglio piacque molto ad Haloon, e immediate deliberò d'andar all'assedio di detta città, la quale, per esser tutta murata d'intorno e piena d'infinite genti e ricchezze, era riputata fortissima. Giunto che fu appresso, ordinò ch'ella fosse circondata dall'esercito, e quivi con cave sotto terra, balestri e altri ingegni gli diede gagliardamente la battaglia: e quantunque ella paresse inespugnabile, tuttavia l'assalto fu con tanta violenza che in termine di nove giorni la prese, nella quale truovò incredibile quantità di ricchezze. Era nel mezo della città un certo castello, il quale si tenne per undici giorni dopo che fu presa la terra, ma finalmente, essendoli state fatte molte cave sotto, s'arresero. Fu presa questa città da Haloon, e similmente tutta la Soria, nell'anno del Signore 1240.

Come Haloon, volendo andare all'acquisto di Terra Santa, intesa la morte di Mangú Can, lasciò un suo capitano con diecimila Tartari, e lui prese il cammino verso levante.
Cap. 13.

Essendo Melecnasar, soldano d'Aleppo, in Damasco, ebbe nuova la sua città esser stata presa, con la moglie e i figliuoli; e pensando quello ch'ei dovesse fare, li parse che 'l meglio saria d'andare a gettarsi a' piedi d'Haloon e domandargli misericordia, sperando che per la clemenzia di quello, che gliela restituiria: ma la cosa non gli andò ad effetto, perchè Haloon lo ritenne e mandò prigione insieme con la moglie e figliuoli in Persia, per levarsi via ogni occasione che gli potesse dar disturbo nel regno di Soria.
Fatte queste cose, Haloon mandò a donare al re d'Armenia gran parte delle spoglie acquistate nella presa d'Aleppo, e concessegli appresso molte terre, onde il re, avuti molti castelli vicini al suo regno, gli fortificò a suo modo. Dopo questo Haloon chiamò a sé il principe d'Antiochia, il qual era genero del re d'Armenia, e l'onorò grandemente, dandogli molti doni e privilegii, concedendogli ancora tutte le terre della sua giurisdizione le quali da' saraceni gli erano state occupate. Fornito ch'ebbe Haloon le cose che gli facevano di mestiero circa il governo della città e delle terre ch'aveva preso, deliberò transferirsi al regno ierosolimitano, per liberare la Terra Santa dalle mani degl'infedeli e restituirla a' cristiani. Ma fu constretto mutare opinione, per la nuova ch'ebbe della morte di Mangio Can, e come i Tartari l'aspettavano per metterlo nella sedia del suo fratello. Laonde, turbato di tal novelle, per non potere piú oltre procedere, elesse un suo capitano chiamato Guiboga e lo mandò con diecimila Tartari alla guardia del regno di Soria, comandandogli che dovesse acquistare la Terra Santa e restituirla a' cristiani. Egli veramente si mise in cammino verso le parti di levante, lasciando suo figliuolo in Tauris.

Come Haloon fu constretto tornarsene indietro a combattere con Barcha, che voleva andare a farsi fare imperatore, e come sopra un fiume agghiacciato, il qual si ruppe, la maggior parte de' due eserciti s'annegarono; e della discordia che nacque fra li Tartari e li cristiani nel regno di Soria.
Cap. 14.

Prima che Haloon giugnesse nel regno di Persia gli venne nuova come i principi e nobili de' Tartari aveano posto Cobila Can, suo fratello, nella sedia imperiale, per il che se ne ritornò in Tauris. Dove stando, intese come Barcha veniva con grandissimo esercito, intendendo di voler avere l'eredità dell'imperio: per li quali romori Haloon, congregate le sue genti, se n'andò contra il nemico. E giunto sopra un certo fiume congelato fu cominciata la battaglia, ma per la moltitudine delle genti il ghiaccio si ruppe, e s'annegarono dall'una e l'altra banda piú di trentamila Tartari; il restante dell'esercito d'ambe le parti, per la perdita de' suoi soldati, se ne tornarono tristi e dolenti alle loro case.
Guiboga, il quale Haloon avea lasciato nel regno di Soria e nella provincia di Palestina, tenne quelle terre in gran pace, amando molto i cristiani, imperoch'esso era della progenie di quei tre re che vennero ad adorare la natività del Signore; e affaticandosi detto Guiboga di ridurre la Terra Santa in mano de' cristiani, ecco il nemico dell'umana natura pose discordia tra lui e li cristiani di quelle parti, la quale fu in questa guisa. Nella terra di Belforte, la quale fu del dominio della città di Sidonia, erano piú ville, nelle quali i saraceni pagavan un certo tributo a' Tartari. Onde accadette ch'alcuni uomini di Sidone e di Belforte insieme andarono alle ville de' saraceni e a' casali e li saccheggiarono, e molti di quelli ammazzarono, facendo prigioni gli altri e menando via assai moltitudine di bestiame. Un certo nepote di Guiboga, che stava quivi vicino, si mosse correndo dietro a' cristiani, per dirgli da parte di suo zio che lasciassero la preda; ma loro rivoltatisi l'ammazzarono, insieme con alcuni Tartari, non volendo restituire la preda. Avendo Guiboga inteso che i cristiani gli aveano ammazzato il nepote, subito si mise in cammino, e prese la città di Sidone e rovinò una gran parte delle mura, ammazzando alcuni cristiani: non però molti, per essersi fuggiti all'isole; per il che dopo i Tartari non si fidarono piú de' cristiani di Soria, né i cristiani de' Tartari, i quali furono scacciati da' saraceni del regno di Soria, come di sotto dichiareremo.
Mentre che Haloon guerreggiava con Barcha, come di sopra è detto, il soldano d'Egitto, raccolto il suo esercito, se ne venne nella provincia di Palestina e fece fatto d'arme con Guiboga, capitano de' Tartari, in un luogo chiamato Hamalech, dove Guiboga fu vinto e morto. I Tartari che poterono fuggire di quella battaglia andorno in Armenia, e allora il regno di Soria andò sotto la potestà de' saraceni, fuori d'alcune città de' cristiani, le quali sono vicine al mare. Avendo inteso Haloon che 'l soldano d'Egitto avea assaltato la Soria e scacciato la sua gente, subito messe il suo esercito in ordinanza, e chiamò il re d'Armenia, il re de' Giorgiani e altri cristiani delle parti di levante, che venissero contra il soldano d'Egitto e altri saraceni. Fatte queste preparazioni s'ammalò, e di tal sorte fu l'infermità che in termine di quindici giorni morí, laonde l'espedizione di Terra Santa fu in tutto tralasciata. Abaga, suo figliuolo, ebbe il dominio dal padre, e pregò l'imperatore Cobila Can che lo confirmasse, il che fu fatto nell'anno del Signore 1264.

Della morte di Haloon, e come successe Abaga Can suo figliuolo, e de' suoi costumi; e come il soldano d'Egitto mandò per mare in Cumania a far muover guerra ad Abaga Can.
Cap. 15.


Fu Abaga uomo prudente, e con gran prosperità governò il suo regno, e fu fortunato in tutte le cose sue, eccetto però in due: la prima, che non volse farsi cristiano come era stato suo padre, anzi adorava gl'idoli e dava fede a' sacerdoti idolatri; la seconda, che sempre ebbe guerra co' vicini di Tauris, e perciò il soldano dell'Egitto stette longo tempo in pace e quiete, e a questo modo la potenza de' saraceni crebbe grandemente. I Tartari che se ne potean fuggire andavano al soldano, per schifare i gravi pesi che da' suoi gli erano imposti. Intendendo queste cose, il soldano usò una gran sagacità contra i Tartari, perciochè mandò per mare suoi nunzii nel regno di Cumania e di Russia, e con loro fe' patto che, volendo Abaga muovere guerra contra l'Egitto, essi l'assaltassero nel suo paese, promettendoli doni grandissimi; e in questo modo Abaga non poté assaltar l'Egitto, e il soldano senz'alcuna contradizione andò contra i cristiani, e facilmente occupò le terre di Soria: e cosí i cristiani persero Antiochia e altri castelli che possedevano nel detto regno.

Come il soldano d'Egitto ruppe l'esercito dove erano due figliuoli del re d'Armenia, l'uno de' quali uccise e l'altro prese; e come, ritornato di Tartaria, il re d'Armenia riebbe il figliuolo, il qual fece re, renunciandoli il regno, ed esso andò nella religione.
Cap. 16.

Bunhocdare, soldano d'Egitto, favorito dalla prospera fortuna, abbassò grandemente il regno d'Armenia, in questo modo. Sapendo egli che 'l re era andato con gran gente in Tartaria, pensò d'assalire l'Armenia, laonde mandò un capitano con le sue genti. I figliuoli del re, intendendo la venuta de' saraceni, ragunati nel suo regno tutti quelli che potevano portar arme, gli andarono contro e con quelli animosamente combatterono. Pure alla fine l'esercito degli Armeni fu superato e vinto, e de' due figliuoli del re l'uno fu morto e l'altro preso nella battaglia. I saraceni con quella vittoria corsero per tutto il regno d'Armenia e, saccheggiato tutt'il piano, ne riportorno molti bottini, in danno grandissimo de' cristiani: e da questo accidente crebbe molto la potenza de' nemici, e s'indebolirno le forze del regno d'Armenia.
Intese queste cattive novelle, il re fu grandemente conturbato, né ad altro giorno e notte pensava se non come ei potesse offendere i saraceni, per il che spesse fiate invitava Abaga e li Tartari alla destruzione della setta maumettana in favore de' cristiani; ma Abaga s'escusava, per le guerre ch'avea co' suoi vicini. Vedendo il re d'Armenia non poter avere allora aiuto da' Tartari, mandò ambasciatori al soldano d'Egitto e con quello fece tregua, per riavere suo figliuolo di prigione. Il soldano promise, rendendoli un suo compagno amicissimo chiamato Angolascar, ch'era prigione appresso i Tartari, e alcuni castelli della città d'Aleppo, i quali gli erano stati occupati al tempo di Haloon, di restituirli il figliuolo, onde il re s'affaticò tanto co' Tartari che gli concederono Angolascar, e in cambio di quello riebbe poi il suo figliuolo; e appresso diede al soldano il castello di Tempsach, e fece rovinare due altri castelli a sua requisizione. E in tal guisa fu liberato il figliuolo del re Hayton d'Armenia, il quale, poi che furono fatte le sopradette cose, avendo tenuto il reame per quarantacinque anni, lo renunziò, dandolo al signor Livon suo figliuolo, ch'era stato liberato di prigione; ed esso, renunziando alle pompe di questo mondo, entrò nella religione, mutato secondo il costume d'Armeni il proprio nome, e fu chiamato Macario, e dopo non molto tempo morí: e fu negli anni del Signore 1270.

Del re Livon d'Armenia, il quale governò molto ben il suo regno,
e come Abaga Can fece morire Parvana suo ribello.
Cap. 17.

Il sopra nominato Livone, re d'Armenia, fu molto saggio e prudente, e governò il suo regno con gran prudenza e ingegno; fu grandemente amato, sí da' suoi sí ancora da' Tartari. Tutt'il suo intento sempre fu di destruggere i saraceni, onde nel suo tempo accadde ch'Abaga fece pace co' suoi vicini, con li quali longo tempo era stato in guerra, e nel medesimo tempo il soldan d'Egitto entrò nel regno di Turquia e ammazzò molti Tartari e molti ne scacciò dalle ville. Era allora nel regno di Turquia capitan de' Tartari un certo saraceno chiamato Parvana. Questo si ribellò contro Abaga e andò con le sue genti nell'esercito del soldano, e insegnava il modo come si dovessero rovinare e far morire tutti i Tartari: la qual cosa intesa da Abaga, subito cavalcò con tanta celerità che in 15 giorni fece il viaggio di 40 giornate. Udita la venuta de' Tartari, il soldan d'Egitto quanto prima poté si partí del regno di Turquia, né cosí fu il suo andare veloce che non fosse da' Tartari sopragiunto nella coda del suo esercito nell'entrare dell'Egitto, in un certo luogo chiamato Pasblanec. E ferendo i Tartari nell'ultima schiera, presero duemila cavalieri saraceni insieme con Parvana, e acquistarono molte ricchezze; presero ancora cinquemila famiglie de' Curdi, i quali abitavano in quel paese. Venuto Abaga fino a' confini d'Egitto, fu consigliato non andar piú avanti, per il gran caldo qual è in quel paese, perciochè né i Tartari né i loro animali, che con tanta fretta erano venuti cosí di lontano, averiano potuto tollerare la fatica né il caldo: e per questo Abaga tornò in Turquia, guastando e mandando per terra tutte le terre che gli erano state ribelle e s'erano arrese al soldano. Poi, secondo il costume de' Tartari, fece partire per mezo Parvana traditore con tutti i suoi seguaci, e comandò che in tutti i cibi ch'esso era per mangiare fosse posta della carne del traditor Parvana, della quale ne mangiò esso Abaga e ne diede a mangiare a tutti i suoi baroni. Questa è la pena ch'Abaga diede a Parvana traditore.

Come Abaga Cham offerse il regno di Turquia al re d'Armenia, il qual ricusò d'accettarlo; e come il soldano d'Egitto fu avvelenato.
Cap. 18.

Dopo ch'Abaga ebbe adempito il suo volere del regno di Turquia, e che li Tartari furono fatti tutti ricchi di bottini ch'aveano acquistati contra li ribelli saraceni, chiamò a sé il re d'Armenia e gli offerse il regno di Turquia, per esser stato il padre e lui ancora sempre fedeli verso la signoria de' Tartari. Il re d'Armenia, come savio e prudente, riferí grazie ad Abaga di tanto dono, e saviamente si scusò di volerlo accettare, dicendo non esser bastevole a governare commodamente due regni, perciochè il soldano d'Egitto era ancor gran signore e tutto intento a' danni dell'Armenia, per il che gli pareva fare assai se poteva contra di lui prevalersi; pure lo consigliò, quanto al regno di Turquia, ciò che si dovea fare prima che si partisse, acciò che poi non temesse di ribellione: cioè che dividesse detto regno in molte parti, e a ciascuna desse un governatore che la reggesse, né a saraceno alcuno desse signoria o potere. Accettò Abaga il consiglio del re, e providde che niun saraceno avesse il dominio in quelle terre. Fatte queste cose, il re d'Armenia ricercò pregando ch'Abaga volesse andare alla liberazione della Terra Santa per cavarla delle mani de' pagani: il che promise Abaga fare con tutt'il suo potere, e consigliò il re che mandasse ambasciatori al papa e agli altri principi e signori de' cristiani in soccorso della Terra Santa.
Dopo ch'Abaga ebbe ordinato nel regno di Turquia quello ch'era di mestiero, ritornò al regno di Corasam, ov'avea lasciato la sua famiglia. Bunhocdare, soldano d'Egitto, al quale i Tartari aveano fatto danno e vergogna, fu attossicato nella città di Damasco e subito morí, del che i cristiani di quelle parti n'ebbero grand'allegrezza e i saraceni gran dolore, perchè dopo quello non ebbero cosí buon soldano. Melechahic suo figlio successe nella signoria, nella qual stette poco tempo, essendo scacciato da Elfi, il quale per forza si fece soldano.

Come Abaga Can mandò Mangodamor suo fratello con un esercito di Tartari al re d'Armenia contra il soldano d'Egitto, qual fu rotto da' detti; nondimeno Mangodamor per paura si ritirò fino sopra le ripe dell'Eufrate.
Cap. 19.

Venendo il termine ch'Abaga dovea muover guerra contra il soldano d'Egitto, ordinò che Mangodamor suo fratello andasse con trentamila Tartari nel regno di Soria, e se per caso il soldano gli venisse contro per combattere, che valorosamente lo superasse; e se 'l soldano schifasse la battaglia, esso pigliasse le terre e i castelli e le desse in guardia de' cristiani. Venuto Mangodamor per fin al regno d'Armenia, mandò pel re, il qual venne con una bella compagnia di cavalieri, e insieme entrorno nel regno di Soria, guastando tutt'il paese fin alla città d'Aman, la qual ora si chiama Camella, ed è posta nel mezo della Soria; e nell'entrata di detta città v'è una pianura molto bella, nella quale il soldano raccolse il suo esercito per combattere co' Tartari. I saraceni adunque da una parte, e dall'altra i cristiani co' Tartari, appiccarono una crudel battaglia. Il re d'Armenia co' cristiani conduceva la parte destra dell'esercito, onde esso assaltò la parte sinistra dello esercito del soldano, e valentemente cacciò i nimici fino alla città d'Aman. Amalech, capitano de' Tartari, similmente ruppe l'altra parte dell'esercito del soldano valorosamente, e per tre giornate lo cacciò per fino a una città chiamata Turara. E credendo essi che la potenza del soldano fosse dissipata e sconfitta, ecco che Mangodamor, il qual non aveva mai piú veduto i pericoli delle battaglie, temette di alcuni saraceni, che in lingua araba si chiamano bedini, e senza alcuna ragionevol causa si tornò adietro abbandonando il campo della vittoria, e lasciò il re d'Armenia e l'altro suo capitano, i quali aveano perseguitato i nemici.
Quando il soldano, il quale credea aver perso il tutto, vidde il campo voto e in tutto abbandonato, si fermò sopra un colle con molti delli suoi uomini armati e ivi si fece forte, e il re d'Armenia, ritornato dalla battaglia, non avendo ritrovato Mangodamor in campo, restò molto stupefatto, e intendendo la via ch'egli avea preso subito gli andò drieto. Amalech, che avea perseguitato i saraceni che fuggivano, l'aspettò per due giorni, sperando che 'l signor suo Mangodamor gli venisse dietro (come dovea) per soggiogare la provincia e gli nimici de' quali esso avea avuto vittoria. Ma, conosciuta la verità della partita di Mangodamor, con prestezza gli andò drieto, abbandonando la vittoria: e lo ritrovarono sopra le ripe del fiume Eufrate che aspettava. Dopo che furono finite queste cose, i Tartari se ne ritornarono alle loro provincie. Il re d'Armenia con le sue genti patirono molte fatiche e incommodi in quella guerra, perciochè, per la lunghezza del viaggio e per la carestia de' pascoli, i cavalli de' cristiani erano cosí stracchi e afflitti che a pena poteano camminare, e se uscivano in qualche parte fuor di strada erano da' saraceni spesse volte trovati e senza pietà alcuna crudelmente ammazzati, laonde si perse la maggior parte dell'esercito del re d'Armenia e quasi tutti i capitani. Questa disgrazia accadde a Mangodamor nel 1282.

Come Abaga Cham congregò le sue genti per andar contra li saraceni, e come ei fu avelenato, insieme con Mangodamor suo fratello.
Cap. 20.

Dapoi che Abaga Cham intese il successo di queste cose, congregò da ogni parte le sue genti, ed essendo già preparato per andar con tutto il suo potere contro a' saraceni, eccoti che un saraceno figliuol del demonio venne nel reame di Persia, e corruppe con tanti doni questi che servivano alla tavola di Abaga Cham che ottenne di farlo attossicare, insieme con il fratello Mangodamor: e cosí successe che in termine d'otto giorni ambedue restorno morti, e tale scelerità fu confessata dagli stessi che l'aveano fatta. E questo fu nel'anno 1282.

Come Tangodor, fratello d'Abaga Cham, successe nell'imperio,
e della persecuzione che lui fece contra li cristiani.
Cap. 21.

Dopo la morte d'Abaga Cham, i Tartari s'accolsero insieme e fecero signore il fratello di Abaga, nominato Tangodor. Questo essendo giovane si battezzò e fu chiamato per nome Nicolao, ma dopo che venne a maggior età, per la compagnia de' saraceni, i quali esso amava, divenne pessimo saraceno, e renunciando la fede cristiana volse esser chiamato Maumetto Cham, e con tutte le forze s'ingegnò ch'i Tartari si convertissero alla fede e setta di Maumetto, e quelli i quali stavano ostinati, non avendo ardire di sforzarli, dando loro onori, grazie e presenti li faceva convertire: tal che nel suo tempo molti Tartari si convertirno alla fede de' saraceni, come al presente manifestamente si vede. Comandò questo Maumetto Cham che fossero rovinate tutte le chiese de' cristiani, e che i cristiani non avessero piú ardire di celebrare né la legge né la fede di Cristo, facendo publicare manifestamente quella di Maumetto e bandendo li cristiani; e nella città di Tauris fece rovinare tutte le lor chiese. Mandò ancora al soldano d'Egitto ambasciatori, e con quello fece pace e confederazione, promettendogli di far che tutti i cristiani che erano nel suo dominio si fariano saraceni, overo gli taglieria la testa: del che i saraceni ebbero grande allegrezza. I cristiani erano mesti e dolenti e stavano in gran timore, né altro a' miseri restava se non domandare a Dio misericordia, vedendo i cristiani la persecuzione contro a loro esser maggiore che mai fosse stata per il passato. Mandò ancora il predetto al re d'Armenia e al re de' Giorgiani e ad altri cristiani che subito lo venissero a trovare, ma i cristiani deliberarono piú presto eleggersi il morire con la spada in mano che a' suoi pessimi comandamenti ubbidire, non trovando altro remedio alla loro salute.

Come si sollevò contra Tangador un suo fratello e un suo nepote detto Argon, i quali alla fine, avendolo preso, lo fecion morire.
Cap. 22.

Essendo adunque i cristiani posti in tanto dolore e amaritudine che piú presto desideravano morire che vivere, ecco Iddio, il quale non abbandona chi spera in lui, confortò tutti i suoi fedeli, imperoch'un certo fratello di questo Maumetto e un suo nepote, chiamato Argon, gli furono contrarii e ribelli per le sue male opere, e feciono assapere a Cobila Cham, maggior imperatore de' Tartari, come detto Maumetto, lasciati i costumi de' suoi maggiori, era divenuto pessimo saraceno, persuadendo tutti li Tartari che potea che si facessero saraceni. Delle quali nuove l'imperatore fu molto turbato, e subito mandò a far comandamento a Maumetto che si correggesse e che si rimovesse dalle sue male operazioni, altrimenti procederia contra di lui: la qual cosa intesa ch'ebbe Maumetto, s'accese tutto d'ira e di sdegno, perchè sapea che non era alcuno ch'avesse avuto ardimento di far contradire alla sua volontà, se non suo fratello e suo nepote Argon. E per questo fece ammazzare il fratello, e volendo fare il simile al nepote, andò con molta gente per pigliarlo; ma, conoscendo Argon non poter star contra la potenza del nemico, fuggí a' monti e si rinchiuse in un fortissimo castello. Allora Maumetto, postovi l'assedio e standogli di continuo intorno, lo constrinse a rendersi, con patti ch'ei fosse libero e li fosse restituito il suo dominio; ma, subito che l'ebbe nelle mani, lo diede a un suo contestabile e ad alcuni altri de' suoi grandi, che lo tenessero sotto buona guardia. E ritornando alla città di Tauris comandò che fosse fatto in pezzi la moglie e i figliuoli del detto, e al contestabile che dovesse far tagliar la testa ad Argon e ascosamente gliela portassero: le quali cose dovessero con ogni prestezza eseguire. Fra quelli ch'aveano avuto il comandamento d'eseguire tanta sceleraggine, si trovò un certo uomo potente ch'avea nutrito e allevato Abaga, padre d'esso Argon; questo, mosso a pietade, pigliate l'armi, di notte ammazzò il contestabile con tutti i suoi seguaci, e liberò Argon facendolo capo di tutte le genti, tal che altri per paura e altri per amore l'ubbidirono. Essendo cosí successa la cosa, Argon con la compagnia andò contro a Maumetto, e prima ch'egli entrasse in Tauris lo prese, e di subito lo fece tagliar per mezo: e cosí fu ucciso il pessimo Cham di Maumetto, nemico della fede di Cristo, prima che finisse due anni nel suo imperio.

Come Argon fu fatto signore dopo Tangador, e come non volse mai farsi chiamar Cham senza licenza del grande imperator de' Tartari; e avendo in animo d'andar a liberare Terra Santa, nel quarto anno del suo imperio morí.
Cap. 23.

Nell'anno del Signore 1285, dopo la morte di Maumetto, Argon, figliuolo d'Abaga Cham, tenne la signoria de' Tartari, e per riverenza di Cobila Cham non volse farsi chiamar Cham, prima che non chiedesse licenza dal detto maggior imperatore: e per questa causa gli mandò ambasciatori, i quali furono con grande onore ricevuti, ed ebbe gran consolazione della morte di Maumetto, laonde mandò alcuni de' maggiori della sua famiglia a confermarlo in signoria, e cosí Argon fu da tutti chiamato Cham con grandissimo onore. Fu esso d'un bellissimo aspetto, e governò il suo dominio valorosamente e con somma prudenza. Amò li cristiani e gli onorò grandemente; rifece le chiese che Maumetto avea fatto rovinare. Onde a quello vennero il re d'Armenia, il re de' Giorgiani e molti altri cristiani delle parti d'oriente, e supplicarono che gli desse favore a liberare Terra Santa dalle mani de' saraceni. Alle domande de' quali benignamente Argon rispose, dicendo che volentieri farebbe tutto il suo potere, a onore d'Iddio e della fede cristiana: per il che ei cercava far confederazione co' vicini, per potere piú sicuramente andar ad acquistar la detta Terra Santa. E perseverando in questo buon proposito, cercando pace co' vicini, morí nel quarto anno del suo imperio; al quale successe un suo fratello, chiamato per nome Regaito, il qual fu persona di poco valore, come di sotto si dimostrerà.

Come Regaito successe al regno d'Argon, il quale fu uomo vile e vizioso, e visse sei anni; e di Baydo, che successe a Regaito, qual fu buon cristiano, per il che i Tartari ch'erano maumettani fecero venir Casan, figliuol d'Argon, il qual ruppe l'esercito di Baydo e dopo lo fece morire.
Cap. 24.

Nell'anno del Signore 1289, dopo la morte d'Argon Cham, Regaito suo fratello, uomo senza legge e senza fede, e nell'armi di niun'esperienza o virtú, ma in tutto dedito alla lussuria e a' vizii, vivendo a guisa d'animali bruti, saziando in tutto il suo disordinato appetito, mangiando e bevendo piú che 'l naturale uso non comportava, visse nella signoria anni sei, a niun'altra cosa attendendo ch'alle sopradette: onde per la sua dissoluta vita fu da' suoi odiato e da' strani poco temuto, tal che al fine fu da' suoi baroni soffocato. Dopo la morte del quale fu fatto signore un suo parente chiamato Baido: questo fu nella fede di Cristo fedele e amorevole, facendo molte grazie a' cristiani, ma visse poco tempo, come di sotto dichiareremo.
Nell'anno del Signore 1295, dopo la morte di Regaito, Baido tenne il dominio de' Tartari. Questo, come buon cristiano, restaurò le chiese de' cristiani, comandando che tra' Tartari niun ardisse predicare la legge di Maumetto; e perch'erano moltiplicati assai seguaci di quella maledetta setta, ebbero in dispiacere tale comandamento, onde secretamente mandarono ambasciatori a Casan, figliuolo d'Argon, promettendogli dare lo stato di Baido e farlo signore se voleva renunziare la fede cristiana. Casan, il quale poco si curava di fede e desiderava grandemente esser signore, promesse loro far tutto ciò che volevano, onde si ribellò da Baido; il quale, intendendo questo, di subito messe insieme tutte le sue genti, pensando pigliare Casano, non sapendo il trattato ch'era fra loro e Casano. E affrontatisi insieme, tutti quei ch'erano della setta di Maumetto, lasciato Baido, fuggirono alla parte di Casan, per il che vedendosi Baido abbandonato si messe in fuga, credendo scapolare, ma fu da' nemici sopragiunto e morto.

Come Casan, figliuolo d'Argon, si fece signore in luogo di Baido, e come, fatto un grandissimo esercito, andò contro al soldano d'Egitto, il quale dopo assai scaramuccie ruppe e messe in fuga.
Cap. 25.

Dopo la morte di Baido, Casan fu fatto signore de' Tartari, e nel principio del suo dominio non ardiva contradire nelle promesse a quelli che l'aveano fatto signore e che seguivano la legge e la setta di Maumetto: e perciò si dimostrò molto crudele verso i cristiani; ma come fu stabilito nella signoria cominciò amare e onorare li cristiani, e fece, mentre che lui visse, molti commodi a quelli, come di sotto s'intenderà. E prima destrusse molti de' capitani e de' maggiori de' Tartari, i quali lo persuadevano accostarsi alla fede de' saraceni e perseguitare i cristiani; dopo comandò a tutti i Tartari, quali erano nel suo dominio, che si mettessero in ordine con l'armi, e tutte le cose atte alla guerra apparecchiassero, perciò che disegnava andar nel regno d'Egitto a destruzione del soldano: e cosí comandò al re d'Armenia, al re de' Giorgiani e a molti altri cristiani delle parti di levante. Venendo il tempo della primavera, Casan raccolse il suo esercito, e con quello aviatosi prima verso la città di Baldach, se ne venne di longo poi verso il paese d'Egitto, e quivi pose in ordinanza le sue genti.
Il soldano, detto Melecnasar, avendo molto innanzi inteso la venuta de' Tartari, ancor esso messe insieme tutti i suoi e venne con grandissimo apparato innanti alla città d'Aman, la qual è nel mezo del regno di Soria. Intendendo Casan che 'l soldano gli veniva incontro per combattere, non volse perder tempo in assediare città o castelli, ma andò per la via dritta alla volta sua e accampossi una giornata discosto in alcuni prati, ne' quali era abbondanza di fieni per i suoi cavalli; e comandò a tutti i suoi che non si partissero di quella campagna fin che i cavalli si riposassero dalla fatica ch'aveano patito nel viaggio, per esser venuti con tanta prestezza di cosí lontani paesi. In compagnia di Casano si trovava un saraceno detto Calfalk, il quale per il passato era stato schiavo del soldano, e per paura se n'era fuggito, acciò non fosse posto in prigione per alcune tristizie ch'avea fatto. Questo era stato grandemente onorato da Casano e di lui molto si fidava, ma come maladetto traditore con lettere avisò al soldano il consiglio e l'intenzione di Casan, la qual era di fare che li suoi cavalli si riposassero prima che s'affrontassero in battaglia, e che lo consigliava ch'ei s'affrettasse venir ad assaltar l'inimico, fin che i suoi cavalli erano stracchi, perchè facilmente riportarebbe la vittoria.
Al soldano, ch'avea deliberato aspettare i Tartari appresso la città d'Aman, piacque molto questo consiglio, e co' migliori de' suoi cavalieri se ne venne prestamente per assaltar Casano all'improvista. Le spie dell'oste avisarono Casano della venuta del soldano, il quale subito comandò che tutti si mettessero in ordinanza per sostener l'impeto de' nemici, ed esso a modo di leone con quelli che si ritrovò appresso cavalcò contro a' saraceni, i quali erano già tanto approssimati che non si potea fuggire la battaglia. Gli altri Tartari, ch'erano slargati per la campagna per riposare i cavalli, non poterono seguitarlo cosí prestamente per soccorrerlo, onde Casano prese per spediente che subito quelli che gli erano intorno smontassero da cavallo, e di quelli si facessero d'intorno a modo di muro, e loro dietro con le saette offendessero il nemico, i quali già a tutta briglia venivano a quella volta. I Tartari smontati si misero li cavalli d'intorno e, presi nelle mani gli archi, aspettorno che i nemici s'appressassero, e poi con tanta furia e arte cominciorno a tirare a' primi cavalli de' nemici che s'approssimavano, che caddero morti in terra l'uno sopra l'altro. Gli altri che seguivano con velocissimo corso, ritrovando caduti li primi, urtavan in quelli, e sopra loro precipitosamente traboccavano, tal che pochi de' saraceni furono che non fossero gettati a terra, overo dalle saette mortalmente feriti, per essere i Tartari in quest'arte peritissimi.
Il soldano, il quale s'era posto nella prima schiera, vedendo questo cosí gran disordine, quanto prima poté si ritirò, per la qual cosa Casano subito comandò che le sue genti rimontassero a cavallo e animosamente seguitassero gl'inimici, ed esso fu il primo ch'entrò nella squadra del soldano; e tanto sostenne la battaglia, con quel poco numero ch'avea de' suoi, gettando a terra quanti gli venivano incontro e ammazzandogli, che gli altri Tartari si raccolsero insieme e in ordinanza vennero alla battaglia. Allora tutte le squadre da ogni banda cominciarono a combattere, e durò il fatto d'arme dal levar del sole fino a nona; alla fine il soldano, non potendo resistere alle forze di Casano, il quale con le proprie mani facea cose maravigliose, si messe in fuga con tutto l'esercito de' saraceni, e Casano l'andò perseguitando fino all'oscura notte, occidendoli in diversi modi: onde tanta fu la rovina e la strage de' saraceni, che tutta la terra si vedeva coperta di corpi morti, d'uomini e di cavalli, e di feriti. Dopo la battaglia Casano riposò quella notte in un luogo detto Caneto, rallegrandosi e oltre modo facendo festa per la vittoria, la quale per volontà di Dio aveva ottenuta contra i nemici. E questo fatto d'arme fu nell'anno 1301, il mercoledí avanti la natività del Signore.

Della fuga del soldano d'Egitto, e come Casano divise le spoglie dell'esercito de' saraceni e del tesoro del soldano fra li suoi, e della fortezza e liberalità incredibile di Casano.
Cap. 26.

Dopo queste cose, Casano comandò al re d'Armenia e a un capitano de' Tartari, il quale si chiamava Molai, che con quarantamila cavalieri de' Tartari perseguitassero il soldano fino al deserto d'Egitto, dove si dicea ch'esso andava, il quale era distante dal campo dove era stata la battaglia dodici giornate, e di piú che lo dovessero aspettare appresso la città di Gazara, overo il suo ordine. Il re adunque d'Armenia e il detto Molai, col numero de' detti Tartari, si partirono avanti il levar del sole, e con veloce passo perseguitavan il campo del soldano. Dopo tre giorni Casano mandò a dire al re d'Armenia che ritornasse, perciochè voleva assediar Damasco, e che Molai seguisse l'impresa come gli era stato ordinato, ammazzando quanti saraceni ei potesse. Il soldano dopo la battaglia si messe a fuggire con ogni velocità, cavalcando sopra camelli e dromedarii, né mai di giorno né di notte riposandosi, in compagnia d'alcuni detti beduini, i quali lo fecero andare alla volta di Baldach, dove si salvò. Gli altri saraceni fuggirono in diverse parti, secondo ch'essi pensavano potersi salvare, ma una gran parte, che andò per la via di Tripoli, fu crudelmente uccisa dalli cristiani i quali abitano il monte Libano.
Ritornato che fu il re d'Armenia dove era Casano, trovò che la città d'Aman s'era resa, e che 'l tesoro del soldano e del suo esercito, il qual era grandissimo, era stato portato alla presenza di Casano: del che ognun ne prese gran maraviglia, come il soldano s'avesse voluto fare portar drieto tanto tesoro, intendendo andare a combattere. Raccolto adunque quello e tutte le spoglie che s'avevano guadagnate, le volse liberalmente divider fra tutti i Tartari e i cristiani, i quali si fecero ricchi.
E io fra Ayton, che ho messo insieme la presente istoria, il qual fui presente in tutte l'espedizioni e battaglie che fecero i Tartari col soldano dal tempo di Halaon fin al dí d'oggi, non vidi mai né udi' dire che un principe tartaro facesse piú cose notabili in dua giorni di quelle che fece Casano: imperochè il primo giorno, con quelle poche genti che si ritrovò avere appresso di sé, sostenne l'impeto e furia di tutto l'esercito del soldano, e con la sua persona cosí valorosamente si portò che meritò fra tutti i combattenti riportarne laude e gloria, della quale per sempre se ne ragionerà fra' Tartari; nel secondo fu di tanta grandezza e liberalità d'animo che, di tante ricchezze e tesoro ch'esso avea acquistato, non si ritenne altro per sé se non una spada e una borsa, nella quale erano poste le scritture delle terre d'Egitto e del numero dell'oste del soldano. E quello che mi pare sopra tutte le cose doversi riputare maraviglioso è ch'in un corpo cosí picciolo e di cosí brutto aspetto come costui era, che parea quasi un mostro, vi si fossero raccolte quasi tutte le virtú dell'animo le quali la natura suole accompagnar in un corpo bello e proporzionato, perciochè in dugentomila Tartari a pena s'avria potuto trovare né il piú picciolo di statura né il piú brutto e sozzo d'aspetto. E per essere stato detto Casan a' tempi nostri, è il dovere che di lui e de' suoi fatti alquanto piú longamente ne parliamo, e principalmente del soldano che fu da esso sconfitto, il quale per ancora vive.

Come Casan ebbe la città di Damasco.
Cap. 27

Poi che Casan si fu alquanti giorni riposato ed ebbe divise le spoglie fra li suoi, s'avviò verso la città di Damasco, gli abitatori della quale, intendendo la venuta d'esso co' Tartari, e dubitando che, se la pigliasse per forza, tutti sarebbono iti a fil di spada, di subito gli mandorno ambasciatori offerendogli la città, il quale l'accettò molto volentieri. E poco dopo cavalcò al fiume di Damasco, sopra le ripe del quale pose i suoi padiglioni, e i cittadini gli mandarono molti presenti e vettovaglie in gran quantità. Quivi dimorò Casan 45 giorni con tutt'il suo esercito, eccetto che i 40 mila Tartari ch'erano andati avanti con Molai, e s'eran fermati presso la città di Gazara, aspettando la venuta di Casan over il suo ordine.

Come Casan fu constretto partirsi di Soria, e come lasciò Cotolusa suo luogotenente, e della ribellione che fece Calfach, e come l'impresa di Terra Santa incominciata fu lasciata.
Cap. 28.

Stando Casan appresso Damasco e dandosi buon tempo, gli fu avisato come un suo parente, detto Baido, era entrato con gran numero di genti nel regno di Persia, rubbando e saccheggiando ciò che trovavano: per il che fu consigliato di ritornarsene subito, acciò non facessero peggio. Onde Casan ordinò che 'l maggior capitan del suo esercito, detto Cotolusa, restasse alla guardia del regno di Soria, ordinando a Molai e agli altri Tartari che gli dessino ubbidienza come suo luogotenente; e dopo fece li rettori e governatori sopra tutte le città, dando Damasco in custodia a Calfach traditore sopra nominato, del quale per ancora non se n'era accorto, né sapea di lui cosa alcuna. E chiamato poi il re d'Armenia, gli fece intendere della sua partita, dicendo: "Noi volentieri avremmo dato le terre ch'abbiamo acquistate in guardia a' cristiani, se fossero venuti, e se verranno ordineremo a Cotolusa che gli dia tutte quelle che per il passato hanno tenute, e appresso, per reparazione de' castelli, l'aiuto che sarà conveniente". E dopo queste parole si messe in cammino verso la Mesopotamia e, giunto al fiume Eufrate, mandò nuovo ordine a Cotolusa che, lasciati ventimila Tartari a Molai, venisse col restante dell'esercito a trovarlo: il che fu da lui eseguito. Essendo Molai restato luogotenente di Casan nella Soria, a persuasione di Calfach cavalcò con tutte le genti verso le parti di Gierusalemme, a un luogo detto Gaur, per trovarsi in quello grand'abbondanza di pascoli per li cavalli e tutte l'altre cose necessarie.
E venuta la state e il caldo grande, Calfach, ch'avea già gran tempo nell'animo deliberato di voler tradire Casano, scrisse al soldano secretamente ch'ora era il tempo, se volea, di dargli Damasco e tutte l'altre terre ch'aveva preso Casano. Al soldano piacque il partito, e gli promise in perpetuo il dominio di Damasco e gran parte del suo tesoro, e appresso una sua sorella per moglie: per la qual promessa fra pochi giorni Calfach si ribellò, e fece ribellare tutte le terre de' Tartari, persuadendole che per il caldo grande i Tartari non potriano cavalcare né venire in soccorso. Molai, veduta questa universale ribellione, non s'assicurando star quivi con sí poca gente, per il piú corto cammino se n'andò nella Mesopotamia e narrò tutto il successo a Casano, il qual n'ebbe gravissimo dolore; ma per non poter far altro per causa del caldo, come prima s'approssimò il tempo del verno, sopra le ripe del fiume Eufrate fece un grandissimo preparamento di genti, facendo passar Cotolusa con trentamila Tartari, e ordinandogli che, giunto a' confini d'Antiochia, mandasse a chiamare il re d'Armenia e gli altri signori de' cristiani di levante e dell'isola di Cipri, e mentre che lui venia dietro con la forza dell'esercito, esso dovesse entrare nel regno di Soria.
Cotolusa seguí quanto gli era stato comandato, e giunto in Antiochia fece venire il re d'Armenia con tutte le sue genti; e li cristiani ch'erano in Cipri, intesa questa venuta de' Tartari, con galere e altri legni se ne vennero all'isola detta Anterada: ed era di quelli capitano messer Tiron, fratel del re di Cipro, gran maestro della casa dell'ospitale del tempio e del convento de' fratelli. E stando li predetti apparecchiati e volonterosi d'eseguire li servizii di messer Iesú Cristo, venne nuova come Casano era ammalato grandemente, e che li medici desperavano della sua salute: onde Cotolusa volse ritornare a Casano con tutti i Tartari, e il re in Armenia e gli altri cristiani in Cipri, e per tal cagione fu dismessa l'incominciata impresa di Terra Santa. E questo fu nell'anno 1301.

De' gran danni ch'ebbe l'esercito de' Tartari nell'impresa che si fece contra il soldano d'Egitto, e come ritornarono in Persia mezi rotti.
Cap. 29.

Nell'anno del Signore 1303, raccolto di nuovo un copioso e grand'esercito, Casano venne fin al fiume Eufrate, intendendo entrare nel regno di Soria, e in tutto destruggere la setta di Maumetto, e dar Ierusalem con tutta la Terra Santa a' cristiani. I saraceni, temendo la sua venuta, e vedendo non esser bastevoli a resistere alla sua potenza, arderono in presenza de' Tartari tutt'il paese e, redutti gli animali e tutte l'altre biade ne' castelli e luoghi forti, lasciorno tutt'il resto arso e consumato, e acciochè, venendo i Tartari, non trovassero vettovaglie né pascoli per li loro cavalli. Udendo Casano ciò ch'avevano fatto gli Agareni, pensando che in que' luoghi cosí rovinati i cavalli non potriano sostentarsi, pigliò per partito star per quel verno sopra le ripe del fiume Eufrate, e nel tempo della primavera, quando l'erbe cominciano a crescere, seguire il suo viaggio. Avevano i Tartari maggior cura de' loro cavalli che di se stessi, perchè, sapendo quelli essere il fondamento della loro fortezza, di se stessi non curavano. Allora Casano mandò per il re d'Armenia, il quale, subito venendo, s'accampò appresso al fiume, e fu quivi con tanta moltitudine di persone che l'oste di Casano s'estendeva per spazio di tre giornate in longhezza, cioè da un castello chiamato Caccabe fino a un altro detto il Bir, i quali erano de' saraceni: dove senza alcun contrasto s'arresero a Casano. Il quale stando in quel luogo e aspettando il tempo commodo di poter adempire il suo desiderio contra i saraceni, ecco che l'inimico dell'umana natura perturbò il tutto; imperochè venne nuova che Baido sopra detto di nuovo era entrato nelle terre di Casano facendogli gran danni, onde fu di nuovo astretto tornarsene indietro molto perturbato, per differirsi cosí in longo l'impresa di Terra Santa. Per la qual cosa comandò a Cotolusa ch'entrasse nel regno della Soria con quarantamila Tartari, e pigliasse la città di Damasco e ammazzasse tutti i saraceni, e ch'il re d'Armenia congiungesse ancora lui le sue genti con Cotolusa.
Fra questo tanto Casan se ne ritornò in Persia, e Cotolusa e il re de' Tartari si misero all'assedio d'Aman; e intendendo che 'l soldano era lontano, nella città di Cazara, né esser per partirsi di quel luogo, l'astrinsero di sorte che per forza la presero, ammazzando tutti i saraceni, e fecero bottino di gran ricchezze e gran quantità d'animali. Dopo, andati alla città di Damasco per assediarla, i cittadini mandarono ambasciatori, pregando che gli dessero termine di tre giorni: il che gli fu concesso. Li corridori de' Tartari, i quali già per una giornata avevano passato Damasco, presero alcuni saraceni e gli mandorno a Cotolusa, acciò da quelli sapesse le nuove certe; qual, inteso ch'ebbe che quivi appresso due giornate dodicimila cavalieri saraceni aspettavano la venuta del soldano, subito volse partirsi e andargli a trovare per pigliargli all'improvisa, ma giunse al luogo ove erano i sopradetti il dí seguente, quasi al tramontar del sole, e alquanto avanti v'era giunto il soldano col resto del suo esercito.
Udita questa nuova, Cotolusa e il re, come s'erano ingannati grandemente della loro opinione, perciochè pensavano di combattere solamente con que' dodicimila saraceni, cominciarono a consigliarsi di quello doveano fare: il parere del re d'Armenia era ch'approssimandosi la sera si dovesse riposar quella notte e dopo la mattina andar assaltar i nemici; Cotolusa, che disprezzava il soldano e reputava le genti di quello vili, non volse acconsentire al consiglio d'alcuno, anzi immediate comandò che tutte le schiere si mettessero in ordinanza per combattere. I saraceni, assicuratisi con aver da una parte un lago, dall'altra un monte, sapendo ch'i Tartari non poevano accostarseli nella fronte senza lor gran pericolo, deliberarono di non si muovere, ma aspettargli. I Tartari, che pensavano andar alla dritta ad assaltarli, trovorno a mezo il cammino un fiumicello che, per esser paludoso, non si potea passare se non in alcuni luoghi stretti e difficili: e quivi, volendo ciascuno passar avanti, infiniti cavalli rimanevano nel fango, e in questo si disordinarono tanto che consummarono gran spazio di tempo. Pur alla fine, passati che furno, Cotolusa e il re con parte de' suoi andorno con grande impeto ad affrontare i nemici con le saette, ma il soldano non volse mai partirsi dal luogo forte dove si trovava, né permesse che alcun de' suoi si movessero. E approssimandosi l'oscuro della notte, vedendo Cotolusa l'ostinazione del soldano, raccolti i suoi appresso il monte si riposò; e venuto il giorno diecimila Tartari che il giorno avanti non avevano potuto passar il fiume, si congiunsero con gli altri, e di nuovo andorno valorosamente ad assaltare il soldano. Ma esso, similmente come aveva fatto il giorno avanti, stette fermissimo con tutto l'esercito, ch'era difeso dal sito dell'alloggiamento. Ed essendo durato questo abbattimento dalla mattina fino a mezogiorno, con grandissima contenzione dell'una e l'altra parte, alla fine i Tartari, vedendo che 'l lor combattere non faceva danno alcuno a' nemici, e trovandosi molto stracchi e travagliati per la fatica ch'avevano sofferto e per la sete, non avendo trovata acqua la notte avanti né il giorno dopo, cominciarono a ritirarsi pian piano in ordinanza, una schiera dietro l'altra, e non si fermarono in luogo alcuno fin che non giunsero alla pianura di Damasco, dove trovarono grand'abbondanza di acque e buoni pascoli per i cavalli. E quivi fu ordinato star tanto che gli uomini e i cavalli si fossero riposati, per poter poi freschi ritornar a combattere col soldano.
Li governatori di Damasco, che favorivano le parti del soldano, inteso che l'esercito de' Tartari s'era fermato in quella pianura, una notte in minor termine di quattro ore, aprendo alcuni canali e gonfiando alcuni fiumicelli, fecero tanto crescer l'acque ch'allagorno tutta la detta pianura, tal che furono sforzati di subito i Tartari levarsi. Ed essendo la notte oscurissima e li fossi pieni d'acqua, non si vedendo strada o sentiero alcuno, si trovorno in estrema desperazione e confusione, non sapendo dove andare né che fare; e in quella oscurità si sentivano da ogni canto romori e grida grandissime di genti che s'annegavano, domandando aiuto, il che n'apportava terribile spavento a chi gli udiva, e si perderono infiniti cavalli e arme, oltre gli uomini che perirono, e il re d'Armenia sopra tutti gli altri ebbe grandissimo danno e perdita. Venuto finalmente il giorno, e scapolato il pericolo dell'acque, vedendo gli archi e le saette, che sono l'armi con le quali combattono, cosí bagnate che non si potevano adoperare, restarono tutti stupefatti e attoniti perchè, se li nemici gli avessero seguitati, non ne saria scapolato alcuno che non fosse stato o preso o morto. Dopo i Tartari, per causa di quelli che si trovavano a piedi avendo perso i cavalli, s'aviarono a picciole giornate verso il fiume Eufrate; né alcuno de' nemici ebbe ardire perseguitarli. Ma, giunti al fiume, essendo necessario di passarlo per mettersi al sicuro, lo trovorno tanto torbido e gonfiato, per grandissime pioggie ch'erano state, ch'egli era cosa miserabile e spaventosa a vedere gli uomini e i cavalli ch'entravano nel fiume annegarsi senz'alcun remedio, tal che perirono gran numero d'uomini: e piú furono gli Armeni e Giorgiani che i Tartari, perchè li loro cavalli hanno miglior notare degli altri. E a questo modo se ne ritornarono in Persia rovinati e disfatti, non già per la potenza de' nemici, ma parte a caso, parte per mal consiglio: e ne fu gran causa l'ostinazione di Cotolusa, che mai volse acconsentire al consiglio d'alcuno, conciosiachè, se lui avesse voluto dar orecchie a quello che gli diceano i savii e periti nell'arte della guerra, facilmente poteva schivare tanti pericoli e disordini.
E io fra Hayton, che la presente istoria ho messo insieme, mi son trovato in persona a tutte le sopradette cose, sopra le quali s'io piú longamente parlassi di quello ch'è il dovere, supplico a' lettori che mi perdonino, perciochè lo faccio acciochè, ammaestrati dall'esempio di questi, possino per l'avvenire fuggire simili inconvenienti, conciosiachè l'imprese che si fanno con maturo consiglio sogliono ordinariamente aver ottimo fine, ma, facendole senza considerazione e alla balorda, si truovan il piú delle fiate ingannati quei che l'operano.
Dopo che 'l re d'Armenia ebbe passato il fiume Eufrate, con tanta perdita delle sue genti (come s'è detto), deliberò d'andar a trovar Casano, avanti ch'ei ritornasse nel suo regno, per la qual cosa s'avviò verso la città di Ninive, dove faceva dimora. Il quale lo ricevé lietamente e con grandissimo onore, dolendosi grandemente de' danni e perdite ch'egli avea patito, per ricompenso de' quali, per special grazia, volse che mille cavalli de' suoi Tartari stessero di continovo alla guardia del regno d'Armenia, e oltre a questo che del regno di Turchia li fossero dati tanti denari ch'ei potesse tenere altri mille cavalieri armeni per sua custodia: e con queste grazie il re tornò a casa sua, e Casam gli ordinò ch'ei dovesse star vigilante alla guardia del suo regno, fino che si potesse andar alla ricuperazione di Terra Santa.

Come Casan avanti la sua morte constituí successore Carbanda suo fratello, e della rotta che dette il re d'Armenia a' saraceni.
Cap. 30.

Ritornato che fu il re d'Armenia nel suo regno, ebbe in quello poco riposo, per li molti travagli che gli sopravennero. Dopo (come piacque a Dio) Casano s'infermò d'una gravissima infirmità, e vedendosi al fine del suo corso naturale, sí com'era saviamente vissuto, cosí ancora volse nel fine suo esser lodato, onde da savio fece il suo testamento, e instituí suo erede e successore Carbanda suo fratello. E fornite ch'esso ebbe quelle cose che erano da ordinare circa il governo del regno e della famiglia, fece alcune belle constituzioni e leggi, lasciandole in memoria a' suoi, le quali sono fermamente fin al presente osservate da' Tartari.
Dopo Casano morí, al quale successe nel regno il detto Carbanda. Questo fu figliuolo d'una savia donna e buona, nominata Eroccaton, qual era fedele e devota nella fede di Cristo, e fino ch'ella visse si fece celebrare ogni giorno i divini officii: teneva un prete cristiano, avea una cappella ove Carbanda fu battezzato, il qual nel battesimo fu nominato Nicolao. Egli stette nella fede di Cristo fino che la madre visse; dopo la morte di quella s'accostò a' saraceni, in modo che, lasciata la fede cristiana, si dette alla maumettana. Per la morte di Casano il re d'Armenia fu grandemente travagliato, imperochè per questo i nemici suoi s'insuperbirno grandemente; e avendo il soldano molto in odio il re e la sua gente, ogn'anno e quasi ogni mese mandava molte genti di Baldach, che saccheggiassero tutt'il paese de l'Armenia, e specialmente tutti li frutti della campagna, talchè non si trovò mai ch'il regno d'Armenia fosse cosí danneggiato per il passato.
Ma Dio omnipotente e misericordioso, il qual giamai abbandona chi in esso spera, ebbe compassione alle miserie de' cristiani, onde accadé che nel mese di luglio settemila saraceni de' migliori che 'l soldano avesse assaltorno il regno d'Armenia, guastando e rovinandolo tutto, fino alla città di Tarso, dove nacque il beato Paolo apostolo. E carichi di prede della provincia ritornavano adietro, quand'il re col suo esercito se gli fece incontro appresso la città della Giazza, e fece fatto d'arme, ove, per volontà e misericordia di Dio, e non per ingegno o forze umane, i saraceni furno superati, in modo che di tanto numero appena ne fuggirno 300 che non fossero presi o morti, ancor che, pel lor grand'ardire, pensassero d'inghiottire in un fiato tutt'il regno d'Armenia, co' cristiani ch'eran in quello. E questo fu fatto in dí di dominica, alli 18 di luglio; dopo la quale sconfitta i saraceni non ebbero piú ardire d'entrare nel regno d'Armenia, anzi il soldano d'Egitto mandò al re e con quello fece confederazione.

Come Hayton, scrittore della presente opera, si fece frate dell'ordine premonstratense in Cipro, e come esso seppe le cose che narra in quest'istoria.
Cap. 31.

Io Hayton fui presente a tutte le cose sopradette, e ancora ch'io m'avessi proposto nell'animo molto innanti di prender l'abito regolare, nondimeno, per i travagli e facende del regno d'Armenia, non potei (con mio onore) in tanti bisogni abbandonare i parenti e amici. Ma poi che Dio per sua pietà mi concesse grazia di lasciar detto regno e il popolo cristiano di quello, dopo molte mie fatiche, in stato pacifico e quieto, subito volsi adempire il voto che già gran tempo avea fatto; laonde presi licenza dal mio re e dagli altri miei parenti e amici, in quella medesima campagna ove Dio avea concesso a' cristiani il trionfo e vittoria de' suoi nemici. Mi parti' e venni in Cipro, nel monasterio dell'Episcopia, ove tolsi l'abito regulare dell'ordine premonstratense, acciochè, avendo io nella mia gioventú militato al mondo, lasciate le pompe mondane, consumassi il rimanente di mia vita ne' servizii d'Iddio, nell'anno del Signore 1305. Rendo adunque grazie a Dio che in questo presente tempo il regno d'Armenia s'è fermato in stato quieto, buono e pacifico, e specialmente pel moderno re il signore Livono, il qual fu figliuolo del re Hayton, il qual, illustrato di virtú e di gloriosa indole, a tutte le genti è un specchio grazioso; e hassi questa ferma credenza e speranza, che ne' giorni di questo re giovane, il quale di bontà supera i suoi antecessori, il regno d'Armenia, con l'aiuto d'Iddio, si ridurrà nel pristino stato.
E io Hayton, scrittore di quest'istoria, in tre modi dico aver saputo le cose che si narrano e scrivono in questo libro. Primieramente, cominciando da Cangio Cham, il quale fu il primo imperatore de' Tartari, fino a Mangio Cham, il quale fu il quarto imperatore, tutte queste cose si narrano fedelmente, avendole io cavate dall'istorie de' Tartari. Da Mangio Cham fin alla morte di Haloon io le seppi da un mio zio, il quale di comandamento del signore Haytono, re d'Armenia, l'avea scritte: e perch'ei fu presente in quei tempi a tutte le predette cose, con gran diligenza le narrava a' figliuoli e a' nepoti, e oltre di questo le faceva scrivere, acciò che meglio si tenessero a memoria. Dal principio veramente d'Abaga Cham fino all'ultima parte di questo libro, dove hanno fine le narrazioni de' Tartari, io le seppi e, come quello che fui presente a tutte le cose ch'accaderono a' miei tempi, ne son per rendere verissimo testimonio. E quantunque fin qui abbiamo narrato dell'istorie de' Tartari, egli è ancora conveniente che parliamo alquanto della potenza e signoria di quelli che al presente vivono, acciò che meglio siano conosciuti.

Di Tamo Cham, sesto imperatore de' Tartari nel Cataio, e di tre altri imperatori che sono sotto di lui, cioè Chapar, Hochthai e Carbanda; e del nome de' regni che posseggono li detti.
Cap. 32.

Quello ch'al presente tiene l'imperio de' Tartari si chiama Tamar Cham, ed è il sesto imperatore; ha la sua sedia nel regno del Cataio, in una gran città detta Iong, qual, come di sopra s'è dichiarato, fu edificata da suo padre. La potenza di questo è molto grande, imperochè può piú questo solo principe che tutti gli altri principi de' Tartari insieme. Le sue genti sono reputate piú nobili e piú ricche e piú abbondanti di tutte le cose necessarie, imperochè nel regno del Cataio, nel quale ora abitano, vi si ritruova grandissima abbondanza di ricchezze. Oltre il grand'imperatore sono tre altri gran re e principi de' Tartari, de' quali ciascuno ha gran signoria: e pur ubbidiscono all'imperatore come a suo proprio signore, alla corte del quale vanno tutte le lor questioni ch'hanno fra loro, e per il giudicio di quello sono decise. Il primo di questi re si chiama Chapar, il secondo Hochtai, il terzo Carbanda.
Chapar tiene il suo dominio nel regno di Turquistan, ed è piú vicino alle genti dell'imperatore che gli altri; può ancora (come si dice) armare quattrocentomila cavalieri, e sono uomini di grand'animo e valenti combattitori: tuttavia non hanno quell'abbondanza di cavalli e d'armi come gli faria di mestiero. Talora le genti dell'imperatore muovono guerra a questi, e questi talora a Carbanda. Il dominio di questo Chapar anticamente fu per la maggior parte d'un signore chiamato Doai.
Hochthai re de' Tartari ha il suo stato nel regno di Cumania, in una città chiamata Asaro; può questo ancora fare (come si dice) seicentomila cavallieri da guerra: questi non sono tanto lodati nell'armi come le genti di Chapar, quantunque abbino migliori cavalli. Alcuna volta muovono guerra contra le genti di Carbanda, talora contra gli Ungheri e talora contra di loro stessi. Il presente Hochtai tiene il suo dominio quietamente e in pace.
Carbanda ha il suo dominio nell'Asia maggiore, e ha per stanza la città di Tauris; può far trecentomila cavallieri da guerra: questi sono raccolti da diverse parti, sono ricchi, ben costumati e forniti di tutte le cose necessarie. Chapar e Hochtai talor muovono guerra contra Carbanda, ma egli non muove guerra a niuno se non al soldano d'Egitto, contra il quale spesse fiate combatterono i suoi antecessori. Chapar e Hochtai (se potessero) volentieri cavariano di signoria Carbanda, ma non possono, ancor che di paese e di genti sieno piú potenti di lui. La ragione perchè Carbanda può resistere e defendersi da tanta potenza de' nemici è che l'Asia è divisa in due parti: una si chiama Asia profonda, nella qual abita il grand'imperatore de' Tartari, e i due re sopradetti, cioè Chapar e Hochtai; l'altra parte si chiama Asia maggiore, nella qual abita Carbanda. E vi sono solamente tre vie per le quali si può camminare dall'Asia profonda nella maggiore: per una delle quali si va dal regno di Turquestan al regno di Persia; l'altra si dice Derbent, la qual è appresso al mare, dove Alessandro edificò la città chiamata Porta di Ferro, come si ritruova nell'istorie del regno di Cumania; la terza via è per il mare Maggiore, la qual passa per il regno di Barcha. Per la prima via non possono passare le genti di Chapar alle terre di Carbanda senza gran pericolo e disagio, per non trovarsi per molte giornate pascoli per i cavalli, per esser quei paesi tutti secchi e deserti; e prima che potessero arrivare alle terre lavorate e abitate in tutto mancherebbono per fame, overo sarebbono tanto stracchi e afflitti che da ogni picciol numero di nemici potriano esser vinti: e per questa causa non vogliono andare per quella strada. Dalla parte del Derbent potriano passar le genti di Hochtai alle terre di Carbanda solamente sei mesi dell'anno, cioè nel verno; ma Abaga Cham fece fare grandissime fosse e altri ripari in un luogo detto Ciba, dove di continuo sta, e massimamente nell'inverno, una guardia d'uomini armati, i quali defendon il passo da' nemici. La gente d'Hochtai ha molte volte tentato passare per quella via, quantunque secretamente, né mai ha potuto, perciò che in una certa campagna, detta Monga, stanno nell'inverno alcuni uccelli, di grandezza de' fagiani, i quali hanno bellissime penne, e si chiamano seiserach: onde ch'entrando genti in quella campagna, subito gli uccelli fuggono e passano sopra quelle fosse e ripari dove è la guardia, di modo che per quelli si conosce la venuta de' nemici, e subito si mettono alla defensione del luogo. Per la via del mare Maggiore niuno mai ardirebbe andare, perchè quivi è il regno di Barcha, il quale è ben fornito di genti: né in quelle possono avere speranza alcuna. E in tal guisa Carbanda e i suoi antecessori sino al tempo presente s'han difeso da tanta potenza de' vicini.
E a questa narrazion de' Tartari non mi par che si debba dar fine, se prima non si narri brevemente alcune cose de' costumi e modi de' Tartari.

Della vita, fede, costumi e condizione de' Tartari.
Cap. 33.

Il reame del Cataio è il maggiore che si possa trovar al mondo, ripieno non meno di persone che di ricchezze infinite; confina col mare Oceano, nel qual vi sono tante isole che 'l numero di quelle è incomprensibile, né si truova alcuno che l'abbi vedute tutte. Gli uomini di quelle parti son sagaci e ingeniosi in tutte le scienze e arti, e a lor comparazione hanno in poco pregio tutte l'altre nazioni, e dicono che loro soli guardano con due occhi, li latini con uno, e tutte l'altre genti sono del tutto cieche: e di ciò se ne vede l'esperienza di questo lor gran sapere, imperochè fanno con le proprie mani lavori di tant'arte e industria che non è nazione al mondo che gli bastasse l'animo di volersi mettere a parangone con essi. Gli uomini e le donne sono bellissimi, ma comunemente hanno gli occhi piccioli, e oltre di questo gli uomini sono senza barba. Hanno lettere bellissime, quasi simili alle latine. La fede di questi popoli è tanto varia e di sorte diversa che a pena si potria (senza fastidio) esplicare la loro diversità; pure comunemente confessano essere un Dio immortale ed eterno, e ogni giorno invocano il nome di quello. E fanno poco altro bene, non digiunano, non dicono orazioni, né fanno alcun'astinenza né s'affliggono per riverenza d'Iddio, né fann'altre buone opere, né pensan esser peccato ammazzare gli uomini: ma, se lasciassero il freno nella bocca de' suoi cavalli quando si debbono pascere, crederebbono aver offeso Iddio mortalmente. Né pensan esser peccato la fornicazione né la lussuria: hanno piú moglie, ed è bisogno, secondo la lor legge, che 'l figliuolo piglia per moglie la matrigna dopo la morte del padre, e il fratello la moglie del fratello, se resta vedova, e si maritan con quelle.
Sono i Tartari nel fatto d'arme piú valenti combattenti e piú ubbidienti a' suoi superiori che tutte l'altre nazioni: nella battaglia immediate tutti conoscono per segni e ammaestramenti la volontà del loro capitano, laonde senza fatica l'oste de' Tartari vien governato. Il signore de' Tartari non dà loro pagamento alcuno, anzi fa di mestiero che vivino de' bottini e cacciagioni che s'acquistano; e, volendo, il signore può lor torre tutto quello ch'hanno. Quando i Tartari cavalcano, menano seco gran moltitudine di bestiame; e bevono latte di cavalle e mangiano poi le carni, le quali reputan essere molto buone. Sono a cavallo molto destri e ottimi arcieri; a piedi non sanno andare se non pigramente. Sono astuti e ingeniosi a espugnar le città e castelli; vogliono sempre aver questo avantaggio contra i loro nemici, che nella battaglia non si vergognano di fuggire se vien loro ben fatto, che, trovandosi sopra il fatto del combattere, se vogliono combattono, se anche vogliono schifar la battaglia, gli aversarii non li possono constringere a combattere. La battaglia loro è molto pericolosa, perchè in un assalto de' Tartari piú ne muore e piú ne son feriti che in un altro gran fatto d'arme d'altra nazione: e questo accade per le saette che tirano con archi forte e a segno, e sono nell'arte del saettare tanto buoni maestri che i loro strali trapassano quasi ogni sorte d'armatura. Quando vengono sconfitti fuggono in brigata e in schiera, e il seguirli è molto pericoloso, perchè fuggendo tirano adietro le freccie, con le quali feriscono gli uomini e i cavalli, e gli ammazzano; e se veggono i nemici disordinati, di subito si rivolgono verso quelli e gli ammazzano.
L'oste de' Tartari non è di grande apparenza, perchè vanno ristretti in modo che mille di loro non appaiono una squadra di 500. Accarezzano i forestieri, dando loro volentieri da mangiare, ma vogliono in viaggio sia similmente dato a loro, altrimenti se ne togliono per forza. Sanno pigliare le terre d'altrui, ma non le sanno dopo guardare. Quando sono piú debili e abietti, diventano allora umili e benigni; quando forti e gagliardi, diventano pessimi e superbi. Non vogliono ch'alcuno alla loro presenza dica bugie; tutta volta essi senza alcun rispetto le dicono. In due cose non sanno mentire: nelle cose del fatto d'arme, perciò che niun avrà ardimento di lodarsi di quello ch'ei non ha fatto, overo negare s'avrà fatto qualche bella pruova; l'altro è che, s'alcuno avrà commesso un peccato per il qual debba esser condennato, quantunque alla morte, domandato dal signore subito confesserà la verità.
Questo sia a bastanza esser stato detto de Tartari, perchè saria longo descrivere diffusamente tutti li loro costumi.

Il fine dell'istoria del signor Hayton Armeno



Di messer Giovan Battista Ramusio discorso sopra gli scritti di Giovan Maria Angiolello e d'un mercante ch'andò per tutta la Persia, ne' quali è narrata la vita e li fatti d'Ussuncassan.

Ciascuno che si rivolga a pensare le varie mutazioni e alterazioni che i cieli col lor movimento fanno di continuo nelle cose umane, debbe ragionevolmente avere una gran maraviglia; ma credo io che molto maggiore l'abbiano d'aver coloro che leggono l'istorie antiche, perciò che veggono chiaramente che, in minore spazio di mille anni, molte republiche e molti regni grandissimi e potentissimi sono di maniera mancati che di molti di loro non v'è rimasto pur il nome, né se ne truova memoria alcuna. Il medesimo girar de' cieli si vede aver indotto molti popoli a partirsi del lor natio paese, e a guisa di superbi e rapidi fiumi trascorrer negli altrui per occupargli, scacciandone via gli antichi abitatori, e, non contenti di questo, aver voluto anche mutar loro i nomi. Sí che oggidí sono molti popoli che in vero non sappiamo né quali né dove fossero anticamente, di che ne può render certa testimonianza la misera Italia, alla quale, dopo la rovina dell'imperio romano, le tante strane e barbare nazioni venute insin di sotto la tramontana, scacciatone gli abitatori, mutarono la lingua natia, i nomi delle provincie, de' fiumi e de' monti, e quasi levando le città dal proprio sito le fabricarono poi lontane dal luogo dove prima erano state edificate. E questo non è solamente avvenuto all'Italia, ma alla provincia della Gallia, che, occupata che fu dalla feroce nazione de' Franchi, perdé insieme con gli abitatori ancora il nome. Il medesimo avvenne alla Britannia, oggidí chiamata Inghilterra, alla Pannonia, ch'è l'Ungaria, e ad infinite altre che saria cosa lunga e dispiacevole a commemorarle. Ma non voglio tacere della povera e afflitta Grecia, celebrata da tutti gli scrittori, cosí greci come latini, la quale era anticamente l'albergo della sapienzia e l'esempio dell'umanità, che al presente si ritrova caduta in tanta calamità e rovinata, essendo soggetta all'imperio de' Turchi, ch'ella non è abitata se non da genti barbare, rozze e lontane da ogni gentilezza e onesto costume.
Questa medesima infelicità trascorse anco per tutta l'Asia, perciochè (sí come si legge nel libro di messer Marco Polo e dell'Armeno) dalle parti del Cataio vi discese una moltitudine di Tartari che l'occuparono, e acquistatosi nuove sedie mutarono i nomi alle provincie, chiamandole co' nomi de' vincitori: sí come la Margiana, la Bactriana e la Sodiana, provincie vicine al mar Caspio, essendo state prese da Zacatai, fratello del gran Can, levati via i loro nomi proprii, furon chiamate il paese del Zacatai. Dalla provincia del Turquestan, la qual è oltre il fiume Iaxarte e Oxo, venne un'altra gran moltitudine di popoli, che si fermarono nell'Asia minore, nella quale è la Bitinia, la Frigia, la Cappadocia e la Paflagonia, e la chiamarono la Turchia. Similmente, essendosi Hoccota Can fatto signore delle provincie della Media, della Partia e della Persia, ora detta Azemia, li suoi successori diedero loro diversi nomi; e a' tempi nostri il signor Sofí, che nacque d'una figliuola d'Ussuncassan re di Persia, fece dal nome suo nominar le dette provincie.
Or, essendomi venuto alle mani alcuni scritti assai diligentemente raccolti, ne' quali è narrata la vita e i fatti del sopradetto signore Ussuncassan, overo Assambei, ch'è il medesimo, e di sciech Ismael, ch'è il signor Sofí, ho giudicato che siano degni d'esser letti dopo il libro di messer Marco Polo e dell'Armeno. E ancora che trattino d'una medesima materia, e come in conformità, nondimeno sono pur varii, e penso ch'apporteranno a' lettori non picciola dilettazione. E, per quanto io trovo, questo primo scrittore che parla della vita d'Ussuncassan fu nominato Giovan Maria Angiolello, il quale in una sua istoria narra che serviva Mustafà, secondo figliuolo di Mahumet terzo gran Turco, e ch'egli si trovò nella giornata che fece il detto gran Turco, nella quale fu rotto su le isole nel mezo del fiume Eufrate dall'esercito d'Ussuncassan. Del secondo scrittore non si sa il nome, ma ben si vede che fu un gentile intelletto, il quale per cagion delle sue mercanzie andò quasi per tutta la Persia. A questi due scrittori abbiamo aggiunto due viaggi, l'uno del magnifico messer Iosafa Barbaro, e l'altro del magnifico messer Ambrosio Contarini, gentiluomini veneziani, che trattano delle medesime materie, di modo che delle cose avvenute nella Persia in que' tempi s'ha un'istoria, se non continuata, almeno scritta di maniera che l'uomo ne può restare in parte satisfatto.
Cosí la fortuna ci fosse stata favorevole a farne venire nelle mani il viaggio del magnifico messer Catarin Zeno, il cavalier che fu il primo ambasciatore ch'andasse in detta provincia al signore Ussuncassano; ma la longhezza del tempo, avvegna che fosse stampato, ha fatto sí che l'abbiamo smarrito. E veramente il sopradetto messer Catarino fu uno de' rari e degni gentiluomini che a quei tempi si ritrovasse in questa eccellentissima Republica, onde essa nel MCCCCLXXI l'elesse ambasciatore al signore Ussuncassano, per farlo muover contra il signor turco, col quale ella era in guerra ardentissima. Egli, mosso dall'amore che portava alla sua patria, come buon cittadino, non avendo rispetto al lungo e pericoloso viaggio, accettò cotal carico allegramente, e tanto piú volentieri e prontamente v'andò, quanto aveva ferma speranza d'esser mezano miglior di ciascun altro a far tal effetto. Perciò che Caloianni, imperator di Trabisonda, marito d'Irene, unica figliuola di Constantino, ultimo imperatore di Constantinopoli, avendo maritata una sua figliuola nominata Despinacaton al signore Ussuncassano re di Persia, ne maritò un'altra, ch'era detta Valenza, al duca dell'Arcipelago, chiamato il signor Nicolò Crespo, della quale il duca n'ebbe quattro figliuole e Francesco, che fu duca dell'Arcipelago; del quale descende Giacomo Crespo, che vive oggidí, duca XXI di Naxo. Le qual figliuole tutte furono maritate onoratamente in Venezia, e una, ch'ebbe nome Firunza, fu madre della regina di Cipri e del clarissimo messer Giorgio Cornaro, il cavaliere e procurator suo fratello, dal quale sono poi discesi tanti reverendissimi cardinali; un'altra, ch'aveva nome Lucrezia, fu maritata al magnifico messer Iacomo Prioli, che fu padre di messer Nicolò Prioli il procuratore; Valenza, la terza, fu moglie del magnifico messer Giovanni Loredano, e Violante, la quarta, fu moglie del sopradetto magnifico messer Catarin Zeno.
Or questa Despinacaton, avvegna che fosse in Persia e molto lontana, avea nondimeno continuamente conservata la memoria della consanguinità e la benevolenza con la detta sua sorella Valenza, moglie del duca dell'Arcipelago, e medesimamente in Venezia con le sue nepoti. Sí che per tal cagione questo gentiluomo vi andò con animo prontissimo, e non s'ingannò punto della sua opinione, perciochè, dopo molti travagli e pericoli, giunto che fu in Tauris e alla presenza del signore Ussuncassano e di Despinacaton sua moglie, fu riconosciuto per suo nepote, e gli furono fatti grandissimi onori e carezze. E con la grazia ch'egli aveva acquistata appresso il detto signore operò molte cose in favor della sua Republica, le quali erano descritte nel suo libro, che di sopra abbiamo detto essere smarrito. E volendo il signore Ussuncassan far maggior onore al detto magnifico messer Catarino, l'elesse per suo ambasciatore a' principi cristiani per fargli muover contra il Turco, e principalmente al re di Polonia e d'Ungaria; ma, condottosi a loro e trovato che facevan guerra insieme, se n'andò agli altri. In questo tempo l'illustrissima Signoria, intesa la partita del sudetto messer Catarino, elesse in suo luogo messer Iosafa Barbaro, e dopo lui messer Ambrosio Contarini, del cui viaggio fatto nel suo ritorno a Venezia, passando per il mar Caspio e per il fiume della Volga e per le campagne de' Tartari, io stimo, per li nuovi e varii accidenti che gli sopravennero di giorno in giorno, che li lettori ne prenderanno grandissima dilettazione e maraviglia.



Breve narrazione della vita e fatti del signor Ussuncassano,
fatta per Giovan Maria Angiolello



Assambei, re di Persia, toglie per moglie la figliuola dell'imperatore di Trabisonda cristiano, e avendo avuto figliuoli di lei, ella con due sue figliuole si riduce a far vita solitaria e cristiana, e suo padre è menato prigione in Constantinopoli.
Cap. 1.

Assambei, potentissimo re di Tauris e della Persia, ebbe piú donne per mogli, e una tra l'altre nominata Despinacaton, che fu figliuola d'un imperatore di Trabisonda nominato Caloianni, il qual, temendo la potenza dell'ottomano Mahomet secondo, e credendo per tal via assicurarsi e aver soccorso d'Assambei in ogni suo bisogno, gliela diede per moglie con questa condizione, ch'ella potesse viver secondo la fede cristiana: e cosí fu contento, onde essa teneva continuamente appresso di sé calogieri, che ne' divini officii la servivano. Di questa donna Assambei ebbe un figliuolo maschio e tre femine, la prima delle quali, ch'ebbe nome Marta, fu maritata a Sechaidar, padre d'Ismael Sofí; l'altre due stettero con la madre, la qual dopo un certo tempo deliberò far vita solitaria e separata dal marito: di che esso restò contento, dandole di molti denari ed entrate, e concedendole per sua abitazione una città detta Iscartibiert, la quale è nel confine del paese di Diarbet. Questa donna stette gran tempo nel detto luogo, e insieme con le due figliuole che gli erano rimase fece vita cristiana mentre che visse, ed essendo morta fu sepelita nella città d'Amit, nella chiesa di San Giorgio, dove insino oggidí si vede la sua sepoltura. Il figliuolo Iacob, overo Ivibic, rimase col padre Assambei, e quell'istessa notte che morí il padre esso fu strangolato da' tre altri fratelli, ch'erano d'un'altra madre: e poteva avere da vent'anni. Le sorelle, ch'avevano nome l'una Eliel e l'altra Eziel, intendendo la morte del fratello, deliberarono di partirsi e, pigliato il lor avere, se n'andarono in Aleppo, e dopo in Damasco, dove da' nostri piú volte sono state vedute; delle qual due ancor una è viva.
Or, tornando a Caloianni, che si credette, avendo dato la figliuola per moglie ad Assambei, assicurar il suo paese da' nemici e rimaner signore in Trabisonda, dico che 'l Turco fu prestissimo ad andargli addosso col suo esercito, avanti ch'egli potesse aver il soccorso. Il povero signore, non vedendo aiuto da parte alcuna, fu constretto a rendersi al nemico, laonde fu menato in Constantinopoli e assai onorato: ma prima che finisse l'anno se ne morí, che fu nel 1462.

Pirahomat fa guerra ad Abrain suo fratello per torgli il regno della Caramania, e l'ottiene con l'aiuto del gran Turco, al qual poi si ribella, e vassene in Persia.
Cap. 2.

Il signor Assambei ebbe dopo guerra col signor ottomano, per cagion del regno della Caramania, della quale ambidue pretendevano aver il dominio. Questo regno fu anticamente detto Cilicia, ma poi fu ed è insino al presente detto Caramania, da un signor arabo nominato anticamente Caraman, il qual ebbe descendenza per successione di tempo in tempo nominato Turvan, ch'ebbe sette figliuoli; i quali dopo la sua morte vennero alle mani fra loro, e ne morirono cinque e due restorno vivi, che fu Abrain e Pirahomat. Abrain per aver piú seguaci si fece signore, e Pirahomat se ne fuggí dal gran Turco, che teneva parentela con loro. Essendo Pirahomat in Constantinopoli, sollecitava continovamente il signor turco che gli desse aiuto per poter cacciare il fratello e farsi egli signore, offerendosi d'essergli vassallo e subdito, prestandogli ogni ubbidienza. Veduto il signor ottomano che l'offerta veniva molto a suo proposito, non glielo negò, e gli diede esercito a sofficienza. Intendendo questa cosa Abrain, signor della Caramania, si mise all'ordine per defendere il suo stato; ed essendo nel 1467 venuti ambidue gli eserciti tra Carasar e una città detta Aessar, furono alle mani, e fu grande uccisione fra l'una parte e l'altra. Pur alla fine Pirahomat ne riportò la vittoria, e rimase signor del paese senz'altro contrasto; il fratello, voltatosi a fuggire, cadde da cavallo e rottosi il petto se ne morí.
Pirahomat, assettato ch'ebbe lo stato, dimorò signore pacificamente due anni soli, perciò che, essendo costume che tutti i baroni del Turco debban andare almen una volta l'anno a visitare il signore e baciargli la mano, presentandolo secondo le loro entrate e dignità, e all'incontro che 'l signore gli carezzi e dia molti presenti, Pirahomat non si curava punto di servar questa usanza come facevano gli altri, laonde il Turco gli mandò a dire che con parte delle sue genti si dovesse muovere in suo aiuto, perciò che voleva andare a' danni de' cristiani: ma Pirahomat non lo volse ubbidire. Or, veduta il Turco tal disubbidienza, andò in persona col suo esercito ad assaltarlo, e tolsegli una parte del paese fino al Cogno, mettendo in signoria un suo figliuolo nominato Mustafà Celebi, ch'era il suo secondogenito, lasciandogli una buona compagnia per sicurtà sua; e dopo ogn'anno gli mandava qualche buon capitano con buon numero di genti, le quali andavano assediando e acquistando il resto del paese. Pirahomat, vedendo non poter resistere alle forze del Turco, lasciati alcuni governatori in certe fortezze, si levò del suo paese e andossene nella Persia dal signor Assambei; e giunto in Tauris fu molto carezzato, ed esaudito d'ogni sua richiesta d'aiuto contra il nemico, e gli furono messi in ordine circa quarantamila combattenti, il capitano de' quali era detto Iusuf, uomo di gran fama e valente di governo e di gran cuore. Il qual, messosi in cammino col detto esercito, giunse in breve alla città del Toccato e pose tutt'il paese a ferro e fuoco, bruciando i borghi d'essa città; né dimorava a combatter fortezze, ma andava guastando ed estirpando il paese, di maniera ch'ogni persona fuggiva alle fortezze.
In questo tempo si trovava il signor Mustafà, figliuolo del Turco, con un capitano del padre chiamato Agmat bassà, mandato ad espugnar le fortezze di Caramania, e stavano accampati ad una città fortissima nominata Lula; e le genti ch'eran dentro, non essendo solite ad udire il terribil suono dell'artiglieria, si resero e furono mal trattate pel signor Mustafà. Però, fornita la città di presidio, intendendosi che 'l campo de' Persiani era a quelle bande, e che non v'era Ussuncassano in persona, si ritrassero per comandamento del signore e vennero al Cogno, donde, per non esser la città molto forte di mura, Mustafà Celebi fece levar le sue donne e donzelle col suo avere, mandandole ad un luogo quattro giornate lontano verso ponente al cammino di Constantinopoli, nominato Sabi Carrahasar, ch'è sopra un fortissimo monte. Il campo stette al Cogno per alcuni giorni; dopo, avendo inteso che Persiani venivano a quella volta, non si tenendo sofficiente al contrasto, si levò e venne alla città del Cuthei, dove trovò Daut bassà, ch'era beliarbei della Natolia, il qual faceva genti per resistere a' Persiani; e anche il gran Turco era passato lo stretto con tutta la sua corte e parte della Romania, per congiungersi con l'altro suo campo, stimando l'esercito de' nemici esser piú grosso, che, per aver essi avuto fantaria dalla Caramania, il loro esercito era ingrossato e andavano minacciando tutt'il paese.

Mustafà viene a giornata co' Persiani, ch'eran venuti con Pirahomat per defender la Caramania, e gli ruppe; e Ussuncassan richiede i Veneziani che facciano guerra al Turco e gli mandino artiglierie.
Cap. 3.

Mustafà, inteso ch'ebbe che non v'era Ussuncassano, ma che potevano esser tra pedoni e cavalli da 50 mila persone, pigliata licenza dal padre, insieme con Agmat bassà, con sessantamila persone in ordinanza, la maggior parte delle quali era a cavallo, deliberò d'andare a trovar li Persiani e fece muover l'esercito. Li nemici, avendo inteso cotal movimento, non procedettero piú avanti, ma si ritirarono nel paese della Caramania, per pigliar maggior soccorso e piú vettovaglie. Or, cavalcando l'esercito del Turco molte giornate con gran celerità, giunse poco lontano dal luogo dove stavano alloggiati li nemici, e mandorno avanti quattromila cavalli, il capitano de' quali era nominato Arnaut, e nel far del giorno assalirono il campo de' Persiani. Ed essendo alle mani, sopragiunse il resto del campo del Turco, dando soccorso a' quattromila cavalli che già erano stati malmenati, ed eravi morto Arnaut con piú di duemila de' suoi. Li Persiani, vedendosi su la vittoria, si fecero incontro alle squadre de' Turchi arditamente, e nel combattere si mostrarono molto coraggiosi. Ma, essendo e dall'una e dall'altra parte rimasi morti grandissimo numero, intorno l'ora di terza li Persiani cominciarono a piegare e furono rotti da' Turchi, dove fu preso Iusuf capitano con altri condottieri, e molti morti. Furno pigliati anco i carriaggi e i padiglioni, e fatti di grossi bottini di cavalli, di cameli e d'altre robbe. Pirahomat, signor della Caramania, avendo il paese in suo favore, ebbe modo di scampare, ma non però si tenne sicuro nel suo paese, anzi ritornò da Ussuncassan nella Persia. Il signor turco, avendo inteso questa vittoria, fece far molti trionfi e feste in Constantinopoli, mandando a donare molti presenti a suo figliuolo Mustafà e a' suoi capitani.
Dopo questa rotta il signor Assambei mandò a persuadere a' signori veneziani, per un suo ambasciatore, che volessero stare in guerra col Turco, perciò che egli in persona verria all'impresa contra di lui. E oltre di ciò gli richiedeva artiglierie, le quali dopo molto tempo furono mandate in Cipro, insieme con la loro armata: ma giunsero tardi, essendosi già Assambei affrontato col campo turchesco, e nel menar delle mani restato perditore, e anco ritornato in Tauris; e l'artiglieria ne restò, con la quale era messer Iosafat Barbaro.

L'apparecchio che fa il gran Turco per andar in persona contra Ussuncassano, e come sia ordinato il suo esercito nell'alloggiare e nel camminare.
Cap. 4.

Il Turco, avuta la vittoria e fattosi signore della Caramania, vedendo ch'Ussuncassan s'era dimostrato suo nemico, per aver contra di lui dato aiuto a Pirahomat e ruinato li suoi paesi, nel 1473 deliberò di farli sapere che non lo temeva punto, avvegna ch'avendolo già rotto glielo avesse dimostrato; nondimeno voleva proceder piú oltre, e dargli a conoscer chiaramente quanto le sue gran forze potessero; onde il verno seguente mise ordine d'andare in persona a' danni d'Ussuncassan e, dato commissione che si dovesse far gran numero di gente, fece intendere a tutti che stessero apparecchiati. E venuto il tempo d'uscir in campagna, nel sopradetto anno passò con la sua corte dello stretto di Constantinopoli in Asia e, giunto in Cappadocia, quivi si fermò, in una pianura appresso una città chiamata Amasia, dove faceva residenzia Baiesit Celebi, primogenito del signor turco. Questa pianura è chiamata Casovasi, che in nostra lingua vuol dire la pianura dell'Oca; ella è capace di grandi eserciti, e ha commodità grandissima d'acque e di vettovaglie, per aver d'intorno vicine molte ville; e perchè essa è alla via del cammino che voleva fare il signore, fu deliberato che quivi si dovesse ragunare il grand'esercito. E avendo (come abbiamo detto) fatto a sapere a ciascun capitano e condottiero che stessero apparecchiati, e al tempo determinato si trovassero tutti con ogni buon ordine nel detto luogo, egli fu pienamente ubbidito. Ma, conoscendo il signor turco che tal impresa era di grandissima importanza, deliberò di far tutte le provisioni possibili in quanto al numero delle genti, alla commodità delle cose necessarie e alla sicurezza sua e del suo stato, onde, di tre figliuoli ch'egli aveva, li due maggiori volse che venissero a tal impresa, cioè Baiesit primo e Mustafà secondogenito; il terzo, il quale avea nome Gien, rimanesse a Constantinopoli, con buoni consiglieri, per conservazione del suo stato.
Congregato e ordinato l'esercito nella detta pianura dell'Oca, si consigliò del modo che si dovesse tenere nell'alloggiare e nel camminare, e di non aver mancamento d'alcuna di quelle cose che fossero necessarie e possibili. Fu adunque deliberato di far cinque principali colonnelli, uno de' quali fu il signor turco, con la sua corte e altra gente, alla somma di trentamila persone, tra quelle da cavallo e da piedi. Il secondo fu Baiesit primogenito con la sua condotta e altri, insino alla somma d'altre trentamila persone, e avesse da alloggiare alla destra del padre. Il terzo fu Mustafà, secondo figliuolo, il qual medesimamente avea trentamila persone, tra le quali erano dodicimila Valacchi della Valacchia bassa, e d'essi era capitano uno ch'aveva nome Bataraba: e questo colonnello avea da alloggiare alla sinistra del Turco. Il quarto fu il begliarbei della Romania, nominato Asmurat, ch'era della famiglia de' Paleologi: e per esser egli giovane gli fu dato per governatore Maumut bassà, ch'era il primo uomo e riputato il piú savio che si trovasse in tutto lo stato del Turco; era consigliero del signore, e anche era stato del signor Amurat, padre del presente Turco. Questo colonnello era di sessantamila persone, computando molti cristiani, Greci, Albanesi e Soriani, li quali erano stati comandati; e questo quarto colonnello alloggiava dinanzi al Turco. Il quinto colonnello fu il begliarbei della Natalia, nominato Daut bassà, uomo d'auttorità e di maturo consiglio. Il colonnello era di quarantamila persone, contando li musolmani a piedi e a cavallo, e avea da alloggiar dietro al gran Turco, di modo che 'l signore con la sua corte rimaneva in mezo, circondato da' quattro sopradetti colonnelli.
E fu messo ordine che tutti co' loro padiglioni, de' quali sono copiosi, secondo le loro dignità alloggiassero, non pretermettendo l'ordine del camminare e dello star ciascuno alla sua banda, acconciando li padiglioni insieme a modo di fortezza serrati, ma lasciando però tuttavia le strade da poter andar pel campo, e lasciando anco in mezo d'ogni colonnello spazio grande per la piazza, perciò che per ogni colonnello era il suo mercato di cose cotte, di biade e di molte e diverse arti, e provedimento d'ogni commodità. Erano anche in ciascun colonnello siniscalchi e soprastanti, con piena auttorità per far osservare ogni buon ordine e provedere che non nascessero scandali. Ciascuno di questi quattro colonnelli è obligato a mandar le sue sentinelle e tener buona guardia, ogniun dalla sua banda.
Oltre li cinque sopradetti colonnelli ne fu anche fatto un altro di aganzi, li quali sono uomini che non hanno soldo, ma come venturieri guadagnano delle prede e ruberie. Questi non alloggiano insieme con tutt'il corpo dell'esercito, ma vanno scorrendo e guastando e rubbando il paese de' nemici da ogni lato, e servano tra loro grande e ottimo ordine, sí nel partir le prede fatte come in eseguir tutte le loro imprese, senza contesa alcuna tra loro. In questo colonnello si trovarono a quest'impresa trentamila aganzi, essendo, sí come sempre sogliono essere, molto bene a cavallo: e fu dato loro per capitano un valoroso condottiero, nominato Maumut aga.

Il provedimento che fanno gli arfaemiler, signori sopra le vettovaglie, acciò che l'esercito n'abbia abbondanza.
Cap. 5.

Intorno alle vettovaglie è posta gran cura e diligenza che l'esercito n'abbia abbondantemente, e in ciò tiensi quest'ordine, che due arfaemiler (che cosí chiamano li due signori sopra le vettovaglie, i quali, per potersene servire subito che 'l bisogno lo ricerchi, hanno sotto di sé ducentocinquanta uomini per uno), quando il gran Turco esce con l'esercito in campagna, d'alloggiamento in alloggiamento mandano avanti, e lontano per spazio d'una giornata fanno intender per tutto che l'esercito ha d'alloggiare in quelle contrade, e li governatori e rettori di quei paesi proveggono che nell'esercito siano delle vettovaglie abbondantemente. E tutti, per desiderio di toccar denari, vi concorrono volentieri, massimamente essendo sicuri che niuno sia per far loro violenza, anzi d'aver buona compagnia e d'esser favoriti, siano di qual condizione esser si vogliano; e guai a coloro che facessero o comportassero che fosse fatta violenza alcuna, perciochè senza remissione sariano gravemente puniti. Vanno anche seguitando il campo molti bazzariotti, come sono beccai, fornai, cuochi e assai altri, che vanno comprando la robba e conducendola al campo per guadagnare: e a tali guadagni si truova gran compagnia e potente di denari, e coloro ch'attendono a simil pratica vengono carezzati e accommodati dal dominio in tutte le cose che essi ricercano per la commodità del campo: sí che in tutto quel tempo che l'esercito sta fuori, se le strade non sono impedite da' nemici, sempre v'è grandissima abbondanza.
Quando il signor turco vuole andar a danno de' nemici, e che comincia a scostarsi da' suoi paesi, e che non si può commodamente avere abbondanza delle vettovaglie, si fa consiglio del viaggio che si debbe tenere: come fu questo a' danni d'Ussuncassano, ch'andammo dentro del suo paese e lontano da' confini del Turco quasi dieci giornate, dove le strade non erano sicure; e stettesi intorno a tre mesi che niuna persona era sicura d'andar dal paese d'Ussuncassano a quello del Turco, sí che Gien sultan suo figliuolo, ch'era rimaso in Constantinopoli al governo dello stato, stette piú di quaranta giorni che non ebbe vera novella del padre né dell'esercito. Alla fine gli venne detto ch'eravamo stati tutti rotti e malmenati, la qual cosa Gien tenendola per vera e ferma, procurò d'aver piena ubbidienza cosí da' governatori delle fortezze come dagli altri magistrati; di che il signor turco prese sdegno sí grande che fece morir li consiglieri che in ciò gli avevano dato consiglio e comportatogliene fuori della commissione ch'essi avevano: uno di questi era chiamato Carestra Solciman e l'altro Nasufabege.
Or quando accade ch'essendo l'esercito fuori de' confini e nel paese nemico bisogni proveder delle vettovaglie, li sopradetti arfaemiler hanno carico e auttorità di mandar per tutte le parti del dominio del signore, dove sappiano esser abbondanza di biade, e comandare a ciascuna città che debba mandar tante some da camelo di farine e d'orzi. Le città co' lor territorii son tenute ad ubbidire, e far li loro soprastanti con la quantità delle farine e degli orzi che lor sono imposti. Oltra di ciò convien che facciano portare vettovaglie soprabbondanti per l'uso delle persone e degli animali che le conducono, perciò che l'ordine è che le vettovaglie comandate da' sopradetti signori per l'esercito non siano punto scemate, ma al tempo del dispensarle bisogna che si truovi esser tanta quantità quanta fu comandata, altramente le comunità ne patiriano riprensione e danno.
Giunti li detti soprastanti in campo, al tempo loro determinato s'appresentano agli ufficiali de' sopradetti maestri di campo, i quali, tolto in nota il lor giugnere, assegnano loro il luogo da alloggiare. Pigliano similmente in nota tutte le some delle vettovaglie, e non vi si mette mano senza commissione de' detti arfaermiler, e non si dispensano fin che per altra via se ne possono avere. E quando sono impedite le strade e che manca la vettovaglia, li siniscalchi del campo vanno da li sarafaemiler, maestri di campo, e ricordano che questo o quel paese manca di farine e d'orzi, e li detti signori fanno consegnar uno over piú di quelli soprastanti con le sue condotte, e insieme vi mandano uno degli scrivani, e tal volta v'interviene un commissario de' siniscalchi del campo, e poste le vettovaglie in mercato mette loro il prezzo: e cosí le vendono, e si tiene buon conto cosí della quantità delle biade come del denaro che se ne trae. Vendute ch'elle sono, li denari vengono consegnati al soprastante per nome della comunità, e gli fanno le sue chiarezze della quantità delle biade vendute e del denaro consegnatoli. Giunto il soprastante nella sua patria, consegna li denari alla comunità, li quali sono distribuiti secondo la quantità delle biade che gli uomini hanno date per mandare al campo. E per esser cosí buon ordine, facilmente si provede al bisogno. Ed è cosa quasi incredibile a chi non l'ha visto la gran moltitudine de' cameli che portano le vettovaglie: e massimamente ciò si vidde in questa impresa contra Ussuncassan, nella quale il Turco, oltre la paga ordinaria, dette un'imprestanza di tre lune, cioè un quarterone, secondo l'ordine delle persone; diede anche sovvenzione a' timarati, perciò che essi per l'ordinario hanno la paga dell'entrate a loro consegnate.

Il gran Turco fa consulto della via ch'ha da tener l'esercito partendosi da Amasia; de' luoghi donde passa, e de' dromedarii che gli portaron presenti da parte del signor Sit e del soldano.
Cap. 6.

Essendo ogni cosa opportuna a tal viaggio apparecchiata, si fece consulto della via che s'avea da tenere per andare a' danni d'Ussuncassan. Trovossi a questo consulto il gran capitano Iusuf, con altri gran conduttieri del detto Ussuncassan, li quali, come ho detto per l'adietro, furon presi quando l'anno passato 1472 fu rotto il campo a Begisar; e il gran Turco avea promesso loro di liberargli, se trovava che dicessero la verità sopra le cose domandate loro del viaggio per l'impresa: nondimeno erano condotti con l'esercito sotto buona guardia, ed esaminati spesso de' passi e delle commodità, sí dell'acque come degli alloggiamenti. Aveva anche il Turco per mezo de' suoi commessi fatto pratica e condotti nel campo alcuni mercanti e altre persone pratiche di tal viaggio, e separatamente erano domandati delle sopradette cose. Medesimamente gli aganzi, trascorrendo il paese e facendo prigioni che fossero ben pratichi de' luoghi, gli mandavano alla corte, i quali erano similmente esaminati: e tolto il detto e il parer di tutti, si procedeva con maturo consiglio.
Fatti che furono tutti li provedimenti necessarii, il gran Turco fece levar l'esercito della pianura detta dell'Oca, e dalla città d'Amasia s'aviò alla volta del Toccato, città di Cappadocia; e l'esercito, seguitando il suo cammino, giunse alla città di Civas, la quale è posta vicina al monte, e le passa appresso un grosso fiume nominato Lais, che vien dalle montagne di Trabisonda, sopra il qual è un ponte di pietra larghissimo. Lasciata la detta città da man sinistra, passato il sopradetto fiume, entrammo in una valle tra 'l monte Tauro, e giugnemmo ad un castello chiamato Nicher, ch'è del signore Ussuncassan. Quivi gli aganzi furono assaliti da' nemici e, fattasi una picciola scaramuccia, furono uccisi alquanti dell'una e dell'altra parte, e menati alla corte del Turco da dodici prigioni. Il resto della gente, non aspettando la furia, si partí lasciando il castello fornito, dove giunse l'esercito; ma per non dimorare a combatter fortezze passò di longo, lasciandosi a man manca poco spazio lontano una città chiamata Coilivasar, posta tra monti, in una valle circondata da molti villaggi.
E seguitando giugnemmo allo scender del gran monte ad un'altra città nominata Careasar, dove si cava allume; e alloggiando l'esercito appresso la detta città mezo miglio, e la cavalleria trascorrendo e guastando il paese, la maggior parte de' paesani col bestiame e con le robbe erano fuggiti e ridotti alle fortezze de' monti e a' luoghi sicuri. Levato il campo, con le nostre giornate arrivammo sopra una gran pianura dove è la città di Argian, posta sopra un luogo alquanto eminente dal detto piano: e si chiama la campagna d'Arsingan. Ma per non esser la città forte, il popolo se n'era fuggito e passato il fiume Eufrate; nondimeno ve n'erano rimasti alquanti, tra li quali al giugner degli aganzi fu trovato un Armeno, uomo attempato, che se ne stava in una chiesa circondato da molti libri, e ancor che molte fiate fosse chiamato da coloro che lo trovarono, non rispose mai, anzi stava attentissimo a leggere i libri ch'egli si teneva aperti davanti, e sopragiungendo la furia de' soldati fu morto, e con lui insieme arsa la chiesa: il che intendendo il signor turco n'ebbe molto dispiacere, perciochè gli venne detto che era grandissimo filosofo.
Or, seguitando noi il viaggio per questo paese dell'Arsingan, ch'è parte dell'Armenia minore, e appressandoci all'Eufrate, poco lontani da Malacia, il qual viaggio facemmo in otto giornate, ed essendo già fermo l'esercito, intorno al'ora di nona ecco si veggon venire undici dromedarii, li quali venivano con presenti del signor Sit e del soldano; e sopra li detti dromedarii erano uomini strettamente fasciati con drappi bianchi, perciochè altramente non potriano reggere al cavalcar di simili animali, che per esser molto veloci conquassano grandemente la persona. Di questi undici uomini alcuni erano bianchi e alcuni negri, e il primo teneva in mano una freccia nella quale era fitta una poliza; gli altri tutti avevano dinanzi un canestro coperto, e dentro v'erano varie confezioni; altri portavano certo pane e carni cotte ch'erano ancora calde. Giunti che furono al padiglione del signor turco, senza smontare né fermarsi porsero la poliza e li canestri, e s'intese che in sei ore avevan corso novanta miglia. Fu data loro la risposta senza parlare con un'altra poliza fitta nella detta freccia, e partiti parve che sparissero dinanzi agli occhi nostri, sí maravigliosa è la velocità di quegli animali.

Il gran Turco, giunto al fiume Eufrate, delibera di passare, e fa tentare il passo ad Asmurat con le sue genti, il quale vien rotto da' Persiani.
Cap.7.

Or, essendo noi arrivati al fiume Eufrate, e camminando su per la sua riva per greco e levante, ecco vedemmo Ussuncassan col suo esercito esser giunto dall'altra banda, dove egli dubitava che 'l Turco dovesse passare. Era in questo luogo il fiume piú largo, e con molti canali e gran secche di ghiara: quivi gli eserciti l'uno dirimpetto all'altro, col fiume in mezo che gli separava, posero gli alloggiamenti. Ussuncassan aveva un grossissimo esercito, e seco erano tre suoi figliuoli, uno chiamato Calul, il secondo Ugurlimehemet, il terzo Zeinel; ed eravi anche Pirahomat, signor della Caramania, e molti altri signori, e varie nazioni, cioè Persiani, Parti, Albani, Giorgiani e Tartari. E per quanto si poté intendere, quando Ussuncassan vidde il campo del Turco alloggiato, rimase tutto stupefatto, e stette gran pezza senza punto parlare, e disse poi in lingua persiana: "Baycabexen, nederiadir", che vuol dire: "O figliuol di putana, che mare", assimigliando al mare il campo del Turco.
Nel giorno istesso che gli eserciti s'eran alloggiati nel detto luogo, intorno a nona fu deliberato di tentare il passo e azzuffarsi co' nemici, e che Asmurat, ch'era begliarbei della Romania, dovesse far pruova di passar con tutta la sua gente: e perchè costui era giovane, gli fu dato per compagno Mahumut bassà. Onde, spiegati gli stendardi e sonati li tamburi e le naccare e altri stromenti ch'usano nella guerra, si misero a passare, tuttavia notando per alcuni canali, e di secca in secca procedendo giunsero quasi dall'altro lato del fiume. Vedendo Ussuncassan che la gente turchesca cominciava a passare, e già era poco lontano dalle rive del canto suo, le mandò un squadrone de' suoi all'incontro, ed entrarono anch'essi per buon spazio nel fiume: ma essendovi di mezo un gran canale, con freccie cominciarono a offendersi. Tuttavia li Turchi, desiderosi d'ottenere il passo, fecero grande sforzo, e parte di loro, passato il canale, vennero alla stretta co' Persiani; e cosí, combattendo per spazio quasi di tre ore, fu grande uccisione dall'una e dall'altra banda.
Li Persiani, per esser piú vicini alla riva del fiume, facilmente davano soccorso a' loro, e li Turchi, non potendo passare se non per un passo non troppo largo, ne passavano pochi alla volta, tuttavia notando co' cavalli: e molti se n'affogavano, per la correntia dell'acqua che li portava lontani dal passo. Alla fine i Turchi furono superati da' Persiani e fatti ritirare adietro, con fuga passando il detto canale. Mahumut bassà, il qual era sopra una secca distante mezo miglio dal luogo dove si combatteva, non solamente non diede soccorso, ma si ritirò, passando alcuni canali e fermandosi sopra un'altra secca. Li Persiani perseguitavano li Turchi, uccidendone e facendo prigioni; e li Turchi fuggendo si disordinavano, e parimente smarrivano il passo, onde molti s'annegarono andando in alcune boglie, che molte ve ne sono nel detto fiume, e tra gli altri vi s'annegò Asmurat, begliarbei della Romania. E quando esso cadde con molti altri in una gran boglia, li Turchi, e massimamente li suoi schiavi e servitori, lo volsero aiutare e fecero testa, e vennero di nuovo ad azzuffarsi co' Persiani: ed essendone morti e annegati assai, li Persiani, passati molti canali, seguitando li Turchi vennero infino alla secca ghiarosa dove era ridotto Mahumut bassà con molte squadre, e di nuovo furono alle mani. E benchè i Persiani, stando in ordinanza, facessero ogni sforzo, tuttavia non poterono passar piú oltre, ma stettero a contrasto con la gente di Mahumut; e, per gagliardo combatter che si facesse, né l'una né l'altra parte poté spingersi piú avanti.
E perchè cominciava già a venir la sera e il giorno andarsene, il Turco, che di continuo insieme co' suoi figliuoli e con tutto il resto dell'esercito era stato in ordinanza sopra la riva del fiume, fece sonare a raccolta; e il simile fece Ussuncassano, il quale medesimamente era stato in ordinanza dall'altra banda. E sonandosi a raccolta d'ambedue le parti, ciascun si ritirò senza perseguitarsi piú oltre; nondimeno Ussuncassan rimase superiore in questa pugna, perciò che de' suoi meno ne morirono, pochi s'annegarono, né anche fu fatto alcun prigione. Ma de' nostri, tra prigioni, morti e annegati, fatta la descrizione, mancarono dodicimila persone, tra le quali erano mancati assai uomini di conto. Per la qual cosa furono ordinate molte sentinelle e buone guardie su per la riva del fiume, e il simile fecero anche li Persiani, perciò che l'una e l'altra parte dubitava d'esser assalita. Il signor turco ebbe molto a sdegno che Mahumut bassà si fosse ritirato da una secca all'altra e non avesse dato soccorso ad Asmurat, e suspicavasi ch'egli l'avesse fatto a posta, non gli essendo molto amico; nondimeno il Turco allora non dimostrò mala volontà verso di Mahumut, non gli parendo che fosse né luogo né tempo convenevole, e massimamente che 'l detto Mahumut era amato e seguitato, anzi, dissimulando e saviamente governandosi, aspettò l'ora che lo potesse punire senza suo danno, come poi fece dopo sei mesi, facendolo strangolare con una corda d'arco.

Ussuncassano va seguitando il Turco che, dopo la rotta, se ne torna nel suo paese; e venendo al fatto d'arme, e fuggendosi dell'esercito Ussuncassano, li Persiani sono rotti e il gran Turco se ne ritorna vittorioso.
Cap. 8.

Avuta questa rotta, il Turco dubitò fortemente, e deliberò di ridurre il suo esercito per la piú corta nel suo paese; e per confortar li suoi soldati, oltre il soldo ordinario diede un'altra prestanza, e donò la prima ch'avea data alla sua partita, e fece anche liberi tutti li suoi schiavi che si trovavano in campo, con questa condizione, che niuno fosse in libertà d'abbandonarlo, ma fossero uomini del signore, come gli altri stipendarii, che non sono schiavi e posson fare della lor robba quel che lor piace; e fece molte altre provisioni, carezzando e donando a' capitani.
Levato l'esercito, andavamo camminando per la riva del fiume, e li Persiani dall'altro canto facevano il medesimo, non si curando né anch'essi di passare, ma stavano dubbiosi, vedendo l'esercito turchesco assai piú grosso che non era il loro; nondimeno, per quanto fu poi riferito, Ussuncassan era spinto da' figliuoli e da altri signori a passare e assalirci, essendo noi in fuga per la rotta ricevuta, e sopra di ciò furon fatti molti consigli. Alla fine, circa dieci giorni dopo, essendo il campo turchesco partito dal fiume, lasciando la città di Baybret alla destra, verso le montagne che dividono l'Armenia maggiore dalla minore, pigliammo il nostro cammino verso maestro, entrando in una valle per venir alla volta di Trabisonda; e nel secondo alloggiamento che facemmo dopo che fummo entrati nella detta valle, alla fin d'agosto, a quattordici ore, ecco li Persiani apparir dalla destra nostra sopra li monti. Allora il signor turco, volto verso il nemico, prese anch'esso il monte, ma prima fece fortificar gli alloggiamenti, al governo de' quali e de' carriaggi lasciò con buon presidio il fratello del signor di Scandeloro, nominato Eustraf. E avendo posto ordine ad ogni cosa, andandosene pel monte s'avviò alla volta de' nemici, mandando avanti Daut bassà, che era begliarbei della Natolia, con tutta la sua condotta e con tutta la gente della Romania rimasa della prima rotta; e Baiesit, primogenito del gran Turco, era alla destra del padre, e Mustafà secondogenito alla sinistra. E cosí, camminando per luoghi montuosi e aspri, giugnemmo in una valle, dove li Persiani dall'altra banda della valle aspettavano sopra certi colli in ordinanza, avendo distese le squadre di maniera che tenevano molto spazio; a dirimpetto delle quali il gran Turco fece distender le sue, sonandosi tuttavia dall'una e dall'altra parte infinite naccare, tamburi e altri stromenti da battaglia, di sorte che lo strepito e il rimbombo era sí grande che non lo potria credere chi non l'avesse udito.
Era la valle dove s'affrontorno gli eserciti commoda dalle bande al montare e dismontare; era larga un quarto di miglio e assai ben longa, ma era tra monti e luogo salvatico. Quivi fu cominciata l'aspra battaglia, e ributtandosi or l'una or l'altra parte, ciascun soccorrendo a' suoi dove il bisogno era maggiore, Pirahomat, signor della Caramania, il quale era alla destra di Ussuncassan, dopo longa battaglia fu vinto da Mustafà, figliuolo del gran Turco; ed essendosi ritirato verso 'l fianco di Ussuncassan, dubitò di non esser tolto in mezo, e se non era una valle, facilmente gli saria avvenuto. Ussuncassan, vedendo il pericolo, per esser li Turchi superiori da ogni lato, e massimamente dalla sua destra, all'incontro della quale stava il gran capitano Mustafà, che con ogni ingegno cercava di torlo in mezo, cominciò a dubitar fortemente; montato sopra una cavalla araba poco stette che si mise a fuggire, e cosí fu rotto e fugato insino a' padiglioni, li quali erano lontani quasi dieci miglia in una pianura. Furono ricuperati alcuni prigioni presi alla rotta del passo del fiume; furon anche messi a sacco li padiglioni e fatta grandissima preda, e morto un figliuol di Ussuncassan, il quale era chiamato Zeinel, e la sua testa fu presentata al Turco da un fante a piè che l'aveva ucciso in battaglia, perciochè il detto signor Zeinel, nel partir del padre, quando montò su la cavalla, entrò nella fanteria e fu circondato e morto insieme con molti che lo seguitavano; tal che questa fu una gran rotta, essendo morti de' Persiani intorno a diecimila, e presi molti piú, de' quali n'eran fatti morire di giorno in giorno.
Tutta la notte seguente fu fatta allegrezza con fuochi e suoni e grida, ma perchè Mustafà figliuolo del signore avea seguitato Ussuncassan, e già era due ore di notte, il signore dubitava alquanto, e gli aveva mandato dietro alcuni condottieri; co' quali essendo Mustafà ritornato, il signore uscí del padiglione con una tazza d'oro piena di giuleppo, e di sua mano gliela presentò, baciandolo e commendandolo molto del suo portamento e valore. Questa battaglia durò otto ore continue, avanti che gli Persiani si mettessero in rotta; e se non fosse stato Mustafà, ancora non piegavano, perciochè Ussuncassan per dubbio d'esser circundato da Mustafà si mise a fuggire. De' Turchi in questa battaglia ne morirono in tutto circa mille persone. Furon trovati ne' carriaggi di Ussuncassan alcuni vasi d'oro simili all'enghistare dal piè, con le loro vagine coperte di cuoio, e altri vasi d'oro e d'argento, ed ebbonsi alcune belle armature fatte a Syras, messe a specchi, con certe liste dorate, polita e bella cosa da vedere. Fecesi anche acquisto di mille cavalli e di gran quantità di cameli.
Non mi par di lasciare adietro di dire che in questa battaglia Ugurlimehemet, secondo figliuolo di Ussuncassan, venne con gran quantità di gente ad assalir gli alloggiamenti nostri, ma fu anch'esso fugato dal signor Cusers e dagli altri che v'erano alla guardia, e lo misero a tal partito che poco mancò che non rimanesse prigione: ma egli scampò, per esser pratico del paese, sí che, se Ussuncassan restava con la prima vittoria, il Turco si partiva con vergogna, ed esso non perdeva le terre che perdé. Essendosi tre giorni riposato l'esercito, il Turco deliberò di tornare adietro per la via ch'era venuto, onde levato il campo s'inviò alla volta di Baibiert, dove, per la rotta d'Ussuncassan, trovò i popoli della detta città e del contado, abbandonate le loro abitazioni, essersene fuggiti a' monti e a' luoghi forti; nondimeno gli aganzi presero de' prigioni e fecero de' bottini, e alcuni de' detti aganzi furono assaliti da' Persiani e tolto loro i bottini, ed essendo fugati si ridussero nella città di Baibiert. E volendovi entrar li Persiani, gli aganzi serrate le porte si difesero, e una notte fino a mezodí seguente vi stettero rinchiusi; ma, venutone la nova all'esercito, fu loro mandato soccorso, il che avendo inteso li Persiani si partirono, non aspettando la furia.
Or, camminando l'esercito, noi giugnemmo alla riva del gran fiume Eufrate, trovando e ville e castella abbandonate, e assai anche abbruciate. Arrivammo poi al passo del detto fiume, e gli aganzi, passati senza contrasto, andorno per spazio d'una giornata all'altra banda, facendo alcune prede di bestiami minuti; ritornati che furono al campo, ci levammo, indrizzando il cammino alla volta d'Ersenia, città abbandonata per avanti, dove alloggiò il campo per una notte. E partitosi giugnemmo dopo quattro giorni a Caratsar, la quale è posta sopra un monte negro, ed è fortissima di sito, per aver grandissimi dirupi d'ogn'intorno, se non da un lato, dove ha un poco di spazio per il qual si può andare alla porta per una via storta e aspra.
Quivi essendo noi accampati, quei della terra stavano alle mura taciti, e provisti di pali aguzzi e di molti archi; nel principio essi non volevan ascoltare né parlare a persona alcuna, ma tiravano e ferivano chiunque s'avvicinava, sí che fu forza mettervi cinque bocche di bombarde, due delle quali furono condotte sopra un monticello non troppo distante dalla città, e queste facevano gran danno. E avendola battuta per 15 giorni, ne morirono assai di quei della terra, onde essendo sbigottiti vennero a parlamento. Eravi dentro per governatore uno chiamato Aarap, ed era uomo del signor Zeinel, figliuolo di Ussuncassano, che fu ucciso nella sopradetta battaglia: e questo signor Zeinel possedeva questo sangiaccato over paese. Intendendo Aarap che 'l suo signore era morto, ed essendogli anche mostrata la sua testa, pianse amaramente, e insieme con alcuni della terra deliberò di rendersi salvo l'avere e le persone: e fu promesso dal gran Turco di dargli condotta, e cosí, il decimosettimo giorno dopo che ci fummo accampati, si rendettero. E fu fornita la terra di presidio e lasciate certe bocche d'artiglierie, menando con esso noi Aarap, ma posto però in sua libertà, al quale il Turco diede un sangiaccato a' confini dell'Ungaro. E certamente, s'egli stava pur otto giorni a rendersi, era forza a levare il campo per mancamento di vettovaglie e massimamente per li cavalli, i quali conveniva nutrirgli di foglie di roveri e d'altri sterpi minuti tagliati. Partitosi di qui l'esercito, venimmo verso la città di Coliasar, la qual, intendendo la fortissima città di Caraesar essersi resa, e il signor Zeinel esser stato morto, mandando ambasciatori si diede al gran Turco, e il simil fece Nieser: ed essendo fatto provedimento de' lor governi, l'esercito se ne venne di longo e giunse alla città di Sivas.

Assambei, essendo stato rotto, se ne ritorna in Tauris; l'anno seguente va in campagna all'erba. Suo figliuolo se gli ribella e vassene al gran Turco, ma egli, facendo sparger fama d'esser morto, l'induce a tornare in Tauris e fallo morire.
Cap. 9.

Dopo questa rotta Assambei se ne ritornò in Tauris. Nel 1473 giunse anche messer Iosafa Barbaro, il qual dice che il signor Assambei, essendosi riposato quell'anno, il seguente, che fu il 1474, deliberò di voler andare secondo il solito con la sua gente all'erba, e fece domandare al detto messer Iosafa s'egli vi voleva andare, il qual disse d'andarvi, sí come v'andò. Nel mese di maggio adunque il signor Ussuncassan si partí con tutta la sua gente, il numero della quale era venticinquemila pedoni, diciottomila villani, tremila padiglioni, seimila cameli, trentamila muli da soma, cinquemila muli da conto, duemila cavalli da soma, cinquemila femine, putti e fantesche anime tremila; animali d'altra sorte infiniti andorno alla campagna, e vi si trovava di molta erba. Questo era il suo esercito ordinario: lascio ora far giudicio di quanto numero egli oltre l'ordinario lo potesse fare.
Ora, essendo il signor Assambei in campagna alla via di Sultania, gli venne nuova che Ugurlimehemet suo figliuolo aveva pigliata Syras; il che avendo inteso, il signor Assambei fece subito levar il campo ordinatamente, e andossene alla volta di Syras. Il figliuolo, intendendo che 'l padre veniva con sí grand'esercito contra di lui, se ne fuggí, e lasciando tutt'il suo stato se ne venne con la moglie e con tutta la sua famiglia nel paese del Turco, e mandò suoi messi a torre salvocondotto da sultan Baiesit, il qual faceva residenza non troppo lontano da' confini di Ussuncassan. Baiesit subito mandò a farlo sapere al padre, il qual si contentò che gli fosse fatto il salvacondotto, ma gli fece intendere che in modo alcuno egli non andasse in persona ad incontrarlo fuori della terra d'Amasia, ma ben lo dovesse onorare in ciascun'altra maniera, avendo però tuttavia l'occhio a' fatti suoi, che non fosse ingannato da' Persiani. E sappiate che la città di Syras, che 'l detto Ugurlimehemet aveva tolta al padre, è la piú nobil città di tutta la Persia, ed è nel fin della Persia alla via di Chirmas, ed è città murata di pietre, volge venti miglia, e fa ducentomila uomini. Vi si fanno molte e diverse e gran mercanzie, e fra l'altre cose vi si fanno arme, selle, briglie, e tutti li fornimenti cosí di uomini come di cavalli, e ne fornisce tutto il Levante, la Soria e Constantinopoli.
Or, venendo Ugurlimehemet liberamente, giunto a Sivas mandò la sua donna con la famiglia minuta avanti insino in Amasia, per levar via ogni dubbio che potesse apportar la sua venuta, ed esso poi se ne venne dietro con 300 cavalli: e fu ricevuto e alloggiato onorevolmente, e Baiesit l'accarezzava e gli faceva solenni e magnifici conviti. Dopo alquanti giorni Ugurlimehemet si partí con la sua brigata, e giunto a Usuhuder il gran Turco gli mandò incontra onorevol compagnia; e passò a Constantinopoli, dove fu alloggiato onorevolmente, e provedutogli anche da vivere per lui e per la sua compagnia a spese del gran Turco. Il qual poi fece corte, ed essendo ridotto al luogo solito della sua audienza, venne Ugurlimehemet a corte per visitar il signore, che ancora non l'aveva veduto, e il gran Turco gli mandò incontra consiglieri e capitani, e ordinò ch'egli entrasse a cavallo nel secondo serraglio, nel qual vi suole entrar solamente il signore. Ed essendo smontato, gli fece dire ch'andasse alla sua presenza con la spada cinta, cosa che a niuno, per gran signor che sia, è conceduta, né anche a' suoi proprii figliuoli lo comporta. Entrato Ugurlimehemet, il gran Turco, levato da sedere, con bona ciera lo fece accostare, e volse che sedesse appresso di lui: e stettero per spazio d'un'ora in diversi ragionamenti, sempre chiamandolo col nome di figliuolo e facendogli assai offerte. E per quella fiata si partí senza richieder condotta né altro stato, ma poi, passati alquanti giorni, avendo piú volte visitato il signore, gli parve di domandargli condotta ne' confini dell'Ungaro, offerendosi d'esser sempre buono e fedel servitore. Il gran Turco gli rispose che voleva farlo re di Persia in luogo di suo padre, il qual era suo nemico, e datogli compagnia e modo per far principio lo mandò a Sivas, confine del dominio tra 'l gran Turco e Ussuncassan.
Giunto Ugurlimehemet al detto confine, poco stette che cominciò a far correrie e rubbarie, e danneggiar grandemente il paese di suo padre, il quale mandò gente per conservare il suo paese, non mostrando però di far gran conto di quest'impresa contra suo figliuolo; ma fece ben vista d'aver molestia e passione che se gli fosse ribellato e d'averlo perduto, e per questa cagione finse d'esser ammalato, e standosi alquanti giorni ritirato in camera, non voleva esser visitato se non da alcuni, de' quali gli pareva potersi fidare. E mentre che si va trattenendo con quest'astuzia, la fama si sparse insino a Constantinopoli che Ussuncassano era gravemente ammalato di maninconia, per essersegli ribellato il figliuolo. E crescendo tuttavia la fama del suo andar peggiorando nella malattia, alcuni de' suoi piú fidati, secondo l'ordine posto, diedero nome che Ussuncassan era morto, e furono espediti messi ad Ugurlimehemet, con lettere e segni secondo il consueto, dandogli aviso della morte di suo padre, e che dovesse andare a tor la signoria, prima che niuno degli altri due suoi fratelli, cioè Halul e Iacob, v'andasse. E acciò che fosse prestato fede alla cosa, furon fatte l'esequie per tutta la terra, e in tutt'il suo stato si teneva per certo che fosse veramente morto. Ugurlimehemet, avendo avuto tre differenti messi con segni secreti, secondo che s'usa in tal mutazion di stato, e tenutigli tutti tre e dati in guardia, s'assicurò d'andare a Tauris, e con poca compagnia in pochi giorni vi giunse: e andato al palagio per farsi signore, fu condotto dove era il padre sano, senz'alcun male, e fu ritenuto secondo l'ordine dato e fecelo morire, non avendo rispetto che fosse suo figliuolo.

Assambei va a predar la Giorgiania, e facendosi pagar denari e dar tributo, tornato in Tauris se ne morí, e un suo capitano ruppe li Mamalucchi.
Cap. 10.

Essendo in questa maniera passate le cose, Assambei, nell'anno 1475, se ne stette a riposare insino al'77, e dopo fece mettere in ordine un grand'esercito, dando fama d'andar contra l'Ottomano: ma in fatto egli andò a predare la Giorgiania. La sua gente poteva essere da venti in ventiquattromila cavalli e circa undicimila fanti; delle donne, de' putti, de' famigli e d'altri niente dico, che già di sopra n'ho fatto menzione. Avendo l'esercito camminato da sette giornate alla via di ponente, ci voltammo a man dritta verso la Giorgiania, nella qual entrammo, perciò che il signore aveva animo di saccheggiarla, non avendo li Giorgiani voluto dargli soccorso quando andò contra il Turco. Ma prima, secondo il costume, egli mandò innanzi li suoi corridori, che furono da cinquemila cavalli, i quali quanto piú potevano procedendo avanti andavano tagliando e bruciando li boschi, avendosi da passar per montagne e per boschi grandissimi.
Ed essendo passate due giornate dentro della Giorgiania, trovammo un castello detto Tiflis, ch'era luogo di passo, ma abbandonato, il quale avemmo senza contrasto alcuno. E passando piú oltre a Geri e ad altri luoghi circonstanti, che furono saccheggiati, sí come fu anche una gran parte del paese, il signor Pancrazio, insieme con un altro re di Congiurre, che confina con la Giorgiania, con altri sette signori mandò a domandare accordo e accordossi di pagar sedicimila ducati: e Assambei prometteva di lasciare il paese libero, eccetto che Tiflis, ch'egli lo volse tenere per esser luogo di passo. Le persone che furono prese erano da cinquemila. Fatto l'accordo e promesso di pagar certo tributo, Assambei se ne tornò in Tauris, e infermatosi nell'anno 1478 se ne morí, lasciando quattro figliuoli, de' quali tre erano d'un'istessa madre, e l'altro era figliuolo di quella di Trabisonda, che i tre fratelli lo fecero strangolare, che potea essere d'età di 20 anni, e si divisero la signoria tra loro. Dopo il secondo fratello de' tre, nominato Iacob Patissa, fece patti insieme col primo, detto Marco, onde il terzo se ne fuggí, e Iacob si fece padrone entrando alla signoria l'anno 1479.
Nell'anno poi 1482, giunte che furono le genti in Amit, città principal di Diarbee, s'intese come li schiavi erano venuti in Orfa e l'avevano messa a sacco, facendo di grandissimi danni a tutt'il paese. Il capitano d'Assambei, deliberato d'andar a trovarli, passò con le sue genti alcuni monti che sono tra Amit e Orfa, ed entrò nella campagna d'Orfa, lontano d'Amit tre giornate. Il che avendo inteso gli schiavi si misero in ordine, e camminando ambidue gli eserciti l'un contra l'altro, finalmente vennero ad azzuffarsi: e durò la battaglia fino a mezogiorno, ributtandosi piú volte or l'uno or l'altro esercito; ma li Persiani alla fine rimasero vincitori, e tagliando a pezzi piú della metà de' Mamalucchi, con molti signori, e seguitando li Persiani la vittoria, andorno ad Albir, e pigliatolo insieme con molti altri castelli, e fatti di molti bottini, se ne ritornarono in Tauris, dove trovarono il lor signor Assambei esser morto, nell'anno 1487, la vigilia dell'Epifania.



Iacob figliuolo d'Assambei, preso il regno, tolse moglie di natura lussuriosissima: e per far re l'adultero, gli dà il veleno, del quale muore anch'ella insieme con lui e col figliuolo.
Cap. 11.

Iacob Patissa, come già ho detto, dopo la morte del padre si fece signor di Tauris e della Persia, e pigliò per moglie una figliuola del signor di San Mutra, la qual era lussuriosissima. Ed essendosi innamorata in un signor de' principali della corte, cercava sceleratamente dar la morte al marito, però che, mancando egli, il barone veniva a succeder nello stato: onde, accordatasi insieme con l'adultero per dar la morte a Iacob, ordinarono fra loro un certo veleno artificiato. Dopo, avendo la trista meretrice apparecchiato un bagno secondo il consueto, con molti odori, sapendo il costume di suo marito, venne Iacob sultan e, chiamato un suo figliuolo d'otto over nove anni, con esso lui se n'entrò nel detto bagno, e vi stettero dalle ventidue ore insino al tramontar del sole. Uscito fuori Iacob ed entrato nel serraglio delle donne, la consorte, che gli aveva apparecchiato la bevanda avelenata, sapendo che Iacob sempre era solito di bevere nell'uscire del bagno, se gli fece incontro con un vaso d'oro nel quale era messo il veleno, mostrando di fargli molto piú festa del solito; ma egli, vedendola alquanto pallida in vista, entrò in suspizione, e massimamente per aver esso alla giornata veduti già di lei molti cattivi segni. Pur la malvagia femina sapea sí ben simulare e iscusarsi ch'egli in parte gli credeva, e nondimeno non restava senza sospetto, onde, mentre la donna gli andò innanzi cosí pallida porgendogli la coppa, Iacob le comandò che gli facesse la credenza. La donna, mossa da paura, non poté negarlo, e avendo bevuto lei, bevé anche il marito, dando poi a bevere al figliuolino. Questo fu alle ventiquattro ore, e fu di tanto potere il beveraggio che a mezzanotte tutti ne morirono. Intendendosi il seguente giorno la morte de' tre personaggi, tutti i baroni stavano in gran confusione, e la Persia era in gran movimento; e molti parenti di Iacob pigliarono assaissimi luoghi facendosene signori, come intenderete.
Morto Iacob Patissa, non v'essendo altri figliuoli d'Assambei, fu pigliata la signoria del 1485 per un barone parente di Iacob detto Iulaver, il qual, ancora che stesse in signoria tre anni, non fece però cosa di momento. Dopo lui successe un Baysingir, che stette signore due anni; venne dopo Rustan, d'anni venti, il quale signoreggiò sette anni. E in questo tempo il padre del Sofí fu morto, come poi anch'egli ne fu ucciso per mano d'un barone, con saputa della madre, che nel detto barone era innamorata, il qual aveva nome Agmat, che dopo la morte di Rustan si fece signore e stette in signoria cinque mesi. Poi che fu morto Rustan, la sua gente d'arme andò a trovare un suo capitano che si chiamava Carabes, che dimorava a Van, il qual, inteso ch'ebbe la morte e il successo, aspettato il tempo se ne venne con quella gente a Tauris, ed entrato nella terra si trovò col detto Agmat e tagliollo a pezzi. La signoria perveniva a un giovanetto nominato Alvan, che stava in Amit, parente d'Ussuncassan, onde egli fu chiamato dal popolo e fatto signore: ma poco vi stette, perciò che 'l Sofí lo cacciò fuori.


Sechaidar, padre del Sofí, va contra Rustan, re di Persia, ma ne riman vinto e morto; e Rustan manda a pigliar la moglie e tre figliuoli e gli dà in guardia, ma di nascoso son fatti fuggire.
Cap. 12.

Nel tempo che Rustan dominava in Tauris, Sechaidar, padre del Sofí, il qual avea per moglie una figliuola del signor Assambei, pervenendo a lui per via della donna l'eredità dello stato della Persia, deliberò di far esercito e scacciar Rustan, e cosí fece adunare di molte genti sofiane: e tutti lo seguivano, per esser egli capo d'esse, e anche per esser tenuto uomo santo, perciochè se ne stava nella città d'Ardovil, lontano da Tauris tre giornate alla via di greco, come un abbate con molti discepoli. Or, avendo egli fatto un esercito di ventiduemila persone, venne alla volta di Tauris per entrarvi, ma il signor Rustan, avendo già inteso l'apparecchiamento del nemico, aveva anch'egli congregato da cinquantamila persone. Ed essendo giovane mandò un suo capitano, chiamato Sulimanbec, all'impresa contra di Sechaidar; il qual, intendendo l'esercito nemico esser piú potente del suo, si ritirò a un luogo detto Van, di sotto dal Coi, giudicando dalla banda di ponente dover aver soccorso da altri eredi, ch'erano nemici di Rustan. Ma tanta fu la prestezza di Sulimanbec, capitano di Rustan, che Sechaidar fu constretto, senz'aspettar altro soccorso, di venir seco alle mani, e ordinati gli eserciti fecero crudelissima battaglia. Li sofiani combatterono come leoni, avvegna che ultimamente, dopo l'esser stato ucciso gran numero di gente d'ambedue le parti, quelli di Tauris fossero vincitori, e restasse morto Sechaidar con le sue genti. Dopo la rotta alcuni andorno cercando il corpo di Sechaidar, e fu ritrovato per un prete armeno e portato in Ardovil a sepelire, e in Tauris fu poi fatta gran festa per l'avuta vittoria.
Rustan, avuta la nuova della rotta de' nemici e della morte di Sechaidar, subito mandò in Ardovil a pigliar la moglie con tre figliuoli, e gli voleva far morire. Ma, per compiacere ad alcuni signori, furono liberati, tenendogli nondimeno sotto guardia in un'isola ch'è nel lago d'Astumar, dove abitano Armeni, e vi sono piú di seicento case e una chiesa detta Santa Croce, nella quale vi sono piú di cento galogieri ed evvi anche un patriarca. Quivi adunque furono posti i tre figliuoli di Sechaidar, ma la madre restò in Tauris e rimaritossi ad un barone nemico del suo già primo marito. Li figliuoli stettero tre anni nell'isola, ma poi, dubitando Rustan che non scampassero e facessero qualche adunazione di gente contra di lui, ed essendo anche persuaso da alcun de' suoi che gli facesse morire, mandò a pigliarli. E quel medesimo giorno che 'l messo gli richiese da parte di Rustan, furno consegnati dagli Armeni, benchè mal volentieri, perciochè già aveano posto loro grand'amore, e massimamente al secondo, nominato Ismael, per esser bellissimo e piacevolissimo. Poi che gli ebbero consegnati (vedete quel che fanno i cieli, che di ciò che le lor influenzie hanno determinato conviene che ne segua l'effetto), s'intromise uno de' primi degli Armeni, dicendo agli altri: "Noi avemo dati in preda questi figliuoli a questo messo, né abbiamo veduto comandamento alcuno ch'egli abbia dal signor Rustan; leggiermente potria essere che noi fossimo ingannati, ed essendo menati via senza avere altro comandamento, e fuggendosene altrove, ne riportaremo qualche grave scorno e travaglio, e ragionevolmente potria dire il signor nostro: "Dove avete il comandamento mio?' Sí che per mio parere io loderia che non gli dessimo altrimenti se costui non ne porta la scrittura, acciò la possiamo tenere per nostra cautela e sicurezza". Concorsero in questa opinione tutti gli altri, massimamente consegnandogli essi mal volentieri, onde fecero intendere al messo ch'andasse a torre il comandamento dal signore.
Ed essendo di lí a Tauris viaggio longo, egli stette piú di sette giornate innanzi che ritornasse. In questo tempo i fanciulli e la donna furono menati fuori di quell'isola una notte in una barca, e condotti nel paese di Carabas verso tramontana. Questo paese confina con Sumacchia e con Ardovil, ch'era del padre di questi figliuoli, e gli abitanti d'esso sono la maggior parte sofiani, e molto amavano il padre: quivi furono ascosti, né mai s'ebbe novella di loro, e vi stettero cinque anni. Ismael allora era d'età di nove anni, e quando tolse l'impresa di Sumacchia n'aveva quattordici finiti.

Come Ismael, figliuolo di Haidar, nascesse e fosse nutrito, il qual vien fatto capitano e va contra Sermangoli e lo rompe, facendosi padrone del suo stato; e andato alla volta di Tauris, se ne fece signore.
Cap. 13

In questo tempo di cinque anni questi figliuoli furono stimolati da molti amici del padre, da' quali spesso erano visitati, di far adunanza di genti per pigliar lo stato; e avendo essi trovato cinquecento uomini valenti e ben disposti, e tirando quasi tutt'il paese con loro, volsero tutti Ismael per capitano, per esser egli animoso, gagliardo e piacevole. Questo Ismael quando nacque venne fuori del corpo della madre co' pugni chiusi e pieni di sangue, il che fu cosa notabile, e il padre vedendo ciò disse: "Certo costui sarà un mal uomo", e deliberò insieme con la madre ch'egli non fosse nodrito. Ma Dio non volse, perciochè, mandando per farlo morire, coloro che lo portavano, vedendolo cosí bello, si mossero a pietade e lo notrirono. In capo di tre anni, essendo venuto il figliuolo di sorte che mostrava quel che dovea venire, deliberarono di mostrarlo al padre, e con occasione glielo fecero vedere. Ed essendogli molto piaciuto, dimandò chi egli era, ed essendogli detto ch'era suo figliuolo, n'ebbe piacere e accettollo, mostrandogli alla giornata molto amore.
Or, essendo ragunati li detti cinquecento fanti e cavalli, passarono un fiume grande, che va alla volta di Sumacchia, detto Cur, che entra nel mar Caspio. E caminando alla volta di Sumacchia, dove aveano intendimento, il signor di quel luogo, il cui nome era Sermangoli, ricercò i suoi baroni per far esercito e andargli contro, uno de' quali disse: "Signor, lassa il carico a me, che certamente io ti porterò la testa di costui", e fatto settemila persone gli andò contra. Li sofiani, veduto all'incontro d'una campagna la gente di Sumacchia con gran possanza venire alla volta loro, si ritrassero sopra una collina ch'era nella detta campagna. Quelli di Sumacchia circondarono la collina per assediar la gente nemica, ma la fortuna fu propizia al Sofí, che gli urtò da quella parte che gli parve piú debile, e con animo di morir combattendo messe tanto romore che subito millecinquecento persone nemiche si umiliarono, accommodandosi al suo servizio, e il resto furono morti. I sofiani si fornirono d'arme e di cavalli e fecero molti altri bottini, seguitando la vittoria alla volta di Sumacchia. Il signore, intesa questa rotta, fece tutto 'l suo sforzo e uscí con altre sue genti alla campagna, ma, andando senza ordine alcuno, furono rotti, e il signor Sermangoli preso, al quale Ismaele donò la vita. E avendo avuta la città in suo potere, fece molti doni a' suoi soldati; ebbe anche tutti i luoghi del paese di Sermangoli, che sono molti.
Fattosi Ismael signore del paese, assediò un castello detto Pucosco, ch'è verso Tauris, luogo molto ricco, e pigliollo per forza: e nella battaglia fu morto il fratello suo minore, nominato Bassingur. Trovò in questo luogo molte ricchezze, le qual tutte donò a' suoi soldati, onde la fama era sparsa come Ismael figliuolo di Sechaidar era entrato in stato, ed era liberale di modo ch'ognuno gli diventava affezionato, e concorreva a lui tanta gente ch'era cosa incredibile. E trovandosi al suo servizio forse quarantamila persone, deliberò di voler andare alla volta di Tauris, ma, avanti ch'egli si mettesse in cammino, volse intendere quello che volevano far i Greci, però che erano tenuti all'imperio di Persia; e avuta risposta che essi non volevano impacciarsi in cosa alcuna, ma esser amici di ciascuno, s'incamminò a Tauris, facendo grandissime crudeltà, onde tutti erano posti in grande spavento, né ardivano pigliar l'arme contro di lui. E vedendosi Alvan, ch'allora era signore, esser senza aiuto, né potersi difender dalla furia del nimico, astretto da necessità, pensò di levarsi: pigliato adunque il suo avere, con la moglie andò in Amit, dove stava per avanti.
E cosí il Sofí entrò in Tauris l'anno 1499, come anche in quest'istesso anno cominciò a guerreggiare, e in sei mesi egli si fece signor di Tauris. E nel suo entrarvi fu usata gran crudeltà verso la contraria parte, perciochè fu tagliata a pezzi molta gente, e dottori e femine e fanciulli, onde tutti i luoghi circonstanti vennero a dargli ubidienza, e tutta la città levò la sua insegna, ch'è la berretta rossa. E in questo conflitto furon morte ventimila persone. Egli fece poi trar fuori molte ossa delle sepolture de' signori già morti e fecele abbrusciare; fece morir la propria madre, ricordandosi ch'ella, secondo che gli era stato racconto, avea voluto farlo morir quando nacque, e anche per esser nata della stirpe della parte contraria.

Ismael muove guerra a Moratcan, lo rompe e fassi signore; dopo la vittoria è consigliato
a prender moglie e la prende. Fa poi l'impresa di Bagadet e ne vien vittorioso,
restando padrone di molto paese.
Cap. 14.

Avendo Ismael dimorato tutto il verno in Tauris, a tempo nuovo, ch'era del 1500, deliberò di andar contro d'un Moratcan, che si era fatto signore del paese d'Erach dopo la morte di Iacob: il qual paese tiene Spaan, Ies e Syras, con molte altre cittadi che già stavano sotto 'l governo dei re di Persia. Onde fece un esercito di ventimila persone, tutti valenti e tutti sofiani, e incaminatosi verso 'l paese del nemico intese che 'l sopradetto Moratcan stava apparecchiato con cinquantamila persone; nondimeno egli non volse restare d'andarlo a trovare insino a Chizaron, essendosi già ridotto molto lontano da Tauris, ed è di là da Syras, che confina col paese di Carason o sia di Gon. Quivi vennero alle mani, e finalmente fu morto Moratcan, e tutte le sue genti rotte e malmenate, e Ismael si fece signore di tutti quei regni.
Dopo questa vittoria, avanti ch'egli ritornasse in Tauris, tutti i suoi lo consigliavano che dovesse prender mogliere; e mentre sopra di ciò si andava considerando, non si trovava donna che fosse stimata degna d'un par suo. Finalmente, dopo molti discorsi fatti, fu detto che un certo barone si trovava avere appresso di sé una signora, ch'era figliuola di una figlia di sultan Iacob, che fu figliuolo d'Ussuncassan, la qual era bellissima e si chiamava Taslucanun, laonde egli mandò a quel barone, chiedendogli la detta figliuola. Il barone rispose per i messi ch'egli non l'aveva, e facendo instanzia Ismael di volerla, il barone fece vestire un'altra donna in luogo di quella, dicendo non avere altra in casa. I messi, vedendo che quella non aveva i segni ch'erano stati dati loro, dissero non esser quella ch'essi volevano, onde fecero anche venire tutte le fantesche, tra le quali era Taslucanun, ma, non la conoscendo, se ne ritornarono senza conclusione. Il Sofí ordinò che ritornassero e di nuovo si facessero mostrar le fantesche; il che avendo fatto, la riconobbero fra le fantesche tutta sporca e imbrattata, e con molta allegrezza la fecero vestire e la menorno con esso loro. Il signor Ismael, quando la vidde, disse: "Questa è quella che m'è stato detto", e pigliolla per moglie. Ma per esser il signor giovane di quindici o sedici anni, egli la consegnò a un barone, che la tenesse in buona guardia. Ed essendo stato cosí tre anni, il signore gliela richiese e disse al baron: "So che tu in questi tre anni hai avuto da far con lei a modo tuo". Egli rispondendo disse: "Signor, non lo credete, perciochè piú tosto m'averei fatto ammazzare". Il Sofí gli disse: "Tu sei stato un gran pazzo", e pigliossela per cara.
Acquistato ch'ebbe il signor Sofí il paese di Erach, se ne tornò in Tauris nell'anno 1501, e fece di molti trionfi per la vittoria avuta. L'anno seguente deliberò anche di far l'impresa del paese di Bagadet, il quale è lontano da Tauris trecento miglia alla via d'ostro e garbino, ed è gran paese; e fatto l'esercito v'andò. Il signor del paese l'aspettava con molta gente, non già in campagna ma dentro della città di Baldac, che anticamente era detta Babilonia Magna, per mezo della qual passa il fiume Eufrate. Accostandosi il signore a due miglia, una notte cadde una gran parte delle mura, e fu di cosí gran terrore a tutta la città che ognuno scampava. E fu parimente il signore sforzato a fuggirsene, andando a traverso de' deserti dell'Arabia deserta, che sono sedici giornate lontano, da Baldac a Damasco; poi se n'andò in Aleppo, dove essendo dimorato un certo tempo, il signor Aladulan gli diede una sua figliuola per moglie, e quivi si fermò. Il Sofí stette in Baldac ed ebbe il paese di Bagadet; poi pigliò il paese di Mosul e Gresire, ch'è una gran città intorno alla quale passa il Tigris: questo paese è la Mesopotamia. Avendo il Sofí fatto questi acquisti, nell'anno 1503 tornò a Tauris, e fece gran feste e trionfi per la vittoria avuta. Or, stando egli in Tauris, ed entrato nell'anno 1504, intese che 'l signor di Gilan, mentre ch'egli stava fuori in Mosul e Bagadet, gli aveva rotta la pace; e, deliberato di vendicarsene, apparecchiò l'esercito e andossene alla volta sua. Esso, ciò intendendo, gli mandò subito ambasciatori incontro, chiedendogli perdono: e cosí con gran difficultà, dopo molti prieghi, il Sofí gli perdonò, ma gli raddoppiò il tributo. E ritornato indietro se ne stette in ozio e in quiete insin all'anno 1507.

Ismael va contra Alidoli, rovina il suo paese e le sue genti; Alvan, scampato di Tauris, è incatenato; il figliuolo d'Alidoli, presagli la sua città, è ucciso. Opponsi poi al gran Tartaro, acciò non passi in Persia, e tornato in Tauris fa grandissime feste e giuochi.
Cap. 15.

Trovandosi il signor Sofí in suo dominio una parte del paese di Diarbee, ch'è Orfa, Moredin, Arsunchief e altri luoghi, e intendendo ogni giorno che Abnadulat faceva correr le sue genti a quelle bande danneggiando il paese, e che teneva la città di Cartibiert, standovi dentro un suo figliuolo, deliberò di far l'impresa contra il detto Abnadulat, perciò che questi luoghi erano stati sempre del regno di Persia, ma il detto Alidoli, dopo la morte di Iacob, stando la Persia in divisione, se n'era impatronito: onde, raccolte settantamila persone, s'inviò verso Arsingan, ch'è bellissima città e confina con la Trabisonda e con la Natalia. Quivi giunto si fermò per spazio di quaranta giorni, dubitando che l'Ottomano e il soldano volessero defendere Alidoli, per esser ne' confini d'ambedue. E stando in questo dubbio mandò due ambasciatori, uno all'Ottomano imperator di Constantinopoli, chiamato per nome Culibech, l'altro al soldano del Cairo, detto Zaccarabech, promettendo per la sua testa e per li suoi sacramenti di non far loro danno alcuno, ma solamente voler andar a destruzione del nemico suo Alidolit.
In capo di quaranta giorni Ismael si levò d'Arsingan, dal qual luogo si suole andar in quattro giornate nel paese d'Alidoli: ma egli non volse pigliar quel cammino, volendo andar a Caisaria, ch'è luogo dell'Ottomano, dove si forní di vettovaglie, pagandole tutte. E fece gridar per tutto 'l paese che ognuno sicuramente portasse vettovaglie al campo, che sariano pagate, e chiunque togliesse cosa alcuna senza danari fusse morto. In questa città egli stette quattro giorni, e andossene poi in Albustan, dove è una bella campagna e un fiume, ch'è di Alidoli; di qui in Maras, attraverso dei monti, son due giornate. E abbruciato tutto 'l paese d'Albustan, andarono a Maras, ma Alidoli s'era partito e ritirato al monte in luoghi sicuri. Questi monti si chiamano Carathas, dove è una strada sola molto stretta. Ismael rovinò il paese e ammazzò molta gente, che di tempo in tempo discendeva da' monti per assalire i sofiani, essendogli e dalle sue guardie e dalla gente del paese stata scoperta.
Il tempo che Ismael entrò nel paese di Alidoli fu di luglio, nel 1507, e vi stette fino a mezo novembre. Dapoi per le nevi e per li freddi si levò per tornare in Persia, e partito per Tauris se n'andò a Malacia, dove stava un suo governatore, detto Amirbec, che teneva il suggello del Sofí ed era uomo di grande auttorità. Costui aveva preso il sultan Alvan, che scampò di Tauris, a questo modo: venendo egli da Mosul con quattromila combattenti per trovare il Sofí, ed essendo per venire in Amit, dove stava questo Alvan, finse d'esser andato quivi per soccorrerlo per la ritornata del Sofí, per la qual cosa egli fu accettato in Amit; ed essendo entrato nella terra, gittò una catena al collo di Alvan e fecelo prigione d'Ismael, conducendolo a Malacia: e io stesso lo vidi con la catena; e poco dopo fu fatto morire. Fatto questo, Ismael si levò e passò l'Eufrate, il qual fiume passa dieci miglia lontan da Malacia verso levante, e andò in Cartibiert, dove signoreggiava un figliuol d'Alidoli: e quel luogo era molto ben fornito di gente e di vettovaglie, ma poco gli valsero, perciochè gli fu presa la terra e tolta la vita.
Andarono poi alla volta di Tauris, ma non furono tanto a tempo che la neve non gli sopragiugnesse lontan dal Coi sei giornate, il che fu cagione che morissero di freddo molte persone e cavalli e cameli, perdendo assai bottini ch'avevano fatti nel paese d'Alidoli. Pur alla fine giunsero al Coi, in un palazzo bellissimo che Ismael aveva fatto fabricare, e ivi stettero fino a tempo nuovo. Se n'andò poi in Tauris, e quivi si riposò quella state. E l'anno che venne, ch'era il 1508, gli bisognò fare un'altra impresa, perciochè Iesilbas, signore di Sammarcant, detto gran Tartaro, i cui popoli son chiamati quelli dalle berrette verdi, fece grandissimo esercito e venne nel paese del Corasan e Strave, ch'erano luoghi suoi, pigliando poi degli altri d'alcuni signorotti vicini, per venire contro il Sofí. Ma Ismael fu prestissimo, andando egli con grossissimo campo a Spaan, il qual luogo è lontan da Tauris quatordici giornate per levante: e ivi fermossi. Il Tartaro intendendo questo non scorse piú oltra, e pensò d'ingannare Ismael con dimandargli il passo per andare alla Mecca: ma egli, considerata l'astuzia, gli negò il passo. E stando il Tartaro in Corasan, Ismael se ne stava in Spaan, per veder gli andamenti del nimico. Essendo passato l'anno del'8, i Tartari se ne tornarono al lor paese, e Ismael similmente a Tauris, per la qual tornata gli drizzarono tutti i bazzarri e adornarono i palazzi, facendo grandissime feste e giuochi, come qui di sotto intenderete.
Il signor Sofí aveva fatto mettere una grande antenna nel misdano, che vuol dir nella piazza, sopra la quale aveva fatto mettere un pomo d'oro: poi coi loro archi e con alcuni bolzonetti fatti a posta gli tiravano correndo, e chi lo gittava a terra se lo toglieva per suo. Ne mettevano anche d'argento, insin alla somma di venti, dieci d'oro e dieci d'argento, e poi dopo ogni pomo che veniva gittato Ismael si riposava un pezzo, cibandosi di diverse confezioni e vini delicatissimi. E mentre ch'egli giuoca, sempre gli stanno innanzi due ragazzi belli come angeli, uno de' quali tiene in mano un vaso d'oro con una coppa, e l'altro due scatole di delicate confezioni. Parimente, quando egli giuoca, tien sempre mille provisionati alla guardia della sua persona, oltra quelli che stanno d'ogn'intorno a veder giuocare, i quali possono essere piú di trentamila tra soldati e cittadini. Poi che ha giuocato, egli insieme co' baroni se ne va a cenare a un palazzo ch'è fuori della terra: è ben vero che i baroni cenano tra loro; e questo palazzo lo fece fabricare il signor Assambei.
Questo Sofí è bellissimo, biondo e graziosissimo, e non è di molto grande statura, ma egl'ha una leggiadra e bella persona: è piú tosto grasso che magro, e largo nelle spalle. Ha la barba di pelo rosso, ma porta solamente mostacchi; adopera la man sinistra in cambio della destra, ed è gagliardo come daino, e piú forte ch'alcun de' suoi baroni: e quando egli giuoca all'arco, dei dieci pomi che sono gittati esso ne gitta sette; e in tanto ch'egli giuoca sempre si suonano varii stromenti e cantansi le sue laudi.

Ismael, essendo con l'esercito nel paese del Carabas, spedisce due capitani all'impresa di Sumacchia; ed egli se n'andò verso il mar Caspio, pigliando molti luoghi, e tra gli altri il castello della città di Derbant, luogo d'importanza.
Cap. 16.

Stato che fu Ismael quindici giorni in Tauris, levossi del 151O e andò col suo campo al Coi, dove stette due mesi. E l'anno 1509 aveva deliberato d'andar contra Sermangoli, al quale oltra la vita avea donato anche lo stato di Servan e di Sumacchia: ma quando egli andò contra Tartari, costui trapassò le convenzioni della pace ch'aveva seco. E per ciò, ragunato il suo esercito, s'incamminò verso il paese del Carabas, dov'è una campagna che sí grandemente si distende che a dirlo ognuno stupiria, nella quale è un castello nominato Canar, ch'ha molti villaggi sotto di sé, dove si fanno le sete che dal luogo sono chiamate canari. E per esser questo paese grassissimo vi si fermò otto giorni, e quivi fece due capitani, uno chiamato Dalabec, l'altro Bairabec, dando loro il carico dell'impresa di Sumacchia, facendo ad ambedue dono d'essa. Ma, essendovi andati, sí com'era stato loro imposto, trovarono la città vota e tutti essersene fuggiti. Il signore era andato nel castello Culustan, ch'è grande come una città e inespugnabile, per esser situato sopra un monte; ma il castellano aveva intelligenza, se Ismael veniva in persona, di dargli il castello, il qual è mezo miglio lontano dalla città. A questo cosí fatto luogo s'accamparono li due capitani con diecimila valent'uomini per tenerlo assediato, poi che non si poteva battere da alcuna banda, per non esservi gl'ingegni da fare trabacchi né artiglieria.
In questo tempo Ismael si partí da Canar e andò a Maumutaga, ed ebbe quel castello, che sta sopra la riva del mar Caspio ed è porto di Tauris, lontano otto giornate: e quivi si guadagnò molto; poi se n'andò per la riva di quel mare, per guadagnar tutti gli altri luoghi del paese di Servan. Questa riva da Maumutaga, fino in Derbant dura sette giornate, e vi sono molte terre e castelli; Sumacchia è una giornata lontana dal mare. E camminando giugnemmo a un luogo detto Baccara, ch'è lontano da Maumutaga quattro giornate e da Sumacchia due. Questo è porto del Tauris, ed è chiamato Baccuc, e anticamente era il primo luogo di quel mare; ed è un bonissimo porto, dal qual è chiamato mar di Baccuc, benchè altri dicano Caspio da' monti Caspii, altri il mare Ircano da Ircania, ch'ora è chiamato paese di Strava, donde vengono le sete stravagi.
Camminando lontano da Baccara una giornata si truova Sirech, la qual è fortezza sopra un monte: e coloro che v'erano dentro stettero tre giorni sul patteggiare con Ismael, il qual alla fine, avendo confermato loro i patti, vi mandò sessanta uomini dentro, raffermando il primo castellano. Ma perchè li sopradetti sessanta uomini sofiani, usando molte disonestà, si portavano molto male, tutti furono tagliati a pezzi da coloro che prima stavano nel castello, i quali poi per paura se ne fuggirono la notte su per quei monti altissimi, e il castello tutto fu rovinato. Poco di là v'è una città detta Sebran, che non ha mura, né v'era dentro alcuno, che tutti se n'eran fuggiti, chi a posta per disabitare il paese e chi per paura. Partito di lí se n'andò a Derbant in quattro giorni, e si trovò tutta la gente esser fuggita, chi fra' Tartari, chi in capo del mar Caspio e chi in quelle alpi, talchè si teneva solo il castello, ch'è grande, forte e fabricato mirabilmente, e tutte le torri e le mura son come nuove, sopra le quali attorno attorno erano lancie, bandiere e molta gente. Questo castello ha due porte, che stavan murate di grossi sassi con buona calcina.
E avanti ch'io mi estenda piú oltre, voglio prima dirvi alcune cose. La città di Derbant (alcuni dicono Tenicarpi) è posta sopra il mar Caspio, appresso d'un'alta montagna la qual è detta monti Caspii, ed è fra 'l mare e 'l monte, né si può passar per andare in Tartaria né in Circassia se non per questo luogo. Appresso di questo monte è una spiaggia circa un miglio, dal mare al monte, dove sono due cortine di muro, che comincian dal mare e vanno al monte, lontano mezzo miglio l'una dall'altra. Entrano le dette cortine tanto in mare che si fondano in due passa d'acqua, di modo che né anche si può passare al monte, sí che né a piedi né a cavallo si può andare se non per le porte. Tra questi due muri vi sono infinite abitazioni, per esser porto di mare, dove stanno molti navili che vanno alla volta di Citrachan e d'altri luoghi: e già solevano aver navili grandi d'ottocento botte, ma ora ne tengono solamente di dugento. Sopra 'l monte v'è un castello fortissimo, al quale si pose il campo del signor Sofí. Passata questa città, andando per ponente, si va tra 'l mare e il levante per la spiaggia di sessanta miglia, poi si volta a man manca e la montagna s'allarga dal mare, dov'è sopra 'l monte Santa Maria di monte Caspio. Ma di ciò non voglio trapassar piú oltre, parendomi che in questo luogo non sia a proposito.
Il Sofí dimorò circa venti giorni, sempre combattendo il castello, dove furon fatte tre cave per entrarvi, ma niuna poté avere effetto. Cavarono poi tutto il fondamento d'una torre e la puntellorno con legni, e avendogli dato il fuoco, si vedeva andar nell'aria gran fumo: il che vedendo, il castellano mandò da Ismael a mezanotte domandandogli di rendersi, con patto che fussero salve le persone e l'avere; e vedendo Ismael che 'l fuoco non operava molto ne restò contento, e concessegli quanto aveva richiesto. La mattina seguente s'ebbe il castello, nel quale erano assai vettovaglie, munizioni e armature, tra le quali ne viddi io molte che furono portate alla presenza del signore.

Molti signori danno ubbidienza a Ismael, il quale, poi che fu ritornato a Tauris con gran trionfo, di nuovo esce in campagna contra il signore di Sammarcante, e lo rompe e fagli tagliar la testa; a' figliuoli si fa prometter ubbidienza, e avendogli licenziati se gli ribellano.
Cap. 17.

Pigliato il castello, vi si stette otto o nove giorni a rinfrescar le genti, e in questo tempo molti signori circonstanti vennero a umiliarsi, mettendosi la berretta rossa e prestando ubbidienza al Sofí; il qual poi se ne ritornò in Tauris, per la cui tornata furon fatti grandi apparecchi e ornamenti di bazzarri, e tutta la città stava in trionfi, facendo molte feste secondo la loro usanza. Questo signore è poco meno ch'adorato, massimamente da' soldati, tra i quali molti sono che senz'armatura combattono, contentandosi morire per il lor signore, combattendo col petto nudo, gridando: "Schiac, Schiac", che in lingua persiana vuol dire "Dio, Dio"; alcuni lo chiamano profeta: certo è che quasi tutti tengono ch'ei mai non debba morire. E stando io in Tauris, intesi che 'l signore avea per male quest'adorazione, e dell'esser chiamato Dio.
L'usanza loro è di portare una berretta rossa ch'avanza sopra la testa mezo braccio, a guisa d'un zon, che dalla parte che si mette in testa viene a esser larga, ristringendosi tuttavia sino in cima, ed è fatta con dodici coste grosse un dito, che vogliono significare li dodici sacramenti della lor legge; né mai si tagliano barba né mostacchi. Il vestimento loro è come fu sempre; l'armature son corazze di lame dorate, fatte di finissimo acciaio di Syras. Hanno barde di cuoio, ma non come le nostre: sono di pezzi come ale, e ingiuppate come quelle di Soria. Hanno elmetti, o sian berrette, d'una grossa maglia. Poi ciascuno usa d'andare a cavallo, chi con lancia e spada e una rotella, e chi con un arco e freccie e una mazza.
Essendo il signor in Tauris, nel tempo del verno vennero tre ambasciatori negri, i quali furono molto onorati dal detto signor Sofí; e fatta la loro ambasciata se ne tornarono dal lor signore con molti doni. Standosene Ismael sí com'abbiamo detto, gli vennero nuove che Iesilbas, signor di Sammarcant, col capitano Usbec, con potentissimo esercito aveano danneggiato il paese d'Hirac, ch'è Iespatan e altri luoghi: onde egli deliberò farne vendetta, e uscito alla campagna ordinò che tutta la sua gente fusse a Cassan, ventidue giornate per levante da Tauris, e quivi giunto fece la massa, per esser luogo molto abbondante di vettovaglie. Questa terra ha mura di pietra e volge tre miglia, e vi si fanno molti lavori di seta e di bambagio. Or, ragunato ch'egli ebbe centomila persone, intendendo che anche il nimico era con grossissimo esercito, sí com'avea scritto il vescovo armeno, volse andare ad incontrarlo, avendo grandissimo sdegno contra questi Tartari, perciò che, quando vennero l'altra volta, fu fatta la pace con loro, ma non passò l'anno ch'essi la ruppero. Cosí Ismael andò contra al nimico esercito, che stava a' confini d'Hirach, ch'era in Strava: e questo fu dell'anno 1501.
Levatosi adunque da Cassan insieme col suo esercito, se n'andò a Spaan, quattro giornate di là da Cassan; poi scorse piú innanzi animosamente, desiderando trovare il nimico, il quale, intendendo che Ismael veniva, si ritirò a un fiume detto Efra, ch'anticamente era chiamato Iarit, il qual nasce da un lago detto il lago di Corassan. In mezo del fiume v'è una città detta Chiraer, dentro della quale si misero i Tartari, facendo testa contra la gente del Sofí. Ed essendo sopragiunto Ismael, accampossi poco lontano da loro, e apparecchiandosi per combattere, il signore esortava tutti i suoi, e per le gran promesse tutti s'erano inanimati al combattere. Però, fatte tre squadre delle genti sofiane, fu data la prima a Busambet, signor di Sumacchia, la seconda a Gustagielit, la terza era del signore; e il simile fecero anche i Tartari.
Il giorno seguente il signor Sofí fece sonar tutti i suoi stromenti da battaglia, gridando tutti: "Viva Ismael nostro signore", di modo che a un'ora di giorno li due eserciti s'affrontorno, e nel primo assalto li Tartari ributtorno la squadra del Sofí, e n'ammazzarono assai, gridando sempre. E crescendo tuttavia i Tartari, di maniera che 'l Sofí vedeva quasi la sua perdita, egli si pose tra i primi, entrando nella battaglia coraggiosamente e dando animo a' suoi soldati, ch'erano smarriti per la rotta del primo squadrone: i quali, vedendo il lor signore combattere, si rimisero e menarono le mani virilissimamente contra li Tartari per quattro ore, e misero in fuga la squadra della quale era capo Usbec, e dopo lui il medesimo fecero gli altri, sí che il Sofí ne riportò l'onore, rimanendo vittorioso contra il nimico tartaro, com'anche nell'altre imprese ha fatto mostrando sempre il suo valore e virtú. Fu pigliato Usbec e Iesilbas co' figliuoli, e furono loro subito tagliate le teste, delle quali Ismael ne mandò una al soldano, l'altra al Turco. In questa giornata fu fatta tanta uccisione d'ambedue le parti, che in alcun tempo mai non è stata fatta in Persia la maggiore. Non fece morire i figliuoli, ma, dandogli in custodia, levò loro tutta la signoria. Venne alla sua ubbidienza Strava, Rassan e Heri, con altri luochi vicini. Quando il Sofí volse levarsi per venir via, fece venir alla presenza sua i figliuoli di Iesilbas, e disse loro: "Voi sete stati figliuoli d'un gran signore, il quale, per aver mancato della sua fede e aver danneggiato i miei regni, gli son venuto contro e hollo vinto e fatto morire; ma a voi dono la vita e lasciovi andare nel paese vostro, con questa condizione, che leviate la beretta rossa, e i vostri confini siano questo fiume". I giovani risposero: "Signor, siamo contenti di far quanto vuol tua signoria, e renderemoti ubbidienza", e cosí furono licenziati e se n'andarono a Sammarcant, e noi tornammo a Cassan, e quivi si stette tutt'il verno del 1510.
Quando giunsero i giovani a Sammarcant, andò la nuova a un loro avo materno come essi avevan promessa ubbidienza al Sofí (questo loro avo è uno de' sette soldani della Tartaria), e andato a trovarli disse: "O insensati, voi avete vergognato il nome nostro, levando l'insegna d'un cane che non è né cristiano né macomettano", e adirossi grandemente con esso loro. I giovani rispondendo dissero: "Abbiamo fatto il tutto sforzati, avendo veduto nostro padre morto, noi prigioni, lo stato preso e malmenata la gente"; e mutati d'opinione portarono la beretta verde, e l'avo promise loro rifar nuove genti per andar contra il Sofí. L'anno del '12 questi figliuoli insieme col loro avo fecero grande esercito e vennero nel paese del Corassan, posseduto dal Sofí, e pigliarono la città di Chirazzo, tagliando a pezzi tutti li sofiani; e seguendo la vittoria presero altri luoghi assai. Di che essendo venuta la nuova al Sofí, che stava col suo esercito a Coraldava, subito levossi e fece d'ogn'intorno genti, e andò contra questi delle berette verdi, e cacciolli del paese del Corassan. Ed essendo essi di là dal fiume Efra verso il mar Caspio in certi monti, non parve al Sofí di seguitargli piú, e se ne tornò a Chirazzo, lasciandovi un suo figliuolo di quattro anni, insieme con un valoroso e savio capitano; ed egli se ne venne a Tauris, lasciando anche tutto l'esercito, per dubio che i Tartari non ritornassero.

Alcuni signori persiani chiamano l'Ottomano in Persia contra 'l Sofí; vi va con gran numero di gente, e vennero a giornata con lui, e rimasto vittorioso se ne ritorna in Amasia.
Cap.18

Stando il Sofí in Tauris, furono molti de' suoi subditi signori de' paesi vicini al Turco che, veduto l'esercito esser restato a Corassan, s'intesero con l'Ottomano e chiamaronlo all'impresa della Persia: che senza questi il Turco non si saria mai assicurato d'andarvi. Essendo adunque stato chiamato da tali signori, e massimamente da' Curdi, nimici del signor Sofí, che stavan ne' monti di Bitlis, i quali, sapendo che i Tartari erano potentissimi, si credevano che 'l Sofí fusse stato preso, deliberò del 1514 far esercito e andar in Persia per rovinarla, dubitando che, se 'l Sofí avesse avuto vittoria contra i Tartari, facilmente si saria accordato col soldano del Cairo a' danni suoi. E cosí levossi da Constantinopoli, e con gran numero di gente se n'andò in Amasia, e quivi, messo in ordine tutto ciò che bisognava, nel mese di maggio s'incamminò alla volta del Toccato.
E sarà forse a proposito dirvi quivi la distanza delle miglia d'alcuni luoghi da l'uno a l'altro: primieramente adunque da Constantinopoli in Amasia vi sono cinquecento miglia; di qui al fiume Lais, ch'è Sivas, passando pel paese del Toccato, vi sono 150 miglia; da Lais, ch'è principio dello stato del Sofí, insino all'Eufrate son cento miglia; di qui fino a Carpiert ottanta, ad Amit cinquanta; di qui a Bitlis dugentoquaranta, da Bitlis al lago cinquanta. Il lago è lungo cento, dal qual capo al Coi sono cinquanta, dal Coi a Tauris 75; per il paese del Sofí settecentoquarantacinque fino in Tauris, e da Constantinopoli in tutto milletrecentonovantacinque.
Passato ch'egli ebbe il Toccato, andò a Sivas e poi nel paese d'Arsingan, facendo bottini grandissimi e mandando molta gente in Amasia e in Constantinopoli, come sono artefici e simili, e anche uomini da conto. Intendendo questo il Sofí, stando in Tauris e avendo lasciato l'esercito a Corassan, deliberò far piú gente ch'egli poteva, onde spedí subitamente due gran capitani nel paese di Diarbee, l'uno detto Stugiali Mametbei, l'altro Carbec Sarupira, i quali andati fecero circa ventimila persone: e con questa gente se ne vennero al passo dell'Eufrate. Ma, intendendo che Selino era potentissimo, non parve loro d'aspettarlo, ma ritornando ne vennero al Coi, dove è una valle assai grande, come campagna, nominata Calderan, e quivi si fermarono ed eravi il Sofí in persona. E cosí stando, il Turco veniva tuttavia innanzi, di modo che giunse poco lontano da questo luogo, rovinando e bruciando tutt'il paese per il quale egli passava.
Or, essendo partito il signor Sofí per Tauris, volendo far provisione d'altra gente, parve a' due capitani, vedendosi approssimato l'esercito nimico, di volere affrontarlo animosamente, come fecero, e con tanto furore che non si potrebbe dire. Dall'altra parte i Turchi combattevano astretti da necessità, sí perchè già mancavano loro le vettovaglie, e sí anche perchè, se venivano rotti, tutti sariano stati tagliati a pezzi. Alli 23 d'agosto adunque nel 1514 la prima squadra sofiana ch'investí, ch'era Stugiali Mametbei con la metà delle genti, riportò l'onore contra de' nimici, ch'erano tutte le genti della Natolia, rompendole e malmenandole. Ma, sopragiugnendo Sinan bassà con le sue genti, ch'erano della Romania, furono morti infiniti uomini, e alla fine fu rotto lo squadrone di Stugiali, ed egli preso e tagliatoli la testa, e mandata poi al Sofí. In questo entrò il secondo squadrone de' Persiani, e coraggiosamente combatterono mettendo in fuga li nimici, per modo che 'l Turco fu astretto col suo campo ritirarsi ov'erano i giannizzari e l'artigliaria, stando le sue genti quasi perdute e rotte: ma per la virtú di Sinan bassà si rinfrancarono, e furono rotti li sofiani, e perdettero tutti li padiglioni, e fu pigliata una moglie del Sofí. Essendo perduto tutt'il suo esercito, ambidue li capitani furon morti, ma l'uno de' due, nominato Carbec, avanti che morisse fu menato al signor turco, il qual gli disse: "O cane, chi sei tu, ch'hai avuto animo di venirmi contro per contrastar alla nostra signoria? Non sapete che nostro padre e noi siamo in luogo del nostro profeta Macometto, e Dio è con noi?" Risposegli il capitano Carbec: "Se Dio fusse stato con voi, non saresti venuto a combattere contra del mio signor Sofí, ma credo che Dio t'abbia lasciato dalla sua mano". Allora Selin disse: "Ammazzate questo cane". E il capitano replicò dicendo: "Ora so ch'è il tempo mio; ma tu, Selino, apparecchia la tua anima un altr'anno, che 'l mio signore ucciderà te come al presente tu fai uccider me", e fu morto.
Il Turco dopo questa vittoria si riposò al Coi, per esser morte assai delle sue genti. E la nuova della rotta andò in Tauris al signor Sofí, il qual subito, con quelle genti ch'aveva e ch'erano scampate, con la sua moglie detta Tasluchanun e con le sue ricchezze andò in Casibi per levar un altro esercito e venir contra 'l Turco: questo luogo è sette giornate lontano da Tauris per la via di levante. Le genti di Tauris, vedendo partir il lor signore, dubitarono del Turco, onde gli mandorno due ambasciatori e molti doni. Il Turco poi se ne venne in Tauris, e subitamente fece raccolta di settecento famiglie di diverse arti e mandolle in Constantinopoli; ed essendo dimorato quivi tre giorni, vedendosi mancare le vettovaglie, e anche dubitando che i Persiani non l'assalissero con maggior forza, si levò, e pel viaggio ebbe grandissimi disturbi, per rispetto delle vettovaglie e degl'Iberi, da' quali ricevé gran danno; pur finalmente giunse in Amasia.

Il Sofí manda ambasciatori al soldano, ad Alidolat e agli Iberi, e fa lega con esso loro
contra il Turco, al quale mandò anche ambasciatori, presentandolo per superbia
di ricchissimi doni e minacciandolo; e il Turco, andato contra Alidolat,
lo ruppe e fece tagliar la testa a lui e a due suoi figliuoli.
Cap. 19

Tornato il Sofí in Tauris, deliberò mandar ambasciatori al Cairo, ad Alidolat e agli Iberi: e questo fu d'ottobre. In tanto quelli che già eran andati al soldano giunsero di dicembre, ed esposero la lor ambasciata, a' quali il soldano rispose ch'era contento d'aiutare il Sofí e insieme con lui accordarsi contra 'l Turco, e sovvenirlo di genti e star a una istessa fortuna, né mai andargli contro. Con tutto questo il Sofí volse da lui che, se il Turco gli mandava ambasciatore alcuno, non l'accettasse se non in publico, e ascoltandolo in secreto la pace tra loro fosse rotta: e cosí fu conclusa la lega tra 'l soldano e il Sofí. Gli altri ambasciatori, ch'erano andati ad Alidolat con l'istesso ordine, riportarono l'istessa conclusione, e con gli Iberi fecero il medesimo, i quali di piú s'obligarono di dar quel maggiore esercito che potessero, ogni volta che 'l Sofí volesse andare contra Selino. Dopo questo il Sofí mandò oratori al Turco in Amasia, i quali gli portarono una verga d'oro tutta fornita di gemme, una sella e una spada guarnite medesimamente di gioie, con una lettera che diceva: "Io Ismael, signor della Persia, ti mando per questo cose regali, che vagliono quanto il tuo regno: se tu sei uomo conservale, che io verrò a torle, e non tanto queste, ma ancora la tua testa e il regno insieme". Selino, intendendo questo, volse far morire gli ambasciatori, ma i bassà non acconsentirono; e facendo solamente tagliar loro il naso e l'orecchie, licenziandogli disse: "Dite al vostro signore ch'io lo tengo come un cane, e ch'egli farà quanto porrà e non piú".
Li paesi che dirò qui di sotto ora stanno all'ubbidienza del signor turco, nel governo de' quali dimorano li suoi giannizzari: governano prima il paese d'Arsingan e di Baibiert, ch'hanno molte città e castella, le quali confinano col Turco per Trabisonda (e questi due paesi son nell'Armenia minore); poi di là dell'Eufrate, ov'è il paese di Diarbee, la cui metropoli è Amit (e questo è parte dell'Armenia maggiore); il paese di Mosul e la gran città, fino a' confini del Bagadet (e questo è la Mesopotamia). Or, stando le cose nel termine ch'abbiamo detto, il Turco se ne venne al Toccato e in Amasia, e l'anno 1515 egli si trovava ne' detti luoghi con le sue genti, ma poche, le quali aveva divise in due parti: una n'avea data a Scander, mandandolo ad espugnare una città d'Ismael detta Tania, la quale aveva centocinquantamila anime; con l'altra poi egli s'inviò all'impresa d'Alidolat, il quale stava alla montagna in luoghi forti, e avendo intesa la deliberazione del Turco li mandò ambasciatori, dicendogli ch'egli sempre era stato suo amico, e che non sapeva per qual cagione gli voleva levar lo stato, ma che, poi che voleva cosí, egli deliberava di morir da valent'uomo. Il Turco gli rispose che lo volesse aspettare, che gli mostreria quel che importava accettare ambasciatori del Sofí, promettendo di dargli aiuto contra di lui. Il capitano Scander andò ad espugnare Tania con crudeltà grandissima, e il signore andando verso la Cassaria, ch'è vicino agli Alidoli, gli Alidoli vennero ad affrontarlo, e furon rotti e malmenati, e Alidolat fu preso e tagliatoli la testa con due suoi figliuoli; gli altri fuggirono al monte, tal che il Turco ebbe gran vittoria, e il capitano Scander fece l'istesso, malmenando tutte le genti ch'erano in Tania. Or, avuto queste vittorie, il Turco deliberò mandar suo figliuolo in Amasia, ed egli se n'andò in Constantinopoli.

Il Turco va contra 'l soldano, e venuto a giornata con lui lo rompe, e more il soldano.
Cap. 20.

L'anno del 1516, intendendo il Turco l'accordo del soldano e del Sofí, e vedendo egli che 'l Sofí era impedito con quei delle berrette verdi, deliberò fare un grand'esercito contra del soldano, e cosí nel detto anno, del mese di maggio, fece passar la sua gente di là dallo stretto e andò nella Natolia, e mandò il capitano Sinan bassà con molti schioppettieri e artiglierie, comandandogli ch'andasse alla volta della Caramania. E camminando egli pel paese de' Turcomani, giunse a una terra detta Albustan, e quivi dimorò qualche giorno per rinfrescar l'esercito.
Intendendo questo, il Sofí mandò oratori al sultan de' Mamalucchi Campson il Gauri, che dovesse cavalcar egli d'una banda e il Gauri dall'altra, e romper Sinan bassà. Il soldano assentí al tutto, mettendosi in ordine con gran numero di gente, e levatosi dal Cairo andò in Aleppo. Sentendo questo, il Turco si levò da Constantinopoli, a' cinque di giugno 1516, e andò verso Sinan bassà; ed essendo in viaggio, mandò il cadi Lascher e Zachaia bassà suoi oratori al soldano per intender la cagione del suo venire in Aleppo, non essendo solito: ma non ebbero in ciò pronta risposta, il che diede segno ch'avea intendimento col Sofí. Per la qual cosa il signor turco fece adunar tutti li dottori e altri literati, e domandò loro quel che comandava la legge d'Iddio; fugli risposto ch'era lecito levar via prima quella mala spina, e poi andar dove esso Dio lo guidasse. Inteso questo, subito s'aviò alla volta d'Aleppo con grossissimo esercito e con gran festa, e andatovi alloggiò in una bellissima campagna, appresso la veneranda sepoltura del profeta David; e per quattro bande mandava l'antiguardia innanzi, tal che e di giorno e di notte i soldati stavano a cavallo con la lancia.
Venendo l'altro giorno, i Mamalucchi s'ordinarono per far il fatto d'arme. Il Turco, inteso questo, si levò nel padiglione in piedi e fece orazione a Dio, pregandolo, per il suo gran nome e per la lor gran fede, che all'esercito de' buoni mosulmani prestasse vittoria. Fatta quest'orazione montò a cavallo, e andando esortava li bassà da una banda e l'altra ch'ordinassero le squadre, e cosí fu fatto; e ordinate anche l'artiglierie grosse e minute, cominciarono a camminare, e tutti li suoi iausi, ch'erano da milleducento, facevano orazione a Dio per il lor signore: e stavano forniti di cavalli e di veste ricchissime, e tutti attenti alle bandiere e a' comandamenti. Il signor si mise anch'egli all'ordine, e dietro di lui veniva un bellissimo giovane detto Mergis, e poi tremila vestiti d'oro col cappello d'oro, ch'erano suoi schiavi, tenendo le mani nelle corde de' loro archi. Erano poi alla sinistra tremilacinquecento de' suoi uomini della corte, poi millesettecento solacchi, e le rose bianche del giardino del suo campo, e tredicimila giannizzari con schioppi e artiglierie. Alla sinistra di questi andava la gente della Natolia, della quale era capo il loro sangiacco, ch'era signor de' Turcomani, nominato Sachinalogier, tutti con le lancie. Dalla destra erano li valenti della Grecia, con lor capitano Sinan bassà, e il begliarbei del paese acquistato dell'Azimia, detto Buichimehemet, co' valenti d'Amasia con le spade in mano.
Posti in ordinanza in questa maniera, a' 24 d'agosto a ora di terza s'affrontorno, e fecero grandissima e crudelissima battaglia, che durò fino a mezogiorno. All'incontro de' Greci stava il signor di Damasco, gran capitano nominato Sibes; e all'incontro di quelli della Natolia stava il signor d'Aleppo, detto Caierbec. Sinan bassà, portandosi virilmente, fece ritirar li suoi nemici fino allo stendardo: e vedendo la gente il valore del bassà, tutti seguivano la vittoria, e combattendosi molto gagliardamente d'ambedue le parti, cinque o sei volte l'un l'altro si ributtarono. Ma il signor d'Aleppo alla fine voltò le spalle e fuggí con tutta la sua banda. Il detto bassà cominciò a combattere col signor di Damasco, il qual non poté durare e se ne fuggí alla volta del gran soldano; e correndoli dietro uno de' valenti di Grecia gli tagliò via la testa, e appresso seguí anche la morte del soldano Campson il Gauri. Rotto il campo e lasciati li padiglioni, ricchezze e robbe assai, se ne fuggí gran parte di Mamalucchi in Aleppo, dove essendo poco spazio dimorate se n'andarono a Damasco e poi al Cairo. E il signor turco, venuto in Aleppo, vi stette qualche giorno, per pigliar le chiavi di molti castelli, ne' quali pose i giannizzari; e mandò Ianus bassà con parte de' valenti di Grecia a perseguitar le reliquie del campo: e giungendole appresso una città detta Camau, s'approssimò il signor d'Aleppo Caierbec e un altro detto Algazeli. Quello d'Aleppo si fece avanti al bassà, promettendogli d'esser buono schiavo del gran signore; Algazeli se ne fuggí al Cairo, e Caierbec andò alla presenza del gran signore, dal qual fu veduto volentieri: lo presentò di gran doni d'oro, di sete e di lane e di bambagi, e facevalo sedere appresso de' gran signori.
Il signore cavalcò poi verso Damasco, e prima che egli v'entrasse fece appresso la città drizzare il suo padiglione, facendo porta con grandissima dignità e magnificenza, perciò che vi si trovarono uomini di settantadue lingue: e non fu fatta mai piú cosí onorevol porta. Essendo stato alquanti giorni dentro della città, ordinò a due signori della Grecia, cioè Mametbei e Scanderbei, che con la lor gente andassero alla volta di Gazzara, ch'è nel principio del distretto, e quivi si fermassero. Partitisi con quest'ordine, furono nel viaggio assai volte assaliti da' Mori e dagli Arabi, ma con tutto ciò giunsero a Gazzara ed entrarono nella terra attendendo a darsi piacere.

Tomombei nuovo soldano, avisato della vittoria del Turco, lascia andare Algazeli contra i Turchi ch'erano in Gazzara; e Sinan bassà, andando per soccorrergli, s'affrontò con lui e lo ruppe; e 'l Turco si parte da Damasco e va in Ierusalem, dove fece limosine e sacrificio.
Cap. 21.

Di questa vittoria fu subito avisato il nuovo soldan del Cairo, ch'era il gran diodar detto Tomombei; e giunto Algazeli al Cairo, ch'era uomo valente nell'arme, domandò licenza per andar a Isar. I Turchi ch'erano andati a Gazzara se ne stavano fermi, e questi, partito dal Cairo con cinquemila Mamalucchi molto ben armati, facea cavalcar tutt'il paese. I Turchi di Gazzara stavan tutti con l'animo sospeso; nondimeno deliberorno di morire con l'arme in mano. In questo venne in animo al gran signore di soccorrere quelli di Gazzara, e cosí mandò Sinan bassà con quindicimila uomini. Algazeli, partito dal Cairo, giunse a Catia, e passato l'arena del deserto e arrivato a una caversera, over villa, dove alloggiò, ebbe nuova che Sinan era giunto a Gazzara: e avvegna che questo gli dispiacesse, non potendo mandare ad effetto il suo disegno, non si rimase però di far buon animo, esortando tutti li suoi a combattere valorosamente, promettendo loro la vittoria. E avendo messo ordine d'assaltare i Turchi la notte, questa deliberazione fu saputa da' nemici, e Sinan bassà fece ragunar la sua gente per far la giornata e voler vincere o morire, perciochè altro non poteva seguire, trovandosi circondato da tanta moltitudine di Mori.
Quella notte fu mostrata grande allegrezza, col tirar di schioppi e con fuochi, domandando a Dio vittoria. E cominciando noi a caminare, quelli di Gazzara credevano che fuggissimo verso 'l signor nostro il gran Turco, di modo che gl'infermi, che restarono in Gazzara, furon tutti morti; e fecero assapere ad Algazeli che i nostri eran fuggiti tutti, di che egli ebbe grande allegrezza quella notte. Ma il giorno a terza, vedendo la polvere che faceva l'esercito, il quale veniva contra di lui per combattere, avendo egli creduto essersene fuggito, se gli mutò in gravissimo dispiacere e ne rimase tutto smarrito. Li nostri appressandosi smontarono, stringendo le cinghie a' cavalli, e poi l'un l'altro chiedendosi perdono si toccavan la mano e baciavansi, e cominciarono a far orazione, pregando Iddio, per il lor profeta Macometto e per li quattro suoi assistenti, che sono Abubachir, Omar, Osman e Alí, e per tutti gli altri antecedenti profeti, che volesse dar aiuto al campo de' buoni musolmani. Voltossi poi Sinan bassà all'esercito, esortando tutti con dire ch'essi avevan rotto molte piú genti e vinte assai maggior battaglie di questa, e che stessero saldi, perciò che chi debbe morire, se ben fugge, morirà, e chi non debbe morire combatta, e sí come i castroni maschi son buoni per sacrificare, cosí essi debbon combattere per il lor signore. "Facciansi le vendette de' nostri amici, che nella prima zuffa questi cani han morti, i corpi de' quali, se potessero parlare, grideriano "ammazza, ammazza""; e vincendo averian dal lor signore gran mercede e acquistarian nome eterno, perciò che molti d'essi ch'erano piedi sariano poi teste. Tutti rispondendo dissero: "Iddio dia lunga vita al signore, tutt'il mondo gli sia soggetto, e chi non lo vuol vedere resti morto; andiamo, andiamo".
Andossi adunque, e affrontaronsi ambidue gli eserciti. Li Circassi sostennero l'impeto nostro con gran forza e ardire, ributtandosi piú volte l'un l'altro da terza fino a mezogiorno, con morte di molti; finalmente li Circassi restarono rotti, e i nostri vittoriosi e allegri e con gran guadagno. I Mamalucchi fuggirono al Cairo, e alcuni de' nostri gli seguitarono. Gli altri tornarono in Gazzara con Sinan bassà, facendo empire di paglia le teste de' signori morti e l'altre attaccare alle palme, per memoria di tal battaglia. Il gran signore mandò ducento solacchi che dovessero andar ad incontrare Sinan bassà, ordinando loro che sollecitassero di cavalcare, e aspettarlo in un certo luogo, ma, non trovando il bassà, se ne ritornassero a lui. Or, cavalcando costoro, la maggior parte ne fu morta, e nel tornar adietro, essendo assaltati un'altra volta dagli Arabi, furono tutti uccisi eccetto che sei, i quali tornarono al gran signore, dicendo che nulla aveano saputo né di Sinan né del suo esercito. Il gran signore, inteso questo, si levò furiosamente per andar a ricuperare i valenti della Grecia. Ma in tanto sopragiunsero alcuni Mori, con nuova che Algazeli era stato rotto dalla gente turchesca, la qual se n'era tornata in Gazzara trionfando. Fu usata cortesia a' Mori per la nuova, e il signore stette di bonissimo animo, e levossi di Damasco e venne a Peneti, dove li ducento solacchi furono morti: fu saccheggiato Peneti e bruciato. Poi se n'andò in Ierusalem, e nel cammino s'ebbe gran pioggia e mal tempo, onde nacque e travaglio e morte di molti.
In Ierusalem il signore dispensò assai denari a' poveri della città; fece anche sacrificio di buoni castroni, tal che della sua santa limosina gli uomini del sacrificio degli uccelli e delle bestie rimasero sodisfatti. Cavalcando poi alla volta di Gazzara, si giunse in una valle terribile, dove non potevan passare piú che due cavalli per volta. Gli Arabi avevano preso il passo, e avevan di sopra ragunati gran sassi, per lasciargli cadere quando il signor passava, e anche v'aveano di molti arcieri. Il signor, avendo inteso questo, ordinò che le bombarde e gli schioppi fossero apparecchiati; ma quando venne il bisogno, per la pioggia e per il vento non si poterono discaricare. Né con tutto questo i gianizzari valenti restavano d'adoperare artificiosamente gli schioppi, facendo fuggire i Mori con morte loro. E appressandoci noi a Gazzara, i valenti di Grecia, molto ben vestiti delle robbe de' nemici e bene armati, uscirono della terra per un tiro d'arco ad incontrare il signore: i Mori, vedendo tanta pompa, restarono stupefatti, e i sanzacchi smontarono a basciar la mano al signore, e tutto l'esercito si divise in due parti, mettendo il signore nel mezo, e lo salutarono. Poi incontrò Sinan bassà, e ringraziollo assai con tutto l'esercito insieme e co' spachí, che vuol dire gentiluomini, e donò cose assai. Essendo stato quattro giorni a Gazzara, se n'andò poi a Casali, dove per non esservi acque non avea prima potuto andare; ma essendo per le pioggie l'arene già piene, era passato commodamente. E subito giunto Casali fu messo a sacco, per essere stato il signore assalito dagli Arabi di quel luogo nella valle sopradetta.

Il Turco se ne va alla volta del Cairo, e il soldano con Algazelli lo va ad affrontare, e venuto a far giornata riman vinto, e travestito se ne fugge; e il Turco andò alla sedia del soldano.
Cap. 22.

Ci mettemmo poi su la strada dritta alla volta del Cairo, e il soldano Tomombei, nuovamente creato, attendeva a far cavar le fosse e far ripari alla terra con grandissimo numero di popolo, e apparecchiava l'artigliarie, con disegno di scaricarle tutte a un tratto quando l'esercito nostro s'appresentasse, e far uscir quattordicimila Mamalucchi e ventimila Arabi per dissiparne tutti. Quando ci accostammo alla terra, si fuggirono sei Mamalucchi e vennero al signore, facendogli sapere il tutto, onde egli subito si voltò per un'altra strada ch'era sicura, né l'artiglieria nemica poteva nuocergli. I Circassi e il soldano vedendo che 'l signore andava per un'altra via, con gran voce e romori Algazelli si mosse contra l'esercito di Grecia, e contra quel di Natolia il visier nominato Allem, e il soldano contra il signore: tal che dalla mattina fino al mezogiorno fu fatta gran battaglia. E combattendo, sciaguratamente Sinan bassà fu morto, e fu fatto sacrificio da tutti gli uomini suoi, che 'l suo pane e 'l suo sale mangiavano, ed erano gran numero, i quali con le veste donate loro dicevano: "Vogliam morire col nostro padrone". Lo lavarono con le lor lagrime, poi l'involsero in un drappo sottilissimo, e con un'acqua che si truova alla Meca, chiamata abzenzom, l'aspersono, e fatta la fossa lo sepelirono.
Mustafà bassà, parendogli che a lui toccasse, con gran gridi e valore cominciò a ferire, e vedendo cosí le genti della Natolia, delle quali egli era capo, talmente s'infuriarono che tagliavano i Circassi sí come si fan le biade, di modo ch'ognuno stupiva. La squadra del signore e della Grecia combattevano anch'esse gagliardamente. Pur nell'ora di compieta, per esser stanco ognuno, si ritirarono, e i Circassi, mostrando di riposarsi, si diedero a fuggire, parte nel Cairo e parte di fuori: i Greci gli seguitorno fino alla notte, pigliandone e ammazzandone assai. Il signore stette quella notte dove fu fatta la giornata, e ordinò che tutti li prigioni fossero morti: e tanto fu fatto. Stettero quivi tre giorni, poi il quarto andorno al fiume Nilo, a un luogo detto Bichieri, e quivi si fermarono due giorni. I Mamalucchi ch'erano avanzati si ragunorno col soldano al numero di novemila per assaltarne la notte, il che essendo fatto sapere al signore, fu ordinato che 'l campo stesse tutta la notte in arme. E li nemici, intendendo questo, mutorno consiglio e deliberorno d'assalirci di giorno, e cosí con grandissime grida n'assalirono. I gianizzari si portorno valentemente; la banda della Grecia si mise a cavallo e combatté: e non potendo per quel giorno vincer li nemici, ambidue gli eserciti si ritirarono.
La mattina seguente il gran signore si levò al levar del sole, e dopo l'aver ringraziato il Signore Iddio comandò che tutto l'esercito si mettesse in ordinanza, montando tutti a cavallo, e con gran terrore e pompa s'aviassero verso i Circassi, i quali gridando pur come sogliono, per le strade della terra cominciossi la crudel battaglia: e per la polvere uno non si discerneva dall'altro. I Mamalucchi non facevano stima allora d'altro se non di morire con la spada in mano, parendo lor vergogna di salvarsi e lasciar tutt'il loro avere nelle mani de' nemici: dal qual partito Dio guardi ognuno, e massimamente i buoni musolmani.
Vedendo il signore che non poteva abbattere li Circassi, comandò che la città fosse posta a fuoco, e i gianizzari, ubbidientissimi, misero fuoco alla terra da molte bande. I Mamalucchi, vedendo questo, gridorno misericordia con voce spaventosa e orribile; il signore, divenuto pietoso, comandò che si cessasse dal fuoco, e fu miracolo che tutta la terra non s'abbruciasse. I Circassi fecero di nuovo tal battaglia che le freccie cadeano come pioggia, e d'ambe le parti ne morirono tanti che le strade del Cairo correvano tutte sangue; e tutto quel giorno fu combattuto nel medesimo modo. La notte, essendo i Circassi stanchi e deboli, si ritirarono in una moschea, e combattendo come in un castello per tre giorni e tre notti fecero gran difesa: ma, facendosi poi un grande sforzo, a forza fu pigliata la moschea. Il soldano Tomombei travestito se ne fuggí, e il signor andò a riposarsi, e gli altri attendevano a fare infiniti bottini e prigioni, a' quali poi sopra il Nilo tagliavano la testa.
Algazeli si trovava fuori del Cairo per far ragunanza d'Arabi, e già s'era avvicinato alla terra, quando intese che 'l signore aveva fatte le gride che a tutti li Circassi, i quali in termine di tre giorni s'appresentavano, veniva perdonato: laonde molti Circassi che stavano ascosti s'appresentorno, ed ebbero di gran doni. E cosí anch'egli s'appresentò e s'inchinò al signore, onde gli furono donati gran presenti. Dopo questo il signore, col gran stendardo bianco, con tamburi, naccare e piffari, andò alla sedia del soldano; e fu scoperto un tradimento d'alcuni Mamalucchi che volevan fuggire, i quali essendo stati presi, parte ne fece morire e parte fece mettere in prigione, in certi luoghi detti, e passati alcuni giorni gli fece affogare nel Nilo: e in questa maniera il signor si vendicò de' suoi nemici. Il qual signore, il cui nome è sultan Selino, stando nel Cairo e sentendo che gli schiavi, a una città detta Catia, facevano grandi insulti a' nostri soldati ch'andavano per le bisogne dell'esercito, mandò Algazeli e un begliarbei, con piena commissione di castigar li Mori e dar a sacco la città: e avendola presa e morti tutti i Mori, gli altri vicini eran diventati mansueti come galline.

Il Turco manda ambasciatori al soldano, che s'era fuggito, confortandolo ad umiliarsi a lui; ed essendo stati uccisi da' Circassi, il Turco manda Mustafà con l'esercito per farne vendetta. Il soldano riman vinto e se ne fugge, ed essendo perseguitato da Mustafà, vien preso e, condotto al gran Turco, è impiccato a una porta del Cairo.
Cap. 23.

Noi stavamo attenti per intender quel che operava il soldano, il qual era passato il Nilo e fuggito nel paese del Saettò. Desideroso di saper quel che facevano i Turchi, mandò messi secreti al Cairo, per metter ordine co' cittadini di dentro di malmenar il nostro esercito. Stando la cosa in questo modo, Omar signore de' Mori venne occultamente a baciar la mano al signore, e dissegli il tutto: e n'ebbe un buon sangiaccato nelle parti di Saettò; furono fatte guardie per tutto, e con artiglieria per il fiume, sí che gli uccelli non averian potuto passare. Fu poi deliberato di mandare due de' grandi co' cadi del Cairo per ambasciatori al soldano, esortandolo a volersi umiliare al signore, che prometteva donargli un grande stendardo del Cairo con la signoria; ma li Circassi, quando ebbero gli oratori in lor potere, li fecero morire.
Il signor, avendo intesa questa crudeltà, fece far ponti sopra il fiume, e comandò a Mustafà che passasse con tutto l'esercito. Ed essendo passato, fu riferito al soldano il tutto, il quale con cinquemila Circassi e diecimila Arabi, cavalcando da corrieri, in un giorno e una notte si vennero ad accostarsi. In questo mezo parte de' valenti di Grecia erano passati, e parte ne passavano, non avendo notizia alcuna di ciò: ma Iddio volse che coloro che cercavano luogo buono per drizzare il padiglion del signore viddero la polvere della cavalleria che veniva e, stando tutti maravigliati, montarono a cavallo. Il signor fece intendere a Mustafà che cavalcasse. I Circassi urtarono e ributtarono i nostri insino allo stendardo, ma poi rinforzandoci noi ributammo loro: il che vedendo, li Circassi di nuovo si ristrinsero e ci ributtorno, con tanta uccisione de' nostri che correva il sangue come un fiume. I Mori combattevano soli, per dar luogo a' Circassi di riposarsi, onde i nostri stavano in grandissimo disavantaggio del tutto: pur combattevano, ma con gran rovina.
Vedendo questa cosa il bassà, ch'era alla presenza del signore, e che s'andava alla via di perdere, furiosamente pigliò la scimitarra e il bosdocan, andando verso il soldano correndo, per cavargli prima l'anima del corpo e poi morire anch'egli. Veduto questo valore, i Greci si misero a seguirlo per corrispondere al lor capo: e certamente, s'allora gli fosse mancato l'animo, gli saria mancato anche la vita e sariano stati morti tutti. Ma, combattendosi cosí animosamente, si diede indizio al soldano che volevamo la vittoria: il che considerando egli, che si trovava di signor grande esser fatto schiavo picciolo e di ricchissimo poverissimo, guardando il cielo con amarissime parole si lamentava, di modo che facea scoppiar di dolore e di pietà chi l'ascoltava. Dopo molte parole accompagnate con infinite lagrime si mise a fuggire di giorno e di notte, fin ch'arrivò a un ponte, dove alquanto si riposò. I Greci insieme con Mustafà lo perseguitavano, ma egli fuggendo tuttavia passava piú oltre.
Il signor si partí dal Cairo e alloggiò meza giornata lontano da Mustafà, che per quattro giorni e altretante notti aveva perseguitato il soldano, il quale per stanchezza s'era fermato ad un casal de' Mori. I nostri, essendo anch'essi stanchissimi, non lo poterono cosí ben giugnere, per la qual cosa deliberarono scrivere a quei del casale che, sotto pena del sacco e del fuoco, facessero guardia e procurassero che 'l soldano non trapassasse piú oltre: e cosí il capo del casale, ch'era un siech Assaim, lo fece sapere a tutti, onde Tomombei co' Circassi furono circondati da' Mori, di maniera che non potevano scampare, e sopragiugnendo i nostri andarono loro adosso. I Circassi si gittarono in un lago vicino, e i nostri parte ne tagliavano a pezzi, e parte anche ne facevano prigioni. Tomombei fu preso stando in acqua fino alle ginocchia, e fu menato al bassà, il quale spacciò una staffetta al gran signore, facendogli intendere tutto ciò ch'era seguito. Giunto il nunzio fu ricevuto con grand'allegrezza, e tutti i sangiacchi e tutti i signori baciarono le mani al gran signore. Il soldano non fu condotto alla presenza del signore, ma lo fece alloggiare in un padiglione vicin a lui e molto ben custodito.
Fu poi fatta un'altra battaglia co' Mori d'un altro casale appresso il Nilo, i quali sempre con alcuni Mamalucchi assassinavano i nostri e gli spogliavano: andovvi Mustafà e destrusse il casale, ed essendo quivi stato quattro giorni se ne ritornò al signore, il qual fece porta e comandò che Tomombei soldano fosse condotto per le contrade del Cairo sopra una mula, con una catena al collo, e a una porta chiamata Bebzomele fosse impiccato: e cosí fu eseguito. Questo fu il fine del regno de' Mamalucchi, e il principio di maggior grandezza di Selim sultano. Quest'ultima impresa che fece Selim contra il soldano e Mamalucchi fu puntalmente da un cadi Lascher, che si trovò all'impresa, scritta ad un cadi di Constantinopoli, tradotta di turchesco nel nostro vulgar toscano nell'anno 1517, alli 22 d'ottobre.
Del 1524 del mese d'agosto s'ebbe nuova che sopradetto signor Sofí era morto, e che 'l figliuolo minore era entrato in signoria, contra del qual andava il maggiore armato con buon numero di genti. Ismael aveva lasciato quattro figliuoli: il primo chiamato schiac Thecmes, il secondo Alcas el myrza, il terzo Pacrham el myrza, il quarto Sam el myrza (myrza è un titolo che vuol dire signorotto). Il primogenito aveva allora quattordici anni, e gli lasciò un governatore, nominato Chiocha sultan, che governasse il suo regno insino che 'l fanciullo venisse all'età conveniente e atta a governare. Era questo governatore molto savio e di grande auttorità. Successe poi che molti signori suoi vassalli, per invidia del detto governatore, cominciarono a far guerra l'un contra l'altro ed essendo usciti alla campagna, vennero insino al padiglione di schiac Thecmes e volsero ammazzare il suo governatore, ma la cosa fu adattata.


Viaggio d'un mercante che fu nella Persia

La scusa che fa l'auttore intorno a questa sua istoria. Cap. 1.

Conciosiacosachè tutti gli uomini per il lor natural instinto cerchino di sapere, e massimamente quelli che sono avezzi a leggere, e per ciò essi di continuo vanno cercando e investigando cose nuove, per questa cagione ho pensato che scrivendo il mio viaggio fatto in Persia, e narrando quanto in quelle parti di levante ho potuto intendere col mio picciolo ingegno nello spazio d'otto anni e otto mesi che vi son dimorato, che questa mia scrittura sia per esser grata a coloro che la leggeranno, cosí per la varietà delle cose che vi saranno narrate, come per la cognizion di tante città, popoli e costumi stranieri. E se in qualche parte io fossi confuso e longo, domando perdono a' benigni lettori, perchè questo non procederà da altro che da non esser pratico nello scrivere ordinatamente; ma nel resto siano sicuri che non si dirà se non la pura verità di quello ch'averò veduto e udito, non lo ampliando, ma semplicemente narrandolo, come si conviene ad un leal mercante, non uso a saperlo adornar con parole.
E acciò che si sappiano i luoghi e i paesi dove sono stato, dico che quando schiec Ismael venne contra Aliduli nella Caramania, che fu del 1507, io mi trovai nel suo esercito in Arsingan, dove dimorò giorni 40. Mi trovai ancora in Cimischasac quando egli passò il fiume Eufrate, entrando nel paese d'Aliduli; medesimamente io era nel tempo ch'egli prese Sumacchia con tutt'il paese del Sirvan. Io fui presente in Tauris molte volte, quando siech Ismael v'era giunto con l'esercito suo, e sommi trovato in Dierbec, avendo veduto combattere terre e castella; e alcune battaglie e vittorie ch'esso siech Ismael ha avute, ancor ch'io non vi sia stato presente, pur l'ho volute raccontare, essendomi ingegnato d'intenderne la verità, parlando con diverse persone che vi furono presenti: il che feci con facilità, sapendo io benissimo la lingua azemina, turca e araba.


Le città che si truovano partendosi da Aleppo per andar nella Persia: della città di Bir, di Orfa, e della fontana di Santo Abram, la cui acqua libera della febre, e de' pesci che vi sono; d'un pozzo che sana i leprosi; e come sia magnifica la detta città d'Orfa. Cap. 2.

E per tornare al mio viaggio, dico che, partendosi d'Aleppo per andare nella Persia, e massimamente in Tauris, a tre giornate si truova una terra nominata Bir, la quale è di là dal fiume Eufrate sopra la riva d'esso, ed è picciola. Sultan Cartibec la fece murare d'intorno, che prima non era murata, e sempre ha avuto un forte e bellissimo castello, il quale molte volte da molti, e anche da Diodar, che fu ribello del soldanello, è stato combattuto, ma niuno mai lo poté conquistare. Tutt'il paese, le città e castella che sono di là dal detto fiume, sempre sono state, come oggi ancor sono, sotto l'ubbidienza de' re di Persia; di qua dal fiume verso Aleppo tutto è signoreggiato dal soldan del Cairo. In tutti li paesi, provincie, città e castella che sono da Aleppo insino a Tauris, e da Tauris fino a Derbant, ch'è sopra la riva del mar Caspio, vi son dimorato e praticato, come narrandovi d'esse città e paesi conoscerete.
Da Bir a due giornate egli è una gran città detta Orfa, la quale e gli abitatori e le lor croniche antichissime narran esser stata fabricata e d'intorno circondata di mura dal gran Nembrot: e in vero mostra esser antichissima muraglia, e volge di circuito dieci miglia, senza aver fossa attorno. V'è dentro un bellissimo castello murato di grossissime mura, ma anch'esso è senza fossa alcuna, e nel mezo vi sono due belle e grandissime colonne, e di grandezza non cedono a quelle di Vinegia che sono sopra la piazza di S. Marco, sopra le quali vien detto ch'esso Nembrot teneva gl'idoli: e ancora stanno in piedi come da principio furono drizzate.
In questa città è anche il luogo dove il nostro padre Abraham volse sacrificare a Dio il suo figliuolo Isaac. E dicesi che in quell'istesso luogo in quel medesimo tempo nacque una gentile e chiara fonte, di grandezza tale che fa macinar sette molini nella città e adacqua il paese di quel circuito; e anche dov'essa nacque fu fatta una gran chiesa, nel tempo che li cristiani regnavano, nominata Sant'Abraham, la quale, poi che li cristiani ebbero perduto il regno, macomettani la tramutarono in una moschea: e la fonte infino al presente è chiamata la fonte d'Abraham, cioè in turco Ibraim calil bonare, ed è molto celebrata oggidí da' cristiani e da' macomettani, perciò che ha tal virtú, che qualsivoglia ch'abbia la febre, entrando in quella tante volte con divozione, n'esce con sanità, cioè libero dalla febre. Nella detta fonte vi sono molti pesci, che non ne sono mai presi, essendo per divozione tenuti come cosa santa.
Si truova anche fuori di questa città, sei miglia lontano, una mirabile cosa, ch'è un pozzo che risana i leprosi, pur ch'essi vi vadano con molta divozione, tenendo quest'ordine: prima convien digiunar cinque giorni, sempre bevendo di quell'acqua fra 'l giorno molte volte a digiuno, e ogni volta che si beve convien lavarsi con quella; e passati li cinque giorni si resta di lavare, ma se ne beve continovamente sino a' dieci o dodici giorni, e cosí la virtú di questa sant'acqua libera dalla detta infermità, over opera talmente ch'ella non procede piú oltre. E di questo io con gli occhi miei n'ho veduto l'effetto in Orfa, che molti che vi sono andati infermi se ne sono partiti sani. E ritornando io da Tauris in Aleppo fui in Orfa, dove trovai un Cipriotto nominato Ettore, ch'abitava in Nicosia, ch'essendo andato al santo pozzo tornava libero di molte piaghe.
Questa città è stata regale, magnifica e miracolosa, come si vede per l'antiche memorie e di fabriche e di palagi. Vi sono da dieci in dodici chiese grandissime e fabricate di marmi, di tal sorte ch'io con parole non lo saprei esprimere. Questa città ha un paese tanto bello, tanto ameno e tanto piacevole quanto dir si possa. Dalla banda verso ponente ha un bellissimo monte, pieno di ville abitate e molti castelli antichissimi disabitati. Sono infiniti e bellissimi giardini sotto la città, e pieni d'ogni sorte di frutti, ed è abondante d'ogni vettovaglia e d'ogni cosa che si possa trovare. Oltre di ciò, questo è il passo di Bagadet, di Persia, di Turchia e di Soria, e vi sono buone genti. Questa città è la prima del dominio del sultan sciech Ismael, ed è capo e principio d'una provincia nominata Dierbec, nella qual sono sei gran città con cinque bellissimi castelli, come si dirà.


Del castel Iumilen; della gran città di Caramit, fabricata da Costantino imperatore, e delle belle fabriche e chiese e acque che vi sono, e ch'è piú abitata da cristiani greci, armeni e iacobiti che da macomettani; della provincia Diarbec e sue città, e da cui è signoreggiata.
Cap. 3.

Da Orfa a due giornate si truova un castello detto Iumilen, ch'è sopra un monticello e non ha molto forti mura, con un picciol fosso a torno intagliato in sasso. Attorno poi del castello è un borgo di case cavate nel monte, come grotte, nelle quali abitano li paesani, e sono genti brutte come zingani. Questo paese è molto arido e non vi sono acque, ma in quelle grotte ch'hanno cavate vi son fatte fosse grandi, che al tempo del verno l'empiono d'acqua, della qual poi si servono per tutto l'anno.
Da questo castello a tre giornate si truova la gran città di Caramit, la quale, come nelle lor croniche vien detto, fu fabricata da Constantino imperatore, e volge di circuito da dieci in dodici miglia. È murata di grosse mura di pietra viva, lavorate di maniera ch'elle paiono dipinte, e attorno attorno sono fra torri e torrioni trecentosessanta. Io per mio piacere cavalcai due volte tutt'il circuito, considerando quelle torri e torrioni fatti diversamente, che non è geometra che non desiderasse di vederle, tanto sono maravigliose fabriche: e in molti luoghi di quelle si vede l'arma imperiale scolpita, con un'aquila di due teste e due corone. In questa città vi si vedono molte maravigliose chiese, palagi, quadri di marmi scritti e lettere greche. Le chiese posson essere di grandezza come è quella di San Giovanni e Paulo o de' frati minori di Vinegia, e in molte di loro sono molte reliquie di santi, e particolarmente quelle di san Quirino, che nel tempo che li cristiani dominavano si posero in luce; e in una chiesa di San Giorgio io vidi un braccio d'un santo in una cassa d'argento, che si dice essere un braccio di san Pietro, ed è tenuto con gran riverenza. In questa chiesa v'è anche la sepoltura di Despinacaton, che fu figliuola del re di Trabisonda nominato Caloianni, ed è poveramente sepolta appresso la porta della chiesa, sott'un portico, in terra, e di sopra v'è una cosa fatta a guisa d'una cassa, un braccio alta e un braccio larga, e circa tre di longhezza, murata di mattoni e di terra. V'è anche una chiesa di San Giovanni benissimo fabricata, con assaissime altre di molta bellezza e dignità, fra le quali non voglio già lasciare adietro, poi che mi viene alla memoria, una chiesa detta Santa Maria, che a giudicio mio per le dignissime qualità sue non fastidirà i lettori.
Questa è una gran chiesa, e vi sono dentro sessanta altari, come si vedono anche attorno attorno i luoghi delle capelle; ed è tutta edificata in volte dalla parte di dentro, e le volte sono sostentate da piú di trecento colonne. Vi sono anche volte sopra volte, che parimente son sostenute dalle colonne. E per quel ch'io posso giudicare questa chiesa non fu mai coperta nel mezo, però che, considerando il modo della fabrica, e massimamente il sacro fonte dove si battezzava, io vedeva essere al discoperto, come intenderete. Questo fonte del battesimo è posto nel mezo della chiesa, ch'è dun fino alabastro, fatto come un gran mastebè grossissimo, d'intorno intagliato di diversi fogliami, tanto sottilmente lavorati che non potria esprimerli. Egli è coperto d'una bellissima cuba di marmo finissimo, la qual è sostenuta da sei colonne di marmo fino come cristallo, e anche queste colonne sono intagliate di belli e sottili lavori, e tutta la chiesa è lastricata di marmo. Di questa chiesa ora tutta la parte verso ostro è fatta moschea, e l'altra parte è nel medesimo essere che fu sempre, essendovi il convento dove stanziavano li sacerdoti, nel qual è una mirabil fonte d'un'acqua chiara com'un cristallo. Questa chiesa è tanto degnamente fabricata che propriamente pare un paradiso, tanti vi sono di belli e splendenti marmi, avendo colonne sopra colonne come il palagio di San Marco in Vinegia. V'è ancora il campanile dove stavano le campane, e in molte altre chiese vi sono li campanili senza le campane.
Questa città è molto abbondante d'acque, che in molti luoghi sorgono fonti; ed è parte in piano e parte in monte, cioè in un poggio nel mezo d'una gran pianura, intorno della qual nascono infinite acque dolci. Ell'ha sei porte ben guardate, co' suoi caporali e soldati, tenendo ogni caporal per porta dieci, dodici e venti compagni, e per ogni porta v'è una bella e gran fontana. Vi sono anche molti cristiani, e piú numero che macomettani, cioè cristiani greci, armeni, iacobiti, e de' quali ognun tiene la sua chiesa separatamente, officiandola come vogliono, senz'esser stimolati da' macomettani. Tra gli altri fiumi in questa città ve n'è uno, dalla banda di levante, il quale è nominato il Set, e al tempo del verno cresce maravigliosamente, e corre gagliardamente venendo ad Asanchif e a Gizire in Bagadet, ed entra nel fiume Eufrate: e ambidue poi entrano nel mar Persico. Custagialu Mahumutbec signoreggia questa città con tutta la provincia del Diarbec, però che sciech Ismael gliela donò, per esser suo cognato, marito d'una sua sorella e a lui fedelissimo. Questa provincia ha sei gran città e cinque gran castelli, come ho detto, delle quali città ve n'erano tre: questa di cui avemo ragionato, cioè Caramit, l'altra Orfa e la terza Cartibiert, che già erano dominate da Aliduli, avendole soggiogate. E nel tempo che Iacob sultan passò di questa vita furono occupate da Aliduli, avvenga che care gli costassero. Quando sultan sciech Ismael donò il bel paese del Diarbec a Custagialu Mahumutbec, gli comandò che per ogni modo egli dovesse ricuperar Orfa e Cartibiert: e cosí esso, come fedelissimo, prese ordine d'eseguir quanto teneva in commissione, laonde pigliò Orfa, facendo tagliar a pezzi quanti v'erano dentro; ma non poté pigliar Caramit, però che già sultan Custalumut l'avea fatto circondar di mura; né anche pigliò Cartibiert. Veduto questo, Custagialu si levò da Orfa e se ne venne a Mirdino, e pigliollo senza colpo di spada e senz'altro contrasto, donandosegli volontariamente. E mentre che Custagialu dimorava in Mirdino, Aliduli si mosse e tornò a ricuperare Orfa, scorrendo il paese e danneggiandolo, e ammazzando gente, e minacciando a tutto suo potere di far gran fatti contra sciech Ismael, il qual venne poi a soggiogare Aliduli, come a luogo e tempo sarà detto, massimamente per sodisfare a' molti che desiderano intendere dell'origine del sultano sciech Ismael.


Del castello Dedu; della magnifica città di Mirdino, edificata sopra un alto monte appresso una grandissima pianura; della città di Gizire, ch'è in isola e abbondantissima; di Asanchif, città reale e piena d'infinito popolo e di diverse sette, li due castelli della quale Custagialu, cognato di sciech Ismael, tenne assediati; e del mirabil ponte della detta città.
Cap. 31.

Or, seguendo il mio camino, da Caramit a una giornata si giugne a un castello bellissimo nominato Dedu, il qual è sopra un bel poggio appresso d'una gran montagna, e ha sotto di sé molte ville, ed è luogo molto ricco. Scorrendo piú oltre una giornata, si vede la magnifica città di Mirdino, che volge da quattro in cinque miglia di circuito ed è sopra un'alta montagna, con un castello tant'alto sopra la città che a gran fatica vi tirarebbe una balestra, ed è di circuito un miglio; il qual a chi da basso lo guarda par che metta paura, però che al piè, dov'è posto sopra la montagna, si veggono assaissimi sassi grandi come case, grebani e scogli, i quali mostran ognora di voler rovinare. A' piedi del castello è questa città, murata di grosse mura; e, com'ho detto, è posta in un alto monte, e dentro ha bellissimi palagi e moschee. Egli è ben vero che d'acque v'è carestia, perchè l'acque di quel paese sono salse e poche: e se ciò non fusse questa saria la piú bella città del Diarbec, essendovi un aere tanto allegro e ameno quanto dir si possa. E questa città è posta tanto in alto che, standovi dentro e guardando a basso dalla parte verso levante, par che stia pendente com'una scarpa di qualche fortezza. Fa anche paura grande quando si guarda dal piè delle mura della città insino all'altezza del castello, il qual è tanto lontano ch'assomiglia al colore che si vede guardando in cielo: e ciò massimamente pare a coloro che sono nella pianura ch'è sotto la città verso levante. E la pianura comincia a Orfa e va scorrendo insino a Bagadet, e di lí s'estende fino a Gizire mirabile e grande. Questa città è molto piú abitata da cristiani armeni e iacobiti che da mosulmani, e ognuno officia nelle sue chiese secondo la sua usanza.
Da questa città camminando due giornate verso greco si truova un'altra città detta Gizire, abitata da' detti e da' Curdi, e da altre infinite e diverse sorti di gente. Ed è in isola, e il fiume detto il Set s'estende in quelle bande, accostandosi a un altro monte dove fabricano un bellissimo castello. Questa città è governata da un Curdo, ben però sottoposta a Custagialu Mahumutbec; ed è abbondantissima d'ogni cosa che si possa domandare. M'è parso di far menzione di questa città, avvegna ch'ella non sia per la dritta via di Tauris, però che viene a discostarsi a man destra dalla parte verso greco.
Ma, seguendo ordinatamente il viaggio di Tauris, dico che dalla detta città di Mirdino si viene a un'altra città nominata Asanchif in quattro giornate, la qual è regale e capo della provincia del Diarbec, ed è dominata da un signore detto sultan Calil, il qual è curdo e ha una sorella di sultan sciech Ismael per moglie, ed è capo di assai signori curdi che stanno in quelle bande. Questa città tien di circuito quattro o cinque miglia, ed è murata a piè d'un gran monte, e dall'altra parte del monte vi corre il gran fiume Set; è fabricata la città fra 'l monte e 'l fiume, nella qual vi è un popolo inestimabile di cristiani, di macomettani e di giudei, ed è ricchissima e mercatantesca.
Io stetti qui due mesi, astretto dalle gran nevi ch'erano sul camino di Tauris, dov'io andava mandato dalli miei mercatanti. Vi era dentro in essa Custagialu Mahumutbec con uno esercito di diecimila uomini, perciochè sultan Calil, cognato di sciech Ismael, come abbiamo detto signoreggiava quel paese, ma non di volontà di sciech Ismael, per rispetto ch'egli era curdo, e i Curdi sono uomini disubidienti e male allevati, e ancor che portino le berette rosse, non sono però veri sofiani di cuore, ma solamente con la berretta. Sciech Ismael adunque, che è di sagace e sottile ingegno, ben comprese quel che era il bisogno del suo stato; però, volendo che Custagialu fusse signore de Asanchif e di tutto il Diarbec (perchè Asanchif è terra principal del Diarbec e a lui s'appartiene, per esser egli della Natolia e vero sofiano, e della setta di sciech Ismael e molto fedele, e per esser medesimamente suo cognato), pigliò ispediente di mandarlo in persona a pigliar la possessione del detto paese contra sultan Calil. Entrato adunque in Asanchif, come dissi, con diecimila uomini, esso sultan Calil, vedendosi il nimico addosso per ordine di sciech Ismael, subito, fornitosi di vettovaglia, si ritirò fortificandosi in due castelli, i quali sono sopra di due monti che soverchiano la città: l'uno volge di circuito un miglio, l'altro mezo. Nel maggiore non vi sono stanze né vi abita alcuno; solamente ha un monte altissimo, ch'è forse un miglio, che sta dritto a guisa d'un muro, tal che non vi si può montare, eccetto da una particella di esso, dove hanno fabricato mura grossissime con molti torrioni per difesa di quei passi: e li soldati ch'alloggiano nel castello tengono per loro stanze i torrioni. L'altro, che è minore, è tutto benissimo abitato e ben popolato, e questo è quello dove stanza sultan Calil con Calconchatun sua moglie, ch'è sorella di sciech Ismael, col resto della sua famiglia.
In questa città vennero tutti li signori del Diarbech, per comandamento di Custagialu Mahumutbec, menando con essi tutti gli uomini che poterono, i quali ascesero alla predetta somma di diecimila. E giorno e notte combattevano, ma facevano poco frutto, però che li due castelli erano inespugnabili, né vi valevano i lor cavalli, né le lor lancie, né freccie né balestre né schioppi. Non vi valeva parimente una bombarda di bronzo di spanne quattro, la qual avevano levato da Mirdino, dove stava continovamente alla porta del castello della città. Questa bombarda fu gittata fino al tempo che regnava Iacob sultano in quel paese, che cosí egli la fece gittare. E io stando in Asanchif andavo molte volte a veder combattere e a sparar la detta bombarda; e anche Custagialu ne fece gittar una piú grossa da un giovan Armeno, che la gittò all'uso turchesco con bella tromba, e la bombarda e 'l mascolo era tutto d'un pezzo: il mascolo era lungo per la metà della tromba, ma piú sottile, e la bombarda nella bocca era cinque spanne. Aveano solamente queste due per battere li detti castelli, nelli quali non aveano altra artigliaria se non tre o quattro schioppetti all'usanza azemina, con un picciol mascolo, che con un ingegno s'inchiavava con la tromba, di grandezza d'un buon archibuso, sparando molto lontano. Avevano anche una certa foggia di balestre fatte a modo d'archi d'osso, ma fatte a posta, piú forti di quelli che si tirano con le mani, e hanno il manico con un certo ingegno da scoccare al modo nostro, e sono senza noce, ma in luogo di quella hanno un certo ferro. I loro verettoni sono lunghi come meza una freccia e sottili, e sono impennati di penne e con li ferri secondo che hanno le freccie turchesche, e fanno gran passata. Di queste balestre n'erano anche dentro di un dei detti castelli, e credo fusse nel minore, circa venti.
In questa città vi è un monte, sopra del quale avevano fatto un riparo di tavole e di legnami, e dietro a esso stavano molti uomini con frombe che tiravano nel castello, com'anche quei del castello tiravano nella città: questo riparo avevano fatto per esser il castello piú alto della città, e da quello mandavano a basso molti sassi. Le due bombarde furono drizzate presso del castello, per levar via alcune difese che facevano gran danno, e già avevan morti molti della città; e fecero un muro per lor riparo con una porta di tavole grosse, che come un ponte si poteva alzare e abbassare: e questo tutto fu ispedito in una notte, e quando volevano sparare una delle dette bombarde alzavano e poi abbassavano la porta. E ne morivano molti dell'una e dell'altra parte, però che cominciavano la mattina avanti giorno a sonar li loro stromenti da battaglia, continovando fino al tramontar del sole. E due mesi ch'io dimorai quivi sempre vidi combattere, di maniera che la povera città era meza assediata, per li molti soldati e gente ch'alla giornata giugnevano, facendovisi di molti disordini: il che tutt'era comportato da Custagialu Mahumutbec, per aver denari da mantener li suoi soldati.
Questa città fu sempre tenuta com'un reame separato, ma sottoposto a' re di Persia. E nel vero mi paion molto degne e gentili e buone e amorevoli persone: vi sono di molti mercanti, e donne piú belle assai che in qualsivoglia luogo del Diarbec. Fuori della città vi sono quattro borghi, come vi conterò. Dalla parte di levante, nel monte sotto il castello, vi sono tante grotte che bastarebbero a fabricare una città; sotto di questo è un altro borgo di case grandissime. Dall'altra parte di là dal fiume vi sono alpi sopra il fiume altissime, tutte piene di grotte fatte a martello, con camere e palagi con molte scalette, per le quali si scende giú nel fiume per pigliar acqua, piú belle che non son le case. E appresso di questo luogo è un borgo di case, con un bellissimo bazzarro e un chan d'alloggiar mercanti. Da questo bazzarro andando alla città si passa il fiume sopra d'un bellissimo ponte di pietra, fabricato maravigliosamente: e io per me giudico che non vi sia paragone d'un altro. Egli ha cinque volti altissimi, grandi e larghi: quel di mezo è fabricato sopra una fortissima fondamenta, fatta di pietre longhe due e tre passa e larghe piú d'un passo. Questa fondamenta è talmente grossa ch'ella volge di circuito da passa venti, fatta in forma di colonne, e sostiene il volto di mezo, stando posta in mezo il fiume: ed è tanto alto e largo il volto, che vi scorrerebbe una nave di trecento botti con tutte le vele imbroccate; e veramente assai volte, standovi sopra e guardando il fiume, mi veniva paura per la grande altezza.
Ma poi che mi viene in proposito, dirò ch'io giudico tre cose esser nella Persia di bellezza singulare e notabile: il detto ponte d'Asanchif, il palagio di Assambei sultan e il castello Cimischasac.


Del castello Cafondur e della città di Bitlis; de' popoli curdi e di Sarasbec curdo, signore della detta città, il quale faceva poca stima di sciech Ismael.
Cap. 5.

Or, parendomi aver detto convenientemente di questa città e delle sue condizioni, mi par ragionevole ch'io mi parta, seguendo il viaggio cominciato. Nel fine adunque de' due mesi m'inviai verso Bitlis, dalla quale sono cinque giornate di cammino insino a un castello che si chiama Cafondur, nel qual abita un signor curdo, governandolo sotto l'ubbidienza del signor di Bitlis. Egli è picciolo castello, fabricato sopra un monte acuto; e tutto quel paese è montuoso e arido, sí come da Asanchif a Bitlis tutta la strada è montuosa, con alcuni passi stretti e pericolosi. E avvegna ch'io abbia promesso di scrivere il viaggio drittamente, nondimeno, per sodisfazion mia e per dar piacere a' lettori, farò menzione anco d'una città ch'è poco fuor di strada, la qual è nominata Sert, dove nascono castagne e nocelle in gran quantità, e anche galla da conciar corami. Vi sono poi tre belli castelli, sottoposti al regno d'Asanchif, che sono detti Aixu, Sanson, Arcem. Questo Arcem è signoreggiato da un gran saraceno negro, schiavo di sciech Ismael, ch'è nominato Gambarbec, e ha statura e forza di gigante: e perchè sciech Ismael sultan glielo donò, ora è sottoposto a Custagialu.
Mi viene in mente che già di sopra vi dissi che nella provincia di Diarbec v'erano sei gran città e cinque castelli, ma non gli nominai, sí com'era conveniente di fare: però ora vi dirò il nome di ciascuno. Le città sono Orfa, Caramit, Mirdin, Gizire, Asanchif e Sert; le castella sono Iumilen, Dedur, Arcem, Aixu, Sanson, i quali tutti hanno i lor signori particolari, sott'il nome di Custagialu Mahumutbec.
Ma torniamo al già nominato castello di Cafondur, appresso del quale in una gran valle vi corre un fiumicello, e v'è fabricato un bello e gran chan, il qual fu fatto per ricoverar le genti che passano per quei viaggi al tempo che vengono le nevi, però che in quel paese nevica tanto ch'è cosa incredibile: e io medesimo fui constretto a star un mese in quel chan, non potendo continuare il viaggio mio di Bitlis, per le gran nevi che coprivano d'ogn'intorno. In questo luogo si compra pane, companatico, orzo e paglia carissimo da alcuni villani curdi, che stanziano in alcune ville sopra quelle montagne. Questo paese è sicurissimo da' ladri, e tutt'il tempo ch'io stetti in quel chan mai da niuno mi fu fatto dispiacere, ancora che di giorno e di notte v'andassi molte volte col famiglio del nostro Carimbassi, il quale aveva robbe d'esso Carimbassi, con altre mercanzie ch'erano restate a Asanchif, di valuta di diecimila ducati, e io aveva a mio comando per ducati tremila: né mai vi fu alcuno impedimento.
In capo del mese partitomi, come meglio potei giunsi a Bitlis, dove stetti circa quindici giorni aspettandovi Commimit il Casvem, con il quale io era mandato da' miei mercanti in Tauris per riscuotere alcuni denari. Questa città di Bitlis non è molto grande, né anco è circondata di mura, ma tiene un bel castello sopra una collina, nel mezo, il qual è assai grande e ben fabricato, e cosí come per croniche e memorie si vede, fu fabricato da Alessandro Magno, cioè murato di belle mura, con molti torrioni attorno e torri alte maravigliosamente. Questa città insieme col castello è dominata da un Sarasbec curdo, mezo ribello di sultan sciech Ismael, e stassi nella Persia per esser padrone di quella bella fortezza. Tutti li Curdi sono veri macomettani, piú che gli altri popoli della Persia, però che li Persiani sono diventati della setta sofiana, ma li Curdi non si vogliono convertir a cotal setta, e se ben portano le berrette rosse, nondimeno nell'animo par loro d'avere una ferita mortale. Questa sopradetta città è situata fra gran montagne in una valle, sí che sta come nascosta, né parte alcuna si vede fin che l'uomo non gli è appresso. E tutto quel paese è quasi un porto e un riposto da neve, e tanta ve ne cade che non ne stanno senza, eccetto tre o quattro mesi dell'anno, tal che avanti quindici o venti giorni d'aprile non possono seminare il grano. Di questa città escono molti mercanti, che pratticano in Aleppo, in Tauris e in Bursa, e se ne partono, perciò che in essa non v'è da comprare né da smaltir cosa alcuna mercantesca, per esser tutto il popolo curdo e uomini vili. Vi sono anche molti cristiani armeni, gente piú cattiva che macomettani, e non tanto in questo luogo, ma per tutta la Persia dove se ne truovino. Per mezo questa città passa un fiumicello, onde tutta la città viene a esser abbondante d'acqua. V'è anche nel castello una fonte la quale, ben ch'ella mandi fuori poca acqua, nondimeno sodisfà a' lor bisogni; e il verno ognuno raccoglie molta quantità di neve, e mettendola nelle cisterne se ne servono poi la state.
Questo curdo Sarasbec che signoreggia questa città non fa molta stima di sultan sciech Ismael, il qual, stando io in Tauris, mi ricordo che molte volte lo mandò a chiamare: ma egli non si fidò mai d'andarvi, onde sciech Ismael vi mandò un suo capitano, nominato sofí Zimammitbec, con circa seimila uomini a cavallo, i quali, essendo giunti appresso a Bitlis due giornate, furno sopragiunti da una staffetta, con un comandamento del signore al capitano, che se ne ritornasse subito alla volta di Tauris. Egli, rivoltatosi con la sua gente, se ne venne da sciech Ismael, il qual era tutto turbato e pieno di sdegno, perciò che Usbec detto Casilbas era corso sul paese suo, danneggiandogli il territorio di Iesel. E avendo deliberato di vendicarsene, fece adunar tutte le sue genti a piede e a cavallo, incamminandole contro il detto Casilbas, il quale è del parentado del gran Tamberlano, che signoreggia la Tartaria e Curidin e confina fino in Sammarcant. Quel che di ciò poi seguisse mi riserbo a ragionarne in luogo piú opportuno, e particolarmente raccontare il tutto; fra questo mezo tornerò al mio primo proposito.


D'un mare over lago salso, e de' castelli che vi sono attorno; della città d'Arminig, posta sopra un'isola del detto mare, abitata solamente da cristiani armeni; di castel Vastan, e di Van, nel qual era Zidibec signore, disubbidiente a sciech Ismael: vi fu mandato Bairambec e lo tenne assediato tre mesi, ed ebbe a patti il castello, per essersene di notte fuggito Zidibec.
Cap. 6.

Partitomi adunque da Bitlis, la seconda giornata giunsi a Totovan, picciol castello, ch'è sopra un monte che si stende nel mare, com'intenderete. In questo paese v'è un mare over lago il qual è salso, ma non tanto grande quanto è il mare Adriatico: è longo da trecento miglia, largo nella maggior distanza centocinquanta, e ha attorno attorno molti golfi con luoghi fruttiferi pieni di ville; e la maggior parte de' villani sono armeni. Attorno di questo mare vi sono sette bellissimi castelli, abitati da Curdi e da Armeni, e io tutti gli ho veduti e praticatovi, però che, quando andai in Tauris, v'andai da una parte e tornai dall'altra, per esser questo mare nel mezo del cammino. De' castelli ve ne son quattro dalla parte di levante, cioè Totovan già detto, Vastan, Van, Belgari; verso ponente son Argis, Abalgiris, Calata. Questa Calata anticamente era una gran città, come si vede per molti edificii; ora è ridotta in un picciol castello.
Fra Totovan e Vastan v'è un'isola nel mare, due miglia lontana da terra ferma, ch'è tutta sasso vivo e molto eminente, sopra la qual è una picciola città che volge due miglia, ed è tanto grande la città quanto l'isola. Questa città è nominata Arminig, ed è ben popolata e abitata solamente dagli Armeni, senza macomettano alcuno, e vi sono molte chiese, tutte officiate da cristiani armeni, tra le quali quella di S. Giovanni è la maggiore, e ha un campanile fatto com'una torre, e tant'alto che signoreggia tutta la città; e tra l'altre campane ve n'è una grande, che quando è sonata risuona per tutta quella contrada di terra ferma. All'incontro della città over isola v'è un gran golfo, con una dilettevole pianura con molte ville, tutte abitate da cristiani armeni, con molti belli terreni lavorati e bellissimi giardini, con arbori che producono ogni sorte di frutto. Questo golfo ha un bonissimo e allegro aere, e d'ogn'intorno vi sono montagne cosí alte che par che tocchino il cielo; e non tanto nel circuito di questo golfo, ma anche attorno tutt'il mare, vi sono monti aridi sempre carichi di neve.
Da questo luogo a due giornate si truova il castello detto Vastan, il qual fu rovinato da sciech Ismael, e vi restò un borgo con un bazarro, il qual è sopra un gran golfo del detto mare, pieno di ville, che son tutte abitate da Curdi. Quivi è abbondanza di vettovaglie piú che in alcun altro luogo, e vi si fanno meli bianchi assai, li quali di tempo in tempo sono condotti in Tauris con le caravane, insieme con unto sottile e formaggio per vendere.
Scorrendo piú oltre una giornata v'è il castello di Van, il quale è fabricato sopra un monte over colle ch'è sasso vivo, e da ogni parte risorge acqua viva, e volge di circuito piú d'un miglio, ma stretto e longo com'è il sasso dov'egli è fabricato; e anche in cima di questo sasso, da una parte ch'è erto com'un muro, v'è una fontana, della quale tutt'il castello si serve. Questo castello è signoreggiato da un signor curdo detto Zidibec, ch'è gran signore e molto superbo, per aver egli quella gran fortezza, con molt'altri castelli che sono per quei monti. Costui faceva batter moneta di sua stampa, d'oro, d'argento e di rame. Di sotto del castello è un gran borgo, e la maggior parte degli abitanti son armeni, ma nel castello sono tutti curdi. Questo luogo è lontano dal mare un buon miglio, ed è abbondante d'ogni vettovaglia.
Questo signore ha molti figliuoli, i quali signoreggiano le castella che sono d'intorno. E, come ho detto, egli è molto arrogante pel potere ch'egli ha, ed è ribello e disubbidiente a sciech Ismael, il quale un'altra volta vi mandò un suo capitano, detto Bairambec, con diecimila cavalli di gente fiorita. E io, essendo in Tauris, da' soldati che ritornarono mi feci raccontar tutt'il successo; ma piú puntalmente da un capo di bombardieri, ch'era uomo da bene e molto mio amico, nominato Camusabec di Trabisonda, intesi che, quando Bairambec s'appresentò sott'il castello con l'esercito, Zidibec pieno d'inganno mandò un suo uomo a Bairambec a ricercargli salvocondotto di poter andare a baciarli la mano. Ottenuta la domanda, Zidibec discese dal castello con pochi compagni e tutti disarmati, e venuto alla presenza di Bairambec lo salutò alla usanza persiana over sofiana, dicendogli che si maravigliava che la sua nobil persona fusse venuta con quell'esercito a quel luogo, non essendo ciò allora di bisogno, perchè se pel passato egli avea avuto mala opinione, per l'avvenire volea esser fedel servitore di sultan sciech Ismael, chinando la testa insino a terra, cosí facendo sempre ch'egli nominava sciech Ismael, e ch'era per riverir quel gran nome, com'è il debito suo di fare, mostrando molto umili riverenze nel suo ragionare. E alla fine pregò caldamente Bairambec che, quando egli tornerà alla nobil presenza di sciech Ismael suo signore, si degni di difenderlo e aiutarlo facendo sua scusa: la qual cosa il capitano Bairambec promise di fare; e oltre la promessa gli fece un convito cosí magnifico che saria stato conveniente a ogni gran re. Poi ch'ebbero desinato in compagnia, Zidibec cominciò scusarsi, chiedendo perdono a Bairambec del fastidio e travaglio che per lui avea avuto, venendo con tanto esercito in quel luogo, e levatosi in piedi gli disse: "Signore, manda con esso meco chi ti piace, ch'io li consegnerò nelle mani il castello, e pregoti che tu mi conceda due giorni di termine, ch'io possa apparecchiarmi per venir teco alla presenza di sultan sciech Ismael". Il capitano gli concesse quanto domandava e, chiamato un barone detto Mansorbec, gli comandò ch'andasse con Zidibec nel castello e lo pigliasse per consegnato, sin tanto che venisse altro aviso da sciech Ismael; e anche gli promise di fargli tal favore appresso sciech Ismael ch'egli resteria signor del castello e del bel paese.
Fatte queste convenzioni e patti, Zidibec pigliò licenza, e con esso lui andò il sopradetto barone Mansorbec, con forse cent'uomini, con intenzione di pigliar la possessione del castello a nome di sciech Ismael; e giunti alla porta, entrò primamente Zidibec, e dopo lui Mansorbec con la sua gente: e subito che fu serrata, comparvero da millecinquecento uomini armati, che già stavano apparecchiati per quell'effetto, i quali tagliorno a pezzi Mansorbec con tutti li suoi uomini. Zidibec poi se ne venne con gl'istessi armati alla volta del campo, ed essendo stata data ferma fede alle sue parole da Bairambec, lo trovò co' suoi soldati, che se ne stavano senza sospetto alcuno e disarmati, onde cominciò a combatter fieramente contra tutto l'esercito, del quale ne furono uccisi assaissimi: e de' suoi ne morirono forse da trecento, e anche furono feriti molti altri, e al capitano Bairambec furono date tre ferite. Zidibec si ritrasse al meglio che poté nel castello e, serrata la porta, fecesi forte in esso, che per battaglia di mano era sicuro. Dopo questo successo, avendo Bairambec nel suo campo due bombarde non molto grandi, si misero a battere il castello, ma non gli potevano far danno alcuno, perciò che le mura erano troppo grosse, e anche li bombardieri erano di poco giudicio.
E avendogli tenuto il castello tre mesi assediato, fu scoperto ultimamente da' bombardieri un luogo dove sorgeva una fonte nel castello, che li dava da bere a sofficienza. Vicino a quel luogo piantarono le due bombarde, e tanto gli tirarono che quel grebano donde l'acqua usciva crepò in diversi pezzi, e l'acqua ch'era solita sorgere in alto tutta se ne discese al basso, onde subitamente il castello restò assediato. Per il che vedendosi Zidibec mal sicuro, deliberò, venuta la notte, levarsi di quel luogo, e cosí, calatosi per le mura insieme con forse cinquanta uomini della sua corte, senza far motto agli altri, pigliato il suo tesoro, la sua moglie e due figliuole e travestitosi, egli se n'andò tra quei monti in alcuni altri suoi castelli. La mattina seguente si seppe la nuova per tutto che Zidibec se n'era fuggito, onde tutt'il popolo mandò subito da Bairambec, facendogli offerta del castello, pur ch'esso gli assicurasse l'avere e le persone. Bairambec, ch'ormai gli era venuto in fastidio quell'assedio, per esser già passati tre mesi che dimoravano quivi per quell'impresa, promise loro la sua fede e concedette quanto aveano ricercato. Però gli apersero le porte, ed entrato che fu dissero come la notte Zidibec con la sua corte se n'era fuggito. Lascio far giudicio ad ognuno del dispiacere e dolore ch'egli ebbe, poi che non poté averlo nelle mani. E avendo messo quivi un castellano con ragionevol provisione per conservarsi quel luogo, se ne ritornò in Tauris, dove sciech Ismael fece far molte feste e giuochi in segno d'allegrezza, come sogliono far di simil nuove. Levossi poi di Tauris con molti de' suoi baroni e andossene a Coi, dimorandovi molti giorni, stando nelle caccie e in diversi altri piaceri.


Del castello di Elatamedia; della città di Merent e di Coi; della città di Tauris, dove fanno residenza li re di Persia; del suo castello, de' palagi, fontane e bagni che vi sono; della maravigliosa moschea ch'è nel mezo della città; della qualità degli uomini e delle donne; delle usanze e mercanzie della detta città.
Cap. 7.

Poi ch'ho lasciato adietro il mio primo ragionamento, avendo voluto dar notizia di questa cosa degna di memoria, mi conviene ritornare al già detto castello di Van, dal quale discosto tre giornate si giugne a un altro castello detto Elatamedia, abitato e signoreggiato da Turcomani, buona gente, e non da altri. Da questo luogo camminando tre altre giornate si truova Merent, ch'anticamente fu gran città, come si vede per gli edificii antichi, ed è posta in una bellissima pianura, con molti fiumicelli e giardini assai, e dentro v'è solamente un borgo con un bazzarro. E scorrendo piú oltre tre giornate si vede una bella e gran pianura, circondata da gran montagne, nel mezo della quale è una gran terra nominata Coi, che ne' tempi antichi fu una gran città, come pel circuito di molti edificii si vede. In questo luogo anticamente (e oggidí ancora s'osserva) era costume di ragunar le genti, quando li re persiani volevan uscir con esercito in campagna.
Questa città prima era rovinata, ma poi che sciech Ismael è successo nel regno, egli ha cominciato a rifabricarla e n'ha rifatta una gran parte: e fra l'altre cose è stato fatto un gran palagio, il quale con vocabolo persiano è detto Doulet chana, che vuol significare la casa graziosa. Questo palagio è tutto murato di mattoni, grandissimo, con un arin tutt'insieme; dentro vi sono molte sale e camere, ed è fatto in un volto, come sarebbe dire in un solaro, e ha un bellissimo e gran giardino. Ha poi due porte con due magnifiche corti degnamente fabricate, e quest'entrate sono simili a due chiostri di convento di frati; avanti la porta che sta verso ponente vi sono tre torrioni fabricati in tondo, e ciascuno d'essi volge otto passa, e d'altezza sono da 15 o 16 passa. Questi torrioni sono fatti di corna di nanfroni cervi, e si giudica che nel mondo non ne siano altretanti; e appresso i Persiani queste cose sono riputate molto magnifiche, onde per magnificenza hanno delle corna di quelli animali murato tutti questi tre torrioni, però che tutte quelle montagne sono alpestre e piene di salvaticine; e sultan sciech Ismael porta il vanto co' suoi baroni d'aver ammazzati tutti li detti animali. E veramente sciech Ismael piglia grandissimo piacere delle caccie, e per mostrar ch'egli è valente cacciatore, ha fatto fabricare le dette tre torri, e sta molto piú volentieri in quel luogo e con molto maggior dilettazione che in Tauris, per esservi luoghi molto accommodati alle caccie. In questa città si fanno anche assaissimi cremesini, per esservi alcune radici rosse, che si cavano dalla terra con vanghe e con zappe, e poi sono portate in Ormus, e le adoperano in far tinta rossa in molti luoghi dell'India.
Da questo luogo a una giornata si truova una terra nominata Merent, ch'è picciola, dalla qual a un'altra giornata è anche una picciola terra detta Sofian, posta nella pianura di Tauris, a canto d'una montagna: è bel paese, e ha molti giardini e fiumicelli. Di qui poi si giugne alla nobile e gran città di Tauris, dove fu l'assedio di Dario re di Persia, che poi da Alessandro Magno fu soggiogato e distrutto, e dove sempre è stata la sedia de' re persiani: quivi dimorava sultan Assambei, e dopo lui Iacob sultan suo figliuolo. Questa gran città è di circuito circa 24 miglia, a mio giudicio, e senza mura d'intorno come Vinegia. Dentro vi sono grandissime memorie de' palagi de' re ch'hanno signoreggiato la Persia; vi sono abitazioni molto magnifice. Scorrono anche per entro due fiumicelli, e di fuori mezo miglio dalla parte di ponente v'è un grosso fiume d'acqua salsa, il qual si passa per un ponte di pietra. In ogni contrada e canto d'essa vi sono fontane, che vengono per acquedotti fabricati sotto terra. Li molti palagi de' re passati si veggono lavorati maravigliosamente, dentro e fuori smaltati d'oro e di diversi colori, e ciascun palagio ha la sua moschea e il suo bagno, che parimenti sono lavorati di smalto diversamente a minuti e gentili fogliami: e ogni cittadino che sia in Tauris ha la sua stanza di dentro tutta lavorata di smalto e d'azzurro oltramarino a minuti fogliami.
E molte moschee sono cosí degnamente lavorate che muovono a gran maraviglia chi le contempla; tra le quali nel mezo della città ve n'è una tanto ben fabricata che non m'assicuro di saperla ben descrivere: pur non resterò di dirne qualche cosa. Questa moschea si chiama Imareth Alegeat, ed è grandissima, né mai fu copertata nel mezo; dalla parte dove li macomettani salutano v'è un coro, cioè un volto, tant'alto ch'un buon arco non tirarebbe al sommo. E per quel ch'egli dimostra questo luogo non è mai stato finito, e attorno attorno è tutto fatto in volto, con bellissime cube, le quali sono sostentate da colonne di marmo, ch'è di tanta finezza e cosí lucente ch'assomiglia al cristallo fino, e sono tutte d'una medesima longhezza e grossezza, la qual può esser da cinque in sei passa. Questa moschea ha tre porte, delle quali due sole sono adoperate, e sono fatte in volto: di larghezza sono da quattro passa e d'altezza da venti passa; tengono una colonna per ogni parte, fatta non di marmo ma di pietre di diversi colori, e il resto del volto è tutto di fogliami di smalto lavorato. In ciascuna porta v'è un quadro lavorato di marmo tralucente, e di tanta finezza e bellezza che l'uomo potria specchiarvisi dentro. E per tutta la contrada si vede la moschea, e anche chi fusse un miglio lontano chiaramente può vedere questi due quadri, i quali sono per ogni lato tre passa, e la porta che s'apre e serra è di larghezza tre passa e d'altezza cinque, ed è d'un grosso legname tagliato a forma di tavole, coperto di lame di bronzo grandi gettate in forma, ben lavorate a fogliami e indorate. Dinanzi la porta principale della moschea vi corre un fiumicello, con volti di pietra per i quali passa il fiume. Nel mezo dell'edificio v'è una gran fonte, ma non per natura quivi surgente, ma fatta dall'arte, perciò che l'acqua vien menata per un certo condotto per il quale s'empie, e per un altro si vota, secondo che a loro piace. Questa fonte è di longhezza cento passa e altrettanto di larghezza, e nel mezo ha due passa di fondo, dov'è fabricato un bellissimo capitello, o vogliamo dir cuba, sopra sei colonne d'un finissimo marmo, tutto a fogliami di dentro e di fuori lavorato. E l'edificio è antichissimo, ma il capitello è fatto nuovamente; e v'è un ponte, che va da una parte della fonte diritto al capitello. V'è anche un bellissimo battello, simile a un buccintoro, nel qual molte volte sultan sciech Ismael soleva, mentre era giovane, com'anche suol far al presente, entrar con 4 o 5 de' suoi baroni, e co' remi in questa fonte pigliarsi piacere.
Né di questo voglio dir altro, ma passerò a raccontare di due grandissimi olmi, sotto ciascuno de' quali starebbero piú di 150 uomini: e in questo luogo si fanno prediche, manifestando e dichiarando la nuova fede over setta sofiana. Li predicatori son due dottori di quella setta, e uno d'essi, per quel che dicono molti, già insegnò lettere a sultan sciech Ismael, e l'altro ha molta provisione, per attender con sollecitudine alla predicazione e a convertir la gente alla lor setta.
Ha medesimamente questa città un grandissimo castello verso levante, a piè d'una bellissima collina, ma egli è disabitato, e dentro non ha altra stanza che un magnifico palagio, fabricato sí che piglia un poco della collina: ed è maraviglioso, come si può comprender dalle cose ch'io dirò. Questo palagio è altissimo, e parmi che fin al mezo egli sia massiccio. Di fuora via ha una scala longa da otto in dieci passa e larga tre, la qual monta alla porta regal del palagio, e l'entrata sua è una saletta non molto grande, da una parte della quale è una cuba, nel modo che sarebbe un luogo secreto, che è sostenuto da quattro colonne grosse, che sono longhe da passa cinque e grosse quanto io poteva abbracciare in due volte. Li capitelli di queste colonne sono maravigliosamente intagliati. La colla è d'una certa mistura over pietra che proprio s'assomiglia al fino diaspro, com'io credetti che fussero: ma, toccandole con coltello, trovai ch'elle non erano dure. E furono poste in questo luogo non tanto per bisogno, quanto per magnificenza, però che la cuba è sostenuta da forti e grosse mura. Poi piú dentro v'è un'altra saletta stretta e longa, con molte stanzette come camere; ed entrando piú dentro si truova una sala grandissima, con molte finestre che guardano nella città, perciò che 'l palagio le soprastà, com'ho detto, stando sopra una collina che scuopre tutta la città e molt'altri luoghi piú discosti.
Tutti questi sopradetti luoghi sono dignissimamente lavorati a fogliami di smalto e d'altri diversi colori; cosí anche tutti li cieli delle stanze sono lavorati e dipinti a fogliami d'oro e d'azzurro oltramarino. La sala grande che signoreggia la città ha di molte colonne attorno, che par che sostentino il tetto; nondimeno è sostenuta da grosse mura, e le colonne posero per magnificenza, e perciò ch'elle sono di finissimi marmi, non bianche, ma di colore come d'argento, di tal modo lucido che in ciascuna di esse risplende e vedesi tutta la città, tutta la sala e tutte le colonne, con tutte le genti che vi sono. E per ogni finestra ch'in questa sala si truova vi sono lastre di marmo fino, dell'istessa sorte e foggia che sono le colonne, nelle quali medesimamente si può l'uomo specchiare, e tanto maggiormente quanto queste sono piane, che non pur si vede la città ma anche il circuito d'essa, e le montagne e le colline piú di venti miglia discosto, con tutti li giardini e con la sua gran pianura.
Questa città oltre di ciò ha di bellissime condizioni: la principale è l'esser posta in un sito maraviglioso, nel capo d'una pianura bella e grande dalla parte verso levante, in un luogo ch'ha similitudine d'un golfetto, a' piedi d'una gran montagna, avvegna ch'ella resti dalla banda lontana da dieci miglia verso levante; e verso tramontana ve ne è un'altra non molto grande, appresso la città tre miglia. Quivi v'è l'aere tanto delicato e ameno che induce l'uomo a star sempre di buona voglia e allegrissimo, né io mai vi viddi alcuno ammalato. Usano di mangiare quasi tutti carne di castrati, ch'è molto delicata al gusto; la carne di manzo appresso di loro è vilissima, pure dal popolo minuto se ne mangia. Il lor pane è di frumento, bianco come latte. Hanno pochi vini, pur vi si trovano vini vermigli, come sono groppelli, e vini bianchi, di colore e di sapore di malvasia. Vi sono anche assaissimi pesci, che si pigliano in un lago discosto dalla città una giornata, il qual è salso come quelli di Vastan e di Van: ma non sono di natural sapore di pesce, anzi tengon un stran odore e sapore di solfo. In questo luogo vi vengon anche portati molti schenali, minori di quelli ch'escono del mar Maggiore, ma sono perfetti; vi vien anche caviaro bonissimo: e gli schenali e il caviaro son portati dal mar Caspio, lontano da questo luogo nove giornate, da un castello detto Maumutaga. Com'anche da questo mare vi vengono morone fresche grande come uomini, e sono di tanta perfezione che sono migliori che la carne de' fagiani, e non ve ne vengono mai se non il verno, però che la lor stagione dura solamente due mesi. Vi sono anche frutti comuni, come per tutt'il mondo: nocelle poche, olive delicatissime; né vi si truova olio né aranci né limoni, ma sí ben pomi d'Adamo. Questi frutti, che mancano al tempo del verno, ve ne son portati da Chilan, ch'è una picciola provincia nella riviera del mar Caspio, vers'ostro, lontana dal mare da venticinque miglia. Questa città è anche ornata di molti giardini, ne' quali vi son erbaggi comuni, come erbette, verze, verzotti e cappucci, che somigliano a quelli che vengono in Vinegia, rape e carotte; le radici sono picciole; magiorana, petrosemolo e rosmarino. Vi sono anche risi assaissimi, frumenti e orzi in abbondanza.
Oltre di ciò questa città è benissimo popolata da Persiani, da Turcimani e Zingani, che sono trattati come gente della setta sofiana, e portano berretta rossa, sí com'il resto di tutt'il popolo. Vi sono cristiani armeni in buona quantità, né da Tauris piú oltre scorrendo vi si truovano cristiani d'alcuna sorte. Vi sono anche de' giudei, ma non fermamente abitanti, che tutti sono forestieri, da Bagadet, da Cassan e da Iesede, e vengono in Tauris e sono sofiani, e abitano a Icharansaradi, sí come ciascun mercante forestiero. Della condizion de' popoli so che intenderete cose maravigliose. Gli uomini communemente sono piú grandi che ne' paesi nostri e molto crudeli, robusti in vista e d'animo superbi. Le donne generalmente hanno questa condizione, che son picciole alquanto piú degli uomini, bianche come neve; il loro abito donnesco è come sempre fu l'abito persiano, che lo sogliono portare sfesso appresso del petto, che tenendolo scoperto mostrano le mammelle e anche il corpo, che l'hanno tale che di bianchezza s'assomiglia all'avorio. Tutte le donne persiane, e massimamente in Tauris, sono lascive, e particolarmente tutte costumano vesti da uomo, e se le mettono sul capo coprendosi tutte: queste sono vesti di seta, diversi chermesini, velluti, panni, capi d'oro, ciascuna secondo la lor condizione; da Bursa, da Cafa son portati assai velluti e panni d'oro.
In questa città è un ordine, com'è anche per tutta la Persia, che un appaltatore apposta tutte le gabelle, con tutte le manzarie, come querele e contrabandi. V'è anche una brutta usanza, la qual è stata sempre, ch'ogni mercante che tien bottega in bazzarro paga un tant'il giorno, chi due aspri, chi sei, e chi un ducato, secondo le loro facende: cosí a tutti li maestri di qual si vogliano arti è limitato il pagare secondo le loro condizioni, com'anche le meretrici che stanno al luogo publico sogliono pagar secondo le lor bellezze, però che quanto son piú belle tanto piú sono tenute a pagare. Ma molto piú degli altri che ho detto è questo maladetto, disonesto e orrendo costume, che puzza fino al cielo; e ben di qui si comprende la sceleraggine loro: che v'è un publico luogo e scuola di sodomia, dove parimente secondo le lor bellezze pagano il tributo. Tutti questi denari che si cavano sono a beneficio particolare dell'appaltatore, né si fanno differenze da' cristiani a' mosulmani in andar a donne da partito.
Oltre di ciò, queste gabelle hanno la tariffa, che li cristiani pagano dieci per cento d'ogni sorte di mercanzia, venga pur da che parte si voglia; li mosulmani non pagano se non cinque per cento d'ogni cosa: e se non vendono in Tauris, e che le robbe siano per transito, non si paga per cento, ma si pesa la soma ligata, e pagasi tanto per cento. In una soma che sia da ducati quaranta o quarantacinque di spesa, o sia robba sottile over grossa, è limitato tanto per cento. Di tutto quel che nella città si compra, egli è ancor limitato quanto s'abbia da pagare secondo le sorti delle mercanzie, e tutto riscuote l'appaltatore. Nel tempo ch'io era in Tauris, stava in quest'officio uno nominato Capirali, e aveva le dette gabelle di ducati settantamila. Questa città è molto mercantesca e vi sono sete d'ogni sorte, grezze e lavorate; vi capita del reubarbaro, muschio, azzurro oltramarino, perle d'Orimes d'ogni carattada, specie d'ogni sorte, lacca d'ogni bellezza, endego fino, panni di lana di ogni sorte, d'Aleppo, di Bursa e di Constantinopoli, perchè di Tauris sono levate sete cremesine e portate in Aleppo, in Turchia, e tutti i lor ritratti sono di panni e d'argenti.


Descrizione del palagio regale ch'Assambei fece fabricar fuori della città di Tauris.
Cap. 8.

Avendo io ragionato assai longamente delle molte condizioni di questa città, non mi par che sia ragionevole di lasciare adietro di raccontare d'un bellissimo palagio, il qual il magnanimo sultan Assambei fece fabricare: e avvegna che nella detta città ve ne siano di molti, e grandi e bellissimi, fatti da' re suoi antecessori, nondimeno questo senza dubbio avanza tutti gli altri; e tanta fu la magnificenza d'Assambei, che insino al dí d'oggi nella Persia non è stato re alcuno che l'abbia pareggiato.
Il palagio è fabricato nel mezo d'un grande e bel giardino, tanto fuori della città che solamente un fiumicello vi corre di mezo dalla parte di tramontana, e parimente nell'istesso circuito v'è fabricata una bellissima e gran moschea, con un bello e ricco spedale congiunta. Il palagio in lingua persiana è chiamato Astibisti, ch'appresso di noi si direbbe otto parti, perciò ch'egli ha otto cantoni. È d'altezza da trenta passa, e volge da passa 70 in 80, di forma tonda, a otto cantoni, i quali sono compartiti in quattro camere e quattro salette, e ogni camera ha la sua saletta attorno attorno dalla parte di fuora via, e il resto del palagio dentro resta tondo in una mirabil cuba. Questo palagio è in volto, o come si suol dire in un solaro, e ha una sola scala da montar alla cuba e alle camere e salette, però che la scala si riferisce alla cuba, e dalla cuba s'entra nelle camere e nelle sale. Questo edificio da basso a piè piano ha quattro ponti da entrare, e ha anche molte stanze, ed è tutto di smalto e d'oro, a diversi fogliami lavorato, e con tanta bellezza ch'io non mi sento bastante a poterlo esprimere con parole.
Questo luogo, come ho già detto, è posto nel mezo del giardino, ed è fabricato sopra un mastabè, overo il mastabè è stato fatto attorno attorno per magnificenza, il quale è alto un passo e mezo e largo da cinque passa, come saria una piazza. Per ciascuna porta ch'ha il palagio è limitata una via lastricata di marmo, per la qual vassi al mastabè. Per mezo la porta del gran palagio v'è una scaletta di finissimo marmo, per la qual s'ascende sopra il mastabè, che tutto è fatto di marmi finissimi, e de' quali parimente nel mezo del mastabè è lastricato e sottilmente lavorato un canaletto d'un fiumicello, ch'è largo quattro dita e quattro alto, e corre attorno attorno a guisa d'una vite, overo a modo d'una biscia; e da una parte nasce e va attorno, e in quell'istesso luogo, in un altro luogo o sia condotto si disperde. Il palagio, di sopra dal mastabè tre passa largo, è tutto di marmi finissimi, e di là in su è tutto di smalto di diversi colori, e risplende da lontano come un specchio. La terrazza del palagio ha per ogni cantone una gorna che getta fuori l'acqua, e la gorna è grandissima a maraviglia, ed è fatta in forma d'un dragone, ed è di bronzo, e sí grande che ciascuna farebbe una bombarda, ed è sí ben fatta che s'assomiglia a un vivo dragone.
E dentro del palagio, all'alto nella cuba, tutto attorno attorno sono d'oro e d'argento e d'azzurro oltramarino istoriate tutte le battaglie che già gran tempo furono nella Persia, e si vedono anche alcune ambascierie che piú volte vennero mandate da Ottomano in Tauris, e s'appresentavano avanti ad Assambei, stando scritto in certi brevi in lingua persiana quello ch'essi ambasciatori domandavano, e la risposta ch'egli aveva fatta loro. Vi sono anche istoriate le sue caccie, dove egli è accompagnato da molti baroni tutti a cavallo, con falconi e cani. Si vedono parimente molti animali, come leonfanti e leoncorni, significando cose che a lui sono intervenute. Il cielo della cuba è tutto lavorato a gentilissimi fogliami d'oro e d'azzurro oltramarino; le figure sono cosí ben fatte che paiono naturalissime creature umane. Nella cuba è disteso per terra un finissimo tapeto, che par di seta, lavorato all'uso persiano, con bellissimi fogliami: ed è tondo, e di quell'istessa misura che ricerca il luogo, com'anche in ogni camera e saletta ve n'è uno che cuopre tutt'il suolo. Questa cuba non ha luce, se non quella che piglia dalle salette e dalle camere, però che dalla cuba s'entra nelle camere e nelle sale, dove sono molte finestre che tutte le danno il lume, avvegna che le salette non abbian altro ch'una finestra, ch'è tanto grande che piglia tutt'una facciata, ed è fatta a un modo ch'io non le saprei dar simiglianza: basta che, quando le porte di questi luoghi sono aperte, il palagio over la cuba tanto risplende con quelle bellissime figure ch'è cosa maravigliosa. E questo è il luogo dove Assambei solea dar audienza.
E scostandosi dal palagio un tiro d'arco, v'è fabricato un arin a piè piano, ed è tanto grande che commodamente vi stariano mille donne in diverse stanze; e fra l'altre è un luogo grande com'una sala, ch'ha tutte le mura lavorate d'oro e di smalto, che paion proprio smeraldo, e di molti altri colori. Il cielo di questo arin è lavorato d'oro e d'azzurro oltramarino. In questa sala vi sono molte camere da ogni lato, e tutte le porte sono superbamente lavorate d'oro e d'azzurro, con molti brevi di lettere fatte di radici di perle, e con molti bei fogliami; e pel mezo di questa sala scorre un fiumicello d'acqua chiarissima, il qual è largo un braccio e altretanto è di fondo. Da una parte di questo arin v'è anche una loggietta di quattro passa per ogni quadro, ed è molto magnificamente lavorata di smalto, d'oro e d'azzurro oltramarino a fogliami, cosa veramente molto onorevole. In questo luogo dimorava la regina con le damigelle, a far lavori con l'ago, secondo la lor usanza.
E in vero sarei troppo longo e troppo tedioso s'io volessi andar raccontando ogni cosa del palagio e dell'arin, che sono in un istesso giardino, e vi s'entra per tre porte: l'una è dalla parte di ostro, l'altra da tramontana, la terza di ver levante. Quella di verso ostro è murata in volta con mattoni, e non molto grande, la qual entra nel giardino, rimanendo 'l palagio un tratto d'arco lontano; ed entrato nella porta, da passa quindici da man sinistra vi si truova una loggia, ch'è di longhezza un tiro d'arco e di larghezza passa sei, che da un capo all'altro ha banchi di lastre d'un finissimo marmo, con una spalliera, cioè a somiglianza di spalliera, con un lavoro di fogliami di rilievo di smalto di diversi colori, tanto degnamente fatto ch'a vederlo è maraviglioso; il cielo d'essa è tutto lavorato d'oro e di smalto. Questa loggia d'una parte insino all'altra è tutta sostentata da colonne di marmi finissimi; davanti poi v'è una fonte, tanto longa quanto la loggia, e fabricata di marmi finissimi, come l'altre, che sempre stanno piene d'acque: ed è di larghezza da passa venticinque. Dentro d'essa vi stanno sempre quattro e cinque paia di cesani; d'intorno intorno vi sono piante di rose e di gelsomini, e v'è una bellissima strada che va dritta al palagio regale.
Dalla parte ch'è da tramontana conviene entrare in un certo luogo, ch'è come un chiostro, che tutto è mattonato, avendo attorno banche di marmo da sedere. Questo luogo è tanto grande che vi starebbero trecento cavalli, dove smontavano tutti li baroni che venivano a corte, nel tempo ch'Assambei regnava. In questo luogo v'è una porta, ch'entra nel giardino per andar al palagio regale, la qual è in volto, alto da passa quindici, largo passa quattro, di smalto dignissimamente lavorato d'alto a basso. La porta è fatta d'un marmo ch'è tutto d'un pezzo quadro, nel qual è stata intagliata, ed è da quattro passa per ogni quadro, e l'altezza d'essa può essere un passo e mezo, e di larghezza l'istesso, ed è in volto. Il resto del marmo è tutto intagliato a fogliami, e mentre è percosso da' raggi del sole dall'una e dall'altra parte risplende sí che par finissimo cristallo, però che questi marmi che si truovano nella Persia sono d'altra sorte che li nostri, e di molto maggior finezza: ve ne sono zuccarini, ma come specie cristallina. Dentro di questa regal porta v'è una bellissima strada lastricata fin al palagio regale. L'altra porta, ch'è di verso levante, è sopra un grandissimo maidanno over piazza, ed entra nel giardino. Questa porta ha il muro di mattoni fatto in volto, alta tre passa e larga due, e non v'è lavoro alcuno, ma solamente è biancheggiata di gesso, e dentro v'è una grande e bellissima fonte. Di sopra v'è una bella e grandissima abitazione, con molte camere e una sala scoperta che guarda nel giardino. Dalla parte verso il maidanno v'è una loggia in volto, talmente biancheggiata che mi par ch'avanzi di bianchezza ogn'altra cosa bianca ch'io abbia veduta. In questa abitazione vi si riduceva Assambei con molti baroni, quando si faceva alcuna festa in quel maidanno, e parimente molte volte, quando gli venivano ambasciatori, soleva alloggiarli in questa abitazione, per esser bel luogo e per aver molte stanze. Questa porta è piú lontana dell'altre dal palagio regale, in bellissima vista del maidanno, sopra il quale v'è la moschea e lo spedale che già ho detto. Questa moschea fu fabricata da sultan Assambei, ed è molto grande, e ha dentro di molte cube, tutte di smalto, d'azzurro e d'oro, ben lavorate. Anche lo spedale, over moristano, è grande e con molte abitazioni, e dentro è piú degnamente lavorato che la moschea, avendo molti mastabí grandi, di longhezza di dieci passa e larghi da passa quattro: e a ciascuno d'essi è fatto un tapeto alla sua misura. Fra lo spedale e la moschea v'è solo un muro di mezo, e di fuori dello spedale da un capo all'altro v'è un mastabè, un braccio alto e largo da due passa. E soleva essere una catena di ferro tirata da un capo all'altro a orlo del mastabè, affin che niun cavallo potesse accostarsi né alla moschea, né al mastabè, né allo spedale. E nel tempo ch'Assambei e Iacob sultan regnavano, vivevano piú di mille poveri in questo spedale; e la catena si conservò fin alla morte di Iacob sultan, la qual fu poi levata da' Turcomani.
Tutte queste fabriche furono fatte dal magnanimo Assambei, il quale fu uomo tanto degno ed eccellente che nella Persia non v'è stato un altro da pareggiarlo a lui. E molti signori ch'erano allora nella Persia gli furono ribelli, e tutti gli conquistò per forza d'arme, e combattendo anche con Ottoman sultano ne riportò egli l'onore, rompendo e fracassando tutt'il suo campo, avvegna ch'un'altra volta egli fusse perditore, sí come si potrà conoscere da quel che per innanzi intendo di raccontare.


Caloianni, re di Trabisonda, manda un ambasciatore ad Assambei, re di Persia, chiedendogli soccorso contra Ottomano gran Turco: promette darglielo ogni volta, ch'esso gli dia sua figliuola per moglie; gliela dà con patto ch'ella possa osservar la fede cristiana, e gliela manda in Tauris.
Cap. 9.

In quel tempo in Trabisonda regnava un re detto Caloianni, ed era cristiano, e aveva una figliuola nominata Despinacaton, molto bella: ed era comune opinione che non fusse in quel tempo donna di maggior bellezza, e per tutta la Persia era sparsa la fama della sua gran bellezza e somma grazia. Ed essendo questo re di già molto molestato e danneggiato nel suo pacifico paese da Ottomano gran Turco, e vedendosi a mal termine e in pericolo di perder lo stato, considerando il gran potere del nimico, prese partito di mandare un suo ambasciatore nella Persia in Tauris, dove sultan Assambei dimorava, e domandargli soccorso, sapendo ch'egli era signore molto benigno. L'ambasciatore, ch'era desideroso d'ottener la domanda del suo re e riportargliene l'intera sodisfazione, pregò Assambei che non volesse negar di dar aiuto al suo signore, mostrandogli per molte ragioni che 'l danno del re cristiano veniva anche in qualche pregiudicio del suo paese. Assambei, essendo giovane e non avendo moglie, ed essendo già innamorato della sopradetta giovane, per aver molte volte sentito ragionar delle sue bellezze e degne creanze, diede risposta all'ambasciatore dicendogli che se il suo re gli dava la figliuola per moglie, ch'egli metterebbe non tanto l'esercito, ma anche il tesoro e la propria persona per difenderlo da Ottomano. L'ambasciatore, partitosi con questa risposta e giunto dal suo re, gli espose quanto ricercava Assambei. E vedendosi egli non aver forze bastanti a difendersi dal nimico, che a tutte l'ore lo teneva travagliato, alla fin, astretto da necessità, si condusse ad adempir la richiesta d'Assambei, dandogli la figliuola per moglie; con queste condizioni, ch'ella potesse osservar la fede cristiana e tenersi un cappellano ch'a sua voglia avesse da fare il santo sacrificio, come nella nostra vera religione è ordinato: di che Assambei rimase contento, giurando d'osservar la fede sua a Caloianni.
Fatte queste convenzioni, Despinacaton venne in Tauris, accompagnata da molti signori, che furno mandati da Assambei, avvegna che ne venissero di molt'altri di Trabisonda. Vennero anche con esso lei molte damigelle, figliuole di gentiluomini di gran condizione, che sempre stetter appresso di lei. E avea anche un cappellano, molto riputato e persona degna, che sempre celebrò secondo l'usanza cristiana, mentre ch'ella visse con Assambei, che fu un longo tempo, e con trionfo e osservanza della fede nostra; teneva in un luogo separato la sua capella, facendo fare le sue orazioni a piacer suo. Nacquero di questa donna quattro figliuoli: il primogenito fu Assambei; l'altre furono figliuole femine, delle quali anche ve ne sono due vive, che sempre hanno osservato la fede cristiana.


Ottomano fa apparecchio contra Assambei e Caloianni, i quali mandano ambasciatori a' Veneziani, richiedendoli di confederazione e d'artiglierie; intanto Ottomano manda un bassà con le sue genti a danneggiar la Persia. Assambei, andatogli contra e facendo fatto d'arme, lo ruppe; il gran Turco, di nuovo facendo esercito, gli mandò contra e lo vinse. E vinto se ne torna in Tauris, andando poi contra il soldano, che gli aveva presa la città d'Orfa, appresso la quale lo ruppe.
Cap. 10.

Ottomano del 1472, che benissimo avea inteso li modi e trattato ch'Assambei aveva fatto col re di Trabisonda, e di ciò avutone grande sdegno, e standone di malanimo, deliberò esperimentar le forze e il valor de' due signori, e però egli fece grande apparecchio di gente per venire nella Persia. Assambei, avutone aviso, non meno d'ira e di sdegno pieno che 'l nimico suo, fece comandamento a tutti li suoi baroni che con ogni celerità dovessero ragunare le lor genti, massimamente che 'l re di Trabisonda gli faceva intendere molti preparamenti d'Ottomano contra d'ambedue loro. Parmi anche che Caloianni avesse parentado in Venezia, overo stretta amicizia con alcuni gentiluomini, onde Assambei, d'accordo col suo suocero, determinorno di far gran fatti, e cosí mandorno due ambasciatori a Venezia, ricercando arme confederate da poter mettere il lor nimico Ottomano al basso, dandogli il castigo che ricercava il suo temerario ardire. E per quel che intendo, gli ambasciatori domandorno artiglierie e bombardieri, e l'illustrissima Signoria, per amore e onore e per difensione del re di Trabisonda, concessero e diedero tanto quanto per gli ambasciatori fu richiesto, i quali furono molto onorati; e apparecchiato una nave con l'artiglierie dentro, montarono gli ambasciatori per venire alla Giazza, com'era ordine de' lor signori.
Mentre gli ambasciatori trattavan il negocio in Venezia, Assambei sultan adunò l'esercito suo con molta celerità, che furono circa trentamila combattenti, e ne venne tutto sdegnato e pieno d'orgoglio contra l'empito del nimico Ottomano, che già avea mandato di gran gente, danneggiandoli il paese della Persia nel contado d'Arsingan. Però, giunto Assambei nella bella pianura d'Arsingan, vi stette alquanti giorni per rinfrescar il suo esercito, ch'essendosi levato da Tauris aveva longamente marciato. L'esercito dell'Ottomano, vedendo tanti Persiani, per tema si ritrasse alla volta di Toccato, onde Assambei, che già avea rinfrescato la sua gente, ch'a tutte l'ore andava crescendo, sopragiugnendone della Persia, fece pensiero d'assalir le genti turchesche. Ed essendo fra li due eserciti lo spazio di due giornate di buon cammino e buona strada, si condusse fino a un miglio vicino del campo turchesco, e la mattina poi che furono accampati Assambei mandò a far sapere al bassà ch'era al governo dell'esercito d'Ottomano che 'l giorno seguente a buon'ora voleva azzuffarsi con esso loro: e a questo effetto ambedue le parti si posero in ordine per l'ora statuita, e molto ben ordinato chi dovea essere il primo con la sua schiera, chi 'l secondo e chi 'l terzo; e cosí nel far del giorno tutti s'appresentarono alla battaglia. Assambei sultan fu il primo che volse assalir gli nimici, e durò il combattimento fino all'ora di nona. In questo tempo un bassà con molta gente turchesca, entrando nella battaglia fieramente, mise li Persiani in un subito in rotta. Assambei, veduto l'inconveniente ch'era seguito, e stando egli con ottomila combattenti ben armati e valorosi alle rescosse, per esser presto dove ricercava il bisogno, arditamente entrò nel mezo dell'esercito nimico, facendo animo a' suoi soldati: e cosí quanti gli venivano nelle mani erano uccisi, di modo che i Turchi in quel fatto d'arme furno rotti, uccisi e vinti. Assambei, avuto ch'ebbe la vittoria de' nimici in questa battaglia, subitamente prese con gran trionfo Toccato, Malacia e Sivas, che son tre gran città.
Essendo stata portata la nuova ad Ottomano della rotta e uccisione della maggior parte del suo esercito, ebbe grandissimo dispiacere e ne rimase tutto smarrito, massimamente intendendo la perdita di tre città; nondimeno egli di nuovo di tutti li suoi paesi fece ragunar gente, di modo che fece un grandissimo esercito e drizzollo contra d'Assambei, ch'in Malacia si stava securissimo. E perchè anch'egli nella battaglia avea perdute di molte genti, mandò nella Persia alcuni suoi baroni a farne condurre quante piú potevano, per ingrossare il suo esercito, dall'altra parte aspettando l'artiglieria co' bombardieri mandati dall'illustrissima Signoria. Ma né l'uno né l'altro poté venire con quella celerità che ricercava il bisogno, imperochè l'esercito d'Ottomano sopragiunse alle frontiere con molte artiglierie. La qual cosa non piacque ad Assambei: pur, non potendo far altro, aspettando le sue genti co' suoi baroni della Persia, e sperando anche d'aver l'artiglieria, come re magnanimo, con quelle genti ch'egli avea appresso, che potevano essere circa ventiquattro o venticinquemila, deliberò affrontarsi co' nimici, i quali erano da trentaseimila, e stavano da una parte di Malacia, e dall'altra parte stava Assambei con le sue genti, avvegna che egli fusse discostato meza giornata tra Malacia e Toccato, per esservi un bel luogo per combattere. E stando in quel luogo, l'esercito turchesco seguitò la traccia e appresentossi all'esercito nimico, e cominciarono a menar le mani, sforzandosi ognuno dimostrar il suo valore. E facendosi grand'uccisione dell'una e dell'altra parte, finalmente Assambei restò perditore e fu astretto a lasciar le tre città acquistate, e se ne ritornò in Persia nel suo bel paese, standosene in Tauris nel suo palagio, a godere in feste e giuochi, facendo poca stima della rotta ricevuta, non avendo egli perduto parte alcuna del suo stato.
Poi che fu passato un certo spazio di tempo, fece deliberazione di romper la guerra al soldano del Cairo, e cosí venne nel paese di Diarbec con assaissime genti, onde il soldano del Cairo, insieme co' suoi Mamalucchi e gente del paese, gli andò contra con grossissimo esercito, e passato il fiume Eufrate giunse in Orfa, pigliando la città a sua devozione: e per non esservi anche arrivato in quelle parti il campo d'Assambei, quei Mamalucchi stesero le mani a lor piacere. Or Assambei, il quale già stava in Amit, mettendo insieme gente per venirsene ad affrontare i Mamalucchi, perciò che 'l soldano essendo giunto in Orfa l'aveva presa, subito si levò e, venuto nella pianura d'Orfa, affrontossi col campo de' Mamalucchi, con tanto empito e furia che i Mamalucchi furno la maggior parte tagliati a pezzi, e 'l resto spogliati e mandati via in camicia, e Assambei co' suoi baroni fecero molti bottini. Egli poi se ne venne fino al Bir, e preselo insieme con Besin e Calat ed Efron, che sono in quel circuito: e saccheggiò tutto quel paese. E fermatosi nel Bir sei mesi, se ne ritornò in Persia con gran trionfo, e dimorò gran tempo in Tauris, dandosi piacere nel suo palagio Astibisti.


Assambei venne a morte, e Iacob suo figliuolo, essendo successo nel regno, piglia per moglie una donna di natura lussuriosissima; e commettendo essa adulterio, gli dà il veleno, del quale muore anch'ella insieme con lui e un picciolo figliuolo; onde i baroni della Persia fecero guerra gran tempo tra loro, per succeder nel regno or l'uno or l'altro.
Cap. 11.

Assambei aveva quattro figliuoli: un maschio, che fu sultan Iacob, che dopo 'l padre Assambei si fece signore, e tre femine, delle quali anche ve ne son due in Aleppo, e io molte volte ho ragionato con esse in lingua greca trabesonzia, la quale hanno appresa dalla regina Despinacaton lor madre. Or, stando Assambei in Tauris ed essendo già gran tempo vissuto, dell'anno 1478 venne a morte, e succedette a lui, come dianzi ho detto, Iacob suo figliuolo, il qual era magnanimo e signoreggiò molto tempo la Persia. Costui pigliò una moglie di gran nobiltà, figliuola d'un signor persiano, la qual era fuor di misura lussuriosa, ed essendosi innamorata d'un signor principale della corte, come malvagia e rea femina cercava di dar la morte a Iacob sultan suo marito, con proponimento di pigliarsi poi l'adultero per marito e farlo signore di tutt'il regno: il qual di ragione, per esser egli suo stretto parente, mancando la prole, gli perveniva. Però, accordatasi insieme con l'adultero, ordinò un tossico artificiato per dargli la morte.
Ella adunque fece apparecchiare un bagno con molte cose odorifere, come quella che ben sapeva il costume di Iacob sultan, ed egli v'entrò dentro insieme con un suo figliuolo d'otto over nove anni, e vi stettero dalle ventidue ore fin al tramontar del sole. Uscito poi fuori entrò nell'arino, ch'era a lato al bagno, e la scelerata donna, avendo apparecchiata la bevanda avvelenata mentre ch'egli dimorò nel bagno, sapendo che ordinariamente uscendone egli chiedea da bere, se gli appresentò innanzi nell'entrar dell'arino con una coppa e un vaso d'oro, dov'era dentro il veleno; e mostrandosegli lieta in vista, e facendogli piú carezze del solito per poter meglio eseguir cosí scelerato effetto, la crudelissima donna sfacciatamente porse il veleno al marito. Ma non poté mostrarsi tanto sfacciata che non diventasse alquanto pallida in vista, il che accrebbe il sospetto di Iacob, però che già, per molti andamenti ch'egli avea veduto, avea cominciato a non fidarsi molto di lei: onde li comandò che gli facesse la credenza. La donna, ancora che sapesse di prender la morte, pur, non potendo fuggir di farlo, bevé del veleno fatto di sua mano, e diede poi la coppa d'oro a Iacob suo marito, che parimente insieme col figliuolo bevettero il resto. Questo beveraggio fu di tanto potere e di tanta operazione che a mezanotte venente rimasero morti tutti. La mattina seguente s'andò spargendo la fama per la Persia della subita morte di Iacob sultan, del figliuolo e della moglie. I baroni, intendendo la perdita del lor re, furono in molta confusione e discordia tra loro, di modo che in termine di cinque o sei anni tutta la Persia stette sul guerreggiare, e con molti fastidi, facendosi sultano quando l'uno e quando l'altro di quei baroni. Pur nel fine fu posto in signoria un giovanetto nominato Alumut, d'età di quattordici anni, il qual signoreggiò per fino che sciech Ismael sultano successe.


Secaidar, capo de' sofiani, venuto al fatto d'arme col capitano delle genti d'Alumut, vien rotto e preso; e tagliatagli la testa è portata in Tauris al signore, il quale la fa gittare a' cani.
Cap. 12.

Nel tempo che Alumut signoreggiava, in una città lontana quattro giornate da Tauris per levante v'era un barone, come sarebbe un conte, nominato Secaidar, il qual teneva una fede over setta d'una stirpe chiamata Sofí, ed era reverito come santo uomo in quella setta, ed era capo d'assaissimi di questi sofiani, che ve ne sono in molti luoghi della Persia, cioè nella Natolia e nella Caramania, i quali tutti portavano riverenza e adoravano questo Secaidar, ch'era nativo di questa città detta Ardovil, dov'erano di molti sofiani ch'erano stati convertiti da Secaidar; il quale era come saria un provincial d'una nazione di frati, e aveva sei figliuoli, tre maschi e tre femine, d'una figliuola del signor Assambei, ed era molto nimico de' cristiani. Costui molte volte insieme co' suoi seguaci s'incamminava in Circassia, danneggiando e rovinando quel paese, pigliando di molte schiave e facendo diverse prede, e se ne ritornava poi in Ardovil, a godersi con gli altri suoi sofiani.
Essendo successo nel regno Alumut sultan, e volendo il detto Secaidar tornar in Circassia, com'uomo usato a questo viaggio contra de' cristiani, ragunate le sue genti s'inviò alla volta di Sumacchia, e giuntovi in otto giornate si mise nel camino di Derbant, dove è il passo d'entrar in Circassia: e stettero cinque giornate nel viaggio. Or, venuta la nuova a sultan Alumut e a' suoi baroni come Secaidar con un esercito di quattro o cinquemila sofiani andava in Circassia per destruzione di quel popolo, e tutti v'andavano molto volentieri per la molta speranza ch'aveano di far gran preda, subito spedí un messo al re di quel paese, avendo egli qualche tema, per aver Secaidar tanto numero di genti, e gli mandò a dire che facesse ogni sforzo per non lasciarlo passare, perciochè Secaidar co' sofiani in quel medesimo luogo di quel castello l'anno davanti avevano fatto assai gran danno, e con la metà manco gente, sí che dubitava che non facessero il somigliante; però volse tagliargli il passo, acciò che non andasse accrescendo la sua signoria, come ogni giorno faceva andando in Circassia, perciò ch'ognuno lo seguitava volentieri per l'ingordigia della preda, di modo che in poco tempo si saria fatto troppo gran signore: e facevasi costui come capitano di ventura. Laonde, giunto Secaidar in Derbant, si trovò vietato il passo d'ordine d'Alumut sultan.
Derbant è una città grande e, sí come per le lor croniche e memorie si vede, fu fabricata dal magno Alessandro; ed è larga un miglio e longa tre, e ha d'una banda il mar Caspio, dall'altra una gran montagna, né alcuno vi può passare salvo che per le porte della città, però che dalla parte verso levante è il mare, e verso ponente v'è la montagna, tanto aspra che i gatti non v'andarebbero. Questa città fu nominata Derbant in lingua persiana, che nella nostra significa porta serrata, e chi vuol passar in Circassia bisogna che pigli il camino per questa città, la qual confina con essa, e sono passi deserti la maggior parte, e parlano in circassesco, cioè in turchesco.
Or, vedendo Secaidar che gli era vietato il passo, come ho detto, ne venne in grandissimo sdegno, e cominciò a combattere il castello e assediò quel passo. E trovandosi in quella città pochi uomini da fatti, e non essendo bastanti a difendersi dalle genti sofiane, subito spedirono un messo con molta fretta al re del paese, avvisandolo dell'inconveniente. Ed egli, intesa la nuova, ne diede avviso ad Alumut, che stava in Tauris, il qual fece chiamar tutti i suoi baroni, comandando loro che adunassero gente: per il che, fatto ch'ebbero da diecimila combattenti, andarono contra Secaidar, e in pochi giorni giunsero in Derbant, dov'egli combatteva il castello. Secaidar, visto ch'ebbe le genti d'Alumut, molto adirato si ritrasse da una banda sopra una collina, e fece un'esortazione a' suoi soldati che dovessero combattere virilmente, ch'aveva speranza di esser vittorioso contra gli nimici, e prometteva loro molte e molte cose: e cosí ciascuno promise di portarsi valorosamente: e questo fu a ora di vespro. La mattina seguente i sofiani si posero molto bene in ordine e disposti alla battaglia, e dall'altra banda il capitano delle genti d'Alumut s'era apparecchiato con tutti li suoi soldati. E, conoscendo Secaidar che a giorno chiaro, volendo o no, gli conveniva combattere co' nimici, e per ciò egli fu il primo ch'andò ad assalire, e i sofiani cominciarono a far gran fatti, combattendo come lioni, e tagliorno a pezzi il terzo delle genti d'Alumut. Ultimatamente Secaidar rimase vinto e furono ammazzate tutte le sue genti, ed egli fu preso e, tagliatagli la testa, fu portata sopra una lancia, presentata dinanzi ad Alumut sultan, il qual comandò ch'ella fusse portata per tutto Tauris sopra la lancia, sonando molti instrumenti per segno della vittoria avuta, e poi la fece portare in una maidan, dove s'usa far il maleficio, gittandola a' cani che la mangiassero. Onde i sofiani sono molto nimici de' cani, e quanti ne trovano tanti n'ammazzano.


Tre figliuoli di Secaidar, intesa la morte del padre, se ne fuggirono in diverse parti; uno de' quali, nominato Ismael, fuggí in un'isola di cristiani armeni, dove fu ammaestrato nella sacra Scrittura da un prete armeno; dal quale partitosi va a Chilan e, deliberando di vendicar la morte di suo padre, pone ordine co' suoi di pigliare il castello di Maumutaga e lo mette a sacco, distribuendo ogni cosa a' soldati, il che è cagione che molti lo vadano a servire e diventino sofiani volontariamente.
Cap. 13.

Questa nuova andò in Ardovil, dov'era la moglie di Secaidar con sei figliuoli, e subito ch'intesero questo li tre figliuoli maschi scamparono, e un andò nella Natolia, l'altro in Aleppo, il terzo andò in quell'isola che di sopra ho detto ch'è nel mar di Van e di Vastan, nella qual è la città de' cristiani armeni, e vi dimorò quattro anni in casa d'un papà over prete. Questo figliuolo avea nome Ismael, ed era d'età di tredici in quattordici anni, molto gentile e cortese. E parmi che 'l papà col qual Ismael stava sapeva alquanto d'astronomia, onde conobbe con l'arte sua che questo giovanetto dovea aver gran signoria: però il papà in secreto l'onorava molto, e tanto l'accarezzava quanto a lui era possibile. Fecegli anche chiaramente conoscere la nostra santa fede, e ammaestrollo nella Scrittura sacra, facendogli conoscere che la setta macomettana era vana e trista.
In capo di quattro anni venne volontà ad Ismael di partirsi d'Arminig, e andossene in Chilan, dove stette un anno in casa d'un orefice, che fu grand'amico di suo padre, e lo tenne secreto e molto ben ricevuto e onorato. In questo tempo questo figliuolo secretamente scrisse molte volte in Ardovil a certi personaggi nobili, che già furono amici di suo padre, e fra lor ordinarono molte cose: e in capo dell'anno deliberorno vendicar l'onta di suo padre, e insieme con l'orefice congregarono da diciotto in venti uomini, ch'erano della setta sofiana, per andar secretamente a pigliar un castello nominato Maumutaga. E parmi che Ismael aveva ordinato a dugento uomini d'Ardovil, amici di suo padre, che dovessero venire armati in un luogo appresso il castello, in una valletta piena di canne, e quivi dovessero star nascosti. E come fu dato l'ordine, Ismael cavalcò da Chilan co' suoi compagni e venne a Maumutaga, e correndo con molta furia alla porta del castello ammazzò le guardie e serrò la detta porta. Nel castello erano poche genti, le quali tutte furono tagliate a pezzi, eccettuando i putti e le donne. Ismael poi montò sopra una torre e fece un segno che fra loro era ordinato, e quelli dugento cavalli con molta fretta entrarono nel castello, e poi tutti insieme uscirono in un borgo ch'era di sotto il castello, e ammazzavano quanti innanzi gli venivano, saccheggiando tutt'il borgo e portando nel castello tutti li bottini ch'aveano fatti, dove stava l'orefice con dieci compagni per guardia della porta.
Questo castello di Maumutaga è molto ricco, per esser porto e scala del mar Caspio: tutte le navi che vengono da Strevi, da Sara e da Masandaran, e cariche di mercanzie per Tauris e per Sumacchia, si discaricano in quel luogo. Ismael trovò nel borgo del castello gran tesoro, che tutto dispensò a' suoi sofiani, non si tenendo per lui cosa alcuna. Sparsesi la fama per tutt'il paese come Ismael, figliuolo di Secaidar, aveva preso il bel castello, e tutto quello ch'egli aveva trovato avea donato a' suoi soldati e compagni: e per questa fama d'ogn'intorno gli correva gente, e chi non era sofiano si faceva, per andare a servir il cortese Ismael, con speranza d'aver doni da lui, laonde in pochi giorni congregò piú di quattromila sofiani, che tutti si ragunarono a Maumutaga. Questa nuova andò ad Alumut e parvegli molto strana, e volse mandar le sue genti a Maumutaga; ma fu disconsigliato, per esser fortezza inespugnabile, né si può aver per battaglia né meno per assedio, perchè chi l'assedia da terra non può fare effetto alcuno, che 'l mare gli è aperto. Restò anche Alumut di mandarvi il campo, giudicando che Ismael non dovesse proceder piú avanti, e sperando di pigliarlo con qualche inganno, non sapendo quanto avevano ordinato i cieli.


Ismael va contra il re Sermangoli e gli prende la città di Sumacchia, e saccheggiandola dona ogni cosa a' soldati, onde Alumut dubitando fa ragunar le sue genti; e Ismael domanda soccorso dagli Iberi, e avutolo va ad assaltare alla sprovista l'esercito d'Alumut, il quale se ne fugge in Tauris e poi in Amit. Ismael seguitando la vittoria pigliò Tauris, dove, usando molte altre crudeltà, fece anche tagliar la testa a sua madre.
Cap. 14.

Ismael di giorno in giorno faceva genti, e quanti andavano a lui a tutti donava; e vedendosi gran signore deliberò di pigliare Sumacchia, e ragunate le sue genti cavalcò alla volta di Sumacchia. Sermangoli, re del paese, vedendosi venir addosso i sofiani, abbandonò la città e ritirossi in un grande e bel castello, e d'ogni banda inespugnabile, perciò ch'è posto sopra un altissimo monte, ed è di sasso vivo, ed è nominato Culistan: e questo fece per assicurar la sua persona. Da Maumutaga a Sumacchia vi sono solamente due giornate, sí che presto Ismael v'arrivò col suo esercito, e quivi fece grand'uccisione di quelle meschine genti. Questa città è grande e ricca, porto e fonte di mercanzie e di mercanti, onde Ismael col suo esercito fecero di grossi bottini e feronsi ricchi. La fama si spandeva per tutta la Persia e per la Natolia delle vittorie e della cortesia d'Ismael, che tutto donava a' suoi soldati: per questa fama chi non era sofiano diventava, per aver gran guadagno.
Vedendo Alumut che Ismael procedeva molto avanti con la fortuna a lui favorevole, e che tuttavia congregava gente, non poco dubitando fece chiamare i suoi baroni, e ordinò che con ogni celerità ragunassero le lor genti: di che avendone avuto aviso Ismael, e anch'egli dubitando, mandò in Iberia, essendovi da Sumacchia nel paese d'Iberia tre o vero quattro giornate di camino. Questa Iberia è una gran provincia, e tutti sono buoni cristiani, ed è signoreggiata da sette gran signori, e de' quali ve ne sono due o vero tre che confinano con la Persia, cioè col paese di Tauris, l'uno nominato Alessandro Sbec, l'altro Gorgurambec, il terzo Mirzambec: e a questi mandò Ismael, domandando loro gente da combattere, con dir che tutti coloro i quali andassero al servizio suo rimarrebbero sodisfatti e ricchi, offerendosi, possedendo esso la sedia di Tauris, di farli esenti d'un certo tributo che pagavan al re di Persia; onde li signori cristiani gli mandarono ciascuno tremila cavalli, che vengono a essere novemila in tutto. E questi Iberi sono uomini valentissimi a cavallo e terribili in battaglia; e tutti se ne vennero a Sumacchia, dov'era Ismael, il quale fece loro grandissimi doni, de' tesori che in Sumacchia aveva trovato, per essere città ricchissima.
Alumut sultan, intendendo per spie quanto Ismael operava, avvegna che fusse giovanetto e di minore età d'Ismael (però che Ismael era d'età di dicenove anni, come da molte persone m'è stato accertato, e Alumut era di sedici anni), si partí di Tauris per venir a trovar Ismael, il quale già all'incontro se gli era incamminato con le sue genti, ch'erano da quindici o sedicimila persone. Onde, camminando l'uno contra l'altro, s'affrontarono insieme tra Tauris e Sumacchia. Ma perchè nel viaggio v'è un grandissimo fiume, sopra il quale vi sono due ponti di pietra mezo miglio lontani l'un dall'altro, essendovi giunto prima Alumut col suo campo, ch'era di trentamila valent'uomini, fece rompere i ponti, di modo che non si poteva passare: e quivi il giovane sultan Alumut accampossi. Il giorno seguente giunse il nuovo capitano Ismael all'istesso fiume, ma né l'uno né l'altro poteva passare; nondimeno la fortuna, insieme con la diligenza d'Ismael, fece sí che in quel circuito si trovò il passo dove a guazzo si poteva passare, e quivi la notte seguente apparecchiò le sue genti e passò il fiume all'alba. E ragunate tutte insieme, senza ordinar schiera alcuna ma con tutt'il campo in frotta, assaltò l'esercito d'Alumut, che sicuramente tutti ne' padiglioni dormivano, e cominciorno a far grande uccisione di quelle meschine genti, delli quali parte era imbriaca di vino e parte d'erba, di tal maniera che non sapeano difendersi: e cosí a l'ora di terza tutti furno tagliati a pezzi, salvo che Alumut, ch'era fuggito con certi pochi compagni e andato in Tauris, dove stava il suo tesoro e il suo arin, e andossene poi in Amit.
Ismael fece di gran bottini, pigliando padiglioni, trabacchi, cavalli e arme, e tutto quello che a un capitano faceva bisogno, e ciascuno de' suoi soldati si fece ricco. E in questo luogo stettero quattro giorni riposandosi, che pel longo e forte combattimento erano stanchi. E, non contenti di questo, si levarono cavalcando verso la città di Tauris, dove essendo entrati senz'alcun contrasto furono fatte grandissime uccisioni, e tutti quelli ch'erano della schiatta di Iacob sultan furono mandati a fil di spada, e a molte donne ch'erano gravide apersero li corpi e, tratte le creature, erano scannate. Fu poi aperta la sepoltura di Iacob, e di molti altri baroni ch'erano morti, che furono nella battaglia quando suo padre fu ammazzato in Derbant, e fece bruciar l'ossa di tutti. Fece poi venir trecento publiche meretrici, e le fece metter tutte in una schiera e tagliarle per mezo. Poi fece venir da quattrocento blasi ghiottoni, ch'erano allevati sotto Alumut, e a tutti fece tagliar la testa. Fece anche ammazzare tutti li cani ch'erano in Tauris, e molt'altre cose. Fatto questo, si fece venir sua madre avanti, la quale, per quel ch'io ne potei intendere, fu della stirpe di Iacob sultan, e trovò ch'ella era maritata in un di quei baroni che si trovarono nella battaglia in Derbant, e dissegli di molte villanie, e in sua presenza le fece tagliar la testa: tal che dal tempo di Nerone in qua non è stato mai uno tanto crudele.


Come molte città e signori renderono ubbidienza a Ismael, eccettuando un castellano d'un castello de' cristiani, che lo tenne cinque anni, ma, intesa la morte d'Alumut, s'accordò con Ismael. Nelle ville di questo castello vi si truovano libri scritti con lettere latine in lingua italiana.
Cap. 15.

In questo tempo molte terre, città e castella vennero a inchinarsi. Vennero anche alla sua presenza molti signori e baroni che s'umiliarono, mettendosi la berretta rossa, baciandogli le mani e facendosi suoi vassalli, eccetto un castellano d'un castello longi da Tauris due giornate, nominato Alangiachana. Questo castello tiene diciotto ville de' cristiani che si mantengono all'apostolica, e ogn'anno si sogliono mandar dal patriarca due uomini di quelle genti a Roma al papa, che gli portino incenso; e il patriarca è poi confermato da sua Santità, che gli avea mandato una bella mitria. Dicono i loro uffici in lingua armena, avendo perduta la lingua italiana. Nelle dette ville si truovano di molti libri e scritture in lingua italiana, e stando io in Tauris furon portati due libri scritti con lettere italiane: l'uno trattava d'astronomia, l'altro erano regole d'imparar grammatica. In queste ville nasce anche gran quantità di cremesi grosso. Or, come avete inteso, questo castello fu delle ultime fortezze che perdettero li cristiani, e già è gran tempo che quivi aveano perduto il volgare italiano.
Questo castellano adunque, poi che il capitano Ismael ebbe conquistato Tauris, per quattro o cinque anni si tenne, perciò ch'egli era grand'amico d'Alumut sultan, e anche perciò che nel castello vi stava di molto tesoro, ch'Assambei sultan e Iacob suo figliuolo avean riposto in salvo. Venuto poi a morte Alumut, e il castellano inteso la nuova, né volendo piú tenersi, accordossi con Ismael e dettegli il bel castello col tesoro nelle mani. Come Ismael ebbe posseduto la sedia regale, da tutt'il popolo fu nominato sultan, vedendo ch'egli otteneva sí maravigliose vittorie, e da ognuno era molto onorato e amato e riverito.


Muratcan, figliuolo di Iacob sultan, vien contra Ismael per torgli il regno, ma venuto a far giornata riman vinto, essendogli tagliato a pezzi tutto l'esercito, e se ne fugge in Bagadet.
Cap.16.

Essendo Ismael sultano in Tauris, Muratcan, sultan di Bagadet, con un esercito di trentamila combattenti si mosse per venir in Tauris e torgli il regno, che a lui s'aspettava. La qual cosa intendendo Ismael, mosso da grande sdegno, congregò i suoi baroni e i suoi soldati, e uscito fuori di Tauris con le sue genti nella bella pianura intese che Muratcan veniva con molta prestezza, pensandosi di far gran guadagni. Questo Muratcan fu figliuolo di sultan Iacob. Onde Ismael pregò tutti i suoi baroni e soldati che ciascun volesse portarsi virilmente; pregò anche quei signori iberi che volessero esortare i lor soldati, come fecero quando fracassarono tutt'il campo di Alumut: cosí ciascuno gli prometteva, e parevagli un'ora cent'anni di venire alle mani. Essendo già giunto Muratcan nella pianura di Tauris con l'esercito suo, poco lontano dal campo d'Ismael sultan, fermossi appresso d'un picciolo fiume per rinfrescar li suoi soldati; Ismael ne venne dall'altra riva, e quivi accampossi: e cosí stando ambidue gli eserciti s'invitavano sfidandosi all'arme, dicendosi villania l'un l'altro. Sul mezogiorno Muratcan facendo animo a' suoi soldati contra gli nimici sofiani, e il simile facendo Ismael sultan dall'altra parte, alla fine Muratcan fece tre schiere di tutti i suoi; e vedendo Ismael il modo e proceder del nimico, fece anch'egli due schiere del suo esercito: una fu degli Iberi, ch'erano novemila, l'altra di sofiani, e separata l'una dall'altra ordinarono i caporali come nelle battaglie conviensi, e tutto quel giorno e la notte seguente ambidue gli eserciti stettero su l'armi. Apparita che fu l'alba, cominciarono a sonar di molti stromenti, che li Persiani usano nelle battaglie, esortandosi l'un con l'altro a combatter valorosamente.
Venuto il giorno chiaro, Muratcan fu il primo ad assalir le genti sofiane con diecimila combattenti, ed entrando nella battaglia fece grand'uccisione: ma in breve ora i suoi soldati rimasero perdenti. Il che vedendo Muratcan con l'altre due schiere a un tratto entrò nel fatto d'arme, e parimente fece Ismael, constretto dal bisogno, laonde fu sparso tanto sangue e fatta sí grand'uccisione che mai nella Persia, dal tempo di Dario in qua, a un tratto in una battaglia non è stata la maggiore, che durò dalla mattina fin al mezogiorno. E ne rimase con la perdita e con gran danno Muratcan, il quale con poche genti se ne fuggí e ritornò in Babilonia, o vogliamo dire in Bagadet, con molto suo disonore e scorno; cosí come pel contrario Ismael ne riportò gran lode, e fece di molti bottini di padiglioni, trabacche e cavalli, e se ne ritornò in Tauris con gran trionfo e onore immortale, e longamente nel magno palagio Astibisti dimorò, godendosi ne' trionfi e piaceri, essendogli stato ucciso poco numero di gente. Ma quei di Babilonia, eccettuando da 50 in 70 che scamparono con Muratcan, tutti furono tagliati a pezzi, che potevan essere da trentamila: e ne fa fede l'istesso luogo dove fu fatta la battaglia, che vi si vedono monti d'ossa di quelle meschine genti.
In quel tempo Ismael poteva essere d'età circa 19 anni, come già ho detto; e i fatti e le prodezze che sin qui ho raccontato tutte le fece in un anno, che fu dell'anno 1499. E mentre io stava in Tauris, d'ogn'intorno correvano le genti con l'armi in mano per servirlo, massimamente della Natolia, di Turchia e di Caramania: e a tutti Ismael donava, a chi assai e a chi poco, secondo la condizione e la presenza dell'uomo.


Sultan Calil, signor d'Asanchif, e Ustagialu Maumutbec, barone della Natolia, vennero a render ubbidienza a Ismael, il quale, avendo tre sorelle, ad ognuno di loro ne dà una per moglie; ma poi Ustagialu fa guerra a sultan Calil, per ordine d'Ismael, il quale con grossissimo esercito va contra Aliduli e gli rovina il paese, uccidendoli alcuni suoi figliuoli e gran numero delle sue genti.
Cap. 17.

La provincia di Diarbec sempre fu sottoposta al regno di Persia, e però sultan sciech Ismael, ch'avea conquistato la sedia, volse ch'anche tutt'il paese gli rendesse ubbidienza: onde sultan Calil, che dominava Asanchif, andò in persona da Ismael, e tolse la berretta rossa e gli promise d'essergli buon servitore, per il che Ismael gli fece di gran doni, e confermollo in signoria, e anche gli diede una sua sorella per moglie, e cosí tornossene in Asanchif con molta festa. Un altro baron della Natolia, ch'era venuto a servire Ismael con sette fratelli, tutti uomini valorosi, nominato Ustagialu Maumutbec, aveva avuto in dono la bella provincia di Diarbec, eccettuata la signoria d'Asanchif, onde il detto Ustagialu venne e conquistò la detta provincia, eccetto Amit e Asanchif. E perchè sultan Calil aveva trapassati (come si diceva) li comandamenti d'Ismael, vols'egli che Ustagialu dominasse totalmente tutta la provincia, e mandò un suo ordine a Calil, che dovesse consegnar la città e tutti i castelli a Ustagialu; e parimente mandò ordine a Ustagialu che dovesse ricever la città, non ostante che Calil fusse suo cognato, perciò che Ustagialu, quando egli andò all'impresa della provincia, ebbe per moglie la seconda sorella d'Ismael, sí ch'ambidue venivano ad essere suoi cognati. Ma sultan Calil è curdo, e questi Curdi sono malvoluti da' sofiani, però che non sono ubbidienti. Come sultan Calil non volse consegnar cosa alcuna a Ustagialu, Ustagialu, mosso da sdegno, con circa diecimila cavalli gli venne addosso, e lo combatteva giorno e notte, com'ho detto, insino all'anno 1510, che fu al mio venire d'Azemia, e non l'avea anche potuto conquistare.
In questa provincia di Diarbec gli Aliduli erano soliti far di molte correrie, e danneggiar molto il paese d'Orfa, Somilon e Dedu. Orfa era una gran città, l'altre due sono castella: aveano anch'esse una città, detta Cartibirt, ch'era dominata da un figliuolo d'Aliduli, né Ustagialu l'avea potuta avere. Questa città con le sue castella era sottoposta al regno di Persia, ma gli Aliduli l'avevano usurpata al tempo di sultan Iacob, e dopo ch'Ustagialu le tolse, com'ho detto, gli Aliduli facevano molti danni per il paese: per il che Ismael deliberò di venire in persona a destruzion degli Aliduli, e ingrossato il suo esercito se n'andò ad Arsingan, il qual è un castello che sta nel confine della Trabisonda, della Natolia e della Persia. Quivi Ismael congregò gran gente e prese quel castello, il qual era stato usurpato da un figliuolo d'Ottomano, che signoreggiava la Trabisonda nel tempo che sultan Iacob morí: e in questo luogo Ismael vi stette da quaranta giorni, e adunò da settantamila uomini da combattere, non già perchè tanta gente facesse bisogno per combattere con gli Aliduli, ma perchè dubitava d'Ottomano e del soldan del Cairo, perciò che 'l paese degli Aliduli era nel mezo de' confini del soldan del Cairo e d'Ottoman. E stando Ismael in Arsingan, fece due ambasciatori, uno a Ottomano della Natolia, nominato Culibec, l'altro al soldano del Cairo, detto Zachariabec, promettendo a' detti signori, per la testa e per loro sacramenti, giurando sopra a Mortezali, che né all'uno né all'altro signor farebbe danno, ma solamente andarebbe a distruzione del suo nimico Aliduli.
In capo di quaranta giorni Ismael si levò d'Arsingan, con li suoi settantamila combattenti, per venirsene alla volta d'Aliduli. Da Arsingan al paese d'Aliduli vi si puote andare in quattro giornate da campo, ma Ismael non fece quella strada, perchè volse pigliar la volta di Cesaria, ch'è una città d'Ottomano, per potersi fornire di vettovaglie, sí come fece col suo denaro. Essendo Ismael nel detto luogo, fece gridare pel paese che ognuno dovesse portar vettovaglie da vendere, che gli sarebbero ben pagate. Fece poi far bando per tutto l'esercito, sotto pena della testa, che niuno avesse animo di pigliare un fuscello di paglia senza pagarlo, però che questa città era d'Ottomano, ed è il confine degli Aliduli. E, dimoratovi quattro giorni, Ismael levossi e con tutto l'esercito se n'andò al Bastan, dov'è una bella campagna e un bel fiume, con molte ville. Di lí a una giornata v'è la sedia d'Aliduli, ch'è una città detta Marras. Ismael, avendo prima rovinato e bruciato il paese di Basten, ne venne poi alla detta Marras, dove Aliduli era scampato; e andato sopra una gran montagna detta Caradag, alla quale solo per una stretta via s'ascende, avendo seco di molta gente, Ismael rovinò il paese e ammazzò alcuni figliuoli d'Aliduli, e anche molte genti, le quali di tempo in tempo descendevano dalla montagna per far saltare li sofiani, che dalle molte spie che Ismael teneva in diversi luoghi, e anche dagl'istessi Aliduli che occultamente erano sofiani, venivano scoperte: di modo che, sapendosi la lor discesa dal monte, facilmente da' sofiani erano tagliati a pezzi.
Il tempo ch'Ismael entrò nel paese degli Aliduli fu a' 29 di luglio del 1507, e vi stette fino a mezo novembre. Levossi poi per andar nel suo paese, però che in quello degli Aliduli non era piú vettovaglia, e anche per le gran nevi e freddi che sono per tutto quel paese, di maniera che niun esercito può starvi accampato di verno: e però fu forza ch'Ismael si partisse.


Amirbec fa prigione sultan Alumut, che fidatosi di lui lo ricevé co' suoi soldati in Amit cortesemente, e Amirbec gli mise una catena al collo e incatenato lo condusse a Ismael, il quale con le proprie mani gli tagliò la testa. Piglia la città di Cartibirt e il figliuolo d'Aliduli, e gli taglia la testa; e passato il verno se ne torna in Tauris.
Cap. 18.

Essendo io in Malacia, ch'è una città del soldan del Cairo, venendo da Cimiscasac e d'Arsingan per tornar in Aleppo, trovai Amirbec, signore di Mosulminiato, il qual è molto fedele a Ismael, e porta legate al collo due catenelle d'oro, piene di molti diamanti e rubini, e insieme anche legata la bolla d'Ismael, la qual d'ogni suo secreto è sigillo. E quando gli bisogna suggellare alcuna cosa, ad Amirbec conviene suggellarla con le sue proprie mani. Costui ha fatto morire molti signori, per far cosa grata a sultan Ismael, e stando io in Malacia trovai ch'egli avea preso il giovanetto sultan Alumut, il quale fu sconfitto da sultan Ismael.
E fu preso in questo modo, che venendo Amirbec con quattromila combattenti da Mosul se n'andò in Amit, dove sultan Alumut dimorava, fingendo di voler andare a soccorrerlo, pel dubio ch'egli aveva del ritorno d'Ismael: e cosí Alumut l'accettò cortesemente, come a un signor si richiede, avendogli pel passato sempre usato cortesia, per esser stato Amirbec suo barone. E però Alumut fidatosi e lasciatolo entrare nella città con quattromila soldati, subito Amirbec pose le mani addosso al meschino Alumut, e misegli una catena al collo, dicendogli: "Tu sei prigione d'Ismael sultan". E, lasciato un governatore nella città, cavalcò per trovare Ismael insieme col prigione Alumut e se ne venne a Malacia, dov'io era, però che questa città è il piú propinquo luogo e piú commodo per entrare nel paese d'Aliduli, dov'era Ismael, e stette un giorno e mezo, co' quattromila sofiani ch'erano con esso lui: e io con gli occhi miei viddi il giovanetto Alumut, che stava in catena in un padiglione. Partitosi poi Amirbec, se n'andò a trovare Ismael, ch'era poco distante, e presentogli quel bel presente. Ismael, fattolo venire alla sua presenza, con le proprie mani gli tagliò la testa; poi si mise subito a camminare per entrar nel suo paese, dubitandosi delle nevi, e se ne venne a Malacia, e non vi stette se non un giorno per fornir le sue genti di vettovaglia; e passò il fiume Eufrate, che scorre dieci miglia lontano da Malacia, e se n'andò a Cartibirt, dove signoreggiava un figliuolo d'Aliduli, nominato Becarbec, con gente assai e fornito di vettovaglie: ma nulla gli giovò, perciò ch'Ismael prese la città, e a lui con le sue mani tagliò la testa, e poi con molta celerità s'incamminò verso Tauris.
Di qua da Tauris sei giornate, per quelle nevi e gran freddo, morirono genti assaissime e molti cavalli e cameli, e perderono bottini assai, ch'aveano fatti nel paese d'Aliduli. Ma pur tanto cavalcò Ismael che giunse a Coi, in un suo bel palagio ch'egli stesso aveva fatto fabricare, e vi dimorò insin al naurus, cioè fino al tempo nuovo. Dopo deliberò d'andar a distruggere Muratcan, sultan di Bagadet, e andatosene in Tauris, e trovato i suoi due fratelli, ch'egli avea lasciati al governo della città quando andò contro Aliduli, che non avevano servato totalmente i suoi comandamenti, poco mancò che non tagliasse loro la testa: ma per preghi di molti signori i giovanetti scamparono dalla morte; e con tutto questo Ismael non restò già di confinargli nella terra d'Ardovil, della qual essi sono nativi, né possono partirsi di quel paese e meno far gente, eccetto che dugento cavalli per ciascuno.


Ismael col suo esercito va contra Muratcan, il qual è abbandonato da molti suoi baroni e soldati, che fuggirono nell'esercito d'Ismael; Muratcan, offerendosi d'esser suo vassallo, gli manda ambasciatori, e Ismael gli fa tagliare a pezzi con tutti li lor compagni,
onde Muratcan se ne fugge e, non essendo ricevuto in luogo alcuno, se ne va ad Aliduli,
che gli dà una sua figliuola per moglie.
Cap. 19.

Venuto che fu il tempo nuovo, Ismael aveva congregato da 30 in 40 mila combattenti, co' quali egli si mise in cammino e se ne venne in Casan, la qual città è sua; e, dimoratovi alcuni giorni, se n'andò poi in Spain, ch'è una gran città e benissimo popolata, ch'era di Moratcan: il quale, veduto l'inconveniente, dall'altra banda avea già fatto circa 36 mila combattenti, ed era venuto in Siras, ch'è una città molto piú grande e piú bella che non è il Cairo d'Egitto. Moratcan stava in Siras e Ismael in Spain, ambidue apparecchiati: Ismael avea di molta gente, tutta sofiana e valent'uomini; l'esercito di Moratcan era di genti comandate, come sariano cernide, e venute quasi per forza e malcontente, perchè, intendendo ch'Ismael teneva gran campo e ch'egli era impossibile di poter resistere nella battaglia, massimamente sapendo, l'altra volta che Moratcan fu rotto nella pianura di Tauris, che da trentamila combattenti tutti furono rotti e tagliati a pezzi dalla gente sofiana, e tanto maggiormente temevano, quanto Ismael aveva molto piú numero di gente che allora non ebbe; onde assai baroni e soldati, diffidandosi, si misero a fuggire nel campo d'Ismael.
Moratcan, vedendosi a mal partito, prestamente mandò a Ismael due ambasciatori con piú di cinquecento compagni, e poi mandò lor dietro molte spie, per intender tutto quel che succederebbe. E appresentatisi, gli ambasciatori gli dissero che Moratcan voleva esser suo barone, e dargli quel tributo che a lui fosse stato possibile. Ismael fece tagliare a pezzi gli ambasciatori insieme co' compagni, dicendo: "Se Moratcan voleva esser mio vassallo, doveva egli venire in persona, e non mandar ambascieria". Le spie, veduto il successo, subito riportarono la nuova a Moratcan, il quale si mise in fuga con tutti i suoi, per esser già sparsa la fama per tutt'il suo campo; e molti de' suoi signori si misero la berretta rossa, per il che, dubitando Moratcan d'esser preso come già era stato preso Alumut, s'elesse tremila compagni che a lui parvero piú fidati, e con esso loro s'incamminò alla volta d'Aleppo, per fuggir la furia d'Ismael. Il quale, avendo inteso la sua fuga, gli mandò subito dietro seimila sofiani che lo perseguitarono; ma, passato ch'egli ebbe un fiume ch'aveva un ponte di pietra, subito lo fece rompere, e poco appresso sopragiunsero i sofiani, che non poterno far cosa alcuna.
Moratcan si mise poi in cammino e venne a un suo castello, dove stava un suo schiavo per castellano che, vedendo il signor suo fuggire, o forse avendo qualche intendimento con Ismael, non gli volse aprire. E avendo Moratcan in questo castello molto tesoro, né potendovi entrare, sdegnato fece tagliare a pezzi tutti gli uomini e le donne ch'erano in un borgo sotto il castello. Poi, inviatosi alla volta d'Aleppo, in pochi giorni giunse appresso alla città trenta miglia, e quivi fermossi con quelle poche genti ch'egli aveva, e mandò a Caerbec, signor d'Aleppo, a chiedergli salvocondotto: il quale glielo concedé molto volentieri, e ricevettelo con grandissimi onori. E subito Moratcan mandò molti de' suoi baroni ambasciatori al Cairo, chiedendo salvocondotto al soldano, il quale per qualche rispetto non volse darglielo, ma gli diede luogo che potesse andar a star con Aliduli, mostrando in palese che fusse fuggito. Ed essendovi andato, Aliduli l'accettò di tutto cuore, rammaricandosi del gran danno ch'egli avea avuto da' sofiani, ed egli all'incontro si doleva del danno d'Aliduli, e cosí ambidue s'andavano confortando: e non ostante le sopradette cose, Aliduli gli diede una sua figliuola per moglie.


Ismael, presa Bagadet, se ne va in Spain per impedire i Tartari;
e in capo d'un anno se ne tornò in Tauris, dove si fecero grandissime feste,
ed esso per quindici giorni attese al giuoco dell'arco. Narransi in parte le sue qualità.
Cap. 20.

Veduto ch'ebbe sultan Ismael il nimico suo distrutto, prestamente se n'andò in Siras e in Bagadet, e fece grandissima uccisione di quelle meschine genti. In questo tempo il gran Tartaro detto Ieselbas era uscito con grand'esercito e avea preso tutt'il paese di Corasan e la gran città d'Eri, che volge da quaranta in cinquanta miglia, benissimo popolata, ed è mercantesca; avea preso anche Stravi e Amixandaran e Sari. Queste città sono sopra la riva del mar Caspio alla banda di levante, e confinano col paese che di nuovo Ismael aveva conquistato. Ismael, dubitando, se ne ritornò in Spaan con l'esercito suo. Or, essendo il Tartaro desideroso d'ingannar Ismael, gli domandò il passo per andar alla Meca, fingendo di voler visitare il suo profeta, cioè Macometto: ma Ismael, conosciuta la rete che 'l Tamberlano gli voleva tendere, non tanto gli negò il passo, quanto anche gli fece risposta con molto brutte parole: dimorò un anno in Spain per resistere all'impeto de' Tartari. Questo gran Tamberlano prese una volta quel medesimo paese, con tutta la Persia e la Soria, sí come se ne vedono memorie in Soria.
In capo d'un anno Ismael se ne tornò in Tauris, e per la venuta sua furono fatti grandissimi apparati in molti palagi, e tutta la città faceva feste e trionfi: dove io mi trovai, mandato da' mercanti per riscuotere dal traditor Chamainit il Casvene. Ismael per quindici giorni non cessò di giuocare all'arco ogni giorno, nel mezzo d'un maidano, con molti suoi baroni. In mezo di questo maidano v'è una longa antenna, sopra la quale mettono un pomo d'oro, e per ogni volta ch'egli giuoca hanno venti pomi, dieci d'oro e dieci d'argento, e pongongli sopra la cima dell'antenna, poi co' lor archi e con alcuni bolzonetti fatti a posta li tirano correndo: e chi getta a terra il pomo se lo piglia per suo, e ogni volta che ne vien gettato alcuno, Ismael con tutti i suoi baroni si riposano tanto spazio quanto si consumeria in dir tre fiate il salmo Miserere, bevendo delicati vini e mangiando confezioni. E mentre ch'egli giuoca stanno sempre alla sua presenza due giovanetti belli come angeli, uno de' quali tiene un vaso d'oro con una coppa, l'altro tiene due scatole di confezioni; e i baroni hanno separatamente i lor vini e confezioni. E quando Ismael si va a riposare i due giovani si ritirano appresso il lor signore, porgendogli le confezioni e 'l vino. E avvegna che nel corso non gettassero altro pomo, non resta però Ismael di tornare a far collazione; e quand'egli fa di simil giuochi, tiene sempre appresso mille uomini armati per guardia della sua persona, oltre che saranno poi da trentamila persone attorno attorno di quel maidano tra soldati e cittadini.
Appresso la porta ch'entra nel giardino, dov'è la via che va al palagio, v'è un mastabè grande, e quivi si fanno portar da cena tutti li baroni ch'hanno giuocato, e Ismael entra a mangiare nel suo palagio Astibisti. Poi tutti li baroni cantano, lodando Ismael per esser egli signore e re tanto grazioso; il quale di presente è d'età di trentun anno, ed è di bellissimo aspetto, e in vista mostra d'esser molto benigno, né è di troppo alta ma di ragionevole statura, è grosso e largo nelle spalle, e nel viso mostra d'essere alquanto biondo. Porta la barba rasa, lasciatovi solo i mostacchi, e mostra d'esser di natura d'aver poca barba. È piacevole com'una damigella, e naturalmente è mancino, cioè adopra la sinistra mano in cambio della destra; gagliardo come un daino, e molto piú forte che niun de' suoi baroni. E quando giuoca all'arco tirando a' pomi, de' dieci che vengono gettati egli ne getta li sette, tanto è destro; e mentre dura il giuoco sempre si suonano di molti instrumenti, e molte donne ballano in quella festa, secondo la lor usanza, cantando le laudi d'Ismael. Il qual dimorò in Tauris da quindici giorni, poi se n'andò a Coi con tutto l'esercito, dove stette due mesi.


Sermangoli rompe i patti fatti con Ismael, il qual torna un'altra volta a rovinargli il paese, mandando a tal impresa due capitani; ed esso, partendosi da Canar, se ne va verso il mar Caspio, pigliando molti luoghi, e fra gli altri il castello della città di Derbant, ch'è molto grande e forte.
Cap. 21.

Stando in Coi, parmi che Sermangoli, ch'è re di Servan e tributario d'Ismael, aveva rotti i patti ch'erano tra loro: però Ismael, mosso da sdegno, ragunò le sue genti e se ne tornò un'altra volta a distrugger quel paese, come dianzi ho raccontato, ch'egli un'altra volta pigliò quel paese, e diedelo a colui che prima n'era signore; il qual, essendone privo e avutolo da Ismael, gli promise di servargli fede, ma l'ingannò, per il che ritornò a toglierlo, e andò poi in Carabacdac con tutt'il suo esercito. Carabacdac è una campagna che volge piú di mille miglia, nella qual v'è un bel castello chiamato Canar, ch'ha sotto di sé molti villaggi: e quivi si fanno le sete che da questo luogo sono chiamate canare. Ismael vi stette da otto giorni per rinfrescar le sue genti, per esser paese molto abbondante. In questo luogo egli fece due capitani: uno fu Lambec, l'altro Bairambec. Questo Bairambec è quello che prese il castello di Van, come di sopra ho detto, ed è cognato d'Ismael, il qual ha tre sorelle maritate in tre baroni: il primo è Bairambec, il secondo è Custagialutbec, il terzo sultan Calil, ch'è signor d'Asanchif. Fatti li due capitani, Ismael gli mandò all'impresa di Sumacchia, dando loro la bella città. Ed essendovi andati, li detti capitani la ritrovarono tutta vota, che tutti erano fuggiti nel castello Culustan, il qual è grande com'una città e inespugnabile, perciò ch'è posto sopra un alto monte: e il re del paese v'avea messo un bell'uomo per castellano, a lui molto fedele, e parmi che 'l detto castellano avesse ordine dal suo re che, se Ismael veniva in persona a Sumacchia, gli dovesse consegnare il castello Culustan, ch'è separato dalla città per spazio di mezo miglio. Or, veduto Bairambec e Lembec ch'ognuno s'era ritirato nel castello, pigliorno partito con diecimila valent'uomini d'assediarlo, perchè d'ogn'intorno era fortissimo né da alcuna parte si poteva combattere, e massimamente non avendo appresso di loro ingegni da far trabucchi né artiglierie.
Stando questi capitani all'assedio, Ismael si partí da Canar e se n'andò a Maumutaga, e subito gli fu dato quel castello, perchè i cittadini non volsero aspettar la battaglia, avendo essi un'altra volta provato il furore e la crudeltà: Ismael cavò di esso molta ricchezza, e tutto donò a' suoi soldati. Poi si mise in cammino per la riviera del mar Caspio, per conquistar il resto de' castelli ch'erano nel paese di Servan, il qual è una provincia che dura sette giornate da Maumutaga fino a Derbant. In questa riviera vi sono tre gran città e tre gran castella: la prima è Sumacchia, avvegna ch'ella sia una giornata lontana dal mare; l'altre sono appresso la marina e parte dentro di essa, com'è Maumutaga e Derbant. Ismael camminando giunse a un castello detto Baccara, il quale subito gli fu dato; camminò poi piú oltre una giornata, e ritrovò un castello detto Sirec, ch'è una bellissima fortezza sopra un alto monte. Questo castello si tenne tre giorni per fermar li patti con Ismael, e in capo di tre giorni Ismael vi mandò dentro circa sessant'uomini, confermandovi il primo castellano: e parmi che questi sessanta sofiani usassero nel castello molte disonestà, onde furono tutti tagliati a pezzi dalle genti servane, le quali poi la notte scamporno in quell'altissime montagne per tema d'Ismael, il quale, non v'avendo trovato alcuno dentro, lo fece tutto rovinare. Scorrendo un poco avanti si truova un castello e una bella città nominata Sabran, che non ha mura: in essa non v'era alcuno, che tutti erano fuggiti, chi per forza chi per volontade, perciò che 'l re del paese faceva disabitar quel luogo, a fine ch'Ismael non trovasse vettovaglie; ma egli n'era fornito da Carabacdac, e ogni giorno gli venivano vettovaglie fresche.
Ismael scorse quattro giornate e se n'andò in Derbant, e trovò la città disabitata, che tutte le genti erano fuggite, chi in Circassia e chi in quelle montagne, e solo si teneva il castello, ch'è grande e forte, ed è cosí ben fabricato che par proprio dipinto, e tutte le torri e mura sono come fussero nuove; e da ogni banda v'era gente con lancie e con bandiere. Questo castello ha due porte, le quali avevano murate con grossi sassi e con buona calcina. Quivi stette Ismael da 15 in 20 giorni, e undici giorni continovi con tutt'il suo esercito, ch'erano da 40 mila combattenti, e combatté il castello, e furono fatte due cave per entrarvi, ma niuna fece l'effetto; ne fecero poi una grande a una torre, levando tutt'il fondamento d'essa, e la puntellorno con molte colonne di legno, e poi ch'ebbero ben puntellato e cavato l'empirono di legne ben secche e vi misero il fuoco, acciò ch'abbruciate le colonne la torre cadesse. Le legne in poco spazio di tempo s'abbruciarono, e usciva gran fiamma dalle bocche di quella grotta. Il fuoco fu posto alle 22 ore, ma poco effetto fece, essendo affocato ed estinto nella grotta. Il castellano, dubitando che la cosa non procedesse piú avanti in suo danno e perdita del luogo, mandò un suo messo a mezzanotte da Ismael, offerendogli il castello, pur che fussero salvate le genti e le robbe loro. Ismael, avendo veduto il fuoco non operare, diede la sua fede al messo, promettendogli quanto egli domandava. Però la mattina seguente furno ismurate le porte e datogli il castello nelle mani, dove trovò molte munizioni, vettovaglie e belle armature, e delle quali io ne viddi molte che furno portate alla presenza d'Ismael; il quale, dopo ch'ebbe pigliato il castello, vi dimorò da otto o nove giorni per rinfrescar le sue genti. In questo tempo molti signori confinanti vennero a umiliarsi, mettendosi la berretta rossa.


Ismael se ne torna in Tauris, per la qual tornata si fanno grandissime feste e giuochi. Dell'affezione che gli portano i suoi soldati, e ch'è adorato come un dio; de' lor vestimenti e armature. Della disonestà usata da lui, e come di novo uscí con l'esercito in campagna per andar contra il Tartaro.
Cap. 22.

Essendo io in Tauris in quest'ultimo per espedizione alle cose de' miei crediti, né potendo essere sodisfatto, mi bisognò far comandare Camainit il Casvene, ma non potei aver chi mi facesse ragione, perciò che costui avea il favore d'un suo amico ch'era caporale, laonde io fui consigliato che me n'andassi da Ismael. E cosí, fatto fare una supplicazione, montai a cavallo e pigliai il cammino verso Ismael, il qual trovai con l'esercito nel paese di Servan, sott'il castello di Sirec che fu rovinato. E trovandovi alcuni baroni che già io avea conosciuti in Tauris, dissi loro il bisogno mio, pregandoli che mi volessero introdur da Ismael. Essi mi risposero non esser tempo, insino ch'Ismael non andava in Derbant e che pigliasse il castello; che poi, trovandosi allegro per l'avuta vittoria, avrei ottenuto tutto ciò ch'io avessi ricercato. E, pigliato il consiglio, stetti sempre nel campo fin che Ismael ebbe il castello, e avutolo ritrovai li detti baroni; e dato loro la supplica, con la carta che mostrava che 'l mio avversario m'era debitore, la portarono alla presenza d'Ismael e fugli letto il tutto, e subito mi fece spedire, comandando a tutti i suoi officiali in Tauris che mi facessero ragione. Il comandamento era in scritto, col nome d'Ismael in lettere grandi, e segnato di sua mano con un segno simigliante a una Z; era poi suggellato di mano di Mirbec, signor di Mosul, il qual porta al collo il suggello d'Ismael, ch'è fatto in punta di diamante, messo in un anello d'oro maravigliosamente lavorato: il sugello è grande come mezza una noce, e vi sono scolpite molto belle e minute lettere col nome d'Ismael, includendovi dentro i dodici sacramenti della setta loro. Io adunque, andato in Tauris, non potei oprar cosa alcuna, essendosene fuggito il mio avversario, onde io deliberai andarmene verso Aleppo.
Fra questo mezo Ismael venne in Tauris col suo esercito, per la qual venuta vi furono fatti di molti apparecchi e acconciamenti di bazzarri, e tutta la città gioiva nelle feste e ne' trionfi. Egli ogni giorno veniva nella piazza a giuocar all'arco co' suoi baroni, quali ebbero dal lor re di molti doni; e alla sua presenza nella piazza ballavano, sonando cimbali e flauti, cantando le laudi del magno sultan Ismael. Questo Sofí è tant'amato e tanto riverito che non solamente vien tenuto come un dio, ma come dio viene adorato da tutt'il popolo, massimamente da' suoi soldati, de' quali ve ne sono molti che vanno in battaglia senz'armatura, confortandosi che 'l loro signor Ismael debba andare a soccorrergli nel combattere; ve ne son anche d'altra sorte che parimente vanno nella battaglia senz'armarsi, mostrando d'esser contenti d'aver la morte pel lor signor Ismael, andandovi col lor petto nudo, gridando: "Schiac, Schiac". Qui nella Persia il nome d'Iddio è dimenticato, non ricordandosi mai Dio, ma sempre il nome d'Ismael.
Se l'uomo cavalca overo dismonta, e per avventura scappucciasse, non chiama altro Dio che Schiac, che in persona vuol inferir [...]. Dio in due modi si nomina, e prima dicesi Dio Schiac, ch'è ciascuno; poi, sí come dicono i mosulmani "Laylla laylla, Mahamet ressurralla"; i Persiani dicono "Laylla yllala, Ismael vellildlla". Da una banda dicono come egli è Dio, dall'altra com'egli è profeta; e tutti, e particolarmente i suoi soldati, tengono ch'egli non debba morire, e che sia per vivere in eterno. Io in quel paese ho inteso che Ismael non è contento d'esser chiamato Dio, né anche adorato.
L'usanza loro è di portar berretta rossa, e sopravanza quasi mezo braccio, una cosa come sarebbe un zon, che dalla parte che si mette in testa viene a esser larga, ristringendosi tuttavia sino in cima, ed è fatta con dodici pieghe grosse come un dito, che vogliono significare li dodici sacramenti della setta loro, overo li dodici figliuoli d'Alí profeta. Oltre di ciò non si tagliano mai la barba né mostacchi. Il vestimento loro è come fu sempre; l'armature loro sono corazze di lame indorate, intagliate di bellissimi lavori, e similmente molti giacchi di maglia, elmetti come quelli de' Mamalucchi. Le barde loro sono ingiuppate col cottone e forti a maraviglia; hanno anche barde di lame indorate di finissimo acciaio di Siras, e barde di coio, ma non come i nostri: sono di pezzi, come stanno quelle ingiuppate e come quelle di Soria. Portano anche molti elmetti, over berrette d'una grossissima maglia. Poi ciascuno usa d'andare a cavallo, né vi si truova alcun pedone; usano lancia e spada e satachi, cioè cintura, con un arco con molte freccie.
Questa seconda volta che Ismael venne in Tauris operò cosa strana e disonesta, perciò che fece per forza pigliar dodici giovanetti, de' piú belli che fussero nella città, e, condotti nel palagio Astibisti, egli volse adempir con loro le sue triste voglie; dopo ne donò un per uno a' suoi baroni, che fecero il simile. E poco prima, quando anch'egli tornò in Tauris, pigliò dieci figliuoli d'uomini da bene e fece loro il simigliante. Nel tempo ch'Ismael tornò da Sumacchia vi vennero tre ambasciatori iberi, i quali furono ben onorati e benissimo veduti, e donò loro anche una donzella per uno di quelle mosulmine ch'egli aveva prese per forza: gli ambasciatori le accettarono molto volentieri. Mentre che Ismael stava ne' trionfi, gli venne nuova come le genti d'Usbec, cioè del Tartaro, avevano corso nel paese di Gesti: però fece deliberazione d'andarsi ad affrontare con lui, e subito uscito in campagna volse far la mostra de' suoi soldati, comandando a tutti li baroni che dovessero ragunar le genti che ciascuno d'essi era obligato tenere in campo. Fece anche venire di molt'altra gente da ogni banda, per far grosso esercito e andar addosso Ieselbas: e cosí congregò molta gente, vedendo che gli bisognava, per esser questo Tartaro grandissimo signore e molto potente.
Io, mentre che Ismael ragunava quest'esercito, mi levai di Tauris tornando in Aleppo: e il mio partire fu il primo di maggio del 1510; e m'accompagnai con una mala compagnia. Pur, quando piacque al nostro Signor Iddio, giunsi in Albir, alli 2 di luglio 1510.



Di messer Iosafa Barbaro, gentiluomo veneziano, il viaggio della Tana e nella Persia.

ESORDIO

La terra (secondo quello che con evidentissime dimostrazioni provano li geometri) in comparazione del firmamento è tanto picciola quanto un punto fatto nel mezo della circonferenzia d'un circolo; della quale, per esser una buona parte, secondo l'opinione d'alcuni, over coperta da acque over intemperata per troppo freddo o caldo, quella parte che s'abita è ancora molto minore. Nondimeno tanta è la picciolezza degli uomini, che pochi si truovano che n'abbiano veduto qualche buona particella, e niuno (se non m'inganno) è, il quale l'abbia veduta tutta. E quelli che n'hanno veduto pur qualche particella al tempo nostro, per la maggior parte sono mercanti, overo uomini dati alla marinarezza, ne' quali due esercizii, dal principio suo per insino al dí presente, tanto i miei padri e signori veneziani sono stati eccellenti, che credo con verità poter dire che in questa cosa soprastiano agli altri. Imperochè, dopo che l'imperio romano non signoreggia per tutto come una volta fece, e che la diversità de' linguaggi, costumi e religioni hanno come a dir passato e rinchiuso questo mondo inferiore, grandissima parte di questa poca la qual è abitabile saria incognita, se la mercanzia e marinarezza per quanto è stato il poter de' Veneziani non l'avesse aperta. Tra li quali, s'alcuno è al dí d'oggi che s'abbia affaticato di vederne qualche parte, credo poter dir con verità d'esser io uno di quelli, conciosiachè quasi tutt'il tempo della gioventú mia e buona parte della vecchiezza abbia consumata in luoghi lontani, in genti barbare, fra uomini alieni in tutto dalla civiltà e costumi nostri, tra li quali ho provato e veduto molte cose che, per non esser usitate di qua, a quelli che l'udiranno, i quali, per modo di dire, non furono mai fuori di Venezia, forse parranno bugie. E questa è stata principalmente la cagione per la quale non m'ho mai troppo curato né di scriver quello che ho veduto, né eziandio di parlarne molto.
Ma, essendo al presente astretto da preghiere di chi mi può comandare, e avendo inteso che molto piú cose di queste, che paiono incredibili, si truovano scritte in Plinio, in Solino, in Pomponio Mella, in Strabone, in Erodoto, e in altri moderni, com'è Marco Polo, Nicolò Conte, nostri Veneziani, e in altri novissimi, com'è Pietro Quirini, Alvise da Mosto e Ambrosio Contarini, non ho potuto far di meno che ancora io non scriva quello che ho veduto, prima ad onor del Signor Iddio, il quale m'ha scampato da infiniti pericoli; poi a contento di colui che m'ha astretto, e a utile in qualche parte di quelli che verranno dopo noi, specialmente se averanno d'andar peregrinando dove io sono stato; a consolazione di chi si diletterà di legger cose nuove, ed eziandio per giovamento della nostra terra, se per l'avvenire avrà di bisogno di mandar qualche uno in quei paesi. Onde io dividerò il parlar mio in due parti: nella prima narrerò il viaggio mio della Tana, nella seconda quello di Persia, non mettendo però né nell'uno né nell'altro a una gran giunta le fatiche, li pericoli e i disagi i quali mi sono occorsi.


Del fiume Erdil, altramente detto la Volga; i confini della Tartaria; de' fiumi Elice e Danubio; d'Alania provincia, e perchè sia cosí detta; costume de' Tartari circa le lor sepolture; del monte Contebbe; di Derbent città. Come l'auttore, intendendo che nel monte predetto era nascosto un tesoro, andò con alcuni mercanti e gran numero d'uomini a cavar in detto monte, e le cose maravigliose che vi trovarono.
Cap. 1.

Del 1436 cominciai andar al viaggio della Tana, dove a parte a parte sono stato per spazio d'anni 16, e ho circondato quelle parti, cosí per mare come per terra, con diligenza e quasi curiosità. La pianura di Tartaria, a uno che fusse in mezo di quella, ha dalla parte di levante il fiume d'Erdil, altramente detto la Volga; dalla parte di ponente e maestro la Polonia; dalla parte di tramontana la Rossia; dalla parte d'ostro, la qual guarda verso il mar Maggiore, l'Alania, Cumania, Gazaria: i quali luoghi tutti confinano sul mar delle Zabache, ch'è la palude Meotide, e conseguentemente è posta tra li sopradetti confini. E acciò che io sia meglio inteso, io anderò discorrendo in parte del mar Maggiore per riviera, e in parte infra terra, fin ad un fiume domandato Elice, il qual è appresso Capha circa 40 miglia; passato il qual fiume si va verso Moncastro, dove si truova il Danubio, fiume nominatissimo: e di qui avanti non dirò cosa alcuna, per esser luoghi assai piú domestici.
La Alania è derivata da' popoli detti Alani, li quali nella lor lingua si chiamano As: questi erano cristiani, e furon scacciati e distrutti da' Tartari. La regione è per monti, rive e piani, dove si truovano molti monticelli fatti a mano, li quali sono in segno di sepolture, e ciascun di loro ha un sasso in cima grande con certo buso, nel quale mettono una croce d'un pezzo fatta d'un altro sasso. E di questi monticelli ce ne sono innumerabili, in uno de' quali intendevamo esser ascoso grande tesoro, conciosiachè, nel tempo che messer Pietro Lando era consolo alla Tana, venne uno dal Cairo, nominato Gulbedin, e disse come, essendo al Cairo, avea inteso da una femina tartara che in uno di questi monticelli, chiamato Contebbe, era stato nascosto per questi Alani un gran tesoro; la qual femina eziandio gli aveva dati certi segnali, cosí del monte come del terreno. Questo Gulbedin si mise a cavare in questo monticello, facendo alcuni pozzi ora in un luogo e ora in un altro, e cosí perseverò per anni due e poi morí: onde fu concluso che per impotenzia esso non avesse potuto trovar quel tesoro.
Per la qual cosa del 1437, trovandoci la notte di s. Caterina nella Tana sette di noi mercanti in casa di Bartolomeo Rosso, cittadin di Venezia: cioè Francesco Cornaro (che fu fratello di Iacomo Cornaro dal Banco), Caterin Contarini (il quale dopo usò in Constantinopoli), Giovanni Barbarigo fu d'Andrea di Candia, Giovanni da Valle (il qual morí patron d'una fusta nel lago di Garda, ma prima, insieme con alcuni altri Veneziani, nel 1428 andò in Derbent, città sopra il mar Caspio, e fece una fusta, con consentimento di quel signore, e invitato da lui depredò di quei navilii i quali venivano da Strava, che fu quasi cosa mirabile, la qual lascierò per adesso), Moisè Bon d'Alessandro dalla Giudecca, Bartolomeo Rosso e io, con santa Caterina, la qual metto per l'ottava nelle nostre stipulazioni e patti; trovandoci dico nella Tana noi sette mercanti, in casa di detto Bartolomeo Rosso, nella notte di s. Caterina, tre de' quali erano stati avanti di noi in quelle parti, e ragionando insieme di questo tesoro, finalmente ci accordammo e facemmo una scrittura (la qual fu di mano di Caterin Contarini, la copia della quale per insino al presente ho appresso di me) d'andar a cavare in questo monte. E trovammo 120 uomini da menare con noi a questo esercizio, a ciascuno de' quali davamo tre ducati il mese per il meno.
E circa 8 giorni dopo noi sette, insieme con li 120 condotti, partimmo dalla Tana con la robba, vittuarie e instromenti, i quali portammo su quei zenà che s'usano in Rossia; e andammo sul ghiaccio per la fiumara della Tana, e il dí seguente giugnemmo lí, perch'è sul fiume, ed è circa sessanta miglia lontano dalla terra della Tana. Questo monticello è alto da cinquanta passa e di sopra è piano, nel quale ha un altro monticello simile ad una berretta tonda con una piega a torno, sí che due uomini sariano andati un appresso l'altro su per quel margine: e questo secondo monticello era alto 12 passa, e di sotto era di forma circolare come se fusse stato fatto a compasso, e occupava in diametro 8 passa. Principiammo a tagliare e cavare sul piano di questo monticello maggiore, il qual è principio del monticello minore, con intenzione d'entrar dentro da basso fino in cima, e di fare una strada larga e d'andar di longo. Nel principio del romper il terreno, quell'era sí duro e agghiacciato che né con zappe né con manare lo potevano rompere; pur, entrati che fussimo un poco sotto, trovammo il terreno tenero, e fu lavorato per quel giorno assai bene. La mattina seguente, ritornando a l'opera, trovammo il terreno agghiacciato e piú duro che prima, in modo che ne fu forza per allora abbandonar l'impresa e ritornar alla Tana, con proposito però e ferma deliberazione di ritornarvi a tempo nuovo.
Circa l'uscita di marzo ritornammo con barche e navilii, con uomini da 150, e demmo principio a cavare: e in 22 giorni facemmo una tagliata di circa passi 60, larga passi 8 e alta da passa 10. Udirete qui gran maraviglia, e cose per modo di dire incredibili. Trovammo quello n'era stato predetto che trovaremmo, per il che ne facevamo piú certi di quello che n'era stato detto, in modo che, per la speranza di ritrovare questo tesoro, noi, i quali pagavamo, portavamo meglio la zivera di quel che facevano gli altri, e io era il maestro di far le zivere. La maraviglia grande ch'avessimo fu che prima di sopra il terreno era negro per l'erbe, dopo erano li carboni per tutto: e questo è possibile, conciosiach'avendo appresso boschi di salci, potevano far fuoco su tutt'il monte. Dopo v'era cenere per una spanna, e questo ancora è possibile, conciosiach'avendo vicino il canneto e potendo far fuoco di canne, potevano aver cenere. Dopo v'erano scorze di miglio per un'altra spanna, e (perchè a questo si potria dire che mangiavano paniccio fatto di miglio, e aveano serbati li scorzi da mettere in quel luogo) vorrei sapere quanto miglio bisognava ch'avessero a voler compire tanta larghezza quanta era quella del monticello di scorzi di miglio, alta una spanna. Dopo v'erano squame di pesci, cioè di raine e altri simili, per un'altra spanna, e (perchè si potria dire che in quel fiume si truovano raine e pesci assai, delle squame de' quali si poteva coprire il monte) io lascio considerare a quelli che leggeranno quanto questa cosa sia o possibile o verisimile: certo è ch'è vera. Onde considero che colui il qual fece fare questa sepoltura, che si chiamava Indiabu, volendo far queste tante cerimonie, le quali forse s'usavano a quei tempi, bisognò che si pensasse molto avanti, e che facesse ricogliere e riponere tutte queste cose.
Avendo fatta questa tagliata e non trovando il tesoro, deliberammo di fare due fosse intra il monticello massiccio, le quali fussero 4 passa per largo e per alto: e facendo questo trovammo un terreno bianco e duro in tanto che facemmo scalini in esso, su per i quali portavamo le zivere. Andando sotto circa cinque passa, trovammo in quel basso alcuni vasi di pietra, in alcuni de' quali era cenere e in alcuni carboni; alcuni erano vacui, e alcuni pieni d'ossi di pesce de la schena. Trovammo etiam da 5 o 6 paternostri grandi come naranzi, i quali erano di terra cotta invetriata, simili a quelli che si fanno nella Marca, i quali si mettono alle tratte. Trovammo ancora un mezo manico d'un ramino d'argento picciolino, ch'avea di sopra a modo d'una testa di biscia. Venuta la settimana santa, cominciò a soffiare un vento da levante, con tanta furia che levava il terreno e le zoppe ch'erano state cavate e quelle pietre, e gittavale nel volto delli operarii, con effusione di sangue: per la qual cosa noi deliberammo di levarci e di non far piú altra esperienza, e questo fu il lunedí di Pasqua.
Il luogo per avanti si chiamava le cave di Gulbedin, e, dopo che noi cavammo, è stato chiamato per sino a questo giorno la cava de' Franchi, imperoch'è tanto grande il lavoro che facemmo in pochi giorni, che si potria credere che non fusse stato fatto in quel poco tempo da manco d'un migliaio d'uomini. Non avemmo altra certezza di quel tesoro, ma (per quanto intendemmo) se tesoro era lí, la cagione che 'l fece metter lí sotto fu perchè il detto Indiabu, signore di questi Alani, intese che l'imperatore de' Tartari gli veniva incontra, e, deliberando di sepelirlo, acciò che niuno se n'accorgesse, finse di far la sua sepoltura secondo il loro costume, e secretamente fece mettere in quel luogo prima quello che a lui pareva, e poi fece fare quel monticello.


La fede de' macomettani, onde avesse l'origine: come i Tartari furono astretti alla fede macomettana. Come Naurus, capitano d'Ulumahemet imperator de' Tartari, venuto in divisione andò contra esso imperatore. Il modo di mandar avanti le scolte, e costume di presentar li signori.
Cap. 2.

La fede di Macometto principiò ne' Tartari ordinariamente, mo sono anni circa 110: vero è che per avanti pur alcuni di loro erano macomettani, ma ognuno era in libertà di tener quella fede che gli piaceva, onde alcuni adoravano statue di legno e di pezze, e queste portavano sopra li carri. Il stringer della fede macomettana fu nel tempo di Hedighi, capitano della gente dell'imperator tartaro chiamato Sidahameth Can: questo Hedighi fu padre di Naurus, del quale ne parlaremo al presente. Signoreggiava nelle campagne della Tartaria del 1438 un imperatore nominato Ulumahemet Can, cioè gran Macometto imperatore, e aveva signoreggiato piú anni. Trovandosi costui nelle campagne che sono verso la Rossia col suo lordo, cioè popolo, aveva per capitano questo Naurus, il quale fu figliuolo di Hedighi, dal quale fu astretta la Tartaria alla fede macomettana. Accadé certa divisione tra esso Naurus e il suo imperatore, onde si partí dall'imperatore con le genti che lo volsero seguitare e andò verso il fiume d'Erdil, dov'era uno Chezimahameth, ch'è dir Macometto picciolo, il qual era di sangue di questi imperatori. E, communicato cosí il consiglio come le forze, deliberarono ambidue d'andar contra questo Ulumahemet, e fecero la via appresso Citrachan e vennero per le campagne di Tumen; e venendo intorno appresso la Circassia, aviossi alla via del fiume della Tana e al colfo del mare delle Zabache, il quale insieme col fiume della Tana era agghiacciato. E, per esser popolo assai e animali innumerabili, fu bisogno ch'andassero larghi, acciò che quelli ch'andavano avanti non mangiassero lo strame e altri rinfrescamenti di quelli che venivano dietro. Onde un capo di queste genti e animali toccò un luogo chiamato Palastra, e l'altro capo toccò il fiume della Tana nel luogo chiamato Bosagaz, che viene a dire legno berrettin: la distanzia da uno di questi luoghi all'altro è di miglia 120, e tra questa distanzia camminava detto popolo, quantunque tutto non fusse atto al cammino.
Quattro mesi avanti che venissero verso la Tana noi l'intendemmo, ma un mese avanti che venisse questo signore cominciarono a venir verso la Tana alcune scolte, le quali erano di giovani tre o quattro a cavallo, con un cavallo a mano per uno: quelli di loro che venivano nella Tana erano chiamati avanti il consolo, e gli erano fatte carezze e offerte. Domandati dove andavano e quello ch'andavano facendo, dicevano ch'erano giovani ch'andavano a solazzo: altro non se gli poteva trar di bocca, e stavano al piú una o due ore e poi andavano via. E ogni giorno era questo medesimo, salvo che sempre n'era qualcuno piú per numero. Ma, come il signore fu approssimato alla Tana per cinque o sei giornate, cominciorno a venire da 25 in 50, con le sue arme ben in ordine, e avvicinandosi ancor piú, a centinaia. Venne poi il signore, e alloggiò appresso alla Tana per un trar d'arco, dentro una moschea antica. Incontinente il consolo deliberò di mandargli presenti, e mandò una novenna a lui, una alla madre e una a Naurus, capitano dell'esercito. Novenna si chiama un presente di nove cose diverse, come saria a dir panno di seta, scarlatto e altre cose insino al numero di nove: e cosí è costume di presentare a' signori di quel luogo. Volse ch'io fussi quello ch'andasse co' presenti, e gli fu portato pane, vino di mele, bosa (ch'è cervosa) e altre cose per insino a nove. Entrati nella moschea, trovammo il signore disteso su un tapeto, appoggiato a Naurus capitano: egli era da 22 e Naurus da 25 anni. Presentati che gli ebbe, gli raccomandai la terra insieme col popolo, il quale dissi ch'era in sua libertà. Risposemi con umanissime parole. Dopo, guardando verso di noi, incominciò a ridere e a sbatter le mani l'una nell'altra, e dire: "Guarda che terra è questa, dove tre uomini non hanno piú di tre occhi". E questo era vero, conciosiachè Buran Taiapietra, nostro turcimano, aveva un occhio solo; un Giovanne greco, bastoniero del consolo, uno solo; e colui che portava il vino di mele similmente un solo. Tolta licenza da lui, tornammo alla terra.


Il modo che tengono le scolte nel vivere; della grand'abbondanza delle vettovaglie che conducono in campo; in qual maniera cammina l'esercito de' Tartari. Degli uccelli chiamati gallinaccie.
Cap. 3.

Se fusse in questo luogo alcuno al quale paresse manco che ragionevole che dette scolte andassero a quattro, a dieci, a venti e trenta per quelle pianure, stando lontani da' suoi popoli le belle dieci, sedici e venti giornate, e domandasse di che possono vivere, io gli rispondo che ciascuno di questi, il qual si parte dal suo popolo, porta un utricello di pelle di capretto pieno di farina di miglio macinata e impastata con un poco di mele, e hanno qualche scodella di legno; e qualche volta pigliano qualche salvaticina, ch'assai ne sono per quelle campagne ed essi le sanno ben pigliare, massimamente con gli archi: tolgono di questa farina, e con un poco d'acqua fanno certa pozione, e con quella si passano. E quando a qualche uno ho domandato quel che mangiano in campagna, all'incontro essi mi rispondono: "E che si muore per non mangiare?", quasi che dica: "Abbia pur tanto che si passi la vita leggiermente, non mi curo d'altro". Scorrono con erbe e radici e con quel che possono, pur che non gli manchi il sale: se non hanno sale la bocca se gli vessica e marcisce, in tanto che da quel male alcuni se ne muoiono; viengli eziandio flusso di ventre.
Ma ritorniamo là dove lasciammo il parlar nostro. Partito che fu questo signore, incominciò a venire il popolo con gli animali: e furono prima mandre di cavalli, a sessanta, cento, dugento e piú per mandra; poi furono mandre di cameli e buoi; e dietro a queste, mandre d'animali minuti. E durò questa cosa da giorni sei, che tutt'il giorno, quanto potevamo guardare con gli occhi, da ogni canto la campagna era piena di gente e d'animali ch'andavano e venivano: e questa era solamente nelle teste, onde si può considerar quanto maggior sia stato il numero di mezo. Noi stavamo su le mura (conciosiachè tenevamo serrate le porte), e la sera eravamo stanchi di guardare, imperochè, per la moltitudine di questi popoli e bestiame, il diametro della pianura che occupavano era al modo d'una paganea di miglia 120. Questa parola è greca, la qual io già, essendo nella Morea in caccia con un signorotto, ch'avea menato seco cento villani, primamente intesi. Ciascuno di loro aveva una mazza in mano, e stavano lontani l'uno dall'altro da dieci passa, e andavano dando di questa mazza in terra e gridando per far saltar fuori le salvaticine; e li cacciatori, chi a cavallo e chi a piedi, con uccelli e cani, si mettevano alle poste dove a lor pareva, e quando era il tempo gettavano i loro uccelli o lasciavano i cani: e l'andare a questo modo chiamavano una paganea. In questa maniera, com'ho detto, camminava questo infinito popolo de' Tartari. E fra gli altri animali che questo popolo cosí andando cacciava, erano pernici e alcuni altri uccelli che noi chiamiamo gallinaccie, i quali hanno la coda corta a modo di gallina, e stanno con la testa dritta come galli, e sono grandi quasi come pavoni, i quali simigliano eziandio nel colore, non intendendo della coda: onde (per esser la Tana fra monticelli di terreno e fosse assai, per spazio di dieci miglia intorno, dove già fu la Tana antica) maggior numero del consueto si venne ascondere fra detti monticelli e valli non frequentate. Una cosa è, che atorno le mura della Tana e dentro a' fossi erano tante pernici e gallinaccie che pareva che tutti detti luoghi fossero cortivi di qualche buoni massari. Li putti della terra ne pigliavano qualcuna e davanle due per un aspro, che vien l'una otto baggattini nostri.


In che modo un frate di San Francesco pigliava grandissima quantità di gallinaccie. Del gran numero di gente ch'era nell'esercito de' Tartari. Della maniera de' carri e delle case di quelle genti, e come si fabrichino.
Cap. 4.

Ritrovandosi a quel tempo nella Tana un frate Therino dell'ordine di S. Francesco, con un rizaglio, facendo di due cerchi piccioli un grande, e ficcando un palo alquanto storto in terra fuor delle mura, ne pigliava dieci e venti al tratto: e vendendole trovò tanti denari che di quelli comprò un garzon circasso, al quale pose nome Pernice e fecelo frate. La notte ancora nella terra si lasciavano le finestre aperte con qualche lume dentro, e alcuna volta ne venivano per sino in casa. Di cervi e altre salvaticine si può considerare quanto era il numero, ma queste non venivano appresso alla Tana.
Dalla pianura ch'occupava questa gente si potria far una descrizione del numero di grosso quanti ch'erano: che, a un luogo detto Bosagaz, dov'era una mia peschiera, dopo andato giú il ghiaccio andando con una barca (il qual luogo era lontano dalla Tana circa 40 miglia), ritrovai li pescatori, li quali dissero aver pescato l'invernata e aver salate di molte morone e caviari, e ch'alcuni di questo popolo erano stati lí e avevano tolto tutti li pesci, salati e non salati (de' quali alcuni erano che tra noi non si mangiano), per insino alle teste, e tutti li caviari e tutto il sale, il qual è grosso come quello da Gieviza, in modo che per maraviglia non s'aveva potuto ritrovare un grano di sale; delle botti etiam aveano tolte le doghe, forse per acconciar li suoi carri; oltre di questo tre macinette ch'erano lí da macinar sale, ch'aveano un ferretto in mezo, ruppero per torre quel poco di ferro. Quello che fu fatto a me fu fatto da per tutto ad ognuno, in tanto che a Giovanni da Valle (il qual ancora aveva una peschiera, e intendendo la venuta di questo signore aveva fatto fare una gran fossa, e messo da circa trenta carratelli di caviaro in essa, e l'avea coperta di terreno, sopra il quale poi, aciò che non se n'avvedessero, aveva fatto arder legne) trovarono le scosagne e non gli lasciarono cosa alcuna. In questo popolo sono innumerabili carri da due rote, piú alte delle nostre, li quali sono affelciati di stuore di canne, e parte coperti con feltre, parte con panni, quando sono di persone da conto. Alcuni de' quali carri hanno le sue case suso, le quali essi fanno in questo modo: pigliano un cerchio di legno, il diametro del quale sia un passo e mezo, e sopra questo drizzan altri semicirculi, i quali nel mezo s'intersecano; tra questi poi mettono le loro stuore di canna, le quali cuoprono o di feltro o di panni, secondo la lor condizione. E quando vogliono alloggiare, mettono queste case giú de' carri e in esse albergano.


Come un Edelmulgh, cognato del signore, avuta licenza entrò nella città e alloggiò in casa di messer Iosafa Barbaro, e, fatta amicizia tra loro, esso messer Iosafa andò con lui al signore, e quello che gl'intravenne fra via. Il modo ch'osserva quella gente quando va al signore per aver udienza.
Cap. 5.

Due giorni dopo, partito questo signore, vennero a me alcuni di quei della Tana e mi dissero ch'io andassi alle mura, dov'era un Tartaro il quale mi volea parlare: andai, e mi fu detto da colui come lí da presso si ritrovava un Edelmulgh, cognato del signore, il quale volentieri (piacendo cosí a me) entraria nella terra e si faria mio conaco, cioè ospite. Domandai licenza al consolo, e ottenuta che l'ebbi andai alla porta e tolsilo dentro con tre de' suoi, imperochè ancora si tenevano chiuse le porte. Lo menai a casa e fecigli onore assai, specialmente di vino, che molto gli piaceva: e in poche parole stette due giorni con me. Costui, volendo partire, mi disse volere ch'io andassi con lui, e ch'era fatto mio fratello, e che là dov'egli era io potevo ben andar sicuro; disse pur qualcosa a' mercanti, de' quali niuno era che non si maravigliasse. Deliberai d'andar con lui, e tolsi due Tartari con me di quelli della terra a piedi, e io montai a cavallo. Uscimmo della terra a tre ore di giorno: egli era imbriaco marcissimo, imperoch'avea bevuto tanto che gettava sangue pel naso, e quando io gli diceva che non bevesse tanto faceva certi gesti da simia, dicendo: "Lasciami bere, dove ne troverò io piú?" Dismontati adunque su nel ghiaccio per passare il fiume Tanais, io mi sforzava d'andar dov'era la neve, ma esso, il qual era vinto dal vino, andando dove il cavallo lo menava capitò in luogo senza neve, dove il cavallo non poteva stare in piedi, imperochè i lor cavalli non hanno ferri, onde cascò; ed esso gli dava con la scoriata (perchè non portano sproni), e il cavallo ora levava e ora cascava: e durò questa cosa forse per un terzo d'ora. Finalmente, passato il fiume, andammo all'altro ramo, e passammo ancor quello con gran fatica, per quell'istessa ragione. Ed essendo lui stanco, si pose a certo popolo che già s'era messo ad alloggiare, e lí albergammo per quella notte, forniti d'ogni disagio, come si può pensare.
La mattina seguente cominciammo a cavalcare, ma non con quella gagliardezza ch'avevamo fatto il giorno avanti. E passato ch'avemmo un altro ramo di questo fiume, camminando sempre alla via ch'andava il popolo, il quale era per tutto come formiche, cavalcato ch'avemmo ancora due giornate, ci approssimassimo al luogo dov'era il signore: e quivi gli fu fatto da ognuno molto onore e datogli di quel che v'era, come carne, paniccio e latte e altre cose simili, in modo che non ci mancava cosa alcuna. Il giorno seguente, desiderando di vedere come cavalcava questo popolo e che ordine teneva nelle sue cose, viddi tante e tanto mirabil cose che reputo che, volendo scrivere di passo in passo quello ch'io potria, farei un gran volume. Giugnemmo dov'era l'alloggiamento di questo signore, il quale trovai sotto un padiglione, e d'ogn'intorno genti innumerabili, delle quali quelli che volevano audienzia erano inginocchioni, tutti separati l'uno dall'altro, e mettevano l'arme sue lontane dal signore un tratto di pietra: a qualcuno de' quali il signore parlava, e domandando quel ch'esso voleva, tuttavia gli faceva atto con la mano che si levasse; levavasi e veniva piú avanti, lontano però da lui per otto passa, e di nuovo s'inginocchiava e domandava quello che a lui piaceva. E cosí si faceva per insino che si dava audienzia.


In che modo si faccia ragione nel campo. Gli uomini da fatti come s'espongano a' pericoli. Come quarantacinque Tartari andarono ad assalir cento cavalli de' Circassi, ch'erano nascosi in un bosco per far correrie, e molti di quelli ammazzarono e gran parte ne presero.
Cap. 6.

La ragione si fa per tutt'il campo alla sproveduta, e fassi a questo modo. Quando un ha da fare con un altro di qualche differenza, altercandosi con esso di parole, non però al modo che fanno questi di qua ma con poca ingiuria, si levano ambidui, e, se piú fussero, tutti; e vanno a una via dove meglio gli pare, e al primo che truovano il quale sia di qualche condizione dicono: "Signore, fanne ragione, perchè siamo differenti"; ed egli subito si ferma e ode quello che dicono, e poi delibera quello gli pare senz'altra scrittura, e di quello che ha deliberato niuno parla. Concorrono a queste cose molte persone, alle quali, fatta la deliberazione, esso dice: "Voi sarete testimonii". Di simili giudicii tutt'il campo continuamente è pieno. E se qualche differenza gli occorresse in via, osservano quest'istesso, togliendo per giudice quello che scontrano, facendolo giudicare.
Viddi un giorno, essendo in questo lordo, una scodella di legno roversciata in terra, e andai là, e levandola trovai che sotto v'era paniccio cotto. Mi voltai verso un Tartaro e gli domandai: "Che cosa è questa?" Mi rispose esser messa per hibuthperes, cioè per gli idolatri. Domandai: "E come, sonvi idolatri in questo popolo?" Rispose: "O, o, ne sono assai, ma sono occulti".
Principierò dal numero del popolo, e dirò d'aviso, imperochè numerarli non era possibile, esplicando nondimeno manco di quello ch'io stimo. Credo e fermamente tengo che fussero anime trecentomila in tutt'il lordo, quando è congiunto in un pezzo: questo dico perchè parte del lordo avea Ulumahemeth, com'abbiamo detto di sopra. Gli uomini da fatti sono valentissimi e animosissimi, in tanto ch'alcun di loro per eccellenzia è chiamato talubagater, che vuol dire matto valente: il qual nome gli accresce tra 'l vulgo come appresso di noi savio over il bello, onde si dice Pietro tale il savio e Paulo tale il bello. Hanno questi tali una preminenzia, che tutte le cose che fanno, ancora che in qualche parte siano fuori di ragione, si dicono esser fatte bene, che, derivando da prodezza, a tutti par che facciano il suo mestiero. E di questi molti ve ne sono (se sono in fatti d'arme) che non stimano la vita, non temono pericolo, si cacciano avanti e s'espongono ad ogni rischio senza ragione alcuna, di modo che li timidi pigliano animo e diventano valentissimi. A me par questo lor cognome esserli molto proprio, perchè non veggio che possa esser alcuno valent'uomo se non è pazzo. Non è, per la fede vostra, pazzia, ch'uno voglia combattere contra quattro? Non è pazzia ch'uno con un coltello sia disposto di combattere contra piú, i quali abbiano spade?
Dirò a questo proposito quello ch'una volta m'intravenne, essendo alla Tana. Stando io un giorno in piazza, vennero alcuni Tartari nella terra e dissero che in un boschetto lontano circa tre miglia erano ascosti da cento cavalli di Circassi, i quali aveano deliberato di fare una correria per insino alla terra, secondo il lor costume. Io sedeva a caso nella bottega d'un maestro di freccie, nella quale era anche un Tartaro mercante, ch'era venuto lí con semenzina. Costui, inteso ch'ebbe questo, si levò e disse: "Perchè non andiamo noi a pigliarli? Quanti cavalli sono?" Gli risposi: "Cento". "Or ben, - diss'egli, - noi siamo cinque, voi quanti cavalli sarete?" Risposi: "Quaranta". Ed egli: "I Circassi non sono uomini ma femine; andiamo a pigliarli". Udito che io ebbi questo, andai a ritrovar Francesco da Valle, e gli dissi quello che costui m'aveva detto, tuttavia ridendo. Mi domandò se mi bastava l'animo d'andare; gli risposi di sí: onde ci mettemmo a cavallo, e per acqua ordinammo ch'alcuni nostri uomini venissero, e sul mezogiorno assaltammo questi Circassi, li quali stavano all'ombra, alcuni de' quali dormivano. Volse la mala ventura che, un poco avanti che noi giugnessimo lí, il trombetta nostro sonò, per la qual cosa molti ebbero tempo di scampare; nondimeno, fra morti e presi, n'avemmo circa quaranta. Ma il bello fu, al proposito de' matti valenti, che questo Tartaro, il quale voleva che gli andassimo a pigliare, non rimase alla preda, ma solo si mise a correr dietro a quelli che fuggivano. E gridandogli noi: "Ma he, torna, ma he, torna", ritornò circa un'ora dopo; e giunto si lamentava e diceva: "Ohimè, che non n'ho potuto pigliare alcuno", dolendosi molto forte. Considerate che pazzia era quella di costui, che se quattro di loro se gli fussero rivoltati l'averiano sminuzato; e di piú, riprendendolo noi, se ne faceva beffe. Le scolte delle quali ho fatto menzione di sopra, che vennero avanti il campo alla Tana, cosí andavano avanti questo campo in otto parti diverse, per saper quello che da ogni lato gli avesse potuto nuocere, lontan molte giornate, secondo il bisogno del campo.


Delle uccellagioni e cacciagioni de' Tartari; della gran moltitudine d'animali ch'appresso di loro si truovano, massime cavalli, buoi, cameli da due gobbe e altri.
Cap. 7.

Alloggiato ch'è il signore, subito mettono giú li bazzari e lasciano le strade larghe: s'è di verno, tanti sono i piedi degli animali che fanno grandissimo fango; s'egli è di state, fanno grandissima polvere. Fanno di subito (messo ch'hanno giú li bazzari) li lor fornelli, e arrostono e lessano la carne, e fanno i lor sapori di latte, di buttiro e di cacio. Hanno sempre qualche salvaticine, e massimamente cervi. Sono in quell'esercito artegiani di drappi, fabri, maestri d'arme e d'altre cose e mestieri che gli bisogna. E s'alcuno mi dicesse: "Come, vanno costoro come zingani?", rispondo di no, conciosiach'eccetto il non esser circondati di mura tali alloggiamenti paiono grossissime e bellissime città. Ritrovandomi, a questo proposito, un giorno alla Tana, sopra la porta della quale era una torre assai bella, ed essendo appresso di me un Tartaro mercante il quale guardava la torre, gli domandai: "Ti pare una bella cosa questa?" Ed egli, guardandomi e sorridendo, disse: "Poh, ch'ha paura fa torre". E in questo mi pare che dicano il vero.
Ma perchè ho detto de' mercanti, tornando al fatto nostro di quest'esercito, dico che sempre in esso si ritrovano mercanti che vi portano robbe per diverse vie, e ancora di quelli che passano pel lordo con intenzione d'andare in altro luogo. Questi Tartari sono buoni strozzieri, hanno girifalchi assai, uccellano a camelioni (che da noi non s'usano), vanno a cervi e ad altri animali grossi. Portano li detti girifalchi in una mano, sul pugno, e nell'altra hanno una crozzola, e quando sono stanchi mettono la crozzola sotto la mano, imperochè sono due tanto piú grossi che non è un'aquila. Alle volte passa qualche stormo d'oche sopra quest'esercito, e quelli del campo tirano alcune freccie grosse un dito, storte e senza penne, le quali, come sono andate in aria tant'alto quanto la forza del braccio ha potuto, si voltano e vanno in traverso, scavezzando dove giungono e collo e gambe e ali. Tal volta pare che di queste oche ne sia pieno l'aere, le quali, per il gridar del popolo, si storniscono e cascano giú.
Dirò (poi che siamo in parlar d'uccelli) una cosa, la quale mi par notabile. Cavalcando per questo lordo, sopra una riva d'un fiumicello ritrovai uno, il quale mostrava esser uomo di conto, che stava a parlare co' suoi famigli. Costui mi chiamò e fecemi dismontare avanti di sé, domandandomi quello ch'io andava facendo. E rispondendogli io al bisogno, mi voltai e viddi appresso di lui quattro over cinque di quell'erbe che noi chiamiamo garzi, sopra le quali eran alcuni cardellini. E comandò a uno de' famigli che ne pigliasse uno, il quale tolse due sete di cavallo e fece un laccio e lo messe sui garzi, e ne prese uno e portollo al suo signore. Disse egli: "Va' cuocilo", e il famiglio presto lo pelò, e fece un spedo di legno, e arrostitolo glielo portò davanti. Costui lo tolse in mano, e guardandomi disse: "Non sono in luogo ch'io ti possa far onore e cortesia qual tu meriti, ma faremo carità di quello ch'io ho e di quello m'ha dato il nostro Signore Iddio". E ruppe questo cardellino in tre parti, delle quali una ne diede a me, una mangiò esso, e l'altra, ch'era molto poca, la diede a colui il quale l'avea preso.
Che diremo noi della grande e innumerabile moltitudine d'animali i quali sono in questo lordo? Sarò io creduto? Sia però quel che si voglia, ch'ho deliberato di dirla. E, principiando da' cavalli, dico che sono alcuni del popolo, mercanti di cavalli, i quali gli cavano dal lordo e gli menan in diversi luoghi: e una caravana, la qual venne in Persia prima ch'io mi partissi di lí, già ne condusse 4000. E non vi maravigliate, perchè, se voleste in un giorno in questo lordo comprar mille over duemila cavalli, gli trovareste, perchè sono in mandre come le pecore. E andando nella mandra si dice al venditore che si vuol cento cavalli di questi, ed esso ha una mazza con un laccio in capo, ed è tant'atto a quest'esercizio che, tanto tosto che colui che compra gli ha detto: "Pigliami questo, pigliami quello", gli ha messo il laccio in capo e l'ha tirato fuori degli altri e messo in disparte: e in questo modo ne piglia quanti e quali egli vuole. M'è avvenuto scontrare in viaggio de' mercanti, i quali menano questi cavalli in tanto numero che cuoprono le campagne, e par cosa mirabile. Il paese non produce cavalli troppo da conto: sono piccioli, hanno la pancia grande, non mangiano biada, e quando che gli conducono in Persia la maggior laude che gli possano dare è che mangiano biada, imperochè, se non ne mangiano, non possono portar la fatica al bisogno. La seconda sorte d'animali ch'hanno sono buoi bellissimi e grandi, in tanto numero che satisfanno eziandio alle beccarie d'Italia: e vengono alla via di Polonia, e di lí per la Valacchia in Transilvania, e poi in Alemagna, dalla qual s'indrizzano in Italia. Portano in quel paese li buoi soma e basti, quando se n'ha di bisogno. La terza sorte d'animali ch'hanno sono cameli da due gobbe per uno, grandi e pelosi, i quali si conducono in Persia e si vendono ducati 25 l'uno, imperochè quelli di levante hanno una gobba sola e sono piccioli, e si vendono ducati dieci l'uno. La quarta sorte d'animali sono castroni grossissimi e alti in gambe, con un pelo longo, i quali hanno code che pesano 12 libre l'una: e tal n'ho veduto che si strascina una ruota dietro tenendo la coda sopra, quando per piacere qualcuno gliela liga. De' grassi di queste code condiscono tutte le lor vivande e l'usano in luogo di butiro, ma non s'agghiaccia in bocca.


Il modo ch'usa l'esercito de' Tartari circa il seminar le biade, e della fertilità di quei terreni. Come Chezimahumeth, discacciato Ulumahemeth, si fece imperator di quel popolo. In che mirabil modo l'esercito passa il fiume della Tana.
Cap. 8.

Non so chi sapesse dir quello che di presente dirò, salvo chi l'avesse veduto, imperochè potresti domandare: tanto popolo di che vive? Se cammina ogni giorno, dov'è la biada che mangiano? Dove la truovano? E io che l'ho veduto rispondo che fanno in questo modo. Circa la luna di febraio fanno far gride per tutt'il lordo che ciascuno che vuol seminare si metta in ordine delle cose che gli fa di bisogno, conciosiach'alla luna di marzo s'abbia da seminar nel tal luogo, e che a tal dí della tal luna si metteranno a cammino. Fatto questo, quelli ch'hanno voglia di seminare o far seminare s'apparecchiano e accordansi insieme, e caricano le semenze su carri, e menano gli animali che gli fanno bisogno, insieme con le moglie e figliuoli o parte d'essi, e vanno al luogo deputato, ch'è per la maggior parte due giornate lontano dal luogo dove nel tempo della grida si ritrova il lordo, e quivi arano, seminano, e stanno per fino ch'hanno fornito di far quello che vogliono; poi se ne ritornano nel lordo. L'imperatore col lordo fa come suol far la madre quando manda li figliuoli a spasso, la qual sempre tien loro gli occhi addosso, imperochè va circondando questi seminati, ora in qua e ora in là, non s'allontanando da essi piú di quattro giornate, per insino che le biade sono mature. Quando sono mature non va col lordo lí, ma solamente vanno quelli ch'hanno seminato e quelli che vogliono comprare i frumenti, con barri, buoi e cameli e quello di ch'hanno bisogno, come eziandio fanno alle lor ville. I terreni sono fertili: rendono di frumento cinquanta per uno, il quale è grande com'il Padovano; di miglio cento per uno, e alle volte hanno tanta ricolta che la lasciano in campagna.
Dirò in questo luogo a proposito questo: si ritrovò un figliuolo d'Ulumahemet, il quale, avendo signoreggiato alquanti anni e dubitando d'un suo fratel cugino, il qual era di là dal fiume d'Erdil, per non si privar di parte del popolo, la qual averia convenuto stare su le seminagioni con suo espresso pericolo, undici anni continui non volse che si seminasse, e in quel tempo tutti vissero di carne e di latte e d'altre cose, quantunque nel bazzaro fusse qualche poco di farina e di paniccio, ma cari. E domandando io loro come facevano, se ne ridevano, dicendo ch'aveano carne. E nondimeno fu discacciato da quel suo cugino, perciò che il detto Ulumahemeth, sentendo esser arrivato Chezimahumeth ne' suoi confini, non gli parendo di poter resistere, lasciò il lordo e fuggí co' figliuoli e altri suoi; e Chezimahumet si fece imperatore di tutto quel popolo, e ritornò verso il fiume della Tana nel mese di giugno, e passò circa due giornate sopra di quella, con tutt'il numero del popolo, di carri, d'animali ch'egli aveva. Cosa mirabile da credere, ma piú mirabile da vedere, imperochè tutti passano senza strepito alcuno, con tanta sicurtà quanta s'andassero per terra. Il modo che servano in questo passare è che quei ch'hanno il potere mandano de' loro avanti, e fanno far zattere di legnami secchi, de' quali appresso li fiumi ne sono boschi assai; fanno eziandio far fasci di canne e di pavera, e mettono detti fasci sotto le zattere e sotto li carri: e a questo modo passano, tirando li cavalli che nuotano dette zattere e carri, i quali cavalli sono aiutati da alcuni uomini nudi.
Io circa un mese dopo, navigando pel fiume verso certe peschiere, mi scontrai in tante zattere e fascine che venivano a seconda (le quali erano state lasciate da costoro) ch'appena potevamo passare, e viddi oltre di questo per le rive di quei luoghi tant'altre zattere e fascine che mi facevano stupire. Giunti che fussimo alle peschiere, trovammo che in quei luoghi avevano fatto peggio che a quelli de' quali ho scritto di sopra.


Come Edelmug, cognato dell'imperatore, menò un suo figliuolo a messer Iosafa e dettegli quello in figliuolo. Come esso messer Iosafa liberò in Venezia due Tartari ch'erano schiavi, uno de' quali per longhissimo tempo avanti aveva anco liberato dal fuoco, ritrovandosi allora nella Tana.
Cap. 9.

In quel tempo (per non mi dimenticar degli amici) Edelmug, cognato dell'imperatore, ritornato per passar il fiume (com'abbiamo detto di sopra), venne alla Tana e menommi un suo figliuolo, e subito m'abbracciò e disse: "Io t'ho portato questo figliuolo, e voglio che sia tuo". E incontinente trasse di dosso a detto figliuolo uno subbo ch'egli avea e messelo indosso a me, e mi portò a donar otto teste di nazion rossiana, dicendomi: "Questa è la parte della preda ch'io ho avuta in Rossia". Stette due giorni meco, ed ebbe da me all'incontro presenti convenienti.
Sono alcuni i quali, partendosi da altri con opinion di non ritornar mai piú in quelle parti, facilmente si dimenticano delle amicizie, dicendo che mai piú non si vederanno insieme, e di qui viene che molte fiate non usano li modi che doveriano usare; i quali certamente, per quell'esperienza ch'io ho, non fanno bene, conciosiachè si soglia dire che monte con monte non si ritrova, ma sí ben uomo con uomo. Accadettemi, nel mio ritornar di Persia insieme con l'ambasciator d'Assambei, voler passare per Tartaria e per Polonia per venire a Venezia, quantunque poi io non facessi questo cammino. Allora avevamo in compagnia nostra molti Tartari mercanti. Domandai quel che fusse di questo Edelmulg: e mi fu detto ch'era morto e ch'avea lasciato un figliuolo, il qual si nominava Hagmeth, e dettemi contrasegni dell'effigie, in modo che, sí pel nome come per l'effigie, conobbi esser quello che il padre m'avea dato per figliuolo. E, come diceano quei Tartari, costui era grande appresso l'imperatore, sí che, se passavamo oltre, senza dubbio capitavamo nelle sue mani: e rendomi certo che da lui avrei avuta ottima compagnia, perchè io l'avea fatta al padre e a lui. E chi avria mai stimato che trentacinque anni dopo, in tanta distanzia di paesi, si fussero ritrovati un Tartaro e un Veneziano?
Aggiugnerò questa cosa (quantunque non fusse in quel tempo), perchè fa a proposito di quello ch'io ho detto. Del 1455, essendo in un magazino di mercanti da vino in Rialto e scorrendo per quello, viddi dietro alcune botti da un capo due uomini in ferri, i quali alla ciera conobbi ch'erano tartari. Io domandai loro chi fussero: mi risposero essere stati schiavi di Catelani, ed esser fuggiti con una barchetta, e che in mare erano stati presi da quel mercante. Allora io subitamente andai a' signori di notte e feci querela di questa cosa, onde presto presto mandarono alcuni officiali, i quali gli condussero all'ufficio e in presenza del detto mercante gli liberarono, e condennarono il mercante. Tolsi li detti Tartari e menaimeli a casa, e domandati chi fussero e di che paese, uno di loro mi disse ch'era della Tana e ch'era stato famiglio di Cozadahuth, il quale io conobbi già, perchè era commarchier dell'imperatore, il qual faceva scuoter da lui il dazio delle robbe che si conducevano alla Tana. Guardandolo nella faccia mi parve raffigurarlo, perciò ch'era stato assai volte in casa mia. Domandai che nome esso avea: dissemi Chebechzi, che in nostra lingua vuol dire semoliero o burattatore. Lo guardai e dissigli: "Mi conosci tu?" Ed egli: "No". Ma, tantosto che mentovai la Tana e Iusuph (che cosí mi chiamavano là in quelle parti), si gittò a' miei piedi e volsemeli baciare, dicendo: "Tu m'hai due volte scampato la vita: questa n'è una, imperoch'essendo schiavo io mi teneva per morto; l'altra, quando si bruciò la Tana, che facesti quel buso nelle mura pel quale uscirono fuori tante persone, nel cui numero fu mio padrone e io". Ed è vero, perchè, quando fu il detto fuoco alla Tana, io feci un buso nelle mura all'incontro di certo terreno vacuo, dove si vedeano molte brigate insieme, pel quale furono tratte fuori da 40 persone, e fra essi fu costui e Cozadahuth. Tennili ambidui in casa circa due mesi, e al partir delle navi della Tana io gl'inviai a casa loro. Sí che niuno mai debbe, partendosi da altri con opinione di non ritornar mai piú in quelle parti, dimenticarsi delle amicizie come che se mai piú non s'avessero da vedere insieme: possono accadere mille cose ch'averanno a rivedersi, e forse quello che piú può avrà ad aver bisogno di colui che manco puote.
Ritornando alle cose della Tana, scorrerò per ponente e maestro, andando alla riva del mare delle Zabache all'uscir fuori a man manca, e poi qualche parte sul mar Maggiore, per insin alla provincia nominata Mengrelia, prima detta Colcho, poi Lazia Mengrelia.


Della regione Cremuch e del signore di quella; del vivere e costume di quelle genti. Di diversi altri paesi. Della provincia Mengrelia; del signor di quella, e della natura di quel paese e degli uomini. Tetari: che cosa significa. Dell'isola di Capha.
Cap. 10.

Partendomi adunque dalla Tana, circa la riva del detto mare fra terra tre giornate si truova una regione chiamata Cremuch, il signor della quale ha nome Biberdi, che vuol dire Diodato. Costui fu figliuolo di Chertibei, che significa vero signore. Ha molti casali sotto di sé, i quali fanno al bisogno duemila cavalli; vi sono campagne belle, boschi molti e buoni e fiumi assai. Li principali di questa regione vivono d'andar rubbando per le campagne, e specialmente le caravane che passano da luogo a luogo. Hanno buoni cavalli. Essi sono valenti uomini della persona e d'astuto ingegno, e somigliano nel volto agl'Italiani. Biade in quella regione sono assai, e similmente carne e mele, ma non v'è del vino. Dietro a questi sono paesi di diverse lingue, non però molto lontani l'uno dall'altro, cioè le Chippiche, Tatacosia, Sobai, Cheverthei, As, cioè Alani, de' quali abbiamo parlato di sopra: e questi vanno scorrendo per insino alla Mengrelia, per spazio di 12 giornate. Questa Mengrelia confina con Caitacchi, che sono circa il monte Caspio, e parte con la Zorzania e col mar Maggiore, e con quella montagna che passa nella Circassia; e da un lato ha un fiume chiamato Phaso, che la circonda e viene nel mar Maggiore. Il signor di questa provincia ha nome Bendian: ha due castelli sul detto mare, uno chiamato Vathi e l'altro Sevastopoli, e oltre d'essi altri piú castellucci e brichi. Il paese è tutto sassoso e sterile: non ha biade d'altra sorte che paniccio; il sale li vien condotto da Capha. Fanno qualche poche tele e molto cattive, che son alcune di canapo e altre d'ortica.
È gente bestiale: il segno di ciò è ch'essendo a Vathi, dove, partito da Constantinopoli con una palandiera di Turchi per andar alla Tana, capitai insieme con un Anzolin Squarciafico genovese, era una giovane, la quale stava in piedi sopra una porta, alla quale questo Genovese disse: "Surina, patroni cocon?", che vuol dire: "Madonna, è il padrone in casa?" (intendendo per questo il marito); essa rispose: "Archilimisi", che vuol dire: "Ei verrà". Ed egli la pigliò nelle labbra e, mostrandola a me, diceva: "Guarda bei denti ch'ha costei", e mi mostrava anche il seno e le toccava le mammelle; ed ella non si turbava né si moveva punto. Entrammo poi in casa e ci mettemmo a sedere, e questo Anzolino, mostrando d'aver pulici nelle mutande, le fece d'atto ch'andasse a cercare: ed ella se ne venne con grande amorevolezza, e cercò intorno intorno con somma fede e castità. In questo mezo venne il marito, e costui cacciò mano alla borsa e disse: "Patroni, tetari sicha?", che vuol dire: "Padrone, hai tu denari?". E, facendo egli atto di non n'aver addosso, gli diede alcuni aspri, de' quali esso dovesse comprare qualche rinfrescamento: e cosí andò. Dopo stati un pezzo, andammo per la terra a solazzo, e questo Genovese faceva in ogni luogo quello che li piaceva, secondo li costumi di quel paese, senza che niuno gli dicesse peggio di suo nome: onde si vede che son ben gente bestiale. Per questa ragione i Genovesi che praticano in quel paese hanno fra loro un costume di dire: "Tu sei mengrello", quando vogliono dire a qualcun: "Tu sei pazzo". Ma poi che io ho detto che tetari significa denari, non voglio lasciar di dire che propriamente tetari vuol dir bianco, e per questo colore intendendo i denari d'argento, i quali sono bianchi. I Greci ancora chiamano aspri, che vuol dir bianco; i Turchi akcia, che vuol dir bianco; Zagatai tengh, che vuol dir bianco. E a Venezia altre volte si facevano, e si fanno ancora al presente, denari che si chiamano bianchi; in Spagna ancora sono monete ch'hanno nome bianche. Sí che noi vedemo che diverse nazioni s'accordano a chiamar una istessa cosa con un nome che ciascuna le pone nel suo proprio linguaggio: nondimeno tutte riguardano la medesima ragione e significato.
Ritornando da capo alla Tana, passo il fiume dov'era l'Alania, com'ho detto di sopra, e vo discorrendo pel mare delle Zabacche a man destra, andando in fuori per insino all'isola di Capha, dove si truova uno stretto di terreno chiamato Zuchala, che congiugne l'isola con terra ferma, come fa quello della Morea, detto d'Esimilla. Quivi si truovano saline grandissime, le quali si congelano da lor posta. Scorrendo la detta isola, prima sul mar delle Zabacche è la Cumania, gente nominata da' Cumani; poi il capo dell'isola dov'è Capha era Gazaria: e per insino a questo giorno il pico col quale si misura, cioè il braccio, alla Tana e per tutte quelle parti è chiamato il pico di Gazaria.


Del signore detto Ulubi, e i luoghi da lui signoreggiati. Della perdita di Capha, e in qual modo pervenne nelle mani di Mengligeri, poi d'Ottomano, e con che arte di nuovo in detto Mengligeri. Il modo ch'osservano in trarre al pallio. Della presa e liberazione di Mardassa Can.
Cap. 11.

La campagna di quest'isola di Capha è signoreggiata per Tartari, i quali hanno un signore chiamato Ulubi, che fu figliuolo d'Azicharei. È buon numero di popolo, e fariano a un bisogno da tre in quattromila cavalli. Hanno due luoghi murati, ma non forti, uno detto Solgathi, il qual essi chiamano Chirmia, che vuol dire fortezza, e l'altro Cherchiarde, che nel lor idioma significa quaranta luoghi. In quest'isola è prima, alla bocca del mar delle Zabacche, un luogo detto Cherz, il quale da noi si chiama Bosforo Cimerio; dopo è Capha, Soldadia, Grusui, Cimbalo, Sarsona e Calamita, tutte al presente signoreggiate dal Turco: delle quali non dirò altro, per esser luoghi assai noti. Solo voglio narrare la perdita di Capha, secondo ch'io ho inteso da un Antonio da Guasco genovese, il quale si ritrovò presente e fuggí per mare in Zorzania, e di lí se ne venne in Persia nel tempo ch'io mi vi ritrovava, acciò che s'intenda in che modo questo luogo è capitato nelle mani de' Turchi.
Ritrovavasi in quel tempo esser signore di quel luogo, cioè nella campagna, un Tartaro nominato Eminachbi, il quale avea ogn'anno da quelli di Capha certo tributo, cosa in quei luoghi consueta. Accadettero fra lui e questi di Capha certe differenze, per le quali il consolo di Capha, che in quel tempo era genovese, deliberò di mandare all'imperator tartaro e di chiamare uno del sangue di questo Eminachbi, col favore del quale voleva cacciare Eminachbi di signoria. Avendo adunque mandato un suo navilio alla Tana insieme con un ambasciatore, questo ambasciatore andò nel lordo dove era l'imperatore de' Tartari, e ritrovato ch'ebbe uno del sangue di questo Eminachbi, nominato Mengligeri, con promissione lo condusse a Capha per la via della Tana. Eminachbi, intendendo questo, ricercò di pacificarsi con quelli di Capha, con patto che mandassero indietro il detto Mengligeri. E non volendo quelli di Capha simil patto, Eminachbi, dubitando del fatto suo, mandò un ambasciatore all'Ottomano, promettendogli, se mandava la sua armata lí, la qual oppugnasse da mare, ch'egli oppugneria da terra e gli daria Capha, la quale volea che fusse sua. L'Ottomano, il qual era desideroso d'aver tale stato, mandò l'armata e in breve ebbe la terra, nella quale fu preso Mengligeri, e mandato dall'Ottomano stette in prigione molti anni.
Non molto dopo Eminachbi, per la mala compagnia ch'avea da' Turchi, cominciò a esser malcontento d'aver data la terra all'Ottomano, e non lasciava entrar nella terra alcuna sorte di vettovaglie: onde cominciò a esser gran penuria di biade e di carne, in modo che la terra era poco meno ch'assediata. Fugli ricordato che, se mandava Mengligeri a Capha, tenendolo dentro della terra con qualche guardia cortese, la terra averia abbondanza, perciò che Mengligeri era molto amato dal popolo di fuori. L'Ottomano, giudicando che 'l ricordo fusse buono, lo mandò: e, tanto tosto che si seppe ch'era giunto, venne nella terra grande abbondanza, perchè era amato ancora da quelli di dentro. Essendo tenuto costui in guardia cortese, sí che poteva andare per tutto dentro della terra, un giorno fu tratto un pallio con l'arco. Il modo di trar al pallio in quel luogo è questo: attaccano a un legno messo in traverso sopra due legni drizzati in piedi, a sembianza d'una forca, con qualche spago sottile, una tazza d'argento; e quelli ch'hanno a trar per avere il pallio hanno le lor freccie col ferro di mezaluna tagliente, e corrono a cavallo con l'arco per sotto questa forca, e quando ch'hanno passato un pezzo in là, correndo tuttavia il cavallo alla dritta, si voltano indietro e traggono allo spago, e quello che getta giú la tazza ha vinto il pallio.
Mengligeri adunque, tolta questa occasione del trar del pallio, fece che cento cavalli de' Tartari, co' quali esso avea intelligenza, s'ascondessero in certa vallicella ch'era fuori della terra poco lontano, e, fingendo volere anch'egli trar al pallio, prese il corso e fuggí dentro de' suoi. Incontintente che questa cosa fu intesa, la maggior parte dell'isola lo seguitò, e con essi bene in punto se n'andò a Solgathi, terra lontana da Capha sei miglia, e la prese. Crescendo poi il popolo a sua ubbidienza, andò a Cherchiarde e quella similmente prese: e ammazzato Eminachbi si fece signore di quei luoghi. L'anno seguente deliberò d'andar verso di Citracan, luogo lontano da Capha 16 giornate, signoreggiato da un Mordassa Can, il quale in quel tempo era col lordo sopra del fiume Erdil. E fece giornata con lui e preselo e tolse il popolo, buona parte del quale mandò all'isola di Capha; ed egli rimase a invernar sopra il detto fiume. Ritrovavasi in quel tempo esser alloggiato qualche giornata lontano un altro signor tartaro, il quale, inteso che costui invernava in quel luogo, essendo il fiume agghiacciato, deliberò d'assaltarlo all'improvista e lo ruppe, e ricuperò Mordassa, il qual era tenuto prigione. Mengligeri, essendo rotto, ritornò a Capha mal in ordine. Nella primavera seguente Mordassa col suo lordo venne a trovarlo fino a Capha, e fece alcune correrie e danni dentro dell'isola: ma, non potendo aver le terre a sua ubbidienza, tornò indietro.
Nondimeno mi fu detto ch'egli di nuovo faceva esercito, con intenzione di ritornare all'isola e discacciare Mengligeri: e questo è vero in sé, ma cagione d'una bugia, imperochè coloro che non intendono donde procedano le guerre ch'hanno tra loro questi signori, e non sanno che differenza sia tra il gran Can e Mordassa Can, intendendo che Mordassa Can fa nuovo esercito con intenzion di ritornar all'isola, si danno ad intendere e dicono che il gran Can viene per la via di Capha a posta dell'Ottomano, con proposito d'andar per la via di Moncastro nella Valachia e Ungaria e dove vorrà l'Ottomano: la qual cosa è falsa, quantunque s'abbia per lettere da Constantinopoli.


Della Gotia e Alania; della favella de' Goti; de' popoli gotalani, e onde sta derivato questo nome. Della terra detta Citracan; della grandezza de' talponi che nascono in quei boschi. D'una terra detta Risan, e della fertilità di quel paese. Di Colona città. Del fiume Mosco e Mosco città, e del sito e abbondanzia di quella.
Cap. 12.

Dritto dell'isola di Capha d'intorno, ch'è sul mar Maggiore, si truova la Gotia e poi l'Alania, la qual va per l'isola verso Moncastro, com'abbiamo detto di sopra. Goti parlano in todesco: so questo perchè, avendo un famiglio todesco con me, parlavano insieme e intendevansi assai ragionevolmente, cosí come s'intenderia un Furlano con un Fiorentino. Da questa vicinità de' Goti con Alani credo che sia derivato il nome di Gotalani. Alani erano prima in quel luogo: sopravennero Goti e conquistorno quei paesi, e fecero una mistura del nome loro col nome degli Alani, e si chiamarono Gotalani, sí come quelle genti erano mescolate con queste. Tutti questi fanno alla greca, e similmente i Circassi. E perchè abbiamo fatto menzione di Tumen e di Citracan, non volendo pretermettere né anche di questi luoghi le cose che sono degne di memoria, dicemo che da Tumen andando per greco e levante sette giornate lontano si truova il fiume Erdir, sopra il qual fiume è Citracano, la quale al presente è una terricciola quasi distrutta: pel passato fu grande e di gran fama, imperochè, prima che fusse distrutta dal Tamberlano, le spezie e le sete che al presente vanno in Soria andavano in Citracan, e da quel luogo alla Tana, dove si mandava solamente da Venezia sei e sette galee grosse per il levar di dette spezie e sete. E in quel tempo né Veneziani né altra nazione citramarina facea mercanzia in Soria.
L'Erdil è fiume grossissimo e larghissimo, il qual mette capo nel mar di Bachú, lontano da Citracan circa miglia 25: e cosí esso fiume come il mare hanno pesci innumerabili, ma in esso mar si truovan schenali e morone assai, il qual fa anche sale assai. Per il fiume a contrario d'acqua si può navigare infino appresso il Moscho, terra di Rossia, a tre giornate: e ogn'anno quelli del Moscho vanno con lor navilii in Citracan a torre il sale, e vi è la via facile, perchè il Moscho fiume va in quello che è nominato Occa, che discende nel fiume Erdil. Trovansi in questo fiume isole assai e boschi, delle quali isole ve n'è alcuna che volge trenta miglia. I boschi fanno talponi, che d'un pezzo cavato ne fanno barche che portano otto e dieci cavalli e altrettanti uomini. Passando questo fiume e andando per ponente maestro alla via del Moscho, presso però delle rive, quindici giornate continue, si truovan popoli di Tartaria innumerabili. Ma scorrendo verso maestro s'arriva a' confini della Rossia, dove si truova una terricciola chiamata Risan, la quale è d'un cognato di Giovanni duca di Rossia. Tutti sono cristiani e fanno alla greca; il paese è fertile di biade, carne e melle e altre buone cose; fassi eziandio bossa, che vuol dir cervosa; truovansi boschi e casali assai. Andando un poco piú oltre si truova una città chiamata Colona. E l'una e l'altra di queste due sono fortificate di legname, del quale medesimamente sono fatte tutte le case, imperochè in quei luoghi non si truova gran fatto pietre.
Tre giornate lontano si ritruova il detto Moscho, fiume notabile, sopra il quale è una città nominata Moscho, dove abita il detto Giovanni duca di Rossia. Il fiume passa per mezo la terra e ha alcuni ponti; il castello è sopra certa collina, e d'ogn'intorno è circondato da boschi. La fertilità delle biade e della carne che è in questo luogo si può comprender da questo, che non vendono carne a peso, ma ne danno tanta ad occhio, che certo se ne ha quattro libre al marchetto. Le galline s'hanno settanta al ducato; l'oche tre marchetti l'una. È tanto gran freddo che eziandio lí il fiume s'agghiaccia. Il verno sono portati porci, buoi e altri animali scorticati e messi in piedi, duri come sassi, in tanto numero che chi ne volesse 200 al giorno li potria comprare: tagliar non si possono perchè sono duri come marmi, se non si portano in stufa. Frutti, da qualche pochi pomi e noci e nocelle salvatiche in fuora, non si truovano.
Quando vogliono andare da luogo a luogo, specialmente s'il camino è per esser lungo, camminano il verno, perchè tutto è agghiacciato, e hanno buon camminar, salvo che da freddo. Portan allora sopra li sani (i quali satisfanno a loro come a noi li carri, e dal canto di qua si chiamano travoli over vasi) quello che vogliono, con grandissima facilità. La state, per esser fanghi grandissimi e moscioni assaissimi, i quali procedono dalli boschi molti e grandi che vi sono, la maggior parte dei quali è inabitabile, non ardiscono andar troppo lontano.
Non hanno vino, ma alcuni fanno vino di mele, alcuni di cervosa di miglio, nell'uno e l'altro dei quali mettono fiori di bruscandoli, i quali danno un stuffo che stornisce e imbriaca come il vino. Non è da preterire con silenzio la provisione che fece il detto duca, vedendo essi essere grandissimi imbriachi e per imbriachezza restar di lavorare e di far molte altre cose che gli sariano state utili: fece un bando che non si potesse far né cervosa né vin di mele, né usar fiori di bruscandoli in alcuna cosa, e con questo modo gli ha fatti mettere al ben vivere.


D'una terra chiamata Cassan. De' Moxii popoli, e della religion e viver loro. Di Novogradia città. Di Trochi e Lonin castelli. D'una terra detta Varsonich. Di Mersaga e Brandinburg città. Del re di Zorzania; della fertilità, costumi e abiti di quel paese. D'una terra detta Zifilis.
Cap. 13.

Possono ora esser 25 anni, pagavano i Rossiani per il passato tributo all'imperator tartaro; di presente hanno soggiogata una terra chiamata Cassan, che in nostra lingua vuol dire caldiera, la quale è sul fiume Erdil, andando verso il mar di Bachú a man sinistra, lontana dal Mosco cinque giornate. Questa terra è mercantesca, della quale si tragge la maggior parte delle pellettarie che vanno al Mosco, in Polonia, in Prusia e in Fiandra: le qual pellettarie però vengono da parte di tramontana e greco, dalle regioni di Zagatai e di Moxia, i quali paesi di tramontana sono posseduti da' Tartari, che per il piú sono idolatri, cosí come ancora sono i Moxii.
Ho qualche pratica delle cose de' Moxii, e per tanto dirò della lor fede e condizione quello che io intendo. Certo tempo dell'anno sogliono torre un cavallo, il quale essi mettono nella campagna, a cui ligano tutti quattro i piedi a quattro pali, e similmente la testa a un palo, fitti in terra. Fatto questo viene uno col suo arco e freccie, e mettesi lontano in intervallo conveniente, e tirargli alla via del cuore tanto che lo ammazza; poi lo scortica e fanno della pelle un utre; della carne fanno tra loro certe cerimonie e poi la mangiano. Poi empiono questa pelle tutta di paglia, e la cuciono sí fattamente che pare intiera, e per ciascuna delle gambe mettono un legno dritto, acciochè possa stare in piedi come vivo. Finalmente vanno ad un arbore grande e gli tagliano quei rami che a lor pare, e di sopra fanno un solaro, sul quale mettono questo cavallo in piedi: e cosí lo adorano, offerendogli zebelini, armelini, dossi, vari, volpi e altre pellettarie, le quali appiccano a quest'arbore sí come noi offeriamo candele, in modo che questi arbori sono pieni di simili pellettarie. Buona parte del popolo vive di carne, e per lo piú di carne salvatica, e di pesci che prendono in quei fiumi che sono nel loro paese.
Abbiamo detto dei Moxii; dei Tartari non abbiamo altro da dire se non che quelli di loro che sono idolatri adorano statue, le quali portano sopra dei lor carri: quantunque si trovano alcuni, i quali hanno per costume di adorar quello animale ogni giorno che uscendo di casa primamente scontrano. Il duca ha soggiogata anche Novogradia, che vuol dire in nostra lingua nove castelli, la quale è terra grandissima, lontana dal Mosco alla via di maestro giornate otto. Governavasi prima a popolo, ed erano uomini senza alcuna ragione; avevano tra loro molti eretici. Al presente scorre via cosí piano piano nella fede catolica, conciosiachè alcuni credano, alcuni no; ma vivono con ragione e ci si fa giustizia.
Partendo dal Moscho verso Polonia vi sono giornate 22 insino all'entrar nella Polonia. Il primo luogo che si truova è un castello chiamato Trochi, al quale non si può andare, partendo da Moscho, se non per boschi e per colline, imperochè è quasi luogo deserto. Vero è che caminando a luoghi a luoghi, ove sono stati alloggiamenti per avanti, si truova esservi stato fatto fuoco, e ivi li viandanti possono riposare e far fuoco se vogliono. Alcune fiate, ma molto poche, si truova fuor di mano qualche villetta. Partendo da Trochi si truovano similmente boschi e colline, ma insieme eziandio alcuni casali, e lontano da Trochi nove giornate si truova un castello chiamato Lonin. Si entra poi nel paese di Lituania, dove si vede una terra chiamata Varsonich, la quale è d'alcuni signori, sottoposti però a Cazmir, re di Polonia. Il paese è abbondante e ha castelli e casali assai, ma non da gran conto. Da Trochi in Polonia sono giornate sette, ed è buono e bel paese. Trovasi poi Mersaga, assai buona città, e ivi finisce la Polonia: dei castelli e terre della quale, per non ne aver io notizia, non dirò altro se non che il re con li figliuoli e tutta la casa sua è cristianissimo, e che il suo figliuol maggiore di presente è re di Boemia. Usciti della Polonia, a quattro giornate troviamo Frankfort, città del marchese di Brandinburg, ed entriamo nell'Alemagna, della qual non dirò altro, per esser luogo domestico e inteso da molti.
Resta ora che diciamo qualche cosa della Zorzania, la quale è all'incontro dei luoghi sopra detti e confina con la Mengrelia. Il re di questa provincia si chiama Pancrazio: ha bel paese, e fertile di pane, di vino, di carne, di biade e d'altri frutti assai. Fassi gran parte di vini sugli arbori, come in Trabisonda. Gli uomini sono belli e grandi, ma hanno sozzissimi abiti e costumi vilissimi. Vanno tosi e rasi il capo, salvo che intorno lassano un poco di capelli, a similitudine di questi nostri abbati, che hanno buona entrata; portano mustacchi, ai quali si lasciano crescer li peli sotto la barba, a lunghezza di una quarta d'un braccio. In capo portano una berrettuzza di diversi colori, in cima della quale è una cresta; in dosso portano giubbe assai lunghe, ma strette e fesse di dietro infino alle natiche, imperochè altramente non potriano montare a cavallo: nella qual cosa non li biasimo, perchè vedo che ancora i Francesi l'usano. In piedi e gambe portano stivali, i quali hanno la suola fatta in modo che, quando stanno in piedi, la punta e il calcagno toccano in terra, ma in mezo sono tanto alti da terra che si potria cacciare il pugno per sotto la pianta senza farsi male: e di qui viene che, quando caminano a piedi, caminano con fatica; gli biasmaria in questa parte, se non fusse che io so che ancora li Persiani l'usano.
Circa il mangiare, secondo che io ho veduto a casa di uno delli principali, servano questo modo: hanno certe tavole quadre circa mezo braccio, con un orlo cavato intorno; in mezo di queste mettono una quantità di paniccio cotto senza sale e senza altro grasso, e questo scusa in luogo di minestra; in un'altra simil tavola mettono carne di cinghiaro brustolata, e tanto poco arrostita che, quando la tagliavano, sanguinava: essi mangiavano di buona voglia, io non ne poteva gustare, e però me ne andava fingendo di mangiar con quel paniccio; del vino ne era abbondanzia, e andava intorno alla polita; altra sorte di vivande non avemmo. Vi sono in questa provincia montagne grandi e boschi assai. Ha una terra chiamata Tiflis, d'avanti la quale passa il fiume Tygris, la quale è buona terra, ma male abitata; ha eziandio un castello nominato Gori; confina con il mar Maggiore.
E questo è quanto io ho a narrare circa il viaggio mio della Tana e di quei paesi, insieme con le cose degne di memoria di quelle parti. Seguita che (tolto un altro principio) prenda la seconda parte, e metta le cose appartenenti al viaggio mio di Persia.

Il fine del viaggio alla Tana.


VIAGGIO DI MESSER IOSAFA BARBARO
GENTILUOMO VENEZIANO, NELLA PERSIA,
PARTE SECONDA


Del presente mandato per la illustrissima Signoria di Venezia ad Assambei, signor della Persia. Del castello chiamato Sigi. Del porto e castello nominati Curcho. Dell'armata della illustrissima Signoria di Venezia per andar contra Ottomano.
Cap. 1.

Essendo la nostra illustrissima Signoria in guerra con l'Ottomano del 1471, io, come uomo uso a stentare e pratico tra gente barbara, e desideroso di ogni bene della illustrissima Signoria, fui mandato insieme con uno ambasciadore di Assambei, signor della Persia, il quale era venuto a Venezia a confortar la illustrissima Signoria che volesse proseguir la guerra contra il detto Ottomano; conciosiachè ancor esso con le sue forze gli saria venuto contra. Partimmo adunque da Venezia con due galee sottili, e dietro di noi vennero due galee grosse cariche di artiglierie, gente da fatti e presenti, che mandava la detta illustrissima Signoria al detto signor Assambei, con commissione che io mi appresentassi al paese del Caraman e a quelle marine, e venendo, over mandando lí Assambei, gli donassi tutte le dette cose. Le artiglierie furono bombarde, spingarde, schioppetti, polvere da trarli, carri e ferramenti di diverse sorti, per valuta di ducati 4000. Le genti da fatti furono balestrieri e schioppettieri 200, sotto quattro contestabili, col lor governatore, che era Tommaso da Imola, il quale aveva dieci provisionati sufficienti ad ogni governo. Li presenti furono lavori e vasi d'argento per il valor di ducati 3000, panni d'oro e di seta per il valore di ducati 2500, panni di lana in scarlatto e altri colori fini per il valor di ducati 3000.
Giunti che fummo all'isola di Cipro, entrammo in Famagosta e insieme ci appresentassimo a quel re: uno ambasciador del papa, uno del re Ferdinando, e noi due, cioè l'ambasciador del signor Assambei e io. Dove informandone se per il paese del Caraman securamente si poteva passare in Persia, trovammo tutte le terre da marina e fra terra essere occupate dall'Otomano, per la qual cosa ne fu necessario dimorare un certo tempo in Famagosta. Nel qual tempo, desiderando di proseguire il camin mio, piú volte insieme con l'ambasciador del Caraman, il quale aveva ritrovato in Cipro, me n'andai con una galea sottile alle riviere del Caraman, lassando tuttavia gli altri ambasciadori in terra. Una di queste volte capitai a un porto dove è certo castello chiamato Sigi, e ivi fummo a parlamento con un signor di quel luogo, detto Cassambeg, il quale, benchè gli fussero state tolte tutte le sue fortezze, nientedimeno aveva pur qualche centenaro di cavalli e di gente, che andavano per il paese quasi vagabondi, i quali lo seguitavano. Un fratello maggior di questo signore, nominato Pirameto, se n'era andato ad Assambei, per aver soccorso da lui contra l'Otomano. Parlando noi con questo che avevamo trovato lí del pensier nostro, tra l'altre cose ne disse che con grande allegrezza ne aveva aspettati, e mostronne lettere di Assambei, nelle quali si conteneva che dovesse star di buon animo, imperochè presto verrebbe l'armata dei signori veneziani, con la quale sperava che si ricuperaria lo stato, e specialmente i luoghi di marina.
Io, inteso che l'armata nostra si doveva appresentare a quelle parti, ordinai che le galee che erano rimase a Famagosta dovessero venire a Sigi. In questo mezo intesi che 'l nostro capitan generale, messer Pietro Mozenico, insieme con li proveditori messer Vittor Soranzo e messer Stefano Malipiero, con altre galee e capitani, erano arrivati nel porto de Curcho, che appresso gli antichi era Corycus, dove è un bel castello chiamato Curcho, e incontinente gli mandai Agostino Contarini sopracomito a dir che, se doveva torre impresa alcuna, a me pareva che esso dovesse venire a Sigi, dove io mi ritrovava, perchè piú facilmente si conseguirebbe vittoria; nondimeno, parendo a lui altramente, comandasse, che ubidirei. Sigi è lontano dal Curcho non piú che XX miglia, onde, avendo inteso il capitan generale quello che io gli mandava a dire, quantunque già avesse principiato a bombardare il Curcho, si levò con l'armata e venne a Sigi. In quest'armata erano galee 56, e due galee sottili e due grosse le quali io aveva, che fanno 60, tutte della illustrissima Signoria; galee XVI del re Ferdinando, galee cinque del re di Cipro, galee due del gran maestro di Rodi, galee XVI del sommo pontefice, le quali però erano rimase a Modon: che sono in tutto galee 99. Nelle galee nostre erano cavalli 440, con i loro stradiotti, cioè otto per galea, eccetto che in cinque galee che non avevan cavalli. Giunti nel porto mettemmo i cavalli in terra e buona parte della gente, i quali cominciarono a prepararsi.


Come il castello Sigi si rendette a patti, e come, usciti fuora il signor e gli altri, contra il voler del capitano furono saccheggiati; ma subito, di ordine di esso capitano, trovato tutte le persone e robe depredate, furono restituite ad esso signore.
Cap. 2.

Il dí seguente il capitano mandò per me, e dissemi che gli pareva che quel castello fusse molto forte e, per rispetto del sito, quasi inespugnabile, essendo posto nella sommità d'un monte, e domandommi quel che mi pareva: gli risposi esser vero che era fortissimo, ma eziandio questo non falso, che dentro non ci si ritrovavano se non al piú XXV uomini da fatti, i quali avevano a guardare e difendere d'ogn'intorno lo spazio d'un miglio, onde certamente io mi credeva che, proseguendo l'impresa, presto s'averia. Stette molto sospeso e non mi fece risposta alcuna, ma due ore dopo mi mandò il suo almiraglio a dire che aveva deliberato di tor l'impresa. Fecemi stare di buona voglia, e subitamente me n'andai; e di questo diedi notizia a Theminga, capitan del Caramano, il quale similmente si rallegrò tutto e volse che io andassi a riferire questo istesso al suo signore: e cosí feci. E ritornato dal detto Theminga, me ne venni al nostro capitano, e cominciammo a mettere in ordine le cose opportune alla oppugnazione.
La mattina seguente, circa ore quattro di giorno, Theminga mi disse che gli era venuto uno dal castello, offerendo di darglielo, se noi volevamo salvar le persone e le robe. Ne feci motto al nostro capitano, il quale mi ordinò ch'io dovessi promettere a quel tale, per mezo di Theminga, che egli con le sue persone e robe sariano salvi e, non volendo stare in quel luogo, sariano condotti a salvamento dove a loro piacesse. Avendo riferito questo a Theminga, egli volse ch'io andassi a parlare col signore di quel castello, che era detto Mustafà, ed era nativo della Caramania: e per tanto andai alla porta, appresso la quale era una fenestra quadra, e parlai col signore, il quale era venuto lí. E dopo molte parole esso mi disse che, servandogli il nostro capitano la promessa di farlo sicuro con le persone e robbe, era contento di dargli il castello. E, fattogli la detta promessa, aperse le porte, e lassò entrar me, l'armiraglio e tre compagni di galea, insieme col nostro interprete. Dimandai dove voleva essere; mi rispose che desiderava andare in Soria e, per andar piú sicuro, d'esser condotto con una delle nostre galee, lui, la moglie e la sua roba: e cosí gli promessi, ed egli incontinente seguitò di insaccar le sue robe, delle quali per avanti gran parte aveva insaccato. Uscito esso con le sue robe fuor della porta, e dietro a lui gli altri i quali erano nel castello con tutto il suo, i quali potevano essere da 150 in tutto, e discendendo giú del monte, si riscontrò col nostro capitano, il qual veniva suso con una buona ciurma di galeotti per ricevere il castello: ai quali galeotti non valsero né comandamenti né minaccie del capitano che, vedendo queste robe, non si mettessero a far preda, sí delle robe come delle persone. Puossi considerare l'affanno che ebbe il capitano e i proveditori e tutti coloro che avevano intelletto, specialmente essendogli stata fatta per lor nome cosí larga promessa.
Tolto adunque il castello ritornai alla galea, e la sera sul tardi il capitano mandò per me, e con grande amaritudine si condolse del caso intravenuto: e volse che io andassi a trovar nel campo il capitano del Caraman, e in escusazion sua dicessi quello che mi pareva conveniente circa la disubidienzia e furia delli detti galeotti, e di quello che esso aveva in animo di fare in favor di quelli che erano stati rubbati, e contra di quelli che avevano rubbato. Tornato adunque alla marina, ritrovai che l'interprete mio aveva un asino carco di roba, al quale io feci tor le robe incontinente e dar di molte botte. Dapoi me n'andai da Theminga, capitano del Caraman, e iscusato che io ebbi la cosa col modo che mi era stato dato, concludendo gli promessi che 'l dí seguente da mattina al tutto si faria provisione: esso mi accettò con buona cera, dicendo che gli dispiaceva che 'l signor di Sigi insieme con tutti i suoi, i quali erano ribelli del suo signore, non fusse stato morto. Io, veduto che di quello ch'era seguito non si prendeva molta molestia, incominciai ad adattare la cosa, dicendo che quello gli era stato promesso bisognava che fusse atteso, e che quello era seguito era seguito per la furia bestiale dei galeotti, con grandissimo dispiacere del capitano e proveditori e di tutti li sopracomiti. Ritornato che fui al nostro capitano, fu da lui commesso a messer Vettor Soranzo, insieme con alcuni sopracomiti, il cargo della ricuperazione delle persone e delle robbe tolte contra la fede che noi gli avevamo data.
E la mattina per tempo furno fatte gride, con asprissime pene, che tutti dovessero appresentare e mettere in terra le persone e le robbe tolte, e oltra di questo furono ricercate con grandissima diligenzia tutte le galee. Le persone furono ritrovate tutte, e delle robe una buona parte, delle quali, massimamente di quelle che eran minute, fu fatto un grandissimo monte, e di quello cavate da parte tutte le robe che erano del signore, sí quelle che si trovavano in sacchi come quelle che si trovavano fuor di sacchi. Dapoi tutte insieme furono portate nella galea di messer Vettor Soranzo proveditore, perciochè in essa era entrato quel signore insieme con la sua donna, alla qual fu appresentato tutto quello che si ritrovava. Le robe che erano del popolo tutte insieme furono consegnate al lor capitano, il qual fece far la grida che ognuno venisse a tor le sue: e cosí vennero.


Come duoi fratelli del signor Mustafà fecero smontar esso signore col suo aver apresso di loro,
e poco dipoi, fattolo morire, un di loro prese la cognata per moglie.
Della presa del castello Curcho e restituzion di quello al Caramano.
Come Silephica, anticamente chiamata Seleucia, si rendette a patti.
Cap. 3.

Era commune opinione che questo signore avesse tesoro grande, lassatogli dal padre: e, per quello che si poté vedere, fra pietre preziose, perle, oro, argento e panni, erano decine di migliaia di ducati. E in segno di ciò un sopracomito candiotto, il quale aveva avuti due sacchi di dette robe, e uno ne aveva restituito e con l'altro se n'era andato a Rodi, morendo in quel luogo, ordinò che, per quello esso aveva avuto di conto del detto signore, gli fussero restituiti ducati 800. Fatto questo, due fratelli di questo signore lo vennero a trovare in galea, e con lor ragioni, promissioni e persuasioni tanto fecero, che si contentò di smontare in terra con tutto il suo: e poco dopo la partita delle galee lo fecero morire. E come che questo fusse stato poco male, uno d'essi tolse per moglie la donna, che era sua cognata.
L'armata ritornò al Curcho sopranominato e, dismontata che fu la gente in terra, furon messe le bombarde ai suoi luoghi, per oppugnare eziandio questo castello, nel quale erano per guardia le genti dell'Ottomano. Era gionto in quello istesso tempo a quel luogo il signor Caraman con le sue genti, e, tolta la prima cinta de' muri, si dettero a patti, salve le persone e le robe: e cosí avessimo il castello e lo restituimmo al Caraman. Dopo questo, io me n'andai a Silephica, terra famosa, che si chiamava anticamente Seleucia, con alcuni del Caramano: la quale per il simile era occupata dall'Ottomano. E dissi a quelli ch'erano dentro che volessero render la terra, che sariano salve le robe e le persone, e che, se si lasciavano dar la battaglia, forse lo vorrebbono fare, che non si accettaria, ma che tutti anderiano per fil di spada. Mi fu risposto che io andassi alla buon'ora, e che domattina essi mandariano a dire al Caramano quale era l'intenzion loro. Il dí seguente gli mandarono a dire che erano contenti di dargli la terra, e che andassero presto, imperochè gliela consegnariano: e cosí fecero.
Il nostro capitano dapoi con tutta l'armata se ne tornò in Cipro, e si mise a star presso a Famagosta per provedere al governo di quell'isola, imperochè il re Zacho era mancato di questa vita, nel tempo che noi eravamo nelle terre del Caraman. Fatte le debite provisioni, dopo alcuni giorni si levò e andossene verso l'arcipelago. Io rimasi nel porto di Famagosta, con tre galee sottili e due grosse, insieme con li contestabili e fanti che mi erano stati dati dalla illustrissima Signoria: dove stetti per certo tempo. Giunsero in questo mezo due galee del re Ferdinando, sopra le quali era l'arcivescovo di Nicosia, di nazione catelano, e con lui un messo del detto re, i quali dovevano trattar di contragger matrimonio di una figliuola naturale del re Zacho con un figliuol naturale del detto re Ferdinando.
E stando in dette pratiche, una notte sottosopra incominciorno a sonar campane nell'arme, e il vescovo si ridusse con quelli che 'l seguitavano alla piazza ed ebbe la terra, e poco dopo ebbe Cerines e quasi tutta l'isola a sua ubbidienza. Il nostro capitan generale, avendo inteso che due galee, le quali venivano da Napoli col detto vescovo, andavano verso levante, sospettò che dovessero andar in Cipro, e mandò messer Vittor Soranzo proveditor con diece galee sottili. Il qual, gionto a Famagosta, ritrovò una di quelle galee nel porto; e, dopo molti parlamenti fatti insieme, fu fatta col vescovo e co' suoi seguaci certa composizione, che restituissero la terra e tutto quello che avevano tolto, e che se n'andassero alla buon'ora: e cosí fu fatto, e l'ambasciator del re Ferdinando se ne ritornò a Napoli, quello del sommo pontefice rimase a Famagosta.
Io con l'ambasciator di Assambei, che desideravo andare al mio camino, insieme col mio cancelliero montai su una galea sottile, e ambedue le galee grosse, le quali avevano le artiglierie e li presenti sopranominati, per comandamento della illustrissima Signoria ordinai che andassero in Candia: delle quali parte rimasero lí e parte furono rimandate a Venezia, e li fanti feci restare a custodia della isola di Cipro. E io ritornai al Curcho, del quale, perchè non ho posto il sito, al presente ne parlerò.


Del sito del Curcho, e quello che produce. Di Seleucia città, e bellissimo sito di quella. Del fiume Calycadnus. D'uno teatro simile a quello di Verona.
Cap. 4.

Questo Curcho è sul mare; ha per mezo verso ponente uno scoglio che volge un terzo di miglio, che era appresso gli antichi Eleusia, sul quale per avanti soleva essere un castello. Mostra d'essere stato forte, bello e ben lavorato, ma di presente in gran parte è rovinato; ha su le porte maestre certe inscrizioni di lettere, le quali mostravano d'esser belle e simili all'armene, pur in altra forma di quella ch'usano gli Armeni di presente, conciosiachè gli Armeni che io avevo con me non le sapessero leggere. Il castel rotto è lontano dal Curcho alla via della bocca del porto un trar di balestra, ma il Curcho è parte edificato su un sasso, e parte scorre su la spiaggia verso il mare: il sasso su nel quale è dalla parte di levante è tagliato in un fosso alto equale. Il sabbione verso la spiaggia ha un muro scarpato grossissimo, da non potere essere offeso da bombarde; nel castello ne è un altro, con le sue mura grossissime e torri fortissime, il qual tutto cinge due terzi d'un miglio, e anche questo ha sopra le porte, le quali sono due, certe inscrizioni di lettere armene. Ogni stanza di questo castello ha la sua cisterna d'acqua dolce, e nei luoghi publici quattro cisterne tanto grandi, tutte d'acqua dolce perfettissima, che serviriano ad ogni gran città.
Nell'uscire della porta ch'è verso levante, per una strada lontana un trar d'arco dal castello, si truovano arche di marmi d'un pezzo, buona parte delle quali sono rotte da un capo: e queste sono sí da uno come dall'altro canto della strada, e durano insino a una certa chiesa mezo miglio distante, la qual mostra essere stata assai grande, e ben lavorata di colonne di marmo grosse e d'altri eccellenti lavori. I luoghi circonstanti al castello sono montuosi e sassosi, simili a quelli dell'Istria, abitati per quel tempo da gente del signor Caraman. Vi nasce frumento assai e gottoni, e vi è gran copia di bestiame, spezialmente di buoi e cavalli, e vi sono frutti perfettissimi di piú sorte. L'aere, per quel ch'io viddi, è molto temperato; di presente non so come si stia, imperochè sono stati distrutti dall'Ottomano. A costa della marina sono due castelli: il sopradetto Sigi, edificato sopra un monte, e un altro, i quali sono fortissimi. Il primo è lontano dal mare un trar d'arco, l'altro è lontano da questo miglia sei, ed è posto appresso il mare ed è assai forte.
Partendo dal Curcho e andando verso maestro, 10 miglia lontano si trova Seleuca, cioè Seleuzia, che è lontana dal mare cinque miglia, la quale è in cima d'un monte sotto il quale passa un fiume, appresso li antichi Calycadnus, che mette in mare appresso il Curcho, simile di grandezza alla Brenta. Appresso questo monte è un teatro, nel modo di quel di Verona, molto grande, circondato di colonne d'un pezzo, con li suoi gradi intorno. Ascendendo in monte per andare nella terra, a man manca si veggono assaissime arche, parte d'un pezzo, com'è detto di sopra, separate dal monte, e parte cavate nel proprio monte. Ascendendo piú in su si truovano le porte della prima cinta della terra, che sono quasi alla sommità del monte, le quali hanno un torrione per lato, e sono di ferro, senza legname alcuno, alte circa quindici piedi, larghe la metà, lavorate politissimamente, non meno che se fussero d'argento: e sono grossissime e forti. Il muro è grossissimo, pieno di dentro, con la sua guardia davanti, il quale di fuora è carico e coperto di terreno durissimo, tanto erto che per esso non si può ascendere alle mura. Il qual terreno gli va d'ogn'intorno, ed è tanto largo dalle mura che da basso circonda tre miglia, e in cima il muro non circonda piú di uno, ed è fatto a similitudine d'un pan di zuccaro. Dentro di questa cinta è il castello di Seleuca, con le sue mura e torri piene, tra 'l quale e le mura della prima cinta è tanto terreno vacuo che a un bisogno faria da 300 stara di frumento: è distante la cinta dal castello passi 30 e piú. Dentro del castello è una cava quadra fatta nel sasso, profonda passa cinque, longa 25 e piú, larga circa sette: in questa erano legne assai da monizione e una cisterna grandissima, nella quale non è mai per mancare acqua. E questa terra è nell'Armenia minore al presente, ma anticamente era nella Cilicia, che fu presa da' Turchi quando occuparono il restante dell'Asia minore, a' quali fu levata da Rubino e Leone, fratelli d'Armenia, circa il 1230: e la ridussero in regno, e da loro fu detta Armenia, la quale Armenia si estende infino al monte Tauro, chiamato nel lor linguaggio Corthestan.


Della città Tarso, anticamente detta Tarsus; il sito e signor di quella. D'una terra detta Adena, e quello produce. D'un grossissimo fiume chiamato Pyramo. D'un notabil modo di ballar e cantar d'alcuni peregrini macomettani. D'una terra detta Orphea.
Cap. 5.

Stetti certo tempo in questo luogo e poi mi aviai al camino di Persia, caminando (quantunque vi sia altra via) per la marina: e in una giornata non grande usci' fuora delle terre del Caraman. Il primo luogo ch'io ritrovai è Tarso, anticamente Tarsus, buona città, il signore della quale è Dulgadar, che fu fratello di Sessuar: il paese è sottoposto al soldano, quantunque sia pur nell'Armenia minore; la terra volge 3 miglia. Ha una fiumara davanti, detta dagli antichi Cydnus, sopra la quale è un ponte di pietra in volti per il quale si esce della terra, e questa fiumara le va quasi attorno. In essa è un castello scarpato da due lati di una scarpa alta passi 15, la quale è di pietre tutte lavorate a scarpello; davanti è un luogo piano, quadro ed eminente, al qual si va per il castello con una scala, ed è tanto longo e largo che terrebbe suso 1000 uomini. La terra è posta su un monticello non molto alto. Una giornata lontano si trova Adena, cosí nominata anco dagli antichi, terra molto grossa, davanti della quale è un fiume grossissimo, detto dagli antichi Pyramus, il qual si passa per un ponte di pietra in volto longo passi 40. Sul qual ponte essendoci noi accompagnati con certi suffi, cioè, parlando in nostro linguaggio, peregrini, alla guisa de' quali tutti noi eravamo vestiti, questi suffi cominciarono a ballare in spirito, cantando uno di loro delle cose celestiali e della beatitudine di Macometto, principiando lentamente e adagio e sempre andando stringendo piú la misura. E quelli che ballavano, ballando secondo la misura della voce, fra lo spazio d'un quarto d'ora affrettavano tanto i passi e i salti che parte di loro cadevano col corpo in suso e tramortivano lí. Era concorsa a tale spettacolo assai gente, e li compagni levavano quelli che erano caduti e li portavano agli alloggiamenti, e quasi in ogni luogo dove si abitava; e alcune fiate eziandio nel viaggio facevano cotal dimostrazioni, come se fussero sforzati a farle.
La terra di Adena, e similmente il paese, fa di molti gottoni e gottonina; è ancora essa del soldano, posta medesimamente nell'Armenia minore. Lasso di dire le ville e i castelli rotti che si ritrovano infino su l'Eufrate, per non aver cosa molto memorabile. Giunti all'Eufrate, che divideva lo stato del re di Persia da quel del soldano, ritrovammo un navilio del soldano, il qual portava da sedici cavalli in suso. Era navilio molto strano, col quale passammo il fiume, appresso il quale sono certe grotte nel sasso, dove per i mali tempi si riduce chi di lí passa; dall'altro lato sono alcune ville di Armeni, dove alloggiammo una notte. Passato il fiume capitassimo a una terra nominata Orpha, la quale è del signore Assambei ed era governata da Balibech, fratello del detto signore. Fu già gran terra, ora è quasi tutta ruinata dal soldano, nel tempo che 'l signore Assambei andò all'assedio del Bir. Ha un castello sul monte assai forte. In questo luogo il signore si avidde ch'io era e mostrò di vedermi volentieri, al quale io diedi le mie lettere: ed ebbero buon ricapito. Non voglio dire altro di questa terra, per essere stata distrutta, e dove eziandio il signore abita con sospetto.


Della città Merdin, e mirabil sito e altezza di quella. Le parole che usò un peregrino a messer Iosafa circa il sprezzar del mondo. Della città Asiancheph, e sue altissime abitazioni; di un gran fiume e mirabil ponte che vi è posto sopra.
Cap. 6.

Giugnemmo poi alla radice d'un monte, il qual è sopra un altro monte, e ha una città chiamata Merdin, alla quale non si può andar se non per una scala fatta a mano, i gradi della quale sono di pietra viva, di passi quattro l'uno con le sue bande, e dura per un miglio; al capo di questa scala è una porta, e poi la strada che va nella terra. Il monte d'ogn'intorno cola acqua dolcissima, e per tutta la terra sono fontane assai. E nella terra è un altro monte, il quale quasi tutto intorno è una rocca alta da passi cinquanta in suso, nell'ascender del quale si trova una scala simile alla sopradetta. Non ha questa terra altre mura che quelle delle case; è lunga un terzo di un miglio; ha da fuochi 300 dentro, e in essi popolo assai. Fa lavori di seta e di gottoni assaissimi, ed è similmente del signore Assambei. Sogliono dire i Turchi e i Mori che tanto è alta che coloro li quali vi abitano non veggono mai volare uccelli sopra di sé. In questo luogo albergai in un ospitale il quale fu fatto per Ziangirbei, fratello del signore Assambei, e dove tutti quelli che vi vanno hanno da mangiare: e se sono persone che paiano da qualche conto, gli vengono messi sotto ai piedi tapeti da piú di ducati cento l'uno.
Voglio dir qui una cosa assai rara, e nelle parti nostre rarissima, la quale m'intravenne. Stavomi un giorno solo sedendo nell'ospitale, ed ecco che viene a me uno carandolo, cioè un uomo nudo, toso, con una pelle di capriuolo davanti, bruno, di anni circa trenta, e si pose a sedere appresso di me, e tolsesi di tasca un suo libretto e incominciò a legger divotamente con buoni gesti, come se a nostro modo dicesse l'ufficio. Non molto dopo mi si fece ancor piú appresso, e dimandò chi io era; e rispondendogli io che era forestiero, mi disse: "Ancor io son forestiero di questo mondo, e cosí siamo tutti noi: e però l'ho lassato, e fatto pensiero di andarmene in cotal modo insino alla mia fine", con tante altre buone ed eleganti parole, che a me faceva una gran maraviglia, confortandomi al ben vivere, al viver modestamente e a disprezzare il mondo, dicendo: "Tu vedi come io me ne vado nudo per lo mondo. Ho visto gran parte di esso, e niente ho ritrovato che mi piaccia, per la qual cosa ho deliberato d'abbandonarlo al tutto".
Partendoci da Merdino cavalcammo giornate sei insino ad una terra del signore Assambei la qual si chiama Assanchif: e prima che vi si giunga si vedono nella costa d'un monte piccolo, a man destra, abitazion d'uomini infinite, cavate nel proprio monte, e a mano sinistra si ritrova il monte, sopra il quale è edificata la detta terra, alla cui radice sono anche grotte, dove abita gente assai. Le qual grotte per tutta una faccia del detto monte sono innumerabili, tutte assai alte da terra, con le loro strade che guidano alle dette abitazioni, alcune delle quali sono alte piú di passa trenta, di modo che, quando vanno con le persone e animale per le dette strade, par che caminino in aere, tanta è la loro altezza. Continovando il camino e voltandosi a man manca si va nella terra, nella quale si ritrovano mercanti di gottoni e d'altri mestieri: è terra di passo assai frequentato. Volge un miglio e mezo col suo borgo, nel quale si trovano molte belle abitazioni e alcune moschee. Di qui si passa un fiume il cui nome è Set, già fu detto Tigris, bello e profondo, largo, infino a quel luogo, da passi 30, per un ponte di legnami grossi, i quali per forza di peso stanno sopra le teste che toccano terra, imperochè per la profondità del fiume non possono sostentarsi in acqua.


D'una terra detta Sairt e di due fiumi, uno chiamato Betelis, l'altro Issa.
Cap. 7.

Passato questo monte ce ne andammo per campagne e per luoghi montuosi, non troppo né alti né asperi, lontano dai quali due giornate, andando quasi verso levante, si ritrova una terra detta Sairt, la quale è fatta in triangolo, e da una delle parti ha un castello assai forte, con molti torrioni, parte delle mura della quale sono ruinate. Dimostra essere stata terra bellissima: volge tre miglia; è benissimo abitata, ornata di case, di moschee e di fontane bellissime. Nella qual volendo entrare, passammo due fiumi per due ponti di pietra di un volto l'uno, sotto li quali passeria un gran burchio delli nostri con tutto il suo arbore, e ambidue sono fiumi grossissimi e veloci: uno si chiama Betelis, l'altro Issan. E per infino a questo luogo si estende l'Armenia minore. Non si trovano gran monti né gran boschi, né ancor case diverse dalla consuete; sonvi per la regione ville assai. Vivono di agricoltura, come si fa di qui; hanno frumenti e frutti e gottoni assai, buoi, cavalli e altri animali assai. Hanno oltra di questo capre in copia, le quali pelano ogni anno, e di quella lana fanno ciambellotti: le quali essi governano e tengono lavate e nette.


Del monte Tauro. Curdi, popoli crudelissimi. D'una terra detta Chexan. Di Choy e Tauris città.
Cap. 8.

Ora cominciaremo a entrare nel monte Tauro, il qual principia verso il mar Maggiore, nella parte di Trabisonda, e vassene per levante e sirocco verso il sino Persico. All'intrare di questo monte sono monti altissimi e aspri, abitati da certi popoli i quali si chiamano Curdi, che hanno uno idioma separato dalli circonvicini, e sono crudelissimi, non tanto ladri quanto assassini. Hanno castelli assaissimi, edificati su le rupi e brichi, a fin di star sui passi e robar li viandanti: molti dei quali però sono stati ruinati dalli signori, per i danni che hanno fatto alle caravane le quali passano di lí. Ho fatto della condizion loro qualche isperienza, imperochè, essendo con certi compagni adí quattro d'aprile 1474 levato da una terra nominata Chexan, la quale è d'un signore sottoposto al signore Assambei, circa meza giornata lontano dalla terra, avendo in compagnia l'ambasciador del signore Assambei, sopra di una alta montagna fussimo assaltati da questi Curdi, e il detto ambasciadore e il mio cancelliero insieme con due altri furono morti, io e due altri feriti; ne tolsero le some e tutto ciò che trovarono. Io, essendo pur a cavallo, mi tolsi del cammino e fuggi' solo; quelli due feriti mi vennero poi a trovare, e insieme ci accompagnammo con uno califo, cioè capo de' peregrini, e camminassimo al meglio che potessimo.
Il terzo giorno dopo giugnemmo a Vastan, città ruinata e male abitata, di circa 300 fuochi; due giornate lontano ritrovassimo una terra nominata Choi, la quale ancora essa era ruinata, e faceva da fuochi 400: vivono di artificii e di lavorar la terra. Essendo circa la fine del monte Tauro, deliberai di separarmi da questo califo: tolsi uno dei suoi compagni per mia guida, e in tre giornate fui appresso di Tauris, città famosissima. Essendo su la campagna, ritrovai certi Turcomani, i quali erano accompagnati con alcuni Curdi, che venivano verso di noi, li quali dimandarono dove noi andavamo; io li risposi che andava a ritrovare il signore Assambei, con lettere indrizzate a sua signoria. Richiesemi uno di loro che gliele mostrassi: e dicendogli io mansuetamente che non era onesto ch'io le dessi nelle sue mani, alzò un pugno e percossemi una mascella tanto fortemente che quattro mesi dopo mi durò quel dolore; batterono eziandio il mio interprete, e lascionne molto malcontenti, come si può pensare.


Come messer Iosafa gionse al signor Assambei, e l'accetto e presente ch'esso signor li fece; e descrivesi l'abitazione d'esso signore. D'una festa che si suol fare in piazza.
Cap. 9.

Gionti che fussimo a Tauris, che già fu detta Ecbatana, capo della Media, capitassimo in un caversera, cioè secondo noi fontego, donde io feci sapere al signore Assambei, il quale si ritrovava lí, che io era gionto e che desideravo d'andare alla sua presenzia. E subito la sequente mattina, mandando egli per me, mi appresentai a lui, cosí mal in ordine che mi rendo certo che tutto quello che io avevo in dosso non valeva duoi ducati. Videmi volentieri, e di primo mi disse ch'io fussi il ben venuto, e che ben egli aveva inteso la morte del suo ambasciadore e degli altri due e de l'assassinamento fatto a noi, promettendo di provedere a tutto in modo tale che non avessimo alcun danno. Poi gli appresentai la lettera di credenza, la qual sempre tenevo in petto: fecela leggere a me, conciosiachè altri non si ritrovassi appresso di lui che la sapesse leggere, e interpretar da uno interprete. Inteso che ebbe quello ch'ella diceva, rispose che io dovessi andare alli suoi (parlando a nostro modo) consiglieri, e che dicessi tutto quello che n'era stato rubbato, e che lo mettessi in nota, e altro, se io aveva da dire; e poi che me n'andassi alla mia abitazione, dove, quando gli pareria tempo, manderia per me.
Il luogo dove ritrovai questo signore stava in questo modo: prima aveva una porta, e dentro di essa un spazio quadro di quattro over cinque passi, dove sedevano li suoi primi da otto in dieci; eravi poi un'altra porta appresso di questa, su la quale stava un uomo, per guardia di essa porta, con una bacchetta in mano. Entrato che fui in questa porta, trovai un giardino quasi tutto prato di trifoglio, murato di terreno, dalla banda dritta del quale è un lastricato; poi circa passa trenta è una loggia, a nostro modo in volto, alta da quel lastricato quattro over sei scalini. In mezo di questa loggia è una fontana simile a un canaletto, sempre piena; e nell'entrar di detta loggia, a man sinistra, stava il signore a sedere su un cussino di broccato d'oro, con un altro simile dietro alle spalle, allato del quale era un brocchiero alla moresca con la sua scimitarra: e tutta la loggia era coperta di tapeti; attorno sedevano li suoi primi. La loggia era tutta lavorata di musaico, non minuto come usiamo noi, ma grosso e bellissimo, di diversi colori.
Il primo giorno che mi ritrovai in quel luogo vi erano alcuni cantori e sonatori, con arpe grandi un passo, le quali essi tenevano riverso, cioè capi a piedi, leuti, ribebe, cimbali, pive e canti di voci pieni di dolce concento. Il dí seguente mi mandò a vestir due veste di seta, le quali furono un subbo fodrato di varo e giubbo, un fazzuol di seta da cingere, una pezza di bambagio sottile da mettere in capo, e ducati 20; e mandommi a dire che io andassi al maidan, cioè alla piazza, a vedere il tanfaruzo, cioè la festa. Andai lí a cavallo, e trovai su quella piazza circa uomini 3000 a cavallo, e a piedi piú di due volte tanto; e li figliuoli del signore stavano ad alcune finestre. Quivi furon portati alcuni lupi salvatichi, legati per un piè di dietro con alcune corde, i quali ad uno ad uno erano lasciati andare insino a mezo la piazza; poi uno atto a ciò si faceva avanti alzando le mani per dargli, e il lupo all'incontro gli andava alla via della gola: ma, per esser colui molto atto e per sapersi schifare, non lo brancava se non nei bracci, dove non gli poteva far male, per non poter trapassar coi denti quelle giubbe di che era vestito. Li cavalli per paura fuggivano fra gli altri, e molti d'essi cascavano sottosopra, parte in terra e parte in quell'acqua la qual passa per la città; e quando avevano stanco un lupo, ne facevano venire un altro: e questa festa facevano ogni venere.


D'un nobilissimo presente mandato da un signor dell'India al signor Assambei.
Cap. 10.

Finita la festa, io fui condotto al signore nel luogo detto di sopra, e fui fatto sedere in luogo onorato. E sedendo tutti quelli che potevano sedere in questa loggia, e gli altri secondo le lor condizioni, in su tapeti alla moresca, furon messi mantili attorno su ne' tapeti, e avanti di ciascheduno fu posto un bacil d'argento, nel quale era una inghistara di vino e uno ramin d'acqua e una tazza, tutte d'argento. Vennero in questo mezo alcuni con certi animali che erano stati mandati da un signor d'India, il primo dei quali fu una leonza in catena, menata da uno che aveva pratica di simil cose, la quale, in suo linguaggio chiamata baburth, è simile a una leonessa, ma ha il pelo vermiglio, vergato tutto di verghe negre per traverso; ha la faccia rossa con tacche bianche e negre, il ventre bianco, la coda simile a quella d'un leone; mostra d'esser bestia molto feroce. Poi fu condotto un leone e messo con la leonza un poco da largo, e subito la leonza si messe guatta per voler saltar, come fanno le gatte, adosso al leone: se non che colui il qual l'aveva a mano la tirò da lontano. Furono poi menati due elefanti, i quali, quando furono per mezo il signore, a certa parola che gli disse colui che gli menava guardarono il detto signore abbassando la testa con una certa gravità, come se gli volsero far riverenza. Il maggior di questi fu menato poi a un arbore che era nel giardino, grosso quanto è un uomo a traverso, e dicendo colui che l'aveva in catena certa parole, mise la testa al detto arbore e dettegli alcune scoriate, poi si voltò all'altra parte e fece il simile, in modo che lo cavò.
Fu menata poi una zirafa, la quale essi chiamano zirnafa, over giraffa, animale alto in gambe quanto un gran cavallo e piú: ha le gambe di dietro mezo piè piú corte di quello che sono quelle davanti; ha l'unghia fessa come il bue; ha il pelo quasi pavonazzo; per tutta la pelle sono quadri negri, grandi e piccoli secondo il luogo; il ventre è bianco, con un pelo assai longhetto; la coda ha pochi peli, come la coda dell'asino; ha corna piccole, simili a quelle d'un capriuolo; ha il collo lungo un passo e piú; ha la lingua lunga un braccio, pavonazza e tonda come una anguilla: tira con la lingua erba e rami dall'arbore che ha da mangiare, con tanta prestezza che a mala pena si vede. La testa è simile a quella d'un cervo, ma piú polita, con la quale stando in terra giugne alto 15 piedi; ha il petto piú largo che un cavallo, ma la groppa stretta come quella d'un asino; mostra d'essere animal bellissimo, non però da portar pesi. Dopo questo furono portati in tre gabbie tre para di colombi bianchi e negri, simili alli nostri, eccetto ch'aveano il collo un poco lungo, a similitudine dell'oca: delli quali credo che in quel luogo ne sia gran penuria, perchè altramente non gli averian portati. Dietro a questi furon portati tre papagalli dal becco grande, di diversi colori, e due gatti di quelli che fanno il zibetto.
Io mi levai poi, e andai in una camera dove mi fu dato da mangiare; mangiato che ebbi, colui che era sopra li ambasciatori mi dette licenzia, e dissemi ch'io andassi nella buon'ora. Poco dopo ch'io fui giunto a casa fu mandato per me, e ritornato al signore fui domandato perchè m'era partito: risposi ch'el meimandar mi avea dato licenzia, e il signore, indegnato contra di costui, lo fece chiamare e in sua presenzia distendere e battere; otto giorni dopo, per mia intercessione, fu tolto in grazia. Il giorno dietro che costui fu battuto, il signore mi fece chiamare la mattina: andai e lo trovai nel luogo sopradetto, e fui posto a sedere dove ero stato posto prima. In questo giorno (per esser giorno di festa, e per la venuta degli ambasciadori d'India) furon fatti molti onorevoli trionfi. E prima i suoi cortigiani furon vestiti di panni d'oro e di seta e di ciambellotti di diversi colori: erano a sedere nella loggia circa 40 dei piú onorevoli, negli anditi circa 100, di fuora de li anditi circa 200, tra le due porte circa 50, nella piazza attorno a torno circa 20000, tutti a sedere con aspettazion di mangiare, in mezo dei quali erano cavalli circa 4000. Stando in questo modo vennero gli ambasciadori d'India, i quali furon posti a sedere per mezo il signore, e incontinente s'incominciarono a portar li presenti, i quali passavano dinanzi al signore e a quelli che erano in sua compagnia, li quali furono li sopradetti. Dipoi circa uomini 100 l'un dietro all'altro, i quali avevano sopra le braccia cinque tolpani per uno, cioè cinque pezze di tele bombacine sottilissime, delle quali si fanno quelle sesse da mettere in capo: vagliono cinque in sei ducati l'una. Dapoi vennero sei uomini che avevano sei pezze di seta per uno in braccio; poi vennero nove, ciascuno dei quali aveva in mano una tazza d'argento, nelle quali erano pietre preziose, come dimostrerò di sotto. Dietro a questi vennero alcuni con catini e piadene di porcellana, poi alcuni con legni di aloè e sandali grossi e grandi; e poi vennero circa 25 colli di specie, portati con stanghe e corde, a ciascuno dei quali erano quattro uomini. Passati questi fu portato da mangiare ad ognuno. Dopo il mangiare, il signore dimandò a questi ambasciadori se nelle parti d'India vi era altro signor che 'l suo che fusse mossulman, che vuol dir macomettano: risposero che ne erano due altri, e tutto il resto erano cristiani.


Delle gioie mandate dal signor dell'India sopradetto al signor Assambei, di che qualità fussero; e di molte preziosissime gioie del signor Assambei, per lui mostrate a messer Iosafa.
Cap. 11.

Il dí seguente il signore mandò per me, e dissemi che voleva darmi un poco di tanfaruzo e mostrarmi le gioie che gli erano state mandate da questo signore d'India: e primamente mi fece dare in mano un dital d'arco d'oro, che aveva in mezo un rubino di caratti due e intorno alcuni diamanti; due anelli d'oro con due rubini di caratti quattro; due fili di perle 60, di caratti cinque l'una; perle 24 legate in peroli di caratti sette l'una, bianche ma non ben tonde; un diamante in punta di caratti 20, non troppo netto ma di buona acqua; due teste d'uccelli morti in camino, i quali mostravano d'esser molto diversi dagli uccelli delle bande nostre.
Mostrate che mi ebbe queste gioie, esso mi domandò quel che mi pareva di questo presente, soggiugnendo: "Me l'ha mandato un signor di là dal mare", cioè di là dal colfo di Persia. Gli risposi che 'l presente era bellissimo e di grandissimo pregio, ma non però tanto grande che egli non ne meritasse molto maggiore. Dopo questo esso mi disse: "Io ti voglio mostrare ancor le mie", e comandò che fusse tolta una tachia di seta da putto e che mi fusse data in mano. Io subito tolsi il fazzoletto in mano per pigliarla col fazzoletto e non la toccar con le mani, al quale atto esso mi guardò e, voltatosi ai suoi, sorridendo disse: "Guarda Italiani", come se laudasse la maniera e modo mio nel tor quella tachia. In cima di questa tachia era un balasso forato della forma di un dattilo, netto e di buon colore, di caratti cento, attorno del quale erano certe turchese grandi ma vecchie, e certe perle grosse, ancora esse vecchie. Dietro a questo fece portare alcuni vasi di porcellana e di diaspro molto belli. Un'altra volta ch'io fui con esso, lo ritrovai in una camera sotto un paviglione, e allora mi dimandò quello mi pareva di essa, e se di cosí fatte se ne facevano nei luoghi dei Franchi; gli risposi che me ne pareva benissimo, e che non era da far comparazione tra i nostri luoghi e i suoi, conciosiachè molto maggior potenzia sia la sua che la nostra, e che da noi non si usano simil camere: e in vero era bellissima, ben lavorata di legnami, in modo di una cuba fasciata di panni di seta ricamati e dorati, e il pavimento tutto era coperto di bellissimi tapeti; poteva volger da quattordici passi. Sopra di questa camera era una tenda quadra, grande, ricamata, distesa in forza di quattro arbori, la quale gli faceva ombra; tra la quale e la cuba era un bel paviglione di boccascin, dalla parte di dentro tutto lavorato e ricamato. La porta della camera era di sandali a tarsia con fili d'oro e radici di perle, per dentro lavorata e intagliata.
Il signore sedeva insieme con certi suoi principali, e aveva avanti un fazzuolo ingroppato, il quale esso sciolse e ne trasse una filza di 12 balassi simili a olive, netti, di buon colore, di caratti da 50 in 57 l'uno. Dietro a questo tolse un balasso di oncie 2 e meza in tavola, di una bella forma, grosso un dito, non forato, di color perfettissimo, in un canton del quale erano certe letterine moresche. Dimandai che lettere erano quelle, ed esso mi rispose che erano state fatte per un signore, ma dapoi altri signori, ed egli similmente, non ci aveva voluto metter lettere, che in tutto saria stato guasto. Mi domandò poi quello che a mio giudizio poteva valer quel balasso; io lo guardai e sorrisi, ed egli a me: "Di', che te ne pare?" Risposi: "Signore, io non ne vidi mai simile, né credo che se ne trovi alcuno che gli possa stare a parangone; e se io gli dessi preggio e il balasso avesse lingua, mi dimanderia se io ne avessi mai piú veduto simili, e io saria constretto a rispondergli di no. Credo, signore, che non si possa appregiar con oro, ma con qualche città". Guardommi e disse pian: "Cataini Cataini, tre occhi ha il mondo: due ne hanno i Cataini e uno i Franchi". Baldamente disse bene il vero; e voltandosi verso li circonstanti disse: "Ho dimandato a questo ambasciadore quello che può valer questo balasso, e mi ha fatto la sí fatta risposta", replicandoli tutto quello ch'io gli aveva detto.
Questa parola "Cataini Cataini" aveva udito io per avanti da uno ambasciador dell'imperador de' Tartari, il quale ritornava dal Cataio del 1436, il qual facendo la via della Tana, io l'accettai in casa con tutti li suoi, sperando aver da lui qualche gioia. E un giorno, ragionando del Cataio, mi disse come quei capi della Porta del signore sapevano chi erano Franchi; e dimandandogli io se era possibile che avessero cognizion di Franchi, disse: "E come non la debbiamo aver noi? Tu sai come noi siamo appresso a Capha, e che di continuo pratichiamo in quel luogo, ed essi vengono nel nostro lordo". E soggiunse: "Noi Cataini abbiamo due occhi, e voi Franchi uno"; e voltandosi verso i Tartari i quali erano lí soggiunse: "E voi nessuno", sorridendo tuttavia. E però meglio intesi il proverbio di questo signore, quando usò quelle parole.
Fatto questo mi mostrò un rubino di oncia una e meza, alla forma di una castagna, tondo, di bel colore e nettezza, non forato, legato in un cerchio d'oro, il quale a me parve cosa mirabile, per esser di tanta grandezza. Mostrommi poi piú balassi, gioiellati e non gioiellati, fra li quali ne era uno a tavola quadra, a modo di una bochetta, sul quale erano cinque balassi in tavola, e fra essi quello di mezo di caratti circa trenta, gli altri di caratti 20, in mezo dei quali erano perle grosse e turchesi grandi, ma non di gran conto, imperochè erano vecchie. Dopo questo fece portare alcuni subbi di panno d'oro e di seta e di ciambellotti damaschini, fodrati di seta e di armellini e di zibellini bellissimi, e dissemi: "Questi sono delli panni della nostra terra di Iesdi; i vostri sono belli, ma pesano un poco troppo". Fece poi portare alcuni tapeti bellissimi, lavorati di seta.
Il dí seguente fui da esso, e fecemi andar da presso e disse: "Io voglio che tu abbi un poco di tanfaruzo", e dettemi in mano un camaino della grandezza di un marcello, nel quale era scolpita una testa di donna molto bella, con capelli di dietro e con una ghirlandetta attorno. E dissemi: "Guarda, è questa Maria?" Risposi di no, ed esso replicò: "Mo, chi è ella?" E io gli dissi che era figura di qualcuna delle dee antique che adoravano i burpares, cioè gl'idolatri. Dimandommi come io lo sapeva, e io risposi che la conosceva, imperochè questi lavori furon fatti avanti l'avvenimento di Giesú Cristo. Scorlò un poco la testa e non disse altro. Poi mi mostrò tre diamanti, uno di caratti 30, di sotto e di sopra nettissimo, gli altri di caratti 10 in 12, tutti in punta, e dissemi: "Sonvi di sí fatte gioie da voi?" E dicendogli io di no, tolse in mano un mazzo di perle di fili 40, in ciascuno dei quali erano perle 30, di caratti cinque in sei l'una, la metà di esse tonde e belle, il resto da gioiellar, non disconce. Poi fece mettere in un bacile d'argento circa perle 40, simili a peri e zucche, di caratti 8 in 12 l'una tutte, non forate e di color bellissime, e soggiunse cosí ridendo: "Io te ne mostraria una soma". Questo fu a una festa di notte, secondo la loro usanza, che fu alla circuncisione di due suoi figliuoli.


Li ricchi padiglioni che furono mostrati a messer Iosafa, e li vestimenti e selle ch'erano in due di quelli per donar via. D'una eccellente collazione portata avanti il signore, e d'una solenne festa per lui fatta; li giuochi che v'intravennero, e che pregi furon dati a' giuocatori.
Cap. 12.

Il dí seguente, andando per esser con lui, lo ritrovai nella terra in uno campo grande, nel quale prima erano stati seminati frumenti, e dipoi per fare una festa segati in erba, e pagati a quelli di chi erano. In quello erano drizzati molti paviglioni, e il signore, voltosi verso alcuni di quelli che erano con esso lui, disse: "Andate e mostrategli questi paviglioni". Erano in numero circa cento, dei quali me ne furono mostrati circa 40 dei piú belli. Tutti avevano le lor camere dentro, e le coperte stratagliate di diversi colori, e in terra tapeti bellissimi, tra i quali e quelli del Cairo e di Borsa, al mio giudizio, è tanta differenza quanta è tra li panni di lana francesca e quelli di lana di San Matteo. Mi fece poi entrare in due paviglioni, i quali erano pieni di vestimenti secondo la loro usanza, di seta, e d'altre sorti di panni messi in un cumulo, da una delle bande dei quali erano molte selle fornite d'argento, e mi dissero: "Tutti questi fornimenti il dí della festa saranno donati via dal signore"; le selle erano 40. Mi mostrarono eziandio due porte lavorate, grandi, di sandali, di piedi sei l'una, intagliate con oro e radici di perle per entro, a lavor di tarsia; poi me ne tornai al signore, dal quale tolsi licenzia.
Il seguente giorno lo ritrovai a sedere nel suo luogo usato, dove gli furono portate otto piatene grandi di legno, in ciascuna delle quali era un pan di zuccaro candí fatto in diversi modi, di peso di libbre otto l'uno; attorno erano tazzette con confezioni di diversi colori, ma per la maggior parte di trezie. Poi furon portate piatene assai con altre confezioni: queste otto ordinò a cui si dovessero dare, nel numero dei quali io fui il primo; valevano per certo da quattro in cinque ducati l'una. Il resto fu dispensato fra gli altri secondo la condizion loro. Il seguente giorno lo ritrovai sedere insieme con persone piú di 15000, e i principali tutti avevano tende di sopra il capo, e da cinque over sei stavan avanti il signore in piedi, e il signor comandava loro dicendo: "Andate a vestire i tali e i tali", nominandogli. I quali andavano da quei tali e gli levavano da sedere, e gli menavano ai paviglioni dove erano li vestimenti, e gli vestivano secondo la lor condizione: e ad alcuni davano le dette selle, ad alcuni altri davano cavalli, li quali, a mio giudicio, furono da 40; li vestimenti circa 250, fra i quali fui ancora io.
Fatto questo vennero alcune femine, e cominciarono a ballare e a cantare insieme con alcuni che sonavano. Eravi su uno tapeto un cappello a guisa d'un pan di zuccaro, il quale aveva per sopra frappe e baronzoli al modo di cappelli de zubiari, e poco lontano stava uno a guardar quel che comandava il signore, il quale mostrò a chi doveva esser posto in capo quel cappello: e incontinente colui lo tolse e andò dinanzi a quell'altro, il quale si levò in piedi e, cavatosi la sessa, si mise quel cappello, che certo non era uomo di buona vista che non fusse paruto un brutto e deserto, e avendolo in capo venne avanti al signore ballando come sapeva. E il signore fece di atto a quello che stava lí in piedi e disse: "Dagli una pezza di camocato", ed egli si tolse questa pezza e menavala attorno del capo di colui che ballava col cappello e degli altri uomini e femine, e dicendo alcune parole in onor del signore la gittava avanti li sonatori. Continuò questo ballare e gittar di pezze insino a ore 23, e per quanto io potei numerare in questo tempo tra damaschini, boccassini, ciambelotti, camocati e altri simili, furono donati da pezze 300, e da cavalli cinquanta.
Fatto questo cominciarono a giuocare alle braccia in questo modo: venivano dinanzi al signore dui nudi, con mutande di camozza fino alle cavecchie; non si afferravano a traverso, ma cercavano di pigliarsi su la coppa, e l'uno e l'altro si schifava da tal presa. Pur, quando uno aveva preso l'altro nella coppa, colui ch'era preso, non si potendo prevalere altramente, s'abbassava quanto piú poteva e lo pigliava per la schiena e alzavalo, e cercava di gettarlo con la schiena in giú, imperochè altramente non s'intendeva esser gettato; in tanto che molti, li quali si lasciavano gettar giú in quattro, dopo gettavano il compagno in schena e vincevano. Presentossi allora avanti il signore uno di questi nudi, tanto grande che pareva un gigante. Il signore gli comandò che dovesse giuocare, dicendo: "Trovati un compagno", ed egli s'inginocchiò avanti e disse alcune parole. Domandai quello ch'egli avea detto: mi fu risposto ch'avea domandato di grazia al signore che non lo facesse giuocare, perchè altre fiate avea giuocato e nello stringere avea morti alcuni; e il signore gli fece la grazia. Questo giovane era bello e ben fatto, d'anni circa trenta. A questi giuocatori furono donati cavalli, e dopo ch'io fui partito durò infino a due ore di notte cotal festa, e furono donate altre cose assai. In quel tempo fu adornata tutta quanta la terra, e spezialmente il bazzaro, imperoch'ognuno metteva fuori le sue robbe. Fu eziandio posto un pregio di corridori a piedi, i quali avevano a correre un miglio e mezo, non di tutto corso ma d'un buon trotto. Essendo spogliati, nudi e unti tutti di grasso per conservazione de' nervi, con una mutanda di cuoio per uno, cominciavano da un capo di certo spazio, e quando che trottando erano giunti all'altro capo toglievano da alcuni deputati una freccia bollata per dare ad intendere a coloro i quali, per esser molto lontani, non l'averiano potuto vedere, ch'erano giunti al termine; e trottando indietro, quando erano giunti al termine, anche lí toglievano una freccia. E cosí facevano per buon spazio di tempo, tanto quanto le gambe gli portava, e colui il quale piú volte faceva questo cammino avea il pregio. Costoro a' quali fu proposto simil pregio sono corrieri del signore, che camminano discalzi e quasi nudi, e non cessano mai di trottare le belle dieci giornate continove.


Come il signor Assambei andò alla campagna; d'un suo figliuolo che venne a visitarlo, e del presente fattoli per lui e suoi baroni; e come il signor cavalcò con gran prestezza verso Siras, intendendo quella città esser stata occupata per un altro suo figliuolo. Del modo e ordine del suo cavalcare.
Cap. 13.

Fatte queste feste, il signor deliberò d'andare alla campagna con le sue genti, secondo il lor costume, e domandommi s'io voleva andare con esso e stentare, o rimaner lí e darmi buon tempo. Gli risposi che piú grato m'era d'esser dove egli si ritrovava, con ogni fatica e disagio, che dove egli non si ritrovava, con ogni riposo e abbondanza: parve che gli fusse molto grata questa risposta, e in segno di ciò incontinente mi mandò un cavallo, con un padiglione e denari. Partito adunque della città con la sua gente, cavalcò verso quelle parti dove intendeva esser migliori erbe e acqua, facendo da principio da miglia dieci in quindici il giorno; e con lui andorno tre suoi figliuoli. Chi volesse notare tutte le cose degne da notare torria una difficile impresa, e diria qualche volta cose poco meno che incredibili; onde io le noterò in parte, e del resto lascierò la cura a scrittori piú diligenti, overo ad indagatori di queste cose piú curiosi di quello che sono stato io. Essendo adunque in campagna, un suo figliuolo, il quale stava nelle parti di Bagdath, cioè Babilonia, insieme con la madre lo venne a visitare, e fecegli presentare venti cavalli bellissimi, cameli cento e alcuni panni di seta. Dopo per i baroni del detto figliuolo gli furno presentati cameli e cavalli assai, e in quel medesimo instante in mia presenza il detto signore gli donò a chi gli piacque; poi fu portato da mangiare.
Non molto dopo, essendo in campagna, gli venne nuova come un altro suo figliuolo, nominato Gorlumahumeth, avea occupato Siras, terra grande sottoposta al padre: e questo perchè gli era stato detto che il detto suo padre era morto, ed egli voleva la terra per sé. Sentita questa novella, incontinente il signor si levò e con tutta la sua gente se n'andò a Siras, la quale era lontana dal luogo dove noi eravamo miglia 120: e andò con tanta prestezza che da mezzanotte per infino al vespero seguente facemmo miglia 40, che a pena in tre giorni s'averia giunto lí. Chi potria credere che tanto popolo, cioè maschi, femine, putti in cuna, potessero far tanto cammino portando tutte le lor robbe seco, con tanto modo e ordine, con tanta dignità e pompa, che mai non gli mancasse il pane e rarissime volte il vino, il quale per il simile mai non saria mancato, se non fusse che buona parte di loro non ne beve; e oltre di questo abbondasse di carne, di frutti e di tutte l'altre cose necessarie? Io che l'ho veduto non solamente lo credo ma lo so, e acciò che quelli i quali vi capiteranno intendano s'io scrivo il vero o no, e quei che non hanno volontà di capitar là possano credere, io ne farò di ciò special menzione.
Li signori e uomini da fatti, i quali sono col signore, e hanno seco le moglie, i figliuoli, i famigli, le fantesche e le facultà, sogliono avere nel suo comitato cameli e muli assai, il numero de' quali metterò qui di sotto. Questi portano li putti da latte in cuna su l'arcione del cavallo, e la madre over balia cavalcando gli latta; le cune sono una piú l'altra manco bella, secondo le condizioni de' padroni, co' lor felci di sopra lavorati d'oro e di seta. Con la man sinistra tengono la cuna e con quell'istessa la briglia; con la destra cacciano il cavallo battendolo con una scorreggiata, la quale gli è legata al dito picciolo. Li putti che non sono da latte portano pure a cavallo, su alcune pergolette che sono di là e di qua coperte e lavorate secondo le lor condizioni. Le donne vanno a cavallo, accompagnate l'una con l'altra, con le lor fantesche e famigli avanti secondo il grado loro. Gli uomini da fatti seguono la persona del signore, e sono tutti di tanto numero che da un capo all'altro di questa gente è una meza giornata. Le donne vanno col volto coperto di tela tessuta di seta di cavallo, cosí per non esser vedute come eziandio per non ricever polvere negli occhi cavalcando per luogo polveroso, e per non essere offese nella luce cavalcando contra il sole quando è bel sereno.


La rassegna delle genti ch'erano col signore, col numero de' padiglioni, cameli,
muli e mandrie d'animali e piú altre cose.
Cap. 14.

Fu fatta in quel tempo la mostra della gente e degli animali, in questo modo: in una campagna grandissima fu circondata da cavalli, che l'uno toccava la testa dell'altro, con gli uomini su, parte armati e parte no, una superficie circa di 30 miglia, li quali stettero cosí dalla mattina insino a 24 ore. Era qualcuno ch'andava sopravedendo e facendo la descrizione: non però che togliesse in nota il nome né i segni de' cavalli, come si suol fare di qua, ma solamente domandava chi erano i capi, e guardavano il numero e com'erano in ordine, e scorreva. Io con un famiglio, scorrendo presto, andavo contando con alcuni grani di fava, i quali gittavo nella scarsella quando avevo numerata una cinquantina. Fatta poi la mostra feci la descrizione, e trovai il numero e qualità dell'infrascritte cose, le quali metterò secondo l'ordine ch'io ho in scrittura: padiglioni 6 mila, cameli 30 mila, muli da soma 5 mila, cavalli da soma 5 mila, asini 20 mila, cavalli da conto 20 mila.
Di questi cavalli circa duemila erano coperti di certe coperte di ferro a quadretti, lavorati d'argento e d'oro, legati insieme con magliette, le quali andavano quasi in terra; per sotto l'oro avevano una frangia. Gli altri erano coperti alcuni di cuoio al nostro modo, alcuni di seta, alcuni di giubbe lavorate tanto densamente ch'una freccia non l'avria passate. Le coperte da dosso dell'uomo erano tutte nel modo d'una delle soprascritte di ferro. Quelle ch'abbiamo detto prima si fanno in Beschent, che in nostra lingua vuol dire cinque ville, la qual è una terra che volge due miglia ed è su un monte, nella quale non abita alcuno salvo quelli dell'arte: e se alcun forestiero vuol imparar l'arte, è accettato con sicurtà di mai non si partir di lí, ma stare insieme con gli altri e far l'arte. Vero è che eziandio altrove si fanno simili lavori, ma non cosí sufficienti.
Muli da conto 2 mila, mandrie d'animali minuti 20 mila, animali grossi 2 mila, leopardi da caccia cento, falconi gentili e villani dugento, levrieri 3 mila, bracchi mille, astori cinquanta, uomini da spada 15 mila, famigli, camelieri, bazzariotti e simili, con spada 2 mila, con archi mille; possono essere in somma uomini a cavallo da fatti 25 mila, villani pedoni con spade e archi 3 mila, femine da conto e mezzane in somma diecimila, fantesche 5 mila, putti e putte da dodici anni in giú 6 mila, putti e putte in cune e pergole cinquemila. In questo numero d'uomini e cavalli sono lancie circa mille, targhette 5 mila, archi circa diecimila; il resto chi con una cosa chi con un'altra.
Ne' bazzari sono le cose sottoscritte con li loro prezzi e maestri, e primamente i maestri da far vestimenti, calzolai, fabri, maestri da selle, da freccie e da tutte le cose che bisognano al campo in gran numero. Poi sono quelli che fanno pane e tagliano carne, e che vendono frutti e vino e altre cose, con grandissimo ordine, che di tutto si truova; vi sono eziandio speziali assai. Il pane costa poco piú di quello che costa in Venezia; il vino costa a ragione di ducati quattro la nostra quarta, non perchè nel paese non ve ne sia, ma perchè in buona parte non ne usano. Carne a ragion di tre e quattro marchetti la libra, formaggio marchetti tre, risi marchetti 2 e mezo, frutti d'ogni sorte marchetti tre, similmente i melloni, dei quali se ne trovano che pesano libre 24 in 30 l'uno; biada da cavalli a ragion di marchetti otto la prebenda; la ferratura d'un cavallo a ragion di marchetti 36; di cinghie, feltri, corami, selle e altri fornimenti da cavallo è gran carestia. Cavalli da vendere non si trovano, salvo che ronzini, i quali vagliono ducati otto in dieci l'uno: vengono di Tartaria (come abbiamo detto di sopra) mercanti con cavalli 4000 in 5000 in un chiappo, i quali sono venduti da quattro, cinque in sei ducati l'uno, e sono da soma e piccioli.
Nel numero de' cameli soprascritti ne sono 8000 da due gobbe: hanno le lor coperte lavorate, con campanelle, sonagli e paternostri di piú sorti. Di questi (secondo la condizion delle persone) tal ne ha dieci, tal venti, tal trenta, legati uno in capo dell'altro, e per pompa ciascuno mena li suoi, né mai vi mette alcuno suso. Gli altri cameli da una gobba portano i paviglioni e le robe delli patroni in casse, sacchi e some; similmente nel numero dei muli soprascritti ne sono da 2000 che non portano cosa alcuna ma sono menati per pompa, coperti con coperte belle e lavorate meglio di quello che sono le coperte dei cameli. A questo istesso modo sono, nel numero de' cavalli soprascritti, da 1000 cosí adornati.
E quando si cammina di notte col popolo, uomini da conto, e similmente le donne, si fanno portare avanti lumiere al nostro modo, le quali sono portate da famigli e fantesche. Quando il signor cavalca, vanno avanti di lui cavalli 500 e piú, dinanzi ai quali vanno alcuni corrieri, con una bandiera in mano bianca e quadra, gridando: "Largo, largo", e tutti escono della strada facendo largo. Questo è una parte di quello che ho veduto circa il modo, ordine e degnità e pompa che usano queste genti col suo signore nel lor campo quando stanno alla campagna, ed è molto meno di quello potria dire.


D'una terra detta Soltania; d'una gran moschea che vi è dentro, particolarmente descritta. D'un'altra terra chiamata Culperchean. Della severità usata per il detto signor contra un suo suddito.
Cap. 15.

Io in quel tempo, per non mi sentir bene, mi parti' di campo e andai fuor di man circa meza giornata a Soltania, che in nostro idioma vuol dir imperiale. Questa è una terra la qual mostra essere stata nobilissima, ed è del detto signore: non ha mura, ma un castello murato, il quale è ruinato per essere stato distrutto già quattro anni avanti da un signore chiamato Giausa. Volge il castello un miglio; di dentro ha una moschea alta e grande, in quattro crociare di quattro volti alti, con la cuba grande, la quale è maggiore di quella di San Giovanni e Paolo da Venezia di tre tanta larghezza: uno dei quali volti in capo ha una porta di rame alta tre passi, lavorata a gelosie. Dentro vi sono sepolture assai delli signori che erano a quel tempo. Per mezo di questa porta n'è un'altra simile, e dai lati due altre minori, una per lato in croce, in modo che la cuba grande ha quattro porte, due grandi e due picciole, le balestrate delle quali sono di rame, larghe tre quarti di un braccio e grosse mezo braccio, intagliate col borio a fogliami e disegni a lor modo bellissimi, per dentro dei quali è oro e argento battuto, che in vero è cosa mirabile e di valore grandissimo. Le gelosie delle porte che ho detto di sopra stanno in questa guisa: sono alcuni pomi grandi come pani, alcuni piccioli come narancie, con alcuni bracciuoli i quali brancano l'un pomo e l'altro, come mi ricordo aver già veduto scolpito in legno in qualche luogo. La manifattura dell'oro e dell'argento è di tanto magisterio che non è maestro dalle bande nostre che gli bastasse l'animo di farla, se non in gran tempo. La terra è assai grande, circonda miglia quattro, è fornita bene di acque: e se da altro non si potesse comprendere, dal nome solo s'intende che è stata molto notabile. Al presente è male abitata: può far da anime 7000 in 10000 e forse piú.
Stando nella detta terra, fui avisato come il signore, avendo sentito quello di che ho fatto menzione di sopra, che un suo figliuolo aveva occupata Siras, si levava di lí con la sua gente per seguire il cammino verso Siras, e incontinente mi levai da Soltania, dove allora mi ritrovavo, e andai a Culperchean, che vuol dire in nostra lingua schiavo del signore; terra picciola, ma tale che mostra pur aver avuti di buoni edificii, per le ruine che vi si veggono. Volge due miglia, e fa fuochi circa 500. Nel qual luogo morí il mio interprete, e da quel tempo indietro, mentre ch'io stetti in quel paese, che fu circa cinque anni, mai trovai alcuno ch'avesse la lingua, e però fu necessario che io, il quale la intendeva, facessi l'ufficio dell'interprete, oltra il costume degli altri ambasciadori. Partito di lí me n'andai verso il signore, il quale sollecitava il suo cammino a Siras.
Un giorno, essendo con esso, viddi una gran severità di questo signore. Eravi appresso di lui uno chiamato Coscadam, di anni circa 80, gagliardo però della persona, il quale aveva da circa cinque over sei figliuoli, tutti onorati dal signore, ed esso era uomo di grado appresso il detto signore. Comandò che costui fusse preso, per avere inteso che Gorlumahumeth suo figliuolo, che aveva occupato Siras, gli aveva scritto alcune lettere, le quali esso non gli aveva voluto mostrare; e prima gli fece rader la barba, e poi comandò che fusse portato alla beccaria e che fusse spogliato e, tolti due uncini di quelli con li quali si appicca la carne, gli fussero ficcati dietro alle spalle uno per lato, e che cosí fusse appiccato a basso dove si appicca la carne, essendo tuttavia vivo: il quale de lí a due ore morí. E per quanto io intesi questo Gorlhumaumeth, inteso che 'l padre veniva a Siras, si era levato di lí e stavasi di fuora, e scriveva a un suo zio pregandolo che lo raccommandasse al padre, ch'egli era apparecchiato di stare dove il padre voleva, pur che gli desse da vivere.


La qualità della region di Persia. Il modo che usano Persiani di condur l'acqua di lontano quattro e cinque giornate. Superstizione che usano per guarir della febre e altre infirmità.
Cap. 16.

Tutta questa provincia della Persia fino a qui, per la via che noi abbiamo cavalcata, è paese deserto, cenericcio, cretoso, scoglioso e petroso e di poche acque: e di qui viene che dove si trovano acque sono qualche ville, in gran parte però distrutte, ciascuna delle quali ha un castello fatto di terreno. Le sementi, le vigne e i frutti sono fatti per forza di acque, in modo che dove non si hanno acque male vi si può abitare; sogliono menarle per sotto terra quattro e cinque giornate lontano dalli fiumi, d'onde le tolgono e le menano in questo modo. Vanno al fiume e fanno appresso una fossa simile a un pozzo, poi vanno cavando al dritto verso il luogo dove la vogliono condurre, con la ragion del livello, sí che abbia a descendere un canaletto il qual sia piú profondo che non è il fondo della fossa detta di sopra, e quando hanno cavato circa 20 passa di questo canaletto fanno un'altra fossa simile alla prima, e cosí di fossa in fossa menano per quei canali l'acqua dove che vogliono, over fanno (per dir meglio) l'alveo e acquedutto per il quale si possa menare. Quando hanno fornito quest'opera, aprono il capo della cava verso il fiume e le danno l'acqua, la quale per quei loro acquedutti conducono nella terra e dove vogliono, menandola per le radici dei monti e togliendola alta nel fiume, imperochè, se non facessero in cotal modo, non ci potriano stare, attendendo che quivi rare volte piove. Dicendo io a quelli dell'esercito che 'l paese loro era molto sterile, mi rispondevano che non mi dovessi maravigliare, perchè la via che facevano era fresca, nella qual si trovavano miglior erbe, ed era in paese molto piú sano.
In queste parti non ci sono boschi né arbori, dico pur uno, salvo che fruttari, che piantano dove gli posson dare acqua, che altramente non s'appigliariano. I legnami con li quali fanno le case sono albare, delle quali tante ne piantano in luoghi acquosi che sono bastanti al lor bisogno: e però hanno tra loro ottimi marangoni, i quali dalla necessità sono astretti a sparagnare; e d'un legno che volge due palmi, segato in tavole, fanno una porta di duo passa lunga, soazata e tanto ben lavorata di fuora via e ben commessa che certo è una maraviglia, e in questo modo fanno eziandio balconi e altri lavori all'uso domestico necessarii; vero è che di dentro via si veggono li pezzi. Di questi legni fanno eziandio le case. E a confermazione che non ci siano altri arbori né piccioli né grandi, né in monte né in piano, ho ritrovato alcune fiate uno arbusto de spini, al quale per un miracolo ho veduto legare pezze e stracci assai, con li quali si danno ad intendere di guarire da febre e altre infirmitadi. Nel campo, quantunque ci sia gente assai, non si truova uno che si lamenti: tutti stanno di buona voglia, cantano, sollazzano e ridono.


D'una terra nominata Saphan, e d'alcune notabili antichità che in essa si trovano. Della città detta Cassan, e i lavori che si fanno in quella. Di Como città e quello produce. Di Iexdi, e costumi di quei mercanti nel vender le lor robbe.
Cap. 17.

Seguendo il cammino trovammo una terra nominata Saphan, la quale è stata mirabile, e infino al presente è murata con terreno e fossi; volta circa miglia quattro, e mettendo in conto li borghi circa miglia dieci; nelli borghi sono cosí belli edificii come nella terra.
Intesi che, per esser numerosa di popolo e per aver molta gente da fatti e per esser ricca, qualche volta non dava cosí ubbidienza al suo signore; e che ora anni venti, essendo signor della Persia uno chiamato Giausa, il quale fu a questa terra per volerla mettere in ubbidienza, esso, acconciate le cose sue, si partí. Ma poco dopo, avendo ribellato, mandò il suo esercito, commandando a tutti quelli dell'esercito che nel ritorno portassero una testa per uno, saccheggiata e brusciata che avessero la terra; i quali ubbidirono alla polita, in tanto che, sí come io essendo in quelle parti senti' parlare a molti di quelli che erano stati in quello esercito, alcuni i quali non trovarono cosí teste di maschi si mettevano a tagliar le teste delle femine e le radevano il capo per ubbidire: di qui viene che tutta la ruinorno e dissiporno. Al presente per la sesta parte si abita. Ha molte antiquità grandi e notabili, fra le quali questa tiene il principato, che in essa è una cava quadra con acqua dentro alta un passo, viva e netta e buona da bere, d'intorno la quale è una riva, e attorno di essa colonne con li suoi volti, stanze e luoghi innumerabili da mercanti con le lor mercanzie: il quale luogo la notte si tien serrato per sicurtà delle robbe. Altre piú cose e lavori belli si ritrovano in questa terra, della quale al presente non dirò altro che questo, che in quel tempo (per quel che dicono alcuni) aveva da 150000 anime in suso.
Trovammo poi Cassan, città ben popolata, nella quale per la maggior parte si fanno lavori di seta e gottoni, in tanta quantità che chi volesse in un giorno comprar per 10000 ducati di questi lavori gli troveria; volge circa miglia tre, è murata, e di fuora ha bei borghi e grandi. Giugnemmo poi a Como, città mal casata, la quale volge sei miglia ed è murata; non è terra di mestiero, ma vivono di lavorar la terra, fanno vigne e giardini assai, e melloni perfettissimi, taluno dei quali pesa libre trenta: sono verdi di fuora e dentro bianchi, dolci quanto un zuccaro; fa fuochi ventimilia.
Seguendo piú oltra trovammo Iesdi, terra di mestieri, come sarian lavori di seta, gottoni, ciambellotti e altri simili; volge circa miglia cinque, è murata, ha borghi grandissimi, e quasi tutti tessono e lavorano di diversi mestieri. Delle sete che vengono da Strava e da l'Azi e dalle parti che sono verso i Zagatai, verso il mar di Bachú, le migliori vengono a Iesdi, la qual poi fornisce dei suoi lavori gran parte dell'India, della Persia, dei Zagatai, dei Cini e Macini, parte del Cataio, di Bursa e della Turchia, di modo che chi vuol buoni panni della Soria e belli e buoni lavori tolgono di questi. E quando va un mercante a questa terra per lavori va nel fontego, nel quale attorno attorno sono botteghini, e in mezo un altro luogo quadro pur con botteghe: ha due porte con una catena, acciochè in esso non entrino cavalli. Questo e altri mercanti entrano, e se vi cognoscono alcuni vanno a sedere lí; se non, seggono dove lor piace in questi botteghini, ciascun dei quali è sei piedi per quadro; e quando sono piú mercanti, seggono uno per botteghino. A un'ora di giorno vengono alcuni, con lavori di seta e d'altre sorti in braccio, e passano intorno non dicendo altro; ma i mercanti che stanno lí, se veggono cosa che piaccia loro, gli chiamano e guardanla da presso se gli piace: il pregio è scritto su una carta attorno il lavoro. Piacendogli il lavoro e il pregio, lo toglie e gittalo dentro nel botteghino. E queste cose si spacciano in un tratto senza far altre parole, imperochè colui che ha data la robba, conoscendo il patron del botteghino, se ne parte senza dir altro. E questo mercato dura fino a ora di sesta; a ora di vespero vengono i venditori e tolgono i lor dinari. Se qualche fiata non trovano chi compri le lor robbe per il pregio notato attorno, hanno costume di abbassare il pregio e ritornare un altro giorno.
Dicesi che quella terra vuole al giorno due some di seta, che sono al modo nostro libre mille di peso. Di lavori di ciambellotti e gottoni e altri simili non dico altro, perchè da quelli di seta che si fanno si può far stima quanto piú si faccia di quell'altre cose.


Della bella città di Siras, e delle mercanzie che vi si truovano.
Della terra detta Eré; di Cini e Macini provincie. Della provincia del Cataio:
la liberalità che si usa in quel paese verso i mercanti; del luogo ove sta il signore; il modo ch'egli tiene in spacciar gli ambasciatori; della sua gran giustizia.
Cap. 18.

Tutto il cammino fin qui fatto si drizza alla via di scirocco; tornerò per la via di levante, perchè, partito da Tauris, fin a Spahan son venuto quasi per levante. E prima dirò di Siras, terra di sopra nominata, la quale è l'ultima della Persia alla via di levante ed è terra grandissima: volge con i borghi da miglia venti; ha popolo innumerabile, mercanti assaissimi, perchè tutti li mercanti che vengono dalle parti di sopra, cioè da Eré, Sammarcant e da lí in suso, volendo venir per la via della Persia passano per Siras. Qui capitano gioie assai, sete, spezie minute e grosse, reobarbari e semenzine. È del signore Assambei, circondata di muri di terreno assai alti e forti e di fossi, con le sue porte, ornata di assaissime e bellissime moschee e case, ben adornate di mosaico e altri ornamenti; fa da 200000 anime e forse piú; si sta in essa sicuramente, senza vania di alcuno.
Partendosi di qua si esce della Persia e vassi ad Eré, terra posta nella provincia di Zagatai. Questa terra è del figliuolo che fu del soldano Busech: è grandissima, minor però un terzo che non è Siras; lavora di sete e d'altri lavori come Siras. Non dico dei castelli, terricciole e ville assai poste a questa via, per non aver cosa memorabile. Vassi poi per greco, camminando per luoghi deserti e sterili dove non si truovano acque, salvo che di pozzi fatti a mano; erbe poche si hanno, boschi manco: e dura questo cammino quaranta giornate. Poi si ritruova in quella istessa provincia di Zagatai Sanmarcant, città grandissima e ben popolata, per la qual vanno e vengono tutti quelli di Cini e Macini e del Cataio, o mercanti o viandanti che siano: in essa si lavora di mestieri assai, i signori della quale furon figliuoli di Giausa. Non passo piú avanti a questa via, ma, perchè l'intesi da molti, dico che questi Cini e Macini sono due provincie grandissime, e sono idolatri. La loro regione è quella dove si fanno i catini e le piadene di porcellana. In questi luoghi sono gran mercanzie, massimamente gioie e lavori di seta e d'altra sorte.
Di lí si va poi nella provincia del Cataio, della qual dirò quello ch'io so per relazione di uno ambasciador del Tartaro, il quale venne di là ritrovandomi io alla Tana. Essendo un giorno con lui a parlamento di questo Cataio, mi disse che, passando i luoghi prossimamente scritti, entrato che egli fu nel paese del Cataio, sempre gli furon fatte le spese di luogo in luogo, fin che giunse a una terra nominata Cambalú, dove fu ricevuto onorevolmente e datogli stanza: e cosí dice che sono fatte le spese a tutti li mercanti che passano de lí. Poi fu condotto dove era il signore, e gionto alla porta fu fatto inginocchiar di fuora: il luogo era a piè piano, largo e lungo molto, in capo del quale era un pavimento di pietra, e su esso il signore a sedere sopra una sedia, il quale voltava le spalle verso la porta. Dai lati erano quattro a sedere volti verso la porta, e da quella insino dove erano questi quattro, di qua e di là, stavano alcuni mazzieri in piedi con bastoni d'argento, lassando in mezo a modo d'una calle, nella quale per tutto erano alcuni turcimani, sedendo sui calcagni come fanno di qua da noi le femine. Ridotto l'ambasciadore a questa porta, dove ritrovò le cose ordinate nel modo scritto di sopra, gli fu detto che parlasse quel che esso voleva: e cosí fece la sua ambasciata, la quale i turcimani di mano in mano esponevano al signore, overo a quelli quattro che gli sedevano allato. Fugli risposto che fusse il ben venuto, e dovesse ritornare allo alloggiamento, dove se gli faria la risposta: per la qual cosa non gli fu piú bisogno ritornare al signore, ma solamente conferir con alcuni di quelli del signore, li quali erano mandati a casa e referivano di qua e di là quello faceva bisogno, di modo che presto fu spacciato e gratamente.
Uno dei famigli di questo ambasciadore e un suo figliuolo, i quali ambidui erano stati con esso, mi dissero cose mirabili della giustizia che si faceva in quel luogo; fra le quali questa ne è una, che essendo un giorno in madian, che vuol dire in piazza, a una femina che portava una zara di latte in capo uno venne e tolse la zara, e cominciando a bere lei si mise a gridare: "O povere vedove, a che modo possiamo portar le nostre robbe a vendere?" Subito costui fu preso e con la spada tagliato a traverso, in modo che si vedeva a un tratto uscire sangue e latte delle budelle. E questo istesso mi affermò poi il detto ambasciatore, e soggiunse che, lavorando certa femina gottoni a molinello, aveva tratto fuora una spuola e messola di dietro appresso di sé: uno che passava a caso di là tolse questa spuola e andossene a la buon'ora; ella si voltò e, veduto che l'ebbe, cominciò a gridare, e le fu detto: "Colui che va in là è quello che te l'ha tolta". Costui subitamente fu preso, e per il simile tagliato a traverso.
Dicesi che non solamente nella terra, ma di fuora d'ogn'intorno dove capitano viandanti, si truovano suso qualche sasso o altro luogo cose perdute per altri viandanti e per altri trovate, e che niuno è cosí ardito che gli basti l'animo di torle per sé. E di piú se uno, essendo in camino, fusse addimandato da qualcuno che esso avesse sospetto, o di chi troppo non si fidasse, dove va, andandosi a lamentare colui che è dimandato di tal parole e di cotal dimanda, bisogna che colui che ha domandato truovi qualche cagione lecita di questa sua domanda, altramente è punito. Per le qual cose si può comprendere che questa terra è terra di libertà e di gran giustizia.


Il modo che si osserva circa le mercanzie. Della moneta e religion de' Cataini. Della città detta Cuerch. Di una fossa d'acqua qual dicono aver gran virtú contra la lebra e contra le cavallette, e di alcuni uccelli ch'ammazzano le cavallette.
Cap. 19.

Circa il fatto delle mercanzie, intesi che tutti li mercanti che vengono in quelle parti portano le lor mercanzie in quei fonteghi, e li deputati a ciò le vanno a vedere, ed essendovi cosa che piaccia al signore pigliano quel che gli piace, dando loro all'incontro altre robe per il valsente di essa; il resto rimane in libertà del mercante. A minuto in quel luogo si spende moneta di carta, la quale ogn'anno si muta con nuova stampa, e la moneta vecchia in capo dell'anno si porta alla zecca, dove gli è data altratanta di nuova e bella, pagando tuttavia duo per cento di moneta d'argento buona; e la moneta vecchia si gitta in fuoco. L'argento e l'oro si vendono a peso, e si fanno anche di questi metalli certe monete grosse.
La fede di questi Cataini stimo che sia pagana, quantunque molti di Zagatai e d'altre nazioni le quali vengono di là dicano che sian cristiani; imperochè dimandandogli io in che modo sanno che siano cristiani, mi risposero che nelli lor tempii essi tengono statue come facciamo noi. Accadettemi nel tempo ch'io era nella Tana, stando il detto ambasciadore insieme con me, come ho detto di sopra, che mi passò davanti un Nicolò Diedo, nostro Veneziano vecchio, il quale alle fiate portava una veste di panno fodrata di cendado a maniche aperte (come già si usava in Venezia), sopra uno giuppon di pelle, con un capuccio in spalla e cappello di paglia in capo da soldi quattro. E incontinente, veduto che gli ebbe, detto ambasciadore disse con maraviglia: "Questi sono degli abiti che portano i Cataini; somigliano quelli della vostra fede, perchè portano l'abito vostro".
In quel paese non nasce vino, per essere la regione molto frigida; d'altre vettovaglie ve ne nascono assai. Questo, insieme con molte altre cose le quali di presente io lascierò, è quello ch'io so, per relazione del detto ambasciadore del Tartaro e delli suoi familiari, quanto appartiene alla provincia del Cataio, dove io personalmente non sono stato.
Tornerò da capo a Tauris, e cosí come di sopra ho detto quello che si truova camminando tra greco e levante, cosí di presente dirò quello che si truova camminando tra levante e scirocco. Prima noi ritroviamo una città la qual si chiama Cuerch, lassando certi castelli li quali si veggono prima che si arrivi a detta città, dei quali non abbiamo cosa alcuna memorabile da dire. In questa città è una fossa d'acqua nel modo di una fontana, la quale è guardata da quelli suoi thalassimani, cioè preti: quest'acqua dicono che ha gran virtú contra la lebra e contra le cavalette, dell'uno e dell'altro dei quali incommodi io n'ho veduto qualche non voglio dir esperienza, ma credulità di alcuni. In quelli tempi passò un Francioso con alcuni famigli e guide mori per quella via, il quale sentiva di lebbra, e per quanto intendemmo andava per bagnarsi nella detta acqua: quel che poi seguisse io nol so, ma publicamente si diceva che molti n'eran sanati. Essendo ancora io in quel paese, venne uno Armeno, mandato, molto avanti che io prendessi il cammino a quelle parti, dal re di Cipro per tor di quell'acqua. E di ritorno, essendo io nella campagna, due mesi dopo ch'io era giunto in Tauris, ritornò con quell'acqua in un fiasco di stagno, e stette con me due giorni; poi se n'andò alla sua via e ritornò in Cipro, nel qual luogo nella ritornata mia trovandomi io, vidi quello istesso fiasco di acqua appiccato su un bastone il quale era porto fuora di certa torre, e intesi dagli uomini del paese che per quell'acqua non avevano piú avute cavallette. Dove eziandio vidi alcuni uccelli rossi e negri, i quali si chiamano uccelli di Macometto, che hanno costume di volare in frotta come li stornelli, i quali, per quello ch'io intesi essendo pure in Cipro alla tornata mia, quando vengono cavallette, che se ne truovano, tutte le amazzano, e in qualunque luogo sentono essere di detta acqua volano verso esso, cosí come affermano tutti li paesani. Questa città Cuerch è picciola ma di passo, imperochè per essa passa chi va al mare, cioè al seno Persico.


Delle città di Ormus e Bagdeth. D'una sorte di pomi cotogni e granati differenti da' nostri, e che altri frutti produce detta Bagdeth. Della città di Calicut. D'una terra chiamata Lar e del fiume Bindumir.
Cap. 20.

In questo mare si ritrova una isola nella quale è una città nominata Ormus, lontana da terra ferma da 18 in 20 miglia: volge la isola circa miglia 60; la terra è grande e ben popolata. Non ha altr'acqua che quella dei pozzi e delle cisterne, e quando gli manca quella sogliono andare a torne in terra ferma, dove eziandio hanno le lor sementi. Paga tributo al signore Assambei; lavora lavori di seta assai. I mercanti che vanno de l'India in Persia, o di Persia in India, in buona parte danno di capo in quest'isola. Il signore si chiama soltan Sabadin: manda certe sue barche alla via dell'India a pescar ostreghe da perle, e ne prendono assai; ed essendo io ivi, due mercanti che venivano da l'India capitarono ivi con perle, gioie, lavori di seta e specie.
In questo colfo Persico mette capo l'Eufrate, fiume nominatissimo, sul quale circa sei giornate in suso è Bagadeth, cioè Babilonia vecchia, la quale è stata famosa, come ciascuno intende, se ben di presente in gran parte è distrutta: può far da fuochi diecimila, ed è abbondante del vivere. Ha de' frutti, come sariano dattali, pistacchi e altri simili, in gran quantità e molto buoni, fra li quali si ritrovano cotogni del sapore e grandezza delli nostri. Trovasi eziandio pur cotogni i quali non hanno quel duro di dentro che suole avere il cotogno, ma sono al mangiare come sariano peri ghiacciuoli, dolcissimi. Truovasi una sorte di pomi granati non troppo grandi, ma per la maggior parte con la scorza sottile, i quali si curano come si curano le narancie, e nelli quali né piú né meno si possono cacciar li denti come si faria in un pomo, imperochè non hanno quelle tramezadure in mezo, eccetto che un poco nel fondo: il sapore è misto di dolcezza con alquanto di garbetto, e sono o senza quel poco legnetto che hanno gli altri dentro del grano, o con cosí tenero che non si sente in bocca, né è bisogno di sputar niente fuora piú di quel che è chi mangiasse uva passa. Fanno ancora zuccari, e di essi buone confezioni, massimamente siroppi, dei quali ne forniscono la Persia e altri luoghi.
Ritornerò ad Ormus, e parlerò qualche cosetta dei luoghi i quali gli sono all'incontro, i quali sono di là dal detto colfo verso tramontana, la quale è dalla banda della Persia, e da l'altra parte è l'Arabia. In quei luoghi sono macomettani; il colfo è longo miglia 300 e piú, e i luoghi di là dal colfo che sono de l'India sono posseduti da tre signori macomettani: il resto de l'India tutto è posseduto da alcuni re macomettani. Andando a terra a terra via per scirocco e ostro, uscendo del colfo, si truova una città chiamata Calicuth, città di fama grandissima, la quale è come una stapola over ospizio di mercanti di diversi luoghi, come saria dire di quelle che vengono dentro al colfo, del Cataio e di tutte quelle parti, dove sempre si ritruovano navili assai e grandi, conciosiacosachè non faccia gran fatto fortune. La terra è di passo, mercantesca d'ogni ragione, grande e popolosa.
Ritornando su la riva predetta, all'incontro di Ormus, si ritruova una terra chiamata Lar: è terra grossa e buona, fa da 2000 fuochi ed è mercantesca e di passo, imperochè quelli che vanno e vengono per questo colfo sempre danno di capo a questa terra. Truovasi poi Siras, della quale abbiamo parlato di sopra, e scorrendo via si va ad una grossa villa chiamata Camarà; poi, una giornata lontano, si truova un ponte grande disopra il Bindamir, il quale è fiume molto grande: questo ponte si dice che lo fece fare Salomone.


Di un monte nella cui sommità è un mirabil edificio, con quaranta colonne di notabil grandezza e grossezza, e di molte figure che vi sono scolpite. D'una villa detta Thimar, e d'un'altra nella quale si dice esser sepolta la madre di Salamone, e di luoghi Dehebet e Vergau.
Cap. 21.

Alla villa di Camarà si vede un monte tondo, il quale da un lato mostra d'esser tagliato, e fatto in una faccia alta circa sei passa. Nella sommità del monte è un piano, e attorno vi sono colonne quaranta, le quali si chiamano Cilminar, che vuol dire in nostra lingua quaranta colonne, ciascuna delle quali è longa braccia 20, grossa quanto abbracciano tre uomini, una parte delle quali sono ruinate: e per quello che si vedeva fu già un bello edificio. Questo piano è tutto un pezzo di sasso, sul quale sono scolpite figure d'uomini assai grandi, come giganti, e sopra di tutte è una figura simile a quelle nostre che noi figuriamo Dio padre, in uno tondo, la quale ha un tondo per mano, e sotto la quale sono altre figure picciole; davanti la figura di un uomo appoggiato ad un arco, la qual si dice esser figura di Salomone. Piú sotto ne sono molte altre, le quali pare che tengono li lor superiori di sopra; e di questi minori uno è il quale par che abbia in capo una mitria di papa, e tien la mano alta, aperta, mostrando di voler dare la benedizione a quelli che gli sono di sotto, li quali guardano a essa e pare che stiano in certa aspettazione di detta benedizione. Piú avanti è una figura grande a cavallo, che par che sia d'un uomo robusto: questa dicono essere di Sansone; appresso la quale sono molte altre figure vestite alla francese, e hanno capelli lunghi. Tutte queste figure sono di un mezo rilievo.
Due giornate lontano da questo luogo è una villa nominata Thimar, e di lí a due giornate un'altra villa dove è una sepoltura nella quale dicono esser stata sepolta la madre di Salomone, sopra la quale è fatto un luogo a modo di una chiesiola, e sonvi lettere arabice le quali dicono, sí come da quelli di quel luogo intendemo: "Messer Suleimen", che vuol dire in nostra lingua tempio di Salomone; la porta del quale guarda in levante. Di lí a tre giornate si viene ad una villa chiamata Dehebeth, nella quale si lavorano assai terreni per produrre gottoni. Due giornate piú oltra si viene a un luogo detto Vargau, il quale per il passato fu terra grande e bella; di presente fa fuochi mille, e in esso si lavorano pur terre e gottoni come di sopra.


Di Deisser, Iesdi, Gnerde (ove abitano gli Abraini), Naim, Naistan, Hardistan, Como, Sava, Euchar, e piú altre terre, e quanto siano distanti una dall'altra;
e la quantità delle pernici che in quelle si trovano.
Cap. 22.

Quattro giornate piú in là si truova una villa nominata Deisser, e tre giornate di là un'altra villa nominata Tasté, dalla qual caminando una giornata si truova Iesdi, della quale abbiamo assai parlato di sopra. Di lí si va a Meruth, terra picciola, e due giornate piú in là è una villa detta Gnerde, nella quale abitano alcuni nominati Abraini, i quali, a mio giudizio, o sono discesi da Abraam, overo hanno la fede di Abraam: questi portano in capo capelli lunghi. Due giornate piú oltra si ritrova una terra la quale è chiamata Naim, terra male abitata: fa da 500 fuochi; di là della quale due giornate si trova una villa detta Naistan, e di lí a due giornate Hardistan, terra picciola, la qual può fare da 500 fuochi, tre giornate lontano della quale si vede Cassan, della quale abbiamo parlato di sopra; e di lí a tre giornate Como sopra nominata; una giornata lontano Sava, la quale fa da fuochi mille: in tutti li quai luoghi si lavorano terre e fanno lavori di gottoni. Tre giornate lontano da Sava si truova una terra picciola chiamata Euchar, e tre giornate che si facciano piú in là Soltania detta di sopra, della quale sette giornate lontano è Tauris.
Da questo luogo ancora chi si partisse e andasse sopra il mare di Bachú per la parte di levante, la quale è della provincia di Zagatai, troveria le infrascritte terre: da Tauris a Soltania sette giornate, da Soltania ad Euchar tre giornate, da Euchar a Sava quattro giornate, da Sava a Coi (terra picciola) sei giornate, da Coi a Rhei (terra picciola e male abitata) tre giornate, da Rhei a Sarri (pur terra picciola) tre giornate, da Sarri a Sindan (terra picciola) quattro giornate, da Sindan a Tremigan (terra picciola) quattro giornate, da Tremigan a Bilan sei giornate. Poi si trova Strava, della qual si denominano le sete chiamate stravaine: questa terra è appresso il mar di Bachú, ha sito non molto sano, fa poco frumento; il suo mangiare è di risi, dei quali eziandio ne fanno il pane. Nella quale, e in tutte a lei sottoposte, in ogni luogo dove si ritrovano acque, fanno e traggono la seta de' fillisei; e per le ripe di quei fiumi sono le loro casuppole con le lor caldare della seta, imperochè tengono gran quantità di vermi da seta, e hanno gran copia di morari bianchi. In questi luoghi si ritrovano pernici innumerabili, di modo che, quando il signore o altra nobil persona fa pasti, si cuocono di queste pernici, e a ciascuno si dà una scodella di risi e due pernici: di maniera che tutto il popolo mangia pernici, le quali appresso di loro non sono in pregio. In sul lito del predetto mare si trovano piú terre, cioè Strava, Lahazibenth, Mandradani e altre, le quali al presente non dico; e in queste terre sono le miglior sete che venghino di quel luogo.


I luoghi che si trovano caminando da Trabisonda a Tauris: di Trabisonda città, Baiburth, Arzengan; d'un ponte di pietra di archi 17 fatto sul fiume Eufrate; di Carpurth, Moscont, Thene, Halla, Pallu, Amus, e le cose che producono.
Cap. 23.

Non mi pare inconveniente, essendo in luogo assai vicino, di voler dir eziandio quello si trova andando da Trabisonda a Tauris, caminando per scirocco. E primamente di Trabisonda dico che è stata una buona e grossa terra sul mar Maggiore, il cui signore per avanti aveva titolo d'imperatore, imperochè era fratello dell'imperatore di Costantinopoli, e voleva anch'egli esser chiamato imperatore: dalla qual cosa procedette che i successori, quantunque non fussero fratelli dell'imperatore, di mano in mano si hanno dato o (per dir meglio) tolto questo titolo d'imperio. Di questa terra non dico altro, per essere assai nota a tutti. Partendo da essa per andare a Tauris, e come abbiamo detto di sopra caminando per scirocco, si trovano molte ville e castellucci; vassi eziandio per monti e per boschi disabitati. Il primo luogo notabile che si trova è un castello in piano, in una valle d'ogn'intorno circondata di monti, nominata Baiburth: castel forte e murato, di territorio molto fruttifero. Può fare da basso del castello da 1500 fuochi; è del signore Assambei.
Cinque giornate piú in là si trova Arzengan, la quale è stata gran città, ma di presente per la maggior parte è destrutta. Caminando tra levante e sirocco due miglia piú in là si trova lo Eufrate, fiume nominatissimo, il quale si passa per un ponte di pietra cotta di 17 archi, bello e grande. Poi si trova un castello nominato Carpurth, il quale è cinque giornate lontano da Arzengan. In questo luogo era la moglie del signore Assambei, quella che fu figliuola dell'imperator di Trabisonda, detta Despinacaton. È luogo forte, e la maggior parte è abitata da Greci e caloieri assai, i quali stanno in compagnia della detta donna. Trovansi in via molte ville e castellucci; poi si trova un castello detto Moschont e un altro detto Halla e un altro detto Thene, tutti forti e ben murati, ciascuno dei quali ha da basso circa 500 fuochi, e a parte dei quali va da presso un fiume grosso, il quale si passa con le barche, e viene non molto lontano da Carpurth sopranominato. I popoli abitanti sotto le giurisdizioni di questi castelli sono nominati Coinari, che in nostra lingua vuol dire mandrieri.
Poi, caminando alla via di levante, si arriva a un castello murato il quale è su un sasso, chiamato Pallu: fa da basso da 300 fuochi, di sotto il quale passa un fiume. Andando pur per la via di levante quattro giornate piú in là si arriva ad un castello nominato Amus, il quale è in campagna, male abitato. In tutto il paese di Trabisonda e nei confini si fanno vini assai: le vigne se ne vanno per gli arbori senza esser bruscate; una delle nostre botte continovamente in quel luogo val meno d'un ducato. Li boschi sono pieni di nocelle, della sorte di quelle di Puglia, e d'altri frutti assai buoni. In alcune parti fa certi vini nominati zamora.


D'un castello nominato Mus e d'un altro detto Alhart. Di Ceus, Herzis e Orias castello. Di tre laghi, con l'ampiezza di quelli. Di Tessu e Zerister città, e i lavori che in detti luoghi si fanno.
Cap. 24.

Di là si entra nella Turcomania, la quale era prima Armenia maggiore. Ora quelli che nascono in essa sono chiamati Caracoilú, che vuol dir in nostra lingua castroni negri, cosí come la provincia di Persia e di Zagatai si chiamava Accorlú, che vuol dire nel nostro idioma castroni bianchi: i quali nomi tra loro sono nomi di parte, come saria a dir tra noi rosa bianca e rosa rossa, over guelfi e ghibellini, over zamberlani e strumieri, sotto i quai titoli vi sono grandi partigiani. Trovasi poi un castello nominato Mus, fra certe montagne, piccolo ma forte, il quale è posto in monte, ha da basso una città che volta circa tre miglia, e fa popolo assai. Tre giornate piú in là si trova un luogo detto Alhart, bel castello e forte, il quale è sopra un lago longo miglia centocinquanta, e dove è piú largo è largo cinquanta miglia. Dalla parte di tramontana, lontano da questo lago miglia quindeci, si trova un altro lago, il quale volge circa miglia ottanta, attorno del quale vi sono alcuni castelli. Sotto Alhart è una terra, la qual fa da mille fuochi. In ambidui questi laghi sono molti navilii, i quali navigano nel mar Caspio al lor viaggio; evvi ancora sopra questo secondo lago una terra nominata Ceus, buona terra e murata.
Una giornata lontano andando per la marina si trova una terra detta Herzis, la quale ha un fiume che si passa per un ponte di cinque volti; e da Ceus fino ad Herzis sono 4 altri ponti simili a questo, per i quali si passa il fiume. In Herzis è la sepoltura della madre di Giausa, che fu signore della Persia e di Zagatai. Lontano da questo lago miglia 5 si va ad Orias, castello forte posto sopra un monticello. Il lago continua per levante meza giornata, nella qual si va a Coi città, non quella della quale abbiamo parlato di sopra, ma un'altra di quel nome; cinque giornate lontano dalla quale si trova una campagna dove è una gran città, altre volte destrutta per il Tamberlano. Trovansi eziandio molte ville, e dietro ad esse un altro lago, longo miglia 200 e largo miglia trenta, nel quale vi sono alcune isole abitate. Finalmente si trovano due città, Tessu e Zerister, le quali tra ambedue fanno da tremilia fuochi. Altre cose memorabili non abbiamo vedute in questi luoghi, salvo che in tutti si fanno lavori di gottoni, di tele, di canape, di grisi, di schiavine assai, e qualche poco di lavori di seta. Hanno carne assai, massimamente di castroni, e vini e altri frutti assai, i quali essi conducono in mar Maggiore, nelle terre che sono lí attorno.


Della città Sammachi e del signor di quella. Di Derbent parimente città, altramente detta Thamicarpi, e per qual cagione, e del suo sito. De' popoli detti Caitacchi.
Cap. 25.

Tornando da capo a Tauris, e caminando per greco e levante, e scorrendo qualche volta per tramontana, e toccando un poco di maestro, pretermettendo eziandio tutto quello che si trova in mezo, per non essere terre da conto né degne delle quali si faccia menzione, dico che dodici giornate lontano si truova Sammacchi, la qual città è nella Media, nel paese di Thezichia, il signor della quale si chiama Sirvansa. Faria questa terra ad un bisogno da otto in diecimillia cavalli. Confina sul mar di Bachú per giornate sei, il quale gli è a man dritta, e con Mengrelia da man sinistra verso il mar Maggiore e Caitacchi, i quali sono circa il monte Caspio. Questa è buona città: fa da quattro in cinquemila fuochi; lavora lavori di seta e gottoni e d'altri mestieri, secondo i lor costumi. È l'Armenia grande, e buona parte degl'abitatori sono armeni.
Partendo di qui si va a Derbent, terra (come si dice) edificata da Alessandro, la qual è sul mar di Bachú, un miglio lontana dal monte, e ha sul monte un castello, e poi se ne viene al mare con due ale di muro insino in acqua, di modo che le teste dei muri sono due passa sotto acqua; la terra è da una porta all'altra larga mezo miglio, i muri della quale sono di sassi grandi alla romana. Derbent in nostro idioma vuol dir stretto, e da molti i quali intendono la condizione del luogo è chiamato Thamircapi, che vuol dir in nostra lingua porta di ferro: e certo che colui che gli pose questo nome gli pose nome molto conveniente, conciosiachè questa terra divida la Media dall'Albania, che ora è parte di Tartaria, di modo che chi vuol partir di Persia, di Turchia, di Soria e delli paesi che si trovano di lí in suso, e passar nella Tartaria, convien ch'entri per una porta di questa terra ed esca per l'altra; la qual cosa, a chi non intendesse il sito dei luoghi, pareria mirabile e poco meno che impossibile.
La cagion di questo è che dal mar di Bachú al mar Maggiore per via dritta (come saria per l'aere) sono cinquecento miglia, e tutto questo terreno è pieno di montagne e di valli, bene abitate in qualche luogo d'alcuni signorotti, nelli cui territorii nessuno è che ardisca d'andare, per paura di non esser rubati; ma nella maggior parte sono disabitate. Onde, quando qualcuno deliberasse (volendo far questo camino) di non passar per Derbent, gli saria necessario andasse prima in Zorzania, poi in Mengrelia, la qual è sul mar Maggiore, ad un castello nominato Alvati, dove si trova una montagna altissima; e lí converria che lasciasse i cavalli e che se n'andasse a piedi su per brichi, tanto che tra l'ascendere e descendere caminasse due giornate, e poi a basso troverebbe la Circassia, della quale abbiamo parlato di sopra nella prima parte. Il qual passo è usato solamente da quelli che stanno alli confini, né per quella distanzia s'intende ch'alcuno vi passi, da essi in fuori, per esser luogo incommodissimo. Onde (tornando a proposito) la cagion del stretto è che il mare mangia infino là presso la montagna dove è Derbent; di lí avanti è spiaggia e molto poco terreno: ed è questo stretto lungo circa miglia sessanta, pur alquanto abile a cavalcare. Da là indietro, voltando a man sinistra, il monte volta, e puossi andar sopra il monte, il quale anticamente si nominava monte Caspio: dove si riducono i frati di S. Francesco e qualche nostro prete alla latina. Li popoli che abitano in questi luoghi si chiamano Caitacchi, come è detto di sopra: parlano idioma separato dagli altri; sono cristiani molti di loro, dei quali parte fanno alla greca, parte all'armena e alcuni alla catolica.


D'una città detta Bachal. D'una montagna che butta olio negro. Del signor Tumambei, e di che maniera siano le case sotto la signoria di quello. Il modo della visita che si faceva ad un figliuol dell'imperator tartaro, che si ritrovava appresso il signor Tumembei. Della crudeltà che usò certa setta de macomettani contra cristiani.
Cap. 26.

Sul mare da questa parte è un'altra città nominata Bacha, dalla quale è detto il mare di Bacha, appresso la quale è una montagna che butta olio negro di gran puzza, il qual si adopera ad uso di lucerne la notte, e ad unzione di cameli due volte l'anno, perchè non gli ungendo diventano scabiosi. Nella campagna del monte Caspio signoreggia un Tumambei, che in nostra lingua vuol dire signore di diecimila, sotto la signoria del quale s'usano case della forma di una berretta, simili in tutto e per tutto a quelle delle quali abbiamo parlato nella prima parte, fatte d'un cerchio di legno forato intorno intorno, di diametro d'un passo e mezo, nel qual ficcano certe bacchette che nella parte superiore tutte divengono in uno circuletto piccolo, e poi tutto cuoprono di feltro o di panni, secondo la lor condizione; e quando non piace loro d'abitare in un luogo, tolgono le dette case e le mettono su carri, e vanno ad abitare altrove.
Ritrovandomi io da questo signore, giunse lí un figliuolo dell'imperator tartaro, il quale aveva tolto per moglie una figliuola di questo signore, il padre del quale nuovamente era stato scacciato di signoria. Costui si era posto in una di simil case e stavasi a sedere in terra, e alla giornata era visitato da alcuni del suo paese, e ancora da qualcuno del paese dove si ritrovava. Il modo di questa visitazione era che, quando giungevano appresso la porta un tiro di pietra con mano, se avevano arme le mettevano in terra, e fatti alcuni passi verso la porta s'inginocchiavano: e questo facevano due e tre volte, andando sempre piú avanti, pur che stessino da lontano almeno dieci passa; e in quel luogo dicevano il fatto loro, e avuta che avevano la risposta ritornavano indietro, non voltando le spalle al signore. Io fui qualche volta col signore Tumambei, la vita del quale, per quello ch'io vidi, era un continuo stare in bevarie: e beveva vino di ottimo mele.
Poi che abbiamo detto delle cose del monte Caspio e della condizione di quelli che abitano lí intorno, non sarà mal fatto, e reputo che sia a proposito della nostra fede, che io reciti una istoria intesa novamente da un frate Vicenzo dell'ordine di San Dominico, nato in Capha, il qual era stato mandato per certe facende nelle parti di qua, e partí già mesi dieci da quelle parti. Disse costui che si partí del paese del soldano certa setta di macomettani, con fervor della sua fede gridando alla morte de' cristiani, e quanto piú camminavano verso la Persia piú s'ingrossavano. Questi ribaldi presero la via verso il mar di Bachú e vennero a Sammachi, e poi in Derbent e di lí in Tumen, ed erano parte a cavallo e parte a piedi, parte armati e parte senza arme, in grandissimo numero. Capitorno ad un fiume nominato Terch, che è nella provincia di Elochzi, ed entrorno nel monte Caspio, dove sono molti cristiani catolici: e in ogni luogo dove hanno trovato cristiani, senza alcuno rispetto hanno morti tutti, femine, maschi, picciolini e grandi. Dopo questo scorsero nel paese di Gog e Magog, i quali pur sono cristiani ma fanno alla greca, e di questi fecero il simile. Poi tirorno verso la Circassia, camminando verso Chippiche e verso Carbathei, che ambidue sono verso il mar Maggiore, e similmente fecero in quei luoghi, insin che quelli di Tetarcossa e di Cremuch furono alle mani con essi, e li ruppero con tanto gran fracasso che non ne scamparono venti per centenaio, i quali fuggirono alla malora nel lor paese. Sí che potemo intendere a quanto mala condizione si ritrovano i cristiani che abitano ivi intorno. Questo fu del 1486.
Dirò di Derbent una cosa la qual par maravigliosa: da una porta andando a questo luogo insino sotto le mura, si trovano uve e frutti d'ogni sorte, e specialmente mandole; dall'altra porta non sono né frutti né arbore alcuno, eccetto che cotognari salvatichi, e questo dura per dieci, quindici e venti miglia da quel canto, e ancora piú oltra. Vidi, essendo in quel luogo, in un magazino due ancore di ottocento e piú libre l'una, che mi dimostra nel passato essere stati usati in quelle parti navilii molto grossi; al presente le maggiori ancore che si trovano sono 150 per insino a 200 libre l'una.


Come il signor Assambei andò contra la Zorzania e, depredati alcuni luoghi, venne in composizione col re di quel paese e col re Gargara, che confina con lui. Di Tiflis e Gory, luochi della Zorzania. Di Scander, Loreo, Gori. Del monte Noè. Del castello detto Cagri.
Cap. 27.

Avendo narrato fin qui quelle cose che appartengono a quelle regioni, delle quali una parte ne ho udite, ma la maggior parte con gli occhi proprii ho vedute, ritornerò a Tauris, e narrerò quello che feci col signore Assambei, il quale, partendosi da Tauris, fece sparger voce di voler andar contra l'Ottomano, quantunque io per segnali che vedevo non lo credessi. Eravamo in tutto, quanto posso stimare, uomini da fatti a cavallo da 20 in 24000, uomini da fatti a piedi da quattro in cinquemila, uomini che venivano per sussidio del campo circa seimila; di donne, putti e famigli non dico altro, per averne detto sufficientemente di sopra. Adunque, camminato che avemmo giornate sette, ci voltammo a man dritta incontra la Zorzania, nelli confini del mar Maggiore, nella quale entrammo perchè il signore aveva volontà di depredarla. Il quale mandò avanti li loro corridori, secondo il lor costume, che furono da cavalli cinquemila, i quali si facevano piú avanti che potevano tagliando e bruciando i boschi, imperochè avevamo da passare montagne grandi e boschi grandissimi. Noi vedevamo i fuochi da lontano e sapevamo che via avevamo da tenere, e insiememente trovavamo la via fatta. Due giornate dentro alla Zorzania giungemmo a Tiflis, la quale, per esser non solamente essa ma tutta la regione di questa parte di qua abbandonata, avemmo senza contrasto.
Passando piú oltra andammo a Gori e ad alcuni altri luoghi circonstanti, i quali tutti furono depredati: e fatto quest'istesso d'una gran parte della regione, il signor Assambei venne a composizione col re Pancrazio, re della Zorzania, e con Gorgora, il qual confina con questo re, che gli dessero 16000 ducati, e lasseria loro tutto il paese eccetto Tiflis. Onde, volendo pagare il re Pancrazio e Gorgora questi danari, mandorno quattro balassi, i quali erano ragionevoli, non cosí grandi né cosí belli come quelli che si mostrano su l'altar di San Marco in Venezia, ma di quella sorte. Il signore Assambei, avuti questi quattro balassi, mandò per me, che io gli dovessi vedere e stimare: e prima ch'io andassi dal detto signore, gli ambasciadori del re Pancrazio e di Gorgora, che avevano portati li balassi, mi mandarono a dire ch'io dovessi far buona stima, essendo ancora essi cristiani. Giunto ch'io fui al signore mi fece dar quelli balassi, e guardandone uno diligentemente fui dimandato dal signore Assambei quel che valeva quello; e rispondendogli: "Signor, egli vale 4000 ducati", ei se ne rise e disse: "Sono molto cari nel tuo paese, non voglio balassi ma voglio danari". Le anime che in quel tempo furon tolte de' detti luoghi dicevano esser da quattro in cinquemila. I luoghi i quali noi scorressimo furono a man manca, verso la region di Gorgora: Cotathis, castello del re Pancrazio, il quale ha una terricciola sopra un monticello con un fiume davanti che si chiama il Fasso, già nominato Phasis, che mette nel mar Maggiore, e si passa per un ponte di pietra assai grande; Scander, castello assai forte, e giornate quattro lontano da Gori, il qual ha un fiume assai grande.
Poi, passata un'alta montagna, ritornammo nel paese d'Assambei, il quale è nell'Armenia maggiore, e tre giornate lontano ritrovammo il castello Loreo, quattro giornate lontano dal quale trovammo il monte di Noè, quello dove l'arca dopo il diluvio si riposò, il quale è sopra un monte altissimo, che ha una gran pianura che può volger due giornate: continuamente il verno e l'estate ha neve su; davanti del quale è un monte picciolo, anch'egli carico di neve. Due giornate lontano è un castello nominato Cagri, e questo è abitato dagli Armeni d'ogn'intorno, i quali fanno alla catolica; e ha piú ville intorno, che tutte fanno alla catolica, e monasterii, il principal dei quali si chiama Alengia. Ha da cinquanta monachi osservanti della regola di San Benedetto; dicono messa al modo nostro nella lor lingua. Il prior del detto monastero, dopo la ritornata mia a Venezia, mancò, e venne uno di quelli di lí, il quale capitò a San Giovanne e Paulo in Venezia, e mi venne a ritrovare a casa, per esser raccomandato, mediante la intercession mia, dalla illustrissima Signoria nostra al sommo pontefice, che lo facesse priore del detto monastero, imperochè era fratello del prior morto.


Della morte del signor Assambei, e come tre de' suoi figliuoli fecero strangolar il quarto loro fratello e, divisa tra lor tre la signoria, il secondo fratello fece ammazzar il maggiore. De' castelli Cymis Cassegh e Arapchir. Della città chiamata Malathia. Quello intravenne a messer Iosafa con un gabelliero e con certi Mamalucchi. D'un luoco detto Syo.
Cap. 28.

Fatta ch'ebbe il signor Assambei col re Pancrazio e Gorgora la sopradetta composizione, e avuto ch'ebbe i ducati 16000, deliberò di ritornare a Tauris; e io, il qual vedevo che non aveva un minimo pensiero d'andar contra l'Ottomano, presi licenzia, con intenzion di ritornarmene a casa per la via di Tartaria. E me ne veniva con uno ambasciador del detto signor Assambei, accompagnato da molti Tartari mercanti, dai quali intesi quello ch'io ho scritto nella prima parte, che Hagmeth figliuolo di Edelmulg, nepote dell'imperator de' Tartari, dopo la morte del padre era fatto grande appresso il detto imperatore, il quale Hagmeth dal proprio padre m'era stato dato per figliuolo; e desideravo di seguire il cammino a quella via, rendendomi certo che da lui averia avuto ottima compagnia. Ma, per le guerre le quali erano in quelle parti, non mi bastò l'animo di seguire il cammino, onde mi fu necessario di mutare il pensiero e ritornare a Tauris, la qual cosa fu del 1478.
Tornato ch'io fui ivi, ritrovai il signor Assambei infermo, il quale la notte dell'Epifania morí. Aveva quattro figliuoli, tre d'una madre e uno d'un'altra: quell'istessa notte li tre fratelli uterini fecero strangolare il quarto, che non era uterino, giovane di venti anni, e fra lor tre partirono la signoria; dapoi il secondo fratello fece ammazzare il maggiore, e rimase lui signore, di modo che signoreggia fino al presente. Essendo le cose tutte in combustione, io, che avevo avuto buona licenzia dal padre, e dai figliuoli vivendo il padre, mi accompagnai con uno Armeno, il quale andava in Arsengan, dove egli abitava. Menai con me un garzon schiavone, il qual solo mi restava di tutti quelli ch'io avevo menati con me in quel paese. Mi vesti' dei drappi che io avevo poveri e miserabili, e cavalcammo di continuo con celerità, per il dubbio che avevamo delle novità, le quali sogliono accadere quando muoiono simili signori. A' 29 d'aprile giungemmo in Arsengan, nel qual luogo stetti circa un mese, aspettando una caravana che andava in Aleppo. Partendo da questo luogo ritrovammo Cimis Casseg, Arapchir, che sono castellucci. Poi giungemmo ad una città nominata Malathia, la quale è buona e mercantesca, da Arsengan alla quale sono montagne e valli assai, e vie petrose e cattive: vero è che pur si ritrovano alcuni casali e luoghi abitati, ma non molti.
Essendo in questa terra in uno fondaco, con quelli della caravana coi quali mi ero accompagnato, colui della gabella, il quale era ivi, andava sopravedendo chi erano quelli che dovevano pagare. E io in questo mezo me ne stavo in un luogo rimoto aspettando che la caravana si levasse, ed ecco che uno della detta caravana mi si fece appresso e disse: "Che fai tu? Quel della gabella vuol che tu paghi cinque ducati, perchè ha inteso che tu vai a Goz (che in nostro idioma vuol dire Gierusalem); va' a far tua scusa". Andai, e trovai che sedeva su un sacco, e dimandai quel che egli voleva da me. Rispose: "Va, paga cinque ducati". E dicendogli tutti quelli della caravana (perchè cosí avevano inteso da me) ch'io andava a Sio a trovare uno mio figliuolo, e iscusandomi, pur voleva costui ch'io pagassi. Sio è luogo molto nominato nella Persia, e in tutte quelle parti è chiamato Sephex, che vuol dir in nostro idioma mastico, perchè lí nasce il mastice, il quale in quelle parti è molto adoperato. In questo mezo uno il quale, per quello ch'io stimavo, doveva esser domestico di questo della gabella, disse: "Deh, lassalo stare"; ed egli: "Voglio che paghi", stando tuttavia col capo inchinato a terra. Onde colui gli dette delle mani sotto il naso e dissegli: "Va' col diavolo". E incontinente gli cominciò a uscire il sangue del naso, e colui della gabella disse a quello che gli aveva dato: "O matto, sempre tu fusti matto", e tirandomi fuor della turba disse: "Vatti con Dio". E io montai a cavallo e andai con la caravana. Questa Malathia è del soldano.
Camminando trovammo piú castelli e ville e belli paesi, e passato l'Eufrate giungemmo in Aleppo, della qual terra non parlerò, per esser luogo assai domestico e molto noto: è terra grandissima e molto mercantesca. Partendomi da quel luogo mi fu dato per li nostri mercanti uno mucharo, che vuol dire in nostro idioma guida, col quale io e il famiglio ci partimmo per venire alle marine, cioè a Baruto. Essendo su la marina per mezo Tripoli trovammo una gran frotta di Mammalucchi, i quali giuocavano all'arco, alcuni dei quali, visto ch'ebbero la guida, cominciarono a stringere li lor cavalli per andarmi avanti. Io, che mi accorsi che avevano voglia di farne qualche male, comandai al famiglio che dovesse andare avanti insieme con la guida, e pian piano io gli veniva dietro. Giunto ch'io fui appresso questi Mammalucchi, i quali già m'erano andati avanti per due tratti d'arco, passai di lungo un pochetto, e incontinente uno di essi mi chiamò e dissemi: "Padre, odi". Io, mostrandomi di buona ciera, mi accostai e dissigli: "Che vi piace?" Ed egli a me: "Dove vai?" Al quale dissi: "Vo dove la mia mala fortuna mi porterà". Mi domandò per che cagione io usava simili parole, e io gli risposi che l'anno passato avevo venduto un ligaccetto di seta a certo mercante, e ora era venuto in Aleppo per avere i miei danari, e non l'avendo trovato avevo inteso che gli era andato a Baruto, sichè andava cercando la mia povertà. Mossesi a pietà, udito che ebbe questo, e disse: "O poveretto, andate con Dio". Io tolsi del cammino e raggiunsi la guida, che come mi vidde incominciò a ridere e dire: "Ha, ha, ha", volendo per questo significare ch'io avevo saputo uscire delle mani di quei Mammalucchi, imperochè né egli sapeva turchesco né io moresco. In questo giungemmo a Baruto, e ivi a pochi giorni venne una nave di Candia, con la quale di suo ritorno passai in Cipro, e di quel luogo, con l'aiuto del Signor Dio, me ne venni a Venezia.


Della superstizione d'alcuni. Il costume di quelle genti quando si fa la commemorazione de' morti, e delle lor sepolture.
Cap. 29.

Parmi ragionevole, dapoi ch'io ho detto le cose appartenenti al cammino, ch'io dica eziandio le cose appartenenti alcune a soperstizione, e alcune a simulazione di religione, e alcune alla mala compagnia che hanno li cristiani in quei luoghi ch'io viddi. Essendo adunque per camminare verso Sammacchi, alloggiai a uno spedaletto nel quale era una sepoltura, sotto un volto di pietra; appresso questa sepoltura era un uomo di tempo, con barba e capelli lunghi, nudo, salvo che con una pelle era un poco coperto davanti e di dietro, il quale stava a sedere in terra sopra un pezzo di stuora. Io lo salutai e dimandai quel ch'esso faceva: mi rispose che vegghiava suo padre, e io gli domandai chi era suo padre. Ed egli a me: "Padre è chi fa bene al prossimo; con questo che è in questa sepoltura io sono stato trenta anni, hogli fatto compagnia in vita, e gliela voglio fare ancora dopo la morte, di modo che voglio, quando morrò, esser sepelito ancora io in questo luogo. Ho veduto del mondo assai, ora ho deliberato di star cosí fino alla morte".
Un altro, ritrovandomi in Tauris il giorno della commemorazion dei morti, nel qual giorno eziandio appresso di loro era la commemorazion de' morti, viddi stando in un cimiterio un poco lontano, che stava a sedere appresso una sepoltura e aveva molti uccelli addosso, ma specialmente corvi e cornacchie; e credendomi io che fusse un corpo morto, dimandai a quelli che erano meco che cosa era quella ch'io vedevo: mi risposero che era un santo vivo, a cui non si trovava in quel paese un altro simile. "Vedete voi quelli uccelli? Ogni giorno vanno a mangiar ivi, e come egli ne chiama uno egli viene, perchè è un santo". E soggiunse: "Andiamo piú presso, che vederete". Andammo adunque appresso di lui meno d'un tratto di pietra con mano, e vedemmo che aveva certi scodellotti di vivande e d'altri cibi, e che questi uccelli gli volavano fino nel volto per mangiare, ed egli li cacciava via con le mani, e qualche volta ad alcuno d'essi porgeva qualche cibo: del quale coloro mi dissero molti miracoli, secondo il giudicio loro, i quali appresso d'ognuno che abbia buono intelletto sono tutte pazzie.
Un altro ne viddi, essendo il signor Assambei nell'Armenia maggiore, che al presente si chiama Turcomania; un giorno che 'l detto signore era messo in ordine di levarsi per venire in Persia e andar contra il signor Giausa, signor della Persia e di Zagatai, insino alla città di Heré, e mangiava insieme con la sua corte, ne viddi un altro, il quale tirò d'un bastone che aveva in mano nelli catini ne' quali essi mangiavano, e disse alcune parole, e rottoli tutti (questo era matto di buona materia), il signore dimandò quello che aveva detto. Gli fu risposto da quelli che l'avevano inteso che aveva detto che 'l signor doveva esser vittorioso, e romper il nimico sí come egli aveva rotti quei catini. Il signore disse: "È vero?" E confermato che ebbero quelli che l'avevan detto che era vero, commandò che fusse governato insin ch'esso ritornasse, promettendogli che gli faria onore e buona compagnia. Andò, ruppe, conquassò e uccise il nimico, e prese tutta la Persia insino ad Heré, e ridusse tutti d'ogn'intorno a sua ubbidienzia; e non si essendo dimenticato della promessa, lo fece raccogliere e trattare onorevolmente. Otto mesi dopo la detta vittoria io mi ritrovai ivi, e viddi in che modo era trattato. Costui ogni giorno, a tutti coloro che a ora debita andavano alla sua porta (fussero in quanto numero si volessero), faceva dar da mangiare, facendogli prima sedere in modo d'un circolo: e mettendo una volta con l'altra, non eran né meno di 200 né piú di 500, ed egli ogni giorno aveva da vivere e da vestire assai bene. Quando il signore cavalcava per le campagne, era messo su un mulo con un subo in dosso, con le braccia e mano sotto il subo, le qual mani gli erano legate davanti, perchè alle fiate era usato di far qualche pazzia pericolosa; a piedi gli andavano appresso molti di quelli dravis. Essendo un giorno io sotto il padiglione di un Turco amico mio, capitò ivi uno di quelli dravis, al quale questo Turco dimandò come faceva il dravis, e se faceva pazzie e se parlava e se mangiava; ed egli rispose che faceva secondo l'usanza, alcune fiate pazzie secondo la luna, e che stava tal volta due e tre giorni che non mangiava e faceva pazzie sí che bisognava legarlo, e che parlava ben ma male a proposito, e che mangiava quello che gli era dato, e alcune fiate si stracciava i drappi di dosso. E soggiunse: "Un giorno andammo dal signore che era in Spaham, il quale lo mandò in palazzo che già fece fare Gurlomahumeth, dove stemmo da quattro o cinque giorni; volendoci partire gli dicevano: "Andiamo via", ed egli rispondeva: "Io voglio star qui"; pur tanto facemmo che lo menammo via". E da costui intesi in che modo passò la novella quando trasse del bastone nelli catini, il quale la disse ridendo. Dimandò il Turco amico mio come facevano di danari, facendo tanta spesa; ed egli rispose che li era stato deputato una certa quantità, e se piú gli bisognava piú se gli dava: di modo che si può concludere che li pazzi abbiano buon partito appresso di loro, e che con poca fatica e poche operazioni buone la brigata si acquisti opinion di santi.
Sopra le sepolture, quando fanno la commemorazione de' lor morti, si truova gran moltitudine di maschi e di femine, vecchi e putti, i quali seggono a grumi con li lor preti e con le lor candele accese, i qual preti o leggono over orano nella lor lingua, e fornito che hanno di leggere o d'orare si fanno portar da mangiare in quel luogo: e per tanto per le strade sempre vanno e vengono molte persone da quei cimiteri. Il luogo dove sono volge da quattro in cinque miglia, e per le strade che menano a questo luogo sono poveri che domandano limosina, alcuni dei quali eziandio si offeriscono di dire qualche orazione a utilità delli benefattori. Le sepolture hanno certi sassi sopra drizzati in piedi, con lettere che dinotano il nome del sepolto, e alcune hanno qualche cappella di muro sopra. E questo basti delle cose appartenenti alle superstizioni.


Della simulata religione d'alcuni infideli, e come i cristiani siano da loro maltrattati.
Cap. 30.

Di quelle ch'appartengono a simulazione di religione ne dirò una, e volesse Dio che fra noi cristiani over non si trovasse simil simulazioni, overo fusser punite come fu questa la qual dirò, che mi par che 'l primo saria buono, e il secondo non cattivo. Trovossi un macomettano, a lor modo santo, il quale andava nudo come vanno le bestie, predicando e parlando delle cose della lor fede. Costui, avendo fatto già un buon credito, e avendo acquistato un gran concorso di popoli idioti che 'l seguitavano, non si contentando di quel ch'aveva, disse che voleva farsi serrare in un muro e starvi quaranta giorni digiuno, affermando che gli bastava l'animo d'uscir sano e di non aver per questo offesa alcuna al corpo. Volendo adunque far questa isperienza, fece portar pietre cotte alla foresta, delle quali, con gesso che in quelle parti si adopera per calcina, si fece far una casetta rotonda, nella qual fu murato. E ritrovandosi nel fine di quaranta giorni vivo e sano, tutti gli altri si stupivano. Uno, il quale era piú accorto, sentí che in quel luogo era stufo di certo sapore di carne, e facendo cavare trovò la magagna. Venne la cosa ad orecchie del signore, il qual lo messe nelle mani del cadi lascher; fu ritenuto eziandio un certo suo discepolo, il quale senza troppo tormento confessò che aveva forato il muro da una parte all'altra e messovi un cannoncino, per il quale di notte gl'infondeva brodi e altre cose sostanziali: e ambidui furono fatti morire.
Quanto alla mala compagnia ch'hanno i cristiani in quei luoghi ch'io viddi, reciterò quello ch'io intesi del 1478, del mese di decembre, da uno Pietro di Guasco genovese, nato in Capha, il quale nel tempo ch'io era in Persia venne ivi e stette con me circa tre mesi. Costui, domandato delle novelle di quelle parti, mi disse che un giorno, essendo in Tauris uno Armeno chiamato Chozamirech, ricco mercante, in bazarro, a certa sua bottega di orefice, venne ivi uno azi, a lor modo santo, e dissegli che dovesse rinegar la fede di Cristo e farsi macomettano. E rispondendogli costui umanamente, e suadendogli che non gli desse impaccio, pur perseverava e importunava ch'ei rinegasse. Costui gli mostrò certi danari, con intenzione di darglieli acciochè lo lasciasse stare, ed esso gli disse: "Non voglio danari, ma voglio che tu rinieghi". Rispondendogli Chozamirech che non voleva rinegare, ma voleva stare nella sua fede di Giesú Cristo, cosí come era stato fino a quel tempo, quel ribaldo si voltò, e tolse la spada di vagina ad uno ch'ivi era, e detteli su la testa in modo che l'ammazzò, e fuggí via. Un figliuolo di costui di circa anni trenta, il qual era in bottega, cominciò a piangere, e uscito di bottega andò verso la porta del signore e feceglielo sapere. Il signore, mostrando d'aver molto per male questa cosa, ordinò che fusse preso e mandollo a cercare: il quale fu trovato due giornate lontano da Tauris, in una città nominata Meren, e fu portato avanti il signore, il quale subito si fece dare un coltello e con la sua propria mano l'ammazzò, e commise che fusse gittato in piazza e lasciato, acciochè i cani lo mangiassero, dicendo: "Come? La fede di Macometto cresce in questo modo?"
Approssimandosi la sera, molti del popolo, che erano piú zelanti della lor fede, andarono da uno Darviscassun, il quale era in guardia della sepoltura d'Assambei, padre del moderno signore, ed era come saria dir da noi prior dello spedale, uomo da conto e apprezzato, il quale era stato tesoriero del signor passato; e a costui dimandarono licenzia di poter levar quel corpo, che i cani la notte non lo mangiassero; egli, non pensando piú oltra, dette loro licenzia, e il popolo lo tolse e lo sepellí. Inteso ch'ebbe questo il signore, che presto fu, imperochè la piazza è vicina al palazzo, comandò che Darviscassun fusse preso e menato da lui, al quale disse: "Ti basta l'animo di commandare contra il mio comandamento? Orsú, che sia morto"; e subito fu morto. Dopo questo disse: "Poi che 'l popolo ha fatto contra il mio comandamento, tutta questa terra porti la pena e sia messa a sacco". E cosí la sua gente cominciò a saccheggiar la terra, con uno spavento e romor grandissimo di tutti: durò questa cosa da tre in quattro ore. Poi comandò che dovessero lasciar stare di saccheggiar piú oltra, e dette a tutta la terra taglia di certa somma d'oro. Finalmente fece venire a sé il figliuolo di questo Chozamirech, e lo confortò e accarezzò con buone e umane parole. Era Chozamirech uomo ricchissimo e di ottima fama.
E questo basti quanto alle cose della mala compagnia ch'hanno li cristiani in quei luoghi, e quanto alla fine di questa seconda parte, e conseguentemente di tutta l'opera descritta per me, con quel miglior ordine che ho potuto, in tanta varietà di cose, de' luoghi e de' tempi: e fornita di scrivere adí 21 di decembre 1487, a laude del Signor nostro Giesú Cristo, vero Dio e vero uomo, al quale noi cristiani, e specialmente nati nell'illustrissima città nostra di Venezia, siamo molto piú obligati di quello che sono queste genti barbare, aliene dal suo culto e piene di mali costumi.

Il fine del viaggio di messer Iosafa Barbaro alla Tana e nella Persia.



Lettera del medesimo auttore scritta al reverendissimo monsignor Piero Barocci, vescovo di Padova, nella qual si descrive l'erba del baltracan, che usano i Tartari per lor vivere.

Reverendissimo Monsignor, Signor mio osservandissimo, avendo inteso da messer Anzolo mio fratello, che è stato con Vostra Signoria reverendissima molti giorni a piacere in quelli monti ameni del Padovano, come ella si diletta grandemente d'intender la natura delle erbe, e massimamente di quelle che non sono cosí note a ognuno, ho voluto, per non mancar al debito della servitú che ho con Vostra Signoria reverendissima, scriverle e darle notizia ancor io di una, che al presente mi occorre fra molte altre che ho vedute nelle parti di Tartaria, quando fui al viaggio della Tana. E le dico che i Tartari hanno un'erba nel lor paese, che la chiamano baltracan, la qual mancandogli patiriano grandemente, né potriano andar da loco a loco, massimamente per quelli gran deserti e solitudini dove non si truova da mangiar, se non fusse questa che li mantiene e dà vigore; la qual come ha fatta il suo gambo, tutti li mercanti e genti che voglion far lungo cammino si mettono sicuramente in viaggio, dicendo: "Andiamo, che è nato il baltracan". E se qualche loro schiavo fugge quando il baltracan è nato, restano di seguitarlo, perchè sanno che ha potuto trovar da viver per tutto. E quando camminano con il loro lordo ne portano sopra i carri e sopra le groppe de' cavalli per il lor vivere e anco in spalla, né par lor grave, tanto il suo sapore diletta a tutti. Noi mercanti ch'eramo nella Tana, come n'era portata nella terra, subito ne pigliavamo e andavamo mangiando. E non voglio restar di dir ch'essendo poi tornato a Venezia, fui mandato proveditore in Albania, dove, cavalcando verso Croia con 500 persone, viddi da un canto della strada di questo baltracan, e fecimene dare e cominciai a mangiarne, e anche tutta la brigata ne volse gustare: e gustato venne in tant'uso che dapoi ognuno ne portava fasci, chi a cavallo e chi a piedi in spalla, non tanto per necessità quanto per il suo buon gusto e buon sapore, di modo che gli Albanesi andavano poi gridando: "Baltracan, baltracan". Dipoi trovandomi anche in Padovana, nella villa di Terrarsa, viddi di questo baltracan.
E acciochè Vostra Signoria reverendissima lo possa conoscere come fo io, quando le paresse di volerne trovare in quei monti, le descriverò qui brevemente con parole la sua forma. Esso fa una foglia come fanno le rape; in mezo fa un gambo grosso piú di un dito, e al tempo della semenza vien alto piú d'un braccio; e questo gambo, facendo la foglia su per il gambo, la fa una quarta lontana l'una dall'altra, e fa poi la semenza come il finocchio, ma piú grossa: ha fortore, ma è di buon sapore. E quando è la sua stagione si scavezza fin al tenero, e fin al tenero si va scorzando come il pampano della vite. Ha l'odor di narancia, alquanto mostoso, e la natura sua par che non richieda altro sapore, né al mangiarlo ha di bisogno di sale. E tengo che al tempo del seminare ella si possa seminare come gli altri semi, e massimamente in luogo temperato e di buon terreno. Ogni gambo fa una radice da per sé, e il gambo ha un poco di busetto dentro, e la scorza del gambo è verde e tragge al giallo. E penso che chi non lo sapesse conoscere per altri segni, con facilità lo potria conoscere avvertendo alla semenza. Oltra di ciò, li Tartari e tutti quelli che la conoscono pigliano le foglie sue e le fanno insieme con acqua bollire in una caldiera, e bollita la mettono nei lor vasi e, lasciatola raffreddare, ne beono come se fusse vino, e dicono ch'ella è molto rifrescativa: e cosí essere lo so io per prova.
E a Vostra Signoria reverendissima mi raccomando.
In Venezia, alli 23 di maggio 1491.
Servitor di Vostra Signoria reverendissima Iosafa Barbaro.


Il viaggio del magnifico messer Ambrosio Contarini, ambasciadore della illustrissima Signoria di Venezia al gran signore Ussuncassan, re di Persia, nell'anno MCCCCLXXIII.


PROEMIO DELL'AUTORE

Essendo stato eletto per la nostra illustrissima Signoria nel consiglio di Pregadi, io Ambrosio Contarini fu di messer Benedetto, ambasciadore all'illustrissimo signor Ussuncassan re di Persia, benchè tal legazione a me paresse ardua e per il lungo cammino pericolosa, nondimeno, considerando il gran desiderio della mia illustrissima Signoria e il bene universale di tutta la cristianità, col nome del nostro Signor messer Giesú Cristo e della gloriosa sua Madre, postposto ogni pericolo, deliberai andar con bonissimo animo e volentieri a servir quella e la cristianità. E parendomi che 'l dar notizia di un tanto e sí lungo viaggio possa esser dilettevole e utile a' nostri discendenti, però con quella maggior brevità che mi sarà possibile farò menzione e del mio partir da Venezia, che fu alli 23 di febraro 1473, il primo di quaresima, insino al giorno della mia tornata, che fu alli 10 d'aprile 1477; e racconterò tutte le terre, luoghi e provincie dove io sono stato, e anco i lor modi e costumi.


Il clarissimo ambasciador si parte da Venezia, e passa per l'Alemagna, Polonia, Rossia bassa e il gran deserto della Tartaria d'Europa, e arriva alla città di Cafa.
Cap. 1.

Io parti' da Venezia adí 23 febraro 1473, e in mia compagnia ebbi il venerabile prete Stefano Testa, in luogo di mio capellano e cancelliere, Dimitri da Setinis mio turciman, Mafeo da Bergamo e Zuanne Ungaretto per miei servitori: tutti cinque vestiti di grossi panni alla todesca. Li danari li quali portai con me erano cusciti nei giupponi del detto prete Stefano e mio, il che non era senza affanno. Montai in barca con li sopradetti quattro e andai a San Michiel da Murano, dove, udita la messa, feci che 'l priore ne segnò tutti col legno della croce, e con la sua benedizione andassimo a drittura a Mestre, dove erano quivi apparecchiati cinque cavalli, sopra li quali montassimo, e col nome di Dio me ne andai a Treviso, avendo usata ogni diligenza di trovare una guida, la qual per danari non potei trovare.
Adí 24 mi parti' per Conegliano, nel qual luogo, considerando esser mio debito in un sí lungo e pericoloso viaggio non andar senza confessarmi e communicarmi, lo feci divotamente insieme con la detta mia famiglia.
Adí 26 la mattina mi parti' e, uscito di Coneglian, trovai un Sebastian todesco, il qual diceva andare al camin nostro, e mostrò conoscermi e saper dove io andava, e offersesi farne compagnia fin appresso Norimbergo, che certo mi parve un messo mandato da Dio. Ed essendoci messi in viaggio tutti sei, camminando ogni giorno entrammo in Alemagna, dove trovai di molti bei castelli e terre di diversi signori e vescovi, pur all'ubbidienza del serenissimo imperadore, fra i quali viddi Auspurch, terra bellissima. Ed essendo stati in Bercemsiurch, terra murata dell'imperadore, usciti della detta circa miglia cinque, il detto Sebastiano tolse il cammino verso Frankfort, e, abbracciandoci strettamente, tolse comiato da noi.
Adí X marzo 1474 con una guida giungessimo in Norimbergo, terra bellissima, la quale ha il suo castello e li passa un fiume per mezo. E cercando io guida per voler seguire il mio viaggio, l'oste mi disse che quivi si trovavano due ambasciadori della maestà del re di Polonia, e confortommi ad accompagnarmi con essi: la qual cosa intesa mi fu di grandissimo contento, e per prete Stefano feci saper alle magnificenze loro chi io era, e che volentieri parleria con esso loro. Intesa che ebbero l'ambasciata, mi mandorno a dire che l'andare era ad ogni mio piacere. Cosí me n'andai, e trovai esser due de' primi di sua maestà, uno arcivescovo, l'altro messer Paolo cavalliero; e fatte le debite salutazioni, li certificai come io andavo alla maestà del loro re con lettera di credenza, i quali, non ostante il mio abito, certamente assai mi onorarono, accettandomi di buona voglia in lor compagnia, con larghissime offerte. Nel qual luogo, per aspettarli, stetti fin alli 14 del detto, che di lí partimmo.
Adí 14, come s'è detto, partimmo del detto luogo di Norimbergo, in compagnia con li sopradetti ambasciadori. Vi era anche un ambasciadore del re di Boemia, primogenito del re di Polonia, e potevamo essere con cavalli 60.
Cavalcando per l'Alemagna alloggiavamo alcune volte in bonissime ville, ma la piú parte in terre e castelli, che certo ve ne sono molti di belli e forti e degni di memoria. Ma per esser paese che a ciascuno quasi o per veduta o per udita è noto, non farò menzione delle sue terre e castelli. Dal sopradetto giorno fino alli 25, come s'è detto, di continovo cavalcammo per l'Alemagna, paese del marchese di Brandimburg, duca di Sassonia. Entrando ancora nel paese del detto marchese di Brandimburg, giugnemmo in una terra chiamata Francfort, murata e bella, del detto marchese, ove stemmo infino alli 29: e questo per esser confin dell'Alemagna e Polonia, dove il detto marchese mandò molti uomini d'arme per accompagnar li detti ambasciadori, fin che entrassero nel paese del lor re, li quali certo erano benissimo in ordine.
Adí 31 entrammo in Messariza, prima terra del detto re di Polonia, picciola e assai bella, con uno castelletto.
Adí II aprile 1474 giugnemmo in Posnama, non avendo trovato luogo niun da conto: la qual terra è certo degna d'esser commemorata, sí per le belle strade come case, ed è terra dove capitano assai mercanti.
Adí 3 ci partimmo di lí per andare a trovar la maestà del re; cavalcando per la detta Polonia non trovammo terre né castelli da farne gran menzione, e d'alloggiamenti e d'ogni altra cosa è molto differente dall'Alemagna.
Adí 9 entrammo in una terra che si chiama Lancisia, e fu il sabbato santo, dove trovai la maestà del re Casimir, re di Polonia: e per due cavallieri sua maestà mandò a ricevermi, avendomi dato alloggiamento assai convenevole secondo il luogo; e per quel giorno, che era il dí di Pasqua, come era ragionevole non andai da sua maestà.
Adí 11 da mattina mandò a presentarmi una veste di damaschin negro, chiamandomi da sua maestà, e per esser cosí lor costume, con la detta vesta indosso me n'andai, accompagnato da molti uomini da conto, e fatte le debite riverenze e salutazioni gli presendai il presente mandatogli dalla nostra illustrissima Signoria, e dissi quanto m'accadeva. Volse che io desinassi con sua maestà. Usano mangiar quasi a nostro modo, benissimo apparecchiando e abbondantemente. Finito il desinare, tolsi commiato da sua maestà e tornai al mio alloggiamento.
Adí 13 mandò a chiamarmi un'altra fiata, e fecemi risposta a quanto io avea detto ed esposto per nome della mia illustrissima Signoria, con tante umane e cortesi parole che conferma quello che per noi si dice, che già assaissimi anni non si è trovato mai piú giusto re di lui. Comandò che mi fussero date due guide, una per la Polonia, l'altra per la Rossia bassa, fino a un luogo che si chiama Chio over Magraman, che è oltra le terre di sua maestà nella Rossia. Feci li debiti ringraziamenti a quanto accadeva per nome della mia illustrissima Signoria, e da sua maestà tolsi commiato.
Adí 14 parti' da Lancisia con le dette guide, cavalcando per la Polonia, che è paese tutto piano, ma pur ha delli boschi; e ogni giorno e notte trovavamo alloggiamenti, ora assai buoni ora altramente: e mostra d'esser povero paese.
Adí 19 arrivai in una terra che si chiama Lumberli, terra assai buona, col suo castello, ove il re aveva 4 suoi figliuoli (il maggiore poteva aver da anni 15), uno sotto l'altro: e stavano in castello con un valentissimo maestro che insegnava loro.
Volsero (e credo fusse per comandamento del padre) che io gli andassi a visitare, e cosí feci. Per un d'essi mi furono usate alcune parole tanto degne quanto dir si possa, mostrando portar gran riverenza al suo maestro; feci la debita risposta, e ringraziando assai lor signorie tolsi da essi commiato.
Adí 20 uscimmo di Polonia ed entrammo nella Rossia bassa, che pur è del detto re, cavalcando fin adí 25, quasi tuttavia per boschi, trovando alloggiamenti ora in qualche castelletto, ora in qualche casale. E venimmo adí soprascritto in una terra chiamata Iusch, che ha assai buon castello, ma di legname, nel qual luogo stemmo fin adí 24, non senza pericolo, per rispetto di un par di nozze, perchè quasi tutti erano ubriachi, e sono molto pericolosi; non hanno vino, ma fanno di mele certa bevanda che imbriaca molto piú che 'l vino.
Adí 25 partimmo di lí, e la sera venimmo a una villa chiamata Aitomir, tutta fabricata di legnami, col suo castello; e partiti di lí, tutto il dí 29 cavalcammo per boschi molto pericolosi, per esservi d'ogni condizione d'uomini tristi, e non trovando la sera alloggiamento, dormimmo nei detti boschi, senza cosa alcuna da mangiare, e mi convenne tutta la notte far la guardia.
Adí 30 venimmo in Belingraoch, castello bianco, ove era la stanzia della maestà del re, e lí alloggiammo con gran disagio.
Adí primo maggio 1474 fummo in una terra chiamata Chio over Magraman, che è fuori della detta Rossia, la quale era governata per uno chiamato Pammartin, Pollacco catolico: egli, intesa la mia venuta per le guide del re, mi fece dare un alloggiamento assai cattivo, secondo il paese, e mandommi della vittuaglia assai convenientemente. La detta terra è a' confini della Tartaria, dove capitano pur delli mercanti con pellatarie portate della Rossia alta, e con caravane passano in Capha, ma a modo di castroni spesse volte sono presi da' Tartari; è terra abbondante di pane e di carne. La lor usanza è la mattina fino a terza far le lor facende, e poi ridursi nelle taverne e star fino alla notte, e spesso fanno di molte brighe come gli ubriachi.
Adí 2 il detto Pammartin mandò molti de' suoi gentiluomini a convitarmi, e volse ch'io andassi a desinar con lui. Fatte le debite salutazioni, mi fece molto grandi offerte, facendomi sapere che per la maestà del suo re gli era stato comandato che mi dovesse onorare e guardarmi da ogni pericolo, e che mi dovesse dar il modo ch'io passassi la campagna di Tartaria fino a Capha. Io ringraziai assai sua signoria, pregandola cosí volesse fare; e dissemi che aspettava un ambasciadore di Lituania, il qual doveva andare con presenti all'imperador de' Tartari, il quale imperadore gli manda ducento cavalli de' Tartari per accompagnarlo sicuro, e confortandomi volse che io aspettassi il detto ambasciadore, col quale mi accompagneria e fariami passar sicuro: e cosí deliberai di fare. Ce n'andammo a disinare, in vero onorevolmente apparecchiato e abbondantemente di tutto, facendomi onore assai. Eravi un suo fratello vescovo e molti altri gentiluomini, e avevano alcuni cantori i quali mentre desinammo cantarono.
Fecemi star molto longamente a tavola, con mio grande affanno, perciochè piú tosto mi bisognava riposo che altro. Desinato che avemmo, tolsi commiato da sua signoria e andai al mio alloggiamento, che era nella terra; ed esso rimase nel castello dove era la sua stanzia, il quale è tutto di legname. Ha una fiumana, che si chiama Danambre in lor lingua, e nella nostra Leresse, la qual passa appresso la terra, che mette fino in mar Maggiore.
Stemmo nel detto luogo fino a dieci dí, dove giunse il detto ambasciadore; e la mattina che fummo per partire volse che udissimo la messa, e benchè per avanti gli avevo parlato del mio essere lí, nondimeno, udita la messa e abbracciati insieme, l'antidetto Pammartin mi fece pigliar la mano del detto ambasciadore, e dissegli: "Questi è come la persona del nostro re, e però fa che tu lo conduca a salvamento in Capha"; e ciò fece con parole tanto calde quanto dir si potesse. L'ambasciadore rispose che 'l comandamento della maestà del re era sopra la sua testa, e quel che sarebbe di lui saria eziandio di me. E con questo tolsi commiato da sua signoria, ringraziandola quanto seppi e potei e come egli meritava di tanto onore che mi fece. In quei giorni che stetti lí spesse volte mi visitava di vittuaglia. Io gli presentai un cavallo portante tedesco, il qual fu uno di quelli con li quali mi parti' da Mestre, e gli altri, perchè erano integri, volsero che gli lasciassi tutti lí e pigliassi cavalli del paese. Dalle guide della maestà del re ebbi buona e ottima compagnia, alle quali usai cortesia.
Adí 11 partimmo di lí col detto ambasciadore, essendo io sopra una carretta, con la quale era venuto dal partir mio dal re fino in quel luogo, per aver male a una gamba, di maniera ch'io non potevo cavalcare; e camminando fino adí 9 arrivammo a un casale chiamato Cercas, pur del detto re, ove stemmo fino adí 15, che seppe il detto ambasciadore che li Tartari erano venuti appresso Cercas: donde partimmo accompagnati con li detti Tartari, ed entrammo in una campagna deserta.
Adí 15 giugnemmo alla fiumana sopradetta, la qual ci convenne passare. Questa fiumana parte la Tartaria dalla Rossia verso Capha, e per esser larga piú di 1 miglio e molto profonda, i Tartari si misero a tagliar legnami, legandogli insieme e mettendovi sopra delle frasche; poi furono poste sopra tutte le nostre robbe, e li Tartari entrorono nella fiumana tenendosi al collo delli lor cavalli, alla coda de' quali noi legammo le corde ch'erano appiccate a quei legnami, sopra i quali montati tutti noi, cacciammo li cavalli per la fiumana, la quale passammo salvi, con l'aiuto di Dio. Il pericolo quanto fusse grande lascierò considerare a chi leggerà, ma al parer mio non so come potesse esser maggiore. Passati dall'altra banda e dismontati in terra, ciascuno rassettato le sue robbe, stemmo tutto quel giorno co' Tartari; e alcuni lor capi molto mi guardavano, e fra loro fecero di molti pensieri. E levati dalla detta fiumana, ci mettemmo in cammino per la campagna deserta, con grandissimi disagi d'ogni sorte. E messici a passar una selva, l'ambasciador sopradetto mi mandò a dire per il suo turcimano che li detti Tartari avevano deliberato di menarmi al loro imperadore, né altramente potevano fare, dicendo che simile uomo qual io era (che ben lo avevano inteso) non poteva passar Capha, se prima non era presentato al loro imperadore.
Sentita tal cosa mi fu di grandissimo affanno, onde molto mi raccomandai al detto turcimano, pregandolo si ricordasse della promessa che fece a Pammartin per la maestà del re di Polonia, e gli promisi una spada: disse di volermi servire, e confortatomi tornò al suo ambasciadore e, referendoli quanto io gli aveva detto, si mise a sedere e bere con li detti Tartari, e con molte parole accertandoli ch'io era genovese, l'acconciò in ducati 15. Ma, prima ch'io sentissi tal nuova, stetti con grandissimi affanni.
La mattina cavalcammo, e camminando fin adí 24 con molti disagi, stando un giorno e una notte senza acqua, ci trovammo ad un passo dove il detto ambasciadore con li Tartari convenne pigliar la via verso il loro imperadore, il quale era ivi, ad un castello chiamato Chercher, e dettemi un Tartaro in compagnia che m'accompagnasse in Capha: e tolto commiato dal detto ambasciadore ci separammo. E benchè per esser rimasi soli e in gran pericoli di continovo, dubitando che quei Tartari non ne mandassero dietro, ebbi piacere d'essermi separato da quelli maladetti cani, che puzzavano di carne di cavallo in modo che non si poteva star appresso loro. Camminando con la detta guida, la sera alloggiammo in campagna in mezo d'alcuni carri de' Tartari con le lor coperte di feltre: e subito ne furono molti attorno, cercando di voler intendere chi noi eravamo; ed essendo detto loro per la nostra guida ch'io era genovese, mi presentarono latte agro.
Adí 26 la mattina avanti giorno partimmo di lí, e circa ora di vespero entrammo nel borgo di Capha, ringraziando il nostro Signore Dio che ne aveva campati da tanti affanni. Ed essendoci ridotti secretamente appresso una chiesa, mandai il mio turcimanno per ritrovare il nostro consolo, il quale subito mandò suo fratello e mi disse ch'io indugiassi fino sul tardi, per entrar secretamente in una sua casa nel detto borgo: e cosí feci. All'ora debita entrammo in casa del detto consolo, dove fummo onorevolmente accettati, e trovai lí ser Polo Ogniben, il qual era stato mandato per la nostra illustrissima Signoria, e si era partito già tre mesi avanti di me.


Il clarissimo ambasciador si parte di Capha, e navigando il mar Maggiore arriva al Fasso, e passando il paese di Mengrelia e di Giorgiania e parte dell'Armenia perviene al paese d'Ussuncassan.
Cap. 2.

Io non posso ben dire particolarmente le condizioni della detta terra di Capha, perciò che stetti quasi di continuo in casa per non esser visto: ma dirò bene quel poco che ne potei vedere e intendere. La detta terra è posta sul mar Maggiore, ed è molto mercantile e ben abitata di ogni generazione, e ha fama d'esser molto ricca. Mentre ch'io stetti nella detta terra, avendo in animo d'andare al Fasso, noliggiai una nave la qual era nel mar delle Zabacche, patron Antonio di Valdata: e mi convenne andare a cavallo per trovar la detta nave per far tal nolo. Ma, fatto questo, mi fu porto un partito per uno Armeno chiamato Morach, il quale era stato a Roma, e si faceva ambasciadore di Ussuncassan, insieme con un altro Armeno vecchio, che dove io voleva andare a dismontare al Fasso, mi faria dismontare in un altro luogo chiamato la Tina, circa miglia cento lontano da Trebisonda, che era dell'Ottomano; e che subito smontati in terra montaremmo a cavallo, promettendomi che in 4 ore mi metteria in un castello d'uno Ariam sottoposto ad Ussuncassan, dandomi anche ad intendere che in quel luogo della Tina non v'era altro che un castello de' Greci, e che senza dubio alcuno mi metteria sicuro nel detto castello. A me per conto alcuno non piaceva tal partito, ma, esortandomi molto il consolo e suo fratello, ancor che mal volentieri, ne fui contento.
Adí III giugno 1474 partimmo di Capha, e venne in mia compagnia il detto consolo; e il giorno sequente fummo ove era la nave, la quale avevo noliggiata per ducati settanta, ma per mutar viaggio me le convenne dare ducati cento. E perchè dove andavamo a smontare io era informato che non si trovavano cavalli, ne caricai nove sopra la detta nave, per rispetto delle guide, e anco per poterci condur dietro delle vettovaglie per li paesi della Mengrelia e Giorgiania.
Adí 15, caricati li detti cavalli, facemmo vela ed entrammo nel mar Maggiore, tenendo alla volta del detto luogo della Tina e navigando con prospero vento. Ed essendo circa venti miglia lontani e non avendo ancor vista del detto luogo, il vento saltò a levante, nostro contrario, tenendo pur alla detta volta; ma, sentendo io che li marinari parlavano tra loro, e volendo intendere quello dicevano, mi dissero che erano per fare quanto io volevo, ma che mi accertavano che il detto luogo era molto pericoloso. Vedendo io tal cosa, e vedendo che quasi pareva che nostro Signore Iddio non voleva ch'io capitassi male, deliberai andare alla volta di Liati e Fasso, e fatta questa deliberazione di lí a poco fece tempo prospero, e navigammo con venti piacevoli.
Adí 29 giunsi al Varti, e per esser li cavalli mal condizionati deliberai metterli in terra e farli andar al Fasso, dove diceano esser miglia 60; nel detto luogo si trovava un Bernardino, fratello del nostro patrone, il qual venne a nave, e inteso come noi volevamo andare alla Tina, affermonne che se vi andavamo tutti eravamo presi per schiavi, e che sapeva certo che nel detto luogo si trovava un sobassi con molti cavalli, per visitar quei luoghi secondo la loro usanza.
Ringraziai Iddio, e partimmi di lí. Il detto Varti ha un castello con un poco di borgo, d'un signore che si chiama Gorbola, pur paese de' Mengreli, e ha un'altra terra che si chiama Caltichea, posta sul mar Maggiore, di poca condizione: pur vi capitano delle sete e traggonsene canavaccie e qualche cera, ma non da conto, per esser genti misere d'ogni condizione.
Adí primo luglio 1474 sorgemmo alla bocca del Fasso, e venneci una barca de Mengreli a lato con modi e costumi da matti. Dismontammo di nave, e con la barca entrammo nella bocca della fiumana, dove è una isola nella qual si dice che 'l re Oetes, padre di Medea venefica, regnò. La notte dormimmo lí, ma con tanti moscioni che credemmo non poter campar da loro.
Adí 2 la mattina andammo con le lor barche su per la fiumana, e trovammo una terra chiamata Asso, posta su la detta fiumana in mezo de' boschi; e la detta fiumana è larga due tratti di balestra. Dismontati in terra, trovai un Nicolò Capello da Modone, ch'era capitato lí e avevasi fatto da Mecho, e una donna Marta circassa che fu schiava di un Genovese, e un Genovese maritato lí: alloggiai con la detta donna Marta, la qual certo mi fece buona compagnia. Stetti in detto luogo per fino adí 4, che mi parti'. Il detto Fasso è de' Mengreli, e il lor signore si chiama Bendian, il quale ha poco paese, perciochè a traverso può esser tre giornate, e per il piú sono boschi e montagne. Sono uomini bestiali, portano le chieriche a modo di frati minori; fanno qualche pier, pur poco frumento e vino, ma non da conto. Vivono di panizzo fatto duro a modo di polenta miserissimamente, e le lor femine ancora molto piú: e se non fusse che qualche volta da Trebisonda vien portato del vino e pesci salati, e sale da Capha, fariano del tutto male. Cavansi delle canevaccie e cere, ma di tutto poco. Se fussero uomini industriosi, pigliariano nel fiume quanto pesce volessero. Sono cristiani, ma hanno di molte eresie e celebrano alla greca.
Adí 4 partimmo dal Fasso, tolto per mia guida il sopradetto Nicolò Capello, e passammo con un zoppolo una fiumana chiamata Mazo.
Adí 5, camminando per la detta Mengrelia per boschi e montagne, la sera fummo ov'era la persona di Bendian, signore di Mengrelia, il quale era con la sua corte in uno poco di pianura e alloggiati sotto un arbore; gli fece sapere per il detto Nicolò che io volevo parlare a sua signoria: mi fece chiamare. Sedeva in terra sopra un tapeto, con la moglie appresso e con alcuni suoi figliuoli; mi fece sedere in terra avanti lui, dove usai le parole che accadevano. E avendolo presentato, non mi disse altro salvo che io fussi il ben venuto; gli domandai una guida: me la promise, e con questo tornai al mio alloggiamento. Mandommi a presentare una testa di porco con un poco di carne di manzo mal cotta, e alcuni pochi pani e tristi: e per necessità mi fu forza mangiarli, e per aspettar la guida vi stetti tutto il dí. Erano nella detta pianura molti arbori in modo di bussi, ma molti maggiori, li quali non aveano pure un ramo piú alto dell'altro, con la strada in mezo.
Detto Bendian poteva aver da cinquanta anni, assai bello uomo, ma modi e costumi matteschi.
Adí 7 partimmo, camminando di continuo per boschi e montagne, e adí otto passammo un fiume che divide la Mengrelia dalla Giorgiania, dove dormimmo sopra un prato su l'erba fresca senza troppo vivande.
Adí 9 venimmo in una terricciuola chiamata Cotachis, che ha un castello fatto tutto di pietra sopra un monticello, e ha una chiesa dentro che mostra esser molto antiqua. Passammo poi un ponte, per il quale si passa un fiume assai grande, e alloggiammo sopra un prato dove erano le case del re Pangrati di Giorgiania, perciochè il detto castello è suo. E quel governatore ne lasciò alloggiare nelle dette case, dove stemmo per tutto dí 11, con gran fastidii di quelli Giorgiani, che sono matti come li Mengrelli. Volse quel governatore che io desinassi con lui, e ridotti in una sua casa si mise a sedere in terra, e io appresso di lui con alcuni delli suoi e anco dei miei. Ne fu disteso avanti un cuoio a modo di mantile: credo certo che 'l grasso che vi era suso averebbe condito un gran calderone di verze. Mi mise davanti pan da bisogno, ravanelli e un poco di carne acconcia a lor modo, e alcuni altri imbratti che certamente io non saperia ridirli. La tazza andava attorno, e facevano tutto il possibile ch'io m'imbriagassi, perciochè cosí fecero essi: e perch'io non lo feci, mi disprezzavano molto; e con gran fatica mi parti' da loro. Il governatore mi dette una guida che mi menasse dove era il suo re.
Adí 12 mi parti' camminando per montagne e per boschi, e al tardi per la detta guida fui fatto dismontare sopra un poco di prato appresso il castello, che era sopra un monte chiamato Scander, dove era il re Pangrati. E per la detta guida mi fu detto che voleva andare a farlo sapere al suo re, e che tornaria subito e mi meneria una guida che m'accompagneria per tutto il suo paese. Si partí e lassonne in mezo dei boschi, non senza nostra paura, aspettando tutta la notte con gran fame e sete. La mattina a bon'ora se ne venne, e con lui due scrivani del re, e dissero che 'l re era cavalcato a Cotachis e aveva mandato loro per intender le robbe che io avea, per farne una lettera, acciò ch'io potessi passar per tutto il suo paese senza pagar cosa alcuna. Volseno vedere il tutto e notare anco li drappi che io aveva indosso, il che mi parve molto strano. Dapoi scritto, mi dissero ch'io montassi a cavallo solo, e volevano ch'io andassi al lor re. E facendo io ogni prova che mi lasciassero, cominciarono ad ingiuriarmi, e con fatica mi lasciarono menare il mio turcimano. Montai a cavallo senza mangiare e bevere, e camminando con loro mi condussero al detto castello di Cotachis, dove era il re, il qual mi fece ridur sotto un arbore, dove stetti tutta la notte; e mandommi un poco di pane e un poco di pesce, non però troppo. La mia famiglia rimase in guardia di alcuni altri, e furono menati ad un casale e messi in casa d'un prete: come dovessero stare gli animi nostri, ciascuno facilmente lo può considerare.
La mattina il re mi mandò a chiamare: egli era in una sua casa, sedendo in terra con molti de' suoi baroni, ove mi fece di molte domande, e fra l'altre se io sapeva quanti re erano al mondo. Io dissi a ventura: "Credo che siano dodici". Mi rispose: "Tu dici il vero, e io sono uno di quelli; e tu sei venuto nel mio paese senza portarmi lettere del suo signore?" Io gli risposi che la cagione che non gli aveva portato lettere era perchè non credeva venire nel suo paese, ma che l'accertavo che 'l mio signore il papa l'apprezzava e mettevalo in conto di tutti gli altri re, e se egli avesse creduto ch'io fussi passato pel suo paese, che gli averia scritto volentieri. Mostrò aver piacere. Mi fece dapoi di molte strane dimande, per le quali compresi che quel ghiotton della guida che mi aveva condotto gli aveva dato ad intendere ch'io avevo gran cose: e in vero, se cosí avesse trovato, non usciva mai di quel luogo. Li detti scrivani di quelle mie poche cose che scrissero tolsero quello che piacque loro, e per forza volsero ch'io le donassi al lor re. Nel prender commiato, lo pregai che mi dovesse dare una guida che mi accompagnasse sicuro fuor del suo paese: e cosí mi promise, dicendomi che mi faria far anco una lettera ch'io andaria sicuro per tutto il suo paese. Con questo mi parti' e venni sotto il detto arbore, facendo instanzia con quello scrivano di aver la lettera e la guida: la qual finalmente ebbi, ma con grandissima fatica.
Adí 14 mi parti' dal detto re e ritornai al casale dove era la mia brigata, la qual teneva per certo che io non dovessi piú ritornare, per le male relazioni che per il detto prete le aveva dato del re: e quando mi viddero parve loro di vedere il messia, e d'allegrezza non sapevano quello che facessero. Il povero prete mostrò aver piacere, e apparecchiommi da mangiare. La notte dormimmo il meglio che si poté; e ne fece un poco di pane per portar con noi, e dettene un poco di vino.
Adí 15 circa terza partimmo de lí con la guida, camminando per boschi e per montagne terribili, paese maladetto, dormendo la notte in terra appresso qualche acqua ed erba; e per li freddi facevamo fuoco.
Adí 17 giungemmo in una terra del detto re chiamata Gorides, posta in una pianura, con un castello di legname sopra un colle; passale una gran fiumara d'appresso, ed è luogo assai convenevole. Per la guida fu fatto saper a quel governatore il giugner mio, e subito mi fece intrar in una casa dove, aspettando di aver qualche buona accoglienza, di lí ad un poco mi mandò a dire che 'l re gli scriveva che io gli dovessi dare vintisei ducati, e alla guida sei. E io maravigliandomi dissi questo non poter essere, perchè il suo re mi aveva fatto buona accoglienza, e che io lo aveva presentato di ducati settanta, con molte altre parole che nulla mi valsero: e ancora che io non volessi, mi convenne darglieli. Mi tenne fino adí 19, che mi licenziò: io stavo con gran fastidii, perciochè pareva che quelle bestie non avesser mai visti uomini. Questo paese della Giorgiania è pur un poco migliore della Mengrelia, ma nei costumi e nel vivere tengono un medesimo modo, e cosí nel credere e nel celebrare. Ne fu detto, quando fussimo giú di una gran montagna, che in un bosco vi era una gran chiesa dove era una nostra Donna antiqua, e vi stanziano piú di quaranta caloiri: e dicevano ch'ella faceva molti miracoli. Non volsi andarvi, per il desiderio grande ch'io avevo d'uscir di quel maladetto paese, che certo lo passai con grande affanno e pericolo, che a dir tutto saria longo e al lettor fastidioso.
Adí 20 partimmo del detto luogo di Gorides, pur per montagne e per boschi, trovando alle volte qualche casa dove prendevamo qualche vettovaglia, e andavamo a riposare in qualche luogo dove fusse acqua ed erba per i cavalli; il nostro letto era su l'erba fresca: e cosí facemmo di continuo per li paesi della Mengrelia e della Giorgiania.


Il clarissimo ambasciador arriva a Tauris, città regia della Persia, e non avendo trovato Ussuncassan si appresenta al figliuolo; e partitosi, e avendo camminato molte giornate per la Persia, se ne va a trovarlo nella città di Spaan, dove in quel tempo si ritrovava.
Cap. 3.

Adí 22 cominciammo a salir una montagna molto grande, e la sera ci trovammo quasi in cima, dove ci fu forza riposare; e fu senza acqua. La mattina a buon'ora cavalcammo, e quando avemmo discesa la detta montagna fussimo nel paese di Ussuncassan, cioè nel principio dell'Armenia; e la sera arivammo ad un castello del detto signor Ussuncassan chiamato Loreo, il qual è posto in un luogo che mostra pianura: ma gli passa disotto una fiumara molto profonda, non di acqua ma di cava, e dall'altra banda vi è una montagna, e all'incontro della fiumara è uno casal d'Armeni, nel quale alloggiammo; e nel castello vi sono Turchi del detto signore; dove stessimo per fino adí 25, sí per riposare come per trovar guida. E certo fussimo ben visti nel detto luogo. L'Armeno che menai con me da Cafa, che diceva esser uomo del signor Ussuncassan, fu discoperto per un gran ribaldo, e per li detti Armeni mi fu detto ch'io avevo avuto gran ventura ad uscir delle sue mani: per la qual cosa li tolsi un cavallo che gli avevo dato e lo licenziai, e tolsi per mia guida un prete armeno per fino in Tauris, il qual trovai fidatissimo.
Adí 26 noi cinque, col prete insieme, partimmo dal detto luogo di Loreo e passammo una montagna; la sera ci trovammo in una campagna in mezo di montagne, e arrivammo ad un casale di Turchi, e lí dormimmo pur alla campagna, e fossimo assai ben veduti.
Adí 27 cavalcammo avanti giorno per passare un'altra montagna, perchè ne fu detto che alla discesa v'era un casal di Turchi che, passando di giorno, lo passeremmo con gran pericolo: ma la ventura nostra volse che passammo a ora che credo non fussimo veduti. Ed entrammo in una campagna molto bella, facendo ogni sforzo nel camminar piú dell'usato, con poco riposo fin alla notte, e dormimmo alla campagna, e cosí per la detta campagna fin adí 29, che ci trovammo per mezo il monte di Noè, il quale è altissimo e tutto pien di neve dalla cima fin al basso, e cosí sta tutto il tempo dell'anno. Dicesi che molti hanno cercato di andarvi in cima, e che alcuni non ritornano, e che quelli che ritornano dicono che non par loro di poter mai trovar via alcuna. Camminando fino adí 30 di continuo per campagna, pur trovando qualche monticello, ma non d'importanza, arrivammo ad uno castello di Armeni franchi che si chiamano Chiagri, dove stemmo fino adí 31, che ci riposammo alquanto, perchè avemmo pane, galline e vino.
Adí I agosto 1474 a vespero ci partimmo, e ne convenne torre un'altra guida per Tauris.
Adí 2 arrivammo ad un casale pur di Armeni, assai buono, accosto ad una montagna, dove convien passare una fiumara con una barca d'una strana foggia che essi usano, e dicono che la detta fiumara è quella dove il soldan Busech venne per esser alle mani con Ussuncassan, ma molto piú verso levante, e che, essendo Ussuncassan da una banda, il Tartaro dall'altra, per disagio del vivere, entrò il morbo in detti Tartari con tanta furia che fu cagione che Ussuncassan li ruppe, e prese il detto soldan Busech, e fecegli tagliar la testa. Passammo la detta fiumara: e da banda sinistra vi sono II casali di Armeni, uno appresso l'altro, tutti catolici, e hanno il lor vescovo e sono sotto il papa. E per tanto paese la Persia non ha il piú bello né il piú abondante d'ogni cosa.
Adí 3 venimmo in una terricciuola chiamata Marerichi, appresso la quale riposammo quella notte.
Adí 4 a buon'ora cavalcammo per campagne, e con tanto caldo che non ci potevamo metter la mano adosso, non trovando acqua buona in alcun luogo.
Nota che dal partir di Loreo, camminando per li luochi come è detto, trovammo molti Turcomani con le loro famiglie che cambiavano alloggiamento e andavano alle erbe fresche, perchè cosí usano star con li suoi padiglioni in luogo abondante di erba fin ch'ella è consumata, poi vanno a trovar dell'altra. E trovavamo di quelli che stavano alloggiati, che sono uomini molto maladetti e gran ladri, che certo ne facevano paura: ma facevo dir ch'io andavo dal lor signore, e con questo passammo, e con l'aiuto del nostro Signor Dio.
Nel detto giorno, circa ora di vespero, entrammo nella città di Tauris, la quale è posta in piano, con muri di terra e tristi, e ivi appresso sono alcuni monti rossi: dicono che si chiamano li monti Tauri. Entrati nella detta terra la ritrovammo in gran combustione, e con gran fatica andai ad uno caversera, dove alloggiai. E camminando, avanti che vi arrivassi, fra quelli Turchi sentiva dir: "Questi sono di quelli cani che vengono a metter scisma nella fede macomettana; noi doveremmo tagliarli a pezzi". Dismontati nel detto caversera, per uno Azamo che lo governava ne furono date due camere per nostro alloggiamento: e certo mostrò esser buona persona, e le prime parole che mi dicesse, si maravigliò come eravamo venuti a salvamento, mostrando non poter credere, e fecene a sapere come tutte le strade della terra erano sbarrate, che cosí io le viddi. Volsi intender la cagione: mi disse come Gurlumameth, il valente figliuol di Ussuncassan, aveva rotto guerra a suo padre e avevagli tolto una terra capo della Persia chiamata Siras, la quale aveva data a godere a sultan Chali e alla madregna del detto Gurlumameth. Per la detta cagione Ussuncassan aveva fatto gente e cavalcava alla volta di Siras per cacciar il detto Gurlumameth; e come un signorotto chiamato Zagarli, uomo di montagna, aveva piú di tremila cavalli, e per la intelligenzia che esso aveva col detto Gurlumameth danneggiava e correva fino appresso Tauris, e per dubio del detto avemmo sbarrate le strade. Dissemi ancora come il suo subassi era uscito fuori per esser all'incontro di detto Zagarli, il qual subito fu rotto e toltogli il tutto, ed ebbe di grazia di tornare in Tauris. Il domandai perchè tutti quelli della terra non uscivano fuori: mi rispose che essi non erano uomini da guerra, ma che a quel signore che aveva la terra loro davano obedienzia.
Volsi far ogni esperienzia di partirmi per andar dietro al signore: non trovai mai uomo che mi volesse accompagnar, né da quelli subbassi potei aver alcun favore, onde mi fu forza star nel detto caversera, e di continuo nascoso, perchè cosí mi ricordava il patron di quello. Pur qualche fiata mi era forza andare a comprarmi da vivere over mandare il mio turciman, e qualche volta anche uno Agustin da Pavia, il qual menai con me da Cafa, che pur sapeva alquanto la lingua: a' quali venivano dette molte ingiurie, e che dovremmo esser tutti tagliati a pezzi.
Dopo alcuni giorni venne un figliuol di Ussuncassan chiamato Masubei, con cavalli mille, per stare al governo di Tauris per dubio di quel Zagarli, al quale andai, e con fatica ebbi da lui audienzia. Convennemi donargli una pezza di ciambellotto, e dapoi salutatolo gli dissi ch'io andava dal signore suo padre, e lo pregai che mi volesse dar qualche buona compagnia: appena mi rispose, e mostrò di non si curare. Tornai al mio alloggiamento, e le cose cominciarono a peggiorare, perciochè il detto Masubei volse tor danari dal popolo per far gente, il qual non li volse dare, e serrarono tutte le botteghe. Onde mi fu forza per la detta cagione partirmi dal caversera, e ridurmi in una chiesa d'Armeni, dove mi fu dato un poco d'alloggiamento per noi e per i cavalli, e non lasciare uscir fuora alcun dei miei. Con che animo dovevo stare con la mia famiglia si può considerare, che in vero di continuo stavamo ad aspettare di esser malmenati: ma il nostro Signor Dio, che per sua misericordia ne aveva campati da tanti pericoli fino lí, ne volse anche salvare.
Adí V settembre 1474, stando pur in Tauris, giunse Bartolomeo Liompardo, mandato dalla nostra illustrissima Signoria al detto signor Ussuncassan, il qual mi trovò in Cafa, ed era con lui uno Brancalion suo nipote. Costui volse andare per via di Trabisonda, e venne un mese dopo me, onde deliberai mandare il detto Agostino a Venezia con mie lettere alla nostra illustrissima Signoria, e dar aviso del tutto: e lo mandai per via di Aleppo, il quale andò a salvamento, ma con gran pericolo. Stetti in Tauris fino adí 22 di settembre. Non posso dir bene della sua condizione, perchè di continuo stetti ascosto. Egli è grande, e ha molte carabe dentro; non credo abbia gran popolo. È abondante di ogni sorte di vettovaglia, ma tutto è caro; ha di molti bazzari: vi capitano molte sete per transito per Aleppo con caravane, hanno di molti lavori di seta leggieri fatti in Iesdi. Usano molti boccassini e quasi d'ogni sorte mercanzia; di gioie non udi' far menzione per alcuno.
Volse la fortuna mia che 'l cadi lascher, uno de' primi appresso il signor Ussuncassan, ch'era stato ambasciadore al soldano per far pace, la qual non poté far, ritornava al suo signore: e subito ch'io lo seppi tenni pur modo di parlargli e fecigli un presente, pregandolo che mi volesse accettare in sua compagnia, dicendo ch'io andava dal suo signore per faccende importanti. Il qual mi accettò tanto benignamente quanto dir si potesse, con parole umane e cortesi dicendomi che mi accettava di buona voglia, e sperava in Dio condurmi a salvamento dal suo signore: parvemi una grazia da Dio, e molto lo ringraziai. Costui aveva con lui duo suoi schiavi schiavoni rinegati, i quali fecero stretta amicizia con li miei servitori, con molte offerte. E mi promisero che, quando il lor padron saria per partirsi, subito me lo fariano sapere: e cosí fecero; e io feci loro un presente, il qual mi valse.
Adí 22, come è detto, partimmo da Tauris col detto cadi lascher; ed eravi ancora una carovana di molti Azami che andavano al nostro cammino, e per paura si accompagnarono con noi. E camminando trovavamo il paese tutto piano, con qualche poche colline e molto arido, non si trovando un arbore d'alcuna condizione, salvo appresso qualche fiumana. Trovavamo pur qualche casale, ma non da conto. Avanti mezogiorno riposavamo alla campagna, e cosí la notte, e di casale in casale ci fornivamo di vettovaglia secondo li nostri bisogni. E camminando al detto modo, arrivammo adí 28 in una terra chiamata Soltania, che per quel che mostra credo fosse bona terra: ha un castello di muro assai grande, il qual volsi vedere. Eravi una moschea, che mostrava esser molto antica: aveva tre porte di bronzo, piú alte di quelle di San Marco in Venezia, lavorate con pomoli tutti fatti alla damaschina, intervenendovi argento; e certo è cosa bellissima. Credo costassero assai danari. Altro da conto non viddi. La detta terra è posta in pianura, ma appresso alcune montagne non troppo grandi; dicono che 'l verno vi fa tanto freddo che conviene andar ad abitare in altro luogo. Ha uno bazzarro di vettovaglie e di qualche boccassini, ma non da conto. Stemmo nel detto luogo fin alli 30, e la mattina ci partimmo, camminando pur per campagne con colline, come è detto: ed è della Persia, la qual comincia da Tauris; e dormendo ogni notte alla campagna.
Adí IIII ottobre 1474 giungemmo in una terra chiamata Sena, non murata, con bazzarro all'usato, posta in campagna appresso una fiumana, la qual ha pur degli arbori intorno, dove dormimmo in una caversera assai incommodo.
Adí 5 ne partimmo di lí, e alli 6, essendo alloggiati in campagna, fui assalito dalla febre con varii accidenti, che con gran fatica alli 8 la mattina cavalcammo, e a buon'ora arrivammo ad una terra chiamata Como: ed entrati in un caversera in un poco di alberghetto, la febre crescendo cominciò gravemente a molestarmi. E il giorno sequente tutti li miei si ammalarono, eccetto pre' Stefano, il qual era quello che ci attendeva a tutti: e fu malattia di sorte che, per quanto mi fu detto, noi farneticavamo dicendo molte pazzie. Il detto cadi lascher mi mandò a visitare e scusarsi che lui non poteva star piú quivi, perchè gli conveniva esser presto dal suo signore, ma che mi lascieria un servitore, confortandomi che io era in paese che niuno mi faria dispiacere. La detta malattia mi tenne nel detto loco fin alli 23. La detta terra di Como è posta in piano, ed è picciola ma assai bella, e circondata di mura fatte di fango, ed è assai abbondante d'ogni cosa, con buoni bazzarri di quei loro lavori e boccassini.
Alli 23, come s'è detto, ci partimmo di lí, e in vero che per la malattia io cavalcavo con grande affanno.
Alli 25 arrivammo in un'altra terra chiamata Cassan, murata come Como e con bazzarri, come s'è detto; ma è piú bella terricciuola di Como.
Alli 26 la mattina ci partimmo di lí ed entrammo in un'altra terra picciola chiamata Nethas, posta in piano, dove si fa piú vin che in altro luogo: e per la debolezza, e perchè mi era pur ritornato un poco di febre, stetti lí quel giorno.
E alli 28 il meglio che potei montai a cavallo, e camminando pur per pianura giungemmo in una terra chiamata Spaan alli 30, dove trovammo il signore Ussuncassan. E inteso dove alloggiava il magnifico messer Iosafa Barbaro ambasciadore, andai a dismontare al suo alloggiamento, e vistone l'un l'altro, pieni d'allegrezza n'abbracciammo strettamente: di quanta consolazione mi fusse si può considerare, ma, bisognandomi piú presto riposo che altro, mi posi a riposare. Il giorno poi sequente conferí con sua magnificenzia quanto mi accadeva: il signore, inteso ch'ebbe della mia venuta, mandò suoi schiavi a ricevermi con presenti di vettovaglie.
Adí IIII novembre 1474 la mattina per suoi schiavi fussimo chiamati dal signore nella stanza dove stava, ed entrati in una camera col magnifico messer Iosafa, dove era sua signoria con otto dei suoi baroni, li quali mostravano d'esser uomini di auttorità, e fatta la debita riverenza secondo il lor costume, esposi l'ambasciata per nome della mia illustrissima Signoria e gli appresentai la lettera di credenza. Compiuto quanto io aveva da dire, mi rispose con brevità, quasi scusandosi che la forza l'avea fatto andar in quelle parti. Dapoi mi fece sedere appresso quelli suoi baroni, dove fu portato da mangiare in vero abondantemente delle vivande secondo la loro usanza, ma ben apparecchiato, sedendo sui tapeti come usano. Mangiato che avemmo, salutammo sua signoria e ritornammo alli nostri alloggiamenti.
Alli 6 fossimo chiamati, e fecemi mostrar gran parte de' suoi alloggiamenti dove stava, che erano in mezo d'un campo dove correva una fiumana, luogo molto dilettevole. Era una parte fatta in modo d'una cuba, dove era dipinto il modo ch'egli mandò a tagliar la testa a soltan Busech, mostrando che Curlumameth lo menava con una corda: il qual fu quello che fece far le dette stanze. Ne fece poi far collazione di buone confezioni; tornammo alle nostre stanze senza dir altro. Stemmo in questo luogo di Spaan con sua signoria fino alli 25 del detto, e nelli detti giorni molte volte fussimo chiamati da sua signoria, dove mangiavamo senza dirne altro. La detta terra di Spaan mostra d'essere assai convenevol terra, posta in piano, abondante d'ogni vettovaglia. Dicono che, non volendosi ella rendere, poi che fu presa fu molto distrutta; ed è murata di mura di terra come l'altre. Nota che da Tauris fin a questo luogo di Spaan sono giornate 24, paese tutto della Persia, piano aridissimo, e molti luoghi hanno acque salse. Le biade e i frutti, che pur ve ne sono assai abondantemente, son fatti quasi per forza d'acque: hanno frutti d'ogni sorte, li migliori che io abbia visto e gustato in luogo alcuno. A banda destra e sinistra vi sono montagne, le quali dicono esser molto fertili, e che da quelle vien la maggior parte delle vettovaglie. Tutte le cose sono care: il vino costa da tre in quattro ducati la quarta a nostro modo, di pane è conveniente mercato, le legne costano un ducato la soma da camelo, la carne è piú cara che da noi, le galline si vendono sette al ducato; le altre cose tutte per ragione. Li Persiani sono uomini molto costumati e gentili nelle cose loro; mostrano d'amar li cristiani: nella detta Persia a noi non fu mai fatto oltraggio alcuno.
Le lor donne vanno vestite assai onorevolmente, sí nel vestire come nel cavalcare, molto meglio che gli uomini: mostrano d'esser belle donne, perchè gli uomini sono belli e ben fatti; tengono la fede macomettana.


Il clarissimo ambasciador si parte da Spaan e insieme con Ussuncassan torna a Tauris,
dove trova l'ambasciador del duca di Borgogna e del duca di Moscovia,
e dopo molte udienze è licenziato da Ussuncassan.
Cap. 4.

Adí 25 di novembre, come s'è detto, sua signoria si partí del detto luogo di Spaan con la sua corte, e tutti con le lor famiglie ritornando ad invernar in Como, e io con sua signoria, camminando quasi per li luoghi che eravamo andati, alloggiando alla campagna sotto padiglioni; e in ogni luogo dove alloggiavamo si facevano bazarri d'ogni cosa, perchè sono deputati alcuni che seguitano il campo a portar vettovaglie e biade d'ogni sorte.
Adí XIIII decembre millequattrocentosettantaquattro entrammo nella detta terra di Como con sua signoria, dove con fatica ne fu data una casetta per nostro alloggiamento: ma ci convenne star due giorni sotto i padiglioni avanti che la potessimo avere. Stemmo con gran freddi nel detto luogo di Como con sua signoria fino alli 21 di marzo 1475, e secondo l'usanza molte volte ne faceva chiamare. Quando mangiavamo con sua signoria ci faceva entrar nella sua camera de' padiglioni, e anche alle volte stavamo di fuori, e senza dirne altro ci partivamo; e quando desinavamo con sua signoria ella aveva piacere di dimandar delli nostri luoghi, e facevane di strane dimande. La sua porta certo è onorevole, e di continuo vi sono molti uomini da conto, e ogni giorno vi mangiano da 400 persone e alle volte molto piú, le quali seggono in terra. Vien portato loro in alcuni tapsi di rame ora risi, ora vivande di formento con un poco di carne dentro, che è un piacere a vederli mangiar con furia. Al signore e a quei che mangiano con sua signoria vien portato onorevolmente e abondante e bene apparecchiato; di continovo beve vino a pasto. Mostra d'esser bel mangiatore, e di quanto mangiava aveva gran piacere di presentarci di quello che gli era davanti. Erano di continuo alla sua presenza molti sonatori e cantori, alli quali comandava quello che gli piaceva che cantassino o sonassino. Era signor che mostrava esser di natura molto allegro; è grande di persona, scarmo, ha il viso un poco tartaresco e la faccia di continovo colorita. Gli tremava la mano quando beveva; secondo che mostrava, era di età d'anni settanta. Molte volte faceva tanfaruzzo e molto alla domestica; quando passava il segno era pur pericoloso, ma, computato il tutto, era assai piacevole signore. Stemmo in questo luogo di Como, come s'è detto, fino alli 22 di marzo. Lascierò di dir le volte che parlammo con sua signoria circa l'ambasciata nostra, per non esser a proposito: ma solo per quanto fu l'effetto, tutto si potette comprendere.
Adí XXI marzo 1475 partimmo da Como per venir verso Tauris con tutto il lordo, cioè con ciascuno di quelli che seguivano il signore, quale aveva tutta la sua famiglia e roba caricata sopra cameli e mule, che erano in grandissima quantità. Facevamo da 10 in 12 miglia il giorno, e per andare a trovar buona erba alle volte 20: ma ciò rare volte aveniva. Il costume del suo cammino è che un giorno avanti mandi a mettere il suo padiglione dove egli vuole alloggiare, poi la notte il lordo si leva, e tutti vanno dove egli è posto; e dove è qualche buona erba e acqua, vi sta fin che l'erba vien consumata e poi si parte, cosí seguitando di continovo. Le loro femine sono sempre le prime agli alloggiamenti a drizzare li padiglioni e apparecchiare per li mariti, le quali son ben vestite e cavalcano benissimo su li migliori cavalli che abbiano. Sono gente molto pomposa: hanno quei lor cameli tanto ben guarniti che gli è un piacere a vedergli, che non è si tristo che non abbia almeno sette cameli, di modo che a vederli da lontano paiono gran numero di gente, ma con effetto non è cosí. Al giunger suo in Tauris poteva avere in sua compagnia da duomila pedoni. Al magnifico messer Iosafa e a me non parve mai di veder piú di cavalli cinquecento appresso il signore, perchè gli altri andavano come piaceva loro. Li padiglioni del signore veramente erano belli quanto dir si possa: dove egli dorme è a modo d'una camera coperta di feltro rosso, con porte che basteriano ad ogni buona camera. Camminando, come s'è detto, di continuo si facevano bazarri nel lordo e trovavasi d'ogni cosa, ma tutto era caro. Noi con li nostri padiglioni, cioè uno per uno, seguitavamo sua signoria: e molte volte ne facea chiamar a mangiar seco, usando li sopradetti modi, ma spesse volte ci visitava di qualche presente, cioè delle loro vivande, mostrando certo grande amorevolezza, né per niun, né de' suoi né d'altri, ne fu fatto mai torto alcuno.
Adí XXX maggio 1475, essendo circa miglia 15 lontano da Tauris, giunse al signore un frate Lodovico da Bologna con sei cavalli (diceva chiamarsi patriarca d'Antiochia), il quale disse che era stato mandato per ambasciador del duca di Borgogna: subito il signor ci mandò a dire se noi lo conoscevamo; facemmo buona relazione di lui a sua signoria.
Adí 31 la mattina mandò a chiamarlo, e noi di compagnia per udirlo; aveva portato con lui un presente di tre veste di panno d'oro, tre di veluto cremesino e tre di panno pavonazzo, e andato da sua signoria l'appresentò. Ci fece entrar nel suo padiglione, e volse che 'l detto ambasciadore dicesse quanto aveva da dire; egli disse ch'era stato mandato per ambasciador dal duca di Borgogna a sua signoria, e per nome d'esso duca le fece grandissime offerte, con molte parole le quali non accade recitare in questo luogo. Il signor mostrò di non ne far conto. Desinassimo poi con sua signoria, dove gli fece molte dimande: a tutte rispose al bisogno; dapoi ce ne ritornassimo alli nostri padiglioni.
Adí 11 giugno 1475 entrammo in Tauris, e funne dato uno alloggiamento; e adí 8 fu mandato a chiamare il detto patriarca e noi. E benchè per avanti quattro volte il signor m'avesse detto che voleva che io tornassi in Franchia, e che 'l magnifico messer Iosafa rimanesse appresso di lui, io sempre recusai, né credevo che piú di tal cosa se ne dovesse parlare. Fummo chiamati davanti sua signoria, dove al detto patriarca disse: "Tu tornerai al tuo signore, a fargli sapere come io voglio star sopra le promesse a far guerra ad Ottomano, e che già io son in punto", con qualche altra parola leggiera in tal proposito. Dapoi si voltò verso di me e dissemi: "Ancora tu anderai con questo casis dal tuo signore, e dirai come sono in punto a far guerra ad Ottoman, e che ancora essi vogliano fare il medesimo. Io non posso mandar migliore né piú sufficiente messo di te: tu sei stato fin in Spaan e ritornato con me, e hai visto il tutto; lo potrai riferire al tuo signore e a tutti li signori cristiani". Udito che l'ebbi senti' grandissimo dispiacere, e risposi che tal cosa io non poteva far, per le ragioni che accadevano. Mi disse con turbato volto: "Io voglio, e cosí ti comando, che tu vada, e di questo mio comandamento ne scriverò al tuo signore". Volsi il parer del detto patriarca e del magnifico messer Iosafa, i quali mi dissero che non si poteva far altramente che far il suo comandamento. Vista la volontà del signore e il lor parere, risposi: "Signore, ancor che questa cosa mi sia grave, poi che tua signoria comanda cosí, il tuo comandamento sarà sopra la mia testa e farò quanto mi comandi, e in ogni luogo dove mi troverò dirò la possanza grande e il buon voler di tua signoria, confortando tutti li signori cristiani che voglino far il simile dal canto loro". Mostrò che la mia risposta gli fusse grata, e usommi qualche buona parola secondo il lor costume. Usciti fuori, fossimo fatti ridurre in un altro luogo, dove mandò a vestire il detto patriarca e me di due robe a lor modo assai leggieri, per esser cosí il lor costume. Di nuovo tornammo a sua signoria e, fattale riverenza, venimmo alla nostra stanza, dove ci mandò a presentare alcuni pochi denari e un cavallo per uno, cioè al patriarca e a me, con alcune frascherie di poco momento. In quel giorno egli uscitte di Tauris, e noi rimanemmo fin adí 10 del detto, nel qual giorno noi ci partimmo e insieme andammo a trovar sua signoria, il qual poteva esser circa 25 miglia nostre lontano da Tauris con li suoi padiglioni, in un luogo d'acque e di erba assai bello.
Adí 10, come s'è detto, partimmo da Tauris e andammo a trovar sua signoria, e messi li nostri padiglioni al luogo usato, stemmo molti giorni, fin che l'erbe furono consumate. Levossi di quivi e fece circa miglia 15 delle nostre, dove stemmo fin adí 27, che ne licenziò: e nei detti giorni pur qualche volta fussimo chiamati, ma non per cosa di momento, e qualche volta presentati dei loro cibi.
Adí 26 fussimo chiamati da sua signoria, e avanti che entrassimo ci fece mostrare alcuni lavori di seta assai leggieri, mostrando che nuovamente li faceva fare. Poi ci fece mostrar tre presenti, de' quali mandava uno al duca di Borgogna per il patriarca, l'altro alla nostra Signoria, il terzo per un Marco rosso, che era venuto per ambasciador del duca di Moscovia, signor della Rossia bianca: che erano alcuni lavori di Gesdi, due spade e tulumbanti, tutte cose assai leggieri. Fussemo poi chiamati da sua signoria, dove erano due suoi Turchi che mandava per ambasciadori, uno al duca di Borgogna, l'altro al duca di Moscovia. E avendo noi fatte le debite salutazioni, disse al patriarca e a me: "Voi anderete dalli vostri signori e dalli signori cristiani, e direte loro come io ero in punto per andar contra l'Ottoman, ma, avendo poi inteso che egli è in Constantinopoli e che non è per uscir quest'anno fuori, però non mi par cosa conveniente che io vada in persona contra le sue genti, ma mando parte delle mie contra quel disubidiente di mio figliuolo e parte alli danni dell'Ottoman.
E io son venuto in questo luogo per esser in punto a tempo nuovo contra il detto Ottoman: e cosí averete a dire alli vostri signori e alli signori cristiani". E cosí comandò che dovesse dire il suo ambasciadore. Cotal parlare, con quel che a noi avea detto prima, mi fu molto dispiacevole; né dir altro si poté, salvo che far quanto egli comandava.
Con questo ne licenziò, ed essendo noi per partire, ci fece soprastare insino alla mattina, per usare un'arte, sí come fece: la notte, per quel che noi sentimmo, fece che tutti li suoi pedoni andorno accosto d'una montagna, e la mattina fussimo fatti ridur sotto un padiglione in luogo alto, dove era uno del ruischason, che era quello che aveva la cura degli ambasciadori. E mostrando di parlar con noi di varie cose, ne disse: "Ecco che vengono di molti pedoni; voi arete tanfaruzzo (cioè piacere) a vedergli". Li suoi schiavi dicevano: "Questi che vengono sono gran summa, ma quelli che resteranno sono ancora assai". Passavano per costa d'una montagna, acciochè li potessimo ben vedere; passati che furono, dicevano fra loro che potevano esser da diecimila. Volemmo intendere il tutto, e fussimo accertati esser quei medesimi pedoni che vennero con sua signoria: e fecelo solo a fin che cosí avessimo da riferire. Fatto questo ne diede le lettere, e tornammo ne' nostri padiglioni. Io, parlando con diverse persone, e anco insieme col magnifico messer Iosafa Barbaro, per intendere quanti cavalli potevano esser con sua signoria, cioè da fatti, intesi che erano da ventimila, ma fra buoni e cattivi da 25 mila. Di altri apparecchi non viddi altro, salvo che aveano alcuni pezzi di tavola un passo lunghi, con due pironi di ferro da ficcare in terra, assai deboli. In piú volte potemmo veder da cavalli cinquanta, coperti d'alcune lame di ferro sopra certi lavori di seta grossi. Le arme che usano sono archi e spade, e alcuni brocchieri lavorati di seta over di filato; non hanno lancie. La maggior parte degli uomini da conto hanno celate assai belle e qualche panciera; hanno buoni e bei cavalli. Di niuna altra lor cosa ho da dire, per aver detto della condizion del paese e dei loro costumi e d'ogni altra cosa a sufficienza, benchè piú diffusamente averia potuto dire che non ho detto: ma l'ho fatto per non esser tedioso.


Il clarissimo ambasciador si parte da Tauris e, cavalcando per la Giorgiania e Mengrelia, è assaltato in molti luoghi, e finalmente arriva al Fasso.
Cap. 5.

Adí 28, ridotti sotto il padiglione del magnifico messer Iosafa Barbaro, desinassimo insieme: e a sua magnificenzia e a me pareva dura la partita, che certo fu con effetto, e abbracciandone insieme con molte lagrime pigliammo licenzia l'uno dall'altro. Montai a cavallo insieme col detto patriarca e gli ambasciatori turchi e il sopradetto Marco rosso: col nome di Dio ci partimmo, che credo fosse in strana ora, per gli affanni che io ebbi e i pericoli grandissimi. Camminando per il paese d'Ussuncassan per venire al Fasso, arrivammo alli 9 casali d'Armeni catolici, come abbiamo detto per avanti, e alloggiammo in casa del vescovo, dove fossimo ben visti e udimmo messa catolica. Dimorammo quivi tre giorni per fornirci; donde essendo partiti, e camminando per pianura e anche per qualche monte, entrammo nel paese del re di Giorgiania.
Adí XII luglio 1475 arrivammo in una terra del detto re chiamata Tiphis, posta sopra un poco di monticello, col suo castello sopra il monte piú alto, assai forte, dove anche trovammo un Armeno catolico, e con esso lui alloggiammo, avendo passato un fiume ivi appresso, il qual si chiama Tigris. Per fama la detta terra fu assai grande, ma è molto distrutta; e per quel poco che ora è, è assai ben abitata e vi sono anche di molti uomini catolici.
Adí 15, cavalcando per la detta Giorgiania, e la maggior parte per montagne, trovavamo pur qualche casale, e anche sopra qualche montagna vedevamo qualche castello.
Adí 18, circa li confini della Mengrelia, in un bosco in mezo di montagne, trovammo il re Pangrati, e fummo a visitarlo tutti noi: dove volse mangiassimo con lui, sedendo in terra, con li mantili di cuoio secondo la lor usanza per tovaglia. Il nostro mangiar fu carne arrostita con qualche gallina, e tutto mal cotto, con qualche altra cosuccia; ma ben vi era del vino abbondantemente, perchè tengono quello esser il piú bell'onore che possano fare. Mangiato che s'ebbe, si misero a far sdraviza con alcuni bicchieri groppolosi mezo braccio lunghi: e quelli che bevevano piú vino erano piú stimati fra loro. I Turchi, che non beveano vino, furno cagione che ci levammo da tal impresa: ma fummo molto disprezzati, perchè non facevamo a modo loro. Il detto re poteva esser d'anni 40, uomo grande, bruno, di viso tartaresco, nondimeno bell'uomo; dal quale togliemmo finalmente commiato.
Adí 20 la mattina partimmo di lí, e cavalcando per la detta Giorgiania, sempre quasi per montagne, venimmo a' confini della Mengrelia, dove trovammo (e fu adí 22) un capitano d'alcune genti a piedi e cavallo del detto re, per certa differenza ch'era nel paese della Mengrelia per la morte di Bendian suo signore, le quali ne fecero fermar con molte minaccie, e ci tolsero due turcassi con gli archi e con le freccie, e pagammo alcuni danari; lasciaronne poi andare, e noi piú presto che potemmo cavalcando uscimmo fuori di strada, e ridotti in un bosco stemmo quella notte con gran paura, dubitando non esser assaltati.

Adí 23 la mattina, cavalcando verso Cotatis, nel passare un passo stretto fummo assaltati da alcuni del casale, che ci tolsero il passo con minaccie di morte, e dopo le molte parole tolsero tre cavalli di quelli ambasciadori turchi che portavano il presente: e con gran fatica, pagando circa ducati venti di lor monete, e i cavalli e alcuni archi, fummo lasciati e venimmo a Cotatis, castello del detto re.
Adí 24 la mattina, convenendoci passare un ponte sopra una fiumana, fummo assaliti, e ci bisognò pagare un grosso per cavallo, essendo menati: che certo ne fu di grande affanno. Passati che fummo entrammo nella Mengrelia, dormendo sempre alla foresta.
Adí 25 fummo menati a passare una fiumana con alcuni zoppoli, e ridotti in un casale d'una donna chiamata Maresca, che fu sorella di Bendian, la qual mostrò farne buonissimo accetto: presentonne del pane e del vino, e misene dentro un suo prato serrato.
Adí 26 la mattina deliberammo farle un presente, che poteva valere da venti ducati: ne ringraziò e non volse accettarlo, ma poi cominciò a farne molti strazii, dicendo voler due ducati per cavallo. E benchè noi ci scusassimo, per povertà come per altro, non però ne valse, e ne convenne darle due ducati per cavallo, e anche volse il presente che le avevamo mandato, con qualche altra mangiaria appresso, e con fatica ne licenziò: che certo, alli modi ch'ella tenne, credetti che ne dovesse spogliar del tutto; nondimeno fummo licenziati.
Adí 27 montammo parte di noi in alcuni suoi zopoli, e parte a cavallo: venimmo al Fasso, molto dissipati; e alloggiati in casa dell'antedetta donna Marta circassa, per conforti degli affanni che avevamo avuti, sentimmo Capha esser stata presa da' Turchi, dov'era la speranza nostra di passare: di quanto affanno tal nuova ci fusse lascio considerar a voi. Non sapevamo che partito dovessimo prendere, e stavamo come persone perdute; ma frate Ludovico da Bologna, patriarca d'Antiochia sopradetto, deliberò di voler andare alla via di Circassia, per passar la Tartaria e venir in Rossia, mostrando aver qualche notizia del detto cammino. Piú volte avea detto di non s'abbandonare l'un l'altro, e cosí gli dissi e lo pregai che dovessimo di compagnia far il detto cammino: e questo fu piú volte; ma mi rispose ch'era tempo che ciascuno salvasse la sua testa. Mi parve un'iniqua e strana risposta, e ancora lo pregai non volesse usar tanta crudeltà, ma niente mi valse. Volse ad ogni modo partire con la sua compagnia e famiglia, e con l'ambasciador turco datogli per Ussuncassan. Visto cosí, cercai accordarmi con Marco rosso e con l'ambasciador turco ch'aveva con lui, e pigliar qualche partito di ritornare adietro. Mostrorno di volerlo fare, e per segnal di fede ci baciammo la bocca, e io teneva tal promessa per certa: ma si consigliorno poi fra loro e deliberorno andar per il paese di Gorgora, signore di Calcican e delle terre Vati, che confinano con alcuni luoghi d'Ottomano e davanli tributo. Intesa io tal cosa, non mi parve di pigliar tal cammino, ma piú tosto rimanere ivi al Fasso alla misericordia di Dio.
Adí VI agosto 1475 il detto patriarca montò a cavallo, com'è detto, con li suoi, facendo qualche scusa meco, e il giorno seguente si partí il detto Marco rosso, col Turco e con alcuni Rossi che erano con lui, parte in una delle lor barche e parte a cavallo, per il Vati, con pensier d'andare alla volta di Samachi e poi passar la Tartaria. Cosí rimasi io solo in quel loco con la mia famiglia, che in tutto eravamo cinque, abbandonati da tutti, senza danari e senza speranza d'alcuna salute, per non saper che via né che modo avessimo da tenere: qual cuore fusse il nostro lascio considerar a chi ha intelletto. A me in quel giorno da fastidio saltò la febre terribile e grande, né mi potevo medicar con altro che con l'acqua della fiumana e con qualche panetto, piú presto di semolelli che d'altro: pur alle volte con fatica ebbi qualche polastrello. Il male fu grande e con alcune frenesie, che, per quello che mi fu detto dopo, io diceva molto strane cose. Ivi ad alcuni dí s'ammalarono tre della mia famiglia, e restò solo prete Stefano, il qual attendeva a tutti. Il mio letto era una coltre assai trista, la qual mi prestò un Zuan di Valcan genovese che stava in quel luogo, e questa era lenzuoli e letto; la famiglia se ne stette con quelli pochi drappi ch'aveva. La detta malattia mi tenne fino adí 10 settembre, che certo mi ridusse a tanta estremità che li miei tenevano per certo ch'io dovessi morire: ma la ventura mia volse che la detta donna Marta aveva una borsetta e un poco d'olio, e qualche erba, la qual mi fu posta, e parve ch'io megliorassi. Ma questo conosco veramente che fu per misericordia del nostro Signor Dio, al qual piacque non mi lasciar morire in quei paesi, di che sempre sia ringraziato. Rimasti adunque tutti sinceri, ragionammo fra noi qual partito dovevamo pigliare, e deliberammo per opinion mia di ritornare adietro alla volta di Samachi per passar la Tartaria. Eranvi di quelli che volevano ch'io andassi per la Soria, ma non volsi in modo alcuno, e mi ristorai alquanto nel detto luogo del Fasso.
Adí X settembre 1475 montammo a cavallo e, fatto circa due miglia de' nostri, per la gran debolezza non era possibile cavalcare, onde fui posto in terra da cavallo; e, riposato alquanto, tornammo in casa della detta donna Marta, dove stemmo fin adí 17. E fortificati alquanto, col nome del nostro Signor Dio, montammo a cavallo per seguir il viaggio deliberato per noi. Nel detto luogo del Fasso si trovava un Greco che sapeva la lingua mengrelia, il quale tolsi per mia guida, e mi fece mille assassinamenti, che a narrarli saria cosa pietosa.


Il clarissimo ambasciador si parte dal Fasso e, tornando per la Mengrelia e Giorgiania, va nella Media e passa il mar di Bachau, cioè Caspio, e perviene in Tartaria.
Cap. 6.

Adí 17 montammo a cavallo, com'è detto, ritornando per la Mengrelia con qualche travaglio.
Adí 21 fummo in Cotatis, e la detta guida movendomi garbugli, mi fu forza dargli comiato col miglior modo ch'io potei. Stemmo nel detto loco fino adí 24, sí per non mi sentir bene, come per aspettar qualche compagnia; e finalmente ci accompagnammo con alcuni pochi, li quali non conoscevamo né intendevamo, per certe montagne, ma non senza paura, fino a' 30, che giungemmo in Tiflis, e dismontai piú morto che vivo in una chiesa di un Armeno catolico, dal qual certo con molti altri avemmo buona compagnia. Il detto prete aveva un figliuolo, al qual per nostra sorte venne la peste, perchè quell'anno era stata grande nel detto luogo; ed essendosi li miei mescolati con lui, l'appiccò a un Mafeo da Bergamo mio servitore, il qual mi attendeva, e per due giorni, avendola, di continuo mi stette a torno: si buttò poi giuso dov'esso dormiva e, discoperto questo male, fui consigliato che mi levassi di lí, onde, fatto netto il meglio si poté un luogo ove la notte stavan le vacche, mi fu acconcio con un poco di fieno, dove fui messo a riposare per la gran debolezza ch'avevo. Il prete non volse piú che 'l detto Mafeo stesse in casa sua e, per non aver altro luogo, ci fu forza metterlo in un cantone dove ero anch'io, servendolo prete Stefano: e piacque al nostro Signor Dio chiamarlo a sé. Ebbi pur il modo, con preghiere assai, d'aver un altro luogo da vacche simile a quello, ove mi ridussi al modo sopradetto. Eravamo abbandonati da tutti, salvo che da un vecchio che sapeva un poco franco, che di continuo ci serví: ma come noi stessimo si può facilmente giudicare.
Stemmo nel detto luogo di Tiflis fino a' 21 ottobre, e il giorno avanti per mia ventura capitò ivi quell'ambasciador turco che andava con frate Ludovico patriarca d'Antiochia, il qual mi disse ch'essendo andati fin nell'Avogasia, furon rubati e spogliati del tutto; e diceva che 'l detto patriarca n'era stato cagione che gli fusse stato rubato, e che lo lasciò andare, ed egli se ne ritornava nel suo paese, dicendo che di questo faria lamenti assai al suo signor Ussuncassan. Io il meglio che poteva lo confortava, e ci accompagnammo insieme, e partimmo di lí, come è detto, adí 21 d'ottobre. Il detto Tiflis è del re Pangrati di Giorgiania. E cavalcando per due giorni entrammo nel paese d'Ussuncassan, perchè era nostra via per andar in Samachi, e trovammo belli paesi.
Adí XXVI d'ottobre 1475 fummo in un luogo dove ne convenne separar l'uno dall'altro, perch'io volevo entrar nel paese di Sivansa per andar in Samachi sua terra, e l'ambasciador andar nel suo paese. Per mezo suo ebbi per guida un Turco dei lor preti per fino in Samachi. Tolto comiato ci partimmo, ed entrati nel detto paese, che si chiama la Media, il qual è bello e fruttifero paese ed è per la maggior parte pianura, molto piú fruttifero e bello di quello d'Ussuncassan, noi con la detta guida avemmo buona compagnia.
Adí 1 novembre 1475 arrivammo in Sammachi, terra del detto signor Sivansa, signore della Media: ed è quel luogo dove si fa la seta talamana, e ancora molti altri lavori di seta: nondimeno sono leggieri, e per lo piú fanno rasi. La detta terra non è grande come Tauris, ma secondo il mio giudicio molto migliore in ogni condizione e abbondante d'ogni vettovaglia. Stando nel detto loco trovammo Marco rosso, ambasciador del duca di Moscovia, quello col quale andammo fino al Fasso, che fece la via di Gorgora e capitò ivi dopo molti travagli. Venne per sua cortesia a trovarmi nel caversera dove io era, e abbracciatolo strettamente lo pregai mi volesse accettare in sua compagnia, e mi s'offerse con buone e cortesi parole.
Adí 6 partimmo di lí col detto Marco per andare in Derbent, terra del detto Sivansa, al confin della campagna de' Tartari. E cavalcando ora per montagne ora per pianure, alloggiando qualche volta in qualche casale de Turchi, da' quali avevamo assai buona compagnia, trovammo a mezo cammino una terricciuola assai convenevole, ove nascono tanti frutti, e massimamente pomi, ch'è cosa incredibile, e tutti bonissimi.
Adí 12 giungemmo al detto luogo di Derbent, e perchè a voler andare in Rossia n'era forza passar la campagna de' Tartari, fummo consigliati invernare in detto luogo, e all'aprile passare per il mar di Bachau e andar in Citracan. La detta terra di Derbent è posta sopra 'l mare di Bachau, cioè mare Caspio, e dicesi che fu edificata per Alessandro Magno, e chiamasi Porta di Ferro, perchè a entrar della Tartaria in Media e Persia, non si può entrare salvo che per la detta terra, per aver una valle profonda che tiene fino in Circassia. Ha bellissime muraglie, molto larghe e ben fatte, ma sotto il monte alla via del castello non è abitata la sesta parte, e verso il mare tutta è disfatta. Ha una grandissima quantità di sepolture. È convenevolmente abbondante d'ogni vettovaglia e fa vini assai, e similmente frutti d'ogni sorte. Il detto mare è lago, per non aver bocca alcuna, e dicesi che volge tanto quanto il mar Maggiore, ed è molto profondo; vi si pigliano sturioni e morone in grandissima quantità: altri pesci non sanno pigliare. V'è una grandissima copia di pescicani con la testa, piedi e coda propria come cani; pigliano ancora una sorte di pesci lunga circa un braccio e mezo, grosso e quasi tondo, che non mostra né testa né altro, dei quali fanno certo liquore che bruciano a far lume, e anche ungono li cameli, e portasene per tutto il paese. Stemmo nella detta terra da' 12 novembre fino a' 6 aprile, che montammo in barca, e certo avemmo buona compagnia. Mostravano essere bellissime genti, né mai ci fu fatto ingiuria alcuna. Dimandavano chi eravamo, e dicendo che eravamo cristiani non cercavano altro. Io portava in dosso una casacca tutta squarciata, foderata di pelli agnelline, e di sopra una pelliccia assai trista, con una berretta di pelli agnelline in capo, e andavo per la terra e per il bazzarro, e molte volte portavo la carne a casa. Ma sentivo pur qualcuno che diceva: "Costui non par uomo da portar carne", e il detto Marco me lo diceva e riprendevami, dicendo che io andavo con una presenzia che pareva ch'io fussi in franchisa; ma io dicevo non poter far altro, maravigliandomi ch'essendo cosí straccioso, facessino tal giudicio di me.
Ma, com'è detto, avemmo buona compagnia.
Stando nel detto luogo, per esser desideroso d'intender qualche nuova delle cose del signor Ussuncassan e del magnifico messer Iosafa Barbaro, deliberai mandar Dimitri mio turcimano fino in Tauris, che è cammino di venti giornate: e cosí andò e ritornò in giorni cinquanta, e portommi lettere d'esso Iosafa, il quale mi scrisse che 'l signor era lí, ma che non si poteva saper cosa alcuna di lui. E per lo detto Marco fu fatto accordo con un patrone delle lor barche per condurci in Citracan; le quali lor barche stanno tutto 'l verno in terra, per non poter navigare, e sono fatte a modo di pesci (che cosí le chiamano), strette da poppa e da proda, con pancia in mezo, fitte con pironi di legno e calcate di pezze. Vanno alla quara, e hanno due zanche con uno spaolo lungo, che con bonaccia governa, e quando è qualche mal tempo con le zanche. Non hanno bussoli, ma navigano con la stella sempre per la vista di terra, e sono navili molto pericolosi. Vogano qualche remo e governansi tutto alla bestiale, e dicono non esser altri marinari ch'essi. E, per dire il tutto, queste genti sono tutte macomettane.
Adí VI aprile 1476 l'esserne bisognato star circa otto giorni a marina in barca con le nostre robe per aspettar tempo fe' che 'l detto Marco di continovo stette nella terra, e noi, per esser soli, non eravamo senza qualche paura. Piacque al nostro Signor Dio far tempo per il nostro viaggio, onde, ridotti tutti alla marina, fu buttata la barca in acqua, poi tutti noi entrammo dentro e facemmo vela: eravamo persone 35, computando il patrone con sei marinari; il resto erano alcuni mercanti, che portavano qualche poco di risi e qualche lavoro di seta e di boccassini per Citracan per vender a' Rossi, e anco qualche Tartaro per pigliar altre cose, cioè pellettarie che fanno per il detto luogo di Derbent. Come è detto, facemmo vela il dí soprascritto con vento prospero, sempre larghi da terra circa miglia 15, a costa di montagne. Il terzo giorno, passate le dette montagne, trovammo spiaggia; e fece vento contrario, e ci fu forza a sorger con un ferricciuolo il capo del resto, e poteva esser circa ore quattro avanti sera. La notte il vento rinfrescò con mare assai, e ci vedevamo del tutto perduti: deliberarono far levare il ferro e lasciarci venir in terra alla ventura su la spiaggia. Levato che fu il ferro, c'intraversammo al mare, e per esser grosso con vento assai ne buttava in terra; ma volse il nostro Signor Dio, col detto mar grosso che ne levava da' scagni, che ci salvassimo, e buttonne appresso terra, ove la barca entrò in una fossa tanto lunga quanto ella era, che ne parve esser entrati in porto, perchè il mar rompeva tante volte, avanti che venisse lí, che non ne poteva nuocere. A tutti ne fu forza saltar in acqua, e portar ciascuno le sue cosette in terra molto bagnate, e anco la barca faceva acqua, per il toccar ch'ella fece sugli scagni. Avevamo gran freddo, sí per esser bagnati come per il vento. La mattina fecero deliberazione fra loro che alcuno non facesse fuoco, perchè eravamo in luogo tanto pericoloso de' Tartari quanto dir si potesse. Su per la marina erano molte pedate di cavalli, e perchè vi era un zopolo che mostrava esser rotto da fresco, giudicavamo che li detti cavalli fussero venuti per pigliar li lor uomini, o vivi o morti, dal detto zopolo, di modo che stavamo con grandissima paura e in aspettazione continova d'esser assaltati: ma ci rassicurammo vedendo che dietro la spiaggia erano molte paludi, sí che di ragione li Tartari doveano esser lontani dalla marina. Stemmo nel detto luogo fino adí 13, che bonacciò e mostrò far tempo per il nostro viaggio, onde, messe le cose delli marinari in barca e menata la barca fuor delli scagnoni, furno caricate l'altre robbe e fatto vela: e fu il sabbato santo. Facemmo circa miglia 30, e un'altra fiata n'assaltò il vento contrario, ma, avendo alcune isolotte di canne sotto vento, ne fu forza d'entrare in esse, e venimmo a sorger in un luogo dove era poca acqua. Il vento rinfrescò, e per il marisino la barca toccava alquanto; però il patron volse che tutti dismontassimo sopra un poco di canneto, a modo d'uno isolotto, e cosí facemmo. E mi convenne pigliar le mie bisaccie in spalla e discalzato andarmene il meglio che potei in terra, con gran freddo e gran pericolo, per rispetto del marisino che mi bagnò tutto. Giunto in terra, trovai un poco di coperto di canne, che, per quanto dicevano, li Tartari venivano a pescar l'estate in quei luoghi: messimi lí dentro per asciugarmi il meglio ch'io poteva insieme con la mia famiglia; e i marinari con gran fatica ridussero la barca a paravezo del vento, ove era senza pericolo.
Adí 14 la mattina, che fu il giorno di Pasqua, stando sul detto canneto con qualche poco di canne, ma con gran freddo, non avevamo con che far Pasqua salvo che con butiro; ma uno de' famigli del detto Marco, camminando per lo scoglio, trovò 9 uova di anetra e appresentolle al suo padrone, che fece far una frittata con butiro e appresentonne un pezzetto per uno: e con quello facemmo Pasqua, che fu molto bella, ringraziando sempre Iddio. Fra lor molte volte dimandavano chi io era, e avevamo deliberato col detto Marco farmi da medico, dicendo che io fui figliuolo d'uno medico servidor della despina che fu figlia del dispote Thoma, mandata da Roma per moglie del duca di Moscovia: e come povero e servidor della detta, andavo a trovare il detto duca e la despina per cercar la ventura. Ed essendo a uno de' marinari venuto un brusco over fumirolo sotto il scaio, mi dimandò consiglio, onde io, ritrovato un poco d'olio, pane e farina ch'era in barca, feci uno impiastro e glielo misi sopra il brusco: e volse la fortuna che in tre giorni si ruppe e fu guarito, per la qual cosa dicevano che io era un perfetto medico, confortandomi a voler rimaner con loro. Ma Marco mi scusò per non aver io cosa alcuna, né questo poter esser, ma che, giunto in Rossia, stato che vi fussi qualche poco di tempo, ritorneria lí.


Il clarissimo ambasciadore navigando il mar Caspio arriva a Citracan, città de' Tartari, e da' Tartari gli vengon fatte molte paure, e finalmente si parte con la caravana per andar in Moscovia.
Cap. 7.

Adí 15 la mattina fece vento, e facemmo vela, e di continovo velizando appresso terra, cioè di quelle isole di canneti, qualche volta sorgendo, fino adí 26, ch'entrammo nella bocca della Volga, fiumara grandissima, la qual viene dalle parti di Rossia: e dicono che ha bocche 72 che buttano nel mar di Bacau, ed è in molti luoghi molto profonda. Dalla detta bocca fino in Citracan sono miglia 75, e per la correntia grande, or col tirar l'alzana or con qualche poco di vento, arrivammo adí 30 al luogo di Citracan; ma di qua da Citracan verso la marina è una salina grandissima, che si dice far tanto sale che saria bastante a gran parte del mondo, e d'esso si serve la maggior parte della Rossia, ed è bellissimo. Li Tartari, cioè quel signor di Citracan, non volse che per quel giorno dismontassimo in terra, ma Marco dismontò, ed ebbe pur il modo, perchè avea lí qualche amicizia. E la prima sera fui menato in una casetta con la mia brigata, dove stava il detto Marco, messo in un poco di busetto, ove dormimmo. La mattina vennero tre Tartari, con visacci che parevano tavolazzi, e fecermi andare alla lor presenza, e dissero verso Marco che fusse il ben venuto, percioch'esso era amico del lor signore, ma che io era schiavo di quello perchè li Franchi erano lor nimici. Mi parve strana accoglienza, ma Marco rispose per me, né volse ch'io dicessi cosa alcuna, salvo ch'io mi ricomandava a loro. E questo fu il primo dí di maggio 1476.
Ritornai nella detta cameretta, con tanta paura, ch'io non sapeva dove mi era, e ogni giorno li pericoli crescevano, sí per li comerchieri, li quali dicevano che io al tutto avevo gioie, sí perchè aveamo qualche fraschetta delle cose di Derbent, per barattar a qualche cavallo per nostro cavalcare, e tutto ne fu tolto. Poi per il detto Marco mi fu detto che ne voleano vendere in bazarro, ma per suo mezo, con alcuni mercanti che doveano venir in Moscovia, dopo li molti affanni e pericoli che fummo assai giorni, fu ridutta la cosa in duemila alermi d'esser pagati al signore, senza l'altre mangiare date ad altri. E bench'io non avessi un soldo, furno pur trovati li detti danari da' Rossi e da' Tartari mercanti che venivano in Moscovia, con grandissima usura e con la sicurtà fattami dal detto Marco. La cosa del signore per l'accordo fatto pur era alquanto cessata, ma il can comerchier, quando Marco nostro non era in casa, veniva e buttava giú la porta del luogo dove stava, con voce maladetta minacciando di farmi impalare, dicendomi ch'io avea gioie assai, onde mi fu forza strangolarlo il meglio si poté. Molte e molte volte venivano anco alcuni Tartari la notte, ubriachi d'una vivanda che fanno di mele, gridando che voleano li Franchi, che non è cuor d'uomo che non si fusse spaventato, e con qualche cosa di nuovo ci conveniva farli tacere. Stemmo nel detto luogo dal primo di maggio fino adí 10 d'agosto, che fu il dí di s. Lorenzo.
Il detto luogo di Citracan è di tre fratelli, che sono figliuoli d'un fratello del presente imperadore de' Tartari, che sono quelli che stanno per le campagne della Circassia e verso la Tana. La state vanno per li caldi alli confini della Rossia, cercando li freschi e l'erba; e questi tre fratelli stanno in questo luogo di Citracan qualche mese del verno, ma la state fanno come gli altri. Il detto luogo è picciolo ed è sopra la fiumara della Volga, e le lor poche case sono di terra, ed è murato d'un muro basso, ma mostra bene che vi sia stato qualche edificio, e che non fusse gran tempo. È fama che anticamente il detto Citracan fusse luogo di facende assai, e le specie che venivano a Venezia per via della Tana venivano per il detto luogo di Citracan, perchè, secondo quello che potei intendere e comprendere, doveano capitare le specie lí e di lí alla Tana, essendo, per quanto dicono, non piú di giornate otto di cammino.
Adí X agosto 1476 partimmo, come è detto, da Citracan, il dí di san Lorenzo, nel modo che qui di sotto narrerò. Quel signore di Citracan, chiamato per nome Casimi Can, ogni anno manda un suo ambasciadore in Rossia al signor duca di Moscovia, piú presto per aver qualche presente che per altro, e con esso vanno molti mercanti tartari, e fanno una caravana e portano con loro alcuni lavori di seta fatti in Gesdi e boccassini, per barattar in pelletarie, selle, spade, briglie e altre cose a loro necessarie. E perchè bisogna camminar dal detto luogo di Citracan fino alla Moscovia di continovo per deserti, è forza che ciascuno si porti qualche vettovaglia: ma li Tartari poco si curano, perciochè menano con la detta caravana gran quantità di cavalli, e ogni giorno n'ammazzano per lor vivere, perchè la lor vita è sempre di carne e di latte, né niun altro alimento hanno, né sanno che cosa sia pane, salvo qualche mercante che sia stato in Rossia; ma a noi fu forza fornirci la mensa il meglio che si poté. Avemmo pur il modo d'aver un poco di risi, de' quali fanno una mistura di latte seccato al sole, e la chiamano thur, che vien molto dura e tiene un poco dell'agro, e dicono esser cosa di gran sostanzia. Avemmo anche cipolle e aglio, e con fatica ebbi circa una quarta di biscottelli di farina di frumento assai buona: e questa fu la nostra mensa; ma ebbi poi una coda di castrone salata, che fu all'ora della nostra partita. Il cammin nostro dritto fu tra due fiumare della Volga, ma perchè il detto imperadore avea guerra con Cassimi Can suo nepote, il qual Cassimi teneva dover esser egli vero imperadore, perciochè suo padre era imperadore del lordo e teneva la signoria, e per questo aveano guerra grande insieme, però tutti deliberorno che tutta la caravana passasse dall'altra banda della fiumara per camminar, tanto ch'ella venisse a passar in certo passo stretto del Tanais alla Volga, ch'è circa giornate cinque, perciochè, passato 'l detto stretto, la caravana non dubitava piú.
E cosí tutti misero le lor robbe e vettovaglie in alcuni lor zoppoli ch'usano, per passar di là dalla fiumara. Marco volse anch'egli mettervi le sue robbe, e ch'io vi mettessi quelle poche vettovaglie ch'avevo apparecchiate, e vi mandassi prete Stefano e Zuanne Ungaretto mio famiglio, e ch'io rimanessi con lui, perciochè aveva messo ordine con l'ambasciadore, chiamato per nome Anchioli, di trarmi di casa circa mezogiorno e andare al passo dov'erano andate le barche, che potevano esser da miglia 12 su per la fiumara: e quando fu ora mi fece montar a cavallo col detto ambasciadore e col mio turcimano, e con gran paura, camminando piú bassamente potevo, arrivammo al passo che potea esser un'ora avanti sera; ed essendo per passar la fiumara e andar dov'eran li nostri circa l'imbrunir della notte, Marco mi chiamò con una tal furia che certo io credetti fussi l'ultima mia ora.
Fecemi montar a cavallo col mio turcimano e una femina rossa, in compagnia con un Tartaro d'un aspetto tanto dispiacevole quanto dir si potesse, né altro mi disse salvo che: "Cavalca, cavalca presto". E io ubbidiente, perchè non potevo far altro, seguiva il detto Tartaro: e tutta quella notte mi fece camminar, infino a mezogiorno, che mai non volse che pur un poco dismontassi. Piú volte gli feci dimandare al mio turcimano dove mi menasse: pur ultimamente mi rispose che la cagione che Marco m'avea fatto partire si era perchè il signore volea mandar a far cercare alle barche, e dubitava che, se m'avessero trovato lí, m'ariano ritenuto. Questo fu adí 13 d'agosto e circa mezogiorno.
Ridutti su la fiumara, quel Tartaro cercava qualche zoppolo da passarne sopr'un polesene, ch'è a mezo la fiumara, dov'era il bestiame di quello Anchioli ambasciadore: e, non trovando zoppolo, il detto Tartaro ragunò alcune frasche e ligolle il meglio poté insieme, e prima messe le selle de' cavalli suso e ligò le dette frasche con una corda alla coda d'un cavallo, ed esso, governando il cavallo, passò di là sul detto polesene, che tengo era due grossi tratti d'arco. Ritornò poi e mise suso la femina rossa e passolla nel detto modo; il mio turcimano volse passar notando, e passò, ma con pericolo. Tornò anche per me, e, perchè vedevo il pericolo grande, mi spogliai in camicia e discalzo, benchè ad ogni modo poco mi saria valuto, e con l'aiuto di messer Domenedio, ma con gran pericolo, fui passato di là. Tornò poi anco il detto Tartaro e fece passar li cavalli, e montati a cavallo andammo al suo albergo, ch'era un coperto di feltre, e misemi lí sotto. Era il terzo giorno che non avevo mangiato cosa alcuna, e mi dette un poco di latte agro, e lo ricevetti in somma grazia e mi parve molto buono. Di lí a un poco vennero molti Tartari ch'erano sul detto polesene per loro bestiame, e guardavanmi mostrando fra loro molto maravigliarsi a che modo io fussi capitato lí, non v'essendo mai stato cristiano alcuno: io non diceva cosa alcuna, ma mi facevo ammalato piú ch'io potevo. Quel Tartaro mostrava molto favorirmi, e credo che niuno osava parlare per rispetto dell'ambasciadore, che era grande uomo.
Adí 14, che fu la vigilia di nostra Donna, per onorarmi fece ammazzare un buon agnelletto e fecelo arrostire e lessare, non pigliando fatica alcuna di lavar la carne, perciochè dicono che lavandola perde tutto il suo sapore; non fanno anche caso di spumarla, salvo che con qualche frasca: e cosí mi fece portare di detta carne e latte agro avanti, e benchè fusse la vigilia di nostra Donna (la quale pregai che volesse perdonarmi, perchè non potevo piú), ci mettemmo a mangiar tutti insieme. Fecero anche portar del latte di cavalla, del quale ne fanno grande stima, e voleano ch'io ne bevesse, perchè dicono che genera gran forza all'uomo: ma perchè egli aveva una maladetta puzza non ne volsi bere, e l'ebbero quasi a male. E a questo modo stetti fino adí 16 a mezogiorno, che essendo venuto Marco con la caravana per mezo il detto polesene over isolotto, mandò un Tartaro con un Rosso delli suoi a chiamarmi, e subito mi fece montare in un zoppolo e passar dov'era la caravana. Prete Stefano e Zuanne Ungaretto, che tenevano per certo di non mi veder mai piú, fecero gran festa quando mi viddero, sempre ringraziando il nostro Signor Dio. Il detto Marco m'avea fornito di cavalli per quanto mi bisognava. Stemmo per tutto il dí 17, che con tutta la caravana ci mettemmo in cammino per passar il deserto e andar in Moscovia. L'ambasciadore era quello che comandava a tutti, che potevamo esser circa persone trecento fra Rossi e Tartari, ma piú di cavalli ducento menati per lor vivere e anche per vendere in Rossia. Certamente camminavamo con buon ordine, sempre appresso la fiumara, dove dormivamo la notte e posavamo a mezo il giorno: e questo fu per giorni 15, che parve loro d'esser sicuri dell'antedetto passo stretto, per paura che avevano dell'imperador del lordo.
E per dichiarare questo lordo, dico che essi hanno uno imperadore, il nome del quale non mi ricordo, ma è quello che governa tutti li Tartari che sono in quelle parti, li quali, com'è detto, vanno camminando, cercando erbe fresche e l'acque, né mai stanno fermi, né d'altro vivono che di latte, come s'è detto, e di carne; hanno manzi e vacche, le piú belle credo che siano nel mondo, e similmente castroni e pecore, e sono carni molto saporite, per rispetto delli buoni pascoli ch'hanno: ma fanno grande stima del latte di cavalla. Hanno bellissime e grandi campagne, né si vede montagna alcuna. Io non sono stato nel detto lordo, ma ho voluto averne informazione, e della possanza loro. Tutti concludono essere gran numero di gente, ma disutile: e cosí mostra, per rispetto delle molte femine e putti che hanno nel detto lordo, e che non si troverà in tutto quel lordo duemila uomini con spade e arco, perchè tutto 'l resto sono discalzi, senz'arma alcuna. Questi hanno fama di valenti, perchè rubbano alla giornata Circassi e Rossi, ma tengono che i lor cavalli siano come salvatichi, perciochè mostrano essere molto paurosi e non sono usi a esser ferrati. Cosí concludono che da loro a bestie non sia differenza alcuna. Questi Tartari, com'è detto, di continovo stanno tra queste due fiumare, cioè il Tanai e la Volga; ma dicono essere un'altra sorte di Tartari, che stanno di là dalla Volga camminando al guego, over greco e levante, e dicesi esser gran numero, e portano li capelli lunghi fino alla cintura, e chiamansi li Tartari salvatichi. Dicono che questi il verno, quando fanno gran freddi e ghiacci, vengono fino appresso Citracan, e camminano sempre cercando erbe e acque come fanno gli altri, né al detto luogo di Citracan fanno danno alcuno, salvo che di qualche latrocinio di carne.
Camminato ch'avemmo quindici giorni, sempre appresso la fiumara, trovammo un boschetto dove li Tartari e i Rossi cominciorno a tagliar legnami, che sono molto presti, e fecero alquante zattare, che tengo erano da quaranta, legate con corde ch'aveano portate per tale effetto: ma noi, mentre ch'essi le preparavano, trovammo lí un zoppolo assai tristo, col qual Marco deliberò mandar le sue robbe di là dalla fiumara; e mandate che l'ebbe fece ritornar il zoppolo adietro, e comandommi che montassi in detto zoppolo con le nostre selle e con quel poco di vettovaglia che avevamo e andassi di là della fiumara a guardar le sue robbe, e che Dimitri turcimano e l'Ungheretto restasse alla guardia de' cavalli.
Cosí montai sul detto zoppolo, io e prete Stefano e due Rossi, che con certi legni governavano il zoppolo, per passar dall'altra banda del fiume, ch'era, tengo certo, piú d'un grosso miglio d'una banda all'altra: ma fu molto piú, per rispetto della gran correntia dell'acqua, che di continovo menava giuso, e per il zoppolo che faceva acqua. Ma noi due il meglio che potevamo lo seccavamo, stando a sedere in acqua, con gran fatica ed estremo pericolo: e cosí, con l'aiuto del nostro Signor Dio, passammo a salvamento dall'altra banda.
Discaricato che fu il zoppolo, li Rossi volevano ritornare, ma non fu possibile perchè era tutto fracassato, onde fu forza che restassero: ed erano in tutto sei. La mattina tutta la caravana dovea passare ma, levatosi il vento da tramontana, che durò due giorni, non fu possibile. Li miei, che guardavano li cavalli, non aveano punto da vivere, né anche in dosso, perchè tutto avevo portato meco, onde si pò considerare che animo doveva essere il nostro. Stando cosí, volsi pur intendere come era stata governata la mensa, e trovai che l'era stato dato un gran fracasso, onde molto mi spaventai: però tolsi io a governarla, benchè fussi tardo, con deliberazion di metter al foco per ogni desinar solamente una scodella di risi, e cosí la sera, dando per rata ora cipolle ora aglio, con un poco di latte agro, secco; e per qualche giorno ne toccò qualcun di quelli biscotelli per uno, stando a sedere atorno i risi, dove ciascuno mangiava la sua parte, e io in ciò mi mandavo equale a loro. Ma nei detti due giorni che stemmo lí, perchè trovammo de' pomi salvatichi, per risparmiar la mensa ne lessavamo e mangiavamo; passati poi li due giorni, tutta la caravana passò con le dette zattare, sopra le quali erano tutte le lor robbe: e in alcuna d'esse erano sei, in alcuna sette cavalli, con altretanti Tartari che gli guidavano, avendo legate le corde alle code di detti cavalli. Ma facemmo entrare tutti li cavalli nudi nella fiumara, acciochè tutti a un tratto passassino, come fecero: che certo fu bella e presta provisione, ma pericolosa. Passati che furno tutti e riposati alquanto, caricorno le robbe e ci mettemmo a cammino, lasciando la fiumara: della qual, secondo il mio giudicio, tengo non sia un'altra maggiore in molti luoghi, perchè mostra esser larga piú di due miglia, con le rive alte e molto profonda.


Il clarissimo ambasciadore passa il gran deserto dell'asiatica Sarmazia e arriva in Moscovia, città della Rossia bianca, e appresentasi al duca.
Cap. 8.

Col nome di Dio, com'è detto, ci mettemmo a cammino, e sí come da prima camminavamo per tramontana, cosí poi molte volte per ponente, non si mostrando segno di via alcuna, ma tutto era campagna deserta. Li Tartari diceano che noi eravamo per tramontana piú di quindici giorni sopra della Tana, la qual secondo me aveamo passata, camminando sempre all'usato, e riposando a mezogiorno e nell'imbrunir della sera. Il nostro riposo era sopra la terra e per coperta avevamo l'aere col cielo, mettendoci la notte quasi sempre in fortezza, per dubbio ch'aveamo di non esser assaltati: e di continovo aveamo tre guardie, una a man destra, l'altra a sinistra e la terza avanti; e alcune volte non trovavamo acque, né per noi né per li cavalli il giorno, né meno la sera dove riposavamo. Nel detto viaggio non trovammo quasi salvaticina alcuna, ma trovammo ben due cameli e quattrocento cavalli che pascolavano, i quali dicevano essere stati della caravana dell'anno passato. Due volte tememmo non esser assaltati: l'una non fu cosa alcuna; l'altra trovammo circa 20 carri con alcuni pochi Tartari, da' quali noi non potemmo intender dove andassero. E perchè il cammino era lungo e la mensa poca, mi convenne restrignerla.
Adí XXII settembre 1476, quando piacque a Dio, entrammo nel paese della Rossia, dove erano alcuni pochi casaletti de' Rossi in mezzo de' boschi. E inteso ch'ebbero che Marco era nella detta caravana, vennero con gran paura per dubio de' Tartari, e gli portorno un poco di mele con la cera, del quale me ne dette un poco, che certo mi bisognava, perchè tutti eravamo venuti al meno, ed eramo ridutti in termine ch'a pena potevamo montare a cavallo. Partimmo di lí e arrivammo in una terra chiamata Resan, la qual è d'un signoretto ch'ha una sorella del duca di Moscovia per mogliera. Le case tutte sono di legname e cosí il castelletto, dove trovammo pane e carne abbondantemente, e anche della lor bevanda di mele, onde molto ci ristorammo. Partimmo di lí, camminando di continovo per boschi grandissimi, e la sera pur trovammo casali de' Rossi, dove alloggiammo tutti: e cosí pur alquanto riposavamo, perchè con l'aiuto di Dio ne pareva essere in luogo sicuro. Trovammo poi un'altra terra chiamata Colonna, la qual è appresso del fiume chiamato Mosco, e ha un gran ponte dove si passa la detta fiumara, la qual butta nella Volga. Partimmo di lí, e io fui mandato avanti per Marco, perchè la caravana non voleva venir cosí tosto.
Adí 26, lodando e ringraziando Iddio che n'avea campati di tanti estremi disagi e pericoli, entrammo nella terra di Moscovia, ch'è del duca Zuanne, signor della gran Rossia bianca. Ma dovete sapere che quasi la maggior parte delli giorni che stemmo nel passar il detto deserto, che fu da dí 10 d'agosto, che partimmo da Citracan, fino al giugner nel detto luogo di Moscovia, che fu adí 25 settembre, per non aver legne, cucinavamo con sterco di bestiame. Giunti adunque a salvamento nel detto luogo, dal detto Marco mi fu dato una stufetta con un poco d'altra stanza per noi e per li cavalli, la quale benchè fusse piccola e trista, nondimeno mi parve esser in un grandissimo e buon palazzo, rispetto alle cose passate.
Adí 27 il detto Marco entrò nella terra, e la sera venne a trovarmi e presentarmi qualche vettovaglia, per esser abbondantissima la terra, come qui appresso dirò, confortandomi a star di buon cuore, ch'io potevo riputar d'esser in casa mia: e cosí mi disse per nome del suo signore, di che lo ringraziai quanto seppi e potei.
Adí 28 andai a trovar il detto Marco, e per esser volonteroso di ripatriare gli richiesi che volesse esser contento di adoperarsi a farmi parlare al signor duca: e mi serví, perchè di lí a poco il signore mi mandò a chiamare. Dove giunto, e fatte le debite riverenze, ringraziai sua signoria della buona compagnia che mi avea fatto Marco suo ambasciadore, che certo potea dire con verità esser per lui campato di assaissimi pericoli: e benchè tali servizii siano stati nella persona mia, sua signoria poteva riputare di averli fatti alla mia illustrissima Signoria, della quale io ero ambasciadore. Ma non mi lasciò compitamente parlare, che con volto quasi turbato si lamentò di Zuan Battista Trivisano. Non dirò altro circa ciò, per non esser a proposito; ma, dopo le molte parole, sí di sua signoria come mie, alla richiesta ch'avevo fatto a sua signoria circa il voler partirmi di lí, mi disse che mi faria un'altra volta risposta; e con questo mi licenziò sua signoria, la quale era per cavalcare, perciochè aveva per costume ogn'anno andare a visitar i luoghi del suo paese, e massimamente un Tartaro che tiene al suo soldo con cavalli cinquecento, per quanto dicevano, alli confini de' Tartari per guardia, acciochè da essi non sia danneggiato il suo paese. Io, come è detto, essendo volonteroso di partirmi di lí, cercavo d'aver risposta di quanto avevo detto a sua signoria: cosí fui chiamato al suo palazzo davanti tre suoi principali baroni, i quali mi risposero per nome del signor duca ch'io fussi il ben venuto, e mi replicarono tutte le parole dettemi per esso signore, lamentandosi del detto Zuan Battista, e che in conclusione l'andare e lo stare era ad ogni mio piacere; e con questo mi licenziò, e il signore montò a cavallo e cavalcò alla detta volta. E perchè io ero debitore al detto Marco di tutti li dinari del mio riscatto con la usura e anche di qualche altra spesa fatta per me, lo pregai fusse contento di lasciarmi andare, che subito gionto a Venezia gli manderia tutto quello ch'io gli ero debitore: ma non volse acconsentirmi a tal cosa, dicendo che li Tartari e i Rossi che dovevano aver per la promessa fatta per mi volevano esser pagati. Onde, avendo io fatta ogni sperienza, sí col signore come con Marco, mi deliberai mandar prete Stefano a Vinezia dall'illustrissima Signoria nostra e di tutto darle aviso, acciochè con la sua consueta clemenzia e benignità mi provedesse acciochè in quei paesi non fusse la mia fine.
Adí VII ottobre 1476 feci cavalcare il detto prete Stefano, e in sua compagnia un Nicolò da Leopoli, pratichissimo di tal cammino: cosí partirono e io rimasi lí nel detto luogo, nel qual si ritrovò un maestro Trifon orefice da Cataro, il qual aveva fatto e faceva di molti belli vasi e lavori al signor duca. Vi si ritrovava anche un maestro Aristotele da Bologna ingegniero, che facea una chiesa su la piazza, e anche molti Greci da Constantinopoli, ch'erano andati lí con la despina: con li quali tutti feci molta amicizia. La stanza che mi avea dato il detto Marco era piccola e spiacevole, e mal vi si potea alloggiare, ma per mezo d'esso Marco fui messo ad alloggiare in casa dove stava il detto mastro Aristotele, che era quasi appresso il palazzo del signore, ed era assai conveniente casa. Da lí a pochi giorni (onde procedesse non intesi) mi fu fatto comandamento per nome del signore ch'io uscissi della detta casa, e con fatica me ne fu trovata una fuor del castello con due stufette, in una delle quali stavo io e nell'altra la famiglia, dov'io stetti fino al mio partire.
Questa terra di Moscovia è posta sopra un picciol colle, ed è fatto tutto di legnami, cosí il castello come il resto della detta terra. Ha una fiumana la quale si chiama Mosco che le passa per mezo, e da una parte è il castello con parte della terra, dall'altra parte è il resto della terra, e ha molti ponti sopra i quali si passa la detta fiumara: ed è la terra principale, cioè la sedia d'esso signor duca. È circondata di molti boschi, per esser tale la maggior parte del paese, il qual è abbondantissimo d'ogni sorte biade: e al tempo ch'io era lí si avevano piú di dieci stara delle nostre di frumento al ducato, e cosí per rata l'altre biade. Usano per il piú carne di vacche e di porci, che credo se n'abbia piú di tre libbre al soldo. Si danno poi cento galline al ducato, e similmente quaranta anatre, e poco piú di tre soldi l'una le oche. Di lepori ne è grandissimo mercato, ma d'altre salvaticine ne hanno poche, e credo sia per non le saper pigliare; hanno uccelletti d'ogni sorte e a grandissimo mercato. Non fanno vino in luogo veruno né hanno frutte d'alcuna condizione, salvo qualche poco di cocomeri, di nocelle e di pomi salvatichi. È paese frigidissimo, in modo che dell'anno stanno nove mesi continovi nelle stufe, e conviene fornirsi il verno per la state, e questo perchè per li gran ghiacci fanno alcuni lor sani, che un cavallo gli strascina facilmente, e con quelli conducono il tutto; ma la state è tanto fango, per li ghiacci che si disfanno e delli boschi grandi, che non lasciano mai far buone vie, tal che con gran fatica si cammina: però è forza loro far cosí.
Alla fin d'ottobre la fiumana che passa per mezo la terra tutta si agghiaccia, sopra la qual fanno le lor botteghe d'ogni sorte cosa, e lí fanno tutti li lor bazarri e nella terra non si vende piú quasi cosa alcuna: e questo fanno perchè tengono che quel luogo, per esser circondato dalla terra d'una banda all'altra e riguardato da' venti, sia manco freddo ch'altro luogo; e sopra la detta fiumara agghiacciata ogni giorno si ritrova grandissima quantità di biade, vacche, porci, legni, fieni, e ogn'altra cosa necessaria, e tutto 'l verno cosí non manca. Alla fin di novembre tutti quelli ch'hanno vacche e porci gli ammazzano per portarli alla terra a vendere, e cosí integri a tempo per tempo li portano al mercato alla terra a vendere, che è un piacere a veder tante vacche scorticate messe in piedi sopra la fiumara agghiacciate, in modo che si mangia carne morta di mesi tre e piú, e similmente fanno de' pesci e delle galline e d'ogni altra sorte cosa da vivere. Sopra la detta fiumara agghiacciata corrono li cavalli e fanno molt'altre cose di piacere, e qualche volta anco alcuni d'essi si scavezano il collo.
Sono uomini assai belli e similmente le donne, ma è bestial gente. Hanno un papa fatto per il lor signor al lor modo, e del nostro fanno poca stima e dicono che noi siamo perduti del tutto. Sono grandissimi ubriachi, e di questo se ne danno grandissima laude e dispregiano quelli che nol fanno. Non hanno vino di sorte alcuna, ma usano la bevanda del mele, la qual fanno con le foglie di bruscandolo, che certo non è cattiva bevanda, e massimamente quando è vecchia: ma il signore non lassa che ognuno sia in libertà di farne, perchè se avessero tal libertà ogni giorno sariano ubriachi e si amazzeriano come bestie. La lor vita è star la mattina nelli bazarri fino circa mezogiorno, poi ridursi nelle taverne a mangiare e bere: e passata la detta ora non si può aver da lor servizio alcuno. In detta terra capitano assai mercatanti tutto 'l verno, sí di Alemagna come di Polonia, solo per comprar pelletarie, come zebellini, volpi, armellini, dossi e qualche lupo cerviero: e benchè le dette pelletarie si piglino molte giornate lontano dal detto luogo di Moscovia, piú verso greco tramontana e forse maestro, nondimeno tutte capitano in detto luogo, dove li mercanti le comprano. Ve ne capita anche gran quantità in una terra chiamata Novogardia, la qual confina quasi con la Francia e con l'Alemagna alta, ed è giornate otto lontana da Moscovia, piú al ponente; la qual terra si governa a communità, ma è sottoposta però al detto signor duca e dagli un tanto l'anno.
Il detto signor, per quanto ho inteso, tien gran paese e faria gente assai, ma sono per lo piú uomini disutili; confina con l'Alemagna ch'è del re di Polonia. Dalla banda di maestro tramontana dicono esser una certa nazion d'idolatri senza signore alcuno, ma quando piace loro danno ubidienza al detto duca. Dicono che vi sono di quelli ch'adorano la prima cosa che vedono, e alcuni che fanno sacrificio di qualche animale a piè d'un arbore e quello adorano, e molt'altre cose dicono, le quali io tacerò per non l'aver viste, né mi paiono credibili. Il detto signore può esser d'anni 35, grande ma scarmo, ed è bell'uomo. Ha due altri fratelli, e la madre viva, e ha un figliuolo d'un'altra donna, il qual non gli è troppo in grazia, per non usar buoni costumi; con la despina ha due figliuole e dicevasi ch'era grossa: potria dir piú avanti, ma saria troppo lungo. Io stetti nel detto luogo di Moscovia da' 25 di settembre, che giunsi lí, fino a' 21 di gennaio che mi parti', e certo ebbi da tutti buona compagnia.
Il signor duca, fatto ch'ebbe la visitazion del suo paese, ritornò in Moscovia circa la fin di decembre. E bench'io avessi mandato il detto prete Stefano per il mio riscatto, e ch'io fussi certo mi saria stato mandato, pur, essendo volonteroso di ripatriar e non si confacendo quelli costumi alla mia natura, avevo praticato con qualcuno di quelli gentiluomini, che mi dovessino esser favorevoli a farmi partir di lí: onde, passati alcuni giorni, sua signoria mi fece invitare a mangiar seco, e mi fu detto ch'era contenta ch'io mi partissi, contentando anco di servir la nostra illustrissima Signoria, e pagar li Tartari e i Rossi del mio riscatto, per quanto io ero debitore.
Andai al convito fattomi per sua signoria, e certo onorevolmente fatto, sí di molte vivande come d'ogn'altra cosa. Desinato che si ebbe, per esser cosí lor usanza, subito mi parti', ritornando alla mia stanza. Da lí a pochi giorni volse ch'io mangiassi un'altra volta con sua signoria al modo usato, poi comandò al suo tesoriero che mi desse li danari che mi bisognavano per pagar li Tartari e i Rossi, e fecemi andare al suo palazzo, dove mi fece vestir d'una vesta di zebellini (cioè la pelle sola): e avevami anche mandato mille dossi con la detta vesta, con la quale mi ritornai a casa. Volse medesimamente ch'io visitassi la despina, e cosí feci, usando le debite riverenze e parole che accadevano, con ragionamenti assai: dalla quale ebbi tanto buone e cortesi parole quanto dir si potesse, pregandomi strettamente ch'io la dovessi raccomandare alla mia illustrissima Signoria. E da sua signoria tolsi commiato.


Il clarissimo ambasciadore si parte di Moscovia, e passa per la Lituania, Polonia e Alemagna, e giugne in Italia.
Cap. 9.

Il giorno seguente fui chiamato a palazzo a desinare col signore, ma prima ch'andassimo a tavola, entrati in una camera dov'era sua signoria e il detto Marco e un altro suo secretario, con bonissima ciera mi usò tanto cortesi parole quanto dir si potesse, astringendomi ch'io dovessi significare alla mia illustrissima Signoria lui esser suo buono amico, e che cosí lo volesse conservare, e che volentieri mi lasciava andare, offerendosi, se altro mi bisognava, di fare il tutto. Quando il signore mi parlava io mi lontanava alquanto, ma sua signoria mi si accostava sempre, usando grandissima umanità: e cosí feci risposta a tutto quello che mi disse sua signoria ringraziandola come si conveniva, talchè stemmo in ragionamento piú d'una grossa ora. Mi mostrò con gran domestichezza alcune sue veste di panno d'oro foderate di zebellini bellissime, poi uscimmo fuori di camera, e di lí a poco andammo a tavola: e fu un pasto lungo piú dell'usato e con piú vivande, ed eranvi molti suoi baroni. Compito il desinare, fui fatto levar da tavola e andar in piè avanti sua signoria, dove mi dette buona licenzia, con parole alte che ognuno l'intendeva, e con dimostrazione di gran benivolenzia verso la nostra illustrissima Signoria: e io ringraziai sua signoria di quanto bisognava. Mi fu poi presentata una tazza grande d'argento piena di quella lor bevanda di mele, dicendomi che 'l signore comandava ch'io la bevessi tutta, e mi donava la tazza: questo usano quando vogliono far grandissimo onore o a ambasciadori o ad altri. Ma mi parve gran cosa a bever tanto, perchè certo era assai: pur credo ch'io ne bevessi un quarto d'essa; e perchè sua signoria si accorse che io non poteva piú bere, e perchè anco per lo passato sapeva il mio costume, mi fece tor la tazza, e fu vota e datami vota. Basciai la mano a sua signoria e con buona licenzia mi parti', e fui accompagnato da molti suoi baroni fino alla scala, dai quali fui abbracciato, in vero con gran dimostrazione di amorevolezza. Cosí me n'andai a casa, dove avea apparecchiato tutto per la mia partita: ma Marco volse ch'io desinassi prima con lui.
Adí XXI gennaio 1476, desinato ch'io ebbi col detto Marco e con li miei, certo onorevolmente, tolsi commiato da lui, ed entrati nelli nostri sani col nome di Dio ci partimmo. Li detti sani sono quasi a modo di una casa, e con un cavallo davanti si strascinano, e sono solo per i tempi del ghiaccio, e a ciascuno conviene aver il suo. In questi sani vi si siede dentro con quanti panni si vuole e si governa il cavallo, e fanno grandissimo cammino, e portansi anche dentro tutte le vettovaglie e ogn'altra cosa necessaria. Circa il patriarca d'Antiochia, cioè frate Ludovico, il qual era stato ritenuto per il signore per conto di esso Marco, io mi adoprai tanto che fu lasciato, e dovevamo venir di compagnia: ma, visto che non mostrava averne voglia, mi parti' solo con la mia compagnia, e mi fu dato un uomo del signore che mi accompagnasse, con comandamento che me ne fusse cosí dato uno di luogo in luogo per tutt'il suo paese. La sera alloggiammo tutti a un casale molto strano, e ancor ch'io conoscessi che conveniva patir di molti altri discommodi e disagi, per gran freddi e ghiacci ch'erano in quelli paesi, e per aver a camminar di continovo per boschi, mi pareva però ogni discommodo commodo né temevo di cosa alcuna, tanto era il gran desiderio ch'io avevo d'uscire di quei paesi e costumi: onde io non pensavo ad altro che camminar giorno e notte.
Adí 22 partimmo dal detto casale, e camminando di continovo per boschi, con grandissimi freddi, dal dí detto fino adí 27, che arrivammo a una terricciuola chiamata Viesemo, e di lí partimmo, pigliando di continovo guide di luogo in luogo. Poi trovammo un'altra terricciuola chiamata Smolencho, e di lí partimmo con un'altra guida, e uscimmo fuora del paese del duca di Moscovia ed entrammo nella Lituania, ch'è di Casimir re di Polonia; poi andammo in una terricciuola chiamata Trochi, dove trovammo la maestà del detto re.
Ma nota che da dí 21 gennaio, che partimmo da Moscovia, fino adí XII febraio, che giugnemmo in detto luogo di Trochi, caminammo sempre per boschi, ma tutto pianura con qualche collina; pur qualche volta trovavamo qualche casale dove riposavamo, ma il piú delle volte dormivamo nei boschi. E cosí a mezogiorno mangiavamo in alcuni luoghi, dove trovavamo i fuochi fatti per persone state poco avanti lí, a mezogiorno over la sera, trovavamo il ghiaccio rotto per abeverar li cavalli e altri assai bisogni. Noi adunque giugnevamo legne al fuoco, e tutti lí attorno mangiavamo di quel poco che noi avevamo: e certamente patimmo sinistro assai nel nostro venire, e quando eravamo scaldati d'una banda ci voltavamo dall'altra, e io dormiva nel mio sano per non dormire in terra. Camminammo sopra una fiumara ch'era agghiacciata giornate tre, sopra la qual dormimmo due notti, e dissero ch'avevamo fatto trecento miglia, che fu grandissimo cammino.
La maestà del re, inteso che ebbe la mia venuta, mandò due suoi gentiluomini cavalieri ad allegrarsi meco del mio esser gionto salvo, e convitarmi per il giorno seguente a desinar con sua maestà: e il detto giorno, che fu adí 15, mi mandò a presentar una vesta di damaschin cremesin foderata di zebellini, e chiamommi da sua maestà, e volse ch'io entrassi in uno delli suoi sani, menato da sei corsieri bellissimi, con quattro suoi baroni che stavano a piedi di fuori del sano, e accompagnato da altri molto onorevolmente. Cosí andammo al palazzo di sua maestà, dove entrato mi menò nella sua camera, e sua maestà si pose a sedere in un luogo molto onorevolmente acconcio, con due suoi figliuoli a canto vestiti di raso cremisino, giovani e belli che parevano due angeli; nella qual camera erano poi molti suoi baroni e cavalieri di conto e altri signori, e quivi fu posta una banca per me dirimpetto a sua maestà, la quale mi raccolse con tanto amore quanto dir si potesse, e volse ch'io toccassi la mano alli figliuoli, di maniera che fu tale la cortesia e umanità verso me che, se io le fussi stato figliuolo, non poteva usar la maggiore. Volsi cominciar a parlare stando inginocchioni, facendone ogni sforzo, ma non volse che mai principiassi se prima non mi levassi su, e voleva ad ogni modo ch'io sedessi: la qual cosa non volsi fare, ma pur qualche volta, per molti suoi comandamenti, mi conveniva sedere. E cosí esposi avanti sua maestà con ogni diligenza il mio viaggio, e dissegli del mio essere stato al signore Ussuncassan, e quanto avevo operato, e anche della sua possanza e costumi e paese: le quai cose mostrava molto desiderar d'intendere. Gli dichiarai anche li modi e la possanza de' Tartari, e gli dissi qualche cosa anche delli pericoli ch'io aveva passati nel detto viaggio, e fui per meza ora ascoltato da sua maestà, con tanta attenzione che d'alcuno mai fu aperta la bocca, tanto mostrava aver piacere di udirmi; poi ringraziai la sua maestà del presente e onore che mi avea fatto per nome della mia illustrissima Signoria, e sua maestà mi fece rispondere per il suo interprete che molto s'allegrava della mia venuta, perchè giudicorno, quando andai al detto viaggio, non dovessi ritornar piú. Poi mi disse che con gran suo piacere avea inteso delle cose di Ussuncassan e de' Tartari, e ch'era certificato di quello che sempre aveva tenuto, perchè mai non credette fussero tante cose come si dicevano; e soggiunsemi che ancora non aveva trovato alcuno che gli avesse detto la verità se non io, e disse molte altre parole.
Ma la conclusione del tutto fu che mi fece entrar in un'altra sala, dove erano apparecchiate le tavole, e sempre bene accompagnato, e di lí a poco venne sua maestà con li figliuoli, con trombe e molto onorevolmente, e si mise a sedere a tavola: e dalla man destra erano li detti suoi figliuoli, e dalla sinistra era il primo vescovo che abbia, e io appresso di lui, non troppo distante da sua maestà; li baroni poi, ch'erano molti, erano alle tavole, ma distanti alquanto, e tengo che fussero da quaranta persone. Le vivande erano portate in tavola sempre con le trombe avanti, con li piatti grandi e molto abbondantemente, ed erano serviti di cortelli avanti a modo nostro: e cosí stemmo a tavola forse due ore, e di continovo mi dimandava sua maestà del mio viaggio molte cose, alle quali io al tutto satisfeci. Poi, finito il convito e levato le tavole, stando in piedi e richiedendo commiato da sua maestà per volermi partire, e dimandandole se le piaceva comandare piú cosa alcuna, mi disse ch'io dovessi assai offerir sua maestà alla mia illustrissima Signoria, con molte umanissime parole, e comandò alli figliuoli mi usassero simili parole: e cosí con le debite riverenze tolsi commiato da sua maestà e dalli figliuoli, che mi fece accompagnare onorevolmente alla mia stanza dove io ero albergato, e comandò che mi fusse data una guida la quale mi dovesse accompagnare, e comandare che per tutto il suo paese io fussi guidato e accompagnato, sí che sicuro andassi per tutto.
Adí 16 mi parti' dal detto luogo di Trochi, e camminando fino adí 25 arrivammo in un luogo chiamato Ionici, e di lí partimmo, ed eravamo entrati nella Polonia: e di luogo in luogo ne erano date le guide, per comandamento della maestà del re; e fummo in una terra chiamata Varsonia, della quale sono signori due fratelli, dove mi fu fatto onore assai e datomi guida che mi accompagnò fino in Polonia, della quale non farò altra menzione, avendone parlato per adietro, né mi estenderò dirne troppe particolarità, perchè in vero il paese è bello e mostra esser assai abbondante di vettovaglia e di carne, ma poche frutte d'ogni condizione. Trovavamo pur castelli e casali, ma niuna terra da farne menzione, e ogni sera trovavamo alloggiamento ed eravamo per tutto ben visti, ed è paese sicuro.
Adí primo marzo 1477 giugnemmo nella detta terra di Polonia, avendo camminato di continovo nelli antedetti sani, e per esser io non poco affaticato, e similmente la mia famiglia, sí per i gran freddi come per li molti disagi che avevamo avuti, stetti infino adí 5, per esser ben alloggiati, e in una buona e bella terra e abbondante di tutto. Quivi assai bene ci ritrovammo del tutto ben forniti, e anche di cavalli per il nostro cavalcare, e di ogni altra cosa al bisogno nostro e con tutta la famiglia.
Adí 5 partimmo del detto luogo di Polonia e venimmo in un'altra terricciuola chiamata Messariza, pur del detto re; e di lí partimmo: ma, per esser il confine della Polonia all'Alemagna, passammo non senza paura e pericolo.
Adí 9 giugnemmo a Francfort, terra del marchese di Brandimburg, e alloggiai in casa dell'oste dove alloggiai anche nel mio andare, il qual, conosciuto che m'ebbe, molto si maravigliò, e dissemi che in detti confini eravamo venuti con grandissimi pericoli, e in vero egli mi fece onore e carezze assai.
Adí 10 partimmo di lí, e camminando per l'Alemagna trovavamo di continovo miglioramento, sí di ville e castelli come di terre e buoni alloggiamenti. Ed essendo adí 15 appresso una terra chiamata Ian, scontrai prete Stefano, il qual era stato spedito per la nostra illustrissima Signoria col mio riscatto, e veniva per trovarmi in Moscovia: di quanta allegrezza fusse all'una parte e all'altra il ritrovarsi ognuno lo può facilmente pensare, che certo fu grazia di Dio, come è stato in tutte le altre cose. Abbracciatolo e inteso in brevità il tutto venimmo nella detta terra di Ian, dove riposammo.
Adí 17 partimmo di lí, e adí 22 giugnemmo in Norimbergo, terra bellissima, come per adietro avemo detto: onde deliberai, sí per esser molto stracco come anco (e fu la principal cagione) per onorar la festa della santissima Incarnazione del nostro Signor Iesú Cristo, stare nel detto luogo di Norimbergo a far la santissima festa, dove riposammo commodamente, che certo ne bisognava.
Adí 26 parti' del detto luogo di Norimbergo, il qual si governa a comunità ma dà obedienza all'imperadore; e ogni sera alloggiammo in bonissime e degne terre, e fra le altre Auspurch, degna e bellissima terra, e cosí trovammo di molte altre belle terre.
Adí IIII aprile 1477 da mattina, che fu il dí del venere santo, gionsi a Trento, dove intesi il miracolo del beato Simone, e parsemi mio debito voler onorar quel santissimo corpo e il giorno di Pasqua, e far anche il debito di confessarmi e communicarmi. E cosí adí 6, che fu il dí della santa Pasqua, io con la famiglia ci comunicammo, e per onorar la santissima festa stemmo quel giorno nel detto luogo di Trento.
Adí 7 la mattina, col desiderio che ognun può pensare ch'io aveva di giugner nella nostra terra santa, ch'ogni giorno mi pareva un anno, essendo stato nel detto luogo di Trento e da quel vescovo onorato e ben visto, tolto commiato da sua signoria mi parti' e venni alla Scala, primo luogo della nostra illustrissima Signoria.
E perchè cosí era 'l mio voto, me n'andai a S. Maria di monte Arthon, dove gionsi adí 9 a mezogiorno, e satisfatto il debito del voto, con la licenzia di frate Simone, ch'era priore del detto luogo, fatta l'offerta promessa mi parti' e venni a Padova al Portello, ringraziando sempre il nostro Signor Dio e la sua Madre dolcissima, che mi aveva campato da tanti evidenti pericoli e affanni e condotto a salvamento e dov'era il desiderio mio, perchè mai non credetti tal cosa dovesse essere: e benchè corporalmente io fussi nel detto luogo, quasi l'animo mio dubitava, parendomi cosa impossibile, quand'io pensavo al tutto. Io avea scritto e fatto sapere a mio fratello e alli miei che saria adí 10, che fu di giovedí, circa ora di vespero a Vinezia, ma la volontà grande non mi lasciò seguire tal ordine, perchè avanti giorno montai in barca e fui alle Zaffusine circa due ore di giorno, e venni di lungo per andare a adimpir un altro voto, avanti ch'io andassi a casa, che fu a S. Maria di Grazia. Ma andandovi trovai nel canal della Zudecca mio fratello messer Agustin e due miei cognati, e abbracciati strettamente, parendo loro cosa miracolosa, perchè tenevano per certo ch'io fussi morto, ce n'andammo a S. Maria di Grazia.
E perchè il detto giorno di giovedí era il consiglio di Pregadi, mi parve anche mio debito, avanti ch'io andassi a casa, andar alla presenzia dell'illustrissima Signoria nostra a farle la riverenza debita, e anche referir quanto aveva eseguito per le commissioni mie: e cosí come mi ritrovavo me n'andai nel consiglio di Pregadi, e fatte le debite salutazioni mi fu commandato ch'io dovessi montare in renga ed esponer quanto io aveva a dire, e cosí feci. E perchè la serenità del prencipe nostro era alquanto aggravata e non era nel consiglio, spedito che fui e tolto licenzia dalla Signoria, me n'andai da sua serenità: e fatte le debite riverenze mi vidde con allegro animo, e con brevità le dissi in parte quanto aveva eseguito, e da sua sublimità mi parti' e me n'andai a casa, dove gionto ch'io fui ringraziai grandemente nostro Signore Iddio che mi avesse donata questa grazia e campato da tanti pericoli e ridotto a rivedere li miei, perchè molte volte credetti certo non gli riveder mai.
Cosí faccio fine del presente viaggio, il quale, ancor che si avesse potuto narrar con piú elegante maniera, nondimeno ho piú tosto voluto esporre la verità a questo modo che ornar la bugia con belle ed eleganti parole; e se fusse stato pretermesso qualche cosa dell'Alemagna non se ne maravigli alcuno, perchè non mi è parso necessario stendermi in tal narrazione, per essere paese a noi propinquo e quasi famigliare.

Breve narrazione delle condizioni del paese di Ussuncassan

Il paese di Ussuncassan è grande e confina con Ottomano, poi col paese che fu di Caramano, ed è il suo primo paese di Turcomania, che confina col soldano, cioè verso le parti di Aleppo. Il suo paese di Persia, il qual tolse da Iausa e fecelo morir, fu piú presto per ventura che per possanza, e Tauris è il suo primo luogo dov'è la sua sedia; dal qual luogo caminando quasi per levante e scirocco fino in Siras, ch'è l'ultima terra della Persia, sono da giornate 24. E confina con Zagatai, che furno figliuoli di sultan Busech, di nazion tartaro, col qual molte volte hanno guerra, e non sta senza dubio di loro. Poi confina col signor Sivansi, signor di Samachi, cioè della Media, il qual dà pur al signor Ussuncassan un certo dono ogn'anno, e confina col re Pancrati di Giorgiania e col Gorgora, passando la campagna d'Arsingan, e per quello dicono tiene anco qualche cosa di là dall'Eufrate, verso il paese d'Ottomano. Tutto il detto paese della Persia fino in Spaam, dov'io son stato, ch'è giornate sei lontano da Siras, capo della Persia, è paese aridissimo, né quasi si trova un arbore, e per lo piú sono cattive acque; pur è convenientemente copioso d'ogni sorte di vettovaglia e di frutte, ma fatte per forza di acque.
Il detto signore al giudicio mio era d'anni 70, lungo, magro, ma bell'uomo, ma non mostrava esser prosperoso; il suo primo figliuolo era chiamato Gurlumameth, e fu figliuolo della Curda, ch'è quello con cui fece guerra, il qual era in grandissima fama. Con un'altra moglie avea tre altri figliuoli: il maggior si chiama sultan Chali, e dicesi di anni 35, ed è quello a cui aveva donato Siras; il secondo poteva esser di anni 15, per nome chiamato Lacubei; il terzo di circa anni 7, il nome del qual non mi ricordo. Con un'altra moglie n'ebbe un altro che si chiama Masubei, il qual egli menava in catena, e ogni giorno io lo vedeva: e questo faceva per l'intelligenza ch'aveva avuta con Gurlumameth, che faceva guerra al detto suo padre; e nel fine lo fece morire. Volsi intendere per molte vie e da piú persone la possanza del detto signore: tutti quelli che dicono il piú dicono che faria cinquantamila cavalli, non però tutti da conto. Volsi anche intendere quando furono alle mani con quelli dell'Ottomano quanti furono: mi fu detto che potevano essere da quarantamila, e questo intesi da persone che la maggior parte erano state in detta battaglia; ma concludevano che 'l detto esercito non fu fatto per andar a combattere con l'Ottomano, ma solo per andar a mettere Pirameth, che fu signor di Caramano, in signoria, cioè a restituirgli il suo paese tenuto per l'Ottomano, né ad altro fine si mosse esso signore Ussuncassan: e chi tiene altra opinione, per detto di tutti, non l'ha buona. Io sono stato in fatto, e ho voluto intendere e udire il tutto, e però ne dico quello ch'io ho inteso e visto. Lascierò di dire molte altre cose che potria dire, per non esser io piú lungo e per non esser quelle troppo importanti.


Lettera d'Alberto Campense intorno le cose di Moscovia, al beatissimo padre Clemente VII, pontefice massimo.


Se quel Pastor evangelico, o pontefice veramente massimo, del quale voi sete vicario in terra cercò la smarrita pecorella delle cento con tanta diligenza, e trovatala con tanta allegrezza, anzi con grandissima festa di tutto 'l cielo riportò alla sua greggia sopra le proprie spalle, chi non sa quanta cura e sollecitudine debbe avere il sommo pastor della Chiesa, quando non una delle cento, ma molte centenaia d'anime ch'erano smarrite desiderano di ridursi alla greggia di Cristo? Onde non posso a bastanza maravigliarmi di quel che si pensassero i predecessori della Santità Vostra, i quali quella popolosissima nazione de' Moscoviti, in pochissime cose da noi differente e che tutta è dannata per esser ella separata dall'unione della Chiesa, hanno insino al dí d'oggi spregiata piú tosto che per via alcuna cercato di ridurla alla unità della Chiesa, massimamente potendosi, come appresso si dimostrerà, con poca fatica ridurre. Fu mosso da questo pensiero il religiosissimo padre Adriano VI, antecessore della Santità Vostra, il quale quasi con gli sproni a' fianchi in tutt'i modi a me possibili io sollecitai, mettendogli innanzi tutte le cose le quali mi parevano che dessero non picciola speranza di potersi tal cosa mandare ad effetto. Ma, per la subita sua morte, come molte altre cose le quali egli apparecchiava di fare, cosí questa impresa tanto pia, tanto necessaria e cosí gloriosa lasciò alla Vostra Beatitudine, la quale, tra le molte e difficilissime cose che ora d'ogni canto la premono, debbe riputar che le sia per divina volontà stata offerta, e per questo meritamente pigliarla come un certo refrigerio nel quale ella possa respirare, e anche come occasione di eseguir con poca fatica una bellissima e illustrissima impresa e di acquistarsi un gloriosissimo nome.
Perciochè qual memoria potrà mai essere piú gloriosa, qual piú durabile, qual piú grata a tutt'i secoli futuri, che l'essere al tempo di Clemente VII pontefice massimo, anzi per la sua vigilanza e pastoral sollecitudine, tutt'i Moscoviti ritornati all'unione ecclesiastica, gli ultimi popoli della Scizia quasi da un altro mondo venuti all'ubbidienza della Chiesa romana? Intanto i luterani scoppino di dolore e confondansi, come pazzi infuriati correndo contra l'onore e auttorità della detta Chiesa. Ma se noi guardiamo all'utilità, quanta per questa cosa ce ne sia messa innanzi, chi non la vede piú chiara che 'l sole? E se drittamente vorremo considerare, noi vi trovaremo utilità piú certa e gloria piú vera e piú cristiana che se noi con l'armi vincessimo tutt'i Turchi, tutta l'Asia e tutta l'Africa, perciochè tal vittoria bisognarebbe che fusse con gran prezzo comprata, cioè col sangue di molti cristiani, e acquistata necessariamente con grave danno e morte di molti. E benchè felicissimamente ci succedessero tutte le cose, e ancora che noi vincessimo, piú anime forse si perderebbono che non se n'acquisteriano alla fede di Cristo, imperochè i Turchi, benchè fussero vinti e soggiogati, con tutto ciò rimarrebbono nella lor infedeltà, e di molte centinaia di migliaia appena ci saria speranza che uno o due si convertissero a Cristo. Ma per questa unione de' Moscoviti molte centinaia di migliaia d'anime, senza ferro e senza sangue, con poca spesa e senza molta fatica alla greggia di Cristo si ridurrebbono. Lascio molte cose che sono di grandissima importanza in darci aiuto contra la rabbia turchesca, delle quali piú opportunamente parleremo di sotto.
Mi pareva adunque di dover far cosa utile e grata alla Santità Vostra se, ragionando prima del dominio de' Moscoviti, quasi da tutti i cosmografi e istoriografi nostri non conosciuto, della grandezza dell'imperio loro e verso che termini del mondo sia posto, e dei costumi di quella gente, io brevemente scrivessi alcune cose, le quai già per curiosità di aver cognizione del mondo intesi d'alcuni mercatanti de' nostri, anzi da mio padre e fratelli, quali appresso i Moscoviti gran tempo hanno vivuto e son pratichi della lor lingua, della loro scrittura, dei lor costumi e paesi: ed esaminandole con la regola della cosmografia le riducessi insieme; e oltra di ciò io toccassi brevemente quelle ragioni per le quali apparisse speranza non vana di poter far questa cosí gran cosa facilissimamente, aggiugnendo alcune cosette le quali non mi son parse inutili circa il modo di mandarle ad esecuzione. La qual mia operetta la Santità Vostra stimerà con quell'animo col quale colui di cui ella esercita in terra il potente vicariato stimò quei due danari della povera donna, che si legge nell'Evangelio. E molto spero che, col mezo della Santità Vostra, Cristo ridurrà molti popoli al suo gregge; ma acciochè il proemio non sia piú longo della istoria, ora comincieremo la cosa.


Del sito della Moscovia, della grandezza del suo imperio, di Tamerlano imperador de' Tartari, e delle nazioni che sono intorno alla Moscovia.
Cap. 1.

Il paese de' Moscoviti, fra greco, levante e tramontana per grande spazio scostandosi da noi, è molto lungo e largo: si stende da ponente a levante piú di seicento miglia tedesche, overo tremila italiane, perciochè, camminando da Novogardia verso levante alla città di Moscovia, si fanno cinquecento miglia italiane overo cento tedesche, di maniera che da' Laponi, che sono sopra Novogardia, infino alla medesima Moscovia, è molto maggior distanza. Della qual Moscovia insino a Volochda si numerano altre cento miglia italiane; da Volochda a Usezuga similmente sono cento miglia italiane; da Usezuga a Viathca altretante; da Viatcha a' Perusrani son trenta miglia tedesche; da costoro ai Vahulzrani è altretanto. Sono vicini a costoro molte nazioni de le Sciti verso greco levante nella Sarmazia asiatica, le quali rendono ubbidienza ai Moscoviti. Da ostro andando verso tramontana non è men largo, perciochè, cominciando dai Rossi e dai Lituani, si stende per lungo spazio insino all'oceano scitico e settentrionale. È serrato verso ponente dalla Livonia, dal mar Baltico e da' Laponi; verso levante non è dentro dei termini della nostra Europa, ma per grande spazio di là dal Tanai, il quale è termino comune dell'Asia e dell'Europa, anzi di là dal Rha, grandissimo fiume della Sarmazia asiatica, insino agli Sciti iperborei nel fin dell'Asia, che è fra greco e greco levante: e tra questi popoli gli Iubri, li Corelli, li Perusrani, li Vahulzrani, li Baschirdi e i Czeremissi non sono molti anni che da Ivan, duca de' Moscoviti, predecessore del presente nominato Basilio, furono sottoposti all'imperio de' Moscoviti. Partendosi dalli sopradetti e venendo a basso verso 'l levante equinoziale, e molto di là dal fiume Rha nell'asiatica Sarmazia, appresso a' Susdali, popoli moscovitici, ha per confinanti gli Nogai overo li Tartari occidentali, che sono piú settentrionali di tutti gli altri Tartari. Scendendo poi piú basso a scirocco levante verso il medesimo fiume Rha comanda a una orda de' Tartari nel ducato di Cazan, lontano dalla città di Moscovia ventisette giornate, la quale al presente dal luogo si chiama la orda cazanea.
Dopo questi, cosí dal mezodí fra il fiume Rha e il Tanai come verso sciroco levante, tutti gli altri Tartari abitano campagne grandissime, che arrivano insino al mar Maggiore e al mar Caspio. E già trecento anni non erano conosciuti dai nostri passati, imperochè circa il milleducento e dieci vennero di sotto i monti dell'India settentrionale e occuparon il paese che è di sopra della palude Meotide e del Tanai, avendo scacciati li primi abitatori dei Geti, overo Goti, e quasi annullatigli. I quali, benchè al presente siano divisi in cinque orde, overo in cinque moltitudini a guisa di cinque imperii, nondimeno la principale e quella che ha prodotte tutte l'altre e mandate fuori come colonie è la orda dei Zagathai overo Savolensi, l'imperador de' quali, nominato Themircuthlu, nelle nostre istorie è chiamato Tamerlano; di ricordo ancora de' nostri tempi, a guisa d'un folgore con dodici centinaia di migliaia d'uomini (come dicono le nostre istorie) saccheggiando e rovinando trascorse tutta l'Asia e passò in Egitto, e isforzò Baiazete, quarto imperadore de' Turchi, il quale avea già presa la Macedonia, la Tessaglia, la Focide, la Beozia e l'Attica, e d'un canto gl'Illirici e dall'altro i Bulgari con continove correrie avea debilitati, e con sí grave e lungo assedio travagliato Costantinopoli, capo dell'imperio de' cristiani, che l'imperador di Costantinopoli fu costretto, lasciando la sua città, a fuggire in Francia e in Italia a dimandare aiuto.
Questo Tamerlano, dico, al suo venire sforzò Baiazete a lasciar l'assedio di Costantinopoli, ed essendoglisi esso fatto incontra con un esercito grandissimo lo ruppe, lo vinse, lo pigliò vivo e legò con catene d'oro, e per alquanto tempo lo menò legato dovunque andava. Il padre di questo Tamerlano fu colui che li nostri istorici chiamano Bathi (essi nella lor lingua lo chiamano Zanca), il quale, al tempo d'Innocenzio quarto, entrando nella nostra Europa sopra la palude Meotide con un esercito innumerabile, primamente prese la Rossia, e in quella distrusse una città ricchissima nominata Chiovia, dapoi li Poloni, gli Slezii e i Moravi, e appresso ruppe li Ungheri, gli vinse e con una grandissima strage gli rovinò, e messe una grandissima paura a tutta la cristianità. Insino al dí d'oggi tutti li Tartari son idolatri, e costui fu 'l primo che, persuaso da' saracini, diventò macomettano: e nella legge macomettana insino al presente tutti li Tartari durano pertinacissimamente, i quai tutti oggidí forse gli aressimo cristiani, se Cristo avesse cosí fedeli sacerdoti e vescovi come ha il perfido Macometto. Dalla stirpe anche non ignobile di questi Tartari vien lo imperio de' Turchi, il quale da Ottomano, soldato non molto nobile tra i Tartari, partendosi da' suoi, essendo con gran felicità fondato e poi accresciuto da' successori, è pervenuto in ducento anni a tal grandezza che a tutto il mondo mette spavento.
Ma de' Tartari abbiamo detto qui pur assai cose, e a dirle mi ha tirato la vicinità de' Moscoviti, a' quali sono vicini i Tartari, parte verso levante e scirocco levante e parte verso ostro. Partendoci da' Tartari e andando verso ponente al mar Prutenico, primamente i Rossi, dapoi i Lituani e i Samogeti serrano il dominio de' Moscoviti, e il restante dal lato di mezodí i Tartari; e insino al detto mar Prutenico contiene circa mille miglia italiane, perciochè da Chiovia, che già fu città principale de' Rossi, insino a Vilna, città principale de' Lituani, si fanno cinquecento miglia italiane; da Vilna insino a' liti vicini del mar Prutenico circa trecentocinquanta; quel che manca a questo computo e alle mille miglia avanza abbondantemente sopra Chiovia verso levante. Cosí li Rossi come i Lituani e i Samogeti rendono ubbidienza al re di Polonia, insino dal tempo di Iagellone, che fu primo granduca di Lituani, il quale, essendosi battezzato e fatto re di Polonia, e mutatosi il nome, nominandosi Vladislao, convertí alla fede di Cristo i suoi Lituani e i Samogeti, di ricordo anco della età de' nostri passati, cioè avanti quasi centotrentasette anni. Benchè e quel Iwan overo Giovanni principe di Moscoviti, del quale abbiamo fatto menzione di sopra, e Basilio che regna al presente, tanto sotto questo re di Polonia detto Gismondo quanto sotto gli altri suoi predecessori Alessandro e Casimiro, la miglior parte del dominio lituano (cioè quella ch'è fra il fiume Boristene, la palude Meotide e il Tanai, che già propriamente s'apparteneva allo stato de' Rossi) nella quale è Chiovia, principal città già ricchissima e magnificentissima, posta appresso 'l fiume Boristene, e dapoi anche la rabbia e crudeltà de' Tartari l'abbiano guasta e distrutta del tutto. E avenga che i re di Polonia ancora la posseggano, nondimeno per la vicinità de' sopradetti e per le continove correrie è desolata e quasi del tutto abbandonata. Perciochè quella Rossia ch'ora è sotto 'l dominio del re di Polonia, e la metropoli e la città leopolina, e tutta la parte di Polonia verso levante che, cominciando sotto i monti della Sarmazia, si stende tra greco levante e tramontana, con grandissima pertinacia seguitano nelle cose sacre il costume greco e lo schisma de' patriarchi costantinopolitani, e a loro rendono onore e ubbidienza. Per la qual cosa errano molto coloro che stimano e chiamano i Moscoviti Russi overo Ruteni, benchè osservino i medesimi riti e usino quasi la medema lingua. Ma sia detto a bastanza delle nazioni che confinano d'ogni lato con la Moscovia; ora andiamone avicinando a quelle che sono sotto 'l dominio de' Moscoviti.


De' principati e ducati che sono sotto la Moscovia.
Cap. 2.

L'imperio de' Moscoviti molto lungamente e largamente si stende, e contiene in sé assaissimi e grandissimi principati e ducati, de' quali i piú nobili son questi; ma, per proceder con qualche ordine, bisogna cominciar da quei che son piú conosciuti da noi, cioè dai piú vicini ai Poloni e ai Lituani. Dopo la Lituania, andando verso tramontana, il primo è il ducato di Plescovia, che in longhezza si stende circa trecentotrenta miglia italiane, ed è quasi la terza parte piú lungo che largo, la cui metropoli è Plescov overo Plescovia, città grande e potente posta sopra 'l fiume Zvina, la quale Basilio, che al presente è signore, pochi anni adietro prese con tutto il dominio che le è d'intorno, con piú di trenta castella delle piú fornite e piú forti ch'egli abbia nella Lituania e quasi in tutto 'l resto della Moscovia, e la ridusse sotto 'l suo dominio e condusse li Plescoviti, antichissimi abitatori di quella terra, in Moscovia, e vi mandò nuovi abitatori de' suoi Moscoviti. Ella era già del dominio della Lituania e della Polonia, ed è posta sopra la Livonia, ch'è verso levante; e verso levante, appresso la Plescovia, è posto il ducato smolenchino, alquanto maggior di quel di Plescovia; la principal città del quale, detta Smolencho, posta sopra 'l fiume Boristene, il sopradetto Basilio a questi anni la tolse al re di Polonia e ai Lituani, e l'aggiunse all'imperio della Moscovia. Al ducato di Smolencho, verso tramontana e greco levante, è vicino il ducato di Mosaisco, il quale è di lunghezza intorno a trecentocinquanta miglia italiane e altretanto è di larghezza, il qual ducato Giovanni, antecessor di questo Basilio, tolse per forza d'arme ad Alessandro, predecessor di questo Gismondo re di Polonia.
Al ducato di Mosaisco verso ponente maestro è il ducato di Novogardia, nel quale è quella nobilissima e ricchissima città, quasi sopra tutte quante ne sono nelle parti settentrionali, nominata Novogrod overo Novogardia, lontana dal mar Baltico circa ducento e due miglia, di grandezza maggior di Roma: ma gli edificii per la maggior parte sono di legname. Vi sono tanti monasterii di religiosi magnificamente fabricati e dotati, tante chiese di santi con bellissimo e magnifico ornamento edificate, che di san Nicolò solo, il quale appresso quelle gente è in somma venerazione, si dice esservi tante chiese quanti giorni ha l'anno. Questa nobilissima città, con tutto il suo dominio, ch'era sotto i Lituani, fu presa per forza dal sopradetto duca Giovanni al tempo di Casimiro, innanzi questo Gismondo terzo principe di Lituani, e l'aggiunse al suo imperio l'anno della nostra salute 1479, e portonne via grandissimi tesori, di sorte che coloro i quali a quel tempo erano in quei paesi dicono per cosa vera essere stati portati di Novogardia a Moscovia piú di 307 carri carichi d'oro e d'argento e d'altre cose preziosissime. Con questi quattro grandissimi principati quaranta anni fa è stato accresciuto l'imperio de' Moscoviti.


Li principati proprii di Moscovia.
Cap. 3.

Ma lo stato ch'è proprio della Moscovia, nel quale il duca fa scelta di quanti soldati gli piace, e dove ancora senza scelta son molti cavalieri scritti al mestier della guerra, sempre apparecchiati al comandamento del principe, i quali son nobili secondo il costume di quella gente e da loro sono chiamati boiari, è anche partito in assaissimi e grandissimi principati, essendo di lunghezza, come ho detto adietro, piú di seicento miglia tedesche. Il primo fra questi è Moscovia, ducato posto verso greco levante, ed è del dominio di Novogrod; del cui ducato, e anche di tutto l'imperio de' Moscoviti, è metropoli Moscovia, città grande: ma gli edificii sono fatti di legname, eccetto il castello, il quale è nel mezo di quella a guisa di una terra non picciola, fornito di fortissime mura e di torri. In questo ducato sono trentamila boiari, overo nobili, che esercitano il mestier della guerra a cavallo, apparecchiati in ogni occasione al comandamento del principe, il quale, ogni volta che vuol far la scelta de' soldati, senza difficultà alcuna cava sessanta o settantamila fanti a piè, armati e valorosi.
Al ducato di Moscovia verso levante è vicino il ducato di Rezan, nel qual sono i nobilissimi fonti del fiume Tanai, che in quella parte divide l'Asia dall'Europa. Questo ducato ha quindicimila boiari, ma, facendosi la scelta de' soldati, senza alcuna difficultà fa piú di due o tre volte tanto numero di valorosi fanti a piè. Oltra di questo, verso tramontana e greco levante, è posto presso al ducato di Moscovia il principato di Twerda, per grandezza di stato molto maggiore, la cui metropoli è Twerda, posta appresso alla Volga over Rha, fiume grandissimo: è grandissima città, e molto maggior della Moscovia e piú magnifica. Questo principato ha quarantamila cavalieri boiari, e facendosi scelta della plebe ha quanto numero di soldati vuole, e senza difficultà alcuna due o tre volte tanto. Sono molti altri ducati e principati nel dominio della Moscovia, come il ducato di Iaroslavia, il ducato di Szuherzonia, di Szachovenia, di Rubenia, di Chelmschi, di Zubezwoschi, di Climischi, ciascuno de' quali è grande almeno cento miglia italiane o centocinquanta, e ha un numero determinato de cavalieri nobili, e degli altri, facendosi la scelta secondo il comandamento del principe, un numero sufficiente per la fanteria: ma li sopradetti sono piú popolosi e li principali.
Oltra li sopradetti, molto di là dal fiume Rha verso levante, è il ducato de' Susdali, e alcuni altri, pur di nazione e giurisdizione moscovitica: ma questi sono quasi distrutti per le continue correrie de' Nahavei e d'altri Tartari, i quali, essendo piú degli altri Tartari verso tramontana, abitano vicini ai Susdali verso levante. Ubidisce anche all'imperio de' Moscoviti una orda de Tartari, la quale sotto un castel detto Cazan del dominio di Moscovia appresso 'l fiume Rha, circa ventisette giornate lontano da Moscovia verso greco levante, fa la sua vita nelle campagne, e la chiamano orda cazanea: questa ha trentamila cavalli apparecchiati al comandamento del duca di Moscovia; nondimeno ella vive secondo 'l costume degli altri Tartari, cioè nella perfida legge macomettana.
Da Moscovia verso greco levante, passando per Usezuga e Viathca, camminando circa cinquecento miglia tedesche, vi stanno li Perusrani e li Vahulzrani, popoli della Scizia, li quali quel Giovanni duca di Moscovia, predecessore di questo Basilio ch'al presente regna, pochi anni adietro sottopose al suo dominio, e constrinsegli a battezzarsi e a confessar Cristo, avendo dato loro un certo vescovo greco overo vladico che gli amaestrasse; il quale dicono che quei barbari dopo la partita del principe scorticarono vivo, e con varii tormenti crudelissimamente uccisero. Onde il principe, essendovi poi tornato, castigò li capi della sedizione e dette loro un vescovo, sotto 'l governo del quale ora vivono, nuovamente venuti alla fede. Dopo questi li Iuhri, i Coreli, i Baschirdi e li Czeremissi, popoli della Scizia, ch'abitano i liti dell'oceano settentrionale, vivendo sotto l'imperio de' Moscoviti, sono insin ora idolatri.


De' fiumi del paese e della natura di quello.
Cap. 4.

Tutto 'l paese della Moscovia è molto piano e pien di boschi, irrigato in ogni parte da molti e grandissimi fiumi pieni di pesci, e fra molti altri vi nascono tre nobili e celebratissimi fiumi. Cioè il fiume Boristene, il quale essi nella lor lingua chiamano Dnieper: nasce egli sopra 'l ducato di Smolencho, sotto un nobil castello detto Versura, il quale il presente duca di Moscovia, nominato Basilio, l'ha tolto nuovamente a Gismondo re di Polonia; da quel castello scorre il detto fiume verso mezogiorno, passando prima appresso la città di Smolenco, dapoi a Chiovia, già principal città de' Rossi; all'ultimo, poi che ha trascorso, cominciando dal suo fonte, circa trecento miglia tedesche, poco lontano dalla penisola Taurica, appresso il cui stretto egli passa, non piú che dieci miglia tedesche, entra nel mar Maggiore. Nasce non molto longi dal suo fonte un altro grande e nominato fiume, il quale essi chiamano Dwina, che corre a dritto verso ponente sí come quello va verso mezodí: passa per mezo il ducato di Plescovia, passando sotto le mura della metropoli del detto ducato, e finalmente sotto la città di Riga della Livonia entra nel mar Baltico. Il Tanai ha il suo fonte nel ducato di Rezan, del dominio di Moscovia città principale, dalla quale è discosto sette giornate, e ascendendo di sopra dal principio del fiume Boristene verso tramontana circa settecento miglia italiane, corre un pezzo verso mezogiorno e poi verso scirocco; poscia, tornando alquanto verso ponente per le fertilissime campagne de' Tartari, finalmente con tre bocche entra nelle paludi Meotidi, le quali par ch'egli faccia con le sue acque: e nella lor lingua lo chiamano Don, che tanto è come dir Santo, perciochè, sí com'esso è abbondantissimo e pieno di pesci, cosí fa tutta la terra ch'egli bagna abbondantissima e fertilissima. Ma quel gran fiume dell'asiatica Sarmazia, il quale essi lo chiamano Wolga, è maggior piú del terzo dei fiumi della nostra Europa. Ha li fonti suoi piú verso tramontana e verso ponente che li fonti del Tanai: egli nasce d'un grandissimo lago, il quale essi chiamano il lago Bianco, che d'indi corre per un grande spazio verso greco levante, e passa a Twerda, città grande e principale del ducato twerdenio, della giurisdizione di Moscovia. Indi, da mezogiorno piegandosi a scirocco levante, con lungo corso arriva a Cazan, castello del dominio di Moscovia, dal quale quasi con simil corso spargendosi per i larghissimi campi de' Tartari e dividendosi in molti rami, in ispazio di venti giornate entra nel mar Caspio.
Tutti questi fiumi nascono in luoghi piani, paludosi e pieni di boschi, e non da quei favolosi monti Rifei e Iperborei i quali la Grecia bugiarda ne gli ha partoriti, non la natura, che non gli ha visti mai in luogo alcuno, perciochè nel dominio di Moscovia non si truova pure un monticello, se non nei liti dell'oceano settentrionale e scitico: nella qual parte abitano li Iuhri, li Coreli, li Baschirdi e li Czeremissi. Per la qual cosa non posso a bastanza maravigliarmi de' nostri geografi, che sono tanto sfacciati che senz'alcuna vergogna narrano cose incredibili dei monti Rifei e Iperborei, dai quali vogliono che naschino i sopradetti fiumi. Né anche troveremo esser piú vero quasi tutto quello che i piú riputati di loro hanno detto dell'una e dell'altra Sarmazia e di tutta quella region settentrionale, se le loro descrizioni fussero poste in comparazione co' viaggi che hanno fatto gli uomini de' nostri tempi, la qual cosa io mi sono sforzato di fare.


Della selva Ercinia, degli arbori ch'ella produce, della gran copia del mele, e della natura di quegli uomini.
Cap. 5.

La selva Ercinia, sparsa per tutti quei paesi, in assaissimi luoghi fa boschi spessissimi, e per tutto dà del legname abbondantissimamente per uso dell'uomo e gran commodità agli abitatori. Appresso di loro molto piú grande e piú selvaggia ch'appresso di noi, ella è abbondante di pini d'incredibile altezza, de' quali uno saria a bastanza per far l'arboro a una delle grandissime nostre navi da carico. Produce querce e roveri molto piú belli di tutti li nostri e piú atti a far ogni lavoro di legname, i quali, segati e pianati, rappresentano una certa vaga grazia e varietà di colore, a guisa del nostro ciambellotto. Di questi, fra l'altre mercanzie, li nostri mercanti ne portano gran copia, i quali appresso di noi si comprano cari, ancora ch'abbiamo grande abbondanza dei nostri legnami. Ivi si raccoglie gran copia di mele, facendone l'api per tutto negli arbori senz'alcuno studio umano. Ivi si veggono grandissimi sciami d'api volar per li boschi e combattere insieme e scacciarsi l'un l'altro dai lor luoghi, di modo che i villani, i quali appresso le lor ville serbano l'api proprie e come ereditarie, difficilmente le difendono dalle forestiere: onde quasi tutto quello che di cera e dell'una e dell'altra pece, cioè dura e liquida, e di ragia di pino si consuma in tutta la nostra Europa, e anche tutte le pelli preziose, sono di lí per la via della Livonia portate dalli nostri mercanti. Appresso le rive del Don e della Volga, cioè del Rha, e del Tanai nasce il reupontico e il calamo aromatico in grandissima quantità.
Tutto questo paese, benchè sia grande e oltra modo pieno d'abitatori, nondimeno è dalle guardie di maniera serrato d'ogni banda che non solamente niuno de' servitori o de' schiavi, ma né anche alcuno de' paesani e che sia libero può uscire o entrare senza lettera del principe, dandogli questa commodità la moltitudine de' boschi e delle selve e le molte paludi, le quali fanno che non vi si può entrare se non per certe strade comuni: ma l'entrate d'esse sono diligentissimamente custodite dalle guardie del principe, per le quali coloro che si schifano di passare o vanno per qualche altra strada s'incontrano spesse volte in paludi inestricabili. È paese molto ricco di danari, e questo piú per l'industria de' principi che per le proprie minere, benchè ancor di quelle non ne manchino, conciosiachè, per le mercanzie le quali a loro niente costano e appresso gli altri son tenute in gran pregio, assaissimi danari son portati loro alla giornata quasi da tutta la nostra Europa. Nondimeno non è lecito ad alcuno cavar fuora del paese moneta d'oro né d'argento, ma né anche il principe ne manda punto fuori, per occasion delle guerre ch'egli fa di continovo, come quello che mette spavento a tutti li vicini d'intorno intorno, movendo guerra per allargare i confini del suo imperio: e, quel ch'è maggior cosa, mai non si serve de' soldati forestieri, ma de' proprii e sudditi solamente, a' quali tutti come a servi comanda, e ha libera podestà della vita e della morte e della robba loro, e niuno ha ardimento in alcuna cosa d'aprir la bocca contra il comandamento del principe; e anche gli va mutando secondo che gli pare d'un luogo in un altro, conducendovi poi nuovi abitatori, overo mutandoli l'un l'altro come a lui piace. Gli uomini sono grandi e gagliardi nelle fatiche e avezzi a sopportare ogni molestia e gravezza dell'aria, e a quelli che sono piú inchinati all'imbriacarsi il principe sotto gravissime pene vieta la cervosa e l'acqua melata e ogn'altra bevanda che possa imbriacare, se non in certe principal solennità dell'anno: e in questa cosa, benchè a loro sia molto difficile, e in ogni altra ubidiscono pazientemente.


De' costumi e religione de' Moscoviti.
Cap. 6.

Tutti questi popoli quasi innumerabili soggetti all'imperio moscovitico, fuor che li Tartari di Cazan, i quali con gli altri Tartari seguitano il lor Macometto, e alcuni popoli della Scizia che son idolatri, credono un Dio, adorano un sol Cristo, e par che non manchi loro cosa alcuna, se non che vivono fuori della unione ecclesiastica: imperochè, fuor che in poche cose nelle quali discordano da noi, e quelle di poca importanza alla salute, e tali che secondo il comandamento dell'apostolo a coloro che non sono ancora ben fermi nella fede sarebbono d'esser comportate, non sono d'essere astretti con dispute, ma permettere ch'abondino nel lor senso; nell'altre cose par che vivino meglio di noi secondo l'Evangelio di Cristo.
E veramente appresso di loro è grande e abominevole sceleratezza l'ingannarsi l'un l'altro, il commetter gli adulterii e gli stupri, e le publiche meretrici di raro si veggono fra loro; li vizii contra natura sono a essi del tutto incogniti; gli spergiuri e le bestemmie non si odono appresso di loro; ma portano a Iddio e ai santi sí grande onore e riverenza che, dovunque trovano la imagine del crocifisso, riverentemente si distendono in terra. Si comunicano spesso e quasi ogni volta che si ragunano in chiesa; lo fanno secondo l'usanza loro, cioè col pane levato e sotto l'una e l'altra specie. Appresso loro non è moltitudine di messe o spesso uso di quelle, ma un sacerdote che ha il carico di celebrare, dopo l'aver egli presa la communione, porta intorno a tutto 'l popolo che è nella chiesa un vaso secondo il lor costume pieno di pane e di vino consacrato, del quale ciascuno piglia una fetta di pane bagnato nel vino e si comunica con le proprie mani. Nelle lor chiese non si vede cosa alcuna disonesta né indegna, ma tutti distesi con la faccia verso la terra overo inginocchioni adorano divotamente, di maniera che spesse volte ho udito mio padre e molti altri uomini da bene i quali hanno abitato con loro alquanti giorni, che stimano loro assai piú giusti di noi, se fusse tolto lo scandolo dello scisma, il quale con poca fatica si saria potuto levar via dai vostri predecessori; e che molto piú facilmente si possa far dalla Santità Vostra ora comincio a dimostrarlo.


Il modo col quale facilmente si possano ridurre i Moscoviti all'union della Chiesa romana.
Cap.7.

Se questa cosa fusse da esser trattata con la moltitudine de' popoli, senza dubbio ella saria per aver maggior fatica e difficultà, perciochè non saria cosí facil cosa il persuader loro che lasciassero o mutassero le religiose usanze dei lor antichi padri; nondimeno, ancora che cosí fusse, non saria da esser sprezzata da un vigilante pastore, anzi con maggiore studio e diligenza bisogneria affaticarsi, che tante milioni d'anime, che sí poco son lontane dalla via della salute, si riducessero al gregge di Cristo. Ma essendo ora tutta la cosa posta nel principe solo, e tale che di sua volontà spessissime volte ha mostrato desiderar quest'unione, quale scusa averanno i nostri pastori se, disprezzando la salute di tanti, non solamente non sollecitino o ricerchino quel principe, ma, venendo esso a noi spontaneamente con infinito numero di popoli, di libera sua volontà chiedendo d'esser ricevuto insieme con noi nella unione del gregge ecclesiastico, non lo ricevano, anzi lo rifiutano e lo scaccino per colpa e avarizia loro? Mi vergogno e mi rincresce dire, e non lo dico senza dolore, quel che avenne altre volte: ma la cosa sí è nota che non si può celare, e sí grave che non può essere scusata né dissimulata. Gli aversarii nostri la sanno, e ogni giorno con nostra vergogna con parole superbe gridano contra noi e contra i difensori di questa sedia.
Già circa 50 o 55 anni, quando mio padre era in quei paesi, il che spesso e con dolore gli udi' raccontare, colui che allora era principe de' Moscoviti (non so se fusse il sopradetto Giovanni overo il suo predecessore) aveva mandato li suoi ambasciadori da quell'ultima parte del mondo a questa sedia apostolica, per ottenere quest'unione; ma colui che allora sedeva sopra la catedra di san Pietro, cercando piú tosto le cose proprie che quelle di Giesú Cristo, domandava loro un grandissimo tributo ogni anno, per segno e ricognizione, come diceva, d'ubbidienza, e non so che per le decime e annate. Gli ambasciadori essendosene ritornati adietro, con non poco scandalo de' vicini popoli cristiani, persuasero al lor principe che insieme co' suoi dovesse perseverare nello scisma, mostrando la lor fede esser migliore di questa nostra romana. Tra questo mezo tempo io non so se sia avenuto alcuna cosa simile, avenga che li nostri aversarii gridino esser accaduto il medesimo non molti anni sono.
Or con quanto poca fatica anco a questo tempo possano esser richiamati al gregge di Cristo (il che s'appartiene assai piú alla Santità Vostra), e quanto anco a questo tempo facilmente possono esser ridotti, da questo si vede esser chiaramente manifesto: che il presente principe di Moscovia Basilio non pur non aborrisce quest'unione, ma si è veduto che spontaneamente esso l'ha con ogni diligenza ricercata, perciochè, quando per il mondo si sparse la fama del concilio laterano, fatto publicar per tutto della felice memoria di papa Iulio II, costui, col mezo di Giovanni re di Dacia, col quale aveva strettissima amicizia, domandava che s'ottenesse da papa Iulio che mediante gli ambasciadori ch'esso averia mandati gli fusse lecito esser come presente al detto concilio. La qual cosa Enea arcivescovo nidrosiense, uomo di somma bontà, allora cancelliere di quel re, e che 'l verno passato morí nel palazzo apostolico, confermò a Adriano VI, predecessore di Vostra Santità, e anche a me e a molti altri che ora si ritrovano in Roma. Ma la morte di Iulio che seguitò poco dopo, e anco la morte di Giovanni re di Dacia, le quali avennero quasi in un medesimo tempo, impedirono che le dette cose non furono mandate ad effetto. Similmente, al tempo della felice memoria di Leone X pontefice massimo, questo istesso Basilio con grandissima instanzia ricercava avere il titolo di re da Massimiliano imperadore, per la quale occasione anche allora saria venuto a unirsi con la Chiesa romana, se per astuzia e opera del re di Polonia la cosa non fusse stata disturbata. Il che al predecessore di Vostra Santità e a me e a molti altri fu confermato dal reverendo monsignor Girolamo Balbo, vescovo gurgense, che novamente in nome dell'illustrissimo Ferdinando archiduca d'Austria è venuto a questa sedia apostolica ambasciadore, il quale a queste cose si ritrovò presente.
Ma che bisogna piú lontano andar cercando ragioni di questa cosa? Perciò che quest'anno istesso il medesimo Basilio quanto sia affezionato alle cose nostre e quanto desideri di unirsi con esso noi evidentemente l'ha dimostrato, primamente facendo triegua per 5 anni col re di Polonia, antico suo nimico, mentre per la discordia de' nostri principi le cose cristiane pareva che andassero a pericolo di cadere in man de' Turchi, che in vero, se egli avesse voluto usar tal occasione contra di noi, ci poteva mettere in gran rovina; e dapoi mandando al medesimo un'ambascieria con 600 cavalli e 200 carrette. Per la qual non dimandava altro se non mediante esso, come principe vicino e da lui conosciuto, persuadere a tutti gli altri principi cristiani che, col suo istesso esempio acquietati fra loro gli odii particolari e le discordie, finalmente pensassero alla publica salute della republica cristiana, e uniti gli animi e l'armi facessero l'impresa contra il comun nimico del nome di Cristo, offerendo a noi se stesso con tutti li suoi per compagno in cotal guerra: sí come il reverendo messer Tomaso Negro, vescovo di Scardona, allora appresso 'l re di Polonia nunzio apostolico, il quale fu presente a la detta ambascieria, ne scrisse a papa Adriano sesto predecessore di Vostra Santità, e ora essendo qui in Roma potrà esser buon testimonio di cotal cosa.
Possiamo adunque noi ricercare alcun altro maggiore argumento dell'animo veramente cristiano e fraterno d'un tanto principe verso noi? Il quale, avenga che da noi sia tenuto scismatico e come pagano, e molte volte sia stato combattuto dalle nostre armi, nondimeno, per la salute nostra e della Chiesa cristiana, si è portato piú da principe cristiano che i nostri, i quali si gloriano dei titoli di cristiani, di catolici e di difensori della fede: perciochè il pietoso padre Adriano, predecessore di Vostra Santità, non poté mai impetrare da' sopradetti principi, infinite volte pregandogli, supplicandogli, scongiurandogli e ammonendogli paternamente, che in questa publica miseria cessassero da queste guerre piú che civili, nelle quali, non avendo rispetto alcuno al sangue cristiano, che lo spargono come acqua, né alcuno ai miseri sudditi, i quali mandano del tutto in rovina, e senza mettersi inanzi alcun timor d'Iddio, anzi quasi non avessero Iddio alcuno al quale siano per render conto, per i loro odii particolari e affetti, per lo sfrenato desiderio di signoreggiare, tra loro crudelmente combattono. Né con auttorità apostolica né con severità poté mai da loro ottenere che donassero a Cristo redentor nostro le ingiurie l'un dell'altro, overamente almeno le differissero in altro tempo, overo concedessero la triegua almeno per tre anni al bisogno dello stato cristiano, il quale quasi con le lor discordie avevano mandato in rovina. E questo principe scismatico non solamente la triegua di tre anni ma di 5, anzi una vittoria quasi certa de' suoi nimici ha spontaneamente conceduto alla republica cristiana, la quale altrimenti di certo pericolava, facendo egli ora la triegua con quel nimico, il quale a niun tempo mai piú commodo averia potuto distruggere.
Quei nostri cristianissimi, catolici e difensori della fede, sono di maniera occupati a distruggersi l'un l'altro e a spargere il sangue cristiano che nulla gli muove la presa di Rodi, alla quale con poca fatica averiano potuto dar soccorso; nulla gli muove che Belgrado sia stato espugnato; nulla gli muove che 'l Turco già ne stia sopra la testa: e questo scismatico ha tanta cura della salute nostra che mandò chi ci destasse come oppressi da sonnifero letargo, e ci confortasse che noi volessimo qualche volta ricordarci della propria salute, e finalmente provedere alle cose nostre, che manifestamente vanno in rovina. Oltra di ciò un tanto principe s'offerisce con tutti i suoi a nostra difesa, il quale dovevamo temer come nimico mortalissimo; e i nostri principi cristiani di maniera nulla pensano a dar sostegno alcuno alla republica cristiana, la quale essi medesimi non pur hanno tradita, ma distrutta, perciochè li lor proprii stati manifestamente rovinano, che ancora non restano di tuttavia piú distruggerla. Sichè, se noi considereremo piú tosto la cosa che i vani titoli, egli parrà che sia principe veramente cristiano, e i nostri co' loro gloriosissimi titoli saranno conosciuti esser piú che pagani e scismatici.
Oltra di ciò, che accade raccontare un'altra ambascieria del medesimo Basilio? La qual quest'anno, del mese d'aprile prossimamente passato, quasi da un altro mondo dopo otto mesi finalmente arrivò in Ispagna all'imperadore Carlo quinto, per mezo della quale lo ricercava d'amicizia, offerendogli all'incontro tutte quelle cose che si fussero potute desiderare da un amicissimo e potentissimo principe; anzi (il che allora da molti ci fu scritto dalla corte dell'imperadore) lo confortava a far l'impresa contra 'l Turco, per quella offerendo gran quantità di danari e di soldati. Per queste cose mi par che si veda assai apertamente che non sia leggiera speranza poter indurre, e con poca fatica, questo Basilio principe de' Moscoviti, e mediante lui tutti quei popoli, all'union catolica insieme con noi: e mi parrebbe cosa empia a non tentar di farlo, mandandogli ambasciadori atti a simil negozio, ancora che non aspettassimo altro che la salute di tante anime. Ma ora non solamente mi parrebbe cosa empia, ma una pazzia quasi estrema, in questo gran bisogno della cristianità, l'aiuto d'un tanto principe (il quale, se non fussimo pigri e negligenti, in tutti li modi era da esser ricercato da noi), ora di sua volontà offertoci, disprezzarlo, farsene beffe, anzi volgerlo contra noi. Il che faremo senza dubio se niuno ritorna a lui in nome del sommo pontefice, de' principi cristiani e di tutta la cristianità, ringraziandolo e facendogli testimonianza che la sua tanto liberale offerta ci è stata gratissima, accettandola e ricercandola, e oltra di ciò in nome nostro gli offerisca tutte quelle cose che gli siano grate e che da noi si possano offerire.
Né sono da esser ascoltati coloro che si pensano l'aiuto de' Moscoviti esser poco utile e opportuno alla impresa contra 'l Turco, per esser dal Turco essi troppo lontani, ma il danaro solo, del quale egli è abbondantissimo, potere aiutar la parte nostra: perciochè il ducato di Smolenco, il quale è del stato di Moscovia, per la via dei Rossi, popoli a quello vicini e quasi amici e che vivono secondo le medesime usanze, soprastà alla Vallacchia, alla Bulgaria, dipoi alla Tracia e per tanto a Costantinopoli istesso, ed è assai commodo quel paese per condur esercito: volendolo menar quanto grande potesse, egli solo daria molto da fare al Turco.
Anzi, ho per certo che lo stato del Turco in niuna altra parte sia piú debole, né da altro luogo piú commodo e piú opportuno possa essere assalito che da quella parte della Valacchia e della Bulgaria, dove i popoli sono ancora tutti cristiani, ma vivono sotto l'imperio e tributo del Turco: il quale essendo già molto tempo venuto loro a noia, senza dubio lo lascieriano da parte e si congiongeriano co' nostri soldati, se in alcun luogo apparisse qualche vendicatore della lor libertà. Dai quali popoli insino a Costantinopoli a tutti è aperta l'entrata libera; ma i luoghi del stato del Turco, che si estendono insino alle nostre parti cosí in mare come in terra, sono molto ben forti, onde, sí come da niuna parte piú commodamente il Turco può esser assalito da noi che dalla parte della Valacchia e della Bulgaria dal duca di Moscovia, cosí non è da pensare che questa impresa gli sia troppo lontana, avendo egli quasi nell'ultimo Oriente per luoghi molto piú aspri condotti i suoi eserciti vincitori, e domati molti popoli della Scizia e alcuni anco costretti a confessar Cristo.


Le ragioni per le quali il sommo pontefice si debbe muovere a ricever li Moscoviti.
Cap.8.

Adunque, clementissimo padre santo, benchè siano piú cose e di grandissima importanza le quali in questi gravissimi disturbi il mondo, anzi Cristo istesso, ricerca da Vostra Santità, nondimeno parmi che si debba aver cura di questo negozio della Moscovia piú che di tutte l'altre cose, come quello che è di grande importanza; anzi si doveria far con tanto maggior diligenza quanto è di maggior momento per tutte le sopradette cose, e promette piú certa speranza di poter esser condotto a fine con poca spesa e fatica e con niun pericolo, ma con certissimo commodo e da non esser dispregiato. Io so che di fuori è combattuta quella torre di David, al governo e guardia della quale Cristo vi ha messo. Io veggio li già gran tempo stanchi e miseri cristiani, alla testa de' quali soprastà il crudel nimico del nome di Cristo, over che già con grave e vituperosa servitú tiene oppressi, guardare in voi, che siete lor pastore, e da voi aspettare e chiedere aiuto. Io conosco quanto acerbamente li principi cristiani siano tra loro discordi, i quali bisogna richiamare alla concordia cristiana, prima che noi possiamo fare cosa alcuna utile di dentro né gloriosa di fuori. Sento poi quanto s'incrudelisca nelle nostre interiora quello spaventoso e piú che infernal veleno, dico la peste e la perfidia luterana, per la cui contagione periscono tante migliaia d'anime eretiche e scismatiche.
E veramente qualsivoglia di queste cose apporta grandissimo travaglio, e non solamente ricercano fatica, industria e provedimento, ma anco gravissime spese. Nondimeno, benchè noi per ciò facessimo ogni cosa, appena appare alcuna speranza certa che siamo per far profitto alcuno; ma nella cosa de' Moscoviti, la qual ora cerchiamo di persuadere, se vorremo per se stessa giudicarla, non conosco perchè la salute di tante migliaia d'anime non debba muovere grandemente la Santità Vostra, acciochè, se elle periscano per vostra negligenza, non possono esser da Iddio ragionevolmente dalle man vostre riaddimandate. Di quanta importanza anco a tutte le sudette cose sia l'unirsi con esso noi un sí gran principe, sí ricco, sí possente, e per la vicinità sí atto ad assalir la Turchia, chi non lo vede? Specialmente se considera quanto certa potrebbe esser la nostra ruina e confusione delle nostre cose, quando egli opportunissimamente volesse adoperar le sue forze contra di noi. A pacificare insieme li principi cristiani non conosco che si possa trovar cosa piú potente che rinfacciar loro l'esempio di questo principe scismatico, e non dubito che si vergogneranno dei titoli i quali vergognosissimamente s'attribuiscono, quando intenderanno che sono ammoniti da un principe scismatico a ricordarsi d'esser cristiani, e ch'anco il medesimo con gli effetti insegna loro quali doveriano essere. De' luterani finalmente qual piú gloriosa, qual piú facil vittoria potremmo noi avere che far ch'essi vegghino quest'apostolica sedia, la qual per tutto 'l mondo si sforzano d'infamare, ritenere ancora la sua dignità non solamente appresso li suoi, ma anche nuovi popoli unitamente esser venuti quasi da un altro mondo supplichevoli alla sua ubbidienza?
Tutte queste cose v'è speranza, e non punto vana, che noi le possiamo conseguire senza pericolo alcuno, con picciola fatica e con poca spesa, perciochè altro non fa bisogno se non che la Santità Vostra voglia e comandi che vada in Moscovia qualcuno che sia atto a simil negozio; e ciò facciasi piú tosto che si può, conciosiachè molte cose occorrano che desiderano prestezza. La via è pericolosa e lunghissima, specialmente avendosi, per le ragioni che diremo, da schifare il passar per la Polonia, avendosi da camminar da un capo all'altro dell'Alemagna, da passar per la Prusia e per la Livonia, d'aspettare spesse volte nel viaggio la compagnia, e menarla anco spesso per il pericolo degli assassini, dei quali sono quei paesi grandemente molestati; di maniera che chiunque vi fusse mandato, ancora che andasse con ogni diligenza, appena in 5 mesi potria giugner alla corte di quel principe, imperochè li suoi ambasciadori, mandati da lui a Carlo V imperadore, per quel medesimo viaggio, appena dopo 8 mesi finalmente arrivarono in Ispagna. In questo mezo li nostri nimici non dormiranno, e molte cose potrebbon occorrere che mutarian l'animo di quel principe, massime parendogli insieme con la sua tanto liberale offerta essere sprezzato e ischernito da' principi cristiani: la qual cosa come può esser che non gli paia, se dopo l'aver esso mandati due ambasciadori, uno a Carlo imperadore, l'altro a Gismondo re di Polonia, e col suo mezo a tutti li principi cristiani, niun da noi ne sia a lui rimandato? L'imperadore è ancor giovane, e al presente è tanto occupato in abbattere e rovinare il re di Francia che non può attendere a pensare a quelle cose che s'appartengono al ben comune della cristianità. Dal re di Polonia, benchè altrimenti egli sia prudente e cristiano principe, nondimeno in questo negozio di Moscoviti non si ha da sperarne cosa alcuna buona, il che poco di sotto faremo piú manifesto. Sichè, se la Santità Vostra non farà provedimento, il principe di Moscovia sarà da tutti i nostri principi dispregiato, ma non sarà spregiato da' nostri nimici, perciochè non è dubbio alcuno che 'l Turco tenterà ogni cosa per tirar dalla sua parte o in compagnia della guerra contra di noi un sí gran principe, massime comprendendo ch'egli sia di poco buon animo verso di noi, per esser stato da noi tante volte come pagano o come scismatico publicamente oppugnato. Sichè né anco dal lato nostro, se saremo savii, non è da indugiare, anzi è da far ogni cosa diligentemente, per conservarci con la nostra diligenza un tanto aiuto, offertoci spontaneamente fuor di speranza e senza nostra fatica; benchè, sí come ho detto, a ciò non fa bisogno d'altra diligenza se non che la Santità Vostra comandi e là vadano alcune persone atte e sufficienti.
Né a far questo la dee ritardar la spesa a ciò necessaria, conciosiach'ella non sia per esser tanta quanta spesse volte noi gittiam via in alcune non necessarie pompe, perciochè quelle cose che nell'altre ambasciarie accrescono la spesa, come è la lunghezza e i pericoli del viaggio, in questo la scemeranno, dovendosi mandar nella Moscovia non alcuni vecchi di gravità con compagnia onorata, ma piú tosto alcuni uomini spediti che possino sostenere tante e tali fatiche e le difficultà delle strade e sopportar la gravezza dell'aria di quel paese. E siano anco dotti nella santa legge d'Iddio, e che possino a chiunque gli domanda render ragione della fede e speranza e carità che è in loro, e giudicar secondo la regola della fede quel che a lei repugna, quel che si concorda e quel che le è differente, acciochè possino ben discernere qual siano quelle cose nelle quali l'apostolo commanda che doviamo comportar li deboli nella fede e non astringerli con dispute, a fin che coloro che al presente sono poco lontani dalla via della salute non facciamo sí, con la nostra indiscrezione, che molto piú si discostino da noi.
E per dir brevemente, si hanno da eleggere a ciò uomini tali che non attendino all'utilità propria, ma in ogni cosa cerchino l'onor di Giesú Cristo, e non molto anco abbiano a schifo li costumi di quella gente, acciò piú facilmente si possino con esso loro conformare. E vorrei che in elegger quei tali che si avessero da mandare a questa impresa tanto maggior pensiero vi si mettesse, quanto piú importa alla reputazione di questa sedia, e vadano a questi novi popoli piú tosto con condizioni determinate che con quali si sogliono mandar per pompa solenne solamente, perciochè, se qualche cosa per aventura mancherà alla pompa dell'ambascieria, secondo richiede la dignità di questa sedia, la magnificenza di quel principe e la importanza di tal negozio, iscuserà il tutto la lunghezza, la difficultà e i pericoli del viaggio. Non è da mandare uno che sia della Gottia né della Livonia né della Polonia, per l'antico odio de' Moscoviti contra queste nazioni, conceputo per le continue guerre che sogliono far contra d'esse per la vicinanza, e per il quale potria parer ch'elle in un certo modo facessero il proprio negozio. Sopra ogn'altra cosa mi par che sia molto piú espediente con pochissima compagnia, cioè non piú che con quattro o cinque in tutto, andarsene di qui in Livonia, perciochè cosí piú facilmente passeranno e piú speditamente e con minore spesa, e, quel che specialmente a questi tempi è da considerare, mettendosi in compagnia di mercanti n'anderanno sconosciuti e senza sospetto alcuno di coloro per il paese de' quali averanno da passare, conciosiachè, se la fama di questa cosa si spargesse, gli avversarii nostri fariano ogni sforzo per andar prima di noi e impedirci: onde mi pare che questa facenda si debba maneggiar secretissimamente e col mezo di pochissime persone.


Per qual cagion non si debba mandar ambasciador di Polonia al duca di Moscovia per ridurlo all'union ecclesiastica.
Cap. 9.

Che in questo negozio, avenga che 'l re di Polonia sia in ogn'altra cosa cristianissimo principe, io l'abbia del tutto per sospetto, e conseguentemente anche la Polonia, aviene perchè, avendo esso provato il duca di Moscovia troppo acerbo vicino (conciosiachè Basilio, che al presente signoreggia, e Giovanni suo antecessore gli abbiano tolto 4 nobilissimi principati) e vedendo che per questa unione al medesimo s'aggiungeranno anche maggior forze, e a lui, nel far guerra contra di quello per i confini del suo regno, mancherà un gran favore, ha sempre con ogni via e astuzia disturbato questa unione: perciochè, col nome di far guerra contra scismatici e come nimici della nostra religione, ha avuto dagli altri principi cristiani grandissimo favor e grande aiuto dai nostri, di maniera che molte volte, publicandosi a questo effetto indulgenzie per tutto, è stato aiutato con publica spesa della cristianità; di che s'avede restar privo quando sia levato via la scusa dello scisma, e al suo nimico, che da se stesso è forte, doversi aggiugner nelle cose della guerra maggior forze per la nostra compagnia. E benchè tra loro sia ora la triegua di 5 anni, e ancora che 'l duca di Moscovia diventi cristiano, nondimeno il re di Polonia ragionevolmente sta in paura del stato suo per l'avenire, perciochè non si trovano principi cosí cristiani tra i quali, essendo vicini, spesse volte non si faccia guerra per molte occasioni.
Che al re di Polonia dispiaccia che 'l duca di Moscovia diventi o sia da noi tenuto veramente cristiano, chi è che chiaramente da questo non lo comprenda? Che dopo quella ambascieria mandatagli dal detto duca, cosí santa e cosí utile alle cose nostre, della quale di sopra facemmo menzione, egli nelle sue lettere scritte a papa Adriano VI, predecessore di Vostra Santità, non n'ha pur detto una parola: e nondimeno di niuna cosa ragionevolmente né piú grata né piú opportuna alle cose nostre averia potuto dar notizia a un papa religiosissimo, che farlo certo dell'animo veramente cristiano verso di noi di quei scismatici e del desiderio loro tanto inclinato ad aiutare e difendere le cose nostre, i quai scismatici come nimici meritamente acerbissimi dovevamo temere. Chi non vede da questo medesimo consiglio esser proceduto che spesse volte per lo passato a posta ha impedito questa unione? E sempre tutti quelli che da questa sedia apostolica sono stati mandati per questo effetto al duca di Moscovia egli, spaventandogli con vane paure e con la difficultà del mandar la cosa ad esecuzione, gli ha fatti tornar adietro. Al presente niuna cosa tanto gli saria molesta quanto se li romani pontefici intendessero che il duca di Moscovia sia d'animo tanto cristiano, e che con sí poca fatica si possa indurre all'unione ecclesiastica. Onde il reverendo monsignor Ieronimo Balbo, vescovo gurgense, il quale, allora essendo consigliero dell'imperador Massimiliano, e ora ambasciadore appresso la sedia apostolica per l'illustrissimo Ferdinando archiduca d'Austria, si trovò presente quando questo Basilio duca di Moscovia ricercava con grande instanzia il titolo di re, avendo egli inteso gl'inganni del re di Polonia in cotal maneggio, consigliò ad ogni modo papa Adriano VI, predecessore di Vostra Santità, che se desiderava questa unione per niuna via non ne communicasse cosa alcuna né col re di Polonia né con alcuno che gli fusse favorevole.
Sono anche altre cose che mi paiono utilissime a compir questa impresa felicemente, ma, per non esser piú lungo ed essendo piú espediente il communicar queste cose con coloro a' quali la Santità Vostra commetterà questa impresa, io farò fine.

Il fine della lettera d'Alberto Campense


Paolo Iovio istorico delle cose della Moscovia, a monsignor Giovanni Rufo, arcivescovo di Cosenza.


Mi richiedeste, Monsignor reverendissimo, con grande instanzia che io scrivessi in latino quelle cose che dei costumi de' Moscoviti io aveva intese per i ragionamenti quasi d'ogni giorno da Demetrio, ambasciadore di quella nazione, il quale poco tempo fa venne a papa Clemente; istimando voi, per la vostra antica pietà e virtú, che s'appartenga ad accrescer molto l'onore della Chiesa romana se gli uomini sapessero che un re di nome non finto, o del tutto non conosciuto e vile, ma un re che signoreggia infiniti popoli verso tramontana, ha desiderato e ricerco in tempo opportunissimo con tutto l'animo venire a unirsi con esso noi nelle cose della fede e stringersi con perpetua confederazione, quando nuovamente alcune genti d'Alemagna, le quali volevano mostrar d'avanzar di religione tutte le altre, con pazza e scelerata ribellione non solamente a noi, ma con perniciosissimo errore a Iddio si sono ribellate. E in vero, avenga che io, per esser occupato in piú importanti studi, avessi potuto rifiutar questo carico impostomi, l'ho nondimeno adempito con buon animo e prestamente, a fin che per lo troppo indugio e per volerla corregger con piú diligenza la cosa non venisse a restar priva della grazia della novità: con la qual sola cosa chiaramente si manifesta la grandezza della mia antica osservanza verso di voi e il desiderio che ho di farvi servizio, avendo piú tosto voluto far perdita dell'onore, se ne debbo sperar punto dalla bassezza del mio ingegno, che tener piú a lungo difraudato l'onestissimo desiderio vostro.


La cagione perchè il duca di Moscovia mandasse ambasciadore al papa.
Cap.1.

Primamente con ristretta brevità sarà descritto e in una tavola stampata sarà dipinto il sito del paese, il quale comprendiamo essere stato poco conosciuto da Plinio, da Strabone e da Tolomeo; dapoi con piú ristretto stilo ragioneremo de' costumi, delle ricchezze, della religione e degli ordini della milizia di quella nazione, imitando in ciò Cornelio Tacito, il quale dalla sua continuata istoria separò il libretto dei costumi degli Alemani, usando quasi la istessa semplicità di parole con la quale mi furono esposte dal detto Demetrio, ritrovandosi egli ozioso e avendolo io provocato con una curiosa e umanissima dimanda. E veramente Demetrio parla la lingua latina non inettamente, come quello che da fanciullo in Livonia aveva avuti i primi ammaestramenti delle lettere, ed era andato in molte provincie de' cristiani con carico onorevole di varie ambascierie: perciochè egli, per essere stato conosciuto fedele e diligente, fu prima ambasciadore appresso li re della Svezia e della Dazia e il gran maestro della Prussia, e ultimamente appresso Massimiliano imperadore; e praticando nella sua corte ripiena d'ogni condizione d'uomini, se cosa alcuna di rozzo si trovava nel suo riposato ingegno e atto a essere ammaestrato, la tolse via col por mente agli altrui gentili costumi.
Diede occasione di questa ambascieria messer Paolo Centurione genovese, il quale, avendo avuto da papa Leone decimo lettere di raccomandazione, se n'andò in Moscovia per mercanzie, dove senza esser richiesto trattò co' famigliari del principe Basilio d'unire la Chiesa moscovitica con la romana. Perciochè il detto messer Paolo con uno animo grande, e oltra modo grande, cercava una nuova e incredibil via da condur le specierie dall'India, avendo egli per fama inteso, mentre negoziava in Soria, in Egitto e in Ponto, che dall'ultima India su pel fiume Indo a contrario d'acqua si potevano condurre spezierie, e quindi per poco spazio di cammino per terra, passando per la sommità de' monti di Paropaniside, condurle in Oxo, fiume de' Bactriani, il quale quasi dagl'istessi monti che nasce Indo, con corso contrario, menando seco molti fiumi, appresso 'l porto di Strava entra nel mar Caspio. E finalmente contrastava, dicendo che gli pareva facile e sicura navigazione da Strava infino a Citrachan, città mercantesca, e alla bocca del fiume Volga, e d'indi poi su per il fiume Volga, Occha e Mosco facilmente potersi andare alla città di Moscovia, e da Moscovia per terra a Riga e al mar della Sarmazia e a tutti li paesi di ponente.
E questo cercava egli per esser sopra modo sdegnato per le ingiurie de' Portoghesi, i quali, avendo in gran parte soggiogata l'India e presi tutti i luoghi dove si facevano mercanzie, compravano tutte le spezierie e l'indrizzavano in Ispagna, e s'erano avezzati a venderle a tutti li popoli dell'Europa a prezzo molto maggiore che prima non si soleva e con grandissimo guadagno; anzi guardavano le marine dell'India con tanta diligente cura, tenendovi armate continovamente, che pareva che del tutto fussero intermesse e abbandonate quelle mercanzie, delle quali per la via del golfo della Persia e su per l'Eufrate e per lo stretto del mare Arabico e finalmente giú per il fiume Nilo per il nostro mare tutta l'Asia e l'Europa si fornivano abbondantemente e a pregio piú vile. Essendo anche la mercanzia de' Portoghesi molto cattiva, perciochè, per l'incommodità della lunghissima navigazione che fanno i Portoghesi, e per difetto della sentina delle navi, par che si guastino le spezierie, e finalmente la lor possanza, sapore e odore, per lo star lungamente nelli magazzini di Lisbona, disperdersi e dileguarsi, cercando sempre i mercanti di mettere a conservar le piú fresche nei magazzini, e vender le vecchie e guaste per la molta muffa.
Ma benchè messer Paolo, sottilmente discorrendo di queste cose e mettendo in grandissimo odio li Portoghesi, mostrasse che se si aprisse questo viaggio molto maggiormente s'accrescerebbono le gabelle del re, e a miglior mercato potriano essi Moscoviti comprar le spezie, delle quali in tutte le vivande ne consumano gran copia, nondimeno non poté in quanto a cotal negozio impetrar cosa alcuna, perciochè Basilio giudicava che non si dovesse a un forestiero e non conosciuto mostrar quei paesi i quali dessero la strada d'andare nel mar Caspio e nei regni de' Persiani. Sí che, essendo messer Paolo fuor d'ogni speranza d'ottenere il desiderio suo, diventato di mercante ambasciadore, essendo già morto papa Leone, portò lettere a papa Adriano, per le quali il detto Basilio con molto onorate parole dimostrava il suo buon animo verso 'l pontefice romano. Perciochè pochi anni avanti Basilio, nel colmo della guerra che aveva contra i Poloni, mentre si faceva il concilio laterano, richiese per mezo di Giovanni re di Dacia, padre di questo Cristierno, il quale nuovamente è stato scacciato del regno, che fusse dato passaggio sicuro agli ambasciadori moscoviti per andare a Roma. Ma essendo quasi nel medesimo giorno passati di questa vita re Giovanni e papa Iulio, e levato via il mezano a far ciò, egli si rimase di mandare ambascieria.
S'accese poi la guerra tra lui e Sigismondo re di Polonia, ed essendo successo ai Poloni la cosa felicemente, avendo ottenuta una vittoria notabile appresso 'l fiume Boristene, furono fatte in Roma le processioni, come se fussero stati vinti e uccisi gli nimici del nome cristiano: la qual cosa fu cagione di non poco allontanar l'animo del re Basilio e di tutti i suoi sudditi dal pontefice romano. Ma essendo morto papa Adriano sesto, e lasciato il sudetto messer Paolo già la seconda volta apparecchiato al viaggio, Clemente settimo, che successe nel papato, mandò il sopradetto, che ancora s'andava rivolgendo per l'animo il viaggio di Levante, con lettere in Moscovia, per le quali con affettuosissime esortazioni invitava il re Basilio a riconoscere la maestà della Chiesa romana, e a fare, tenendo nelle cose della fede una medesima opinione, una confederazion perpetua, la quale gli affermava dover essere a grandissima sua conservazione e onore: di modo che pareva che 'l pontefice gli promettesse, per la sacrosanta auttorità papale, dandoli le insegne regali, di nominarlo re se, lasciata la setta de' Greci, si riducesse sotto l'auttorità della Chiesa romana. E veramente Basilio desiderava d'acquistarsi il titolo di re per concessione del papa, giudicando che il darlo s'appartenesse alla ragione e maestà papale, perciochè aveva saputo che anche gl'imperadori per antica usanza pigliavano dai sommi pontefici la corona d'oro e lo scettro, che sono insegne dell'imperio romano; benchè si diceva che egli, avendo mandato piú e piú volte ambasciadori, aveva ricercato cotal titolo da Massimiliano imperadore.
Messer Paolo adunque, il quale da giovanetto con corso piú tosto felice che con molto guadagno aveva imparato a trascorrere il mondo, benchè vecchio e afflitto da una vecchia malattia di difficultà d'urina, con prospero e presto viaggio arrivò nella città di Moscovia, dove fu da Basilio benignamente ricevuto. Intanto se ne stette due mesi nella sua corte e, diffidatosi delle proprie forze e ispaventato dalla difficultà di quel lunghissimo viaggio, avendo del tutto poste da parte tutte le speranze e gl'intricati pensieri della mercanzia dell'India, insieme con Demetrio ambasciadore se ne ritornò a Roma, prima che noi pensassimo che fusse arrivato in Moscovia. Il pontefice comandò che Demetrio fusse ricevuto e alloggiato nella piú magnifica parte del palazzo di San Pietro, dove sono camere dorate, letti di seta e panni d'arrazza d'eccellentissimi lavori, e ordinò che fusse vestito di seta, e gli assegnò per compagno, a trattenerlo e mostrargli le reliquie e le antichità di Roma, Francesco Cheregato, vescovo aprutino, uomo che spesse volte in lontane e dignissime ambascierie era stato adoperato, e dal detto Demetrio pur in Moscovia per parole di messer Paolo era conosciuto.
Poi che Demetrio si fu alquanti giorni riposato, e lavato il succidume che per il lungo e faticoso viaggio aveva adosso, ed essendosi vestito d'un magnifico abito che s'usa nella sua patria, fu condotto dinanzi al papa: e umilmente inginocchiato secondo l'usanza gli baciò li piedi, e a nome suo e del suo re gli fece un presente di pelli di zebillini, dandogli poi le lettere di Basilio, le quali egli prima e poi l'interprete schiavone Nicolò da Sebenico le tradussero in lingua latina. E il soggetto era tale: "A Clemente papa, pastore e dottore della Chiesa romana, il gran signore Basilio, per la Dio grazia imperadore e dominatore di tutta la Rossia, e granduca di Volodemaria, di Moscovia, Novogardia, Plescovia, Smolenia, Ifferia, Iugoria, Permnia, Vetcha, Bolgaria et cet.; dominatore e gran principe della Novogardia bassa, di Cernigovia, Razania, Volothica, Rezevia, Belchia, Rostovia, Iaroslavia, Belozeria, Udoria, Obdoria e Condinia et cet. Voi ci avete mandato Paolo Centurione, cittadino genovese, con lettere per le quali ci avete confortato che vogliamo esser congiunti con voi e con gli altri principi cristiani, e di consiglio e di forze, contra gli nimici del nome cristiano, e ai nostri e vostri ambasciadori, per poter passare dall'una e dall'altra parte, sia aperto sicuro e libero viaggio, acciochè con iscambievole officio d'amicizia si possa intender della salute d'ambidue noi e degli avenimenti delle cose. Noi veramente, avendoci Iddio dato buono e felice aiuto, e sí come insin ora vigilantemente e valorosamente abbiamo fatto resistenza agli empii nemici della religion cristiana, cosí abbiamo anche fatto deliberazione di resistere per l'avenire, e parimente siamo apparecchiati d'accordarci con gli altri principi, e far sí che li viaggi siano sicuri. Per le qual cose vi mandiamo Demetrio Erasmio nostro uomo con questa nostra lettera, e vi rimandiamo Paolo Centurione. Ma Demetrio ce lo rimandarete tosto, facendolo guidare a salvamento insino a' nostri confini, e noi anche faremo il medesimo, se con Demetrio nostro mandarete vostro ambasciadore, acciochè con ragionamenti e con lettere siamo delle cose che s'hanno da trattare fatti certi, di maniera che, conosciuti gli animi di tutti li cristiani, possiamo anche noi appigliarci al miglior consiglio. Data nel nostro stato nella nostra città di Moscovia l'anno del principio del mondo 7030, alli 3 d'aprile".
Oltra di questo par che Demetrio, come uomo che è molto intendente delle azioni umane, e sopra tutto delle sacre lettere, abbia commessioni piú secrete di gran facende, le quali speriamo che tosto l'abbia da dire nelle private audienze, perciò che, dopo la febre nella quale era caduto per la mutazion dell'aria, egli ha ricuperate le pristine forze e il suo natural colore della faccia, di maniera che il vecchio di sessanta anni anche con gran suo piacere si è trovato presente alla messa papale che fu cantata in onore di san Cosmo e Damiano, con musiche e con solenne apparecchio, e venne similmente in concistoro quando il papa con tutta la corte ricevette il cardinal Campeggio, che allora tornava dalla legazione d'Ungaria. Oltra di ciò con grande sua maraviglia è andato vedendo le sacrosante chiese della città e le ruine della grandezza romana, e anche, per dir cosí, li cadaveri degli antichi edifici, di modo che credemo che egli, esposto che averà quanto ha in commessione, ricevuti onorati presenti dal pontefice, insieme col vescovo scarense, legato di sua Santità, se ne abbia da ritornare in Moscovia.


Del nome e paese de' Moscoviti; della selva Ercinia e degli animali che vi si truovano; delle orde de' Tartari e lor governo e costumi.
Cap. 2

Il nome de' Moscoviti è moderno, benchè Lucano abbia fatto menzione di Moschi, vicini a' Sarmati, e Plinio metta i Moschi appresso 'l fonte del fiume Fasso, sopra il mar Maggiore, verso levante. Il lor paese ha larghissimi confini, e si stende dagli altari d'Alessandro appresso i fonti del Tanai alle ultime parti della terra e all'oceano settentrionale, quasi sotto la tramontana. Per la maggior parte è piano e abbondante di pascoli, ma la state nel piú de' luoghi è paludoso, perciochè tutta quella terra è bagnata da grandi e spessi fiumi, i quali gonfiandosi per le nevi del verno disfatte dal caldo del sole e per il ghiaccio in ogni parte disfatto, li campi per tutto diventano paludi, e tutte le strade sono imbrattate per l'acque che si sono ritenute e per la sporchezza del fango, insino a tanto che di nuovo, per aiuto del verno, i fiumi stagnati e le paludi s'agghiaccino e facciano strade coperte di saldissimo ghiaccio ai carri che v'hanno da passare.
La selva Ercinia occupa una parte della Moscovia, ed essendovi state fatte molte abitazioni per tutto è abitata, e già per lunga fatica e opera degl'uomini divenuta rara, non mostra, com'alcuni stimano, l'orribil vista delli spessissimi e impenetrabili boschi; ma si dice bene ch'essendo piena di crudelissime fiere scorre per la Moscovia per lungo e continuato spazio tra levante e greco insin all'oceano della Scizia, di modo che con la sua infinita grandezza ha sempre ingannato la speranza di coloro ch'hanno curiosamente cercato arrivare al fine di quella. Nella parte che volge verso la Prussia si trovano grandi e ferocissimi bufali simili a tori, i quali gli chiamano bisonti; vi sono anco delle alce, che hanno forma di cervo, con una tromba carnosa nel muso, con le gambe alte e senza niuna piegatura nelle ginocchia: da' Moscoviti sono chiamate lozzi e da' Tedeschi helene, i quai animali vediamo che sono stati conosciuti da Caio Cesare. Oltra di questi vi sono orsi di grandezza estraordinaria, e lupi molto grandi e spaventevoli, per esser di color negro.
Da levante la Moscovia ha per confinanti gli Sciti, i quali oggi sono chiamati Tartari, gente vagabonda e in tutt'i secoli famosa nella guerra. Li Tartari in loco di case usano carri coperti di feltri e di cuoi, per la qual sorte di vita dagli antichi furono chiamati Amazonii; in cambio di città e castelli hanno grandi alloggiamenti in campagna, circondati non di fossi o di mura, ma d'una infinita moltitudine d'arcieri a cavallo. Sono divisi i Tartari in orde, e orda nella lor lingua significa ragunanza di popolo unito e concorde a similitudine d'una città. Ciascuna orda ha li suoi imperadori, secondo che la nobiltà e la virtú militare gli ha fatti, perciochè spesso fanno guerra co' vicini, e ambiziosamente oltra modo e crudelmente combattono per l'imperio: ed è cosa certa il numero delle orde esser quasi infinito, perciochè i Tartari hanno larghissimi deserti insin al Cataio, città famosissima, nell'ultimo oceano verso levante. Quegli che sono vicini a' Moscoviti sono conosciuti per rispetto del traffico della mercanzia e per le lor spesse correrie.
Nell'Europa, appresso il corso d'Achille, nella Taurica penisola, vi sono li Tartari precopiti: la figliuola del principe di questi Tartari fu moglie di Selino gran Turco. Sono molto molesti a' Poloni, e in molti luoghi tra 'l fiume Boristene e 'l Tanai predano e ruinan ogni cosa: e sí come grandemente si confanno co' Turchi nella fede, cosí anche nell'altre cose. Tengono nella medesima Taurica la città di Caffa, colonia de' Genovesi, anticamente chiamata Teodosia.
Quei Tartari che tra 'l fiume Tanai e la Volga abitano larghissime campagne rendono ubbidienza a Basilio, re de' Moscoviti, e ad arbitrio suo tal volta eleggono il loro imperadore. Tra costoro li Cremii, travagliati da domestice discordie, essendo già stati molto possenti e di ricchezze e di gloria nella guerra, pochi anni sono perdettero a un tratto e le forze e la riputazione. Li Casanii, che stanno oltra la Volga, con molta osservanza tengono l'amicizia de' Moscoviti, e confessano d'esser lor vassalli. Oltra li Casanii verso greco sono li Sciabani, molto potenti di numero d'uomini e bestiami. Dopo loro sono li Nogai, i quali oggidí tengono il principato e di ricchezze e di valor militare: la loro orda è grandissima e non ha imperador alcuno, ma secondo l'usanza della republica veneziana si governa con la prudenza de' vecchi e con la virtú d'uomini valorosi. Di là dai Nogai non molto piegandosi al mezodí verso 'l mar Caspio, li Zagathai, nobilissimi tra i Tartari, abitano nelle città fabricate di pietra, e hanno una città regale chiamata Samarcanda, di notabil grandezza e illustre, per mezo della quale passa Iaxarte, grandissimo fiume della Sodiana, e indi a cento miglia entra nel mar Caspio. Con questi Tartari al tempo nostro Ismael re di Persia fece guerra, e spesse volte con dubioso avenimento; e avendo paura di loro, mentre con tutte le forze, vedendosegli venire adosso, a loro si oppone, lasciò in preda l'Armenia e la città di Tauris, capo del suo regno, a Selino, rimasto vincitore in una giornata che fece con lui. Nella città di Samarcanda nacque Tamburlano, overamente, come Demetrio insegna che si debba dire, Temircuthlu, il qual prese Baiazete ottomano, terzo avo di questo Solimano, appresso Ancyra, città di Galizia, avendolo vinto in un gran fatto d'arme, e lo menò rinchiuso in una gabbia di ferro per pompa del suo trionfo per tutta l'Asia da lui vinta con un terribile impeto d'un grandissimo esercito.
Di questo paese si conducono nella Moscovia molti drappi di seta, ma li Tartari che sono fra terra non danno cosa alcuna se non mandrie di velocissimi cavalli e panni bianchi finissimi, fatti senza niuna tessitura di fili ma di lane impastate, de' quali si fanno tabarri di feltro bellissimi e atti a sostenere ogn'impeto di pioggia; ed essi pigliano da Moscoviti vestimenti di lana e moneta d'argento, dispregiando ogni ornamento di corpo e apparecchiamento di soprabondante masserizia, perciochè, a sopportar gagliardamente la violenza del cattivo tempo, si contentano d'un solo feltro, e confidati solamente nelle freccie si difendono da' nimici; benchè, mentre fecero deliberazion di scorrere in Europa, al nostro tempo, i lor principi comprarono da' Persiani celate di ferro e giacchi di maglia e scimitarre.
Da mezogiorno i confini de' Moscoviti sono serrati da' medesimi Tartari i quali sopra la palude Meotide in Asia e intorno ai fiumi Boristene e Tanai nella parte d'Europa tengono la campagna che volge verso la selva Ercinia. Li Roxolani, li Geti e i Bastarni anticamente abitarono quel paese, dal quale crederei che fusse venuto il nome di Rossia, perciochè una parte di Lituania la chiamano Rossia inferiore, e la Moscovia è chiamata Rossia bianca. La Lituania adunque da maestro guarda la Moscovia; da ponente i luoghi fra terra della Prussia e della Livonia si congiungono con li confini della Moscovia, dove il mar Sarmatico, entrando per lo stretto della Dacia, penisola de' Cimbri, fa verso greco un colfo piegato a guisa di meza luna.


De' Laponi popoli e lor costumi; de' Pigmei; del gran fiume Dividna; de' popoli permii, pecerri e altri; della lor religione; di piú sorti di falconi; del sito e descrizione della città di Moscovia.
Cap. 3.

Nell'ultimo lito del mar Oceano, dove la Norvegia e la Svezia, regni grandissimi, con uno stretto collo di terra quasi con una certa terra ferma si congiungono, vi sono i Laponi, gente molto piú di quel che si può credere salvatica e sospettosa: e si mette a fuggir ogni volta che vede uomini e navili forestieri. Ella non conosce né biade né frutti, e finalmente niun bene né di terra né d'aere: si provede da mangiare solamente con l'industria del tirar con l'arco, e si veste di diverse pelli di fiere. Le abitazioni di quella gente sono picciole grotte ripiene di foglie secche e tronchi d'arbori cavati, i quali gli abbia fabricati o 'l fuoco messovi dentro o la vecchiezza, avendovi fatto de' tarli. Alcuni pescano appresso 'l mare, ove si fa grandissima presura di pesce, pescando con istrumenti molto mal fatti ma ben aventurosi, e ripongono come lor biade i pesci seccati al fumo. I Laponi sono di statura di corpo picciola, di volto pallido e schiacciato, ma di piedi velocissimi. La lor natura né anche dai Moscoviti stessi, che sono lor vicini, è conosciuta, perciochè dicono che l'assalirgli con poca gente sarebbe perniziosa pazzia, e non stimano esser cosa né utile né punto gloriosa con grand'esercito provocar coloro che menano la lor vita povera di tutte le cose. Costoro cambiano quelle bianchissime pelli che noi chiamiamo armellini con mercanzie di varie sorti, ma di maniera lo fanno che fuggon ogni parlamento e vista de' mercanti; sichè, fatta dall'una parte e dall'altra la ragunanza delle cose da vendere, lasciando le pelli là in un luogo di mezo, contrattano co' mercanti absenti e non conosciuti e fanno cambio fidelissimamente.
Oltra i Laponi, nella parte che è tra maestro e greco e che da continova oscurità è ingombrata, hanno detto alcuni testimoni degni di fede che si truovano li Pigmei, i quali, venuti al colmo del lor crescere, appena trapassano l'altezza d'un fanciullo de' nostri di 10 anni. È sorte d'uomini molto paurosa e parlano garrendo, sichè tanto par che s'avicinino alla scimia quanto di statura e di sentimenti s'allontanano da un uomo di giusta grandezza. Dalla parte di tramontana innumerabili popoli stanno sottoposti all'imperio de' Moscoviti, i quali s'estendono insino all'oceano scitico per spazio di cammino quasi di 3 mesi.
Vicino alla Moscovia è 'l paese di Colmogora, abbondante di biade, per il quale passa Dividna, fiume maggior d'ogn'altro che si truovi nelle parti settentrionali, e a un altro ch'entra nel mar Baltico ha dato il nome. Questo fiume, con stabili e determinati crescimenti e simili a quei del Nilo, e a certi e fermi tempi dell'anno, inonda i campi circonvicini, e con la grassa inondazione resiste maravigliosamente alla violenza del freddo aere e ai crudeli venti di tramontana. E mentre, accresciuto dalle nevi e dalle pioggie, si gonfia, fra genti non conosciute scorre nell'oceano a guisa d'un gran pelago, per sí largo letto che con una nave spedita col corso d'un giorno non si può passare; ma subito che l'acque si sono abbassate, per tutto rimangono grand'isole e molto fertili, perciochè vi si produce il frumento seminato senza adoperarvi altramente l'aratro, e con maravigliosa prestezza della natura frezzolosa e temente la furia del superbo fiume nasce insiememente, cresce e fa le spiche. Nella Dividna entra il fiume Iuga, e in una punta dove i fiumi si congiungono è una nobil terra mercantesca nomata Ustiuga, lontana da Moscovia, città regale, 600 miglia. In Ustiuga sono portate dai popoli permii, pecerri, inugri, ugulici e pinnagi preziose pelli di martori, di zibellini, di lupi cervieri e di volpi negre e bianche, e le cambiano con diverse sorti di mercanzie: ma i zibellini piú stimati per la tenera bianchezza dei delicati peli, de' quali a' nostri tempi se ne fodrano le vesti de' principi e se ne cuoprono i delicati colli delle matrone, acconci di modo che rappresentano l'imagine di quell'animale vivo, li conducono li Permii e li Pecerri, ma essi anche da piú lontane genti, le quali son vicine all'oceano, li ricevono di man in mano. Li Permii e li Pecerri poco avanti i nostri tempi a uso di pagani sacrificavano agli idoli, ma ora adorano Iddio Iesú Cristo. Agl'Inugri e Ugolici si perviene per aspri monti, che forse anticamente furono i monti Iperborei, nella sommità de' quali si pigliano falconi eccellentissimi: e di questi ve n'è una sorte bianca, di penne macchiate, che la chiamano herodio; vi sono anche de' girifalchi, nimici degli uccelli chiamati ardee; vi sono de' sacri e de' peregrini, de' quali nell'uccellare la delicatezza degli antiqui principi non n'ebbe notizia.
Oltra di questi popoli ch'ora ho nominato, che danno tributo ai re di Moscovia, vi sono dell'altre nazioni ultime di tutte, per niun certo viaggio di Moscoviti conosciute, non essendo alcuno arrivato all'oceano, ma solamente udite per fama e per relazioni de' mercanti, il piú delle volte favolose. Nondimeno è assai ben manifesto che Dividna, traendosi dietro fiumi innumerabili, con gran corso discorre verso tramontana, e ivi è un mar grande, di maniera che per certissima coniettura s'ha da credere, se non vi è terra di mezo, navigando la marina a man destra, di lí con navi si possa arrivare al Cataio, perciochè li Cataini toccano l'ultima parte di levante, quasi al paralello della Tracia, conosciuti da' Portoghesi nell'India, conciosiach'essi nuovamente pochi anni adietro, pel viaggio della China, abbiano navigato insin a Malacha, ch'è l'Aurea penisola, a comprar delle spezierie, e abbiano portato delle veste di pelli di zibellini: per la qual sola coniettura pensiamo la città di Cataio non esser molto lontana da' liti della Scizia.
Ma dimandando noi a Demetrio se appresso di loro fusse di mano in mano lasciata da' loro antichi fama alcuna, o dalle istorie loro memoria, dei popoli gotti, i quali già mille anni passati, guastata la città di Roma con ogni maniera di violenza, avessero distrutto l'imperio degl'imperadori romani, ci rispondeva che 'l nome della gente gottica e del re Totila era famoso e illustre, e che a quell'impresa si ragunarono diversi popoli, e specialmente li Moscoviti, e che quell'esercito si accrebbe dal concorso delle genti di Lituania e di quei Tartari ch'abitavano appresso la Volga: nondimeno tutti furno chiamati Gotti, perciochè i Gotti che abitavano l'isola d'Islandia e di Scandavia furono capi di quell'impresa.
Da questi confini specialmente sono d'ogni parte serrati li Moscoviti, i quali stimo ch'appresso Tolomeo siano li Modoci: ma oggidí senza dubio sono cosí detti dal fiume Mosco, il quale anche alla città regale, passandole per mezo, ha dato il suo nome. Questa è la piú nobile di tutte le città della Moscovia, sí per il sito, ch'è riputato che sia nel mezo della provincia, sí anche per la notabil commodità de' fiumi e per la frequenzia delle case e per la fama della fortissima rocca, conciosiach'ella si stenda appresso la riva del fiume Mosco per spazio di 5 miglia con un lungo tratto d'edificii. Le case universalmente sono di legno, compartite in sale, cucine e camere di gran capacità, né bruttamente fabricate né troppo basse, perciochè dalla selva Ercinia sono portati travi di molta grandezza, co' quali, dolati a filo di sinopia e a contrario ordine tra loro ad angoli dritti congiunti e incastrati, fanno le parti di fuori delle case di maravigliosa fermezza, con poca spesa e con somma prestezza. Quasi tutte le case hanno orti privatamente, per piacere e diporto de' padroni e per servirsi degli erbaggi, onde il circuito della singolar città appar molto maggiore. Ciascuna contrada ha le sue chiese, ma nel piú bello e onorato loco è la chiesa consacrata alla Vergine Maria madre d'Iddio, con bella forma e grandezza fabricata già 60 anni da Aristotile bolognese, artefice di cose mirabili e architetto famoso. Al capo della città è un fiumicello nomato Neglina, che fa andar macine da formento, ed entrando nel fiume Mosco fa una penisola, nell'estremità della quale è una rocca con torri e bastioni di maravigliosa bellezza, fabricata per ingegno d'architetti italiani.
Nelle campagne vicine alla città si ritrova incredibil moltitudine di lepori e di capriuoli, i quali non è lecito di cacciare né con reti né con cani, se 'l principe di ciò non desse licenza a' suoi piú cari domestici overo ad ambasciadori forestieri per andare a piacere. Quasi da tre parti la città di fuori è bagnata da due fiumi, e il rimanente è cinto d'una larghissima fossa e ripiena di molt'acqua condottavi dalli detti fiumi, e medesimamente dall'altro lato è fortificata da un altro fiume chiamato Iausa, che parimente poco sotto alla città mette capo nel Mosco, il quale scorrendo verso mezodí appresso Colonna entra nel fiume Occa, ch'è molto maggiore; né d'indi a gran spazio di cammino il detto Occa, e per le sue e per l'altre acque divenuto grande e gonfio, si discarica nella Volga: e nel luogo dove si congiungono i due fiumi è una città nominata Novogardia minore, dal nome della città maggiore dalla quale vennero gli abitatori di questa.


Del nascimento del fiume Volga e d'altri fiumi della Moscovia, e d'alcune città; e di quel che produce il paese della Moscovia.
Cap. 4.

Nasce la Volga, ch'anticamente fu detta Rha, dalle grandi e deserte paludi de' laghi nominati Bianchi, i quali sono sopra Moscovia tra maestro e greco, e mandano fuori quasi tutti i fiumi che si spargono in diverse contrade, come veggiamo dell'Alpi, dalle cime e fonti delle quali è cosa certa ch'esce il Reno, il Po, il Rodano e altri minor fiumi innumerabili; perciochè quelle paludi, in cambio de' monti, col lor perpetuo sorgimento danno acqua in grandissima copia, conciosiachè veramente in quel paese, per lungo viaggio che l'uomo faccia, non si ritrovi monte alcuno; di modo che i monti Rifei e Iperborei, tanto celebrati dagli antichi, alcuni studiosi dell'antica cosmografia stimano esser del tutto favolosi. Da queste paludi adunque nascono la Dividna, l'Occa, il Mosco, la Volga, il Tanai e il Boristene. La Volga i Tartari la chiamano Edel, e il Tanai Don; il Boristene oggi è chiamato Neper, il quale poco sotto la Taurica penisola scorre nel mar Maggiore. Il Tanai è ricevuto dalla palude Meotide, dov'è Azov, città molto mercantesca. La Volga, lasciando per ostro la città di Moscovia, con gran circuito e gran giravolta, prima verso levante, poi verso ponente e alla fine verso ostro, da grandissima copia d'acque precipitato cade nel mar Caspio. Sopra la bocca del detto fiume è una città de' Tartari nominata Citracan, dove si fa la fiera dai mercanti di Media, d'Armenia e di Persia. Nella ripa della Volga, dalla banda di là, v'è una città de' Tartari detta Casan, dalla quale prende il nome la orda de' Tartari casanii: è distante dalla bocca della Volga e dal mar Caspio 500 miglia. Sopra Casan 150 miglia, nella bocca del fiume Sura, Basilio, il qual regna al presente, fece fabricare una terra nominata Surcico, acciochè in quel deserto vi fusse un fermo e sicuro alloggiamento con osterie per li mercanti e viandanti, i quali a' vicini soprastanti de' confini dan notizia delle cose de' Tartari e dei movimenti di quella gente inquieta.
Gl'imperadori de' Moscoviti in varii tempi, secondo che l'occasione portò, overamente che le lor vaghe voglie di nobilitar luoghi nuovi e vili gli tirarono lontani, tennero in diverse città la sedia dell'imperio e della corte: perciochè Novogardia, la qual guarda a maestro e quasi a ponente verso 'l mar di Livonia, non molti anni adietro fu capo di tutta la Moscovia, e sempre tenne la suprema dignità, per l'incredibil numero delle case e per commodità dei laghi larghissimi e pieni di pesce, e per la fama dell'antichissima e venerabil chiesa, la quale avanti 400 anni a imitazione degl'imperadori di Costantinopoli fu consacrata a santa Sofia, cioè a Cristo figliuol d'Iddio. Novogardia è ingombrata da un verno quasi perpetuo e dalla oscurità di lunghissime notti, perciochè ella vede il polo artico alzato dall'orizonte 64 gradi, quasi sei gradi piú lontana dall'equinoziale che non è la città di Moscovia: per questa ragione del cielo dicono che al tempo del solstizio ella patisce ardentissimi caldi, essendo le notti picciole e il calor del sole continovo.
La città di Volodemaria ha nome di residenza regale, ed è lontana dalla città di Moscovia 200 e piú miglia verso levante; e dicono che vi fu trasportata la sedia dell'imperio dai valorosi imperadori per necessaria cagione, cioè per aver da presso, facendo allora continovamente guerra co' vicini, piú apparecchiati li presidii da metter contra le correrie de' Tartari, perciochè ella è posta di qua dalla Volga nelle ripe del fiume Clesma, il qual entra nella Volga. Ma veramente Moscovia, per le qualità ch'abbiamo dette, è giudicata degna del nome di città regale, conciosiachè, essendo ella sapientissimamente situata in un certo luogo di mezo dell'imperio e di tutto il paese piú frequentato, e fortificata di rocca e di fiumi, paia di consentimento di tutti a comparazione dell'altre città aversi meritamente acquistata la lode e l'onore della preminenza, da non dover mai in alcun tempo mancare.
La città di Moscovia è distante da Novogardia 500 miglia, e quasi a mezo cammino si truova Ottiferia, posta appresso la Volga, nel qual luogo, come piú vicino al fonte, non avendo ancora ricevuti tanti fiumi, è picciol fiume e scorre piacevolmente. D'indi per boschi e per campestri solitudini s'arriva a Novogardia; da Novogardia a Riga, porto vicino al lito del mar della Sarmazia, è viaggio poco meno di cinquecento miglia: e questa contrada è riputata migliore di quella di sopra, perciochè vi sono villaggi molto spessi, e havvi anco la città di Plescovia posta nella strada, ed è abbracciata da due fiumi. Da Riga, la quale è sottoposta al gran maestro de' cavallieri di Livonia, a Lubecca, porto dell'Alemagna nel golfo della penisola di Dacia, si contano poco piú di mille miglia, ma di navigazione pericolosa. Da Roma alla città di Moscovia si è trovato esservi la distanza di 2000 e 600 miglia, e andando anche per viaggio brevissimo, cioè per Ravenna, per Treviso, per le Alpi della Carinzia, per Villacco di Baviera, per Vienna d'Ungheria, e d'indi, passato il Danubio, per Olmuzio di Moravia sino in Cracovia, città regale di Polonia, sono mille e cento miglia. Da Cracovia a Vilna, capo della Lituania, 500, e altretante da essa a Smolenco, posta di là dal fiume Boristene, e da Smolenco alla città di Moscovia si contano seicento miglia. Ma il viaggio che è da Vilna per Smolenco a Moscovia, il verno, per rispetto delle nevi agghiacciate e del ghiaccio, sdruccioloso ma saldo per esser molto calpestato, nei carri spediti fassi con incredibile celerità; la state poi non si possono passar le campagne se non per difficile e faticoso cammino, perciochè, mentre le nevi si cominciano a distruggere e dileguare per il continovo sole, elle diventano paludi e voragini fangose, delle quali non si possono districare né gli uomini né i cavalli, se con fatica quasi infinita non vi si distendono ponti di legno.
Il paese della Moscovia universalmente non produce né viti né olivi né arbore che produca pomo di sapore pur alquanto soave, fuor che i melloni e le ciregie, seccandosi tutte le cose tenere per li freddissimi venti di tramontana; nondimeno li campi producono frumento, segala, miglio, panico e ogni sorte di legumi. Ma il raccolto certissimo consiste nella cera e nel mele, perciochè tutto 'l paese è pieno di fecondissime api, le quali fanno mele perfettissimo, non già nelle arne fatte per mano de' contadini, ma nelle cave degli arbori: onde aviene che per le selve e per gli ombrosissimi boschi si veggono spessi e belli sciami d'api pender da' rami degli arbori, a' quali raccogliere non fa bisogno usare alcun suono di rame. Si truovano spesse volte gran masse di favi di mele nascose negli arbori, e il mel vecchio abbandonato dalle api, conciosiachè gli contadini, essendo pochi, non vadano ricercando ciascun arbore in cosí gran boschi, di modo che alle volte si truovano gran laghi di mele nei tronchi degli arbori di maravigliosa grandezza.
Demetrio ambasciadore, uomo di natura faceta e piacevole, ci raccontò, con gran risa di tutti, come pochi anni sono un contadino della sua vicinanza, per cercar del mele, dalla parte di sopra saltò in un grandissimo arbore cavato, e che si sommerse insino al petto in un profondo gorgo di mele, e due giorni col mel solamente sostentò la sua vita, non potendo la sua voce che dimandava soccorso in quella solitaria selva arrivare all'orecchie de' viandanti; alla fine, essendo disperato della sua salute, per maraviglioso accidente con l'aiuto d'una grande orsa indi cavato scampò, perciò ch'egli prese con le mani e abbracciò dalla parte di dietro le reni di quella bestia, calatasi come faria un uomo a mangiar del mele, e quella spaventata da subita paura egli la spinse, e col tirare e col molto gridare, a saltar fuori.
Li Moscoviti mandano anco per tutta l'Europa lino eccellente e canape per le funi, e anco molti cuoi di bue e gran masse di cera. Non si truova appresso di loro minera né d'oro né d'argento né d'altro metallo, fuor che di ferro, e in tutto quel paese non v'è segno alcuno di gemme o di pietre preziose, le qual cose tutte fanno venir da' paesi forestieri. Nondimeno questa ingiuria della natura, che ha avuto loro invidia di tanti beni, è ristorata con la mercanzia di nobilissime pelli, il pregio delle quali, per la incredibil cupidigia e dilicatezza degli uomini, è tanto cresciuto che la fodra per una veste si vende mille ducati d'oro. E già fu tempo che si compravano a piú vil pregio, mentre le lontanissime nazioni settentrionali, del tutto ignoranti di politi ornamenti e della nostra ansiosa delicatezza, con grandissima simplicità le barattavano spesse volte in cose vili e da ridere, di maniera che communemente li Permii e li Pecerri per una scure davano all'incontro tante pelli di zibellini quante d'esse insieme strette li mercanti moscoviti potevano cavar fuori del foro della scure dove si mette il manico.


Della religione de' Moscoviti e d'alcune lor cerimonie; della lingua e lettere che usano; donde comincino a numerar gli anni e da qual mese; delle leggi; del castigo che danno a' malfattori, e come fanno confessar loro la verità.
Cap. 5.

Cinquecento anni fa li Moscoviti adoravan gl'iddii de' pagani, cioè Marte, Giove, Saturno e alcuni altri, i quali l'antica età, tirata da pazzo errore, d'uomini sapienti e di re se gli fece dei; ma allora primieramente si fecero cristiani che li vescovi greci, di natura non troppo stabili, cominciarono a discordarsi dalla Chiesa romana: e cosí avvenne che li Moscoviti seguitarono quelle cerimonie della religione, con quelle medesime opinioni e con quella sincerissima fede che impararono dai dottori greci, perciochè tengono per fermo che lo Spirito Santo, terza persona nella divina Trinità, proceda solamente dal Padre. Nondimeno, secondo la drittissima verità, s'ha da credere che proceda dal Padre insiememente e da Cristo suo figliuolo: ma tal controversia, con gran contesa d'ambedue le parti trattata nel concilio fiorentino sotto papa Eugenio quarto, ebbe tal fine, che pareva che la pertinacia de' Greci s'avesse piú tosto da riprendere nelle parole che nel sentimento, perciochè i vescovi greci, vinti da evidentissime ragioni, confessavano che lo Spirito Santo era prodotto dal Padre per mezo del Figliuolo.
Fanno anco il Sacramento non di pane azimo, come veramente si debbe fare, ma di pan lievito, e i lor preti communicano tutto 'l popolo sotto l'una e l'altra specie, nel modo che si communicano appresso di noi solamente li sacerdoti, cioè col pane e col sangue consacrato: la qual falsa opinione essendo stata appresa da' Boemi poco avanti la ricordanza de' nostri padri, si ribellarono alla Chiesa romana. Ma quel che a noi pare molto lontano dalla cristiana religione è che li Moscoviti tengono che l'anime de' morti non si possino aiutare con alcune orazioni, né di sacerdoti né di parenti né d'amici, e pensano che 'l purgatorio sia una favola, dal quale finalmente l'anime de' fedeli, purgate e dalla lunga pena del fuoco e dalli molti officii mortorii e dalle indulgenzie de' sommi pontefici, conseguiscano immortal felicità nella beata sedia del cielo.
Nell'altre cose osservano le medesime cerimonie che sono usate da' Greci, e niegano superbamente e con molta ostinazione che la Chiesa romana sia la principale e capo dell'altre. Ma sopra tutto hanno tanto in odio li giudei che non possono sentirgli nominare, né vogliono che ne' lor paesi ve ne siano, come que' che gli stimano esser uomini pessimi e di male affare, i quali anco ultimamente abbino insegnato a' Turchi a far l'arteglierie. L'istoria della vita e di tutti i miracoli di Cristo scritta dai quattro evangelisti, similmente l'epistole di s. Paolo sopra il pergamo con voce alta si leggono mentre si dice la messa, e li sacerdoti di buona vita leggono publicamente li sermoni de' dottori della Chiesa, anche in quell'ore che non si dice messa. E stimano che non sia ben fatto ricever in chiesa a predicare quei frati incappucciati i quali, ragunato il popolo, sono soliti predicare con grandissima ambizione e con molta sottilezza disputar delle cose divine, perciochè gli uomini che tengono la vera religione giudicano che gli animi rozzi degl'ignoranti facciano miglior profitto ne' costumi piú tosto con simplice dottrina che con altissime esposizioni delle cose secrete. Li sopradetti libri sacri e gli espositori del nuovo e vecchio Testamento, e oltra di ciò Ambrosio, Agustino, Ieronimo e Gregorio, gli hanno tradotti in lingua schiava e gli serbano con molta riverenza.
Li vescovi e li capi de' minori sacerdoti, stando ciascuno alla sua città e villa, hanno cura delle cose sacre, levano via le discordie e le liti, e con grandissima podestà di castigare perseguitano coloro che sono di cattivi costumi. Il lor sommo sacerdote, ch'essi lo chiamano metropolita, lo richieggono dal patriarca di Costantinopoli; gl'archimandriti e i vescovi, mettendo in una urna i nomi dei migliori, gli cavano a sorte. Di quegli uomini, i quali di lor propria volontà hanno rifiutato li mondani desiderii e si sono dati alla contemplazione delle cose divine e al servizio delle cose sacre, ve ne sono di due sorti, e ognuna d'esse abita ne' monasteri. Ma l'una è vagabonda e di vita piú libera e sciolta, sí come sono appresso di noi li frati di san Francesco e di san Dominico; e l'altra è di monaci piú santi, l'ordine de' quali fu instituito da san Basilio, e a loro non è lecito di metter il piè fuor della soglia della porta, ancora che fussero in estrema necessità, perciochè, lontani dagli occhi de' secolari, con asprezza incredibile menano la lor vita nelle secrete celle, e fan sí che si crede che abbiano macerati i desiderii della carne e abbiano l'animo molto confermato nella religione.
Tutto 'l popolo è solito quattro volte l'anno digiunare, e piú giorni di continovo, astenendosi di mangiar carne, uova e latte: primamente nella primavera, all'usanza della Chiesa romana, dopo 'l giorno delle Ceneri; dapoi anche, venuta la state, a onor di s. Pietro e di s. Paolo, e nel principio dell'autunno, quando si celebra la festa dell'Assonzione della Vergine Maria; e ultimamente avanti il verno, mentre s'annonzia l'avvento del Signore. Fra la settimana il mercordí non mangiano carne, e il venerdí lo fanno senza uova e senza latte, e il sabbato lo fanno con molta allegrezza, caricando la tavola d'ogni vivanda; ma, facendo altrimenti di quel che s'usa appresso noi, non osservano alcuna vigilia de' giorni di festa. Portano grandissima riverenza alle chiese, di modo che in quelle non è lecito entrare né a uomini né a donne che si siano imbrattati nel peccato carnale, se prima non si lavano ne' bagni che usano privatamente. E avviene spesse volte che molti, sí donne come uomini, udendo la messa stanno fuori della porta della chiesa, onde, notati della fresca lascivia, dai giovani importuni sono alle volte con cenni e motti piacevoli salutati.
Nella natività di s. Giovan Battista e nella pasqua dell'Epifania li preti donano a tutto 'l popolo certi piccioli pani benedetti, e han fede che mangiandone coloro ch'hanno la febre ne rimanghino guariti. Fanno anco alcune altre feste a certo tempo dell'anno appresso a' fiumi ghiacciati: mettono un tabernacolo nella ripa del fiume e, ragunata la nobiltà, cantano alcune laudi e spargendo molt'acqua benedetta benedicono il fiume, e andatogli attorno con solenne processione e consacratolo, tagliato il ghiaccio attorno attorno e levatolo via lo scuoprono incontinente. Finite con ogni cerimonia tutte queste cose, se vi è alcun ammalato o impiagato salta nel fiume e si lava nell'acqua benedetta, pensandosi per questo liberarsi dal male. Li morti, sí come si fa appresso di noi, sono portati alla sepoltura con mediocre pompa funerale, accompagnati da preti, con la testa coperta con un sciugatoio; e non sono sepelliti nelle chiese, come per una corruttela quasi empia e certamente abominevole s'usa appresso noi, ma ne' chiostri o cimiteri fuori delle chiese, e al modo nostro quaranta giorni fanno loro gli officii mortori: della qual cosa in vero è da maravigliarsi, negando essi del tutto che l'anime si purghino nel purgatorio, e che la pena de' peccati si rimetta per i prieghi degli amici né per alcun'opera di pietà. Nelle altre cose della fede credono fermissimamente quell'istesso che credemo noi.
Li Moscoviti usano e la lingua e le lettere schiave, come fanno li Schiavi, li Dalmatini, li Boemi, li Poloni e i Lituani: la qual lingua si dice esser piú usata di tutte l'altre, perciochè molto s'usa in Costantinopoli nella corte del gran Turco, e non è molto tempo che in Egitto, appresso il soldano di Babilonia e i Mamalucchi suoi cavalieri, era gratamente ascoltata. In questa lingua fu tradotto gran copia di libri sacri, specialmente per diligenza di san Girolamo e di Cirillo. Hanno medesimamente in questa lingua, oltra i loro annali, scritte anco l'istorie d'Alessandro Magno, degl'imperadori romani e di Marc'Antonio e di Cleopatra. Non hanno avuto mai notizia né della filosofia né dell'astrologia né d'altre scienzie, né della medicina che procede per via ragionevole: coloro sono medici che fanno professione d'aver piú volte sperimentate le virtú d'alcune erbe alquanto piú incognite dell'altre. Gli anni appo loro non sono numerati dalla natività di Cristo ma dal principio del mondo; i quali non cominciano dal mese di gennaio ma dal mese di settembre. Usano in tutto 'l regno le leggi simplicissime, fatte con somma giustizia, de' principi e de' giustissimi uomini: e perciò elle sono molto salutifere ai popoli, non essendo lecito d'interpretarle con alcune cavillazioni d'avocati e metterle sottosopra. I ladri, gli omicidiali e gli assassini sono castigati nella vita; e mentre danno il tormento a' malfattori per fargli confessare, gittano loro da alto adosso di molta acqua fredda, la qual sorte di tormento dicono ch'è intolerabile. Alle volte isvelgono l'unghie con alcuni stecchi di legno a coloro che si mettono in ostinazione di non confessare.


Dell'esercizio, statura e complessione e abbondante vivere de' Moscoviti; d'alcuni uccelli e pesci; del modo che tiene il principe in pigliar moglie; della cavalleria, stendardo, arme ed esercito suo.
Cap. 6.

Tutta la gioventú s'esercita in varii esercizii, ma piú in quelli che s'avicinano all'arte della guerra: fanno a correre, giuocano alle braccia, fan correre i cavalli, e a tutti son proposti li premii, e massimamente a coloro che sanno tirar bene con l'arco. Universalmente li Moscoviti sono di mezana statura, ma di corpo ben complesso e muscoloso. Tutti hanno gli occhi di color glauco, le barbe lunghe, le gambe corte e gran pancia; cavalcano con le staffe cortissime tenendo le gambe rannicchiate, e ancora che fuggano, nondimeno, volgendosi con la faccia adietro, con grand'arte tirano le freccie. In casa vivono piú tosto abbondantemente che con politezza, perciochè la lor tavola ordinariamente è apparecchiata e carica quasi di tutti quei cibi che si posson desiderare anco dalle persone golosissime, e con poca spesa, comprandosi per lo piú le galline e l'anatre per pochi soldi; di bestiame grosso e minuto ve n'è copia incredibile, e le vitelle ammazzate a mezo 'l verno, agghiacciandosi le lor carni per il gran freddo, durano quasi due mesi senza guastarsi.
Con le caccie e con l'uccellagioni, sí come anco si fa appresso noi, s'apparecchiano vivande piú nobili, perciochè pigliano ogni sorte di fiere con cani da caccia e con reti, e con astori e con falconi, che dal paese di Pecerra ne vengono maravigliosi; non pur cacciano li fagiani e l'anatre, ma li cigni e le grui. Penso che gli astori siano tra la piú bassa schiatta dell'aquile overo nibi, e che i falconi appresso gli antichi fussero tra la nobile schiatta de' sparvieri. Pigliano anche un uccello alquanto negro, con le sopraciglia rossigne, della grandezza d'una oca, il quale nell'esser di carne saporita avanza il fagiano, e in lingua moscovitica lo chiamano tether (da Plinio è detto erythratao), molto conosciuto da coloro che stanno nell'Alpi, e massimamente dai Grisoni, i quali abitano nella valle dove nasce il fiume Adda. Oltra di ciò nella Volga sono di grandi e saporitissimi pesci, ma migliori di tutti sono gli storioni, che anticamente credo che si chiamassero siluri, i quali il verno, messi nel ghiaccio, si conservano freschi per molti giorni. D'altri pesci cavano dai laghi Bianchi, nominati di sopra, quasi incredibil quantità.
Essi, non avendo vin natio, usano di quello che vien portato d'altri paesi, ma solamente ne bevono ne' conviti solenni e ne' sacrificii. Sopra tutto la malvagia alquanto dolce v'è stimata assai, ma l'usano solamente per medicina e quando vogliono mostrar gran delicatezza e magnificenza, essendo come un miracolo il bever lasú nella fredda Scizia vino che sia condotto di Candia per lo stretto di Gibelterra, e che, isbattuto da tante onde del mar Mediterraneo e dell'oceano, ritenga incorrotta la bontà del sapore e dell'odore. La plebe in luogo del vino usa una bevanda detta medone, fatta di mele e di lupoli, la qual, messa ne' vasi impeciati, invecchia, e invecchiando diventa migliore; usa anche la birra e la cervosa, come si vede che fanno li Poloni e i Tedeschi, le quali bevande son fatte d'acqua cotta col grano e con la spelta overo con l'orzo, e se ne bevono in tutti li conviti. Dicono, per la gran possanza che hanno simile al vino, che imbriacano chi ne beve troppo. Sogliono la state, per bever con maggior piacere, rinfrescar la birra e il medone mettendo nelle tazze o ne' bicchieri pezzi di ghiaccio, che li nobili ne fanno conservare assai nelle caneve sotto terra. Vi sono anco alcuni che hanno per delicata bevanda un certo sugo fatto di ciriege amarasche, il quale ha il color chiaro e rosseggiante come il vino e il sapore gratissimo al gusto.
Le mogliere e le femine non sono appresso loro tenute in quel conto che sono appresso l'altre nazioni, perciochè le tengono quasi in luogo di fantesche. Gli uomini d'alta condizione hanno gran cura d'esse e sono gelosissimi del loro onore: non le lasciano mai andare a conviti né a chiese che siano molto discoste, né inconsideratamente uscire in publico; ma le donne plebee facilmente e per poco prezzo si posson tirare all'amoroso piacere fino dai forestieri, di modo che si stima che i nobili poco attendono all'amore d'esse.
Al presente re Basilio già sono venti anni morí il padre, nominato Giovanni, e il quale ebbe per moglie una donna detta Sofia, figliuola di Tommaso Paleologo, ch'era signor della Morea e fratello dell'imperador di Costantinopoli: ella era allora in Roma, essendo Tommaso suo padre stato cacciato di Grecia per forza dai Turchi. Di questa felicemente ebbe cinque figliuoli: il detto Basilio, Giorgio, Demetrio, Simeone e Andrea; Demetrio e Simeone essendo già morti di malattia, Basilio tolse per moglie una donna chiamata Salomonia, figliuola di Giorgio Soborovio, consigliero di grandissima fede e di singular prudenza; l'egregie virtú della qual donna sono oscurate dall'aver ella disgrazia di non generar figliuoli. Il principe de' Moscoviti, mentre delibera di tor moglie, ha per costume di far fare una scelta delle donzelle di tutto 'l regno, e comanda che le piú virtuose e le piú belle gli siano condotte, le quali fa vedere per uomini idonei e matrone fidate: e ciò si fa con tanta diligenza che è lecito loro di vedere e di toccar le parti piú ascose e secrete. Di tutte queste, con ansiosa aspettazione de' padri e delle madri, si publica esser moglie del re quella che gli è piaciuta; l'altre che eran venute al paragone contendendo della preminenza della bellezza e della pudicizia e de' costumi, spesse volte il giorno medesimo, per compiacere al principe, son maritate a baroni e a soldati, di maniera che le donne nate di bassa condizione, col mezo della bellezza, mentre i principi sprezzano l'illustre nobiltà delle stirpe dei re, spesse volte pervengono alla somma altezza del matrimonio regale, come vediamo che son soliti fare li signor turchi ottomani.
Il re Basilio non arriva a quarantasett'anni, e per la bellezza del corpo e per la singular virtú dell'animo, e per l'amore e onore portatogli da' suoi e per le cose da lui fatte, meritamente è da esser anteposto a' suoi predecessori, perciochè, avendo sei anni combattuto co' Livoni, i quali in quella guerra tiravano in lega settantadue città, dando esso piú tosto che ricevendo alcuni capitoli, se ne partí vittorioso: e subito che cominciò a regnare ruppe li Poloni e prese Costantino Ruteno, capitano dell'esercito, e legatolo in catena lo menò nella città di Moscovia. Ma egli poco tempo dopo, appresso 'l fiume Boristene, sopra una città detta Orsa, in un gran fatto d'arme fu vinto dal medesimo Costantino, il quale esso aveva lasciato andare; nondimeno una città di Smolenco, la quale prima era stata presa da' Moscoviti, dopo cosí gran vittoria ottenuta da' Poloni rimase anche in potere del re Basilio. Contra i Tartari, e massimamente contra li Tartari precopiti, che son nell'Europa, piú volte hanno li Moscoviti combattuto e vinto, vendicandosi valorosamente dell'ingiurie che fanno li detti Tartari con le spesse e subite correrie.
Il re Basilio è solito di conducere alla guerra piú di centocinquantamila cavalli, con le compagnie compartite a bandiere che seguitano tutte il lor capitano. Nello stendardo della schiera ove sta il re è dipinta la imagine di quel Iosuè ebreo il quale, come raccontano le sacre istorie, con divoti prieghi ottenne dal grande Iddio un giorno lunghissimo, avendo fermato il solito corso del sole. Le fanterie in quelli gran deserti non son quasi utili in cosa alcuna, parte per le vesti lunghe che giungono loro insino al collo del piè, parte ancora per l'usanza de' nemici, li quali esercitano l'arte della guerra piú tosto col corso e velocità de' cavalli che per forza di ferma battaglia e di venire ad affrontarsi. I lor cavalli sono di statura meno che mezana, ma forti e velocissimi; gli uomini a cavallo combattono con le lancie ferrate, con le mazze di ferro e con le freccie; alcuni pochi usano scimitarre. Cuoprono il corpo con le rotelle, come li Turchi asiatici, overo con targhe torte e angulari, come fanno i Greci; s'armano anche di corazze e di celate aguzze. Il detto re Basilio ha ordinato anche una banda di schioppettieri a cavallo, e nella fortezza della città di Moscovia si veggono molte artiglierie fatte da maestri italiani e poste sopra le lor rote.
Egli è solito mangiar publicamente, insieme con gli ambasciadori e baroni, con magnifico apparecchio e con grandissima umanità e piacevolezza, per la quale non si vien però ad abbassare in parte alcuna la maestà regale. E nella medesima sala dove si mangia, si vede in due credenziere distesa grandissima quantità di vasi d'argento dorati. Non usa tener banda alcuna di soldati nella sua corte per guardia della persona sua, fuor che la famiglia propria, né meno la tiene altrove. Le guardie son fatte dal popolo della città, il quale gli è molto fedele, e ogni contrada della città è serrata da porte e da cancelli, né è lecito andarsene la notte per la città inconsideratamente overo senza lume. Tutta la corte del re è fatta di signori e di soldati eletti, li quali, secondo il determinato tempo di mesi, sono mandati a chiamare da tutti i luoghi sottoposti al re per frequentare e nobilitar la corte, facendo scambievolmente l'ufficio d'accompagnarlo.
L'esercito veramente, quando sopravien loro la guerra o veramente la fanno publicar contra gli altri, si fa di soldati vecchi richiamati dalle stanze e di nuovi scelti nelle provincie, perciochè in tutte le città coloro che sono soprastanti della guerra fanno far la mostra della gioventú, e quelli che sono atti gli scrivono a ruotolo de' soldati, a' quali al tempo della pace è dato dalle camere delle provincie un certo ma picciolo stipendio. Coloro veramente che sono soldati non pagano dazii e sono superiori agli altri della terra, e per il favore del re possono assai in tutte le cose, perciochè, mentre si fa guerra, il luogo onorato si dà alla vera virtú: e per instituto singolare e molto giovevole, in ogni amministrazione di qualunque cosa, ciascuno, secondo che si vedono esser le operazioni sue, conseguisce condizione o di premio perpetuo o di biasimo sempiterno.

Il fine della narrazione di Paolo Iovio delle cose della Moscovia.


Commentari della Moscovia e della Russia, composti gia` latinamente per il signor Sigismondo libero barone in Herberstain, Neiperg e Guettenhag, tradotti di latino in lingua nostra volgare italiana.


Al serenissimo principe e signore, il signor Ferdinando, re delli Romani, de l'Ongheria e di Boemia, infante di Spagna, arciduca d'Austria, duca della Burgundia e di Wirtembergo, e di molte provincie duca, marchese, conte e signore.

Li Romani, qualunque volta i loro ambasciadori alle nazioni esterne e per la molta lontananza men conosciute mandavano, questa commissione e ricordo davano loro, che, mentre appresso di quelle l'ufficio della legazione facessero, i costumi, gli ordini, i decreti e tutto il modo del vivere di quella gente accuratamente scrivere dovessero; il che in processo di tempo a tanto pregio e istimazione divenne che, renunciata la loro ambascieria, tali commentarii a beneficio e amaestramento delli posteri loro nel tempio di Saturno erano fidelmente riposti e consegnati. Il quale lodevolissimo instituto, se dagli uomini della nostra ed eziandio della passata età fosse stato osservato, forse molto piú di luce e di vero splendore e manco di vanità alla istoria latina arebbe arrecato. Ma io che, da fanciullo in su, e in casa e fuori della conversazione degli uomini esterni molto mi ho dilettato, ho sopportato volontieri il carico che dalla felice memoria di Massimiliano, principe prudentissimo e avolo della Maestà Vostra, ed eziandio da lei mi è stato piú volte commesso; laonde successe poi che, per volontà della Maestà Vostra, non una volta sola le parti settentrionali con somma diligenza ho ricercato, ma ancora di nuovo nella Moscovia insieme col compagno e della dignità e del viaggio, Leonardo conte di Nogarola, gentiluomo veronese, son ritornato. Il qual paese di Moscovia, fra tutte quelle provincie le quali dal sacrosanto battesmo sono bagnate e tinte, per costumi, per ordini, per religione e per l'arte militare non poco da noi cristiani è differente. E però, quantunque per commissione di Massimiliano primo imperadore, vostro avolo, già nella Dania, nell'Ongheria e nella Polonia l'ufficio di fedele ambasciatore io abbia usato, e dopo la morte di quello similmente con tal nome al potentissimo e invittissimo Carlo V, imperatore romano e della Maestà Vostra germano fratello, per Italia, per la Francia, per mare e per terra fino in Spagna io me ne sia andato; e oltre di ciò, per comandamento della Maestà Vostra, di nuovo io abbia esercitata la solita diligenza appresso delli re dell'Ongheria e di Polonia, e ultimamente insieme con il conte Nicolò da Salmi infino a Solimano principe de li Turchi con questo titolo d'ambasciatore io ne sia gito, e che molte cose non solamente nel trapassare del mio viaggio abbia vedute, ma eziandio accuratamente riguardatole e ben conosciutole, le quali in vero e di memoria e di vera luce dignissime sarebbono state; nondimeno non ho voluto giamai, in quello mio ocio che dalli publici consigli m'era concesso, nulla di quelle cose scrivere le quali per adietro dagli altri scrittori chiaramente e con diligenza fossero state trattate, e parimente avanti gli occhi e nel continovo aspetto della bella Europa poste e collocate. Ma bene le cose della Moscovia, molto piú secrete e alla cognizione di questa etade non cosí facilmente pervenute, a tutte le altre di gran lunga ho preferito, e a scriverle acconciamente ho cominciato, confidatomi però in due cose principali, cioè nella diligenza e parimente nella perizia della lingua slavonica, le quali in vero non picciolo soccorso e favore alla composizione di questa sorte di scrittura hanno apportato.
E ben che molti della Moscovia abbino lodevolmente ragionato, nondimeno piú per la relazione d'altri che per propria veduta si sono mossi a scrivere: degli antichi fu Nicolò Cusano, e de' moderni Paulo Giovio, il quale per cagione di somma erudizione e per l'incredibile amor suo verso di me lo nomino. Costui certo elegantemente e fidelmente ha scritto, perciò ch'egli per suoi ricchissimi interpreti Giovanne Fabro e Antonio Biedo, quali e le tavole e certi commentarii di ciò hanno lasciato, ha sempre usato. Sono stati poi alcuni altri scrittori li quali, mentre delle regioni piú vicine descrivono, alcune cosette della Moscovia leggiermente hanno toccato: in numero de' quali è Olavo Gothio nella descrizione della Svezia, e similmente Matteo Mechovita, Alberto Campense e Munstero, li quali nondimeno dal cominciamento del scriver mio punto non mi spaventaranno, perciochè di quelle cose che io vi scrivo molte ne ho vedute con la testimonianza delli proprii occhi, e alcune per relazione d'uomini degni di fede ho conosciute verissime, e altre ho intese con lunghi ragionamenti avuti con persone pratiche. Laonde è successo poi che alcuna volta (sia però lontana l'invidia da le parole) io sia stato astretto con maggior copia del dire e con piú abondanza di parole a dichiarare quelle cose le quali dagli altri sieno state proposte quasi per picciola veduta, piú tosto che raccontate con pura verità. Aggiungasi ancora questo, che io scrivo le cose non piú dette dagli altri, e quelle finalmente che da nissuno poteano essere conosciute se non da l'oratore; e però questo mio pensamento e questo mio studio la Maestà Vostra l'ha confermato, e piú volte confortatomi che tal opra incominciata al tutto finire dovessi, e volontariamente sopra ciò al corrente scrittore (come si dice) ha aggiunto gli speroni. Nondimeno da tale impresa e le legazioni e gli altri negozii della Maestà Vostra sovente mi hanno talmente rimosso che infino ora non ho potuto sodisfare in quello che già incominciato io avea.
Ma ora, mentre all'intermessa impresa, in quel modo che dalle continove occupazion del fisco de l'Austria emmi concesso, io ritorno, e parimente a la Maestà Vostra ubbidienza presto, né anco mi dubito della sottiglianza di questa elegantissima età, e poco similmente delli benigni lettori, li quali forse maggiore politezza del dire ricercheranno: perciò che bastevol sia, ma ora con l'effetto, perchè non posso fare le cose eguali alle parole, la volontà mia circa al voler insegnare a' posteri aver dimostrato, e parimente alli vecchi comandamenti di quella aver voluto ubidire. E però questi miei commentarii della Moscovia, da me scritti piú presto per cagione di ricercare la verità e quella metter in luce che per studio e per l'arte del dire, alla Maestà Vostra dedico e consacro; e io similmente nella defensione di quella, nelli cui officii mi sono oggimai invecchiato, supplichevolmente mi dono e racommando, e prego la Maestà Vostra che 'l nostro libro con quella clemenza e benignità d'animo si degni abbracciare con la quale l'auttore di quello ha sempre abbracciato.

In Vienna, il primo di marzo MDLIX.

Della Maestà Vostra fedel consigliero, cameriero e prefetto del fisco d'Austria, Sigismondo barone in Herberstain, Neiperg e Guettenagh.


PROEMIO DELL'AUTTORE NELLA MOSCOVIA

Volendo io ora descrivere la Moscovia, la qual è capo della Russia ed è quella che 'l suo dominio e signoria in longhezza e in larghezza per la Scizia si distende, sarà cosa a me certo convenevole in questa opra di toccare molte parti del settentrione, le quali non solamente dagli antichi scrittori, ma eziandio dalli auttori di questa nostra età sono state poco intese e conosciute, per il che succederà che alcuna volta sarò astretto ad essere differente dagli scritti loro. Nondimeno, acciò che questa mia opinione in simile materia non sia veduta e giudicata sospetta e arrogante, veramente io confesso me stesso non già una volta, ma piú, mentre son stato ambasciatore di Massimiliano, primo di questo nome imperatore, e parimente del suo nepote re Ferdinando, re delli Romani e fratello di Carlo V imperatore, la Moscovia aver veduta e ricercata, ed eziandio la maggior parte di quella da uomini di quel luogo esperimentati e degni di fede aver conosciuta. Né però della relazione di un solo sono stato contento, ma nelle opinioni e pareri di molti ho voluto ben confermarmi e stabilirmi. Oltre di ciò, dalla cognizione e beneficio della lingua schiava (la quale con la lingua rutenica e moscovitica è quell'istessa) felicemente aiutato, questa cosa della Moscovia non solamente per udita, ma ancora per testimonianza delli proprii occhi, né con parlar dubioso e incerto, ma chiaro, facile e aperto ho voluto scriverle, e alla memoria de' posteri nostri chiaramente manifestarle.
Ma sí come ciascuna nazione ha 'l suo costume e usanza nel proferire alcune cose, cosí fanno li Ruteni, li quali le sue lettere, variatamente legate e congionte insieme, con certa ragione inusitata e nuova sogliono proferire, di modo che quello che con somma diligenza e attenzione la pronunzia loro non comprende e osserva, costui non potrà nel vero cosa alcuna commodamente addimandare, né sapere certezza alcuna. E però, nella descrizione della Russia avendo nella nominazione delle cose e delli luoghi e delli fiumi non senza cagione usato vocaboli ruteni, ho voluto primieramente la ligatura e forza d'alcune lettere brevemente dimostrare; il che agevolmente conosciuto, il lettore può alcune cose piú facilmente conoscere, e alcuna volta forse di piú maggiori potran ricercare.
Questo nome Basilio, benchè li Ruteni lo scrivano e proferiscano per w consonante, nondimeno, essendo la consuetudine cresciuta appresso di noi di scriverlo e proferirlo per B, non ho voluto scriverlo per w.
C, preposta avante la h, non per ci, o ver schi, come sogliono fare molte nazioni, ma per khi, quasi secondo il costume de' Germani, debbesi proferire, come nella dizione: Chiowia, chan, Chlinowa, Chlopigorod, etc. Ma questa lettera c, posta avanti il z duplice, alquanto piú sonoramente debbesi proferire, come questa dizione: Czeremisse, Czernigo, Czilma, Czunkas, etc.
G, li Ruteni, fuori del costume degli altri Schiavoni, per h aspirazione, secondo l'usanza di Boemi, proferiscono, e quando vogliono scrivere Iugria e Wolga proferiscono Iuhra, Wolha, etc.
I lettera, il piú delle volte ha forza di consonante, come in Iausa, Iarossaw, Iamma, Ieropolchus, etc.
Th, quasi per ph proferiscono, e cosí dicono Theodoro Pheodoro, over Feodoro.
V, quando ha la forza di consonante, in luogo di quella, w littera (la qual i Germani per B sogliono esprimere) ho posto, come in queste dizioni: Wolodimeria, Worothin, Wedrasch, Wiesma, Wladslaus. Questa medesima lettera v, posta in mezo over nel fine della dizione, quella medesima forza over suono ritiene, come in Ozakow, Rostow, Asow, Owka. Adunque diligentemente il lettore la forza di questa lettera v osserverà, acciochè per una e istessa dizione che barbaramente proferisse non paia che abbi dimandato e inteso cose diverse.


Della Russia e donde abbia preso il nome.

La Russia donde abbia avuto il nome, varie sono le opinioni degli uomini, perciochè sono alcuni che vogliono ella aver preso il nome da un certo Russo, fratello over nepote di Lech, principe delli Poloni, non altrimente che se esso fosse stato principe delli Ruteni; altri dicono da un certo castello antichissimo, chiamato Russo, non molto lontano dalla grande Nowogardia; alcuni dal fusco colore di quella gente. Molti pensano, mutato il nome di Roxolania, essere cognominata Russia: nondimeno le opinioni di quelli che dicono questo non sono conformi alla verità. Li Mosci non tengono questo, affermando la Russia anticamente esser stata chiamata Rosseia, come a dire gente dispersa over dissipata, come il nome dimostra, perciochè Rosseia in lingua rutenica significa disseminazione, dispersione; il che esser vero diversi popoli, misti eziandio con gli abitatori del luogo, o parimente diverse provincie della Russia in ogni luogo adunate e accostate insieme apertamente lo confermano. Ma da che luogo si voglia che la Russia abbia pigliato il nome, basta che tutti quei popoli li quali usano lingua schiava, seguitano il costume e la fede di Cristo secondo l'usanza de' Greci, e secondo li gentili Russi, e secondo i Latini Ruteni sono chiamati: costoro in tanta grandezza di moltitudine sono cresciuti che tutte le genti poste in mezo di loro overo le hanno cacciate via, overo al costume del viver loro le hanno tirate, di modo che al presente tutti con un comune vocabolo son chiamati Ruteni.
Certamente la lingua slavonica, la quale a' tempi nostri con vocabolo alquanto corretto sclavonica è chiamata, in molti paesi largamente si distende, perciochè li Dalmatini, Bosnesi, Croatii, Istriani, e tutti gli abitanti appresso del mar Adriatico con longo spazio fin al Friule, i Carni, quali da' Veneziani sono Carsi chiamati, similmente Carniolani, Carinzii, fino a Costantinopoli, usano la lingua schiava. Oltre di questo i Boemi, Lusacii, Silesii, Moravii e gli abitanti appresso al fiume Vagro, nel regno dell'Ongheria, similmente i Poloni, e li Ruteni, popoli di grande imperio, i Circassi, e finalmente que' popoli quali già furono gli avanzamenti di Wandali e ora abitano per la Germania rifusamente di là da l'Albis, alla parte di settentrione, usano questa lingua schiavona. Questi popoli, benchè tutti confessano essere della gente schiavona, nondimeno li Germani, tolto il nome solamente dalli Vandali, tutti costoro quali usano la lingua sclavonica Wendani, Windeni, Windischi indifferentemente gli chiamano.
Ma la Russia, non molto lontano dalla Cracovia, li monti Sarmatici tocca, e questa istessa appresso il fiume Tyra, da quel luogo il quale gli abitatori chiamano Nistro, infino al Ponto Eusino, cioè il mar Maggiore, e fino al fiume Boristene amplamente già distendevasi; ma poscia, in processo di tempo, Alba città, la quale altramente Moncastro è chiamata, e alla bocca del fiume Tyra edificata, e per adietro al dominio di Wallacco moldawsense sottoposta, è stata finalmente dal Turco occupata. Similmente il re di Taurice, avendo passato il fiume Boristene, largamente ogni cosa guastando e distruggendo, ivi duo castelli edificò, delli quali uno fu Oczakow, non molto lontano dalla bocca del fiume Boristene posto: nondimeno e quello eziandio sotto l'imperio turchesco è pervenuto, dove oggidí sono le solitudini infra le bocche dell'uno e l'altro fiume. Dapoi, montando appresso Boristene, si viene alla città de Circas, verso l'occidente, e da lí ad un'altra città vecchissima, detta Chiovia, la quale fu già la principale di tutta la Russia; dove poi trapassato il fiume Boristene, evvi una provincia chiamata Sanuera, al presente molto abitata, per la quale dritta via verso l'oriente ritroverete li vivi fonti del fiume Tanai. Dapoi di lí al Tanai, con longo viaggio, perviensi al corso dell'acqua di due fiumi, de' quali uno è chiamato Occa, e l'altro Rha; passato poi il detto fiume di Rha, con longo tratto camminasi fino al mare settentrionale: di lí poi ritornando circa alli popoli sottoposti al re di Swezia, alla Finlandia e al sino Livonico, e per la Livonia, Samogezia e Mazowia camminando, e finalmente fino in Polonia ritornando, tutto quel paese è terminato dalli monti di Sarmazia, eccettuato però solamente due provincie, cioè Litwonia e Samogezia, le quali, benchè siano miste con Ruteni e che usino la propria favella e il costume romano, nondimeno gli abitanti di quelle in buona parte sono ruteni.


Delli principi della Russia.

Li principi li quali al presente signoreggiano nella Moscovia sono questi: il primo è il granduca di Moscovia, il quale la maggior parte di quella ottiene; il secondo il granduca della Litwania; il terzo è il re di Polonia, il quale al presente è signore della Polonia e della Litwania.
Ma della origine di questa gente niente altro hanno, eccetto che gli annali over istorie quasi annuali infrascritte, le quali dicono questa tal gente slavonica esser derivata dalla nazione di Iaphet, e già aver fatta la prima sua abitazione appresso il Danubio, dove ora è l'Ongheria e la Bulgaria, e allora poi esser stata chiamata Norici: dapoi questa tal gente, di là e di qua per le terre dispersa e vagabonda, i nomi delli proprii luoghi aver pigliato, come verbigrazia Morawi dal fiume, altri Czechi, cioè Boemi; similmente Chorwati Bieli, Serbli, cioè Servii, Chorontani detti, li quali appresso il Danubio s'erano fermati. Oltra di questo, i Luochi, li quali, cacciati dalli Valachi e abitanti appresso Istula città, pigliorno tal nome da un certo Loco, principe delli Poloni, e da qui nacque poi che eziandio li Poloni sono chiamati Lechi. Altri similmente sono chiamati Luthwani, Masoviensi, Pomerani; altri, abitando per il fiume Boristene, dove è al presente Chiowia, Poloni erano detti; altri Drawliani, abitatori delle selve; altri, infra Dwina e Peti dimorando, Dregovici sono detti; altri Polevtzani, abitatori appresso al fiume Polta, il quale scorre per mezo Dwina. Furono altri ancora li quali, abitando intorno al lago Ilmen, Novogardia città occuporno, e quivi uno, chiamato Gostomissello, per lor proprio principe volontariamente creorno. Altri poi, per Desna e Sula fiume abitando, Seweri over Sewersky sono chiamati; altri finalmente, sopra li fonti de Wolche e Boristene dimorando, Criwitzi sono detti, e la rocca e il capo di questi tali è Smolensco.
Quelli che nel principio abbiano signoreggiato a li Ruteni è cosa dubbiosa e incerta, perciochè non avevano caratteri di lettera alcuna, per li quali potessero le cose fatte da loro scrivere; ma dapoi, avendo Michael imperatore di Costantinopoli, nell'anno 6406 dalla creazione del mondo, mandate le lettere slawonice in Bulgaria, allora poi cominciorono a scrivere e mettere nelli loro annali non solamente que' fatti li quali da essi erano fatti, ma eziandio tutte quelle cose le quali dalli loro maggiori avevano intese e conosciute, e per longa memoria di tempo ritenute. Laonde per quelle è manifesto il popolo detto già Coseros d'alcuni delli Ruteni, sotto nome di tributo, da ciascuna casa di quelli aver riscosso le pelli di quelli animali chiamati aspreolii; e similmente li Waregi alli sopradetti Ruteni aver signoreggiato dicono. Nondimeno delli Coseri, donde siano venuti, che genti siano state, niente altro ho potuto per li annali conoscere, fuori del nome loro: e quello medesimo dicovi delli Waregi, de' quali giamai nulla di certo ho potuto comprendere. Ma conciosiacosachè essi Ruteni il mare Balteo e quello che la Prussia, la Livonia e la parte del suo dominio della Swezia divide, il mare Warego chiamino, io veramente mi pensavo che o vero li Swetensi, overo li Danii, overo li Pruteni, per la vicinanza loro, fossero stati principi e signori di quelli. Ma fin a tanto che la Wagria, già famosissima città e provincia delli Wandali, è stata vicina a Lubech e al ducato di Holsatia, e questo mare, il quale è detto Balteo, secondo la opinione d'alcuni ha preso il nome da quella, e non solamente questo, ma eziandio quel braccio di mare il quale la Germania dalla Dania, e ancora la Prussia, la Livonia e finalmente la parte maritima dell'imperio moscovitico dalla Swezia divide, e ancora appresso delli Ruteni il suo nome ritiene, chiamandolo il mare Warego; e oltra di questo essendo stato in quel tempo li Wandali uomini potenti e valorosi, e quelli finalmente ch'usavano la lingua, i costumi e la religione rutenica, a me certo pare che essi Ruteni si debba piú tosto credere ch'abbiano tolti e chiamati li principi loro dalli Wagri, overo Waregi, ch'aver dato l'imperio a gente barbara ed esterna, la quale e per costume e per parlare alla loro religione fosse totalmente contraria.
Avendo adunque li Ruteni longamente fra loro del principato contrastato, e per odii e malevolenze accesi con grandissime discordie, inganni e fraudi combattuto, Gostomissello, uomo e prudente e di grandissima auttorità nella Nowogardia, dette fidelissimo consiglio alli Ruteni che mandassero alli Waregi e che esortassero li tre fratelli, quali in quel luogo in grandissimo pregio e riputazione erano avuti, a pigliare l'impero e il dominio di quelli. Piacque ciò molto alli Ruteni: e sopra di ciò mandati i loro ambasciadori, li tre fratelli germani per principi e signori furono chiamati, li quali venuti al luogo ordinato, con volontà di tutti fu dato loro l'imperio e la signoria. Laonde li tre fratelli poscia divisero il regno fra di loro in questo modo: Rurick il principato di Novogardia ottenne, e la sua sedia pose in Ladoga città, la quale per trentasei miglia tedeschi è lontana dalla grande Nowogardia; il secondo, chiamato Sinau, nel lago Albo pose il suo dominio; e Truwore, il terzo, in Plescoviense, nella città chiamata Swortzech, il suo principato collocò. Li Ruteni si gloriano affermando quelli tre principi aver avuto origine e principio dalli Romani, di che similmente il presente principe della Moscovia molto si vanta. La prima entrata di questi fratelli nella Russia, secondo li loro annali, fu nell'anno 6370 dal principio del mondo; finalmente, essendo morti li due fratelli senza eredi, Rurick, il fratello maggiore, degli altri principati impadronitosi, le castella fra gli amici e servitori suoi divise. Questo Rurick poscia, venendo a morte, il suo figliuolo giovanetto, chiamato Igore, insieme con il regno ad uno parente suo, detto Olech, raccommandò. Costui, superate molte provincie, talmente il regno accrebbe e ampliò che fino in Grecia portò l'armi e il suo valore, e la città di Costantinopoli assediò. Or finalmente, avendo per anni trentatre lodevolmente regnato, un giorno a caso urtossi col piede nel capo over craneo del suo cavallo già morto, e talmente dal morso di un certo verme venenoso fu offeso che se ne morí.
Onde, essendo morto Olech, Igore, figliuolo già del principe Rurick, cominciò a signoreggiare, e tolse per moglie da Plescowia una donna chiamata Olha; costui, desideroso molto di procedere piú lontano col suo esercito, fino in Eraclea e Nicomedia pervenne, dove finalmente, nella guerra essendo stato superato, fu costretto a fuggire, e dapoi da Malditto, principe delli Drewliani, in un certo luogo nominato Coreste fu morto, e parimente onorevolmente sepolto.
In questo mezo, non potendo il figliuolo di questo Igore, detto Swatoslavo, per l'età signoreggiare, la madre sua Olha prese il dominio; alla qual signora avendogli poi li Drewliani mandati venti ambasciadori, con mandati e commissioni che si dovesse maritare con il prencipe loro, costei, con animo forte, pronto e valoroso, comandò che li sopradetti ambasciatori vivi tutti fossero sotterrati, e tra questo mezo mandò suoi ambasciatori a que' popoli, commettendogli che dicessero loro che se eglino desideravano aver lei per signora e principessa, che dovessero mandare ancora piú altri competitori, e de' piú nobili e piú prestanti. Onde per tali parole i Drewliani mossi, altri cinquanta uomini de' piú scelti vi mandorno, quali simigliantemente nel bagno fece abbruciare; di nuovo mandò altri ambasciatori, li quali annunciassero alli Drewliani la venuta della signora nel regno loro, e che gli comandassero d'apparecchiare acqua mellata e altre cose necessarie da onorare, secondo il costume, il defunto marito.
Cosí, essendo là pervenuta, pianse il morto marito, imbriacò li sciocchi Drewliani e cinquemila di quelli occise; dipoi a Chiovi ritornatasi, fece un bellissimo esercito, e con quello contra i Drewliani fuora uscita, la vittoria di quelli ne riportò, e avendo li fuggitivi nimici sin dentro alli steccati over città perseguitati, con l'assedio di un anno intero gli pose il freno. Dapoi, venuti agli accordi e condicioni oneste, impose loro tributo che di ciascuna casa gli dovessero dare tre colombe e altretante passere: le quali cose ricevute, subito legati sotto l'ale delli uccelli certi instrumenti acconci di fuogo, lassogli volare a lor beneplacito, onde le colombe, volando alle case e abitazioni consuete, tutta la terra abbrucciorono, per il che gli abitanti sbigottiti, fuora dei loro alberghi venuti, overo erano dalli soldati della signora occisi overo fatti prigioni. E cosí in questa maniera occupati tutti i luoghi del paese delli Drewliani e fatta la vendetta della morte del marito, con somma laude e onore a Chiowia se ne ritornò. Poscia, nell'anno 6463 dalla creazione del mondo, se n'andò in Grecia, e ivi sotto l'imperatore Giovanni constantinopolitano prese il santo battesimo, mutando il nome di Olha in Elena, e doppo, con doni amplissimi ricevuti dal re, a casa se ne ritornò.
Questa donna fu la prima cristiana appresso li Ruteni, come affermano gli annali di quelli, li quali hanno ardimento di agguagliarla al sole, dicendo che, sí come il sol materiale co' raggi suoi illumina il mondo, cosí quella, con la santa fede cristiana, ha illuminata tutta la Russia. Non poté però giamai far sí che 'l suo figliuolo Swatoslavo si conducesse al battesimo, essendo venuto grande, talmente fu dell'armi studioso che strenuo, forte e animoso soldato divenne, tutte le fatiche bellice e tutti li pericoli consueti costantemente sofferendo. Mentre che egli stava in guerra, mai permise all'esercito suo che avesse in quello nissuna sorte d'impedimenti, né pure li vasi atti al cocere la carne e altre cose, ma solamente carni arrostite usava; dormiva in terra, e la sella del cavallo era il suo cussino. Vinse li Bulgari, e penetrando insino al Danubio nella città chiamata Peraslaw la sua sedia pose, dicendo verso la madre e gli altri suoi consiglieri: "Questa è la mia sedia, posta in mezo delli miei regni, imperochè della Grecia mi saranno apportate tutte queste commodità, da Panodochio l'oro, l'argento, il vino e varie sorti di frutti, dell'Ongheria l'argento, e cavalli, della Russia la schora, la cera, il mele e li servi". Al quale respondendo, la madre disse: "Figliuolo, già io son vicina alla morte, tu mi potrai sepelire in ciascun luogo che tu vorrai". E cosí, di lí a tre giorni, la casta donna terminò sua vita, e dipoi dal suo nepote, chiamato Wolodimero, figliuolo del figliuolo, già battezzato, fu posta in numero de' santi: e cosí alli 11 luglio si celebra la festa di questa santa donna.
Swatoslavo, il quale dopo la morte della madre regnava, divise le provincie a li figliuoli in questo modo: a Yeropolchone dette la Chiowia, a Olege i Drewliani e a Wolodimero la gran Novogardia, perciochè i Novogradensi, per causa d'una certa donna chiamata Dobrina, Wolodimero per lor principe impetrorono. Perciochè era in Novogardia un certo cittadino, detto il picciolo Calufeza, il quale ebbe due figliuole, cioè Dobrina e Maluscha; Maluscha, essendo al servizio di Olha, fu fatta gravida dal sopradetto signore Swatoslao, e cosí di lei n'ebbe un figliuolo chiamato Wolodimero.
Questo signor Swatoslavo, avendo l'occhio alla grandezza delli suoi figliuoli, andossene alla volta della Bulgaria, e ivi assediò la città di Pereaslaw, e finalmente la prese; poscia a Basilio e a Costantino imperatori greci annunciò le guerre, per il che gli imperatori mossi, mandorno li suoi ambasciadori dimandando la pace, non per altra cagione eccetto di poter conoscere quanto esercito avesse il sopradetto Swatoslavo, promettendogli di voler dare il lor tributo secondo il numero dell'esercito suo; ma questo falsamente promettevano. Or finalmente, conosciuto ch'ebbero il numero delli soldati nemici, ambedue gli imperatori misero in ordine l'esercito; dapoi, essendo l'uno e l'altro esercito alla campagna, li Ruteni, per la multitudine de' Greci sbigottiti, cominciorno a temere molto, laonde, vedendo Swatoslavo li Ruteni non poco impauriti, a loro disse: "O Ruteni, perchè io non veggo luogo sicuro che ne possi oggi ricevere, né manco ho nell'animo mio di dare la terra de la Russia alli nostri nimici, ho deliberato al tutto gagliardamente di voler combattere: dove io penso di due cose l'una, o veramente morire o vero la gloria acquistarne, perciochè se, valorosamente combattendo, per sorte morisse, il nome della immortalità e di perpetua fama, e, fuggendo, una eterna ignominia, vergogna e danno io son per riportarne. E quando, per mala sorte, circondato dai nimici, il fuggire non ci fosse concesso, starò saldo, stabile e costante, e il capo mio ne la prima squadra per la patria nostra a tutti li grandi pericoli volentieri esponerò". Il che udendo gli altri soldati prontamente dissero: "Dove sarà il tuo capo, ivi eziandio sarà il nostro", e cosí confermati gli animi delli suoi soldati, con impeto grande diede dentro agli nimici, dove finalmente con tanta grandezza d'animo e con tanta vigoria di forze combattette che la vittoria del tutto facilmente ne riportò.
Dapoi, conciosiachè gli altri principi de la Grecia espugnassero le terre e li luoghi de' Greci con presenti e doni grandi, e vedendo li popoli che Wladislavo, vittorioso capitano (com'è scritto negli annali), disprezava l'oro e l'argento e li presenti, e che solamente i vestimenti e l'armi mandate da' Greci volentieri riceveva, per la tanta virtú di quello mossi, parlarono alli suoi imperatori e dissero loro: "Noi certo desideriamo d'essere sotto d'un re di questa sorte, il qual ama piú presto l'armi che l'oro". Finalmente, essendo il prefato Swatoslao fatto propinquo alla città di Costantinopoli, i Greci li promisero dare un tributo grande, e cosí in questo modo tal valoroso capitano dalli confini della Grecia rimossero. Il qual capitano finalmente, nell'anno 6480 dalla creazione del mondo, da Cures, principe delle Pieczenighe, con fraude e inganno fu morto, e dapoi, tollendo il craneo o vogliamo dire l'osso maggiore della testa di Swatoslao, ne fece una tazza e d'oro finissimo circondolla, e queste lettere vi fece diligentemente scolpire: Quaerendo aliena, amisit propria, cioè cercando le cose altrui ha perse le sue proprie.
Morto Swatoslao, un de' piú nobili delli suoi gentiluomini, chiamato Swadola, andatosene a Chiowia a ritrovare Yeropolcho, principe di quel luogo, cominciò grandemente con ogni opra, studio e arte a solicitarlo che volesse cacciar del regno Olega suo fratello, perchè un suo figliuolo, chiamato Luta, aveva fatto morire. Onde Yeropolcho, per la parola di quello mosso, fece guerra contra del suo fratello, di modo che l'esercito di quello e parimente li Drewliani profligò e distrusse. Ma Olega, ad un suo castello fuggendo, dalli suoi proprii impetuosamente fu battuto adietro, e dapoi, da un ponte eminente giú basso cascato, e molti altri con esso lui, miseramente terminò sua vita. Yeropolcho, avendo occupato il campo nimico e cercando il fratello, ritrovò il corpo suo fra gli altri corpi morti, e al suo conspetto portatolo e bene vedutolo, disse a quello che era stato cagione della morte sua: "Swadalte, eccoti quello che tu tanto desiderasti", e poi onoratamente lo fece sepelire. La qual cattiva nuova agli orecchi di Wolodimero, il terzo fratello, pervenuta, lasciata la Nowogardia, di là dal mare alla volta delli Wareghi fuggí: il che da Yeropolcho conosciuto, e nella Nowogardia un suo locotenente postovi, in breve spazio di tempo di tutta la Russia si fece monarca.
In questo mezo Wolodimero, avendo fatto un bellissimo esercito delli Waregi, nel regno suo se ne ritornò, e il luogotenente del suo fratello da Nowogardia discacciò, e poscia primo annunciò la guerra al fratello, sapendo che il fratello dovea pigliar l'armi contra di lui. Ma in questo mezo il detto Wolodimero, mandando alcuni ambasciatori al Rochwolochdam, principe di Plescovia, richiese Rocchmida, sua figliuola, per moglie (perciochè anco lui dalli Waregi a quel luogo era andato): ma di ciò non successe l'effetto, perciochè la figliuola non volse congiongersi in matrimonio con Wolodimero, sapendo quello essere bastardo, ma voleva Yeropolcho, l'altro fratello, per marito, pensandosi quello presto doverla per moglie richiedere. Wolodimero, vedendosi aver avuta la repulsa delle nozze, tutto di ciò sdegnato mosse guerra a Rochwolochde, di modo che alla fine con due figliuoli l'occise, e la sua figliuola Rocchmida da lui tanto bramata tolse per moglie. Dopo questo fatto, Wolodimero andossene alla volta di Chiowia contra il fratello; ma Yeropolcho, non avendo ardimento di venire alle mani con lui, serrossi dentro in Chiowia. Wolodimero vi pose l'assedio, ma, mentre quella oppugnava, occultamente mandò un suo messo fedele a parlare ad un Blud, cordialissimo consigliero di Yeropolcho, richiedendolo di volere da lui il modo e la via di poter ammazzare il fratello. Blud, conosciuto la dimanda di Wolodimero, gli promette di voler occidere il suo signore, e tra questo mezo confortollo che attendesse ad espugnare il castello. Or, volendo Blud tradire il suo signore, ammonisce Yeropolcho che non resti piú nel castello, o ver fortezza, perciochè già molti soldati di Wolodimero s'erano da lui ribellati. Yeropolcho, dando fede al suo consigliero, fuggí fuori dalla fortezza alla volta di Roden, alla bocca di Iursa, dove egli pensava di poter essere sicuro dalle mani del fratello. Wolodimero, pigliata Chiowia, transferí l'esercito suo a Roden, e ivi con grave e molesto assedio Yeropolcho preme e disturba: e cosí, per la longa fame e disagio afflitti e consumati quelli di Yeropolcho, Blud consigliero lo consigliò a far la pace con il suo fratello, piú potente e piú forte di lui, e nondimeno, tra questo mezo, il falso e traditore Blud fa intendere a Wolodimero che è per dargli il fratello nelle mani. Yeropolcho, seguitato il consiglio di Blud, all'arbitrio e potestà del fratello si commette, spontaneamente offerendogli che di quel tutto di bene che per sua grazia gli concedesse resterebbe contento al tutto, il che a Wolodimero niente dispiacque. Poi Blud esorta il signore che alla volta di Wolodimero ne gisse; ma dall'altra parte Werasco, l'altro consigliero di Yeropolcho, totalmente lo disconfortò. Nondimeno Yeropolcho, disprezzato il consiglio di costui, volontariamente alla volta del fratello andossene, ma, mentre egli per la porta v'entra per ritrovare il fratello, da due uomini delli Waregii miseramente fu occiso; e mentre tal fatto scelerato e tristo si faceva, Wolodimero, carnefice del fratello, da una torre eminente era del tutto crudele e impio spettatore, e oltra ciò, per maggior dispregio, la moglie ancora del morto fratello, di nazione greca, violò e maculò; la quale similmente da esso Yeropolcho, prima che la prendesse per moglie, mentre che era monaca era stata violata e fatta gravida.
Questo Wolodimero molti idoli in Chiowia ordinò, e il primo idolo di quelli era detto Perum, con il capo d'argento, e gli altri erano di legno; altri Uslad, Corsa, Daswa, Striba, Simaergla, Macosch erano chiamati, e a questi soleva sacrificare, i quali prima erano chiamati Cumeri. Questo principe ebbe piú donne per moglie: di Rochmida ebbe tre maschi, cioè Isoslato, Ieroslao, Serwoldo, e due figliuole; della donna greca n'ebbe un figliuolo chiamato Swetopolcho; della boema, Saslao, e di un'altra boema, Swatoslao e Stanislao; e d'una bulgara, Boris e Chleb. Oltra di questo aveva Wolodimero in Alto Castro trecento concubine, in Bidgrado altretante, e in Berestowo Selwi ducento. Finalmente, essendo costui senza impedimento alcuno fattosi monarca di tutta la Russia, molti ambasciatori da diversi luoghi mandati ne venivano a lui, confortandolo che egli si dovesse accostare alle sette loro, laonde, vedendo egli la varietà di tante sette, mandò li suoi ambasciatori in diverse parti, li quali diligentemente ricercassero le condizioni, i costumi e ordini di ciascuna setta. Finalmente, avendo molte cose vedute e al re refferite, egli la fede cristiana secondo l'usanza greca a tutte l'altre fedi e sette del mondo preferí, e quella elesse. Onde, per tal causa mosso, mandò li suoi ambasciadori da Costantinopoli agl'imperatori Basilio e Costantino, offerendogli che quando essi gli dessero per moglie Anna, sorella, che egli insieme con tutti gli altri del suo imperio pigliarebbe la fede di Cristo, e oltre ciò che restituerebbe loro Corsune e tutte l'altre cose le quali possedesse della Grecia; il che agli orecchi delli imperatori pervenuto, amendue volentieri acconsentirono, e cosí, di comune volere, ordinorono che ciascuna parte a Corsune dovesse venire. Dove pervenuti tutti, il prefato Wolodimero onorevolmente fu battezzato, e, mutatogli il nome di Wolodimero, il nome di Basilio gli imposero. Celebrate le nozze, Corsune e tutto quello che aveva tolto della Grecia secondo la promessa fidelmente restituí: e tutte queste cose furon fatte nell'anno del mondo 6496, dal qual tempo in qua la Russia è restata salda nella fede di Cristo. Dicono che Anna, sorella delli due imperatori cristiani e moglie di Basilio, visse col marito anni 23 e poi finí sua vita, e di lí a quattro anni dopo esso Basilio morí. Questo principe, inanti che fosse battezzato, una città fra Wolha e Occa fiumi edificò, e quella dal nome suo Wolodimeria chiamolla, e volse che quella fusse la principal città di tutta la Russia. Fra li santi è venerato come un apostolo, e ogni anno solennemente è celebrato il suo giorno alli 15 di luglio.
Dopo la morte sua, essendo li suoi figliuoli fra di loro molto discordi e variatamente presumendosi del regno, combattevano insieme, di modo che quello che era piú potente e forte quelli che erano piú inferiori e piú deboli di forze vinceva e superava, e cacciavalo del regno. Swatopolcho, il quale il principato chiowiense aveva occupato, fraudolentemente aveva ordinati alcuni uomini di male affare, li quali uccidessero li due fratelli suoi, Boris e Chleb. I quali morti, e mutatogli il nome, uno David e l'altro Romano furono chiamati, e oggidí sono connumerati nel numero de' santi, e alli 24 di luglio è celebrata la lor solennità. Durante la maligna discordia fra li viventi fratelli, niente era fatto che fosse degno di memoria alcuna, ma solamente inganni, fraudi, tradimenti, odii occulti e guerre intestine s'udivano per tutto. Wolodimero, figliuolo di Sewoldo, cognominato Monomach, di nuovo tutta la Russia in monarchia ridusse, lasciando dopo sé alcune insegne, ornamenti e ordini li quali oggidí que' popoli nella creazione delli nuovi principi sogliono usare. Questo Wolodimero nell'anno del mondo 6633 morí, e cosí dopo la morte sua né li figliuoli né li nepoti cosa veruna degna di memoria fecero, fino alli tempi di Georgio e di Basilio, li quali Bati, re de' Tartari, in guerra vinse e uccise, e Wolodimeria, Moscovia e buona parte della Russia saccheggiò e abbruciò. E cosí da quel tempo in qua, cioè dell'anno del mondo 6745 insino al presente Basilio, quasi tutti li principi della Russia erano non solamente tributanti delli Tartari, ma eziandio secondo l'arbitrio e voler d'essi Tartari i principati della Russia erano permessi.
Le liti fra di loro, overo per successioni delli principati overo per cagione delle ereditadi, li Tartari, conoscendole, esaminandole, le diffinivano e terminavano: e nondimeno sovente le guerre fra li Ruteni e li Tartari nascevano, e oltra di ciò varii tumulti, scacciamenti e permutazioni di regni e di altri principati si vedevano, perciochè, avendo il duca Andrea da Alessandro impetrato un granducato, Demetrio, suo fratello, non permise quello regnare. Per il che Andrea mosso, con nuovo esercito dalli Tartari ottenuto cacciò Demetrio del regno, e molte cose scelerate fece per la Russia. Similmente il duca Demetrio Michael ammazzò appresso delli Tartari il duca Georgio Daniele; Asbech, re delli Tartari, fece pigliare Demetrio e fecegli tagliare la testa, perciochè la nimicizia loro era nata per il granducato twerense, il qual ducato, dapoi, dal duca Simon Giovanne essendo a Zanabeck, re delli Tartari, richiesto con condizione che ogni anno dovesse pagare il suo tributo, li primarii del re, con larghi doni corrotti, ottennero appresso di Zanabeck di non pagare niente di censo.
Dapoi, nell'anno del mondo 6886, il granduca Demetrio vinse in guerra il gran re de' Tartari chiamato Mamai, e similmente tre anni dopo il medesimo talmente vinse che la terra per spazio di piú di tredici miglia di corpi morti era ripiena. Nell'anno secondo dopo questo conflitto, sopragiongendo Tachtamisch, re de' Tartari, il vittorioso Demetrio gagliardamente profligò e tutta la Moscovia occupò, e fu tanta l'occisione delli Ruteni e delli soldati di Demetrio che ottanta corpi morti, a sepelirgli, per un rublo erano rescossi, e la somma di tali rubli fu da tremila.
Il granduca Basilio, regnando nell'anno 6907, la Bulgaria, posta alla volta della Wolhia, occupò, e indi li Tartari scacciò. Questo duca Basilio, figliuolo del duca Demetrio, ebbe un unico figliuolo, detto pur Basilio, il quale poco amava, perchè egli aveva in sospetto la donna sua d'adulterio: e però, venendo a morte, lasciò il granducato della Moscovia non al figliuolo, ma a Georgio suo fratello. Il che vedendo li boiaroni, molti di loro si accostarono col figliuolo del re Basilio, come a quello il quale era legittimo figliuolo e vero erede e successore del regno: per il che sdegnato, Georgio subito alla volta delli Tartari se n'andò, e supplicò il re che chiamasse Basilio, e che egli a qual di loro giuridicamente si convenghi il regno giudichi. Il re, persuaso dal favore d'un certo suo consigliero, fautore della parte giorgiana, in presenzia d'esso Basilio diede e pronunciò la sentenzia in favore di Georgio. Il che veduto, Basilio, inanti le genocchia del re gittatosi, lo pregò umilmente che gli sia concesso di poter parlare, la qual cosa essendogli concessa in questa maniera cominciò a parlare: "Quantunque, o re, tu abbi data la sentenza sopra le lettere morte, io spero nondimeno le mie lettere vive, le quali tu mi hai date sigillate con sigillo d'oro per volermi investire del granducato della Moscovia, dover essere di maggiore efficacia e auttorità dell'altre"; e cosí pregò il re che delle sue parole vogli esser al tutto ricordevole, e che si degni d'osservare le promesse già fatte. Alle cui parole rispondendo, il re li disse: "Veramente, o Basilio, è cosa piú giusta e ragionevole osservare le promesse delle lettere vive che aver rispetto alle morti", e cosí finalmente licenziò Basilio, e investillo del ducato di Moscovia: per il che sdegnato, Georgio fece esercito e cacciò Basilio di signoria, laonde Basilio, vedendosi di gran lunga al duca Georgio inferiore, nel principato di Uglistz, lasciatogli dal padre, ritirossi.
Georgio, mentre visse, quietamente il suo ducato ritenne, e morendo, quello ad un suo nepote, chiamato Basilio, per testamento lasciò. La qual cosa Andrea e Demetrio, figliuoli di Georgio, come privati della eredità paterna, ebbero oltra modo a sdegno, e per questa cagione assediarono la Moscovia; il che agli orecchi di Basilio (il quale in un monastero di S. Sergio era entrato) pervenuto, subito ordinò gli esploratori e pose a' luoghi necessarii le buone guardie, acciochè all'improviso non fosse assalito. Il che conosciuto dalli due fratelli, empierono certi carri di soldati armati, sotto specie che fossero carichi di merci, e conciosiachè or là, or qua fossero condotti, finalmente non troppo lontano dalla guardia si fermarono, e ivi, in su la mezanotte usciti fuori, all'improviso le guardie assaltorono e pigliorno, e ad un tratto fu preso Basilio nel monasterio; dapoi, cavatogli gli occhi, a Uglistz insieme con la consorte sua fu mandato.
Dopo questo fatto Demetrio, vedendo la nobiltà quasi tutta essergli fatta nimica e favorire al cieco Basilio, andossene alla volta della Novogardia, lasciando al governo il suo figliuolo Giovanni, e del quale poi nacque Basilio Semeczitz, il quale, essendo io nella Moscovia, era tenuto in prigione: del qual Basilio piú diffusamente di sotto ne ragioneremo. Demetrio fu detto per cognome Semecka, e perciò tutti li descendenti suoi furono cognominati Semeczitzi. Finalmente il cieco Basilio, figliuolo di Basilio, mentre visse, quietamente il suo ducato godette.
È da sapere che da Wolodimero Monomach insino a questo Basilio la Russia mancava di monarchi; ma il figliuolo di questo Basilio, chiamato Giovanni, fu felicissimo, perciochè, avendo presa per moglie Maria, sorella del granduca Michael twerense, il cognato indi cacciò, e il granducato twerense e dapoi eziandio la grande Novogardia nimicamente occupò. A costui dapoi tutti gli altri principi, overo per grandezza di cose fatte da quello mossi, overo per timore sbigottiti, servivano. Poscia, andando cosí tutte le cose sue felicemente e prosperamente, il titolo di granduca di Wolodimeria, di Moscovia, di Novogardia e finalmente l'imperio e la monarchia di tutta la Russia cominciò a usurpare e del tutto impadronirsi. Questo, avendo un figliuolo con Maria sua moglie, chiamato Giovanni, lo maritò in una figliuola di quel gran Stefano waywoda di Moldawia, il quale aveva vinti Maumeth della Turchia, Mattia dell'Ongheria e Giovanni Alberto, re della Polonia. Morta Maria, prima sua moglie, di nuovo l'altra moglie di Basilio, chiamata Sofia, e figliuola di Tommaso, tolse per moglie: il quale Tommaso già felicemente nella Morea regnava, e fu figliuolo d'un certo Emanuel, re di Costantinopoli, della nobilissima famiglia de' Paleologhi. Della qual donna n'ebbe cinque figliuoli maschi, cioè Gabriello, Demetrio, Georgio, Simone e Andrea, e, mentre egli era vivo, divise fra loro tutto il patrimonio: a Giovanni, primogenito della prima moglie, la monarchia del regno riservò; a Gabriello la grande Nowogardia consegnò, e agli altri figliuoli, secondo l'arbitrio e potestà sua, l'altre cose divise.
Giovanni primogenito morí e lasciò un figliuolo, chiamato Demetrio, il quale l'avo suo in luogo del morto padre lo pose, e, secondo l'usanza del luogo, della monarchia l'investí. Sofia, la seconda moglie, persona astutissima, persuase al duca suo marito che privasse della monarchia Demetrio, suo nepote, e che in luogo di quello vi ponesse Gabriello: il che il duca, per parole della donna, fece volentieri, e non solamente di ciò la contentò, ma eziandio comandò che fosse in prigione ritenuto. Ma finalmente venendo a morte, inanti che morisse fece condurre inanti di sé l'incarcerato Demetrio, e vedutolo li disse: "Caro il mio nipote, veramente io confesso che ho peccato verso Iddio e te stesso privandoti del regno, affliggendoti nella prigione e privandoti della giusta e meritevole eredità; e però dell'ingiuria che io ti ho fatta perdonami, ti prego: vattene libero e sicuro, e il tuo usa a tuo piacere". Demetrio, per la orazione dell'avo mosso, facilmente tal colpa gli perdonò; nondimeno esso Demetrio di nuovo, per comandamento di Gabriello suo zio, fu preso e posto in prigione, dove alcuni pensano che da fame o freddo, altri che da fumo morisse.
Gabriello, vivendo esso Demetrio, al governo dello stato s'intermise, e poi, morto Demetrio, il principato ottenne, senza però essere augurato, mutando il nome di Gabriello in Basilio. Ebbe Giovanni una figliuola di Sofia, chiamata Elena, la quale diede per moglie al granduca Alessandro, duca della Litwania, il quale dapoi fu fatto re della Polonia, di modo che li Lituani, per tal matrimonio, pensavano le gravissime discordie de l'uno e l'altro principe doversi totalmente annichilare: ma a me pare che di là siano nate maggiori e piú crudeli. Perciochè, nel conchiuder delle nozze, era stato terminato che 'l tempio, secondo il costume delli Rutenici, nel castello vilmese nel luogo ordinato fusse edificato, e a quello certe matrone e donne vergini di quel medesimo ordine fossero congionte; le quali tutte cose essendo per alquanto tempo disprezzate di fare, il suocero d'Alessandro causa della guerra pigliò contra di quello, e, fatte tre sorti di eserciti, contra Alessandro suo genero se n'andò. E il primo esercito verso la provincia Sewera, alla volta del mezogiorno, collocò, il secondo alla parte de l'occidente contra Toropecz e Biela ordinò, e il terzo in mezo, verso Drogobusch e Smolenezko, pose; e di questi tre eserciti quasi un esercito da parte per soccorso ne traeva fuora, acciochè da quella parte soccorrere potesse dalla quale pensavasi i Lituani dover combattere contra di quello.
Dapoi adunque che l'uno e l'altro esercito ad un certo fiume Wedrasch ne venne, Litwani, quali sotto Costantino Ostrosko con grandissima copia di gran maestri e uomini nobilissimi stavano in ordinanza, da certi uomini del paese prigioni il numero de' nimici e de' capitani facilmente conobbero: e di qui poi pigliorono speranza e grandissima confidenza di poter superare il nimico, ma perchè un fiumicello impediva loro il desiderio di voler combattere, il vado di quello, o vogliamo dire il passo, era ricercato da l'uno e l'altro esercito. Ma alcuni Moscoviti prima degli altri trapassarono il fiume, e alla ripa di là pervenuti, i Litwani al combattere provocorono, li quali non timidi, ma audacemente resisterono, e quelli seguendo facilmente fugorono e di là dal fiume gli cacciorono. Dapoi le squadre de' soldati s'affrontorono insieme, e una guerra crudele e atroce vi nacque: intra questo mezo, mentre da una parte e l'altra con grandissimo ardore d'animo si combatteva, l'esercito delli Ruteni, qual era posto per soccorso degli altri in luogo secreto, con poca saputa però di molti altri Ruteni, all'improviso da certa banda contra nimici levossi, per il che i Litwani, da paura percossi, mancorono d'animo e forze, e l'imperatore dell'esercito, chiamato Costantino, con molti altri nobili soldati fu preso, e gl'altri similmente per tal cosa sbigottiti diedero alli nimici gli steccati, gli alloggiamenti, se stessi e le fortezze di Dordobusch, Toropecz e di Biela.
L'esercito poi il quale era stato mandato alla volta del mezogiorno, del quale era capo Machmethemin tartaro, re di Casano, fece prigione il luogotenente della città di Brensko (il quale in lingua volgare chiamano waivoda) e pigliò la città detta Brensko. Dapoi, similmente, li due germani fratelli zii di Basilio, uno chiamato Staradub e l'altro Semeczitz, possessori d'una gran parte della provincia di Sewera, nondimeno a' duchi della Litwania ubidienti, sotto l'imperio de' Moscoviti si diedero. Cosí, in un solo conflitto e in un anno medesimo, l'esercito moscovito quelle cose avea acquistato le quali Witoldo granduca della Litwania in molti anni con grandissime fatiche aveva ottenuto.
Veramente il Moscovito molto crudelmente trattò li presi Litwani, tenendogli in prigione e incatenati e dissipati molto; nondimeno il lor duca over re trattò con il duca Costantino che, lasciato il suo nativo patrone, a sé solo fedelmente servisse. Il qual Costantino, non avendo altra speranza di poter scampare, accettò la condizione. Cosí fu liberato, astretto prima però con giuramento grandissimo; ma quantunque ad esso campi, possessioni e altri beni, secondo la condizione sua, gli fossero dati dalli Moscoviti, nondimeno non potettero però con questi tali doni grandi placarlo e ritenerlo nel regno, che egli, alla prima occasione della morte del suo primo signore mosso, per selve e per boschi inaccessibili a quello non ritornasse. Alessandro, re di Polonia e granduca della Litwania, il quale piú presto si allegrava della perpetua pace che della guerra, lasciate tutte le provincie e li castelli da' Moscoviti occupati, e solamente della liberazione de' suoi contentandosi, col suocero fece pace. Questo Giovanni, figliuolo di Basilio, fu tanto fortunato che in guerra li Nowogardensi appresso il fiume Scholona superò, e cosí vinti, con patti e condizioni gli costrinse che esso per lor principe e signore conoscessero; e dapoi, riconoscendogli di gran quantità di danari e lasciatogli nel paese un suo locotenente, indi partissi. Al qual luogo poi di lí a sett'anni vi ritornò, con aiuto dell'arcivescovo Theofilo entrò nella città, e gli abitatori di quella in misera servitú ridusse, levando a quelli l'oro, l'argento e finalmente tutti que' beni de' cittadini, di modo che, caricati da trecento e piú carra delle facoltà loro, a casa con quelli se ne ritornò.
Questo dicono che solamente una volta fu presente alla guerra, in quel tempo che i principati di Nowogardia e di Twerensi erano occupati; ma poi nell'altre guerre non era solito ad esservi presente, e nondimeno sempre di tutte le sue imprese la vittoria ne riportava, di modo che quel gran Stefano palatino di Moldavia sovente ne' conviti, facendo menzione d'esso, soleva dire: "Il granduca di Moscovia in casa sedendo e dormendo facilmente accresce il suo imperio, e io ogni giorno combattendo a pena posso difendere i confini dello stato mio". Questo duca Giovanni ordinò che fossero li re di Cassano, e alcuna volta, fatti prigioni, gli riscosse; dalli quali re nondimeno ultimamente, essendo vecchio, con grandissima strage fu profligato e vinto. Questo medesimo fu il primo che 'l castello e la sua sedia, come oggidí si vede, con il muro fortificò. Delle donne era cosí crudel nimico che, venendogli incontra alcuna donna, poco mancava che non tramortisse. Alli poveri li quali erano da' ricchi oppressi e ingiuriati non era l'intrare a lui per alcun tempo concesso. Il piú delle volte, nel suo desinare e cena, si dava al continovo bere, che di quel poi ripieno e ben satollo era dal sonno gagliardamente oppresso: e restando tra questo mezo gli altri convitati dal timore persi e in silenzio, destatosi, era consueto a nettarsi gli occhi e a scherzare, e lieto e festoso dimostrarsi.
Benchè fosse potentissimo signore, nondimeno era costretto a dare ubidienza agli Tartari, perciochè, ogni volta che gli ambasciatori di Tartaria venivano a lui, fuora della città ne giva loro incontro, e stando in piede dava grata audienza agli oratori che sedevano. La qual cosa la sua consorte, che greca era, ebbe tanto a sdegno e molestia che giornalmente diceva essere maritata ad un servo delli Tartari, e non a persona libera; e questa tal servile consuetudine gli era tanto affissa nel core che alcuna volta persuadeva al marito che, venendo gli oratori delli Tartari, fingesse di dover essere ammalato in letto. Era nel castello, o vero città di detti Moscoviti, una casa nella quale abitavano li detti Tartari, acciochè quel tutto che si faceva nella Moscovia piú facilmente intendessero; il che similmente non potendo la moglie del granduca patire, ordinò certi ambasciatori e quelli con alcuni grandissimi presenti e doni mandogli alla regina delli Tartari, supplicandola di grazia che di quella casa, dove in Moscovia abitavano li Tartari, gli volesse fare un presente, perciò che avea avuta una divina inspirazione di dover in tal luogo fabricare un tempio, promettendogli però di dovere alli Tartari un'altra abitazione consegnare. Alle cui preghiere la regina di Tartari acconsentí, e cosí subito la casa fu gittata a terra, e in quel luogo edificossi un tempio: e cosí in questa maniera li Tartari furono cacciati della città, né mai piú quelli cosa alcuna poterno ottenere, vivendo li duchi, né dopo la morte d'essi.
Il granduca Giovanni morí nell'anno 7014 dalla creazione del mondo, al quale il figliuolo Gabriello, detto dapoi Basilio, successe, e tenne prigione Demetrio suo nepote, il qual, essendo vivo l'avo suo, era stato, secondo il costume di que' popoli, creato monarca. Onde Basilio non volse mai, né vivendo il nipote né dopo la morte d'esso, essere creato monarca. Costui in molte cose fu simile al padre, e tutte le cose lasciategli da quello conservò. Oltra di questo, molte provincie, non tanto per la guerra, nella quale era infelice e poco fortunato, quanto per l'industria al suo imperio aggiunse, e, sí come già il padre la gran Nowogardia nella sua servitú ridusse, cosí eziandio costui Plescovia, città confederata. Oltra di questo, il nobil principato di Smolenzcko, il quale per piú di cento anni sotto il dominio delli Litwanii era stato, acquistò; imperochè, morto Alessandro, re di Polonia, quantunque costui causa niuna di guerra contra Sigismondo re della Polonia e granduca della Litwania avesse, nondimeno, vedendo il re piú presto inclinato alla pace che alla guerra, e similmente i Litwani, di qui ritrovò poi l'occasione di voler far guerra, dicendo primamente che la sua sorella, lasciata vedova dal duca Alessandro, non era da quelli trattata e riverita secondo la dignità e grandezza sua: e poi accusava il re Sigismondo che avesse concitato e mosso contra di lui li feroci Tartari. E per questa cagione annunciò loro la guerra, e con prestezza assediò Smolencko, appressandogli quelle macchine e instrumenti bellici quali in quel tempo erano in uso; e nondimeno non fece profitto alcuno.
In questo mezo, Michael Lynczky, della nobile progenie e famiglia delli principi delli Ruteni, il quale già appresso il duca Alessandro era principale, alla volta del granduca di Moscovia se n'andò, e talmente operò che mosse il principe di Moscovia a pigliare l'armi, promettendogli d'espugnare la fortezza di Smolencho, se di nuovo gli ponesse a torno l'assedio; con questo patto però e condicione, che tal principato ad esso fosse concesso. Le quali condizioni avendo il duca accettate, di nuovo vi pose l'assedio, onde il detto Michael, o vero per patti, overo per donazioni fatte, ottenne là il luogo, e tutti li capitani e governatori della milizia menò con esso lui nella Moscovia, da uno in fuora, il quale al suo signore, senza alcun vizio di tradimento, era ritornato. Ma gli altri centurioni, con danari e altri doni corrotti, non avendo ardire di ritornare nella Litwania, e acciochè alla lor colpa trovassero alcun riparo, posero paura a' soldati, dicendo: "Se noi andaremo alla volta della Litwania, noi o vero saremo spogliati, o vero saremo occisi". Onde sbigottiti li soldati tutti nella Moscovia se n'andorno, e ivi col stipendio del principe erano nutriti e governati.
Basilio, per tal vittoria acquistata fatto altiero, comanda che subito l'esercito suo alla volta della Litwania ne vada, ed egli in Smolenczko restò. Dapoi, essendosi certi castelli e città piú vicine renduti, Sigismondo, re de la Polonia, raunato l'esercito suo (benchè tardo fosse), a quelli che erano assediati in Smolenczko mandò soccorso; ma dapoi, vedendo che l'esercito moscovitico alla volta della Litwania se ne giva, egli con gran prestezza a Borisow, luogo appresso il fiume Beresina posto, ne vola, e quivi l'esercito suo al capitano Costantino Ostroski concesse. Il qual Costantino, essendo dapoi venuto alla volta del fiume Boristene, appresso Orsa città, la quale è distante da Smolenczko ventiquattro miglia tedesche, ritrovò che l'esercito moscovitico era non troppo lontano, ed era di circa ottantamila persone, e quello delli Litwani non passava piú che trentacinquemila uomini, aggiuntivi però alcuni pezzi d'artiglieria. Il che vedendo Costantino, nel mese di settembre alli otto giorni, nell'anno del Signore MDXIIII, fece un ponte sopra il fiume Boristene e di là dal ponte, appresso Orsa città, fece passare la fanteria, e similmente dapoi la cavalleria, per un certo passo stretto del fiume Boristene, sotto la città di Orsa, passò. Ma subito che fu passata la metà della fanteria di Costantino, fu annunciato a Giovanni Andrea Czeladino, il quale era il capo principale di tutto l'esercito moscovitico, che dovesse dar dentro e rompere primamente questa parte d'esercito nimico. Ma egli rispose: "Se questa parte dell'esercito fraccassaremo, un'altra ne resterà, alla quale forse altre genti si potriano congiungere, e cosí in maggior pericolo saremmo; e però aspettiamo tanto tempo che tutto l'esercito sia passato, perciochè tante sono le nostre forze che senza dubio alcuno e con pochissima fatica superaremo tutto questo esercito, overo, mettutolo in mezo, come pecore insino in Moscovia lo potremo condurre, e cosí dapoi il restante, cioè la Litwania, facilmente occuperemo".
Intra questo mezo l'esercito litwanico s'appressava, ed essendosi già per quattro miglia dislontanato da Orsa città, l'uno e l'altro esercito fermossi. Due ale di Moscovia dall'esercito s'erano partite, acciochè il nimico dietro alle spalle circondassero: ma le squadre di soldati stavano in mezo in ordinanza, mandati tuttavia alcuni soldati avanti, li quali il nimico al combattere invitassero. All'incontro poi l'esercito litwanico diverse genti con longo ordine collocava, perciochè ciascun principato de la Litwania avea mandati soldati de le gente sua insieme con li capitani, e cosí a ciascuno era dato il luogo suo ne la ordinanza. Finalmente, ordinate e poste le coorti e le squadre secondo l'ordine militare, Moscoviti, fatto il segno del combattere con le trombe, furono i primi a far impeto contra li Litwani, li quali senza timore alcuno fecero resistenza e rebuttorno indietro i Moscoviti, li quali poi, essendo aiutati da altri, misero in fuga; e cosí, per alquanto spazio di tempo, l'una parte con nuovi soccorsi cacciava l'altra. Ultimamente, essendo il fatto d'armi attaccato da dovero, i Litwani, studiosamente fingendo di ritirarsi, facilmente al luogo dove erano collocate e poste le artiglierie li loro nimici condussero: e ivi, quando tempo gli parve, scrocorno l'impeto e furore delle artiglierie contra li seguenti Moscoviti, e parimente l'ultima squadra loro, imboscatasi per offendere poi piú strettamente i nimici, feriscono, disgombrano e tagliano a pezzi.
Per questa nuova sorte di guerra, Moscoviti, li quali pensavano solamente i primi soldati, combattendo contra nimici, essere in gran pericolo, si turborono, e pensando già la prima squadra essere stata fugata, ancora essi si diedero a fuggire: li quali i vittoriosi Litwani con tutti li suoi soldati perseguitando gli fugavano e ammazzavano, e questa mortalità solamente la notte e le selve separorono. Fra Orsa città e Dobrowna (le quali sono distanti quattro miglia tedeschi) è un fiume, chiamato Cropiwna, nelle cui dubiose e alte ripe fuggendo i nimici, tanti Moscoviti dentro vi sommersero che 'l corso del fiume era quasi impedito. Furono presi in quel conflitto tutti li capitani e consiglieri della milizia, delle quali i piú onorati e piú nobili Costantino, capo delli Litwani, il giorno sequente onorevolmente ricevette, e dapoi mandogli al re: li quali nobili per le castella e città delli Litwani furono distribuiti. Giovanne Czeladino, con altri due capitani de' piú principali, di grave età, era tenuto in ceppi di ferro in un luogo chiamato Vailna. Costoro io, con licenzia del re Sigismondo, visitai, consolai, e richiedendomi danari, alcuni ducati d'oro gli diedi in presto: e questo fu quando io fui mandato ambasciatore in Moscovia da Massimiliano I imperatore.
Il principe delli Moscoviti, udita la mortalità del suo esercito, subito lasciando l'impresa di Smoleczko in Moscovia se ne fuggí, e, acciochè il castello di Drogobusch i Litwani non occupassero, comandò che fosse abbrusciato. L'esercito litwanico per dritta via alla volta di Smolenczko se n'andò, ma quella pigliare non poté, perciochè, postevi dentro buonissime guardie, Moscoviti fortissima l'avevano lasciata, e perchè sopragiongendo il verno impediva molto l'assedio; e specialmente che molti soldati delli Litwani, dopo il fatto d'armi, caricati di buona preda, pensandosi aver fatto a bastanza, ritornavano a casa; e finalmente, perchè né Litwani né Moscoviti sapevano il modo o la via di espugnare le rocche e pigliar per forza. Ma il re Sigismondo per la ricevuta vittoria niente altro aveva riportato eccetto la recuperazione di tre castelli di qua da Smolenzcho.
Quattro anni dopo questo conflitto, di nuovo il duca di Moscovia mandò il suo esercito contra Litwani, ed essendosi quello infra il fiume Dwino e Poloczho fermato, di là poi mandò parte di quel suo esercito sopra la Litwania, acciò quella con fuoco e fiamma e con robberie saccheggiasse e rovinasse. Ma Alberto Gastold, wayvoda de' Poloczhii, una notte uscito fuori e trapassato il fiume, un monte di fieno, il quale Moscoviti per il longo assedio avevano ragunato insieme, abbrusciò, e dapoi valorosamente assalí gli nimici, de' quali alcuni furono morti col ferro, altri fuggendo s'annegorono, altri presi, e pochi ne scamporono. E quelli similmente li quali, sbandati dagli altri, depredando e saccheggiando per la Litwania ne givano, furono ultimamente in diversi luoghi maltrattati, e quelli che per li boschi e per le selve errando andavano simigliantemente dalli abitatori miseramente uccisi e morti restorno. Il Moscovito, in quel medesimo tempo, con l'esercito sí navale come terrestre assalí il regno di Casan, ma, senza far cosa alcuna, con perdita di molti soldati a casa se ne ritornò.
Veramente quel principe Basilio, quantunque ne la guerra infelicissimo fosse, nondimeno dalli suoi come che cose degne di lode avesse fatto è laudato sempre: e, ancora che alcuna volta sia successo che a pena la metà de' soldati ritornassero a casa, nondimeno dicono che né anco uno de' suoi sia perito. Costui, per l'imperio e potestà che egli esercita verso li sudditi suoi, tutti gli altri monarchi del mondo supera e avanza; e quello che 'l padre suo aveva cominciato, costui lo finí; e perochè tutti gli altri principi e altri, di qualunque sorte si siano, di tutti li castelli, fortezze e altre monizioni gli spoglia, e alli suoi fratelli germani non lascia né le rocche né fortezze, né manco si fida di loro. E tutti finalmente con tal dura servitú preme e molesta, e che ciascuno che egli tiene in corte o ver vada in guerra o vero in qualche ambascieria, è necessario che costui ne vada alle sue spese, eccettuati però li figliuoli giovani di quelli gentiluomini li quali fussero di poca facoltà e da troppa povertade oppressi. E però questi tali ogni anno sono chiamati e tolti, e con certo stipendio ineguale sono nutriti: quelli che hanno sei ducati a l'anno, a quelli lo stipendio nel terzo anno è pagato; ma quelli a li quali d'anno in anno sono dati dodici ducati d'oro, sono astretti a fare ciascheduna impresa alle sue spese, e con certa quantità di cavalli. Ma agli uomini piú degni e piú prestanti, li quali qualche legazioni o altri officii di maggior importanza avessero da fare, le preture, o vero le ville, o vero altre possessioni, secondo la condizione e della dignità e della fatica di ciascuno erano concesse; delle quali nondimeno possessioni ogni anno certi censi annuali al principe pagano, eccettuata però la pena in danari la quale dalli poveri delinquenti riscuotono. Ma tali possessioni al piú delle volte per anni sei erano loro concesse, e alcuna volta piú, secondo il favore, l'amicizia e la benevolenza delle persone; ma finito il detto tempo cessa ogni grazia e favore, e bisogna che per l'avenire per altri sei anni servano gratis.
Era un certo Basilio Trotyack Dolmatow, caro al principe, e infra li cordiali secretarii il piú caro e il piú cordiale era tenuto: costui, essendo stato eletto per ambasciatore a Cesare Massimiliano imperatore, fugli commesso che si mettesse in ordine per andare via, e dicendo che non aveva a bastanza per le spese di tal viaggio, dapoi in Bieloyessero fu preso e posto in carcere, dove miseramente terminò sua vita. Li cui beni, sí mobili come stabili, il principe li fece suoi, e benchè da tremila fiorini di danari ritrovasse, nondimeno alli fratelli e altri suoi eredi non diede cosa alcuna. Il che esser vero, oltra la fama commune, Giovanni scrivano, il quale per commissione del duca mi provedeva delle cose necessarie al viver cottidiano, mi diceva; e similmente li due fratelli di Basilio, cioè Teodoro e Zacaria, li quali nel mio ritorno furono dati per miei procuratori di Moscovia in Smolenczo, questo medesimo confirmorono.
Oltra di questo, tutto ciò che gli oratori mandati alli principi esterni portavano di cose preziose e belle, il principe nel fisco riponea, dicendo che gli farà un'altra grazia, la quale è tale come ho detto di sopra. Essendo stati mandati ambasciatori dal principe di Moscovia alla cesarea maestà di Carlo quinto imperatore knes Iwan posetzen Faroslawski, Semen (cioè Simeone) Trophimow secretario, nella partita loro gli furono donati da Cesare catene d'oro e danari assai, e similmente dal re Ferdinando, arciduca d'Austria e padrone mio onorandissimo, furno donate a quelli tazze d'argento, panni d'oro e d'argento e monete d'oro todesche. Li quali ambasciatori ritornando con esso noi nella Moscovia, subito che furono gionti il principe gli tolse le catene d'oro, le tazze e la maggior parte di quei doni. Delle quali cose ricercando io la cagione, uno, temendo il principe, lo denegava, e l'altro diceva che 'l re avea commandato che tali doni fossero portati innanti di sé per vedergli. E seguendo io nel domandare, uno d'essi, per fuggire l'occasione di dir menzogna, se negava, o vero per fuggire il pericolo, se diceva il vero, cessò di venir a me. Li suoi cortegiani ciò non negavano, ma dicevano: "Questo poco importa, perciochè il principe remunera quelli con altra grazia e favore, e usa la sua auttorità tanto nelle cose spirituali come temporali, e liberamente e secondo la sua volontà può deliberare della vita e delli beni di ciascuno di tutti li suoi consiglieri".
Niuno si truova di tanta auttorità al quale basti l'animo di contradire in cosa alcuna al principe: publicamente confessano la volontà del principe essere la volontà d'Iddio, e che tutto ciò che fa il principe, fa per volontà d'Iddio; e per questa cagione lo chiamano il portinaro e il cameriero d'Iddio, e finalmente credono quello essere esecutore della volontà divina. Onde se esso principe, pregato di liberar alcun prigioniero, usa di rispondere: "Quando Iddio il comanderà, sarà liberato", similmente, s'alcuno di qualche cosa dubbiosa e incerta fa richiesta, comunemente sogliono rispondere: "Dio lo sa, e il gran principe"; e però di qui è fatto che è cosa dubiosa se la ferità di tal gente richiede il principe tiranno, o pure se essa gente tanto inumana, dura e crudele sia renduta per la tirannide del principe loro.
Dal tempo di Ruridch insino a questo principe non hanno usato altro timore quelli principi che questo: il granduca di Wolodimeria, o vero di Moscovia, o vero di Nowogardia, eccetto che Giovanni Basilio, il quale chiamava signore di tutta la Russia e granduca di Wolodimeria. Questo Basilio di Giovanni attribuisce a sé titolo e nome di re in questo modo: il gran signore Basilio, per grazia d'Iddio re e signore di tutta la Russia e granduca di Wolodimeria, di Moscovia e di Novogardia, di Plescowia, di Smolenczko, di Tweria, di Iugaria, di Permia, di Viackhia e di Bulgaria signore, e il granduca di Nowogardia bassa, di Czornigowia, di Rezania, di Wolotkia, di Riscowia, di Beloia, di Rostowia, di Iaroslawia, di Bielozeria, di Udoria, di Obdoria e di Condinia.
Ma conciosiacosachè tutti al presente chiamano questo re, o ver signore, l'imperatore, parmi cosa convenevole e necessaria d'esponer il titolo e la cagione di questo errore. Czar in lingua rutenica significa re, e nella lingua comune sclavonica, appresso delli Poloni, de' Boemi e di tutti gli altri, presa una certa consonante dell'ultima sillaba grave di questo nome czar, significa l'imperatore, o ver Cesare: onde tutti quelli che non intendono la lingua rutenica, e li Boemi, e li Poloni, e quelli che sono sottoposti al regno d'Ongheria, con altro nome chiamano il re, cioè krall, altri kyrall, alcuni koroll. Di qui tutti pensano che questa parola, czar, solamente significa Cesare, o vero imperatore; e però di qui nasce che gl'interpreti ruteni, udendo il principe loro dalle nazioni esterne essere cosí chiamato, cominciorono ancora essi a chiamare il suo re imperatore, pensando questo nome czar (benchè sia quello istesso) esser piú degno e piú alto che il nome di re. Ma se rivolteranno tutte l'istorie di quelli, e parimente la sacra Scrittura, si ritroverà che czar è nome di re, e kessar nome d'imperatore. Con questo medesimo errore è chiamato l'imperatore di Turchi czar, il quale nondimeno, secondo l'uso antico, altro non significa che nome di re; onde li Turchi ch'usano la lingua schiava chiamano Costantinopoli Czarigrad, cioè città regale. Sono alcuni che chiamano il principe di Moscovia il re bianco: del che ricercando io la cagione, conciosiachè nissun principe di Moscovia per l'adietro aveva usato tal titolo, alli consiglieri suoi dissi che noi non lo chiamiamo re, ma granduca. Molti pensavano questa essere la ragione del nome, che sotto il suo imperio avesse li re: ma del bianco re non ne sapevano rendere ragione alcuna; ma io credo che, sí come al presente il Persiano per li turbanti rossi Kisilpassa, cioè capo rosso, lo chiamano, cosí quelli per li bianchi, bianchi siino chiamati.
Questo granduca di Moscovia usa il titolo di re quando scrive all'imperatore romano e al pontefice romano, al re di Svezia e di Dania, al maestro della Prussia, di Livonia, e, come ho inteso, al principe delli Turchi, ma esso da nissun di questi è chiamato re, eccetto che dal principe livoniense. Anticamente solevan usar i titoli con tre circoli inclusi in un triangolo, delli quali il primo titolo nel supremo circolo era: Deus noster Trinitas, quae fuit ante omnia saecula, Pater, Filius et Spiritus Sanctus, non tamen tres Dii, sed unus Deus in substantia, cioè, il Dio nostro la Trinità, la qual fu innanti tutti i secoli, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, non già tre Dii, ma un Iddio in substanzia. Nel 2° circolo era il titolo dell'imperatore de' Turchi, aggiontovi Fratri nostro dilecto, cioè al fratello nostro diletto. Nel 3° circolo era il titolo del granduca di Moscovia, col qual si confessava re ed erede e signore di tutta la Russia orientale e meridionale, nella qual forma commune li vedessimo aggiunte queste parole: Misimus ad te nostrum fidelem consiliarium, cioè: avemo mandato a te il nostro fedele consigliero. Quando scrive al re di Polonia usa questo titolo: Magnus dominus Basilius, Dei gratia dominus totius Russiae et magnus dux Wolodimeriae, Moscoviae, Nowogardiae, Smolenschi, Tweriae, Iugariae, Permiae, Bulgariae etc., senza titolo di re, perchè ciascun di questi si sdegna ricevere le lettere dall'altro con nuovo titolo: il che, essendo io in Moscovia, avvenne, che 'l principe di Moscovia ricevé le lettere del re di Polonia con sdegno, perchè aveva aggiunto titolo di duca di Moscovia.
Scrivono alcuni che il principe di Moscovia ha cercato dal pontifice romano e da Cesare Massimiliano il nome e titolo di re, il che a me non pare cosa verisimile, specialmente che egli a nissuno uomo è piú nimico che al pontifice romano, al quale non dà altro titolo che di dottore. Similmente, non pensa che l'imperatore romano sia punto maggiore di lui, come appare per le lettere sue, nelle quali antepone il nome suo al titolo dell'imperatore. Oltra ciò, il nome di duca appresso di quelli è detto knes, né altro maggior titolo (come ho detto) hanno avuto giamai, aggiuntovi però quella parola magno, cioè il granduca, perciochè tutti gli altri li quali un solo principato avevano erano chiamati knes, ma quelli che piú principati e altri duchi al loro imperio sottoposti avessero, weliki knesi, cioè grandi duchi, erano chiamati: né altro grado over dignità hanno dopo li boiari, li quali, secondo il costume nostro, il luogo de' nobili (come ho detto di sopra) over de' cavalieri tengono. E in Croazia i principali e piú nobili similmente knesi sono detti, ma appresso di noi, ed eziandio in Ongheria, altro nome non hanno se non di conti, etc.


Modo di consacrare i principi.

La seguente formula, la quale con difficultà grande ho avuta, il costume o ver usanza con la quale li principi di Moscovia si consacrano (e questa usò già il granduca Giovanni, figliuolo di Basilio, in quel tempo che investí il suo nipote Demetrio, come ho detto di sopra), mostrerà il granduca e monarca della Russia.
In mezo del tempio della Beata Vergine drizzasi un certo palco, o vero solaro, e sopra di quello tre sedie vi sono collocate, cioè una all'avo, la seconda al nepote, la terza al metropolitano. Vi si pone ancora un certo pergolo, il quale essi chiamano nolai, sopra il quale il capello ducale e la barma, cioè l'ornamento ducale, vi sono posti. Poscia, al tempo ordinato, il metropolitano, cioè il capo di tutt'il clero, gli arcivescovi, li vescovi, abbati, priori, e finalmente tutta la congregazione de' chierici, con solenni paramenti vestiti, nel sopra detto luogo sono presenti, e quando il granduca entra dentro nel tempio col suo nepote, i diaconi cantano e, secondo la loro consuetudine, la felicità di molti anni al solo granduca Giovanni annunciano. Dapoi, il metropolitano con tutto il clero comincia a cantare l'orazione della beata Vergine e di san Pietro confessore, il quale essi, a modo loro, miracoloso chiamano. Fatto questo, il metropolitano, il granduca e il nepote montano sopra il palco, e nelle sedie preparate seggono. Tuttavia il nepote resta in piede nel principio del palco o ver solaro, sino a tanto che 'l granduca parla alcune parole, le quali sono di questo tenore: "Padre metropolitano, secondo la divina volontà e per l'antica consuetudine fin ora dalli nostri maggiori granduchi usitata, li padri granduchi alli suoi figliuoli primogeniti il granducato consegnavano: e come, con l'esempio di quelli, mio padre in granduca alla presenza sua mi benedisse con il granducato, cosí io parimente Giovanni, mio primogenito, in presenzia di tutti ho benedetto. Ma perchè per divino volere intervenne che questo mio figliuolo morisse, e che 'l suo unico figliuolo Demetrio vivo restasse, il quale Iddio in luogo di mio figliuolo mi ha dato, questo parimente in presenza di tutti io benedico, al presente e dopo me, con il granducato di Wolodimeria e di Novogardia, sí come già con questi io aveva benedetto il padre di quello".
Finito il parlare del granduca, il metropolitano comanda al nepote del duca che al luogo suo preparato ne venga, e lo benedice con la croce, e comanda al diacono che le orazioni delli diaconi reciti; ed esso metropolitano, tra questo mezo, sedendo appresso del novo duca, col capo chino, ancora esso fa la sua orazione, dicendo in questa forma: "Signore Iddio nostro, re delli re, signore delli signori, il quale per Samuel profeta eleggesti David servo tuo e ongesti quello per re sopra del popolo tuo di Israel, tu al presente esaudisci le nostre preghiere delli tuoi servi indegni, e riguarda dal tuo santuario al fedel servo tuo Demetrio, il quale tu hai eletto. Esalta il re alle tue genti sante, il quale con il preciosissimo sangue de l'unigenito tuo figliuolo recuperasti, e ongi quello con l'olio della letizia, difendi quello con la virtú celeste, poni sopra il capo suo la corona delle pietre preziose, concedi a lui la longhezza delli giorni, e nella destra il scettro regale; poni quello nella sedia giusta, circonda quello con tutte l'armi della iustizia, fortifica quello col braccio tuo e sottoponigli tutte le lingue barbare, e sia tutto il cor suo nel tuo timore, il quale umilmente ti presti gli orecchi; rimuovi quello della cattiva fede, e dimostra a quello il salvo conservatore delli comandamenti della tua santa Chiesa universale, acciochè egli giudichi il popolo nella iustizia, e la iustizia alli poveri ministri, e conservi li figliuoli delli poveri, e finalmente dopo morte al regno celeste ne pervenga".
Dapoi, con voce piú chiara parla, dicendo: "Sí com'è tua la potenzia e tuo è il regno, cosí sia e laude e virtú a Dio Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo, al presente e nelli secoli de' secoli". Finita quest'orazione, comanda il metropolitano a due abbati che l'ornamento ducale, chiamato in lor lingua barma, gli porgano. Il quale ornamento, insieme col capello, era coperto di certo coprimento di seta, il quale essi schirnikoiu chiamano; e cosí, ricevuto tale ornamento, lo dà in mano al granduca, e con la croce segna il nipote, e dapoi esso granduca pone tal ducale ornamento sopra il suo nepote. E poscia il metropolitano dice: "Pax omnibus", sia pace a tutti; al quale il diacono risponde: "Domine, oremus", Signore, oriamo. E dopo questo, voltatosi al creato duca, gli dice: "A te, unico re eterno, al quale similmente il regno terreno è concesso, inclinatevi con le ginocchia a terra, insieme con noi, e pregate il Signore che tutte le cose ordina e dispone", dicendo: "Signore, conserva quello sotto la protezione tua, conservalo nel regno, acciochè egli sempre faccia l'opre buone, giuste e convenevoli; fa, Signore, che risponda la iustizia nelli suoi giorni, con l'accrescimento del suo dominio, acciochè nella tranquillità di quello, quietamente, senza discordia alcuna, viviamo, in ogni bontà e purità", e queste cose dice bassamente. Dapoi, con alta voce, dice: "Tu sei il re del mondo e il servatore dell'anime nostre: sia laude a te, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, al presente e nelli secoli de' secoli, amen".
Dopo questo, il cappello ducale, portatogli dalli due abbati, al granduca porge, e poi benedice il nepote con la croce, segnandolo in nome del Padre, del Figliuolo e del Spirito Santo. Fatto questo, il granduca pone il detto cappello sopra il capo del nepote, e poi, primamente il metropolitano, dapoi l'arcivescovo e gli altri vescovi, appressandosi, con la mano il nuovo principe benedicono. Finite le sopradette cose ordinatamente, il metropolitano e il granduca comandano al nepote che egli segga appresso di sé, e, stati che sono un poco cosí, si levano in piedi; e tra questo mezo il diacono comincia le letanie dicendo: "Miserere nostri, Domine", nominando il granduca Giovanni, e di nuovo l'altro coro commemora il granduca Demetrio nepote, e gli altri ancora, secondo la loro consuetudine. Finite le letanie, il metropolitano ora dicendo: "O sanctissima Domina virgo, Dei genitrix", e dapoi quest'orazione il metropolitano e li magni duchi seggono, e un sacerdote o ver diacono dimostra il luogo nel quale è consueto a leggersi il santo Evangelio, e con alta voce dice: "Molti anni siano al granduca Giovanni, al buono, fidele, diletto di Cristo, al Dio eletto e al Dio d'esser onorato, al granduca Giovanni di Basilio di Wolodimeria, di Nowogardia e di tutta la Russia monarca per molti anni".
Dapoi, li sacerdoti avanti l'altare cantano: "Al granduca molti anni"; quel medesimo nel destro e sinistro coro i diaconi cantano, "Per molti anni". Finalmente di nuovo il diacono con alta voce dice: "Molt'anni al granduca Demetrio, buono, fidele, diletto di Cristo, il Dio eletto e da essere onorato, al granduca Demetrio di Giovanni, di Wolodimeria, di Nowogardia e di tutta la Russia per molti anni". Similmente li sacerdoti appresso l'altare, e in uno e l'altro coro, intonano: "Molti anni sian a Demetrio". Le quali tutte cose compite, il metropolitano, l'arcivescovo, li vescovi, e tutta la congregazione de' chierici, ordinatamente, s'appressano alli granduchi e quelli salutano, e dapoi ne vengono li figliuoli del granduca, li quali, riverentemente inchinandosi, il granduca salutano.


Le instituzioni del granduca già consecrato.

Simone metropolitano disse: "Signore e figliuolo granduca Demetrio, per divino volere il tuo avolo granduca ti ha fatta la grazia, ti ha benedetto col granducato: e però tu, signore e figliuolo, abbi sempre il timore d'Iddio nel cuore, ama la iustizia e il iusto iudicio, ubidisci al tuo avolo il granduca, abbi cura con tutto il cuore di tutti li fideli. E noi te, signore, figliuolo suo, benedichiamo, e preghiamo il magno Iddio per la salute tua". Dapoi il metropolitano, e parimente li granduchi, si levano su, e il metropolitano, orando, benedice con la croce il granduca e alli figliuoli di quelli. Finalmente, finite tutte le cose sacre e le ceremonie, il granduca, cioè l'avolo, alla sua abitazione ritorna, e Demetrio, con il cappello ducale e con la barma, cioè l'altro ornamento ducale, accompagnato da grande multitudine d'altri gentiluomini e dalli loro figliuoli, dal tempio della Beata Vergine fino al tempio di San Michele Arcangelo se ne va; dove avanti la porta, sopra un ponte da Georgio, figliuolo del granduca Giovanni, tre volte con certe monete d'oro, dette denga, gli butta l'acqua santa adosso, e dapoi, entrato nel tempio, li sacerdoti, dicendogli le letanie, overo preghiere, secondo la consuetudine loro, con la croce lo benedicevano, e appresso delli sepolcri e monumenti lo segnavano col segno della croce. Poscia, uscendo fuori del tempio, di nuovo nella porta dal prefato Georgio gli era data l'acqua santa; dapoi, per dritta via, al tempio della Annunciazione di Maria se ne va, dove parimente li sacerdoti lo benedicevano, e cosí da Georgio, come prima, gli era sporta l'acqua santa. Finalmente, finite tutte queste visitazioni, Demetrio al palazzo del suo avolo e della madre ritorna.
E queste cose furono fatte nell'anno del mondo 7006, e dalla natività di Cristo 1497, nel dí 4 del mese di febraio. Vi furono presenti a questo mandato del granduca e alle benedizioni di Simone metropolitano Tichone, arcivescovo rostowiense e ioroslaviense, Nyphonte susdaliense e Toruski; Wasiano, vescovo twerense; Protasio resanense e Muromski; Afranio columbnense e li vescovi di Ieufimi, di Sarki e di Podonski. Oltra di questo, vi furono ancora molti abbati e priori, fra li quali vi fu Serapiano, priore del monastero alla Santa Trinità di San Sergio e Machirio, e il priore del monastero di San Cirillo, e finalmente gran multitudine di religiosi e di persone ecclesiastiche. Mentre si desinava, quasi in luogo di presente eravi offerto un certo cingolo largo, con oro, argento e pietre preziose finito, con il quale il granduca si cingeva. Dapoi, certi pescetti del lago pereaslawiense, non dissimili dalli pesci chiamati alecci, eranvi portati: e questo ad altro fine non era fatto, se non perchè tal lago di Pereaslaw mai dalla Moscovia e dalla monarchia s'era separato.
Barmai è alla similitudine di una collana larga, di velluto, ma di fuora elegantemente è addornata d'oro e di ogni sorte di gemme preziose, il quale ornamento già Wolodimero ad un certo Caphe genovese, capitano marittimo, tolse, profligato che ebbe lui insieme con la sua compagnia. Il cappello in lor lingua è detto schapka, il quale già Wolodimero Monomach usava, e questo cappello, ornato di gemme e di lamina d'oro, quasi con certi circoletti risplendente e maravigliosamente composto, lasciò.
Insino adesso ho detto del principe, il quale la maggior parte della Russia tiene; ora diremo del re di Polonia.


Del re di Polonia.

Le altre parti della Russia al presente Sigismondo, re di Polonia e granduca della Litwania, possede; ma, facendosi ora menzione delli re di Polonia, li quali l'origine loro dalli Litwani pigliorono, parmi cosa ragionevole di dire alcune cose della geneologia di quelli.
È da sapere che già al granducato della Litwania un certo principe, detto Witenen, fu superiore e patrone; il quale nondimeno, come riferiscono gli annali de' Poloni, da un certo Gelemino, suo servitore, fu occiso, e cosí in cotal guisa Gelemino e il ducato e parimente la moglie del morto principe godette, della qual donna, oltra gli altri figliuoli, de' piú principali n'ebbe, cioè Olgird e Kestud. Ma di Kestud nacque Witoldo, il quale altrimente Witowodo lo chiamano, e Anna, che fu moglie di Ianusio, duca di Mazovia. Witoldo lasciò poi una sola figliuola, chiamata Anastasia, la quale dapoi a Basilio, duca di Moscovia, in matrimonio fu collocata, e Sofia è nominata. Di costei nacque Basilio, padre di quel gran Giovanni, e avolo di Basilio, principe delli Ruteni, al quale io già fui mandato ambasciatore. Kestud da Olgird, suo fratello, fu messo in prigione, dove miseramente terminò sua vita, e Witoldo similmente, uomo tale che la Litwania non ha avuto giamai il maggiore, nel 1430 morí, e perch'egli ebbe l'acqua del santo battesimo, di qui fu poi chiamato Alessandro.
Olgirdo, figliuolo di Gelemino, e di Maria, principessa twerense, sua consorte, donna cristiana, fra gli altri figliuoli n'ebbe uno chiamato Iagelone, il quale, desideroso oltra modo di regnare, non solamente il regno di Polonia, ma eziandio Hedwige, regina, e superiore in que' tempi del regno, grandemente desiderava; la quale Hedwige, nondimeno, con consentimento di tutti i parenti e primati dell'uno e dell'altro regno e secondo il costume di re, innanzi gli anni maturi, al maritare con Wilhelmo, duca dell'Austria, il matrimonio consumò. Volendo costui contentare il suo appetito, mandò li suoi ambasciatori in Polonia, con commissione che il regno e Hedwige per moglie dimandassero; e acciochè gli animi de' Poloni nel suo voler tirasse, gli promette fra l'altre cose che esso, insieme con li suoi fratelli e con li ducati, o vero stati, della Litwania e della Samogizia, vuol pigliare la santissima fede cristiana. Laonde e con queste e con altre promissioni di questa sorte fece tanto che i Poloni nella sua opinione facilmente condusse, e dapoi, per l'auttorità di quelli Hedwige regina mossa, ruppe la promessa del primo matrimonio e con Iagelone maritossi. Il che fatto, esso battezzossi, mutato il nome di Iagelone in Wladislao, e fu coronato del regno; le quali cose furono fatte nell'anno del Signore 1386. Hedwige regina di lí a poco tempo nel primo parto morí, e cosí dapoi Anna, contessa di Celeia, prese per moglie, della quale n'ebbe una sola figliuola, e chiamata Hedwigin, la quale poi a Federico piú giovane brandeburgense fu maritata. Questo Wladislao ebbe ancora per moglie una certa vecchia e, dapoi la morte di quella, un'altra donna rutena, figliuola di Giovanni Andrea, duca chiowiense, la quale dapoi, avendo preso il costume romano, fu chiamata Sofia; e di questa n'ebbe due figliuoli, cioè Wladislao e Casimiro.
Wladislao, dopo la morte del padre, successe nel regno e similmente, remosso il legittimo erede del regno d'Ongheria, Ladislao, figliuolo del re Alberto, in re de l'Ongheria fu coronato, e dapoi appresso il lago Warna da' Turchi fu morto.
Casimiro, il quale allora il granducato della Litwania teneva, e che eziandio, mosso con l'esempio del fratello, volse torre il regno di Boemia a Ladislao, al morto fratello nel regno di Polonia successe, e dapoi Elisabeta, sorella di Ladislao, re d'Ongheria e di Boemia, tolse per moglie; della quale n'ebbe questi figliuoli, cioè Wladislao, re d'Ongheria e di Boemia, Giovanni Alberto, Alessandro e Sigismondo, re de' Poloni, e Federico cardinale, e Casimiro, il quale dopo la morte in numero de' santi è stato riferito.
Wladislao ebbe un figliuolo, detto Ludovico, e una figliuola, chiamata Anna; Ludovico successe nel regno, e Maria, figliuola di Filippo, re di Castella e arciduca d'Austria, tolse per moglie; e poi nell'anno 1526 da' Turchi in Mohacz fu morto.
Anna, sorella di Lodovico re d'Ongheria, con Ferdinando, re delli Romani, dell'Ongheria e di Boemia e arciduca d'Austria, maritossi, e ha partoriti quattro figliuoli maschi e undici femine, finalmente nell'anno del Signore 1547, in Praga, di parto morendo.
Giovanni Alberto senza menar moglie finí sua vita. Alessandro, suo fratello, tolse per moglie Elena, figliuola di Giovanni, granduca di Moscovia, della quale nondimeno non ebbe figliuoli, e cosí senza erede terminò sua vita.
Sigismondo di Barbara, sua consorte, la quale di Stefano, conte zepusiense, fu figliuola, ebbe una figliuola, detta Hedwigin, la quale dapoi di Ioachimo brandeburgense elettore fu moglie; della seconda moglie, la quale fu figliuola di Giovanni Sforzia, duca di Milano e di Bari, n'ebbe Sigismondo, il quale fu il secondo re di Polonia e granduca della Litwania. Il quale Sigismondo Elisabeta, figliuola di Ferdinando, re de' Romani, nell'Ongheria e di Boemia, nell'anno del Signore 1543, alli sei di maggio, tolse per moglie, la quale nondimeno senza figliuoli e in una immatura morte nell'anno 1545, alli quindici di giugno, finí sua vita, etc.
Semovito, duca di Mazovia, d'Alessandra sua moglie, la quale di Iagelone era sorella, ebbe molti figliuoli e figliuole; li maschi senza aver altri figliuoli morirono; delle femine, Zimburge ad Arnesto, arciduca d'Austria, fu maritata, e di questo matrimonio Federico, imperator de' Romani e padre di Massimiliano I imperatore, nacque. Massimiliano generò Filippo, re di Spagna, Filippo Carlo V e Ferdinando, imperatori delli Romani. Owka con Woleslao, duca thesinense, in matrimonio fu collocata; Amulia con Woguslao, duca stolpense, il quale a' tempi nostri il duca di Pomerania è chiamato, maritossi; e Anna con Michele, duca della Litwania; Caterina senza maritarsi morí.
Veramente, s'alcuno volesse ordinatamente riferire i fratelli e nepoti di Olgirdo e di Iagelone, e li figliuoli delle figliuole di quelli, e finalmente tutti li posteri di Kestude, di Casimiro e degl'altri re, in numero molto grande tanto numerosa prole, facilmente fallirebbe. La quale nondimeno, sí come in un subito è cresciuta e ampliata, cosí al presente il sesso masculino in un figliuolo del re morto di Polonia, cioè in Sigismondo secondo re di Polonia, rimane, etc. Ma, lasciato questo da parte, ora alli Moscoviti faccio ritorno.
Basilio, figliuolo del granduca Giovanni, deliberandosi e consultandosi circa tor moglie, finalmente, dopo longo discorso, si risolse di voler piú presto torre una figliuola di qualche suddito suo che altra donna forestiera: e questo, parte per sparagnare le grandissime spese nuziali, e parte perchè non voleva moglie la quale fosse di peregrini costumi e di contraria religione: di questo consiglio Georgio, cognominato Picciolo, tesoriere e sommo consigliero del principe, fu l'auttore, perciochè egli pensava che 'l principe la figliuola sua per moglie torre dovesse. Nondimeno, per publico consiglio di tutti, fu ottenuto che le figliuole delli suoi gentiluomini fossero condotte al conspetto del principe, e che di quelle una ne togliesse, la quale piú a grado gli fosse: onde successe che mille e cinquecento fanciulle vergini avanti al sopradetto principe furono condotte, delle quali finalmente Salomea, figliuola d'un gentiluomo chiamato Giovanne Sapur, fuora dell'opinione di Georgio consigliero elesse per moglie. Con la quale fino al tempo d'anni ventuno amorevolmente stette, ma, veggendo poi di non aver di lei figliuoli, avendo in odio la sterilità della moglie, quella in un monasterio, nel principato di Susdali fabricato, rinchiuse, e questo successe in quell'anno nel quale noi siamo pervenuti in Moscovia, cioè nell'anno 1526 dalla natività di nostro Signore.
Volendo il metropolitano porgere a questa donna il capuccio di testa, o vero l'abito monacale, lei non solamente non sofferse che gli fosse posto adosso, ma, pigliatolo in mano, con lagrime, pianti, gridi, e con stracciamento di capegli, sotto i piedi per maggior scherno lo mise. Per il qual atto indegno Giovanni Sthigona, uno de' piú nobili consiglieri del principe, mosso, non solamente quella con parole acre e acerbe riprese, ma eziandio con il flagello la batette, dicendogli: "Tu hai ardimento di fare resistenza alla volontà del signore, ed esser pigra e lenta ad ubidire li suoi comandamenti?" Al quale rispondendo, Salomea disse: "Dimmi con quale auttorità mi batti tu". Rispose il consigliero: "Per commissione del signore". Allora la donna, con animo abbattuto, in presenza di tutti disse: "Io certo vi protesto che contro al mio volere e sforzatamente piglio questo tal abito, e cosí della tanta ingiuria fattami Iddio ottimo e massimo per mio vendicatore chiamo".
Cosí, essendo la povera e sterile Salomea rimasa nel monastero serrata, il principe tolse per moglie e principessa Elena, figliuola del duca Basilio Lintzkij, cieco, già morto, e fratello del duca Michel Lintzkij, il quale allora in prigione era tenuto. Ma non passorono molti giorni, che la fama venne fuori che Salomea era gravida e quasi vicina al parto, e tal cosa due matrone, moglieri delli primi consiglieri del principe, confirmavano, e dicevano di bocca propria di essa Salomea averlo udito. Il che agli orecchi del principe pervenuto, egli e l'una e l'altra delle due donne dalla sua presenza cacciò via, e una di quelle, cioè la moglie di Georgio consigliero, con battiture ingiuriosamente fece trattare, perchè cosí tardamente avessero tal cosa fatta intendere ad esso. Ma dapoi, acciochè del tutto la verità bene intendesse e conoscesse, mandò al monastero Theoderico Rack, un delli suoi consiglieri, e un certo Potat secretario, comandando loro che con ogni diligenza, ingegno e arte ricerchino la cosa in che modo sia. Alcune persone degne di fede dissero a noi, che eravamo in Moscovia in quel tempo, che la sopradetta Salomea avea partorito un figliuolo, chiamato Georgio, ma che non volse giamai mostrarlo a niuno; il che volendo conoscere quelli che erano stati mandati dal granduca, Salomea gli rispose quelli non esser degni di vedere con li lor occhi un tal fanciullo, infino a tanto che non venisse all'età di governare l'imperio e di poter fare le vendette della cara madre. Nondimeno, alcuni poi constantemente negavano quella aver partorito, e cosí di ciò la fama è dubiosa e incerta.
Per due cagioni intesi il gran principe di Moscovia aver tolta per moglie la figliuola di Basilio Lintzkij: una, che egli sperava d'aver figliuoli di quella, e che vedeva la suocera sua aver avuto origine e principio dalla nobile famiglia di Petrowtiz, la quale già nell'Ongheria era di gran nome, ed era quella che la fede de' Greci seguitava; e l'altra, che pensava li suoi figliuoli dover avere per lor zio Michel Linczkij, uomo di singulare destrezza e di rara fortezza. Perciochè, avendo il principe due fratelli germani, Georgio e Andrea, se per sorte avesse avuto figliuoli di qualche altra donna, egli pensava, vivendo li fratelli, li suoi figliuoli dover essere poco sicuri nell'amministrazione del regno; ma, avendo figliuoli di Elena, quelli, per l'auttorità del lor zio, ritornato in grazia e nella pristina libertà, in maggior quiete e tranquillità dover vivere. Ed essendo noi nella Moscovia, si trattava della liberazione di questo, il quale, finalmente cavato di prigione e liberato, e per testamento d'esso principe fra gli altri gran maestri nominato, fu ordinato tutore e difensore di Giovanni e di Georgio, suoi nepoti. Ma poscia, essendo morto il padre delli duoi fanciulli, e vedendo che la sua sorella vedova il regio letto con un gentiluomo, cognominato Owezina, contaminava continuamente, e che verso li fratelli del morto marito, nelli vincoli costretti, s'incrudeliva e che crudelmente e senza alcuno rispetto signoreggiava, dalla sola pietà e onestà mosso, il buon fratello quella acciochè piú onestamente e piú sanamente vivesse sovente ammoniva. Ma quella, come donna sfacciata e senza vergogna, tale ammonizione a tanta molestia e noia ebbe che dapoi si consigliava in che modo e via potesse far morire il fratello; e cosí, ritrovata la cagione, certi malevoli accusorono il fidelissimo tutore di tradimento, e subito di nuovo fu posto e chiuso in prigione, nella quale poi miseramente terminò sua vita. La vedova similmente, non molto dipoi, fu attossicata, e Owezina adultero fu squartato in pezzi. Cosí, dopo la morte della madre, Giovanni, figliuolo maggiore, nell'anno del Signore 1528 successe nel regno.


Della religione della Russia.

La Russia, dal principio che ricevé la fede di Cristo insino a questo giorno, in essa fede secondo il costume greco rimane: ebbe già il suo metropolitano, il quale faceva la residenzia in Chiowia, dapoi in Wolodimeria e al presente in Moscovia. Dapoi, visitando li metropoliti di sette anni la Russia all'imperio de' Lituani sottoposta, e riscossi li danari, indi nella Moscovia ritornarono Witoldo, veggendo questo, non volse patire che le sue provincie fussero d'argento estenuate: raunati insieme gli vescovi delle provincie, un metropolitano constituirno, il quale al presente ha la sua sede in Wilna, città primaria della Lituania, la quale, benchè il costume romano seguiti, nondimeno si vedono piú tempi fatti secondo l'usanza di Rutenici che alla romana; ma li metropoliti rutenici l'auttorità hanno dal patriarca di Costantinopoli.
Li Ruteni, nelli loro annali, apertamente si gloriano la terra di Russia avanti Wolodimero e Olha esser battezzata e benedetta da santo Andrea, apostolo di Giesú Cristo, il quale essi dicono della Grecia alle bocche del fiume Boristene esser venuto, e di lí per il fiume, a contrario d'acqua, insino alli monti dove al presente è Chiowia aver navigato, e ivi ogni terra aver benedetta e battezzata, e in quel luogo la croce sua aver collocata, e aver predetto similmente ivi la gran grazia del Signore e molte chiese di cristiani dover venire. Poscia, di lí partitosi, fino alli fonti del Boristene esser pervenuto, e di lí al gran laco Wolok, e poi per il fiume Owat esser disceso nel lago Ilmero; e di lí, per il fiume Wolahow, il quale dal detto lago nasce, in Nowogardia essere pervenuto; e di lí poi, per il medesimo fiume, nel lago Ladoga e a Heva fiume e finalmente insino al mare, il quale essi Waretzkoia appellano, e noi il mare Germanico (infra Vinlandia e Livonia), e cosí navigando essere pervenuto a Roma. E ultimamente nel Peloponeso, cioè nella Morea, per la fede di Giesú Cristo dapoi Antipatro esser stato crocifisso: e tutte queste cose negli loro annali sono contenute e scritte.
Già li metropoliti e li arcivescovi erano eletti, e cosí primamente chiamati tutti gli arcivescovi, li vescovi, abbati e priori delli monasterii, si ricercava un uomo di santa vita per li monasterii e per gli eremi, e quello era eletto. E dicono che 'l principe è solito a chiamare alcuni avanti di sé, e di quelli uno ne elegge, secondo che piú al giudicio suo aggrada. Era, in que' tempi che io era in Moscovia ambasciatore di Cesare Massimiliano, un Bartolomeo metropolitano, uomo certo di santa vita e di ottimi costumi ornato. Avendo il principe violato il giuramento dato da sé e dal metropolita al duca di Semesitz, e avendo altre cose mal fatte e contra l'auttorità di quello, andossene avanti al principe e gli disse: "Conciosia, o principe, che ogni auttorità sia usurpata da te, e che io non possa ragionevolmente fare il debito mio, io ti renuncio il tutto", e cosí gli porse il suo bacolo, il quale esso portava a modo d'una croce; qual bacolo insieme con la dignità de l'ufficio il principe senza ritardanza alcuna pigliò, e il poverello, ligato con la catena, subito a Bielogesero mandò. Dicono questo santo uomo per alcun tempo esser stato cosí in prigione e in catene, e dipoi nondimeno esser stato liberato, e cosí privatamente in un monasterio il restante di sua vita aver finito.
A questo santo uomo un Daniele, persona d'anni trenta, successe per metropolita, uomo nel vero di corpo robusto, grasso e d'una faccia rubiconda, il quale nondimeno, acciochè non fosse veduto e giudicato piú presto esser dedito al ventre e alla pacchia che a' digiuni, a vigilie e altre devote orazioni, qualunque volta egli fosse per celebrare qualche atto, over negozio publico, solea primamente col fumo del solfere tingersi la faccia, acciochè per quello divenisse pallido: e cosí di tal pallidezza vestito era solito andarsene per la terra.
Oltra di questo, sono due altri arcivescovi nel dominio della Moscovia, in Nowogardia, cioè di Magrici, e di Rostoff; similmente vi sono li vescovi twerense, resanense, smolense, Permie, Susdali, Columne, Czernigowie, Sari. E tutti questi prelati son sottoposti al granduca di Moscoviti; hanno le loro entrate certe di possessioni e d'altri estraordinarii, ma non hanno né castella né città, né alcuna amministrazione secolare. Dal mangiar carne perpetuamente si astengono. Ho ritrovato che solamente due abbati sono in tutta la Moscovia, ma priori de' monasterii ve ne sono pur assai, li quali tutti secondo la volontà del principe, al quale nissuno ha ardimento di contradire, sono eletti. Li priori in che modo siano eletti, da alcune lettere d'un certo Varlamo, priore del monastero huteniense, fatto già nell'anno 7034, ho compreso, e di quelle lettere solamente i capi ne ho tolto. Nel principio, li frati di qualche monastero supplicano al granduca che faccia elezione di qualche priore sufficiente, il quale insegni loro li divini precetti: e quello che è eletto, prima che sia confermato dal principe, bisogna che giuri e per scrittura prometta che voglia in quel monastero secondo la constituzione delli santi padri loro piamente e santamente vivere, e tutti gli offici secondo la consuetudine delli maggiori, ed eziandio con consentimento de' frati piú vecchi, pigliargli a sé, e a ciascuno officio persone fideli proporre, e la commodità del monastero diligentemente procurare; delle facende e delle cose del monastero, con tre o vero quattro de' piú vecchi consultare, e poi, fatta la deliberazione, tal impresa a tutto il collegio degli altri frati riferire: e cosí, per commune sentenzia di quelli, di tutte le cose deliberare e ordinare; non lautamente da sua posta vivere, ma in una medesima mensa perpetuamente essere, e vivere insieme con gli altri frati; tutte l'intrate loro annuali diligentemente raccorre, e nel tesoro del monastero fidelmente riporre. E cosí promette d'osservare tutte queste cose, sotto quella pena la quale esso principe potesse dare a un delinquente; e similmente li frati piú vecchi s'astringono con giuramento d'osservare tutte le sopradette cose, e fidelmente e diligentemente al preposto e creato priore dover ubidire.
Li sacerdoti secolari, al piú delle volte, sono consecrati quelli i quali appresso delle chiese come diaconi hanno servito, ma nissuno è consecrato in diacono se prima non è maritato: onde spesse volte interviene che ad un tratto sogliono celebrare le nozze e nel grado del diaconato ordinarsi. Ma se la sposa di qualche diacono non fosse di buona fama, allora non può esser consecrato in diacono, se non ha moglie di buona fama. Morta la moglie, il sacerdote dall'administrazione de' sacramenti totalmente è sospeso: nondimeno, se castamente vive, può esser presente a tutti li divini officii, insieme con gli altri ministri delle cose che si fanno in coro. Era per avanti consuetudine che li sacerdoti vedovi, castamente vivendo, senza riprensione potessero le cose sacre amministrare, ma ora l'usanza è che niuno de' vedovi sia accettato alle cose sacre se non entra in qualche monastero e secondo la regola di quello viva.
Ciascun sacerdote vedovo il quale vorrà torre una seconda moglie (il che è in libertà di ogniuno) non ha niente del commune col clero. Similmente, nessuno delli sacerdoti non ha ardimento di consecrare, over battezzare, over nissuno altro officio esercitare, se 'l diacono non vi è presente.
Li sacerdoti nelle chiese tengono il primo luogo, e ciascuno d'essi che, per qual cagione si voglia, facesse qualche cosa contra la religione, over l'officio sacerdotale, al giudicio spirituale è sottoposto; ma se è accusato di fatto, over di qualche imbriachezzo, o vero di qualche altra sorte di vizio scelerato e tristo, dal magistrato secolare è punito. Noi vedessimo in Moscovia alcuni sacerdoti imbriachi publicamente essere battuti, li quali di niente altro si lamentavano, eccetto che si dolevano essere battuti dalli servi e non da' gentiluomini.
Pochi anni sono che un certo luogotenente del principe fece appiccare un sacerdote, il quale era stato ritrovato col furto; il che il metropolita avendo a sdegno, di ciò si dolse molto appresso il principe. Onde, chiamato a sé il luogotenente, rispose al principe e disse sé aver fatto morire un ladro, secondo l'antico costume della patria, e non un sacerdote, e cosí senza altra punizione fu licenziato.
Se 'l sacerdote si lamenta avanti il giudice seculare sé esser stato battuto da qualche laico (perciochè tutte l'offese e tutte le sorti d'ingiurie al giudicio seculare s'appartengono), allora il giudice, se per caso arà conosciuto che l'accusato sia stato provocato, o ver per qualsivoglia ingiuria dal sacerdote primamente offeso, punisce e castiga il sacerdote, e non quello che ha battuto il sacerdote.
Li sacerdoti, al piú delle volte, per certa elemosina di quelli di corte sono sostentati, e sono assegnati a quelli certe case picciole con campi e prati, donde con le proprie mani e delli servitori alla similitudine delli suoi vicini cercano il vivere. Hanno pochissime offerte: alcuna volta il danaro della chiesa è dato ad usura, a dieci per cento, e quella porgono al sacerdote, acciò non siano sforzati a nutrire quello con le proprie spese. Sono eziandio alcuni li quali della liberalità e cortesia delli principi vivono. Veramente non si truovano molte parrocchie le quali di campi e altre possessioni siano dotate, eccetto che li vescovadi e alcuni monasterii; nissuna parrocchia, over sacerdozio, è conferito ad altri che sacerdoti. In ciascun tempio non vi è piú che un altare, e in ciascun giorno solamente una messa si dice; rare volte si ritruova ch'ogni tempio non abbia almeno un sacerdote, il quale è obligato solamente tre volte la settimana a celebrare le cose sacre. Il vestito loro è quasi come quello delli secolari, eccettuata la berretta, la quale è picciola e rotonda, acciochè cuopra la chierica; sopra quella portano poi un certo capel grande contr'il calore del sole, overo contra la pioggia, o vero ch'usano un certo capello longo di pelle di castroni e di colore griso. Tutti portano bastoni da poggiarsi, quali in lingua loro dicono possoch.
Alli monasterii sono superiori (com'ho detto) gli abbati e priori, de' quali questi igumeni, e quelli archimandriti chiamano. Hanno severissime leggi e regole, le quali nondimeno a poco a poco sono mancate e venute quasi a niente. Questi non usano sorte alcuna di piaceri, e se per sorte o citera over altra sorte d'instrumento musicale fosse ritrovato appresso di quello, gravissimamente è punito. Perpetuamente s'astengono dal mangiar carne. Tutti danno ubbidienzia non solamente al comandamento del principe, ma eziandio a ciascuno delli gentiluomini mandato da esso principe; e di questo ne ho veduta la esperienzia, perciochè un giorno un gentiluomo, qual era al governo mio, dimandando una certa cosa ad un priore, e quello differendo a portargliela, gli minacciò di volerlo battere, e cosí subito ebbe ciò che ricercava. Sono molti li quali, usciti delli monasterii, se ne vanno a l'eremo, dove fanno alcuni tuguriotti dove abitano overo soli, overo con li compagni, e cercano il vivere della terra e delli arbori, le radici e frutti: de' quali chiamano stolpniki, perchè la colonna è detta stolp, e quelli le case picciole e strette con la colonna in altezza sostengono.
Il metropolitano, li vescovi e gli arcivescovi, quantunque perpetuamente dal mangiare carne s'astengono, nondimeno, quando invitano i laici forestieri over li sacerdoti, in quel tempo che mangiano carne hanno privilegio che pongono la carne avanti di quelli nel suo convito: il che agli abbati e alli priori è proibito.
Gli arcivescovi e li vescovi e gli abbati portano le mitrie negre e rotonde, ma solo il vescovo di Novogardia la porta bianca e con due corni, al modo nostro. Le veste quottidiane de' vescovi sono come quelle degli altri monaci, eccetto che alcuna volta portano veste di velluto, e specialmente un certo manto negro il quale ha dal petto in l'una e l'altra parte tre fimbrie bianche, piegate alla similitudine d'un rivolo corrente, a dinotare e significare che dal cuore e dalla bocca di quelli corrono rivoli della dottrina della fede e delli buoni esempi. Questi portano un certo bastone, con il quale si sostentano, il quale possoch chiamano, ed è alla similitudine di croce. Il vescovo novogardiense porta il manto bianco. Ma li vescovi solamente circa le cose divine e circa alle procure e conservazioni della religione sono occupati e impediti, e la cura famigliare e le altre facende mondane agli altri ministri e officiali commettono.
Hanno nel catalogo loro certi romani pontefici li quali come santi hanno in venerazione: ma gli altri, quali furno dopo quella scisma, hanno in abbominazione, come quelli dall'ordinazioni delli santissimi apostoli e delli santi padri e di sette concilii siano mancati, chiamandogli come eretici e scismatici, e quelli con maggior odio perseguitano che non fanno i maumettani; perciochè dicono che nel settimo concilio generale fu concluso che tutte quelle cose le quali nelli concilii passati erano state constituite e ordinate per l'avenire dovessero essere ferme, stabili e certe perpetuamente, né giamai nel tempo futuro dovesse esser lecito a nissuno di ordinare altro concilio, né manco dovervi andare, sotto pena di escommunicazione, e questo severissimamente osservano e inviolabilmente mantengono. Era un certo metropolitano della Russia il quale, ad instanzia di papa Eugenio, era andato al sinodo dove le chiese eran unite insieme; costui, ritornato nella patria, fu preso e di tutti i beni spogliato, e finalmente posto in prigione, della quale nondimeno ne fu dapoi liberato.
Che sia il vero che tra noi e loro v'è diversità di fede, è lecito a conoscerlo per la copia d'alcune lettere le quali un certo Giovanne, metropolita della Russia, all'arcivescovo, come essi dicono, romano avea mandato, delle quali lettere segue la copia.
"Io ho amato il tuo decoro e ornamento, signore e padre beatissimo, e dell'apostolica sedia e di tal vocazione dignissimo, il quale da luoghi remoti guardi alla umiltà e povertà nostra, e con le ale della dilezione ci cuopri, e amorevolmente come tuoi ci saluti: e in specialità della nostra fede vera e ortodossa ci interroghi e dimandi, della quale eziandio udendone, come il vescovo della tua beatitudine ci ha riferito, te ne sei maravigliato. E perchè tu sei tanto e tal sacerdote, per questa causa io povero ti saluto, onorando il capo tuo e baciando le tue mani e le braccia: sii lieto, e della superna potenzia di Iddio coperto, e il Signore omnipotente dia a te e alli tuoi spirituali e parimente a noi l'ordine buono.
Io non so donde siano nate l'eresie della vera via della salute e della redenzione, e assai maravigliarmi non posso qual delli diavoli tanto cattivo e invidioso, tanto acerrimo nimico della verità e della mutua benevolenza contrario sia stato, il quale la fraterna nostra carità da tutta la congregazione de' fideli abbia lontanata, dicendo noi non essere cristiani. Noi veramente da principio avemo conosciuto voi dalla benedizione d'Iddio essere cristiani, benchè totalmente la fede cristiana non serviate, e in molte cose siate contrarii; il che per sette sinodi dimostrerò, nelli quali la fede catolica e cristiana è ordinata e totalmente confermata, nelli quali ancora, come in sette colonne, la sapienzia di Iddio la casa a se stesso ha edificato. Oltra di questo, in cotesti sette sinodi tutti que' papi sono giudicati degni della catedra di san Piero, perciochè con esso noi vi erano consenzienti. Nel primo sinodo era Silvestro papa, nel secondo Damaso, nel terzo Celestino, nel quarto il beatissimo papa Leone, nel quinto Vigilio, nel sesto Oafanio, uomo onorando e nelle sacre Scritture dotto, nel settimo papa Adriano, il quale fu il primo che mandasse Pietro vescovo e abbate del monastero di San Saba: donde poi sono nate le dissensioni fra noi e voi, le quali nel vero principalmente cominciorono nell'antiqua Rana. Certamente sono molte cose cattive, le quali da voi contra le leggi divine e statuti sono commesse; delle quali alcune alla tua carità scriveremo.
Primieramente, del digiuno del sabbato, contra la legge osservato; secondariamente, del digiun grande, nel quale voi rimovete una settimana e mangiate carni, e cosí per la voracità della carne tirate gli uomini all'appetito vostro. Similmente quelli sacerdoti li quali menano moglie dal commerzio vostro gli discacciate, e quelli che dalli preti nel battesmo sono stati unti, quelli voi di nuovo ungete, dicendo la cresima non essere lecito di far ai semplici sacerdoti, ma solamente agli vescovi; similmente degli azimi cattivi, li quali manifestamente la servitú iudaica, overo culto, dimostrano. E, quello che è il capo di tutti i mali, che quelle cose le quali son confermate per li santissimi sinodi, quelle avete cominciate a permutare e rivoltare, dicendo del Spirito Santo che non solamente dal Padre, ma dal Figliuolo proceda, e molte altre cose maggiori delle quali la tua beatitudine al patriarca di Costantinopoli, suo fratello spirituale, doverebbe scrivere, esortandolo che ogni diligenzia mettesse toglier via cotesti errori, acciochè nella concordia spirituale fossimo d'uno animo e d'una volontà, come dice san Paolo, informandoci in questo modo: "Fratelli, vi prego per il nome di Iesú Cristo che quel medesimo sentiate, dichiate e che non sia fra di voi discordia alcuna, e che siate in un medesimo intelletto e in una medesima cogitazione fortificati e stabiliti".
Di cotesti sei eccessi, over mancamenti, quanto avemo potuto vi avemo scritto; e per l'avenire similmente dell'altre cose alla tua carità scriveremo. Imperochè la cosa è cosí (come avemo udito), tu ci perdonerai, conoscendo che per voi sono malamente osservati i canoni delli santi apostoli e li decreti delli sette sinodi, nelle quali erano tutti li vostri primi patriarchi, e concordevolmente dicevano che la parola vostra vana era. E che manifestamente erriate, e però al presente apertamente vi farò palese.
Primamente, del digiuno del sabbato, vedete bene quello che li santissimi apostoli ne hanno scritto, la dottrina de' quali voi avete, e specialmente quello che 'l beato Clemente, primo papa dopo san Pietro apostolo, scrisse secondo gli ordini e statuti degli apostoli, come è scritto nel canone LXIIII del sabbato, dicendo: "Se 'l sacerdote o ver l'ecclesiastico sarà ritrovato il quale nel giorno della dominica, o vero nel sabbato, digiunasse, eccetto il sabbato grande, sia degradato; e se sarà uomo secolare, sia scommunicato e dalla Chiesa sia separato". Il secondo è del digiuno, il quale voi corrompete, ed è l'eresia delli iacopiti e degli armeni, li quali nel santo digiuno grande usano latte e ovi. Qual cristiano arà ardimento di fare e pensare questo? Leggete i canoni del sesto sinodo, nel quale Oafanio, vostro papa, quelle cose proibisce e divieta. Noi veramente, avendo inteso che nell'Armenia e in altri certi luoghi nel digiuno grande usavano ovi e formaggio, subito commettemmo alli nostri che da questa sorte di cibi e da ogni immolazione di demonii s'astenessero: e, quando da quelli astenere non si volessero, fossero separati dal consorzio de' fideli, e se fosse sacerdote dalle cose sacre fosse sospeso.
Il terzo è grandissimo errore e peccato, del matrimonio delli sacerdoti, perciochè quelli che menano moglie, voi proibite loro che non possino darvi il corpo del Signore: e pure il santo sinodo il quale fu fatto in Gangra scrive, nel quarto canone, che quello che disprezza il sacerdote che secondo la legge ha tolto moglie, e che dice che non è cosa lecita dalle mani sue ricevere il sacramento, sia scommunicato. Similmente dice il sinodo: "Ogni diacono, o ver sacerdote, che lasci la propria moglie, sia privato del sacerdozio". Il quarto peccato è il sacramento della confermazione: non è detto in ogni luogo, in tutti i sinodi, "Io confesso un battesimo nella remissione de' peccati"? Se adunque è un battesimo, sarà eziandio una crisma, e quella medesima virtú è tanto del vescovo quanto del sacerdote.

Il quinto errore è degli azzimi, il qual errore è il principio e la radice di tutta l'eresia, come io dimostrerò. E benchè necessario fosse a questo passo addurvi molte scritture, nondimeno un'altra volta farò questo: al presente solamente dirò quelli azzimi esser fatti dalli giudei in memoria della lor liberazione e della fuga fuora dell'Eggitto. E noi una volta sola siamo cristiani, né giamai siamo stati nella fatica delli Egizii: ed è commandamento che dovemo ponere da parte l'osservazioni del sabbato, degli azzimi e della circoncisione, e se alcuno seguiterà un di quelli, come dice san Paolo, è tenuto adimpire tutta la legge, dicendo Paulo: "Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho dato, perciochè in quella notte che egli era tradito pigliò il pane, lo benedisse, santificò, spezzò e diedelo a' santi discepoli, dicendo: Pigliate e mangiate, etc.". Considera quello che io dico: non disse "il Signore, pigliando l'azzima", ma il pane, perciochè in quel tempo non erano azzimi, né la Pasqua si faceva, né allora il Signore mangiava la Pasqua de' giudei, acciochè desse l'azzima agli apostoli, onde per questo è cosa probabile che la Pasqua delli giudei è fatta stando, e mangiasi; il che non è fatto nella cena di Cristo, come dice la Scrittura: "Sedendo con li dodici discepoli", e questo ancora: "Il discepolo si riposò sopra il petto di quello nella cena". Imperochè quello che egli disse: "Con desiderio ho desiderato di mangiare con esso voi la Pasqua", non intende della Pasqua delli giudei, la quale per avanti sempre mangiava con quelli; né manco quando dice "Fate questo in mia commemorazione" la facoltà di fare gl'impone come fosse la Pasqua delli giudei. Similmente non dà a quelli l'azzima, ma il pane, quando dice: "Eccovi il pane il quale io vi do", e a Giuda: "A quello che io darò il pane, tingendo nel cattino, egli è quello che mi dee tradire". Ma se voi dicete cotesta ragione: noi celebriamo negli azzimi perchè non v'è alcuna terrestreità overo commistione nella cose divine, perchè vi sete voi smenticati della divinità, e seguitato il costume delli giudei, camminando nell'eresia d'esso Giuliano, di Maumetto, Apollinare laodicense e di Paulo Sirio samosatiense, di Eutichio e di Diasterio e degli altri, li quali nel sesto sinodo erano eretici sceleratissimi e di spirito diabolico ripieni?
Il sesto errore, finalmente, è dello Spirito Santo: imperochè in che modo dicete voi: "Io credo in Dio Padre e nel Figliuolo e nel Spirito Santo, il quale procede dal Padre e dal Figliuolo"? Certamente è cosa stupenda e orribile a dire che avete ardimento di pervertire la fede cristiana, conciosiachè dal principio, per tutto 'l mondo, in tutte le chiese de' cristiani, fermamente si canta: "Credo in Spiritum Sanctum et Dominum vivificantem et a Patre procedentem, qui cum Patre et Filio simul adoratur et glorificatur". Per qual cagione voi non dicete sí come dicono tutti gli altri cristiani, ma vi ponete aggionte e adducete nuova dottrina, ancor che Paulo apostolo dice: "S'alcuno annuncierà a voi fuora di quelle cose le quali avemo detto a voi, anathema sit "? Iddio voglia che voi non incorriate in cotesta maledizione, perciochè è difficile e orrendo a permutare e pervertire la Scrittura santa di Dio, per li santi uomini composta.
Non sapete quanto questo sia grandissimo errore, perciochè voi adducete due virtú, due volontà e due principii del Spirito Santo, levando e poca stima facendo dell'onore di quello, e all'eresia machidonia sete conformi: il che prego non sia. Io prego, e m'inchino alli santi piedi tuoi, che da simili errori, quali sono infra voi, e specialmente degli azzimi, si cessi totalmente.
Oltra di questo, io volevo scrivervi qualche cosa degli animali immondi e suffocati, e delli monachi che mangiano carne, ma di queste cose un'altra volta (se piacerà al Signore) ne scriverò; ma parcamente, per la gran carità, ti ho scritto quello che ho scritto. Ma se quelle cose che si fanno siano da esser fatte, ricerca le Scritture, e ritroverai la verità. Io ti prego, signore, che tu scriva al signor nostro patriarca di Costantinopoli e alli santi metropolitani, li quali hanno in sé il verbo della vita, e come lumi luceno e risplendono nel mondo, perciochè potrà succedere che 'l magno Iddio, per il mezo loro, sopra gli errori di questa sorte emendi e facci provisione. Dapoi, se ti parerà, tu potrai scrivere a me, che sono il minimo fra tutti gli altri.
Io metropolita della Russia ti saluto, insieme con tutti gli altri chierici e laici, quali ti sono sottoposti: ti salutano similmente con esso meco li santi vescovi, li monachi, e li re, uomini grandi. La carità del Spirito Santo sia sempre teco e con tutti gli altri tuoi, amen".


Seguono li canoni d'un certo Giovanni metropolitano, il quale è detto il profeta; li quali, in quel modo che ho potuto, ho voluto qui aggiungere.

Li putti, in caso di necessità, senza il sacerdote possono essere battezati. Gli animali e uccelli dagli altri uccelli over fere lacerati, non è lecito che siano mangiati; ma quelli che ne mangieranno, o vero negli azzimi celebreranno, o vero nella settuagesima useranno la carne, o vero il sangue degli animali devoreranno, siano ripresi ed emendati. Li uccelli e gli animali soffocati non siano mangiati.
Li Ruteni con li Romani in caso di necessità possino mangiare, ma celebrare no.
Li Ruteni, tutti i Romani non rettamente battezzati (perchè quelli non son stati tutti immersi nell'acqua) alla vera fede convertiscano, e a quelli convertiti non subito si debbe porgere l'eucaristia; e questo medesimo debbesi osservare con li Tartari e con altri uomini diversi e contrarii alla fede sua.
L'imagini antiche e le tavole sopra le quali sono state fatte le consecrazioni non siano abbruciate, ma negli orti, o ver in altro luogo onorevole, siano sepellite, acciochè ingiuria alcuna o vero disonore non ricevino.
Se in luogo sacro edificarai la casa, il luogo dove era l'altare debbesi lasciare totalmente vacuo.
Se quello ch'è maritato entra in qualche monastero, la moglie sua ad un altro si maritasse, costui si può consecrare nel grado del sacerdote.
La figliuola del principe non debbe essere collocata in matrimonio con quella persona la quale la communione negli azzimi e li cibi immondi usa.
Li sacerdoti, nel tempo de l'invernata, debbano portare le mutande della pelle di quelli animali li quali sogliono mangiare.
Quelli che non sono confessati, e che non hanno restituito la robba d'altri, alla santa communione non sono da essere ricevuti.
Li sacerdoti e monachi, al tempo che si balla e salta, non siano presenti alle nozze.
Se un sacerdote scientemente congiungerà la terza volta una persona al matrimonio, sia privato de l'officio.
Volendo la donna che li figliuoli siano battezzati, e non potendo quelli digiunare, lei per quelli debbe digiunare.
Se 'l marito, rinunciata la prima moglie, un'altra ne togliesse, o ver che la sua moglie ad un altro si maritasse, non si debbe accettarlo alla communione se prima non ritorna con il matrimonio della prima donna.
Nissuno sia venduto alla fede d'altri.
S'alcuno scientemente mangierà con li Romani, con le monde orazioni sia mondato e netto.
La moglie del sacerdote, presa dagl'infideli, debbesi riscuotere, e di nuovo nel matrimonio, perchè ha patita violenza, sia ripigliata.
Li mercanti e uomini peregrini, quali nelle parti de' Romani vanno, non siano privati della communione, ma a quella medesima reconciliati siano ricevuti, dandogli però prima alcune orazioni per penitenzia.
Nel monastero non si debbono fare conviti chiamando a quelli le donne.
Il matrimonio non si debbe contraere se non publicamente, nelle chiese.


Seguono le questioni d'un certo Cirillo a Niphonte, vescovo di Nowogardia.

Se l'uomo, dopo la communione, per troppa replezione di cibi, over di bere, vomitasse, che s'è da fare? Rispondo che per quaranta giorni digiunando faccia penitenzia; e se non fosse per replezione, ma per fastidio, per venti giorni; e se per altra causa leggiera, facci manco penitenza. Se 'l sacerdote commetterà una cosa simile, per quaranta giorni dalle cose divine s'astenga e digiuni: ma, se per altra causa leggiera, per una settimana digiuni, e similmente del medone, della carne e del latte astengasi. Ma se 'l terzo e quarto giorno dopo la communione vomiterà, faccia penitenza, e se per caso qualcuno vomitasse il sacramento, per cento e venti giorni faccia penitenza, ma se nell'infirmità vomitasse, per tre giorni faccia penitenza: il vomito abbruci nel fuoco, e dica cento salmi, e se 'l cane mangiasse il vomitato, cento giorni digiuni. E se li vasi di terra, o ver di legno, fossero stati immondi? Rispondo che con le orazioni monde e pure siano mondati.
Per l'anima del morto, che cosa è da fare? Rispondo: dia una grifa per cinque messe, con le fumicazioni, con li pani e col formento cotto, il quale è detto kuthia: ma il sacerdote abbia il vin proprio.
Che dirai se per otto giorni niente abbia dato da mangiare al monaco infermo e con la vesta serafica vestito? Rispondo che hai fatto bene, perchè gli era nell'ordine angelico.
In che modo s'ha da fare, volendo un Italiano secondo il costume rutenico sacrarsi e vivere? Rispondo ch'egli entri nella nostra chiesa per sette giorni, che se gli muti un altro nome e che per ciascun giorno, in presenzia sua, se gli dicano divotamente quattro orazioni; dapoi, che si lavi nel bagno, per sette giorni da carne e da latticini s'astenga, e l'ottavo giorno, lavato, entri nella chiesa: sopra di quello similmente quelle quattro orazioni siano dette. Poi, con vesti monde sia vestito e la corona sopra del capo suo gli sia posta, con l'olio della cresma sia onto, un cereo gli sia dato in mano e, mentre si finisce la messa, sia communicato, e cosí finalmente sia avuto e riputato per nuovo cristiano.
È lecito nelli giorni di festa ammazzare uccelli, pesci o ver altri animali terrestri? Rispondo: nel giorno di dominica, perchè è giorno di festa, l'uomo vada in chiesa; ma per li umani bisogni e necessità è concesso che siano morti.
Il sacramento nella settimana degli ulivi consecrato, è lecito a conservarlo per tutto l'anno? Rispondo che si debbe conservare in vaso mondo e netto, e, quando il sacerdote communica l'infermo, aggiungavi un poco di vino, perchè questo senza l'acqua basta.
È lecito dare il sacramento a uno infermo, indemoniato e matto? Non è lecito, ma basta che solamente le bocche di quelli siano tocche col sacramento.
È lecito ad uno sacerdote che ha moglie, nel tempo che la sua donna vuol partorire, leggerli le orazioni, come si fa alle mogli de' laici? Non è lecito, perciochè tale usanza non è in Grecia, ma un altro sacerdote le può dire.
Nel giorno dell'Esaltazione della santa croce, che si debbe mangiare? Monachi non mangiano pesci, ma i laici, in quel giorno, baciando la santa croce possono mangiar carne, eccetto però se venisse nel giorno di venere o vero di mercore.
È lecito al sacerdote, che la notte dorme con la moglie, la mattina entrare nella chiesa? Rispondo: lavisi prima quella parte la quale è sotto l'ombelico, e poi entri in chiesa, legga l'Evangelio, ma non è permesso che egli s'appressi all'altare, né celebri la messa; ma volendo il sacerdote nelli giorni di domenica e di martedí celebrare, potrà il lunedí praticare con la donna sua, e cosí di mano in mano.
È lecito a communicare uno che non abbi moglie? È lecito, pur che per una quaresima integra non abbia avuto commerzio con la moglie d'altri o vero con animal bruto.
Li fanciulli, dopo il battesimo, sono da esser communicati? Sí, nel tempio sono da esser communicati, mentre li divini officii si fanno, o vero le preci vespertine sono cantate.
Che sorte di cibi, nel digiuno maggiore, è da usare? Nelli giorni della domenica e del sabbato li pesci, ma gli altri giorni gl'intestini delli pesci. Nella settimana santa li monachi mangino il mele e bevino l'acqua acetosa.
Nella consecrazione della kuthia, quanti torchi sono da essere accesi? Per l'anime, due, e per la salute del vivente, tre.
La kuthia, in che modo si debbe fare? Siano tre parti di formento cotto, e la quarta parte di peselli, di fave e di ceci cotti insieme, e siano conditi col mele e col zuccaro, e aggiongavisi ancora degli altri frutti: la qual kuthia, finite l'esequie, si usi in chiesa.
Quando i Bulgari, i Polowczi e li Czudi s'hanno a battezzare? Rispondo che s'hanno a battezzare quando per quaranta giorni aranno prima digiunato, e l'orazioni monde sopra di quelli siano dette; ma se sarà slavo, cioè schiavone, solamente per otto giorni digiuni. Il battizante il putto debbe alzare bene su le maniche, acciochè, mentre battizza il putto, niente rimanga nella veste del lavacro del battesimo. Similmente la donna di parto stia per quaranta giorni che non entri in chiesa.
La donna, dopo il suo mestruo, è da essere communicata? Non si communichi se prima non è lavata.
È lecito entrare nella stanza della donna che ha partorito? In tal luogo non è lecito entrarvi se non dopo finiti tre giorni, perciochè, come gli altri vasi immondi diligentemente sono da essere lavati, cosí quell'abitazione con l'orazioni è da essere prima mondata.
Dopo che 'l sole sarà andato a monte, è lecito a sepelire i morti? Rispondo che no, perchè questa è la corona delli morti, vedere il sole avanti che siano sepeliti. Ma molto merita quello il quale le ossa de' morti e le imagini antiche asconde sotto terra.
È lecito al marito circa le feste di Pasqua communicarsi? Rispondo che sí, quando per tutto il tempo della quaresima non arà praticato con la moglie. Similmente colui che con li denti averà tocco ovi il giorno di Pasqua, e che delle sue gingive sia uscito il sangue, per quel giorno astengasi dalla communione.
È lecito al marito, dopo la communione, la notte seguente praticare con la moglie? È lecito: nondimeno, se la moglie partorirà un putto d'ingegno depravato e goffo, il padre e la madre facciano penitenza di venere, di sabbato e di domenica. Ma se saranno uomini nobili e d'alto legnaggio, li padri diano certe griffne al sacerdote, acciochè egli preghi per quelli.
Se cadesse in terra alcuna carta nella quale si contenessero sacre lettere, è lecito a camminarvi sopra? Rispondo di no.
Il quel giorno che la vacca partorisce, è lecito usare il suo latte? Non è lecito, perchè gli è misto con sangue; ma dopo due giorni sarà lecito.
In che tempo può alcuno essere sospeso dalle cose sacre? Rispondo: il sacerdote, nel tempo del digiuno, preso dalla benevolenza di qualche donna, o ver praticando con esso lei men che onestamente, per un anno integro dalle cose divine astengasi; e se avanti il suo sacerdozio tal cose commettesse, non sia consecrato nell'ordine del sacerdozio. Ma il laico, commettendo peccati e flagizii di questa sorte, quell'anno si communichi, etc.
Oltra di questo, quella persona ch'arà violata qualche vergine, o vero che la prima volta ritroverà la sua moglie violata, non sia consecrato nell'ordine sacerdotale.
Facendo alcun divorzio, in che modo farà egli penitenza? Rispondo: perpetuamente dall'eucaristia s'astenga eccetto per morte.
È lecito ad alcuno, mentre vive, fare l'esequie per la salute sua? Rispondo esser lecito.
Può il marito dare aiuto alla moglie nel compire la penitenzia? Non può, sí come il fratello l'altro fratello.
In quel giorno che 'l sacerdote sepelisce il morto e che bacia quello, debbe egli ministrare le cose sacre? Rispondo che no.
Una donna di parto che ha una infermità disperata debbesi communicare? Sí, pur che si levi da quel luogo dove ha partorito e sia portata e lavata in altro luogo.
È lecito praticare con la moglie nel luogo dove sono imagini de' santi? Rispondo: appresentato alla moglie, non deponi tu la croce dal collo? Similmente non è lecito che tu pratichi con la moglie in quella abitazione al conspetto dell'imagini, se però non siano ben serrate e chiuse.
È lecito, subito che tu ti levi da disinare, o ver da cena, avanti che tu dorma nel tempio fare orazione? Rispondo: quale è meglio, dormire o vero orare?
Può il sacerdote senza l'abito sacerdotale andare all'infermo e quello communicare? Può.
In che modo le mogli sono da essere tolte, volendo menar moglie? Per quaranta, o vero almanco per otto giorni, astengasi dall'altre donne.
La donna che disperde deve far penitenza? La donna, non per qualche disgrazia, ma essendo imbriaca, se disperdesse, faccia penitenzia. Similmente, quella donna la quale darà a bere al suo marito dell'acqua con la quale essa si lava, acciò sia amata da esso, per sei settimane debbe digiunare.
È permesso di poter mangiare della carne e del latte di quella vacca con la quale l'uomo ha praticato? Tutti ne possono usare, eccetto quello ch'ha fatto l'errore.
È lecito che la donna gravida usi il consiglio delle vecchie, in che modo la debbia partorire? Rispondo: le donne che usano piú presto per consiglio delle vecchie l'erbe, acciò possano partorire, che 'l consiglio delli sacerdoti, li quali aiutano quelle con le orazione, per sei settimane facciano penitenzia, e al sacerdote tre griffne numerino.
Se per sorte uno ebbriaco offenderà talmente una donna gravida che disperda, per mezo anno faccia penitenza; e le commari similmente per otto giorni non entrino in chiesa, insino a tanto che non siano mondate con le orazioni e preghiere.


Del battesimo.

Li putti sono battezzati in questo modo. Nato il fanciullo, chiamano il sacerdote, il quale, avanti l'abitazione nella quale è la donna che ha partorito, stando in piedi recita alcune orazioni, e impone il nome al putto. Dapoi communemente quaranta giorni, se per caso il putto s'ammalasse, è portato nel tempio a battezzare, e cosí per tre volte tutto è immerso nell'acqua, perchè altramente non credono che sia battezzato; dapoi è unto con la crisma, la quale è consecrata nella settimana santa, e finalmente è unto ancora con la mirra, come essi dicono. E l'acqua del battesimo ogni volta per ciascun putto è benedetta e consecrata; e subito ch'è finito il battesimo l'acqua è gettata fuora della porta del tempio, perchè li fanciulli sempre son battezzati dentro nel tempio, eccetto se la troppa lontananza del luogo, o ver il gran freddo, al fanciullo nocesse. Né mai usano l'acqua tepida, eccetto che alli fanciulli infermi. Quelli che tengono al battesimo, cioè li compari, sono chiamati secondo che piace al padre e alla madre del putto, e qualunque volta con certe parole renunciano al demonio con le sue pompe, tante volte sputano in terra. E il sacerdote eziandio taglia li capegli del putto, e quelli con la cera aviluppa e in certo luogo del tempio gli ripone; e in questo loro battesimo non usano né sale né saliva con la polvere.


Seguita la bolla di papa Alessandro, per la quale il battesimo delli Ruteni facilmente è manifesto.

"Alessandro, vescovo e servo delli servi d'Iddio, a perpetua memoria etc. L'altezza del divino consiglio, che la ragione umana da sé non può compreendere, per l'essenzia della sua immensa bontà altra cosa sempre a salute della generazione umana germinando, al tempo conveniente con secreto misterio che 'l magno Iddio ha conosciuto produce e manifesta al mondo, acciochè gli uomini conoscano che per li suoi meriti, da sé, non possono fare niente, ma che la salute loro e ogni dono di grazia dal sommo Iddio e dal padre delli veri lumi nasce e proviene.
Certamente non senza grande e spirituale allegrezza della mente nostra, avemo inteso che alcuni Ruteni del ducato della Lituania e altri, quali secondo il rito e costume de' Greci vivono, facendo nondimeno professione della fede cristiana, li quali le città e diocesi vilnense, kijowiense, lutzeoriense e mednicense e altri luoghi di quel ducato abitano, per opera dello Spirito Santo illuminati, alcuni errori, quali insino adesso, secondo il costume greco vivendo, hanno osservato, totalmente dalle lor menti e cuori sradicare, e l'unità della fede catolica e della Chiesa latina romana abbracciare e secondo la religione di quella latina e romana Chiesa vivere desiderano e propongono. Ma perchè secondo il costume greco, cioè nella terza persona, sono stati battezzati, e alcuni affermano quelli di nuovo dover essere battezzati, li sopradetti, li quali secondo l'usanza greca sono vissuti e ancora vivono, come per avanti catolicamente battezzati, ricusano voler di nuovo ribattezarsi.
Noi adunque, li quali, secondo il precetto superno a noi concesso, benchè insufficienti siamo, e secondo l'officio pastorale desideriamo tutte le pecorelle a noi commesse al vero ovile di Cristo condurre, acciochè per quella sia fatto un pastore e un ovile, e acciochè la santa catolica Chiesa non abbia membri diversi, difformi e diseguali al capo suo, ma conformi, uniti ed eguali, accuratamente avemo considerato quello che fu definito per la felice memoria di papa Eugenio quarto, predecessor nostro, nel concilio celebrato in Fiorenza da esso, dove furono presenti e Greci e Armeni, consenzienti e conformi con la romana Chiesa: cioè che la forma di questo sacramento del battesimo dovesse essere in questo modo: ego te baptizo in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, amen, o veramente cosí, con quell'istesse parole: baptizetur talis servus Iesu Christi in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, o veramente cosí: baptizetur manibus meis talis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, amen, e cosí in questo modo il vero battesimo esser perfetto e buono. Perciochè la causa principale di quello, dalla quale il battesimo ha la virtú, è la santa Trinità, e la causa instrumentale è il ministro, il quale dà il sacramento esteriormente; e però se è esposto l'atto, il quale è esercitato per esso ministerio, con l'invocazione della santa Trinità, è fatto il sacramento, e per questa causa la reiterazione di questo sacramento nella terza persona collocata non essere necessaria.

Similmente sopra questa materia insieme con li nostri fratelli avemo maturamente deliberato e considerato; e cosí, con l'auttorità apostolica, a noi e agli altri romani pontefici da esso Iesú Cristo, Signor nostro, per il mezo del beato Pietro al quale e agli altri successori del suo apostolato la dispensazione del ministerio ha concessa, dataci, col tenore del presente breve deliberiamo e dichiariamo che tutti quelli li quali sono battezzati nella terza persona, volendo dal rito greco al rito e costume della latina e santa romana Chiesa venire, semplicemente, senza altra contraddizione over obligazione e constrengimento che di nuovo siano ribattezzati, con questa intenzione però, che eziandio gli altri riti per le Chiese orientali soliti da essere servati (pur che non abbiano in sé eretica pravità) possano osservare; e cosí, facendosi primamente per quello l'abiurazione di tutti gli errori e di tutti li riti greci della latina e romana Chiesa e delli riti e sante instituzioni di quella differenti, posson esser ricevuti nel consorzio de' fedeli. Esortando eziandio per le viscere della misericordia del nostro Iddio tutti e ciascun di quelli li quali al preditto modo sono battezzati, e secondo il rito greco vivono, che abnegati tutti gli errori li quali insino adesso secondo il costume e rito greco hanno osservati, e quelli similmente che sono contrarii all'immaculata e santa catolica latina e romana Chiesa, e alle constituzioni approbate dalli santi uomini di quella, voglino a quella medesima catolica Chiesa e a' saluberrimi documenti di quella per la salute dell'anime loro e per la cognizione del vero Iddio accostarsi.
E acciochè il santo proposito di quelli da qualsivoglia cosa non possa essere impedito né ritardato, al presente al venerabile fratello nostro, il vescovo vilnense, in virtú della santa ubidienza commettemo che riceva e ammetta tutti coloro che, cosí battezzati, all'unità della prefata Chiesa latina vogliono venire e li sopradetti errori totalmente abiurare, per se stessi, o vero per altra persona, o vero per altri secolari prelati ecclesiastici, o ver per li predicatori dell'ordine de' frati minori della regola degli osservanti, dotti e da bene, o vero per altre idonee persone, alli quali piú gli piacerà di commettere. Similmente al prefato vescovo e a quelli ch'egli sopra di ciò eleggerà, con l'auttorità apostolica concedemo piena e libera licenzia e facoltà d'assolvere tutti quelli ch'egli troverà in simili errori incorsi e nell'eretica pravità immersi; similmente di poterli assolvere della sentenzia dell'escommunicazione e dell'altre censure e pene ecclesiastiche, e a quelli possano dare la salutare penitenza per li peccati loro.
Ma perchè sarebbe cosa difficile le presenti nostre lettere portar a tutti quei luoghi che sarebbe necessario, noi volemo, e con l'istessa auttorità apostolica deliberiamo, che alla copia di queste, di mano d'un publico notaio e col sigillo del prefato vescovo vilnense, o ver d'altro vescovo, o ver prelato ecclesiastico bollata, tanta fede si presti, in giudicio e in ogni luogo dove sarà dato e dimostrato, quanta ad esse proprie lettere originali prestare si dee, non ostanti le constituzioni e ordini apostolici e altri contrarii di ciascuna sorte. A nissun uomo adunque sia lecito di violare, o ver con temerario ardimento impedire, questa carta della nostra constituzione, dichiarazione, esortazione, commissione, mandato, concessione, volontà e decreto: e se alcuno per sorte avesse ardimento di tentare questo, sappia di dover incorrere nell'indegnazione dell'onnipotente Iddio e delli beati apostoli Pietro e Paolo.
Date in Roma, appresso San Pietro, nell'anno dell'incarnazione del Signore 1501, decimo kal. septembris, nell'anno nono del nostro ponteficato".


Del modo di confessarsi.

Benchè abbino la confessione secondo l'ordine e constituzione loro, nondimeno il volgo crede quella essere delli principi, e particolarmente alli nobili signori e agli uomini piú prestanti appartenere. Si confessano circa la festa di Pasqua, con gran contrizione di cuore e venerazione. Sta il confessore insieme col confitente in mezo del tempio, col viso voltato ad una certa imagine a quest'effetto ordinata, e dapoi, finita la confessione e impostagli la penitenza secondo la qualità del peccato, amendue a quell'imagine riverentemente s'inchinano, e col segno della santa croce si segnano la fronte e il petto; e dapoi finalmente con gran pianto esclamano: "Iesu Christe, fili Dei, miserere nostri": perciochè questa è la commune e usitata orazione di quelli. Ad alcuni per penitenzia danno il digiuno, ad alcuni certe altre orazioni (perciochè pochissimi sanno l'orazione dominicale), e alcuni, li quali qualche cosa piú grave avessero commesso, con l'acqua gli lavano; perciochè nell'Epifania del Signore cavano su l'acqua del fonte, e quella, benedetta e consecrata, per tutto l'anno nel tempio per mondare e lavare li piú gravi peccati conservano. Oltra di questo, il peccato che nel giorno di sabbato è commesso, piú leggiero giudicano, e per questo manco penitenzia gl'impongono.
Sono molte cause, e di poco momento, per le quali non sono ricevuti dentro nel tempio: nondimeno, quelli che sono esclusi, il piú delle volte alle porte e alle fenestre del tempio sogliono stare, di dove non manco vedono e odono le cose sacre che se fossero dentro. Colui il quale praticherà con la sua donna, e dopo l'ordinato tempo non si laverà, per quel giorno non arà ardimento d'entrare nel tempio.


Della santa communione.

Si communicano sotto l'una e l'altra specie, mischiando il pane col vino, o vero il corpo col sangue; con un cucchiaro il sacerdote piglia dal calice una porzione, e quella porge al communicante. Quante volte fra l'anno alcuno si vuole communicare, pur che sia confessato, gli è concesso; e nondimeno hanno il tempo limitato e ordinato per la festa della santa Pasqua. Alli putti di sett'anni porgono il sacramento, dicendo allora l'uomo peccare. Se il putto fosse infermo, o ver mandasse fuora l'anima e non potesse pigliare il pane consecrato, una goccia del calice se gl'infonda giú per la bocca. Il sacramento per communicare non è consecrato se non allora quando qualcheduno si vuol communicare; per gl'infermi si consacra nel giovedí della settimana santa, e si conserva per tutto l'anno, ma quando è necessità, il sacerdote piglia una certa porzioncella e quella mette nel vino, cosí bene imbevuta e fatta molle la porge all'infermo, e aggiungendovi un pochetto d'acqua tepida.
Nissuno delli monaci, overo delli sacerdoti, dice l'ore canonice se non ha avanti di sé la imagine, la quale eziandio nissuno tocca se non con grandissima venerazione; ma colui che la mostra in publico, con la man propria l'alza in alto: a questa imagine tutti quelli che passano si cavano la berretta, segnandosi col segno della croce e inchinandosi. I libri dell'Evangelio non ripongono se non in luoghi onestissimi, come cosa sacra, né con le mani li toccano se prima non si fanno il segno della croce, e col capo aperto e inchinato il debito onore gli prestano; e poi con somma venerazione quelli pigliano in mano. Similmente il pane, avanti che con le parole consuete, secondo il nostro costume, sia consecrato, lo portano per chiesa, e quello riveriscono e adorano.


Delle feste.

I giorni delle feste sono dagli uomini di maggior venerazione, finite le sacre vivande, col bevere e con vestimenti eleganti onorati; ma la plebe, i domestici e altri servi il piú delle volte lavorano, dicendo che 'l guardare le feste e astenersi dalla fatica s'appartiene a' padroni. Li cittadini e persone mecanice sono presenti alle cose divine, le quali finite, ritornano alla fatica, pensando essere piú santa cosa e piú lodevole dar opra alla fatica che bevendo, mangiando e giuocando perdere la sostanza e il tempo; perciochè al volgo e alla plebe il bere della cervosa e del medone è proibito, nondimeno, in certi giorni piú solenni, come sarebbe nel Natale del Signore, nella Pasqua di Resurrezione, nelle Pentecosti e in alcuni altri giorni, è concesso loro, nelli quali dí non s'astengono dalla fatica per cagione del culto divino, ma solamente per poter benissimo bere.
La festa della Trinità celebrano nel giorno di luni nelle ferie delle Pentecosti, e nell'ottava di quella fanno la festa di Tutti i Santi. Ma il giorno del Corpo di Cristo non hanno in venerazione, secondo il nostro costume.
Giurando e bestemmiando, rare volte usano il nome d'Iddio, ma, quando giurano, con il segno della croce confermano ciò che dicono o promettono. Le bestemmie di quelli sono communi con quelle degl'Ongheri, dicendo: "Il cane la madre tua sottometta", etc.


Del purgatorio.

Non credono che sia purgatorio alcuno, ma dicono a ciascuno che muore essergli ordinato il luogo secondo 'l merito suo: alli pii, lucido e chiaro, con gli angeli piacevoli, e agl'impii oscuro e di cieca caligine coperto, con gli angeli terribili, dove l'estremo giudicio aspettino. Dicono che dal luogo de' giusti l'anime loro, insieme con gli angeli, conoscono la grazia d'Iddio, e che sempre desiderano l'estremo giudicio; e che l'anime degl'impii non lo desiderano. Non pensano che l'anima, separata dal corpo, possa patire pena alcuna, ma che, mentre è unita col corpo e per vizii umani si contamina, quella insieme col corpo dover essere purgata. Fanno celebrare le messe per li morti, perchè credono per tal sacrificio di poter ottenere e impetrare luogo piú quieto e piú tollerabile all'anime de' morti, dove piú facilmente possano aspettare il giudicio futuro. Li cimiterii per sepelire li corpi non consacrano, dicendo essa terra per li corpi unti e consacrati, e non li corpi per la terra esser consecrati.


Della venerazione de' santi.

Fra li santi, hanno in grandissima venerazione un Nicolò barese, e di quello ogni giorno predicano grandissimi miracoli, de' quali uno voglio raccontare. Un certo Michele Kijsaletzki, uomo grande e valente nell'arte della milizia, in un certo conflitto de' Tartari perseguitando un certo fuggitivo soldato tartaro, e non potendo quello col suo corrente cavallo arrivare, disse il Moscovita: "O Nicolò, conducimi appresso di questo cane". Il Tartaro, udendo questo, tutto impaurito esclamò: "O Nicolò, se costui con l'aiuto tuo m'aggionge, tu non farai miracolo; ma se tu me, che son lontano dalla tua fede, dalla persecuzione di quello salvo mi serverai, allora il nome tuo sarà grande". Allora dicono che 'l cavallo del Moscovito fermossi, e che 'l Tartaro scampò via dalle sue mani; e cosí il sopradetto Tartaro ogni anno, in memoria della sua liberazione, ha mandato certe misure di mele a san Nicolò, e altrettante al prefato Michele, aggiuntavi eziandio una veste onorevole di pelle madaurice.


Del digiuno.

Digiunano nella quadragesima per sette continue settimane: nella prima usano latticinii, e quella settimana chiamano syrna, cioè caseacea; ma nell'altre seguenti settimane, tutti (eccetto quelli che vanno per viaggio) dal mangiar pesci s'astengono. Sono di quelli che solamente nelli giorni di domenica e del sabbato pigliano cibo, e negl'altri giorni da ogni cibo s'astengono. Similmente sono di quelli li quali ne' giorni di domenica, di martedí, di giovedí e di sabbato pigliano cibo, e gli altri tre giorni non mangiano niente. Si ritrovano ancora molti li quali nelli giorni di lunedí, di mercore e di venere si contentano solamente d'un pezzo di pane con un poco d'acqua. Gli altri digiuni fra l'anno non cosí strettamente osservano: digiunano doppo l'ottava della Pentecoste, la quale è a loro il giorno di Tutti li Santi, insino alla festa di san Pietro e di san Paolo, e chiamasi il digiuno di Pietro. Dapoi hanno il digiuno della beata Vergine, dal primo d'agosto insino all'Assonzione della Madonna. Similmente hanno il digiuno di san Filippo, cioè l'Advento del Signore, e dura per sei settimane; è detto di san Filippo perchè nel principio di tal digiuno viene la festa di san Filippo, secondo il loro calendario. Oltra di questo, se la festa di san Pietro e di san Paolo, overo l'Annunciazione della Madonna, venisse nel giorno di mercore o ver di venere, allora in tal giorno non mangiano carne. Di nissuno santo fanno la vigilia, eccetto che nella Decollazione di san Giovanni, la qual è alli 29 d'agosto, ogni anno l'osservano. Finalmente, se nel digiuno grande della quadragesima qualche giorno solenne, come sarebbe l'Annunciazione della Madonna, viene, mangiano pesci. Alli monachi digiuni molto piú gravi e piú molesti sono imposti, perciochè quelli bisogna che si contentino solamente d'una certa bevanda e mistura, la quale kwas chiamano, cioè pozione, over bevanda acetosa e acqua mista col formento. Alli sacerdoti l'acqua mulsa e la cervosa in quel tempo è divietata, benchè al presente tutte le leggi e statuti umani mancano e sono vietati. Fuori del tempo del digiuno, nel giorno del sabbato mangiano carne, e nel mercordí da quella s'astengono.
Li dottori che loro seguitano sono questi: Basilio Magno, Gregorio e Giovanni Grisostomo, il quale chiamano slatausta, cioè bocca d'oro. Non hanno predicatori, ma pensano esser bastevole l'essere stato presente alli divini ufficii e aver udito le parole dell'Evangelio, dell'Epistole e degli altri dottori, li quali il sacerdote recita nella lingua loro volgare; e credono di fuggire molte eresie, le quali il piú delle volte dalle prediche nascono e derivano. Nel giorno della dominica annunciano le feste della settimana, e recitano la pubblica confessione; e finalmente, quel tutto ch'essi vedono il lor principe credere, quello statuiscono esser retto e buono e da tutti dover essere seguitato e osservato.
Essendo in Moscovia, intendessimo il patriarca di Costantinopoli, a richiesta del duca di Moscovia, aver mandato già un certo monaco, chiamato Massimiliano, acciochè tutti li libri, canoni e tutti li statuti alla fede pertinenti con retto giudicio in ordine reducesse.
Il che avendo fatto, e molti gravissimi errori castigati ed emendati, in presenza del principe disse quella persona essere scismatica la quale il romano o vero il greco rito non seguitasse. Il che detto, non molto doppo (quantunque il principe gli volesse grandissimo bene) dicesi che sparí, ed è opinione di molti che fosse annegato. Era già il terzo anno, quando noi eravamo in Moscovia, che si diceva un certo Marco greco, mercante di Capha, questo medesimo aver detto, e per questo esser stato preso, e benchè l'ambasciatore turchesco con preghiere grandissime pregasse per lui, nondimeno esser fatto morire.
Georgio greco, cognominato il Picciolo, tesoriero, cancelliero e supremo consigliero del principe, perchè quella medesima causa favoreggiava e difendeva, subito da tutti gli ufficii fu remosso, e dalla grazia del principe cadde. Ma conciosiachè 'l principe non potesse in alcun modo esser privo dell'opra di sí fatto uomo, di nuovo nella sua grazia fu ricevuto, ma ebbe diverso carico. Fu uomo di singolare dottrina, e di sperienza di molte cose ornato, il quale con la madre del principe era venuto in Moscovia. Costui era dal principe avuto in tanta venerazione che, avendolo una volta il principe chiamato avanti di sé ed essendo infermo, commandò ad alcuni delli suoi primi consiglieri che con la lettica nella abitazione d'esso lo portassero; ma, essendo nella corte pervenuto, ricusò d'essere portato per sí alte scale, e cosí, uscito della lettica, a poco a poco egli medesimo avanti il principe se n'andò. Il che il principe avendo a sdegno, comandò che fosse posto nella lettica e portato al suo conspetto, e cosí, communicati con quello li suoi consigli e finiti li lor negozii, comandò che fosse nella lettica reportato a casa, e volse che per l'avvenire in quel modo fosse sempre portato.
La principal cura delli religiosi è che tutte le sorti d'uomini alla fede loro conducano. Li monachi eremiti già buona parte delli idolatri, con la predicazione del verbo d'Iddio, alla fede di Cristo hanno tirato; vanno eziandio alcuna volta in diversi paesi verso il settentrione e l'oriente, con grandissime fatiche, con fame e grandissimo pericolo della vita: né sperano di riportarne altra commodità, ma solamente hanno riguardo di fare cosa grata al magno Iddio, e, pur che possano l'anime di molti, in diversi errori condotte, nella via retta e buona rivocare e a Cristo salvator nostro guadagnare, alcuna volta alla propria morte espongono la vita loro.
È ancora in Moscovia un famoso monastero della Santa Trinità, il quale è distante dalla città principale, verso occidente, per dodici miglia tedeschi. Ivi è sepelito san Sergio, il quale dimostra molti miracoli, e con mirabile concorso e pietà di gente e di popoli è celebrato. A questo monastero sovente va il principe, ma la gente minuta ogn'anno a certi giorni là concorre, e con liberalità del monastero è nutrita. Dicono essere in tal luogo un certo vaso di rame stagnato, nel quale cibi ed erbe vi si cuocono, onde, o pochi o molti che vi vadano, sempre nondimeno tanto di cibo vi rimane che la famiglia di quel monastero si può saziare, di modo che né mai manca, né mai ve n'avanza, etc.


Delle decime.

Wolodimero, nell'anno 6496, venuto al vivo fonte del santo battesimo, ordinò, insieme con Leone metropolitano, che si dovessero dare le decime di tutte le cose umane a beneficio de' poveri, di pupilli, degl'infermi, di vecchi, de' forestieri, de' prigioni e di quelli che non hanno il modo di sepelirsi, e di quelli ch'avessero gran famiglia, e di quelli che sono stati ruinati dal fuoco, e finalmente per sostegno della necessità di tutti li miseri, per li monasterii e per le chiese de' poveri, e principalmente per refrigerio e de' morti e de' vivi. Similmente, il prefato Wolodimero sottopose alla potestà e giurisdizione spirituale tutti gl'abbati, li preti, diaconi e tutto lo stato di chierici, monachi, le monache e altre pizzocchere, le quali in lor linguaggio proscurnice chiamano. Similmente ha sottoposte le moglie, i figliuoli delli sacerdoti, li medici, le vedove, le ostetrici o ver comari, e quelli li quali da qualche santo hanno ricevuto miracoli, e quelli che fossero stati liberati per la salute di qualche anima, e finalmente ciascuno delli ministri delli monasteri, ospitali, e quelli che le veste di monaci finiscono. E però tutto l'odio, discordia e rissa che fra le dette persone nasce, il vescovo, come giudice competente, può giudicare: ma, se fra li laici e questi qualche controversia nascesse, per giudicio commune debbe essere determinata.
Le proscenice sono quelle donne le quali non partoriscono piú, e non hanno piú il suo fiore, e sono quelle che cuocono il pane per fare il sacrificio, il qual pane proscura chiamano.
Li vescovi, tanto fra li knesi quanto fra' gentiluomini e fra tutti i secolari che tengono concubine, debbono ordinare il divorzio. Similmente, alla giurisdizione sua appartiene quando la moglie non è ubidiente al marito, s'alcuno fosse ritrovato in adulterio, o vero fornicazione, se avesse tolta per moglie una che fosse sua consanguinea, e quando il marito qualche gran male contra la moglie si sforzasse di fare; similmente, gl'indovinatori, gl'incantatori, i veneni, le dispute per causa dell'eresia, o ver fornicazione, prese; o vero se 'l figliuolo acerbamente avesse ripreso e offeso il padre e la madre e parimente le sorelle. Oltra di questo, li sodomiti, i sacrilegi, gli spogliatori de' morti, e quelli che per far incantamento hanno tolto alcuna cosa delle imagini de' santi, o ver della statua della croce; quelli che cane, uccello, vero altro animale immondo hanno condotto nella chiesa sacra d'Iddio, o vero hanno mangiato. Oltra di questo, debbono ancora li vescovi ordinare e statuire tutti li pesi e misure delle cose umane; ma nessuno si maravigli se le predette cose si ritrovano diverse e contrarie da cotesti canoni e ordini fatti, perciochè non sono tanto per vecchiezza mutate, quanto per ingordigia di danari corrotte e guaste.
Il principe, quando il suo metropolita riceve nel convito, gli dà il piú onorato luogo degli altri, in absenzia degli altri suoi fratelli; ma nell'esequie funerali, invitando a quelle il metropolita e altri vescovi, esso principe nel principio il cibo e il bere gli porge, dapoi un suo fratello, o qualche altro uomo grande, constituisce, il quale in nome suo serva a quelli insino al fine del convito.
Essendo io desideroso d'intendere quelle cerimonie le quali usano nel tempio nelli giorni solenni, finalmente l'ottenni. Nel tempo de l'una e l'altra mia legazione, nella festa dell'Assunzione della Madonna, la quale viene alli quindici d'agosto, essendo io entrato nel tempio maggiore, ornato di verdi frondi degli arbori, io viddi il principe alla man destra d'una porta, per la quale era entrato, standosi fermato in un bastone, chiamato possoch, col capo discoperto, appresso del muro; e avanti di sé v'era uno, il quale nella sua destra teneva il cappello, o altro coprimento di testa del principe; dapoi li consiglieri del principe stavano fermati alle colonne del tempio, dove ancora noi fossimo condotti. Nel mezo del tempio, sopra un tavolato, stava il metropolita, solennemente vestito, e portava una mitra rotonda, la quale di sopra era ornata di piú imagini di santi, e disotto di pelli armelline, e teneva in mano similmente il suo bastone, come faceva il principe; e, mentre gli altri cantavano, insieme con li suoi ministri orava. Dapoi, verso del coro e alla man sinistra, contra il nostro costume, rivoltatosi, per la porta minore andò fuora, andando avanti li cantori, sacerdoti e diaconi: delli quali v'era uno, il quale nella patena sopra del capo portava un pane per il sacrificio, e l'altro portava il calice coperto, e gli altri poi cosí indifferentemente, e con grande acclamazione e venerazione del popolo circonstante, portavano l'imagini di san Pietro, di san Paolo, di san Nicolò e di sant'Arcangelo. Alcuni delli circonstanti esclamavano: "Signore, abbi misericordia di noi"; altri, secondo la lor usanza, toccavano la terra con la fronte, piangendo. Il volgo, con varia maniera di venerazione e culto, seguitava le sopradette imagini. Dapoi, finita la processione, per mezo la porta del coro entrorono in chiesa, e subito il sacro officio cominciorono: ma tutto il sacrificio, o vero messa appresso di loro si suol dire in lingua volgare, e l'Epistola e il sacro Evangelio, fuora del coro, con alta e chiara voce sono annunciati dal sacerdote, acciochè piú facilmente possano essere intesi e conosciuti dal popolo circonstante. Nella prima mia legazione, nella medesima festa della Madonna, io viddi piú di cento uomini li quali senza altro riguardo circa la fossa della rocca lavoravano: perciochè solamente li principi e altri gentiluomini, come diremo qui di sotto, sogliono guardare le feste.


Il modo over ordine di contraere il matrimonio.

È cosa disonesta e vergognosa ad un giovane dimandare una donzella per moglie, ma è officio del padre della vergine parlare col giovane, acciochè tolga per moglie la sua figliuola. Il piú delle volte sogliono parlare con simili parole: "Avendo io una figliuola, volentieri io ti vorrei per mio genero"; al quale rispondendo, il giovane dice: "Se tu mi desideri per genero, e che cosí pare a te, io parlerò con li padri miei"; e dapoi, se 'l padre, la madre e gli altri parenti sono contenti, convengono insieme della dote che vuol dare il padre della figliuola, dapoi s'ordina il giorno alle nozze. Fra questo mezo, lo sposo dalla casa della sposa sí fattamente è rimosso che, se per sorte egli richiedesse di volere almanco vedere la sposa, li parenti di quella sogliono rispondergli: "Conosci e intendi dagli altri, li quali l'hanno conosciuta, quale essa si sia". Gli sponsalizii o ver nozze di quel paese sono con pene grandissime confermate e stabilite, acciochè 'l sposo non possa, ancora ch'egli volesse, repudiarle altramente. Non gli è permesso l'entrare nella casa della sposa. Per nome di dote al piú delle volte sono dati cavalli, veste, lancie, animali, servi e simili cose; gl'invitati alle nozze rare volte offeriscono danari, nondimeno doni e altri presenti mandano alla sposa, li quali doni lo sposo, diligentemente notati, in cassa gli pone. Dapoi, finite le nozze, di nuovo gli considera, e di quelli, se vi fossero alcune cose a l'uso e commodo suo necessarie e utili, quelle manda in piazza, e comanda che siano stimate per quelli li quali hanno questo carco; l'altre robbe tutte, a una per una, con riferimento di grazie a ciascuno rimanda indietro. E quelle robbe che ritiene per sé, in spazio d'un anno, secondo la stima fatta, o in danari o in qualche altra cosa d'eguale valore compensa; e se, per sorte, qualcuno stimasse di maggior valuta il suo presente, allora lo sposo subito agl'istimatori ricorre, e constringe quello a star saldo e fermo secondo la stima loro. Similmente, se 'l sposo, dopo il tempo scorso, non avesse satisfatto, o vero che 'l dono ricevuto non avesse restituito, è tenuto a satisfare il doppio: finalmente, se ricuserà di dare il dono di qualcuno alli stimadori da essere istimato, secondo l'arbitrio e volontà di quello che ha dato il dono è costretto a pagare. E questo costume in ogni liberalità o maniera di donazione communemente sogliono osservare.
Non fanno matrimonio che tocchi il quarto grado di consanguinità, e hanno per eresia se alcuno togliesse per mogli le sorelle germane; e niuno ha ardimento di torre per moglie una sorella d'un suo parente. Similmente, severissimamente osservano che quelli non siano nel matrimonio mischiati, fra li quali la cognazione spirituale del battesimo vi sia intervenuta. S'alcuno, dopo la morte della prima moglie, un'altra ne torrà, lo concedono; ma difficilmente pensano che sia legitimo matrimonio, e la terza moglie, senza urgentissima causa, non permettano: la quarta a nissun concedono, ed eziandio quello non esser cristiano giudicano. Consentono al divorzio, e tolerano il libello del repudio: quello nondimeno grandemente tengono occulto, perchè sanno che è contra la religione e statuti. Avemo detto di sopra il principe di Moscovia Salomea sua moglie, per cagione di sterilità, aver repudiata e nel monasterio rinchiusa, ed Elena, figliuola di knes Basilio Linski, aver tolta per moglie. Similmente, già alcuni anni, un certo Basilio Bielski di Lituania in Moscovia era scampato, lasciando la moglie giovane, bella e fresca in mano degli amici, li quali, come fedeli, per longo tempo appresso di loro la ritennero (perciochè pensavano quello per amore e desiderio della sposa sua di nuovo dover ritornare, il che non fu fatto); ma esso, conferita la causa della moglie col metropolita, il metropolita gli disse: "Quando non per tua cagione, ma per colpa della moglie e de' parenti a te non sia lecito essere con lei, io ti faccio grazia della legge e da quella ti assolvo". La qual cosa udita, un'altra donna, nata della progenie de' principi resanensi, tolse per moglie, della quale eziandio n'ebbe figliuoli, li quali avemo veduti essere in gran stima appresso il principe.
Non chiamano adultero se non quello ch'ha goduta la moglie d'un altro. L'amore delli congionti in matrimonio al piú delle volte è tepido, e specialmente de' nobili, li quali menano moglie non l'avendo mai veduta, ed essendo occupati nelli servizii del principe, sono sforzati talora d'abbandonarla, e tra questo mezo con sozza e aliena libidine si macchiano.
La condizione delle donne è miserissima, perchè non credono nissuna essere onesta e buona, se non quella la quale vive in casa chiusa e serrata, e di tal sorte è custodita che mai quasi viene fuora. Similmente poco casta e pudica stimano quella la quale da' forestieri e gente esterna è veduta. Serrate in casa, filano solamente, inaspano il filo, non hanno a fare alcun negocio di casa, ma tutte le fatiche domestiche e familiari sono delli servi. Abborriscono tutto ciò ch'è soffocato per man delle donne, sia o gallina overo altra sorte d'animale, come cosa impura e maculata. Le mogli di quelli che sono piú poveri pigliano le fatiche di casa e cuocono. Se per sorte i lor mariti sono absenti, e li servi, e che volessero ammazzare le galline, stanno in su le porte, tenendo la gallina, o vero altro animale, e il coltello in mano, e pregano con grand'instanzia gli uomini che passano che vogliano ammazzare le sue galline.
Rarissime volte le donne vanno in chiesa, e rare volte parlano ancora con gli amici, eccetto se non fossero vecchissimi, e fuora d'ogni sospezione; nondimeno, in certi giorni di festa, per lor diporto e per recreazione dell'animo, concedono alla moglie e alle figliuole che in prati amenissimi e floridi possano ritrovarsi: dove sopra una certa ruota, alla similitudine della Fortuna sedendo, scambievolmente di sopra e di sotto si muovono, o vero attaccano una fune in alto e, sopra quella standovi, ora qua e or là spinte sono portate e mosse, o vero che con certi canti e con certo sbattimento di mani per se stesse prendono diletto e piacere. Ma totalmente sono lontane da' balli e altre saltazioni.
È in Moscovia un certo Alemanno fabro, cognominato Giordano, il quale aveva tolto per moglie una donna rutena. Costei, essendo stata longamente appresso del marito, un giorno, venutagli certa occasione, amichevolmente gli disse: "O mio carissimo marito, perchè non mi ami tu?" Rispose il marito: "Io ti amo grandemente". Disse la moglie: "Ancora non ho veduto segno alcuno d'amore". Rispose il marito: "Che segno ricerchi tu da me?" "Il segno è che tu non mi hai mai battuta". Disse il marito: "Certo le battiture non mi paiono segni d'amore; nondimeno in questa parte non mancherò punto", e cosí, non molto dapoi, crudelissimamente battette la moglie, ed egli confessomi che la moglie gli volea maggior bene che prima; e cosí, procedendo spesse volte a batterla, tanto la batté che, essendo noi in Moscovia, gli ruppe il collo e le gambe.
Tutti confessano esser servi del principe; similmente i piú nobili in maggior parte hanno li servi comprati, o vero presi; quelli servi che sono liberi, non è lecito partirsi quando gli piace, e quando si parte contra la volontà del padrone, nissuno ha ardimento di torlo in casa. Se un padrone non tratta bene un buono e fedele servo, è fatto quasi infame e vituperato appresso gli altri, né per l'avvenire può aver grazia di tener altri servi appresso di sé.
Quella gente gode piú la servitú che la libertà, perciochè molti, che sono per morire, alcuni delli lor servi fanno liberi, li quali nondimeno subito di nuovo, ricevendo danari, si danno in servitú ad altri padroni. Se 'l padre vende il figliuolo, secondo l'usanza, e quello finalmente in qualunque modo è fatto libero, il padre ancora di nuovo questo suo figliuolo ragionevolmente può rivendere; nondimeno, dopo la quarta vendizione non ha piú giurisdizione. Il principe solo ha potestà con l'ultimo supplicio di castigare li servi, e parimente gli altri suoi sudditi.
Il principe, ogni secondo o ver terzo anno, per le provincie fa la descrizione delle genti, e li figliuoli delli suoi gentiluomini nota e discrive, acciochè il numero di quelli, e quanti cavalli e servitori abbia ciascuno, possa conoscere, dapoi a ciascuno propone il suo stipendio, com'è detto di sopra. Ma quelli che sono ricchi e hanno buon patrimonio combattono col proprio stipendio. Rare volte sono ociosi li suoi soldati, perciochè o vero combattono con Lituani, o vero coi Livoniensi, overo coi Svetensi, o vero con li Tartari casanensi; o veramente, se egli non fa guerra, ogn'anno nelli luoghi intorno al Tanai e Occa fiumi vi suole porre le guardie di vintimila soldati, a deprimere e abbassare gli assalti, le correrie e le prede de' Tartari procopensi. Suole ancora il principe ogni anno delle sue provincie ordinatamente chiamare alcuni, li quali in Moscovia tutti gli officii che piú gli piace operano fidelmente. Al tempo della guerra, non servono ordinatamente per un anno, ma tutti, cioè tanto li stipendiarii quanto quelli che aspettano la grazia e benevolenza del principe, sono astretti andare alla guerra.
Hanno li cavalli piccioli, castrati, senza ferri, freni leggieri, e alcune selle da cavalli all'uso accommodatissime, acciochè in ogni parte senza fatica niuna si possano voltare e carcare l'arco loro. Con li piedi tirati in su, talmente seggono a cavallo che nissuna botta, o ver percossa d'asta, o ver d'altre arme, alquanto gagliarda possono sostenere. Pochi usan gli speroni, ma i piú la sferza, la quale sempre al dito picciolo della man destra tengono, acciochè quella, quando bisogno fia, piglino e usino: e, quando combattono, quella similmente giú dalla man loro abandonata ne penda.
L'armi ordinarie sono gli archi, armi da lanciare, manare, e il baculo alla simiglianza del cesto, il quale in lingua rutenica kesteni, e in lingua polonica bassalick è chiamato. La lancia, quelli che sono piú nobili e piú ricchi l'usano. Hanno certi pugnali longhi, alla similitudine de' coltelli pendenti, e nelle vagine cosí reconditi e posti che a pena l'ultima parte del manico toccare e, dalla necessità costretto, con fatica cavar fuora tu possi. Le redine della briglia sono longhe, e nella parte estrema forate, e per quel buco se le legano al dito sinistro, acciochè possino pigliare l'arco e quello similmente usare; e benchè in un medesimo tempo tengono con le mani la briglia, l'arco, la lancia, l'asta e la sferza, nondimeno peritamente e senz'alcun impedimento l'usano. Alcuni de' piú nobili usano la corazza e il pettorale, elegantemente con certe squame e armilli fabricato; ma pochi usano la cresta a simiglianza di piramide nella sommità ornata. Alcuni hanno la vesta di lana bambagina benissimo foderata, acciochè possino le percosse di ciascuna sorte piú facilmente sostenere.
La fanteria e l'artiglieria nel conflitto giamai non usano, perciochè quel che fanno, o vero in assaltare, o vero in seguitare il nimico, o vero in fuggire, fanno subito e velocemente, e cosí non possono essere perseguitati né per via della fanteria né per via dell'artiglieria. Nondimeno il moderno principe Basilio usò quelle, l'anno seguente che 'l re precopense il nepote suo nel regno casanense ridusse, e nel suo ritorno appresso la Moscovia 13 miglia fermò il suo campo, appresso il fiume Occa: forse per dimostrare la potenzia sua, o vero per scancellare la macchia ricevuta l'anno inanzi per la fuga vergognosa, nella quale si diceva per alcuni giorni esser stato ascoso in un montone di fieno, o vero per rimovere dalli suoi confini il re de' Tartari, perciochè dubitavasi quello il regno suo di nuovo dovere assalire. Essendone in Moscovia, il prefato principe ebbe della Lituania da 1500 fanti di diverse sorti.
Nel primo impeto arditamente assaltano il nimico, ma non molto in ciò durano, come se volessero dire: "Fuggite, o vero noi fuggiremo". Le città rare volte per forza o vero per gran battaglia sogliono espugnare, ma piú presto con longo assedio constringere gli uomini per fame, o vero con tradimenti, a rendersi. Basilio, quantunque Smolenzko città con le bombarde, le quali aveva portato seco di Moscovia, e con quelle che ivi trovato avea, oppugnasse, nondimeno non fece niente, e similmente nell'assedio di Casan fece niun frutto, perciochè, essendo arsa la rocca sino a' fondamenti, e dipoi di nuovo rifacendosi, nondimeno nissuno soldato vi fu il quale avesse ardimento di salirvi sopra.
Ha il principe al presente i gettatori dell'artiglierie, uomini germani e italiani, li quali, oltre l'artiglierie, gettano ballotte di ferro all'usanza che usano li nostri principi; nondimeno nel conflitto non possono servirsene, che tutte le loro cose son poste in celerità e in prestezza. Non sanno l'uso dell'arteglierie, né sanno con quali si faccia la batteria alle muraglie, e con quali la squadra, o vero l'impeto de' nimici, si rompa. Il che altre volte è intervenuto, e specialmente in quel tempo che si diceva che li Tartari erano per assaltare la Moscovia, perciochè il locotenente subito avea comandato che la bombarda grande sotto la porta del castello fosse posta, e di ciò il bombardiere germano rise molto, perchè a pena in spazio di tre giorni a tal luogo poteva essere condotta, e già una volta, essendo stata discaricata, aveva rovinata la porta.
È grandissima la diversità e la varietà degli uomini, sí nelli negocii umani come eziandio nell'arte e modo di guerreggiare: perciochè il Moscovito, subito che si mette in fuga, nissun'altra salute spera eccetto quella che dalla fuga dipende; giunto e preso dal nimico, non si difende né gli dimanda perdonanza. Ma il Tartaro, benchè sia gettato da cavallo, spogliato di tutte l'armi ed eziandio gravissimamente ferito, nondimeno ancora con le mani, co' piedi e con li denti insino a l'ultimo fiato si difende. Il Turco, vedendosi d'ogni aiuto e speranza privo di poter scampare, supplichevolmente dimanda perdono, e gettate giú l'armi, le mani giunte porge al vittorioso nimico, e spera in tal cattura la vita impetrare.
In collocare li campi loro, luogo spazioso e grande sogliono eleggere, dove gli uomini piú nobili drizzano i loro padiglioni; ma gli altri di rami d'arbore fanno come un arco o vero cappannetta in terra, e la cuoprono, acciochè dentro ascondano le selle, gli archi e altre armi di quella sorte, e che dalla pioggia difendere si possano. Li cavalli mandano alli pascoli, e per questa cagione hanno i loro padiglioni, o vero tende, tanto distanti un dall'altro, li quali padiglioni né con carro né con fossa né con altro fortificano, eccetto se per caso il luogo non fosse naturalmente o per le selve, o per li fiumi, o per li paludi forte.
Potrebbe qui qualcuno maravigliarsi come se medesimi e li suoi con sí picciolo stipendio e per tanto longo tempo si possano sostentare, e però ora la parsimonia e la frugalità di quelli con poche parole io vi dichiarerò. Quello che ha sei o piú cavalli, di quelli uno ne piglia, il quale le cose necessarie per la vita porta: prima porta il miglio pestato in un sacchetto longo due o vero tre palmi, dapoi ha otto o vero dieci libre di carne di porco salata; ha ancora il sale in un sacchetto, e, se è ricco, misto col pevere. Oltra di questo, ciascuno porta con esso lui la mannara, l'azzalino d'apprender fuoco, il laveggio o vero pignatta di rame; e se per caso a qualche luogo arriva dove non ritruovi niente di frutti, d'aglio, di cipolle, over di carne d'animali, accende il fuoco ed empie la pignatta d'acqua, e in quella vi butta dentro un cucchiaro di miglio pesto, insieme col sale: e di tal cibo il padrone e il servo vivono, e, se il padrone avesse gran fame, la mangia tutta, di modo che qualche volta li servi per due e tre giorni digiunano. Se il padrone vuole piú sontuosamente mangiare, v'aggiunge una picciola particella di carne di porco: non parlo degl'uomini grandi, ma di quelli che sono di mediocre condizione. Li capitani dell'esercito e altri prefetti della milizia invitano alcuna volta que' piú poveri, li quali, preso un buon pasto, stanno poi due e tre giorni che dal cibo s'astengono. Quando hanno frutti, aglio o cipolle, facilmente possono astenersi di tutte l'altre cose.
Quando sono per entrar in guerra, pongono piú speranza nella moltitudine, e con quanta gente assaltino il nimico, che nella fortezza o ordinanza de' soldati. Combattono piú felicemente da presso che da lontano, e per questa causa s'ingegnano principalmente circondare il nimico e assalirlo alle spalle. Hanno molti trombetti, li quali, mentre secondo il loro costume suonano tutti insieme le trombe, un certo maraviglioso e inusitato concento rendono. Hanno ancora un'altra sorte di musica, la quale in lingua loro chiamano szurna, e quando usano tale sorte di musica, hanno tanto potere in tal suono che quasi per una ora e piú, senza nissuna respirazione e retiramento di fiato, cantano: primamente sogliono empire le bocche loro di aere, e con le nare del naso sono attissimi a traere il medesimo spirito, e mandano fuora la voce con la tromba senza tralasciamento alcuno.
Tutti usano un medesimo vestito, o culto del corpo: portano gli abiti longhi senza pieghe, con le maniche strette, e quasi alla similitudine di quelle degli Ongheri, nelli quali i cristiani hanno certi nodi con li quali il petto si stringe nel destro lato. Ma li Tartari, usando un vestito poco dissimile, hanno li nodi, o ver bottoni, nel sinistro lato. Usano stivaletti rossi e curti, che a pena toccano il ginocchio, e portano le scarpe ferrate di chiodi di ferro; hanno le camice intorno al collo con varii colori lavorate, e quelle con monili o bottoni d'argento, o vero di rame indorato, con perle adornano. Non si cingono il ventre, ma piú giú, acciochè tanto piú il ventre appaia di fuora: il che al presente eziandio Italiani, Spagnoli e Germani sogliono fare.
Li giovani, e parimente li putti, nelli giorni festivi in un certo luogo grande e celebre della città, dove possono essere veduti e uditi da molti, sogliono radunarsi; e ivi, con certo cifigliare e altri segni, s'accennano uno a l'altro, e subito chiamati corrono là, e con le mani azzuffandosi, con le pugna cominciano la guerra, e dapoi con li piedi, e con grandissimo impeto la faccia, la gola, il petto, il ventre e le cosce e le gambe percuotono, e in qualunque modo possono, combattendo per restare vittoriosi, quelli buttano per terra, tanto in ciò affatticandosi che spesse volte mezi morti sono cavati fuori di là. Chi ne vince piú e piú longamente dura nel teatro, e fortissimamente tollera le battiture, piú che gli altri è lodato e tenuto per vittorioso celebre. Questa sorte di combattere è stata ritrovata acciò che li giovani s'usino a sofferire le battiture e le percosse d'ogni sorte.
Esercitano grandissima giustizia contra li ladri: li quali presi, la prima cosa gli spezzano li calcagni, dapoi li lassano stare cosí per due o ver tre giorni, insino a tanto che quelli si enfiano; dapoi che sono rotti e infiati, di nuovo comandano che spesse volte siano mossi. Non usano altra sorte di tormento a tormentare li scelerati per confessare i latrocinii, i furti e li compagni di quelli; ma se 'l ladro è ritrovato degno di supplicio, è appiccato, e non usano altra sorte di pena a punire li rei che questa, eccetto però se non avessero commesso qualche male piú atroce e piú crudele. Furti rare volte sono puniti con pena capitale, anzi rare volte gli omicidii, eccetto se fossero stati fatti per preda. Chi occide il ladro ritrovato nel furto può farlo, senza punizione alcuna; con questa condizione però, che porti il corpo ucciso in corte del principe, e il successo della cosa racconti. Quelli che vengono alle mani con gli animali bruti non sono puniti. Pochi delli prefetti hanno auttorità di far giustizia della vita; niuno ha ardimento di dar tortura ad alcuno de' sudditi. Li rei sono condotti a Moscovia, o vero in altre città principali. Nel tempo di verno fanno il piú giustizia, perchè l'estate sono impediti in guerra.


Ordinazioni di Giovanne Basilio, granduca di Moscovia, nell'anno del mondo 7006.

Quando un reo sarà condennato in un rublo, debba pagare al giudice due altini, e al notaio otto denghi; e se le parti facessero pace prima che venissero nel luogo del duello, non però manco debbono pagare al giudice e al notaio che se fosse fatto il giudicio. Ma se venissero nel luogo del duello, il quale ocolnick e nedelsnick solamente possono deliberare, e ivi per sorte ritornassero in grazia, debbano pagare al giudice come di sopra, cioè a ocolnick L denghe, e a nedesnicko L denghi e due altini, e al scrivan quattro altini e una dengha. Ma se venissero in duello e un di loro fosse vinto, il reo debbe pagare al giudice quanto in ciò da quello sarà richiesto, e a ocolnicko dia una poltina e l'armi del vinto, e al scrivano L denghe, a nedelsniko una poltina e quattro altini. Ma se 'l duello sarà per qualche incendio, morte d'amico, rapina o furto, l'accusatore, se 'l vincerà, pigli dal reo quello che gli dimandò, e a ocolniko sia dato una poltina e l'armi del vinto, al scrivano L denghe, a nedelsniko una poltina, al vestone (il quale amendue le parti con le condizioni prescritte conduce al duello) quattro altini; e tutto ciò che sarà rimaso del vinto, sia venduto e dato a li giudici, e nel corpo sia punito, secondo la qualità del delitto.
Gli omicidii delli signori, i traditori delle città, i sacrilegi, plagiarii, e quelli che le cose nella casa d'altri secretamente portano e dicono essergli state robbate (li quali podmetzchek si chiamano), oltra di questo quelli che col fuoco perturbano gli uomini e quelli che sono manifesti malfattori, con ultimi ed estremi supplicii sono puniti.
Quello che sarà convinto del primo furto, eccetto se non fosse accusato di sacrilegio, o ver plagio, non è da dargli morte, ma con publica pena è da esser emendato, cioè con bacchette battuto, e con pena pecuniaria dal giudice punito e castigato. E se di nuovo serà preso nel furto, e non averà che satisfare, debbe morire; e convinto, e non avendo il modo da satisfare all'accusatore, debbe essere primamente battuto, e dapoi dato nelle mani dell'accusatore.
S'alcuno sarà accusato di furto, e qualche uomo onesto e da bene col giuramento affermerà quello già un'altra volta esser stato convinto, o vero per causa di furto essersi riconciliato con qualcheduno, senza altro giudicio debbe morire, e delli beni suoi facciasi come è detto di sopra.
Se qualcheduno di vile condizione nato, o vero di vita sospetta, sarà incolpato di furto, sia chiamato in giudicio, e, se non può esser convinto d'aver robbato, dia sicurtà, o vero piezzeria, e si lasci l'inquisizione ad altro tempo. Per il scritto ordinato, o vero per la sentenzia fatta di stima d'un rublo, debbonsi pagare al giudice nove denghe, e al secretario, il quale ha il sigillo, un altino, e notaro tre denghe.
Li prefetti, li quali non hanno auttorità, conosciuta la causa, di deliberare e di fare sentenzia, debbono condennare una delle due parti in alcuni rubli, dapoi tale decreto alli giudici ordinarii mandino; e se parerà loro che sia giusto e ragionevole, per tanti rubli, tanti altini siano pagati al giudice, e al secretario quatro denghe.
Ciascuno che vuole accusare un altro di furto, di spoglio o vero d'omicidio, va in Moscovia, e dimanda che sia chiamato in giudicio: ed è dato a quello nedelsnick, il quale constituisce il giorno al reo, e quello conduce in Moscovia. Il reo, constituto in giudicio, al piú delle volte niega ciò che gli è opposto; ma se l'accusatore produce li testimonii, amendue le parti sono interrogate se vogliono stare alli detti delli testimonii. Alla qual domanda communemente rispondono: "Siano uditi li testimonii secondo la giustizia e il costume", e, se li testimonii dicono contra il reo, il reo subito se gli oppone avanti, e dice contra li testimonii e le persone che l'accusano: "Io dimando che mi sia permesso il giuramento, e alla giustizia divina mi sottometto, e dimando il campo e il duello": cosí a quelli, secondo la consuetudine della patria, è permesso il duello.
L'uno e l'altro può constituire in suo luogo al duello ogni altro che vuole, e similmente armarsi di quelle armi che piú gli piace, eccettuati però l'arco e il pixide; communemente hanno li corsaletti, o vero corazze longhe, alcuna volta doppie, il pettorale, li braccialetti, l'elmo, la lancia, la manara: e hanno un certo ferro in mano, alla similitudine d'un pugnale, il quale da l'una e l'altra estremità ha la punta, e cosí espeditamente l'usano che in ciascun conflitto non gli è d'impedimento, né manco gli cade di mano. Ma tali armi il piú delle volte usano nel combattimento a piedi.
Cominciano il primo combattimento con la lancia, dapoi usano altre armi; conciosiachè per molti anni, combattendo con Germani, con Poloni, con Lituani e con altri forestieri, il piú delle volte siano stati perdenti. E ultimamente un certo Lituano, uomo d'anni 26, con un certo Moscovito combattendo, il quale piú di vinti volte era stato vittorioso, finalmente vinse il Moscovito; onde il principe, sdegnatosi molto, subito comandò che 'l Lituano fosse chiamato avanti di sé, e, vedutolo, il principe sputò in terra, e deliberò che per l'avvenire non fosse data facoltà di poter combattere a' forestieri contro li suoi. Li Moscoviti invero piú presto di molte e diverse armi si carcano che s'armano, ma li forestieri piú presto col consiglio che con l'armi coperti combattono, e sopra il tutto si guardano di non venire alle strette, perciochè sanno molto bene che i Moscoviti con le braccie e con le mani sono valenti; però con la sola industria e con destrezza già lassi e stanchi sogliono vincerli. L'una e l'altra parte delli combattenti ha molti amici, fautori e del lor combattimento spettatori: ma sono senza arme, eccetto che hanno alcuni bastoni, o ver pali longhi, in mano, quali alcuna volta usano: perciochè, se fosse veduto che a uno di quelli fosse fatta qualche ingiuria, li fautori di quello corrono là a ribattere l'ingiuria di quello, di modo che qualche volta succede che vi nasce da l'una e l'altra parte un giocondo e grato combattimento alli spettatori, perciochè si combatte con li capegli, con le pugna, con bastoni e con stizzi bruciati.
La testimonianza d'un nobile val piú che di molti altri uomini di vile condizione.
Li procuratori chiarissime volte sono admessi a difendere le liti, ma ciascun per se stesso espone la causa sua. Benchè il principe severissimo sia, nondimeno tutta la giustizia, e quasi manifestamente, è venale. Io ho udito dire d'un certo consigliere ch'era stato preso, perciochè egli aveva in una certa causa ricevuti presenti da una parte e l'altra, e giudicato per chi piú gli aveva dato. Il che riportato al principe, non lo denegava, ma diceva quello, in favor del quale aveva giudicato, essere uomo ricco, d'onesta famiglia nato, e che piú presto era da credere a costui che a quel povero bisognoso e vile. Finalmente, benchè il principe rivocasse la sentenzia fatta, nondimeno ridendo lo lasciò libero, senza altra punizione. E forse la causa di tanta avarizia e di tanta iniquità è la necessità, dalla quale sapendo il principe li suoi essere oppressi e molestati, alli cattivi fatti e alla iniquità di quelli, quasi propostagli la impunità, è consenziente. Alli poveri non è data l'entrata di poter parlare col principe, ma solamente con li consiglieri di quello, e questo ancora difficilmente.
Ocolnick è quello il quale la persona del pretore, o vero del giudice ordinato dal principe, sostiene, e con altro nome è chiamato il supremo consigliero, il quale sempre appresso del principe rimane. Nedelsnick è un certo comune officio di quelli li quali chiamano gli uomini in giudicio, pigliano li malfattori, gli pongono in prigione: e questi nel numero de' nobili sono riputati.
Gli abitatori forestieri, o vero delle ville, per sei giorni della settimana servono al suo signore, e il settimo giorno è concesso loro per facende sue; hanno dalli suoi patroni alcuni campi privati e alcuni prati, delli quali vivono, ma tutte l'altre cose sono delli loro patroni. Oltra di questo, sono in miserissima condizione, perciochè li loro beni sono esposti alla preda de' nobili, e parimente delli soldati, dalli quali eziandio per ignominia e scorno cristiani, overo uominucci negri sono chiamati.
Un gentiluomo, sia povero quanto si voglia, nondimeno pensa dovergli essere gran vergogna e ignominia se con le proprie mani lavorasse, ma non pensa essere vergogna alcuna il torre su di terra e mangiare le scorze e li torsi delli frutti, e specialmente delli melloni, de l'aglio, delle cipolle, da noi e dalli nostri famegli gettate sotto i piedi. Sí come sono temperati nel cibo, cosí, quando hanno la commodità di poter bere, sono intemperatissimi; tutti sono tardi a l'ira, e superbi nella povertà, e hanno per grave compagnia la servitú. Portano le vesti longhe, li cappelli bianchi, fatti di lana; vestiboli, o vero li portichi avanti le case, sono alti e grandi ma hanno le porte delle loro abitazioni tanto basse che quello che vi vuole entrare è costretto abbassarsi e inchinarsi giú.
Quelli che vivono di fatiche manuali e vendono l'opre loro hanno per mercede d'un giorno una denga e meza; l'artefice, due. Né questi troppo s'affaticano, se non sono ben battuti. Ho udito alcune volte certi servitori essersi lamentati molto per non essere cosí bene battuti dalli loro patroni come vorrebbono, perciochè credono essere poco in grazia d'essi, se non sono battuti.



Dell'entrare nella casa d'altri.

In tutte le case e abitazioni loro hanno l'imagini delli santi dipinte, overo di rilievo, e queste pongono in luogo piú onorato e degno. E quando uno visita l'altro, entrato ch'egli è in casa, subito si cava la berretta e guarda a torno dove sia l'imagine, la quale veduta, tre volte si segna col segno della santa croce, e inchinando il capo dice: "Domine, miserere"; dapoi saluta il patron di casa con queste parole: "Deus det sanitatem"; dapoi, toccatasi la mano, si baciano insieme e abbassano li capi, e uno guarda l'altro, qual di due piú s'inchina o vero s'abbassa: e cosí per tre o vero quattro volte abbassano il capo e s'onorano l'un l'altro. Poi si mettono a sedere, e, finiti li loro ragionamenti, il visitante ne va là in mezo della casa, e rivolta la faccia all'imagine di nuovo tre volte si fa il segno della santa croce, e, col capo basso, di nuovo replica le prime parole. Ultimamente, salutatisi l'uno l'altro, si parte: e se è uomo di qualche auttorità, il patron di casa l'accompagna sino al piede della scala; e se è uomo di piú dignità, l'accompagna piú lontano. Mirabilmente osservano le cerimonie, perciochè a niun uomo di bassa fortuna è lecito d'entrare a cavallo dentro delle porte degli uomini grandi; alli piú poveri e alli men conosciuti con gran difficultà è permesso d'entrare in casa, non solo di questi, ma eziandio di altri nobili mediocri, li quali per questo chiare volte vanno fuori in publico, acciochè maggiore auttorità e osservanzia di se stessi ritenghino. Similmente, nissun nobile, il quale sia alquanto ricco, trapasserebbe col piede la quarta o la quinta casa che non abbia il cavallo dietro; nondimeno, nel tempo dell'invernata, per rispetto del giaccio, non possono senza pericolo usare li cavalli, li quali son senza ferro: e quando vanno alla corte del principe, o vero entrano nelli tempii delli santi, sogliono lasciare li cavalli in casa. Li gran maestri dentro le case loro sempre seggono, e rare volte o mai, camminando, trattano di cosa alcuna; si maravigliavano molto quando vedevano che noi nelle nostre abitazioni camminavamo, e che nel camminare trattavamo delle facende e delle cose nostre.
Il principe ha li suoi cavallari, per mandarli per tutte le parti del suo dominio, e in diversi luoghi sono le poste con giusto numero di cavalli, acciochè, quando il cavallaro regio sia mandato a qualche luogo, abbia il suo cavallo apparecchiato senza ritardanza alcuna: e ha libertà di eleggere quel cavallo che piú gli piace. Andando io con prestezza della gran Novogardia in Moscovia, il maestro delle poste, il quale in lor lingua iamschnick è chiamato, alcuna volta procurava che la mattina per tempo mi fossero condotti or trenta, or quaranta e or cinquanta cavalli, per commodo mio, benchè non piú che dodici cavalli a me fossero di bisogno: e cosí ciascuno delli nostri pigliava quel cavallo il quale gli pareva che fosse piú al proposito suo, e, quando quelli erano stracchi, e che nel viaggio fussimo pervenuti ad un'altra osteria (la quale iama chiamasi), subito erano apparecchiati altri cavalli, con la sella e con la briglia. È lecito a ciascuno di poter usare un corso velocissimo delli cavalli, e se per sorte qualche cavallo casca, o vero non può durare nel corso, senza pena veruna da ciascuna casa piú propinqua ne può torre un altro, ed eziandio da ciascuno che ritrovasse in viaggio, eccettuato però sempre il corriero del principe. Ma il cavallo cascato e mancato nel viaggio, il sopradetto maestro delle poste debbe procurare e restituire un altro cavallo al patrone, e similmente pagare il prezzo del viaggio ragionevolmente: al piú delle volte, de 20 over 25 miglia se gli numerano sei denghe. Con questi cavalli delle poste, il servitor mio di Nowogardia in Moscovia, che vi sono d'intervallo 600 verst, cioè cento e venti miglia germani, in 72 ore pervenne; il che è tanto piú degno d'ammirazione che li cavalletti di quella sorte son piccioli e mal governati, a comparazione delli nostri, e nondimeno sopportano il peso di tante fatiche nel viaggio.


Della moneta.

Li Moscoviti hanno la moneta d'argento di quattro sorte, cioè la moscovitica, la nowogardense, la twerense e la plescowiense. La moneta moscovitica non è rotonda, ma longa, e quasi alla similitudine d'un ovo, ed è chiamata denga, e ha diverse imagini: in una moneta antica la rosa, la moderna ha l'imagine d'un uomo a cavallo, e nell'altra parte ha lettere scritte. Cento di queste monete fanno un onghero d'oro; sei denghe fanno uno altino, vinti una grifna, cento una poltina, e ducento un rublo. Al presente, li nuovi da ogni parte con carratteri segnati sono stampati, e quattrocento di quelli vagliono un rublo.
La moneta twerense da ogni parte ha scrittura, ed è di quel valore che è la moneta moscovitica.
La moneta nowogardense in una parte ha l'imagine del principe che siede nella sua sedia, e a l'incontro la figura d'uno uomo che avante il principe s'inchina, e da l'altra parte, poi, ha solamente le lettere, e supera il doppio la valuta della moscovitica; ma la grifna novogardense vale 14 denghe, e il rublo vale ducento e vintidue denghe.
La moneta plescoviense in una parte ha il capo d'un bove coronato, e da l'altra parte ha la scrittura. Oltre di questo hanno una moneta di rame, la quale è chiamata polani, e sessanta di queste vagliono una dengha moscovitica.
Non hanno monete d'oro, né manco le stampano, ma usano quasi ducati ongheri, e alcuna volta i renani, e spesse volte mutano il prezzo di quelle, specialmente quando un forestiero sia per comprare qualche cosa con l'oro; ma se è per andare a qualche luogo, e che abbia bisogno dell'oro, di novo accrescono il prezzo.
Usano i rubli rigenzini per la vicinità, delli quali uno vale due moscovitici. La moneta moscovitica è di puro e buono argento, benchè al presente adulterata; né però ho udito alcuno per ciò essere stato punito. Quasi tutti gli orefici di Moscovia stampano danari, e ciascuno che porta le masse d'argento puro e che desidera aver danari, giustano li danari e l'argento, e con giusta ed equale bilancia lo pesano; e il prezzo ordinario, il quale, oltra il peso eguale, è da essere pagato alli orefici, è picciolo, e con poco prezzo vendono la lor fatica. Hanno scritto alcuni che questa provincia rarissime volte abbonda d'argento, e che il principe proibisce che niuno li porti fuora del suo dominio: e in vero la provincia non ha argento, se non è portato di fuora. E il principe non proibisce che non sia portato fuora l'argento, ma se ne schiva, onde procura di fare le permutazioni delle cose, e massime con le pelli, delle quali ne hanno gran copia. A pena sono cento anni che usano la moneta d'argento, e specialmente stampata appresso di quelli: nel principio, quando l'argento fu portato nella provincia, alcune particelle longhe d'argento, senza imagine e senza scritture, di valuta di un rublo, erano gettate e fuse, delle quali monete al presente niuna se ne vede; si stampava ancora la moneta nel principato di Galitz, ma, conciosiachè quella non fosse di giusto peso, è mancata. Avanti l'uso della moneta, l'orecchiette delli aspreoli e degli altri animali, delli quali ne sono portate a noi, usavano, e con questa le cose necessarie alla vita umana, come con danari, compravano.
Usano di numerare tutte le cose per sorogk o ver per dewenosto, cioè per il numero quadragesimo o ver nonagesimo, e, come noi col numero centesimo, numerano e dividono; e però, numerando, raddoppiano e multiplicano, due volte sorogk, tre volte sorogk, quattro volte sorogk, cioè quaranta; o ver due, tre, quattro devenosto, cioè novanta. Mille in lingua gentile è detto tissutze; cosí diecimila, in una parola, tma; vintimila, dwetma; trentamila, titma.
Ciascuno che portasse qualunque sorte di merce che sia, quelle debbono portare avanti li soprastanti del dazio, o ver della stima: le quali robbe vedono nell'ora deputata, e poi le stimano, e quelle stimate, niuno ha ardimento né di vendere né di comprare se prima non siano mostrate al principe. E quando il principe volesse comprare niente, al mercante tra questo mezo non è permesso né mostrare le cose sue né far vendita con niuno: e di qui è fatto che li mercanti alcuna volta longo tempo sono impediti circa alla ispedizione delle lor robbe.
Non è lecito eziandio cosí ad ogni mercante venire nella Moscovia, fuora delli Lituani, delli Poloni e di quelli li quali son sottoposti all'imperio; ma li Svetensi, Livoniensi e li Germani abitanti nelle città maritime, solamente in Nowogardia possono venire. E alli Turchi e alli Tartari è permesso che in una città, chiamata Chloppigrod, possano esercitare la mercanzia, in vendere e comprare, perchè ivi in certo tempo de l'anno si fa la fiera, e a quel luogo molte persone de li luoghi remotissimi concorrono. E quando i legati e oratori d'altri principi vanno in Moscovia, tutti li mercanti d'ogni sorte, sotto la fede e protezione d'essi ambasciatori, liberamente e senza altra gabella o dazio possono andare in Moscovia.
La maggior parte delle merci sono le masse d'argento, panni, seta, panni di seta e d'oro, gioie, gemme e oro filato, e alcuna volta eziandio alcune cose di vil prezzo vi sogliono portare, delle quali non poco frutto ne riportano. Spesse volte ancora interviene che tutti stanno in desiderio ed espettazione di qualche cosa, della quale piú del giusto ne guadagnerà colui il quale sarà il primo a portarvela; e cosí, per il contrario, quando piú mercanti portano gran copia di una merce, tanto piú è bassa la vendita di quelle, di modo che quello il quale avea vendute le cose sue per gran prezzo, quelle medesime di nuovo con vilissimo prezzo compra, e con grandissima sua commodità nella patria le riduce. Le merci le quali si portano del paese di Moscovia in Germania sono pelli e cera; in Lituania e nella Turchia, cuoi d'animali, pelli, e bianchi e longhi denti di animali, li quali essi mors chiamano, e nel mezo mare settentrionale vivono, delli quali denti li Turchi sogliono elegantemente farne manichi da pugnali; ma li nostri Germani pensano che siano denti di pesci, e cosí gli nominano. Nella Tartaria sono portate selle, freni, veste, cuoi; ma l'armi e il ferro no, se non secretamente, o vero con licenzia delli prefetti del principe. E ad altri luoghi, sí orientali come settentrionali, portano fuori: portano veste di panno e di lino, coltelli, manare, aghi, specchi, borse e altre sorti di merce. Trattano le lor mercanzie con bugia, fraudi e inganni, e lo fanno non già con poche parole, come alcuni hanno scritto. Oltra di questo, mentre offeriscono il prezzo, e le cose di minor prezzo promettono sempre, in danno del venditore della metà del prezzo. Alcuna volta li mercatanti un mese e due sospesi, dubiosi e incerti ritengono, e alla estrema disperazione sogliono condurre. Ma quello il quale i lor costumi e le lor parole ingannevoli conosce, poco le stima, o dissimula, e senza altro danno vende le cose sue.
Un cittadino crocoviense avea portato ducento centinara di rame, o ver latone, il quale il principe volse comprare, e tanto tempo il mercante di quello ritenne che costui finalmente, di fastidio ripieno, fu forzato di nuovo a ricondurlo verso la patria, e cosí, essendo per alquanti miglia lontano dalla città di Moscovia, alcuni sopra di ciò ordinati lo seguitorno, e li beni di quello, sí come non avesse pagato il dazio, impedirono e interdissono. Il mercatante, veduto questo, in Moscovia se ne ritornò, e appresso delli consiglieri del principe della ricevuta ingiuria si dolse molto. Quelli, udita la causa, si misero di mezo, promettendo voler rassettare la cosa e di farli grazia, quando egli le dimandasse. Il mercatante, aveduto molto, il quale sapeva dover esser cosa ignominiosa al principe se le merci di questa sorte fossero portate fuora del suo dominio, e che nissuno si ritrovasse il quale potesse comprarle e pagarle, non dimandò grazia veruna, ma solamente fece richiesta che gli fosse administrata giustizia. Or finalmente, veggendo li consiglieri il mercatante star cosí duro e ostinato, né si poter punto del suo proposito muovere, né manco voler cedere all'inganno e alla fraude di quelli, il cupro in nome del principe comprorno e pagato il giusto prezzo lo licenziorno.
Alli forestieri ciascuna cosa vendono piú cara, di modo che quella robba che hanno comprato per un ducato, cinque, otto, dieci e alcuna volta venti ducati vendono, e cosí li forestieri fanno il simile; alcuna volta compreranno dalli forestieri una cosa rara per dieci over quindici fiorini, la quale a pena varrà uno o ver due fiorini al piú. In contrattare le cose della mercanzia, se per sorte dicesti qualche cosa, overo che imprudentemente gli promettesti, diligentemente se ne ricordano, e vogliono con grande instanzia che gli siano osservate le promesse; ma essi, se all'incontro v'hanno qualche cosa promesso, non attendono la promessa. Subito che cominciano a giurare e spergiurare, sappi ivi subito essere ascoso l'inganno, perciochè giurano con animo d'ingannare e far fraudi. Io avevo pregato un certo consigliero del principe che in comprare certe pelli del paese mi volesse prestare aiuto, che io non fossi ingannato. Costui, sí come facilmente l'opra sua m'aveva promesso, cosí di nuovo per longo tempo mi menò alla longa, volendomi vendere in tutto alcune sue pelli. Oltra di questo, altri mercanti ne venivano a lui, promettendogli premii se con bon prezio egli vendesse a me le merci loro, perciochè è questa consuetudine di mercatanti, che nel comprare e nel vendere si pongono di mezo, e l'una e l'altra parte, ricevuti secretamente li presenti, l'opra sua fidele e pura gli promettono.
È una grande e murata casa, non molto lontana dalla rocca, la corte delli signori mercatanti chiamata, nella quale abitano li mercanti e ivi le merci loro ripongono: dove il pevere, il zafrano, panni di seta e altre sorti di merci per molto minor prezzo di quello che si fa in Germania si vendono. Ma questo è per la permutazione delle cose, perciochè, mentre li Moscoviti le lor pelli, per vil prezzo comprate, molto piú stimano, cosí all'incontro li forestieri, con l'esempio di quelli, le lor merci, con poco prezzo comprate, gli mettono avanti, e piú care le dicono: per il che succede che amendue le parti, fatta la permutazione delle cose equale, con mediocre prezzo, senza guadagno possono vendere le robbe loro, e specialmente quelle le quali hanno ricevute in scambio e baratto delle pelli.
È gran differenzia delle pelle, perciochè la negrezza delli zibellini, la longhezza e la spessezza delli peli dimostrano la bontà loro; similmente, s'al tempo debito e convenevole son stati presi, il che ne l'altre pelli parimente s'osserva, sono di maggior valuta e prezzo. Fuora di Ustyug e di Dwina provincia rarissimi si trovano, ma circa Peczora piú spesse volte si ritrovano, e migliori che gli altri.
Le pelli madaurice sono di diverse parti, di Sewera buone, delli Elvezii migliori, e della Swezia ottime portate: nondimeno, in quel luogo ve n'è maggior copia. Alcuna volta ho udito in Moscovia essersi ritrovate alcune pelli di zebellini delle quali alcune son state vendute trenta ducati d'oro, e altre vinti ducati; ma di questa sorte non ho potuto vedere nissuna.
Le pelli degli armelini, riversate, da molti luoghi sono portate, per le quali nondimeno molti di coloro che comprano s'ingannano. Hanno certi segni intorno al capo e la coda, per le quali sono conosciute se siano state prese al tempo debito o no, perciochè, subito che questo animal è preso, si scortica, e le pelli si riversano, acciochè, calcati li peli, non divenga peggiore: ma se qualcheduno fosse stato preso fuora del tempo debito, e che la pelle manchi del suo buono e nativo colore, dalla testa, come ho detto, e dalla coda ne cavano e tirano fuora certi peli, come segnali, acciò non sia conosciuto esser stato preso fuor di tempo, e cosí per questa via li compratori sono ingannati. Si vendono tre e quattro denghe l'una; quelle che sono un poco piú grandi mancano di quella bianchezza; la quale nondimeno nella minore appare pura e netta.
Le pelli delle volpi, e specialmente le negre, con le quali il piú delle volte sogliono fare coprimenti per la testa, sono in maggior prezzo, perciochè dieci e alcuna volta quindici ducati sono vendute. Le pelli degli aspreoli da diverse bande sono portate: le piú grandi da Sibier provincia vengono, ma le piú nobili da Schwaij, non molto lontano da Cazan. Similmente da Permia, Wiatka, da Ustyug e da Wolochda son portate ligate, dieci per mazzo, delle quali in ciaschedun mazzo due ne son buone e perfette, le quali chiamano litzschna, e tre sono alquanto peggiori, le quali crasna chiamano; quattro, le quali dicono pocrasna; una, che è l'ultima, moloischna detta, è peggiore e piú vile di tutte. Ciascuna di queste è comprata una o ver due denghe: di queste le migliori e le piú scielte in Germania e nell'altre provincie li mercanti con grandissimo commodo loro portano.
Le pelle delli linci sono in poco prezzo, ma le pelli delli lupi, da quel tempo che e in Germania e in Moscovia cominciorono ad essere in prezzo, sono in molta stima; le spalle delli lupi sono in molto minor prezzo che appresso di noi. Le pelli delli castori appresso di quelli in gran prezzo sono avute, e tutti hanno appresso le fimbrie della veste di queste pelli, per essere di colore negro natio e bello. Le pelli delli gatti domestici usano le donne, e questo è un certo animale il quale in lingua gentile chiamano pessetz, e perchè suole apportare gran giovamento di caldo al corpo l'usano per viaggio.
Il dazio di tutte le merci le quali sono portate in Moscovia, o vero cavate fuora di quella, si riferisce nel fisco; di ciascuna cosa stimata un rublo si pagano sette denghe, eccettuata la cera, della quale non solamente secondo la stima, ma eziandio il peso per dazio si riscuote, e cosí per ciascun peso, il quale chiamano pud, quattro denghe si pagano.
Delli viaggi delli mercanti li quali fanno in portare fuora e dentro le lor merci in diverse regioni della Moscovia, qua di sotto, nella descrizione della Moscovia, copiosamente parlerò.
L'usura è comune a tutti, e benchè dicono quella esser di gran peccato, nondimeno quasi niuno da quella s'astiene, il che è quasi cosa intollerabile, perciochè d'ogni cinque tolgono sempre uno, cioè venti per cento; ma le chiese sono piú temperate, le quali non tolgono piú che dieci per cento.


Io al presente la corografia del principato e del dominio del granduca di Moscovia dimostrerò, ponendo il ponto in Moscovia, città principale: e di lí poi partendomi, li principati solamente circonvicini e piú celebri discriverò, perciò che, in tanta grandezza, li nomi di tutte le provincie puntalmente ricercare non ho potuto; per la qual cosa il lettore sarà contento delli nomi delle città, delli fiumi, delli monti e di certi luoghi piú celebri e piú nominati.

La città di Moscovia è il capo e la principal della Russia, e cosí essa provincia, e parimente il fiume che passa per quella, un medesimo nome ritengono, e in lingua volgare di quella gente Mosqwa appellano. Ma qual nome abbia dato a l'altre cose, è incerto: nondimeno è verisimile quelle il nome del fiume avere ricevuto, perciochè, benchè essa città già non sia stata il capo di quelle genti, nondimeno è manifesto il nome delli Moschi non esser stato incognito alli antichi. Il fiume Mosqwa nella provincia twerense, quasi LXX miglia Mosaisko, non lontano dal luogo il quale è detto Oleschno, ha li suoi fonti, e indi per spazio di 90 miglia alla volta della città di Moscovia ne corre, e, ricevendo in sé alcuni fiumi, verso oriente in Occa fiume entra. Sei miglia sopra Mosaisko comincia ad essere navigabile, e da quel luogo la materia atta a fabricare le case e l'altre cose, posta su le barche, è portata in Moscovia. Ma le merci e l'altre cose le quali dagli uomini forestieri sono portate con le navi vengono. La navigazione è tarda e difficile, e per rispetto delli giri, o ver circuiti, li quali in esso trovano specialmente tra Moscovia e Colonna città, 3 miglia lontana dalle bocche di quello, e posta nel lito; dove, per spazio di 270 miglia, per li molti e longhi circuiti e flexioni di quello il viaggio delli naviganti ritarda e impedisce.
In questo fiume non si pesca molto, per aver pesci vili e di poco momento. La Moscovia non è troppo larga, né molto fertile, perciochè da ogni parte il campo è arenoso, il quale, per defetto di mediocre siccità, o ver umidità, ammazza le biade e molto gli nuoce. Aggiungesi ancora a questi mali una immoderata e troppo aspetta intemperanzia de l'aere, per il quale, superando il rigore dell'invernata il calore del sole, alcuna volta le seminate biade alla maturità non pervengono: perciochè ivi alcuna volta sono tanti freddi eccessivi che, sí come nel tempo della state appresso di noi per il troppo caldo, cosí ivi per il gran freddo la terra s'apre: similmente l'acqua nell'aere, e lo sputo, avanti che tocchi la terra, si congela. Noi medesimi, nell'anno 1526, vedemmo i rami degli arbori fruttiferi l'invernata passata totalmente esser seccati, la quale fu tanto dura e aspra che molti cavallari (li quali essi goneez chiamano) sono stati ritrovati per il gran freddo aggelati nelle carrette. Furono eziandio alcuni pastori, li quali le pecore legate con le funi conducevano dalle ville in Moscovia, dalla forza del freddo tanto oppressi e molestati che insieme con li loro animali perirono. Oltra di questo molti circolatori, li quali con gli orsi ammaestrati al ballo sogliono per quelli paesi andare a torno, furono ritrovati morti per le strade, e li orsi, cacciati dalla fame, lasciate le selve per le ville vicine scorrevano, e per le case impetuosamente entravano: il conspetto e la violenza di quelli fuggendo la rusticana turba, di fuori per il gran freddo miseramente periva.
Ma tanto freddo alcuna volta tanto gran caldo risponde, che nell'anno 1525 fu tanto l'ardore del sole che quasi tutte le biade furono abbruciate, e tanta carestia del vivere fu che quello che per avanti si comprava per tre denghe, per vinti e trenta bisognava comprare; molti villaggi, selve e formenti per troppo caldo abbruciati si vedevano, del fumo de' quali talmente la regione era ripiena che gli occhi degli uomini gravemente dal fumo erano offesi, e oltra al fumo una certa caligine nasceva, la quale molte persone soleva accecare.
Tutto il paese già poco tempo esser stato cosí pieno di selve, per li tronchi delli grandi arbori li quali al presente si vedono, appare, e benchè per la cura e opra degli agricoltori sia assai coltivato, nondimeno, eccetto le cose che nascono nelli campi, tutte l'altre dalle provincie circonvicine sono portate. Abbonda di formento e d'erbe comuni; le cerese dolci e le noci (dalle avellane in fuora) in tutto il paese non si ritrovano; delli frutti degli altri arbori ne hanno, ma insuavi. Li melloni con singolare cura e industria seminano, in questo modo: compongono e formano la terra mista con il letame in certe vaneggie, o ver quadri di terra su alti, eminenti, e in quelli ascondono le semenze delli melloni, e con questa arte schivando il caldo e parimente il freddo grande, perciochè, se per sorte sarà il caldo grande, fanno certe aperiture alla similitudine de spiracoli in essa terra, acciò che 'l seme per il troppo calore non sia soffocato; e che nel tempo del freddo il calore del letame alle semenze seminate dà aiuto e buon soccorso. La Moscovia di mele e d'animali (eccettuati però i lepri) è priva; degli animali sono molto minori delli nostri, e non mancano delle corna, come alcuni hanno scritto, perchè ivi ho veduto bovi, vacche e capre, montoni, tutti con le corna.
La città di Moscovia, fra l'altre città settentrionali, verso oriente molto s'estende: il che certo non ci fu difficile a conoscere nell'andata nostra, perciochè, essendo noi usciti di Vienna, alla dritta via di Cracovia, e indi per spazio quasi di cento miglia todeschi essendo andati alla volta del settentrione, finalmente, pigliato poi il nostro viaggio alla parte d'oriente, pervenissimo in Moscovia, la quale ritrovassimo esser posta, se non in Asia, nondimeno negli estremi della Europa, da quella parte però dalla quale essa Europa con li suoi confini l'Asia ne tocca. La città è di legnami, assai grande, e di lontano appare piú grande di quello che non è, perciochè gli orti e le corti grande in ciascuna casa fanno maggiore accrescimento alla città; e abitazioni delli fabbri e degli altri artefici che usano il fuoco, nel fine d'essa città con longo ordine distese, dove sono pratarie e campi, molto piú la rendono grande. Oltra di questo, non molto lontano, si vedono alcune casette, e di là dal fiume certe ville, dove non già molti anni Basilio principe alli suoi satelliti Nale città edificò; il che in lingua loro sona infunde, per questa causa, che, essendo proibito alli altri Ruteni il bevere il medone e la cervosa (eccettuati pochi giorni dell'anno), a questi solamente è concesso dal principe la potestà del bevere, e però per questa cagione, acciò che gli altri per la libertà di coloro non siano corrotti, sono separati.
Non molto lontano dalla città sono alcuni monasterii, li quali soli, da lontano, appaiono alli spettatori una città. La grandezza della città fa che quella con nissuno termino è contenuta e serrata, né con muro, né con fossa, né con difesa utilmente fortificata. Nondimeno le piazze, in alcuni luoghi poste le travi in traverso, sono serrate, dove le guardie della prima ora di notte cosí sono poste e stabilite che a nissuno di notte è concessa l'entrata per quella strada, dopo l'ora ordinata: e quelli che per sorte fossero pigliati dalle guardie, o vero sono battuti e spogliati, o vero sono posti nella pregione, eccetto però se fossero uomini conosciuti e onesti, perciochè quelli dalli proprii guardiani sogliono essere accompagnati sino a casa. E però tali guardie sogliono essere locate e poste in quella parte nella quale è l'entrata piú libera nella città, perciochè l'altra parte della città, il fiume Mosqva forte la rende: nel qual fiume, sotto essa città, Iausa fiume entra, il quale, per rispetto dell'alte ripe, rare volte può essere veduto. In questo fiume sono molti molini, in uso publico della città fabricati. Per questi fiumi la città pare essere in qualche parte fortificata. Eccettuati alcuni pochi palazzi, tempii e monasterii di pietre, è fabricata tutta di legname.
Dicono che vi sia un numero quasi incredibile di case, e che, sei anni avanti la venuta nostra in Moscovia, per commissione del principe fu fatta la descrizione delle case: e il numero di quelle fu 41500. Questa città, tanto larga e spaziosa, è molto fangosa, e per questa causa nelle contrade, nelle piazze e altri luoghi piú celebri e famosi piú ponti sono fabricati. Evvi un castello, di pietre cotte edificato, il quale da una parte da Mosqva e da l'altra da Neglima fiumi è bagnato. Neglima da certe paludi nasce, e avanti la città, circa la parte superiore del castello, cosí si serra e chiude che ivi alla similitudine d'un stagno o ver lago quasi si ferma; e di lí poi scorrendo, le fosse del castello riempie, dove sono molini, e finalmente sotto il sopradetto castello (come ho detto) con il fiume Mosqva congiunge e lega. Il castello è di tanta grandezza che, oltra all'amplissime e magnifiche abitazioni del principe, le quali sono di pietre fabricate, ancora il vescovo metropolitano e li fratelli del principe e altri nobili v'hanno case spaziose e grandi, fatte di legname. Oltra di questo, vi sono in esso molte chiese, le quali sono di tanta grandezza che quasi una forma e modello di città rappresentano. Questo castello, da principio, solamente da' roveri era circondato, e insino alli tempi del granduca Giovanni, figliuolo di Daniele, era picciolo: perciochè questo duca, persuaso e mosso da Pietro metropolita, fu il primo che la sedia dell'imperio a quel luogo transferí, perciochè esso Pietro metropolita, per amore d'un certo Alessio, il quale in tal luogo era stato sepolto, uomo santo e per miracoli molto chiaro e celebre, prima di tutti in tal luogo avea la sedia sua transferito, ed eziandio dopo la morte sua in quel medesimo luogo fu sepulto. E conciosiachè appresso la sepoltura di costui fossero fatti miracoli grandi, esso luogo, per opinione di religione e di santità, talmente celebre e famoso divenne che tutti li posteri principi, successori di Giovanni, giudicorono esser ben fatto avere la sedia del lor imperio in simil luogo. Onde, morto Giovanni, il figliuolo di quel medesimo nome ivi la sedia ritenne, e dopo lui Demetrio, e dopo Demetrio Basilio, il quale fu quello che tolse per moglie la figliuola di Witoldo, e dopo sé il cieco Basilio lasciò; del quale nacque Giovanni, padre di quel principe appresso del quale io sono stato ambasciatore.
Il qual Giovanni fu il primo che 'l sopradetto castello con muro cinse e circondò, la qual opera, quasi trenta anni dapoi, dalli suoi posteri imposero fu finita. Le difese di quel castello, insieme col palazzo del principe, sono state fabricate all'usanza d'Italia da uomini italiani, li quali esso principe con premii grandi aveva chiamati. Sono in questo molte chiese, e quasi tutte di legnami, eccettuate però due piú nobili, le quali sono fabricate di pietre cotte, delle quali una alla beata Vergine, e l'altra a san Michele è consacrata. Nel tempio della Beata Vergine sono sepolti li corpi di due vescovi, li quali furono auttori che li principi transferissero la sedia dell'imperio in quel luogo, e per questa cagione nel numero de' santi sono riportati; nell'altro tempio li principi vi sono sepolti. E quando io era in Moscovia, piú tempii di pietre si edificavano.
L'aere del paese è tanto salubre e sano che di là insino dalli fonti del Tanai, specialmente al settentrione, ed eziandio in gran parte verso l'oriente, non vi è ricordanza d'uomini che mai nissuna peste abbia molestato le persone. Nondimeno hanno alcuna volta una certa malatia negli intestini e nel capo, non differente dalla peste, la qual essi chiamano calore, e quelli che da tale infirmità sono oppressi in pochi giorni periscono. Questa malattia, essendo noi in Moscovia, regnava, e uno delli nostri servitori ne morí. Se per sorte in Nowogardia, in Smolentzko e in Plescowia viene la peste, tutti quelli li quali di quei paesi venissero, per paura che non si infettasse il suo gli mandano via.
Le genti di Moscovia, si dice essere la piú astuta e la piú fallace di tutti gli altri, e di poca fede in contrattare le cose, e, quando hanno commercio con uomini esterni, acciochè maggior fede alle parole loro si presti, fingono non essere moscoviti, ma forestieri.
Il piú longo giorno in Moscovia, nel solstizio estivale, dicono essere di ore 17 e tre quarti; non ho potuto da nissuno intendere la certa elevazione del polo, benchè uno mi dicesse di aver inteso la elevazione del polo essere di gradi 58. Ma io medesimo finalmente, per via dell'astrolabio, ne ho fatta la esperienza, e ho bene osservato alli nove di giugno, nel mezogiorno, il sole di 58 gradi: dalla quale osservazione, per computazione d'uomini di questa cosa peritissimi, è stato conosciuto l'altezza del polo essere di gradi 50, e il giorno piú longo d'ore 17 e un quarto.


Avendovi descritta la Moscovia, luogo principale del regno, ora all'altre provincie al granduca di Moscovia sottoposte me ne vengo; e primamente servato l'ordine verso l'oriente, e dapoi per il mezogiorno, per l'occidente e per settentrione a torno a torno scorrendo, con dritta via nell'oriente equinoziale ne verremo.

Wolodimeria, città grande, primieramente ci viene avanti gli occhi, la quale ha congiunto a sé un castello di legnami. Questa dal tempo di Wolodimero, il quale dapoi fu detto Basilio, fino a Giovanni, figliuolo di Daniele, fu la principal città della Russia. È in mezo di due gran fiumi, Wolga e Occa, distante da Moscovia verso oriente circa trentasei miglia tedeschi: luogo tanto fertile e abbondante che d'un moggio di formento spesse volte 20 e alcuna volta 30 ne sogliono provenire. È bagnata dal fiume chiamato Clesma, e ha vicine grandi e terribili selve. Il fiume Clesma nasce quattro miglia germani lontano dalla Moscovia, e ivi è molto commodo e utile per la copia di molti molini; e da Wolodimeria insino a Murom città, nel lito d'Occa posta, per spazio di dodici miglia è navigabile, e con il fiume Occa si congionge. Questa città di Murom fu già un principato, il qual cominciava da Wolodimeria città e per spazio di vintiquattro miglia tedeschi per la dritta via insino in oriente, nelle gran selve, si estendeva; e li popoli di quello Muromani erano chiamati, abbondanti di pelle d'animali, di melle e di pesce.
Nowogardia inferiore è città grande e con casamenti di legnami, e ha uno castello il quale Basilio, presente monarca, fra due fiumi, Wolga e Occa, in un scoglio edificò. Dicono dalle parti orientali essere distante da Murom quaranta miglia germanici; il che è cosí, Nowogardia distando dalla Moscovia cento miglia. Veramente per fertilità e per copia di molte cose a Wolodimeria città s'appareggia. E in questo luogo, da questa parte, è il termine della cristiana religione, perciochè, benchè il principe di Moscovia di là da Nowogardia abbia un castello, chiamato Sura, nondimeno le genti che vi sono di mezo, le quali Czeremisse si chiamano, non la cristiana, ma la macomettana setta seguitano. Ivi sono ancora altre genti, chiamate Mordwa, miste con li Czeremissi, le quali di qua da Wolga fiume alla volta di Sura buona parte della regione occupano; perciochè i Czeremissi di là da Wolga, nel settentrione, vivono, alla differenza de' quali quelli che abitano intorno a Nowogardia Czeremissi superiori o vero montani (non già dalli monti, quali in tal luogo non sono, ma piú presto dalli colli, quali essi abitano) sono chiamati.
Sura fiume il dominio di Moscovia e del re casanense divide, il qual fiume, dal mezogiorno venendo, per vintiotto miglia sotto Nowogardia alla volta d'oriente con corso torto in Volga fiume entra; nel corso delli quali fiumi, appresso d'uno delli due liti, Basilio principe un castello fabricò, e quello dal nome suo Basilowogorod nominò, il quale dapoi fu un seminario di molti mali. Non molto lontano di lí è Moscha fiume, il quale ed egli similmente venendo dal mezogiorno, sopra Murom in Occa fiume entra, non molto lontano dal castello di Cassimowgorod, il qual il principe di Moscovia per abitazione de' Tartari concesse. Le donne de' quali con certo artificio, per ornamento, con negro colore si tingono l'onghie della mano, e senza portamento veruno di testa, e con li capegli sparsi giú per le spalle perpetuamente camminano. Da Moscha fiume verso l'oriente e il mezogiorno grandissime selve si truova, le quali i popoli chiamati Mordwa, quali usano il proprio idioma e al principe di Moscovia sono sottoposti, abitano. Molti dicono costoro essere idolatri, altri dicono maomettani: questi abitano nelle ville, coltivano li campi, hanno il viver loro di carne d'animali e mele, abbondano di pelli preziose, sono uomini duri e forti, e spesse volte li Tartari robbatori gagliardamente ribbattono indietro. Sono quasi tutti a piedi, usano archi longhi e nella perizia e arte del sagittare sono eccellenti.
Rezan provincia, fra Occa e il Tanai fiumi posta, ha la cità di legno, non molto lontano dalla ripa del fiume Occa. Era in questa città un castello, il quale Garoslaw era chiamato, del quale al presente si vedono le vestigie. Non molto lontano, il fiume Occa fa un'isola, la quale è detta Strub. Già fu granducato, e il principe di quello a nissuno era sottoposto.
Da Moscovia, tra l'oriente e il mezogiorno, o vero, come vogliono altri, nell'oriente iemale, vi occorre una città, chiamata Colonna, e dapoi Rezana provincia, la quale per trentasei miglia tedesche è distante da Moscovia. Questa provincia è piú fertile di tutte l'altre provincie della Moscovia, nella quale, come dicono, ogni granello di formento fa due e alcune volte piú spighe, le gambe de' quali crescono tanto spesse che né cavalli facilmente passare, né le coturnici di là volare possono. Ivi è gran copia di melle, di pesci, d'uccelli e d'altri animali, e li frutti degli arbori sono molto piú nobili delli frutti di Moscovia; e la gente è audacissima e bellicosissima, piú dell'altre.


Del fiume chiamato Tanais.

Da Moscovia insino a questo castello, e piú oltra ancora, per spazio quasi di 24 miglia todeschi, corre il Tanai, in un luogo il quale è detto il Donco, dove li mercanti li quali vanno in Asoph, in Caphan e Costantinopoli cercano le sue navi; il che il piú delle volte si fa al tempo dell'autunno, nella parte pluviosa dell'anno, perciochè ivi il Tanai, negli altri tempi dell'anno, non abbonda cosí d'acque ch'egli possa cosí bene portare le navi carche di mercanzie.
Basilio il granduca signoreggiava Rezan provincia, il quale già aveva tolta per moglie la sorella di Giovanni Basilio, granduca di Moscovia, e di quella n'ebbe due figliuoli, cioè Giovanni e Theodoro, de' quali Giovanni al morto Basilio successe nel regno. Il qual d'una sua moglie, chiamata Knos, figliuola di Theodoro Babitz, ebbe tre figliuoli: Basilio, Theodoro e Giovanni. Delli quali, morto il padre loro, li due maggiori, mentre ciascuno si sforza d'impadronirsi del regno, nelli campi razanensi venuti alle mani, con l'armi valorosamente combatterono, nella qual pugna uno morí: né molto dipoi quello ch'era restato vittorioso in quei medesimi campi finí sua vita, e cosí in tal luogo, in memoria di tal cosa, il segno della croce, fatto di rovere, vi fu drizzato. Il minor fratello, il qual era vivo restato, conosciuta la morte de' suoi fratelli, con l'aiuto e favore de' Tartari il principato paterno, per il quale li due fratelli già avevano combattuto e il quale la madre possedeva, per forza ottenne. E poi trattò col duca di Moscovia, che, attento che li suoi maggiori senza essere sottoposti a nissuno tal principato liberamente avessero tenuto e posseduto, similmente permettesse ch'egli signoreggiasse.
Mentre queste cose si trattavano, fu riportato al gran principe di Moscovia che questo Giovanni dimandava per moglie la figliuola del re di Tauris, con il quale esso duca di Moscovia aveva guerra; onde essendo stato chiamato da esso principe di Moscovia, per paura d'oggi in domani andava prolongando l'andata sua. Nondimeno, da un certo Simone Crubino, uno de' suoi consiglieri, persuaso, finalmente andò in Moscovia, dove per commissione del principe moscovito fu preso e in libera prigione posto; e la madre sua similmente cacciò dal dominio e inchiuse in un monastero, e il castello con il suo principato occupò. Dapoi, acciochè qualche rebellione de' Rezanensi non si facesse, buona parte di quei per diversi luoghi distribuí, per il che le forze di tutto 'l principato, scemate, mancorono. Ma conciosiachè nell'anno del Signore 1521 li Tartari appresso Moscovia avessero posto l'esercito, il sopradetto Giovanni, per mezo del tumulto uscito di prigione, alla volta della Lituania scampò, dove eziandio insino allora ch'io era in Moscovia era bandito.
Tulla castello quasi per quaranta miglia germanici è distante da Rezan, e da Moscovia verso 'l mezogiorno trentasei, ed è l'ultima città alli campestri deserti, dove Basilio, figliuolo di Giovanni, un castello di pietre edificò, a canto il quale un fiume di quel medesimo nome scorre. Ma Uppa, l'altro fiume, da oriente esso castello bagna, e con Tulla fiume congionto, in Occa fiume sopra Worotinski quasi per vinti miglia germani entra: nelle bocche del qual fiume, non troppo lontano, è posto un castello chiamato Odoyow; questo castello, al tempo di Basilio, aveva il proprio suo principe.
Il Tanai, fiume famosissimo, il quale l'Europa da l'Asia divide, quasi per otto miglia lontan da Tulla al mezogiorno, all'oriente piegando, nasce; non già da' monti Rifei, come alcuni hanno descritto, ma da Iwanowosero, cioè dal gran lago di Giovanni, il quale, per longhezza e per larghezza, circa mille e cinquecento miglia si distende, e in una certa selva, la quale alcuni Okonitzkilies, alcuni Iepiphanowlies chiamano, da questo lago due gran fiumi, Schat e Tanai, vengono fuora. Schat nell'occidente riceve in sé il fiume Oppa, e dentro al fiume Occa, fra l'occidente e il settentrione, mette il capo. Ma il Tanai col primo suo corso drittamente nell'oriente scorre, e fra Casan e Astrachan regni sei o ver sette miglia germani lontano da Wolga fiume trapassa. Dapoi, con un corso riflesso al mezogiorno, fa le paludi quali dicono Meotide, alli fonti della quale è propinqua la città di Tulla, e, sopra le bocche di quella, quasi per tre miglia nel lito, Asoph città, la quale per prima Tanai era chiamata. Sopra di questa, per viaggio di quattro giorni, è Achas città, a quel medesimo fiume posta, il quale i Ruteni chiamano Don. Questo luogo, per copia singolare d'ottimi pesci, per l'amenità dell'una e l'altra ripa del fiume, di diverse erbe e radici soavissime ripiene, e per molti arbori fruttiferi e buoni, come in un bel giardino industriosamente piantati, a bastanza lodare non si può.
Oltra di ciò, evvi tanta copia d'animali che con poca fatica con le freccie si pigliano, e quelli che passano per que' luoghi al sostegno della vita loro d'altro non hanno bisogno, eccetto che del fuoco e del sale. In quelle parti non le miglia, ma le giornate s'osservano, quanto ho potuto con la coniettura comprendere. Dalli fonti del Tanai insino alle bocche di quello, per terra camminando drittamente, vi sono quasi ottanta miglia germani; e da Donco, dove v'ho detto che 'l Tanai è navigabile, apena in vinti giorni navigando si perviene ad Asoph, città tributaria a' Turchi; la quale (come dicono) per cinque diete è distante dall'istmo di Tauris, il qual altrimenti Precop chiamano. In Asoph v'è un nobilissimo ridotto di molte genti, da diverse parti del mondo, nel qual luogo a tutti, di chi gente si siano, è concessa libera libertà di potervi venire, e di vendere e comprare, ed è lecito a quelli ch'escono della città di poter fare quel tutto che piú gli piace, senza pena niuna. Degli altari d'Alessandro e di Cesare, li quali molti scrittori dicono esser stati in questi luoghi, over dalle rovine di quelle, o vero da altra coniettura, niente di certo ho potuto intendere, né dagli abitanti del paese né da quelli li quali tali luoghi spesse volte frequentano. Similmente dalli soldati, li quali il principe suole avere ogn'anno per guardia in tal luogo a spiare e ribattere l'audacia de' Tartari, niente di certezza ho avuto. Nondimeno, circa alle bocche del minor Tanai, quattro diete lontano dalla città di Asoph, appresso un luogo Velikiprewos chiamato, dicevano certe statue e imagini di marmo e di pietra aver vedute. Il minor Tanai nel principato di Sewerski nasce, onde Donetz Sewerski è chiamato, e per tre diete sopra Asoph nel Tanai scorre.
Quelli che da Moscovia in Asoph città per terra vanno, passato il Tanai vicino a Donco, castello vecchio e rovinato, dal mezogiorno verso oriente torceno il cammino, nel qual luogo, se dalle bocche del Tanai insino alli fonti di quello una dritta linea si tirasse, si troverebbe la Moscovia esser posta in Asia, e non in Europa.
Miseneck è luogo paludoso, nel quale era già un castello, del qual sin ora le vestigie si vedono. Intorno a questo luogo, al presente, alcuni in certe teggette abitano, li quali, dalla necessità costretti, in quelle paludi come in un castello si ritirano. Da Moscovia in Mesceneck, andando verso il mezogiorno, vi sono quasi 60 miglia germanici, e da Tulla quasi 30. Occa fiume 18 miglia lontano da Mesceneck, dalla parte sinistra, nasce, e prima in oriente, dapoi in settentrione, ultimamente in oriente estivale (come essi dicono) il suo corso drizza, e cosí, quasi con una forma d'un mezo circolo, Mescenech paludosa chiude. E oltra di questo molte città, come è Worotino, Coluga, Cirpach, Corsira, Calumna, Rezan, Casimowogorod e Murom col suo corso bagna, e poi finalmente in Wolga, sotto la Nowogardia inferiore, entra; e da ogni parte da selve è serrato e chiuso, le quali di melle, d'aspreoli, d'armelini e di martori sono molto abbondanti. Tutti li campi quali egli bagna sono fertilissimi; è nobilissimo per copia di buoni pesci, li quali a tutti gli altri fiumi di Moscovia sono preferiti, e specialmente quelli li quali intorno a Murom sono presi. Oltra di questo ha certi pesci principali, li quali in la lor lingua chiamano beluga, di maravigliosa grandezza, senza spine, con il capo e con la bocca grande, sterlet, schervugia, osseter, che sono di sorte di sturioni, e un pesce chiamato bielaribitza, cioè pesce bianco, di delicato sapore; delli quali pesci la maggior parte pensano venire dal fiume Wolga in quello. Dicono che dalli fonti d'Occa fiume due altri fiumi nascono, cioè Sem e Schosna, delli quali Sem per il principato Sewera corre e, la città di Potiwolo trapassata, nel fiume Desna scorre, il qual per la città di Czernigo trapassa, e sotto Chiovia nel fiume Boristene è portato; ma Schosna per la dritta via scorrendo nel Tanai mette capo.
Corsira, nella ripa del fiume Occa, è castello, sei miglia sopra a Calumna. Aveva già il dominio della sua giurisdizione, ma conciosiachè fosse riferito al principe Basilio che il signor di Corsira avea conspirato nella morte sua, e per questa causa, sotto pretesto di voler andare a caccia, fosse chiamato da esso principe Basilio, e che 'l detto Giovanni armato (perciochè da un certo amico suo era stato avvertito che non v'andasse senza armi) a ritrovare il principe nella caccia fosse pervenuto, né manco allora amichevolmente fusse ricevuto, nondimeno fugli comandato che a Czirpach, città vicina, insieme con il secretario del principe Georgio andare dovesse, e in tal luogo aspettare. Laonde, dapoi essendo invitato dal secretario del principe a bevere, e quello, come si suole, per la conservazione del suo principe, subito sentí esser ingannato e in nissun modo poter fuggire le preparate insidie e inganni: chiamato il sacerdote e bevuta la bevanda, finí sua vita. E per questo fatto scelerato e tristo Basilio la città di Czirpach ottenne, la quale è lontana 8 miglia da Corsira, ed è posta appresso il fiume Occa, dove eziandio, in luogo piano, vi si cavano le minere del ferro.
Coluga castello, appresso il fiume Occa collocato, per trentasei miglia è lontano dalla Moscovia, e quattordici da Czirpach. Ivi si fanno artificiosamente tazze di legno con intagli, e altre cose belle di legname, al culto domestico e familiare convenevoli, le quali poi di là in Moscovia, nella Litwania e nell'altre regioni circonvicine sono portate. In questo luogo il principe di Moscovia ogni anno suole avere le sue buone guardie contra le correrie delli Tartari.
Il principato Worotino ha un medesimo nome con la città, e il castello è posto tre miglia sopra Coluga, non molto lontano dalla riva del fiume Occa. Già questo principato Giovanni knes, cognominato Worotinski, possedeva, uomo nel vero bellicoso e per la esperienzia di molte cose eccellente, di modo che, essendo costui capitano dell'esercito, il principe Basilio sovente molte vittorie preclare e degne delli suoi nimici aveva riportate. Ma nell'anno 1521, in quel tempo che 'l re di Tauris, passato il fiume Occa, con bellissimo esercito, come ho detto di sopra, aveva assaltato la Moscovia, successe che 'l principe moscovito un certo Demetrio knes Bielski, uomo giovane, mandò con l'esercito contra il sopradetto re a riprimere e abbassare la superbia di quello. Ma Demetrio, facendo poca stima delli sani consegli del valoroso capitano Giovanni Worotinschi e degli altri uomini da bene, subito veduto il nimico vergognosamente si diede a fuggire; e in vero Andrea, fratello del principe, era stato auttore della fuga piú che gli altri. Or finalmente, dopo la partita delli Tartari, volendo il principe di Moscovia diligentemente ricercare degli auttori della fuga, successe che 'l sopradetto Giovanni Worotinschi non solamente in summa indignazione del principe divenne, ma eziandio fu preso, posto in prigione e del suo principato totalmente privato. Nondimeno, a l'ultimo, fu cavato fuora di prigione, con questa condizione però, che mai uscisse fuora della Moscovia, e cosí noi similmente fra gli uomini primarii della corte del principe, in Moscovia, lo vedemmo.
Sewerra è un gran principato, il castello del quale Nowogrodech è chiamato; era già la sedia delli principi sewdrensi, prima che fossero spogliati del regno. Da Moscovia a quel luogo si perviene da man destra al mezogiorno, per la via di Coluga, di Worotino, di Serenscho, ed è viaggio di 150 miglia germani. E la larghezza di tal principato insin al fiume Boristene si distende, e ha in ogni luogo campi vasti, grandi e deserti, e intorno a Branschi ha una selva grande. In questo principato sono molte castella e città, fra li quali Starodub, Potiwlo, Czernigow sono i piú celebri e piú famosi. Il campo, quando è coltivato, è fertile, e le selve sono molto abbondanti e copiose d'armellini, aspreoli, martori e melle. La gente similmente, per le continue guerre con li Tartari vicini, è molto bellicosa e armigera; ma Basilio, figliuolo di Giovanni, sí come molti altri principati, cosí eziandio questo al suo dominio e imperio sottopose, in questo modo.
Erano due Basilii, nepoti per li fratelli, de' quali uno era cognominato Basilio Semetzitz, il quale Nowogrodech castello possedeva, e l'altro Staradub città teneva; e Potiwlo città un certo Demetrio principe dominava. Sfrenato desiderio di regnare entrò in Basilio Semetzitz, per esser uomo valente nell'armi, e per questo di molto terrore alli Tartari, e voleva dominare il principato, né mai si riposò sin a tanto che l'altro Basilio Staradubschi vincesse. E cosí finalmente, cacciatolo del regno, la provincia di quello occupò, il che fatto, per un'altra via similmente il principe Demetrio assaltò, accusandolo appresso il gran principe di Moscovia di rebellione. Per il che mosso, il principe moscovitico comandò a Basilio che usasse ogni ingegno e arte di pigliare Demetrio e di condurlo in Moscovia: onde il sopradetto Demetrio per fraude e inganno di questo Basilio, essendo a caccia, fu circondato e preso, perciochè Basilio aveva mandati prima certi cavalli armati avanti le porte del suo castello, acciochè Demetrio, come persona fuggitiva, ritenessero, il che fu fatto. E cosí preso e ligato, fu subito condotto in Moscovia e messo strettissimamente in prigione; il che Demetrio, suo figliuolo, ebbe tanto a sdegno e ira che subito alla volta delli Tartari se n'andò, acciochè della ricevuta ingiuria del padre suo con prestezza e con danno delli nimici suoi ne facesse la vendetta, e cosí, rinegata la fede cristiana, secondo il costume di Maumeth fu circonciso. Tra questo mezo, mentre appresso li Tartari dimorava, accadette che Demetrio dell'amore d'una fanciulla elegantissima e bella fu preso, la quale non potendo godere a modo suo, finalmente, contra la volontà delli parenti suoi, secretamente menò via. La qual cosa li servi, li quali erano stati circoncisi con quello, alli propinqui della fanciulla palesorono, onde li parenti mossi, subito di notte assaltorono Demetrio, e quello, insieme con la fanciulla, con le frecce ammazzorono. Basilio, principe di Moscovia, udita la fuga del figliuolo di Demetrio alla volta delli Tartari, commandò che 'l vecchio padre in piú stretti e serrati legami fosse costretto: il povero vecchio, non molto dapoi udita la morte del figliuolo appresso li Tartari, dalla prigione e per il pianto consumato, in quel medesimo anno, che fu del 1519, finí sua vita.
E di tutti questi errori scelerati e tristi, Basilio Semetzitz ne fu principale auttore, sí come eziandio per avanti era stato cagione che per le sue parole il principe moscovito, e il signore di Corsira, e il suo germano fratello, presi e incarcerati occise. Ma sí come spesse volte suole avvenire che come quelli li quali apparecchiano insidie agli altri in quelle medesime sogliono cascare, cosí a questo Semetzitz intervenne; perciochè egli similmente appresso il principe di ribellione fu accusato, per la qual cosa essendo stato chiamato in Moscovia, denegò dover a quel luogo gire, se prima publicamente non gli fossero mandate lettere della publica fede del principe, con il giuramento del metropolita confirmate. Laonde, mandate e ricevute le lettere secondo il suo volere, alli 19 d'aprile nell'anno 1523 essendo venuto in Moscovia, con doni amplissimi eziandio offertigli dal principe, onorevolmente fu ricevuto; nondimeno, di lí a pochi giorni, fu preso e messo in pregione. La causa di questa cosa dicono esser stata che egli avea scritto lettere al re di Polonia che si voleva ribellare dal principe di Moscovia, e che la lettera dapoi pervenne alle mani del capitano chioviense, il quale, aperte le lettere, e conoscendo l'animo suo cattivo contro il principe, subito le mandò al principe di Moscovia. Altri assegnano un'altra ragione, piú simile al vero: perciochè solo Semetzitz in tutto l'imperio di Moscovia restava, il quale e le castella e li principati possedeva, delli quali luoghi acciochè piú facilmente quello ne cacciasse fuora, e che piú sicuramente il vizio della perfidia signoreggiasse, fu pensato in che modo quello si potesse far morire. Al che un certo pazzo, facendone segno evidentissimo, in quel tempo che Semetzitz entrava in Moscovia, portava a torno a torno le scope, o ver granate da spazzare; e dimandato perchè facesse cosí, e che significava tale apparato, rispose che l'imperio del principe ancora non era ben purgato, e che adesso era il tempo commodo e opportuno di spazzare e nettare via tutte l'immondizie e brutture della piazza.
Giovanni, figliuolo del granduca di Moscovia, avendo vinto l'esercito di Litwania appresso il fiume Wedrosch, fu il primo che tal provincia al suo imperio aggiungesse. Veramente li principi sawenensi sono quelli li quali tirano la lor generazione da Demetrio, granduca di Moscovia. Demetrio ebbe 3 figliuoli, cioè Basilio, Andrea e Georgio; di questi Basilio, di maggiore età, secondo la legge della patria, successe al padre nel regno, e dalli altri due, cioè Andrea e Georgio, li principi sewerensi hanno avuta l'origine loro.
Czernigow per 30 miglia da Chiowia e altretanti da Potiwlo è distante. Ma Potiwlo è distante da Moscovia 140 miglia todeschi, e da Chiowia 60, e da Bransk 38. Questo paese di là dalla gran selva, la quale per 24 miglia in larghezza si estende, è posto. Nowogrode per 8 miglia è distante da Potiwlo, e da Staradub 14, ma Staradub da Potiwlo è distante per 30 miglia. Quelli che vanno da Potiwlo in Tauris per le solitudini, il fiume Sna, Samara e Ariel truovano, delli quali li due ultimi sono piú larghi e piú profondi. In passar questi fiumi, mentre li viandanti longo tempo alcuna volta sono ritenuti, spesse volte dalli Tartari sono impediti, circondati e presi. Dopo questi fiumi, Koinschahvoda e Molosca fiumi vi occorrono, li quali con nuovo modo di passare li passano: tolgono certi rami tagliati dagli arbori, quali radicano e legano in fasci, sopra di quali pongono le robbe loro e se medesimi, e per questa via con remi trapassano da l'altra parte del fiume. Altri similmente legano li sopradetti fasci alla coda delli cavalli, li quali con il flagello cacciati, notando conducono e transportano al lito di là.
Ugra, fiume profondo e fangoso, non lontano da Drogobusch in certa selva nasce, e infra Coluga e Worotin in Occa fiume ne va; già questo fiume la Moscovia dalla Litwania divideva.
Demetriowitz castello e fortezza, fra 'l mezogiorno e settentrione, per diciotto miglia è lontano da Wesma, e da Worotim circa vinti miglia.
Smolentzko, città vescovile, appresso il fiume Boristene è situata e posta, e nel lito di là dal fiume, alla volta d'oriente, ha un castello fortissimo, il quale abbraccia dentro di sé molte case, alla simiglianza d'una città: questo castello, da quella parte che è propinqua al colle (perciochè da l'altra parte è tocco dal fiume Boristene), per la fossa e per certi pali aguzzi, per li quali le correrie de' nimici sono impedite, è molto forte. Basilio di Giovanni spesse volte e gravissimamente tentò di pigliare tal luogo, e nondimeno già mai per forza lo poté pigliare: ma ultimamente, per fraudi e inganni delli soldati e d'un certo capitano e prefetto boemo, del quale di sopra, nell'istoria di Michele Lynschi è detto, tal fortezza ottenne. La città è posta in una valle, e intorno intorno ha colli fertili, ameni e dilettevoli, e da grandissime selve è circondata, dalle quali selve grandissima utilità ne viene, per la copia grande delle pelli di diversi animali. Nel castello è un tempio sacrato alla beata Vergine, e altri edificii fatti di legnami. Nelli borghi della città si vedono ruine di monasterii di pietre. Da Moscovia in Smolentzcho, fra 'l mezogiorno e l'occidente, è viaggio di 18 miglia; e primamente un luogo chiamato Mosaisko si ritruova; dapoi di là 26 miglia, Wiesma, e 18 miglia, Drogobusch, e per altretante miglia a Smolentzko pervenissimo. E tutto questo viaggio è di 80 miglia germanici, ma i Lituani e Moscoviti affermano essere 100 miglia; nondimeno io tre volte ho fatto tal viaggio, e ho ritrovato che sono ottanta. Questo principato, regnando Basilio, Witoldo, granduca della Lituania, nell'anno 1413 tolse alli Moscoviti; ma questo medesimo principato Basilio di Giovanni, nell'anno 1514, a' trenta di luglio, tolse per forza a Sigismondo, re della Polonia.
Drogobusch e Wiesma, fortezze e castelli, sono di legnami, e appresso il fiume Boristene posti; li quali luoghi già erano sotto il dominio delli principi di Lituania. È sotto la città Wiesma un fiume di quel medesimo nome, il quale non molto lontano, cioè per spazio di due miglia, è portato nel fiume Boristene; e sogliono le navi cariche di merci di là essere portate nel fiume Boristene, e dapoi similmente per il Boristene, a contrario dell'acqua, sono portate insino a Wiesma.
Mosaiko similmente è fortezza e castello di legname, e intorno a quel luogo evvi gran copia di lepri di diversi colori; e quivi suole il principe d'anno in anno fare le sue caccie, e in tal luogo similmente alcuna volta dare ubidienza gli oratori di diversi principi, sí come, essendo noi nella Moscovia, diede udienza alli oratori de li Lituani; e noi ancora essendo chiamati, da Moscovia a quel luogo ne gissimo, dove finite e terminate le commissioni delli nostri principi licenziati fussimo. L'imperio delli principi di Moscovia, al tempo di Witoldo, per cinque o vero sei miglia di là da Mosaicho si distendeva.
Biela principato, con la fortezza e città di quel medesimo nome, da Moscovia al fiume Opscha da sessanta miglia tedeschi per le gran selve e piú, alla banda d'occidente, è distante; e da Smolenzcho, trentasei, e da Toropetz, trenta. Già li principi di questo principato ebbero origine da Gidemino; ma Casimiro essendo re nella Polonia, li figliuoli di Iagellone questo principato godevano, nel qual tempo Basilio, principe di Biela, il quale altrimente Bielschi era chiamato, a Giovanni, padre di Basilio, recorse, e a quello se stesso e li suoi beni sottopose; e lasciata la propria moglie nella Litwania, un'altra nella Moscovia pigliò, della quale n'ebbe tre figliuoli, li quali noi vedessimo appresso il principe nel numero delli cavalieri: e Demetrio, per l'auttorità del padre, in gran prezzo e onore era avuto da tutti. Quantunque li tre fratelli della eredità paterna di Bielschi vivessero, e per le annuali entrate di quello fossero nutriti, nondimeno non avevano ardimento d'andare a quel luogo, perciochè il principe di Moscovia aveva già tolto a quelli il principato di Bielschi, e il titolo di quel luogo s'usurpava.
Rsowa, città di Demetrio, con la fortezza, verso l'occidente per vintitre miglia è lontana dalla Moscovia; e il castello, del quale il principe si usurpa il titolo, appresso il fiume Wolga è fabricato, e ha la sua signoria molto grande. È ancora un'altra Rsowa, cento e quaranta miglia lontano da Moscovia, e da Welikiluki vinti, e altretanti da Plescowia, la quale deserta è chiamata. Di là da Rsowa di Demetrio, per alcune miglia camminando in occidente, è la selva Wolchonzchi detta, della quale quattro fiumi nascono. In quella selva è una palude, la quale Fronow si chiama, della quale un fiume nasce, non molto grande, e per spazio di due miglia entra in certo lago, chiamato Wolgo, donde di nuovo, per la moltitudine dell'acque cresciuto, ne vien fuora, e, preso il nome del lago, Wolga è chiamato. Il qual fiume, trapassando per molte paludi e ricevendo in sé molti altri fiumi, con vinticinque o vero, come altri dicono, con settanta bocche entra nel mare Caspio, da' Ruteni Chwalinsko Morie chiamato, e non in Ponto, come uno scrive. Questo fiume Wolga, da' Tartari Edel, da Tolomeo Rha è chiamato: fra questo fiume e il Tanai è tanta propinquità, nelli luoghi campestri, che quasi non piú che sette miglia sono distanti uno dall'altro. Ma quali città e castella questo fiume col corso suo bagni, al luogo suo ne parleremo.
In quella medesima selva, lontano 10 miglia dalla palude Fronovo, è una villa, chiamata Dnyepersko, intorno alla quale nasce il fiume Boristene, il quale dagli abitanti del luogo Dnieper è chiamato. Non troppo lontano da questo luogo è il monasterio della Santa Trinità, dove nasce un altro fiume, maggiore che 'l primo, e per diminuzione Niepretz è detto. Amendua questi fiumi fra li fonti del Boristene e la palude Fronowo corrono, nel qual luogo le merci delli Moscoviti e delli Cloppiensi, poste nelle navi, alla volta della Litwania sono portate; e sogliono li mercanti in tal monasterio abitare, non altrimenti che se fossero all'osteria. Che 'l fiume Rha e il fiume Boristene dalli medesimi fiumi non nascono (secondo l'opinione d'alcuni), per relazione certa delli mercanti li quali in quelle parti sogliono praticare ho inteso per certo. Ma il corso del Boristene, che primamente Wiesma città verso 'l mezogiorno tocca, dapoi, con un piegato corso in oriente, Drogobusch, Smolenzcko, Orscha e Mogilef città bagna e trapassa; e di là poi, di nuovo nel mezogiorno scorrendo, Chiovia, Circassi e Orzakow tocca, dove di nuovo in Ponto si discarca, e in tal luogo vedesi il mare propriamente aver la forma e simiglianza d'un lago: e Otzakow è quasi in un cantone, alle bocche del fiume Boristene. Perciochè noi da Orschain in Smolentzko venissimo, dove le robbe nostre con le navi sino a Wiesma portassimo, e quel fiume talmente innondava che un certo monaco, in una sua barchetta da pescare, molto lontano per le selve il conte Nogarola e me insieme con lui ne portò, e li cavalli, nuotando, molti miglia per acqua fecero.
Il laco Dwina da' fonti del Boristene quasi per dieci miglia, e altrettanto dalla palude Fronowo è distante. Da questo lago nasce un certo fiume di quel medesimo nome, verso l'occidente, il quale per vinti miglia è lontano da Wilna, e dapoi corre nel settentrione e appresso Riga, città principale della Liwonia, nel mare Germanico, detto da' Ruteni Wareczkoie Morie, scorre, e bagna Witepsko, Polotzko e Dunenburg; e non tocca Plescowia, come alcuni hanno scritto. I Livoniensi questo fiume chiamano Duna.
Lowat, quarto fiume, non è da comparare con gli altri tre; nasce fra 'l lago Dwina e la palude Fronowo, o vero da essa palude; non ho potuto veramente sapere l'origine di questo fiume, quantunque non sia troppo distante dalli fonti del Boristene. Questo è quel fiume, come dicono i loro annali, per il quale s. Andrea apostolo dal Boristene per il secco condusse la sua barca; ed è quel fiume il quale, scorrendo il spazio quasi di 40 miglia, finalmente Welikiluki bagna, e dapoi nel lago chiamato Ilmen mette capo.
Wolok città e fortezza, nell'occidente equinoziale, per vintiquattro miglia è distante da Moscovia, e da Mosaisco quasi dodici miglia; da Twer, vinti. Il principe a se stesso tribuisce e dona il titolo di questo luogo, e suole similmente ogn'anno il principe in questo luogo dilettare l'animo suo col piacere dell'uccellare, seguendo i lepri con li falconi.
Welikiluki fortezza e città, nell'occidente, è distante da Moscovia cento e quaranta miglia, dalla gran Nowogardia sessanta, da Poloczko trentasei: e per questa via ancora si va dalla Moscovia nella Litwania.
Toropecz è una fortezza, con la città, fra Welikiluki e Smolenczko, a' confini della Lituania, ed è distante da Luki quasi diciotto miglia.
Twer, o vero Otwer, fu già grande di dominio, e uno delli gran principati della Russia, posto alla parte del fiume Wolga, verso l'occidente estivale lontano dalla Moscovia trentasei miglia; e ha una gran città, la quale dal fiume Volga è bagnata. Nell'altra parte della ripa nella quale Twer guarda la Moscovia ha un castello, e all'incontro di quello evvi il fiume Twertza, il quale nel fiume Volga mette capo: e per quel fiume io con un navilio in Otwer pervenni, e l'altro giorno per il fiume Rha navigai. Questa città era sedia episcopale, vivendo Giovanni, padre di Basilio, nel qual tempo il granduca Boris il principato twerense signoreggiava; la cui figliuola, chiamata Maria, dapoi Giovanni Basilio, principe di Moscovia, prese per moglie, della quale (come è detto di sopra) n'ebbe un figliuolo, chiamato Giovanni, primogenito. Boris morí, e Michele, suo figliuolo, successe nel regno; il quale dapoi dal suo cognato, principe della Moscovia, fu cacciato, e bandito e privato del regno, nella Lituania terminò sua vita.
Tersack è castello dieci miglia lontano da Twer, una parte del quale è sottoposta a Nowogardia, e l'altra al dominio di Twerensi; e due luoghitenenti dominavano. Quivi, come ho detto di sopra, nascono due fiumi, Twertza e Sna: questo alla volta di Nowogardia, nell'occidente, e quello nell'oriente fa il corso suo.
La gran Nowogardia è il piú gran principato di tutta la Russia, e li paesani, col proprio parlare, Nowigorod dicono, quasi nuova città, o ver nuovo castro, perciochè tutto ciò ch'è cinto di muro, con fortezze munito e fortificato, gorod chiamano. È questa un'ampla e gran città, per la quale Wolchow, fiume navigabile, trapassa, il qual dal lago Ilmen, due miglia sopra la città, nasce, e nel lago Neoa scorre, il quale al presente Ladoga, dal castello ch'è a lui vicino, chiamano. Questa Nowogardia dalla parte dell'occidente estivale per cento e vinti miglia è lontana dalla Moscovia, benchè molti dicono esservi solamente cento miglia; e da Plescowia, trentasei, da Welikiluki, quaranta, e da Iwanowogorod altrettanto. Mentre che già era in fiore e nella sua potestà, avea il suo dominio amplissimo, e in cinque parti diviso, delle quali ciascuna parte non solamente delle cose publiche e private al magistrato ordinario e competente della sua parte riferiva, ma ancora nella regione della città poteva contrattare e terminare di ciascuna cosa con gli altri suoi cittadini: e non era lecito a nissuno, in nissuna cosa, ad alcun altro magistrato della medesima città ricorrere se non al suo. In quel tempo ivi era gran ridutto di tutta la Russia, perciochè gran copia di mercanti dalla Litwania, dalla Polonia, dalla Swezia, dalla Dania e dalla Germania a tal luogo era solito d'andare, di modo che i cittadini di tal provincia, per il frequente concorso delle molte genti, oltre modo le facoltà loro accrescevano e aumentavano. Oltra di questo, a' tempi nostri è lecito a' Germani avere in tal paese li suoi fattori e camerlenghi per le loro facende.
L'imperio d'essa nella maggior parte in oriente e nel settentrione si distende, e quasi la Litwania, la Finlandia e la Nordwegia tocca. Li mercanti di quel luogo, essendo io con una carretta dalla città d'Augusta fino a quel luogo pervenuto, mi pregorno strettamente che cotal carretta, con la quale aveva fatto sí longo viaggio, nel sacro tempio loro, in memoria di tal cosa, lasciare dovessi. Ebbe ancora Nowogardia alcuni principati: da l'oriente, Dwina e Wolochda, e dal mezogiorno la meza parte della città di Tersak, non molto lontano da Tweria. E benchè queste provincie, per rispetto de' fiumi e delle paludi, siano sterili e non troppo abitate, nondimeno dalle pelle degli animali, del mele, della cera e di pesci fanno grandissimo guadagno. Li principi li quali fossero al governo sopra la republica di quelli secondo il loro arbitrio e volontà ordinavano, e accrescevano l'imperio tirando a sé le genti vicine e constringendole a pagare l'ordinato stipendio per la difensione di quelle; di modo che li Nowogardensi in conservare la loro republica usando l'opera e aiuto d'altre genti, li Moscoviti si gloriavano d'aver in tal luogo i suoi presidenti, e similmente i Litwani confessavano essere tributarii di quelli.
Mentre questo principato l'arcivescovo col suo consiglio e auttorità amministrava, Giovanni Basilio, duca di Moscovia, il dominio assaltò, e per anni sette continovi con aspra guerra premendogli, finalmente nel mese di novembre nell'anno del Signore 1477, per il conflitto fatto appresso 'l fiume Scholona, li superò e vinse e con certe condizioni quelli constrinse a rendersi a lui, e cosí a tal città in nome suo un capitano, o vero rettore, v'impose. Ma, conciosiachè ancora al compimento del tutto pervenuto non fosse, e ciò pensando non si poter fare senza armi e spargimento di sangue, e sotto pretesto di religione, sí come volesse li ribellanti del rito rutenico nella fede ritenere, in Nowogardia se ne venne, e quella con questa finta occupò e in servitú talmente ridusse che l'arcivescovo, li cittadini, li mercanti e forestieri di tutti li lor beni spogliò, senza altro rispetto, di modo che da trecento carra tra oro, argento e gemme preziose carchi, come scrivono alcuni, in Moscovia ne riportò. E io, ritrovandomi in Moscovia, e di questo diligentemente ricercando, intesi che molto piú carra di preda carichi di quello ho detto ne furono riportati. Né questo è cosa maravigliosa, perciochè, presa la città, l'arcivescovo e li altri cittadini piú ricchi e piú potenti il vittorioso principe condusse nella Moscovia; e nelle possessioni e beni di quelli mandò li sudditi suoi, quasi come nuove colonie, e cosí delle possessioni di quelli, oltra le communi rendite, ogni anno grandissimo dazio nel fisco ne riporta. Similmente, dell'entrate dell'arcivescovato buona parte ne scemò, e una picciola particella al vescovo da lui novellamente postovi concesse. Il qual vescovo non molto dipoi morto, la sedia per un pezzo vacante restò; nondimeno il principe di Moscovia, dalle continove preghiere de' cittadini e altri sudditi del luogo mosso, acciò perpetuamente senza vescovo non restassero, un altro vescovo concesse loro: e questo fu nel tempo ch'io era in Moscovia.
Già li Nowogardensi un certo idolo, chiamato Perun, in quel luogo nel quale al presente è il monastero, e dal qual esso luogo Perunzki è chiamato, adoravano e veneravano. Dapoi, preso il battesimo, fu levato via del luogo e nel fiume Wolocho gettato; e dicono ch'egli, nuotando, trapassò di là dal fiume, e appresso del ponte fu udita una voce che disse: "Haec vobis, Nowogardenses, in mei memoriam", o Nowogardensi, questo sia per memoria mia, e in un medesimo tempo fu gettato un bastone sopra 'l ponte. Di modo che suole eziandio intervenire, in certo tempo dell'anno, che la voce di questo idolo è udita, per il che li cittadini del luogo mossi, subito là concorrono e insieme con li bastoni si battono, e tanto tumulto e strepito vi nasce che 'l governatore del luogo con grandissima fatica da tale impresa gli rimuove. Oltra di questo, intervenne ancora, come riferiscono i loro annali, che, mentre li Nowogardensi Corsun, città della Grecia, per sette anni continovi con grave assedio assediavano, le mogli loro tra questo mezo, fastidite per la longa dimora e dubitandosi della salute e del ritorno de' loro mariti, nelli proprii servi si maritorono di nuovo. Finalmente espugnata la città e ritornando li vittoriosi mariti dalla guerra, e portando con loro le porte ferrate della vinta città e una gran campana, la quale noi nella lor chiesa catedrale avemo veduto, li servi, li quali avevano tolto per mogli le mogli de' lor patroni, si sforzavano audacemente di voler ributtarli indietro. Per il che quelli mossi e sdegnati, poste giú l'armi da parte, con certi staffili e bastoni diedero dentro alli sopradetti servi, li quali, sbigottiti e spaventati, si diedero a fuggire e ad un certo luogo si ridussero, il quale eziandio infino al dí d'oggi è detto Chloppigrod, cioè castello de' servi; ma finalmente furono superati e vinti, e, secondo li meriti loro, dalli patroni con varie sorti di supplicii castigati. Nowogardia, nel solstizio estivale, ha il piú longo giorno d'ore XVII e piú; il paese è molto piú frigido di quello di Moscovia; e già aveva la gente umanissima e onesta, ma quella d'ora per la peste moscovitica e pessimi costumi è tutta corrotta e depravata.
Ilmen lago, il quale negli antichi scritti delli Ruteni Ilmer è chiamato, e da altri Limido, è sopra Nowogardia due miglia, ed è per longhezza dodici miglia germanici, e per larghezza otto. Oltra gli altri fiumi, due piú celebri e piú famosi in sé riceve: Lovat e Scholona. Questo da un certo lago nasce, ma uno ne manda fuora, detto Wolcho, il quale per Nowogardia trapassa, e per trentasei miglia scorrendo nel lago detto Ladoga entra: per larghezza è da sessanta miglia, e per longhezza quasi cento, a benchè certe isolette vi siano poste di mezo, e manda fuora un gran fiume chiamato Neoa, il quale verso l'occidente, nel mare Germanico, quasi per sei miglia fa il suo corso; alla bocca del quale, sotto il dominio moscovitico, in mezo del fiume è posto il castello Oreschack, il quale i Germani chiamano Nutemburg.
Russ già l'Antica Russia fu detta: è antico castello sotto la signoria di Nowogardia, dalla quale per dodici miglia, e da Ilmen lago tredici è distante. Ha un fiume salso, il quale con un fosso grande li cittadini in modo d'un lago lo riducono, e di là poi ciascuno conduce l'acqua salsa di quello per via di canali nelle case, e ne fanno il sale.
Iwanowgorod castello prese il nome da Giovanni Basilio, il quale appresso la ripa del fiume Narwa di pietra viva l'edificò. Evvi ancora di là da l'altra ripa un castello de' Liwoniensi, il quale dal nome del fiume Narwa è chiamato; per mezo delli quali castelli Narwa fiume corre, e il dominio nowogardense dal livoniense divide. Narwa è navigabile, e nasce da quel lago il quale li Ruteni Czutzko, o vero Czudin, i Latini Bicis, o ver Pelas, i Germani chiamano Peijfues. Riceve in sé due altri fiumi, Plescowia e Welikareca, il qual vien dal mezogiorno, e Opotzka castello, lasciato Plescovia fiume dalla man destra, bagna. La navigazione da Plescowia nel mare Balteo sarebbe facile e aperta se certi scogli, li quali non sono molto lontani da Iwanowgorod e Narwa, non fossero d'impedimento.
Plescowia città è posta appresso il lago dal quale il fiume di quel medesimo nome vien fuori, e corre per mezo la città, e per spazio di sei miglia entra in quel lago il quale li Ruteni Czutzko chiamano. Sola Plescovia, in tutto 'l dominio di Moscovia, è cinta di mura, ed è divisa in quattro parti, delle quali ciascuna ha le sue mura: la qual cosa ha dato ad alcuni occasione d'errore, ch'hanno detto quella esser cinta di quattro mani di muraglie. Il dominio o vero il principato di questa città in loro lingua Pskow, o ver Obskow, era chiamato, e già era grande, e a nissuno sottoposto. Ma finalmente Giovanni Basilio, nell'anno 1509, per tradimento di certi sacerdoti l'occupò e in servitú ridusse, e la campana, al suono della quale il senato a governare la republica era chiamato, portò via; e oltra di ciò, rimovendo li cittadini della patria, e in modo di colonia ponendovi li Moscoviti, totalmente la libertà loro scemò, e a niente ridusse. Onde successe poi che in luogo delli ornati e umani costumi delli Plescoviensi, costumi corrotti e depravati in tutte le cose loro vi nacquero; perciochè era tanta l'integrità, la purità, il candore e la simplicità delli Plescowiensi ne' contratti loro che, messa da parte ogni longhezza di parlare per inganno del compratore, solamente con una parola la verità dimostravano. Oltra di questo, li Plescowiensi sino a questo giorno usano la cavigliara biforcata, secondo 'l costume de' Poloni e non delli Ruteni. Plescovia nell'occidente è distante da Nowogardia trentasei miglia, e da Iwanowgorod quaranta, e altrettanto da Welikiluki. Per questa città si va da Moscovia e da Nowogardia in Riga, città principale della Liwonia, la quale sessanta miglia è distante da Plescowia.
Wotzka regione è posta fra l'occidente e il settentrione, e per vintisei, o vero al piú per trenta miglia, è lontano da Nowogardia, e nella sinistra parte il castello Iwanowgorod lascia. In questa regione per prodigio è riferito che gli animali, di qualunque sorte siano, portati in questa provincia il color di quelli in bianchezza mutano. Mi pare che si ricerchi da me che io brevemente dica la ragione de' luoghi e de' fiumi circa il mare, sino alli confini della Swezia. Nerwa fiume, come ho detto di sopra, la Liwonia dal dominio di Moscovia divide; dal quale, se da Iwanogorod, appresso il lito del mare, verso settentrione camminerai, Plussa fiume occorre, alla bocca del qual fiume Iamma castello è posto, dodici miglia lontano da Iwanowgorod, da Iamma altrettanti; e quattro miglia piú si truova un castello e un fiume di quel medesimo nome, cioè Coporia. Di là dal fiume Neoa e il castello Oreschack, fanno sei miglia; e da Oreschack al fiume Corela, donde la città ha preso il nome, sono sette miglia; e di là finalmente, per spazio di dodici miglia, si perviene al fiume Polna, il quale il dominio di Moscovia da Finlandia divide, la quale li Ruteni Chainska Semla chiamano, ed è sotto il dominio de' re della Swezia.
È ancora un'altra Corela provincia, oltra la detta, la quale ha il suo territorio, overo dominio, ed è 60 miglia e forse piú lontana da Nowogardia, nel settentrione posta. Benchè da certe genti vicine riscuote il tributo, nondimeno è tributaria ancor essa al re di Swezia e al granduca di Moscovia, per rispetto del dominio delli Nowogardensi.
Solowki isola dalla parte settentrionale è posta in mare, fra Dwina e Corela provincia, ed è otto miglia lontana da terra ferma. Quanto sia distante dalla Moscovia, per rispetto delle spesse paludi, selve e grandissime solitudini, non ho potuto cosí ragionevolmente comprendere, benchè siano alcuni che dicono esser distante dalla Moscovia trecento miglia, e da Bieloiesero ducento. In quest'isola si fa gran copia di sale; ed evvi ancora un monastero nel quale non può entrare donna veruna, o maritata o vergine; e se v'entrassero è riputato un peccato grandissimo. Si piglia ancora gran quantità di pesci, li quali gli abitanti chiamano selgi, e noi pensiamo essere haleces. Dicono che qui il sole, nel tempo del solstizio estivale, luce e splende continovamente, eccetto due ore del giorno.
Dimitriow città, con il castello, dall'occidente in settentrione, con poco torcimento, è distante dodici miglia da Moscovia. Questa città Georgio, fratello del granduca, allora possedeva; ed è bagnata dal fiume Iachroma, il quale in Sest fiume pone il capo. Sest riceve in sé il fiume Dubna, il qual entra in Wolga. Per tanta commodità di fiumi, ivi sono grandissime ricchezze de' mercanti, li quali le mercanzie loro dal mar Caspio per il fiume Wolga con picciola fatica in diverse parti e specialmente nella Moscovia conducono.
Bieloiesero città, col castello, appresso il lago di quel medesimo nome è posta, perciochè Bieloiesero in lingua rutenica vuol dire lago bianco.
È vero che la città non è situata in esso lago, come alcuni hanno riferito: nondimeno da paludi per ogni banda è circondata e cinta, che a' riguardanti pare cosa inespugnabile; per il che li principi di Moscovia mossi, ivi li suoi tesori sogliono ascondere. È distante questa città nel settentrione cento miglia da Moscovia, altrettanto dalla gran Nowogardia. Ma sono due vie per le quali si va da Moscovia in Bieloiesero, una piú corta, per Uglitz, al tempo del verno, e l'altra per Iaroslaw, al tempo dell'estate. Ma l'una e l'altra via per le spesse paludi e selve, di fiumi ripiene, non cosí commodamente si può fare senza l'aiuto de' ponti e del ghiacciato, per il che, in ogni luogo, le miglia sono piú brevi. Aggiungesi alla difficoltà del viaggio che, per le spesse paludi e per le frequenti selve e per li correnti fiumi, li luoghi sono incolti e dalle persone men frequentati. Il lago di questa città per longhezza e per larghezza è dodici miglia, e dicono che trecento e sessanta fiumi vi mettono capo. Un fiume, detto Schocksna, vien fuora d'esso, e per quindici miglia sopra Iaroslaw e quattro sotto Mologa città nel fiume Wolga scorre. Li pesci, li quali di Wolga in questo fiume nel lago pervengono, sono molto migliori, anzi, tanto piú nobili sono quanto piú longo tempo sono stati nel detto fiume. Ed è questa perizia nelli pescatori, che facilmente conoscono quanto tempo in quello siano stati li pesci, in Wolga fiume ritornati e presi. Gli abitanti di questo luogo hanno il proprio parlare, benchè al presente quasi tutti parlino in lingua rutena. Costoro hanno il piú longo giorno, nel tempo di solstizio estivale, d'ore dicinove. Un uomo degno di fede mi ha riferito che, nel tempo che fioriscono gli arbori, con veloce corso andò di Moscovia in Bieloiesero e, passato il fiume Wolga, il resto del viaggio, per essere ivi tutti li luoghi di nevi e di ghiaccio ripieni, con le carrette fece. E, benchè in tal luogo sia il verno piú longo, nondimeno le biade e li frutti in quel medesimo tempo si maturano e sono raccolti che si suol fare nella Moscovia. Dal lago Bieloiesero per un tratto di ballestra evvi un altro lago, il quale produce il solforo, il quale un certo fiume che del lago esce come una spuma di sopra via seco porta; nondimeno, per ignoranza delle persone, il solforo non è d'uso alcuno.
Uglitz città, insieme con il castello, al lito di Wolga fiume è posta; ed è distante da Moscovia vintiquattro miglia, da Iaroslaw trenta, da Twer 40. E questi castelli sono al mezogiorno, su la ripa del fiume Wolga, e la città da l'una e l'altra parte.
Cloppigrod è un luogo nel quale già li servi delli Nowogardensi, come ho detto di sopra, scamparono, e per due miglia è distante da Uglitz; e di lí non molto lontano, al presente, si vede il castello, rovinato e distrutto, appresso il fiume Mologa, il quale dalla gran Nowogardia per ottanta miglia scorrendo entra nel fiume Wolga, nelle bocche del qual vi sono la città e il castello di quel medesimo nome; e di là a due miglia, nella ripa del fiume, evvi solamente fabricata la chiesa di Cloppigrod. E ivi le fiere eziandio sono frequentissime in tutto 'l dominio di Moscovia, come altra volta di ciò ho fatto menzione, perciochè a quel luogo, oltra li Svetensi, i Livoniensi e li Moscoviti, li Tartari eziandio e altre genti delle parti orientali e settentrionali vi concorrono. Le quali genti usano gran permutazione di cose, perciochè appresso di queste è raro l'uso dell'oro e dell'argento: portano alle fiere e mercati le vesti fatte, aghi, coltelli, cucchiari, manare e altre sorti di merce, le quali sogliono permutare con pelli di quel paese.
Pereaslaw, città e castello, dal settentrione alquanto in oriente declinando, vintiquattro miglia è distante dalla Moscovia: è posta appresso il lago nel quale, sí come nell'isola Solowki, i selgi pesci, come ho detto di sopra, si pigliano. Il terreno è fertile e copioso, e ivi, raunate le biade, il principe suole per suo diporto andare a caccia. È in quel medesimo paese un lago dove si cuoce il sale; per questa città ne vanno tutti quelli li quali sono per andare nella Nowogardia inferiore, in Castroma, Iaroslaw e a Uglitz. In queste parti, per rispetto delle spesse paludi e continove selve, non si può avere una retta ragione del viaggio. Evvi ancora il fiume Nerel, il quale da un lago nasce, e sopra Uglitz nel fiume Wolga scorre.
Rostow, città e castello e sedia episcopale, con Bieloiesero e Murom fra li principali e piú antichi principati della Russia, dalla gran Nowogardia in fuora, è tenuto e riputato. Da questo luogo in Moscovia si va per dritta via di Pereaslaw, dalla quale è distante dieci miglia, ed è posta al lago dal quale Cotoroa fiume nasce, il quale per Iaroslaw trascorre, e dapoi nel fiume Wolga mette capo. Questo paese naturalmente è fertile e abondante di piú cose, e specialmente di pesci e di sale; già era abitazione del secondo figliuolo de' granduchi della Russia, li posteri de' quali ultimamente per Giovanni, padre di Basilio, sono stati cacciati, spogliati e totalmente privi.
Iaroslaw, città e castello alla ripa del fiume Wolga posto, è distante da Rostow dodici miglia per dritto viaggio dalla Moscovia. La regione è fertile assai, e specialmente da quella parte la quale riguarda il fiume Wolga, la qual, similmente come Rostow, era del secondogenito de' principi; li quali paesi nondimeno il monarca della Moscovia per forza occupò, e benchè li duchi della provincia, li quali knesi si chiamano, sino al tempo d'oggi vivano, nondimeno il principe il titolo di knesis a sé solo usurpa. Tre sono li knesi, posteri del secondogenito, li quali li Ruteni Ioroslawski chiamano e questa regione possedono. Il primo è Basilio, il quale ne condusse e ridusse dal nostro albergo avanti il principe. Il secondo è Simeon Federowitz, da Kurba, suo patrimonio, Kurbski detto, uomo vecchio, sobrio, e per la rigidità della vita, la quale da fanciullo ha sempre usato, molto estenuato e secco, perciochè per molti anni dal mangiar carne s'è astenuto, e solamente pesci nel martedí e venerdí usava; e il lunedí, mercordí e venerdí, nel tempo del digiuno, da essi ancora s'asteneva. Questo venerando vecchio alcuna volta era mandato dal granduca capo e imperatore di tutto 'l suo esercito per la banda di Permia, in Iuharia, a debellare e profligare le genti piú lontane del regno suo; ed egli buona parte di quel viaggio, per rispetto delle gran nevi, fece a piedi, e il resto con navilii. L'ultimo è Giovanni, cognominato Possetzen, il quale in nome del suo principe era oratore in Spagna appresso Carlo Cesare, e con noi ritornò in Moscovia; ed è tanto povero che le vesti e kolpackh, che è un coprimento del capo, da altri (il che sapemo certo) per finire il suo viaggio pigliò in prestanza. Per la qual cosa mi pare aver molto errato colui il quale ha scritto che questo Giovanni del suo dominio e patrimonio poteva mandare trentamila cavalli al suo principe, in ogni occorrenza di quello.
Wolochda provincia, città e castello, nella quale li vescovi di Permia hanno la lor sedia, ma senza imperio, han preso il nome dal fiume di quel medesimo nome; è posta questa provincia fra l'oriente e il settentrione, alla quale si va da Moscovia per la via di Iaroslaw, ed è lontana da Iaroslaw cinquanta miglia germanici, da Bieloiesero quasi quaranta. Tutta la regione è paludosa e piena di selve, onde succede che, per le continove paludi e per li spezzamenti delli fiumi, li viandanti non possono sapere il giusto viaggio, perciochè quanto piú si va avanti tanto piú paludi alpestre, fiumi correnti e selve grandi si trovano. Wolochda fiume nel settentrione per la città scorre, e il fiume Suchana, che nasce da un lago chiamato Koinzki, otto miglia sotto la città a sé congiunge, e il nome di Suchana ritiene, e fra 'l settentrione e l'oriente scorre. Wolochda provincia era già sotto 'l dominio della gran Nowogardia; la quale avendo un castello forte per natura, dicono che 'l principe ivi suole ascondere gran parte del suo tesoro. Quell'anno che noi siamo stati in Moscovia, era tanta la carestia delle cose da mangiare che un moggio di formento, quale essi usano, XIIII denghe si vendeva, il quale moggio in altri tempi quattro, cinque o vero sei denghe si suol vendere.
Waga, fiume pescareccio, fra Bieloiesero e Wolochda in paludi e densissime selve nasce, e nel fiume Dwina scorre. Gli abitanti di questo luogo, perchè mancano quasi dell'uso del pane, vivono d'animali che pigliano nella caccia. In questo luogo si pigliano le volpi negre e di colore ceneraccio; da questo luogo, per corto viaggio, si va alla provincia e al fiume Dwina.
Ustijug provincia dalla città e dal castello li quali appresso il fiume Suchana sono posti ha preso il nome; è lontana da Wolochda cento miglia, e da Bieloiesero centoquaranta. Questa provincia prima alle bocche del fiume Iug, il quale dal mezogiorno in settentrione scorre, era posta; ma dapoi, per la commodità del luogo, quasi per mezo miglio lontano dal fiume è stata posta, e sino adesso il nome antico ritiene, perciochè in lingua rutenica usteie vuol dire la bocca, onde si deriva Ustiug, quasi ostio, o bocca, del fiume Iug. Questa provincia già era sottoposta alla gran Nowogardia; e rare volte mangiano pane, ma di pesci e di fiere è sempre il cibo loro; hanno il sale da Dwina; hanno parlare proprio, nondimeno usano piú il rutenico che altro. In questo luogo le pelli delli zibellini non sono molte, e quelle che vi si ritrovano non sono molto eccellenti; di pelle d'altri animali sono abondanti, e specialmente delle volpi negre.
Dwina provincia, e parimente il fiume, da Iug e Suchana fiumi ha ricevuto il nome, perciochè tal nome, in lingua rutenica, significa due. Questo fiume per spazio di cento miglia entra nell'Oceano settentrionale, da quella parte che bagna la Swezia e Nordwegia, e che dalla terra incognita Engraneland divide. Questa provincia, nel settentrione posta, già era sotto il dominio delli Nowogardensi. Da Moscovia alle bocche del fiume Dwina si fanno 300 miglia, benchè, come ho detto, nelle regioni le quali sono di là da Wolga, per le spesse paludi, fiumi e selve grossissime, la regola del viaggio non può esser bene osservata. Nondimeno, per certa coniettura potemo dire che apena vi sono da 200 miglia, perciochè per tal viaggio da Moscovia in Wolochda, da Wolochda in Ustiug, declinando alquanto in oriente, e da Ustiug ultimamente, per Dwina fiume, per dritta via nel settentrione si perviene. Questa provincia, eccetto Colmogor castello e Dwina città, la quale fra li fonti e le bocche del fiume quasi in mezo è posta, ed eccetto Pienega castello, appresso la bocca del fiume Dwina collocato, non ha altre città o castella. Nondimeno si dice aver piú ville, le quali, per la sterilità della terra, sono molto lontane una dall'altra. Gli abitanti di questa provincia vivono di pesci, di fiere e di pelli d'animali, delle quali d'ogni sorte abbondano. Nelli luoghi maritimi di questa regione vi sono orsi bianchi, e quelli per la maggior parte dicono vivere in mare: le pelli di quelli spesse volte sono portate in Moscovia, e io, nella prima mia legazione di Moscovia, ne portai due pelli con esso meco. Questa regione è molto copiosa e abbondante di sale.
Viaggio per andare a Petzora, in Iugaria, e in Obi fiume. La signoria del principe di Moscovia in oriente e alquanto in settentrione alli luoghi li quali seguitano si distende; sopra la qual cosa un certo libretto scritto, nel quale la regola e ordine di tutto il viaggio si conteneva in lingua rutenica, mi fu presentato, e io l'ho raccolto e in questo luogo ragionevolmente l'ho aggionto, benchè quelli che vanno da Moscovia a quel luogo piú il viaggio fanno da Ustyug e da Dwina, per la via di Permia.
Si numerano cinquanta werst da Moscovia a Wolhochda; da Wolochda ad Ustyug, da man destra per il fiume a seconda, e per Suchane, con il qual si congionge, descendendo, sono cinquecento miglia italiani, con li quali, sotto Streltze città due miglia e sotto Ustyug, con il fiume Iug si congiunge. Il qual fiume corre per il mezogiorno, dalle cui bocche sino alli fonti piú di cinquecento miglia italiani si contano. Ma Suchana e Iug, dapoi che sono scorsi, perdono li primi nomi e il nome di Dwina ricevono. Per Dwina, per spazio di cinquecento miglia italiani, a Colmogor si perviene, dal qual luogo di sotto, per viaggio di sei giorni, esso fiume Dwina con sette bocche entra nell'Oceano; e la maggior parte di questo viaggio si finisce con la navigazione, perciochè per terra da Wolochda fin a Colmogor, passato il fiume Wga, sono mille miglia. Non troppo lontano da Colmogor, Pienega fiume, il quale dall'oriente alla destra corre, e trapassati settecento miglia italiani, nel fiume Dwina entra. Da Dwina al luogo il quale è detto Nicolao, per il fiume Pienega per spazio di ducento miglia si perviene, dove, per viaggio di mezo miglio, le navi nel fiume Kuluio sono portate; il qual fiume Kuluio nel settentrione da un lago nasce di quel medesimo nome, dalle fonti del quale sin alle bocche dove entra nell'Oceano vi è il viaggio di sei giornate. Con la navigazione di questo fiume, appresso del destro lito del mare, li seguenti luoghi si trapassano, cioè Stanwische, Calunczscho e Apnu; dapoi fatta la navigazione a torno di Chorogosk Nosz promontorio e di Stanwische, di Camenckh e di Tolstickh, finalmente nel fiume Mezen si entra, dal qual fiume, per viaggio di giorni sei, ad un certo villaggio di quel medesimo nome, nella bocca del fiume Piesza posto, si perviene. Per il qual fiume, a parte sinistra, verso l'oriente estivale ascendendo, per viaggio di tre settimane Piescoya fiume si truova, di dove portate le navi per spazio di cinque miglia alli due laghi, due vie sono: delle quali una, dalla parte sinistra, nel fiume Rubincho, per il qual nel fiume Czircho si perviene, ne conduce; altri poi, per un altra via piú breve, dal lago per la dritta via portano le navi in Czircho. Dal qual luogo li viandanti, se non sono impediti dalla fortuna, per spazio di tre settimane nel fiume e nelle bocche di Cizilma e al gran fiume Petzora, il quale in larghezza di due miglia si distende, pervengono. Il qual luogo passati, per spazio di giorni sei ad una certa città e castello, detto Pustoosero, dove Petzora fiume con sei bocche entra nell'Oceano, si perviene.
Gli abitanti di questo luogo sono uomini di semplice ingegno; nell'anno 1518 pigliorono il santo battesimo. Dalle bocche del fiume Czilme sin alle bocche del fiume Ussa, andando per la via di Petzora, vi è il viaggio di un mese. Questo fiume Ussa ha li suoi fonti, o vero nascimenti, nel monte Poyas Semnoi, il quale è dall'oriente alla man sinistra, e scorre da un grandissimo sasso di quel medesimo monte, il qual Camen Bolschoi chiamano.
Dalli fonti di Ussa sin alle bocche sue vi sono piú di mille miglia italiani. Petzoro fiume dalla parte meridionale per questa iemale fa il corso suo, dal quale per le bocche del fiume Ussa ascendendo fin alla bocca del fiume Stzuchogora è viaggio di tre settimane. Quelli che hanno descritto questo itinerario dicono che essi fra le bocche di Stzuchogora e Potzscheriema fiumi alloggiarono, e ad un certo vicino castello di Strupuli, il quale alli liti rutenici nelli monti alla destra è posto, la vettovaglia la quale avevano portata con esso loro di Russia lasciarono.
Di là da Petzora e Stzuchogora fiumi, alla banda del monte Camenipoias, del mare e dell'isole vicine e del castello Pustoosero, vi sono varie e innumerabili genti, le quali con nome commune Samoged (come dire devoratori di se medesimi) sono chiamati. Appresso costoro vi è grand'entrata d'uccelli e di diversi animali, come sono zibellini, martori, armelini, aspreoli, e nell'Oceano il mors, animale del quale è detto di sopra, e vess, animali cosí detti. Oltra di questo, sono orsi bianchi, lupi, lepori, equiwoduani cosí detti, balene, e un pesce chiamato semst, e altri di piú sorte. Ma queste genti non vengono in Moscovia, perciochè sono salvatiche e fuggono la moltitudine degli altri uomini e la compagnia della vita civile.
Dalle bocche del fiume Stzuchogora a contrario d'acqua sino a Poiassa Artawische Cameno e alla maggiore Poiassa vi è viaggio di tre settimane. Al monte Camen evvi una montata di giorni tre, dal quale discendendo al fiume Artawischo, e di là al fiume Sibut, e da esso al castello Lepin, e da Lepin a Sossa fiume si perviene. Gli abitatori di questo fiume Wogolici sono chiamati. Ma, lasciando il fiume Sossa da man destra, al fiume Obio, il qual nel lago Kitaischo nasce, si perviene; il qual fiume a pena in un giorno con veloce corso passorono, perciochè è tanto grande la larghezza sua che quasi per ottanta miglia italiani si stende. In quel luogo finalmente i Wogulici e li Ugritzschi abitano. Da Obea castello, appresso il fiume Obio montando, fino ad Irtische fiume, nel quale entra Sossa fiume, è viaggio di mesi tre; e in questi luoghi vi sono due castelli, Ierom e Tumen, nelli quali sono governatori li signori knesi Iuhorski, del granduca di Moscovia (come dicono) tributarii, e in questi luoghi vi sono molte sorti d'animali e gran quantità di pelli.
Dalle bocche del fiume Irtischo al castello Grustina è viaggio di mesi due; e da questo luogo al lago Kitai, per il fiume Obio, il quale ho detto avere la sua origine in questo lago, è viaggio di piú di tre mesi. Da questo lago molti uomini negri e dal parlare commune ignoranti vengono, li quali varie sorti di merci e specialmente perle e pietre preziose portano, le quali li popoli chiamati Grustintzi e Serponowtzi comprano; li quali popoli dal castello Serponow di Lucomorye, di là dal fiume Obio nelli monti posto, hanno il nome.
Dicono che agli uomini di Lucomorye cosa mirabile e incredibile, e che ha piú della favola che del verisimile, suole intervenire: che quelli per ciascun anno, cioè alli 27 del mese di novembre, nel qual giorno appresso delli Ruteni è la festa di san Giorgio, moiano, e che poi nella seguente primavera, alli 24 d'aprile, alla similitudine di ranocchie, di nuovo risuscitano. Con questa gente similmente i Grustintzi e Serponowtzi popoli hanno nuovi commerzii, e non consueti, perciochè, quando è giunto il tempo del lor morire, o ver dormire, pongono le merci loro in un certo luogo, le quali i Grustintzi e Serponowtzi, lasciate le sue, tra questo mezo con eguale commutazione tolgono: le quali poi quelli, tornati vivi, se veggono che siano state portate via con poco giusta stima, di nuovo le ridomandano, donde molte liti e guerre fra di loro nascono.
Da Obi fiume da parte sinistra descendendo, vi sono Calami popoli, li quali da Obiowa e Pogosa a quel luogo andarono; sotto Obio, al luogo detto la Vecchia d'Oro, dove Obio entra nell'Oceano, sono questi fiumi: cioè Sessa, Berezwa e Danadaim, li quali tutti dal monte Camen Bolschega Poiassa e dalli scogli congiunti nascono. Tutte quelle genti le quali abitano da questi fiumi sino alla Vecchia d'Oro sono tributarii del principe di Moscovia.
Slatabbaba, cioè la statua d'oro della vecchia, è un idolo alle bocche del fiume Obio, nella provincia Obdora, nella ripa di là. Appresso i liti del fiume Obio e intorno agli altri fiumi vicini vi sono molti castelli, li padroni e signori de' quali sono sottoposti al principe di Moscovia. Narrano o ver piú presto raccontano una favola, questo idolo essere una statua d'oro alla simiglianza d'una certa vecchia la quale tiene in grembo il figliuolo, e che ivi un altro fanciullo si vede, il quale dicono essere il nipote di lei; oltra di questo, in tal luogo essere certi instrumenti li quali un suono continovo a modo di trombe mandano fuora. Il che se è cosí come dicono, io penso tali instrumenti esser fatti e causati per rispetto del veemente e perpetuo soffiamento delli venti.
Cossin fiume dalli monti di Lucomorya scorre: nelle bocche di questo fiume è un castello, il quale già il knes Wentza e ora li suoi figliuoli posseggono. Dal qual luogo alli fonti del gran fiume Cossim è viaggio di mesi due. Dalli fonti di quel medesimo fiume un altro ne nasce, il quale Cassima si chiama; e, passata Lucomorya, nel gran fiume Tachnin pone capo. E di là da questo fiume dicono certi uomini abitare, li quali sono di monstruosa e strana forma, perciochè di quelli alcuni secondo il costume delle fiere vivono: hanno il corpo tutto peloso, irsuto e squallido; altri hanno capi di cani; altri totalmente sono senza collo, e hanno il petto per capo, e le mani lunghe per piedi. È nel fiume Tachnin un certo pesce, il quale al capo, agli occhi, al naso, alla bocca, alle mani, alli piedi e all'ale è totalmente simile alla forma ed effigie umana; nondimeno non ha voce, ed è come gli altri pesci soave e dilettevol al gusto.
Sin qui tutte quelle cose che ho riferite dall'itinerario rutenico di parola in parola sono state tradotte, benchè in quelle alcune cose favolose e a pena incredibili siano raccontate, come degli uomini muti, morienti, risuscitanti, della vecchia d'oro, delle forme monstruose degli uomini, del pesce con l'effigie umana: delle quali tutte cose, benchè diligentemente io n'abbia ricercato, nondimeno niente di certezza ho potuto conoscere da persone che dicessero aver tal cose vedute con gl'occhi proprii. Nondimeno, acciochè agl'altri maggior occasione di ricercare tal cose io dessi, non ho voluto alcuna cosa preterire, onde quelli medesimi vocaboli de' luoghi ho voluto usare li quali in nominar tal cose usano li Ruteni.
Noss in lingua rutenica è detto il naso, con il qual nome li promontorii, li quali alla similitudine del naso soprastanno nel mare, vulgarmente chiamano. Li monti intorno al fiume Petzora, Semnoi Poyas, cioè cingolo del mondo, o ver della terra, sono chiamati, perciochè poyas in lingua rutenica significa il cingolo, o vero la cintura. Il lago di Kithai, dal quale il gran Cane di Chataia, il quale Moscoviti czar kythaiski chiamano, ha il nome. Chan appresso Tartari significa re.
I luoghi maritimi di Lucumorya sono salvatichi e deserti, e dagli abitatori del luogo sono abitati senza nissuna sorte di casamenti. Benchè l'auttore dell'itinerario riferiva molte genti essere in Lucomorya le quali sono sottoposte al prencipe di Moscovia, nondimeno, conciosiachè lí vicino sia il regno di Tumen, e il principe di quel tartaro, e in lor lingua volgare tumenski czar, cioè re in Tumen, è chiamato, e gran danni al principe di Moscovia poco innanzi ha portato, è verisimile, per la vicinanza, queste genti esser piú presto sottoposte a esso che al principe di Moscovia.
Appresso il fiume Petzora, del quale nell'itinerario è fatta menzione, la città e il castello Papin, o ver Papinowgorod, è posto: e li abitatori di quello Papini sono chiamati, e usano diversa lingua dalla rutenica. Di là da questo fiume, monti altissimi sino alle ripe si distendono, la sommità de' quali, per il continovo soffiar di venti, mancano quasi totalmente d'ogni materia e gramegna. Questi monti, benchè in diversi luoghi varii nomi abbiano, nondimeno communemente Cingolo del mondo sono chiamati. In questi li girifalconi fanno il loro nido, delli quali ragionerò quando discriverò la caccia del principe. Crescono ancora in tali monti gli arbori cedri, e intorno a quelli zibellini negrissimi si ritrovano, e sono sotto la signoria del principe di Moscovia: gli antichi scrittori li chiamano monti Rifei, o vero Iperborei. E perchè per le continove nevi e per il perpetuo giaccio sono rigidi e alpestri, e facilmente non si ponno passare, per questa cagione rendono Engroneland provinzia incognita. Basilio, figliuolo di Giovanni, duca di Moscovia, alcuna volta a spiar di là da questi monti i luoghi e le genti da debellare due capitani delli suoi per la via di Permia e di Petzora aveva mandato, cioè Simeone Pheodorowitz Kurbslei, dal patrimonio suo cosí chiamato, e knes Pietro Uscatoi: delli quali Simeone, essendo io in Moscovia, era vivo, e interrogato da me sopra questo viaggio mi disse aver consumato 17 giorni nel salire il monte, né però aver potuto ascendere e pervenire sino alla cima d'esso, la quale in lor lingua Stolp, cioè colonna, è chiamata. Quel monte nell'Oceano sino alle bocche di Dwina e Petzora fiume si distende. E questo basti quanto all'itinerario.


Delli principati della Moscovia.

Il principato di Susdali, col castello di quel medesimo nome e con la città, nella quale è la sedia episcopale, fra Rostow ed Evolodimeria è posto. In quel tempo che Wolodimeria era sedia dell'imperio moscovitico, questo principato fra li piú nobili e piú prestanti era connumerato, ed era il principale dell'altre città vicine; ma dapoi, crescendo l'imperio di quello e trasferita la sedia nella Moscovia, alli secondigeniti delli principi fu concesso. Li posteri delli quali, cioè Basilio Schvislei, con il nepote del fratello (li quali, essendo noi in Moscovia, ancora erano vivi), da Giovanni, figliuolo di Basilio, furono spogliati. In questa città vi è un nobile monastero di monache, nel quale Salomea, da Basilio principe ripudiata, era rinchiusa. Fra tutti li principati e provincie del principe di Moscovia, Resam, per la fertilità della terra e per copia di tutte le cose; dopo questo luogo sono Iaroslaw, Rostow, Pereaslaw, Susdali, Wolodimeria.
Castromowgorod città, col castello, nel lito del fiume Wolga verso l'oriente estivale posta, quasi per vinti miglia è distante da Iaroslaw, e dalla Nowogardia bassa circa 40 miglia. Il fiume, dal quale la città ha preso il nome, ivi nel fiume Wolga mette capo.
Galitz principato, con la città e con il castello, da Moscovia in oriente per la via di Castromowgorod corre. Wiatkha provincia dal fiume Kama, nell'oriente estivale, quasi per centocinquanta miglia è distante dalla Moscovia, alla quale, con viaggio piú breve, ma piú difficile, per la via di Castromowgorod e Galitz si perviene: perciochè, oltra le paludi e le selve le quali fra Galitz e Wiatkha sono, il viaggio impediscono li Czeremissi popoli: ivi per tutto fanno latrocinii e robbamenti, onde per il viaggio di Wolochda e Ustiug, piú longo ma piú facile e piú sicuro, li viandanti a quel luogo ne vanno. Questa provincia è distante da Ustiug cento e vinti miglia, e da Cazan sessanta. A questa regione il fiume del medesimo nome ha dato il nome, nel lito del quale fiume sono Chlinowa, Orlo e Slowoda. Orlo è quattro miglia sotto Chlinowa; dapoi, per sei miglia verso l'occidente scendendo, è Slowoda. Cotalnitz è distante da Chlinowa a Rhecitza fiume per otto miglia; il qual fiume, dall'oriente nascendo, fra Chlinowa e Orlo in Wiathka entra. Il paese è sterile, paludoso, ed è propriamente uno asilo, cioè rifugio e abitazione di servi fuggitivi; di mele, d'animali, di pesci e d'aspreoli molto abbondante. Già era sotto il dominio della Tartaria, e sino al tempo d'oggi, di là e di qua da Wiathka, e spezialmente ne' luoghi dove il fiume Kama entra, li Tartari signoreggiano. Li viaggi in quel luogo sono computati per czunckhas; czunckas contiene in sé 5 werst, cioè 5 miglia italiani. Il fiume Kama entra nel fiume Wolga 12 miglia sotto Cazan, e Sibier provincia è vicina.
Permia, grande e ampla provincia, è distante dalla Moscovia ducento e cinquanta miglia, o vero, come dicono alcuni, trecento, per la dritta via fra l'oriente e il settentrione. Ha una città di quel medesimo nome appresso il fiume Vischora, il quale dieci miglia sotto Kama la bagna.
A quel luogo, per le spesse paludi e fiumi, a pena nel tempo del verno per terra si può gire. Ma nel tempo della state, per via di Wolochda, Ustiug e Vitzechda fiume, il quale dodici miglia da Ustiug in Dwina entra, con navilii tal viaggio facilmente si fa.
Quelli che da Permia in Ustiug vanno, bisogna che navighino per il fiume Vischora a contrario d'acqua; e trapassati alquanti fiumi, e le navi alcuna volta per terra negli altri fiumi transportate, ad Ustiug finalmente, per spazio di trecento miglia da Permia, si perviene. L'uso del pane, in questa provincia, è rarissimo; e in luogo di tributo ogni anno danno al principe cavalli e pelli; hanno idioma proprio, e similmente caratteri proprii, de' quali Stefano vescovo fu inventore, il quale quelli, nella fede di Cristo vacillanti, aveva confermato: perciochè per avanti, essendo nuovi nella fede, avevano scorticato un altro vescovo che tentò di fare il medesimo. Questo Stefano dapoi, per commissione di Demetrio, figliuolo di Giovanni, appresso li Ruteni in numero de' santi fu collocato.
Vi restano ancora di quelli li quali sono idolatri, e abitano per le selve, li quali li monachi e li eremiti che di là passano non mancano di rivocare dall'errore e culto vano. Il verno usano artach, come in molti luoghi della Russia, per far viaggio: sono certe gallozze, o ver scarpe di legno, di longhezza quasi di sei palmi, li quali, poste nelli piedi, sono portati con gran prestezza. Usano cani, li quali a questo uso hanno grandi, in luogo di iumenti, con li quali le lor bagaglie, come si dirà delli cervi, in carrette sogliono portare. Dicono questa provincia, dalla banda dell'oriente, esser vicina a quella provincia delli Tartari la quale Tumen è chiamata.
Il sito di Iugaria provincia per le cose dette di sopra è manifesto. Li Ruteni, con aspirazione, proferiscono Iuhra, e li popoli Iuhrici chiamano. Questa è la Iugaria, dalla quale già gli Ongheri usciti la Pannonia occuporono, e, avendo per lor capitano Attila, molte provincie dell'Europa ruinorono; per il che li Moscoviti molto si gloriano, dicendo che li sudditi loro già gran parte dell'Europa hanno saccheggiata. Georgio, detto Picciolo, di nazione greco, nella prima mia legazione, volendo estender l'auttorità e giurisdizione del principe suo sino al granducato della Litwania e al regno di Polonia, in certi suoi trattati riferiva li Iuhari essere stati sudditi del granduca di Moscovia, e appresso le paludi Meotide essersi fermati, e dapoi la Pannonia al Danubio: e di là il nome dell'Ongheria aver preso; e finalmente la Moravia, dal fiume cosí nominata, e la Polonia, dal vocabolo polle, che vuol dire pianura, aver occupata, e Buda dal nome del fratello di Atila averla nominata. Le cose che mi sono state riferite, anche io ho voluto riferire. Dicono che li Iuhari, sin a questo giorno, usando il medesimo parlare dell'Ongheri: il che se è vero, non so, perciochè, benchè diligentemente io abbia ricercato, nondimeno nissun uomo di quel paese ho potuto avere, con il quale il mio servitore, della lingua ongara intendente, potesse parlare. Questi popoli similmente, in luogo di tributo, danno le pelli al principe di Moscovia; e benchè le perle e le gemme di là in Moscovia si portino, nondimeno nel loro Oceano non si raccogliano, ma d'altro luogo, e specialmente dalli liti dell'Oceano vicini alla bocca del fiume Dwina sono portate.
Sibier provincia è contigua a Permia e a Wiathka, la qual provincia, se abbia castelli o città, non ho potuto bene ritrovare. In questa nasce il fiume Iaick, il quale entra nel mar Caspio. Dicono che il paese, per la vicinanza delli Tartari, è deserto, o ver, se in qualche parte è abitato, è abitato dalli Tartari Schichmamai. Gli abitatori di questo luogo usano il proprio idioma; fanno li loro guadagni con pelli di certi animali, detti aspreoli, le quali per grandezza e per bellezza superano tutte le pelli delle altre provincie; delle quali nondimeno in Moscovia noi non potemmo mai avere alcuna.
Li Czeremissi popoli sotto la Nowogardia bassa abitano nelle selve, e hanno propria lingua, e seguitano la setta maumettana. Al presente al re cazanense ubidiscono, benchè la maggior parte di quelli già fosse tributaria al duca di Moscovia, onde con li sudditi di Moscovia ancora sono connumerati. Il principe ne aveva condotti molti di quelli in Moscovia, per sospetto di ribellione, li quali noi vedemo. Costoro, essendo stati mandati alli confini della Litwania, finalmente in varie parti si sono sparsi. Questa gente da Wiathk e Wolochda fin al fiume Kama, per longhezza e larghezza, senza casa veruna abita. Tutti costoro, tanto gli uomini quanto le femine, sono velocissime nel corso, e nel sagittare peritissimi; né mai lassano l'arco delle mani, del qual si dilettano talmente che eziandio alli proprii figliuoli il cibo non porgono se prima il segno prefisso e ordinato con la freccia non toccano.
Due miglia lontano dalla Nowogardia bassa sono molte case, alla similitudine di una città, o ver castelletto, dove il sale si coceva. Queste case, pochi anni avanti essendo state abbrucciate dalli Tartari, dapoi per commissione del principe sono state rifatte.
Li popoli detti Mordwa sono vicini al fiume Wolga, sotto la Nowogardia bassa, nel lito di mezodí, simili alli Czeremissi, se non che hanno le case un poco piú spesse.
E qui sia il nostro termine dell'imperio moscovitico e della digressione. Ora delli popoli vicini e finitimi certe cose v'aggiungerò, servato quel medesimo ordine il quale ho osservato quando sono uscito di Moscovia verso l'oriente. E da questa parte li Tartari cazanensi primamente si ritrovano, de' quali, avanti che alle cose loro piú particolari ne venga, alcune cose generalmente racconterò.


Delli Tartari.

Delli Tartari e della origine di quelli, oltra le cose le quali nelli annali delli Poloni e delle due Sarmazie si contengono, molte cose hanno scritto, le quali in questo luogo raccontare sarebbe piú presto tedioso e molesto che utile e necessario. Quelle cose le quali nelli annali delli Ruteni e per relazione di molti uomini ho conosciute ho voluto brevemente scrivere. Dicono li Moabiteni popoli, li quali dapoi Tartari furono detti, uomini per lingua, per costumi, per abito dal costume e consuetudine degli altri uomini differenti, al fiume Calka esser pervenuti, e donde fossero venuti, qual religione usassero, nessuno aver potuto intendere, benchè d'alcuni Taurimeni, d'alcuni Pitzenighi e da altri con altro nome siano chiamati. Methodio Patanczki vescovo dice quelli dalli deserti di Ieutrischie, fra 'l settentrione e l'oriente, esser venuti, e la causa della partita loro dice esser tale. Fu già un certo Gedeone, uomo di grandissimo nome e riputazione, il quale alli sopradetti Tartari grande terrore aveva dato, dicendo loro già la fine del mondo essere presente. Laonde tali popoli, per il parlare di costui mossi, acciochè le grandissime ricchezze del mondo insieme con quello non perissero, fatta una moltitudine innumerabile, a spogliare le provincie copiose e abbondanti uscirono fuora, e tutto ciò che dall'oriente all'Eufrate e al mare Persico si contiene crudelmente distrussero e rovinorono. E dapoi similmente depredate molte provincie, le genti Polowtzos chiamate, le quali sole, con gli aiuti de li Ruteni, avevano avuto ardimento di gire nimicamente contra di loro, appresso del fiume Calca profligorono, nell'anno del mondo 6533. Nel qual luogo l'auttore del libro delle due Sarmazie dalli popoli Polowtzis quali venatori interpreta aver errato, è cosa chiara e manifesta: perciochè Polowtzi campestri sono detti, perchè polle vuol dire il campo, e lowatz e lowatzi cacciatori; e aggiontovi tzi, ksi sillaba non muta la significazione, perciochè non dalle ultime, ma dalle prime sillabe la significazione è da derivarsi, di che è stato cagione ch'alle dizioni delli Ruteni di questa sorte la sillaba generale schi suole essere aggionta; e cosí questa parola Polowtzi campestri, e non cacciatori, bisogna interpretare. Li Ruteni dicono Polowtzi essere stati li Gotti, nondimeno alla opinione di quelli io non m'accosto. Quello che vorrà scrivere delli Tartari, è necessario che di molte nazioni scriva, perciochè dalla sola setta hanno questo nome, e sono diverse nazioni, di gran longa fra di sé lontane. Ma al primo ragionamento mio ora ritorno.
Bathi, re delli Tartari, con grande esercito uscito fuora nel settentrione, Bulgaria, la quale è appresso il fiume Wolga sotto Cazano, occupò. Dapoi, nell'anno sequente, il qual era del 6745 del mondo, seguitata la vittoria, infino in Moscovia pervenne, dove la città regia, per alcuni giorni assediata, finalmente pigliò. Dapoi, senza osservar la data fede, quasi tutti li Moscoviti furono morti, e piú oltra le provincie vicine, Wolodimeria, Pereaslaw, Rostow, Susdali, e molti castelli e città spogliò e saccheggiò, ammazzò, o vero conducendo prigioni gli abitatori, e il granduca Georgio, il quale con il suo esercito gli era gito incontro, profligò e occise; e Basilio di Costantino con esso lui condusse e ammazzò. Le quali cose, come ho detto di sopra, nell'anno del mondo 6745 sono state fatte. Da quel tempo in qua, quasi tutti li principi della Russia erano fatti col favore e arbitrio delli Tartari, alli quali ubidivano. E durò questo sin al tempo di Witoldo, granduca della Litwania, il quale le sue provincie e quelle cose ch'erano state occupate dalli Tartari con le proprie armi fortemente difese e ripigliò, e a tutti li vicini fu di terrore e di spavento grande. Ma li granduchi di Wolodimeria e della Moscovia, sin al moderno duca Basilio, sempre sotto la detta fede e ubbidienzia delli principi delli Tartari fermi restorono. Gli annali riferiscono questo Bathi, re delli Tartari, da Wlaslaw, re delli Ungheri, esser stato ucciso nell'Ongheria; il qual dopo il santo battesimo fu detto Vladislao, e nel numero delli santi fu posto.
La cagione della morte del barbaro re fu questa, che avendo nel saccheggiamento del regno dell'Ongheria il re Bathi a caso trovata la sorella del re, e avendola menata via, il re Wladislao, per pietà della sorella e per l'atto disonesto e brutto mosso, il sopradetto Bathi perseguitò, e, fatto impeto contra di lui, ammazollo insieme con la sorella. Queste cose sono state fatte nell'anno del mondo 6745.
Asbeck a Bathi, re morto, successe nell'imperio, e nell'anno del mondo 6834 morí; al quale il figliuolo Zanabech fu successore, il quale occise li suoi fratelli per poter senza paura signoreggiare, e nell'anno 6865 finí sua vita. Dopo costui fu fatto re Berdebech, il quale, la crudeltà di Zanabech imitando, dodici suoi fratelli occise, e morí poi nell'anno 6867. Dopo costui, Alculpa successe, il quale da un certo re Naruss insieme con li suoi figliuoli, subito ch'ebbe preso l'imperio, fu occiso, nell'anno del mondo 6868. A costui Chidir successe nel regno, il quale dapoi dal figliuolo suo, detto Themerhoscha, fu occiso. Il qual avendo per sceleraggine occupato il regno di Tartari, solamente per giorni 7 tenne quello, perciochè da Temnich Mamai fu cacciato: di là da Volga fuggendo, finalmente dalli soldati fu morto, nell'anno 6869. Dopo questi, Thachamisch acquistò l'imperio, nell'anno del mondo seimilaottocento e nonanta. E alli vintisei d'agosto, uscendo con l'esercito fuora, la Moscovia col ferro e fuoco rovinò. Costui, da Themirchutlu profligato e rotto, alla volta della Litwania, dove Witoldo, granduca di quella, signoreggiava, scampò. Questo Themirkutlu nel regno di Sarai, nell'anno del mondo 6906, signoreggiò, e nell'anno 6909 morí; al quale Scatibeck figliuolo successe nell'imperio. Dopo costui fu fatto re Themirassack, il quale, avendo condotto un grandissimo esercito alla volta di Retzan per saccheggiare e depredare la Moscovia, tanto terrore e spavento a' principi di quella diede che, diffidatosi di poter conseguir la vittoria, gettate via l'armi, al soccorso solamente e favore delli santi ricorsero, onde subito alla volta di Wolodimeria mandorono a torre una certa imagine della beata Vergine, la quale in que' tempi per la dimostrazione di molti miracoli era molto celebre e famosa. La quale essendo stata condotta vicina a Moscovia, il principe con grandissima moltitudine di persone onorevolmente gli andò incontro: e tutti inginocchiati umilmente la pregorono che rimovesse il lor nimico dal regno, e poi, con gran venerazione e riverenza, il principe la condusse nella città. Per il qual culto e venerazione dicono aver ottenuto e impetrato che li Tartari non passorono di là da Retzan, e cosí, in perpetua memoria di tal cosa, in quel luogo dove la santa imagine fu aspettata e ricevuta un bellissimo tempio fu edificato. E questo giorno, il quale li Ruteni stretenne, cioè giorno d'obviazione chiamano, alli vintisei del mese di agosto ogni anno solennemente è celebrato. Queste cose sono state fatte nell'anno del mondo 6903.
Narrano li Ruteni questo Themirasack di oscura e bassa generazione esser nato, e per cagione delli suoi latrocinii a tanto grado di dignità esser pervenuto; e nella sua gioventú esser stato ladro eccellente, e di qui dicono aver acquistato il nome. E perchè una volta egli robbò una pecorella, e fu veduto dal patrone di quella, con la botta d'un sasso fu talmente percosso che la gamba, essendogli rotta, fu legata con certo ferro: dal ferro e dall'andar zoppo tal nome gli fu posto, perciochè themir vuol dire ferro, e assack zoppo significa. Questo Themirasack, essendo quelli di Costantinopoli gravemente molestati e assediati da' Turchi, in soccorso di quelli mandò il figliuolo con l'esercito, il qual, profligati li Turchi e tolto via l'assedio, vittorioso al padre ritornò; e questo fu nell'anno del mondo 6909.
Li Tartari sono divisi in certi ordini, o vero congregazioni, li quali essi chiamano orde; tra le quali l'orda o ver l'ordine sawolense tiene il primo luogo, perciochè l'altre orde da questa prima hanno avuto origine. Benchè ciascuna orda ha il suo nome proprio e particolare, cioè orda delli Sawolhensii, delli Procopensii, delli Mahaisensi e di molte altre, le quali in vero sono maumettane, nondimeno hanno molto a sdegno e a vituperio esser chiamati e nominati Turchi, ma vogliono esser chiamati Besermani; e con questo nome li Turchi vogliono essere chiamati.
Li Tartari, sí come per longhezza e larghezza molte e varie provincie abitano, cosí eziandio per costumi e per la maniera di vivere non sono conformi e simili. Sono di statura mediocre, hanno la faccia larga, piena, gli occhi storti e concavi, e per la sola barba orridi e terribili, il resto rasi. Solamente gli uomini piú nobili hanno li capelli ricci e anellati e negrissimi sino a l'orecchie. Sono di corpo forte e gagliardo, d'animo audace, e molto inchinati nelle cose veneree. Della carne di cavalli e degli altri animali, in qualunque modo sieno morti, mangiano saporitamente, eccettuata la carne di porco, dalla quale, secondo l'ordine della legge loro, s'astengono. Nella dieta e nel sonno sono tanto pazienti che qualche volta per quattro giorni interi non mangiano né dormono; nelle fatiche necessarie solliciti e attenti. Ma venendogli occasione di poter mangiare, mangiano, devorano e bevono tanto che con la crapula la dieta già fatta compensano, e cosí, di cibo e di vino ripieni, per tre o ver quattro giorni non fanno altro che dormire. Li quali cosí profondamente dormendo, i Lituani, i Ruteni, nelle regioni de' quali essi Tartari all'improviso fanno correrie, robbano e fanno preda, seguitandogli senza altra paura, senza guardie, senza ordinanza e incautamente, gli percuotono e uccidono. Cavalcando, se per sorte dalla fame e sete sono molestati, alli cavalli che cavalcano sogliono tagliare alcune vene e il sangue di quelle bere, e cosí cacciano la fame, e dicono tal cosa eziandio molto giovare alli cavalli. E perchè quasi ferma e certa abitazione sogliono drizzare il corso loro con l'aspetto delle stelle, e spezialmente del polo artico, il quale essi in lor lingua Selesnikoll, cioè mazza di ferro, chiamano.
Del latte di cavallo si dilettano, credendo per quello gli uomini farsi piú forti e piú grassi; molte sorti d'erbe mangiano, e spezialmente di quelle le quali circa il fiume Tanai crescono; pochi usano il sale. Li re delli Tartari, quando distribuiscono la vittovaglia alli suoi sudditi, per ogni quaranta uomini sogliono dare una vacca o vero un cavallo; li quali sacrificati, gl'intestini di quelli solamente i piú nobili mangiano, e fra di loro dividono, e fatti a pena con un bastoncino mondi e alquanto appresso il fuoco riscaldati, bramosamente mangiano e devorano, e non solamente le dita, onti dal grasso, ma ancora il coltello e il legno, con il quale il sterco e la malizia d'essi intestini hanno mondificato, soavemente sogliono leccare e ciucciare. Le teste de' cavalli sono avute in delizie e riputazione appresso quelli, come appresso noi le teste de' porci salvatichi solamente avanti li gentiluomini sono poste innanzi. Sono copiosi di cavalli, con la coppa bassa, piccioli ma forti, e la dieta e le fatiche benissimo possono sopportare: sono nutriti con li rami e con le scorze degli arbori, e con le radici de l'erbe le quali essi con l'onghie cavano fuora della terra. Tali cavalli alla fatica usati; e dicono li Moscoviti questi cavalli esser piú cattivi sotto li Tartari che sotto gli altri, e li chiamano pachmat. Hanno le selle e le staffe di legno, eccetto però se per sorte non avessero tolte o ver comprate qualcheduna dalli vicini e propinqui cristiani; e acciochè la schiena del cavallo non sia molestata e oppressa, con la gramegna o ver con le foglie degli arbori la sostentano e l'aiutano. Passano li fiumi, e se per sorte li fuggitivi Tartari la potenza e forza de' nimici temessero, gettate via le selle, le vesti e tutti gli altri impedimenti, e solamente l'armi ritenute, velocemente fuggono.
L'armi loro sono gli archi e le freccie; la lancia appresso di quelli è rara. Audacissimamente cominciano la guerra con i lor nimici, nella quale nondimeno non longo tempo durano, ma, fingendo di fuggirsene, e data l'occasione alli nimici, dalle spalle gettano l'armi, cioè le freccie, contra di quelli; e dapoi, all'improviso rivoltati li cavalli, nelli sbandati nimici fanno impeto. Quando nelli spaziosi campi è da combattere e ch'hanno il nimico non piú lontano che un tiro di freccia, non con la squadra ordinata cominciano la guerra, ma con un certo squadrone tortuoso nel girare, acciochè la via del gettar le freccie contra il nimico sia piú certa e piú libera. E certo di quelli che vanno e di quelli che ritornano è un certo ordine maraviglioso, e in questa cosa hanno capitani li quali essi seguitano, molto periti e sofficienti. Li quali se per sorte o ver feriti dall'armi de' nimici mancassero, o ver, per paura percossi, nel condurre l'ordine loro errassero, con tanta confusione e tanta perturbazione di tutto l'esercito si fa che non piú in ordinanza possono essere ridotti, né piú le freccie e armi loro possono gettare contra li nimici. Questa sorte di combattere quelli dalla similitudine della cosa chorea, cioè simiglianza di ballo, chiamano. Se per sorte ne' luoghi stretti è da combattere, nissun uso di quest'astuzia è a quelli: e però subito si mettono in fuga, perciochè né col scudo né con la lancia né con altro sono muniti e fortificati, che possano nella cominciata battaglia sostener il nimico. Nel cavalcare servano questo costume, che, contratti e ritirati in su li piedi, sedono nella sella, acciochè piú facilmente in l'uno e l'altro lato si possano rivoltare; e se per sorte qualche cosa fosse caduta, e che bisognasse torla su di terra, fermatisi nelle staffe senza fatica veruna la tolgono su, nella qual cosa sono cosí esercitati che eziandio correndo velocemente li cavalli fanno quel medesimo. Assaltati con armi d'asta, subito nell'altro lato si gettano, per fuggire la botta dall'avversario suo, e con l'altra mano solamente e con il piede si tengono al cavallo. Mentre le provincie vicine molestano, ciascuno due o vero tre cavalli per aiuto menano con esso loro, acciochè, stracco uno, il secondo o ver il terzo possano usare, e quei che sono stracchi menano a mano. Hanno li freni leggierissimi, e certi flagelli o ver scorreggiate in luogo de' speroni usano; e solamente hanno cavalli castrati, pensando che siano piú atti a sopportare la fatica e la fame.
Li medesimi vestimenti usano tanto gli uomini quanto le donne, l'abito delle quali in niuna cosa è differente da quello degli uomini, eccetto che con un velo di lino cuoprono la testa, e la calza di lino alla similitudine de' naviganti marinari usano. Le lor regine, mentre vanno fuora in publico, sogliono coprirsi la faccia. L'altra turba, la quale vive per li campi, ha le vesti fatte di pelle di pecore, le quali non mutano se con longo uso totalmente non siano consumate e distrutte. Non longo tempo stanno in un medesimo luogo, pensando ciò essere grande infelicità il stare sempre in un medesimo luogo; onde, quando sono in collera con li lor figliuoli, e che li vogliono annunciare qualche male, sogliono dire: "Io prego che perpetuamente tu resti in quel medesimo luogo, come fanno li cristiani, e che 'l fetore e spuzza del luogo tu senti". E però, pasciuti li pascoli in un luogo, con gli armenti, con le moglie e con li figliuoli, quali a torno con esso loro sogliono menare, altrove vanno ad abitare; benchè quelli che vivono nelli castelli e città un'altra regola di vivere osservano. Se in qualche guerra grande sono occupati, le moglie, i figliuoli e li vecchi nelli luoghi piú sicuri sogliono porre.
Nissuna giustizia appresso di loro si truova, perciochè, quando uno ha bisogno d'una cosa, quella senza altra punizione può torre da un altro. S'alcuno si lamenta avanti del giudice della ricevuta ingiuria, il reo nol niega, ma egli dice non poter far di meno di quella cosa: e allora il giudice in questo modo suole proferire la sentenzia: "Se tu all'incontro di qualche cosa hai bisogno, ancora tu toglila da altri". Sono molti che dicono che li Tartari non robbano; ma certo sono uomini rapacissimi e poverissimi, e stan sempre con la bocca aperta a torre quel d'altri, furano gli armenti degli altri, spogliano gli uomini e gli menano via, e quelli alli Turchi e ad altre genti o ver vendono o ver concedono da essere riscossi, eccettuate però solamente le fanciulle. Le città e le castella chiare volte assediano e oppugnano; ma le ville e li paghi abbruciano, e delli danni dati agli altri pigliano tanto piacere e contentezza che quante piú provincie hanno desolate e guaste, tanto piú pensano li suoi regni aver ingranditi e amplificati. E benchè della pace e quiete siano impazientissimi, nondimeno mai s'ammazzano insieme, se non quando li re fra di loro sono discordi e nimici. Se in qualche tumulto alcuno è occiso, e che gli auttori della sceleraggine fossero presi, toltigli solamente li cavalli, l'armi e le vesti si lasciano andar via. Similmente l'omicida, toltogli il cavallo e l'arco, con queste parole è mandato via dal giudice: "Va' via e governa la robba tua".
L'uso dell'oro e dell'argento appresso di quelli non è, fuora delli mercanti. Usano solamente la permutazione delle cose, e se qualche danaro dalle cose vendute dal vicino aranno avanzato, con quello in Moscovia le vesti e altre cose necessarie alla vita comprano. Non hanno confini fra di loro (delli campestri di Tartari parlo). Era stato già preso dalli Moscoviti un certo Tartaro grasso, al quale il Moscovitico disse: "Di dove è a te, cane, tanta grassezza, non avendo tu niente da mangiare?"; al quale il Tartaro rispose: "Perchè non ho io che mangiare, pascendomi la terra dall'oriente insin all'occidente, dalla quale non posso io essere nutrito a bastanza? A te piú presto, il quale tanta picciola parte del mondo tieni, e continovamente per quella contrasti, penso mancare quello che tu debbi mangiare".
Cazan regno, città e castello di quel medesimo nome, appresso il fiume Wolga nella ripa di là, quasi settanta miglia germanici sotto Nowogardia bassa, sono posti, e dalla parte d'oriente e di mezogiorno con li campi deserti e sterili termina, e dalla parte dell'oriente estivale hanno li Tartari contermini, li quali Schibanschi e Kosatzchi chiamano. Il re di questa provincia può aver esercito di trentamila persone, e specialmente di pedoni, nelli quali li Czeremissi e li Czubaschi sono sagittarii peritissimi; ma li Czubaschi sono eccellenti nell'arte del navigare. Cazan città da Wiathcha principal castello per sessanta miglia germanici è distante. Questo nome Cazan in lingua tartaresca significa pignatta di rame bollente; questi Tartari sono piú civili che gli altri, come quelli che coltivano li campi, vivono nelle case e varie sorti di mercanzie esercitano. Li quali Basilio, principe della Moscovia, condusse a tale, che si sottoponessero a lui e che pigliassero li re secondo l'arbittrio di lui: il che quelli, parte per le commodità delli fiumi li quali di Moscovia nel fiume Wolga scorrono, e parte per li mutui commerzii e conversazione, delle quali essi non possono mancare, non fu cosa difficile a fare. Già alli Cazanensi era un re, detto Chelealech, il quale lasciata la moglie sua Nursulten e senza figliuoli morendo, un certo Abrahemin, presa la detta vedova per moglie, si fece re, e di questa donna n'ebbe due figliuoli, cioè Maehmedemin e Abdelatiw; ma della prima moglie, la quale Batmassasoltan era chiamata, n'ebbe un figliuolo, chiamato Alegan, il quale, dopo la morte del padre, come primogenito successe nel regno.
Ma conciosiachè costui alli mandati del principe di Moscovia non fusse cosí ubbidiente, dalli consiglieri del prefato principe, li quali egli teneva in quel luogo per osservare l'animo del re, in un convito fu benissimo imbriacato; e in un carro posto, quella notte fu condotto alla volta di Moscovia, dove per alquanto tempo fu ritenuto, e dapoi finalmente mandato in Wolochda, ove il resto della vita sua finí; e la madre di quello, con gli fratelli Abdelatiw e Machmedemin, a Bieloyesero confinò.
Codaiculu, uno delli fratelli di Alega, fu battezzato, e il nome di Pietro pigliò; con il quale dapoi Basilio, principe moderno, la sorella congiunse in matrimonio. Ma Meniktiar, l'altro fratello di Alega, mentre visse nella sua setta e legge restò, e generò piú figliuoli, li quali, dopo la morte del padre, tutti, insieme con la madre, furono battezzati; e sono morti, eccetto uno chiamato Theodoro, il quale, essendo noi in Moscovia, era vivo. In luogo di Alega, che fu condotto in Moscovia, Abdelatiw fu posto; il quale essendo come Alega rimosso dal regno, Machmedemin, cavato da Bieloieser, per principe in luogo di quello fu posto, e regnò fino nell'anno del Signore 1518. Nursultan, la quale di Chelealeck e Abrahemin re era stata moglie, dopo la morte di Alega a Mendligero, re delli Precopiensi, si maritò. Costei, di Mendligero non avendo figliuoli, per il desiderio delli primi figliuoli da Abdelatiw venne in Moscovia, e di là poi uscita, alla volta di Machmedemin, l'altro figliuolo, nel regno di Cazan se n'andò, nell'anno del Signore 1504.
Li Cazanensi dal principe di Moscovia si ribellorono; per la qual ribellione molte guerre seguitorno dapoi, e longamente dalli principi confederati in questa guerra da una parte e l'altra fu combattuto, né sino al tempo d'oggi è imposto il fine alla guerra. E però mi è parso cosa ragionevole render ragione di questa guerra. Essendo la ribellione delli Cazanensi agli orecchi di Basilio, principe di Moscovia, pervenuta, esso principe, per sdegno e per desiderio di farne vendetta, grandissimo esercito con l'artiglierie mandò contra di quelli. Li Cazanensi, li quali e per la vita e per la libertà dovevano combattere contra li Moscoviti, udito l'apparato terribile del principe contra di sé e vedendo di non poter star saldi contra lui alla campagna, pensorono con astuzia di superarli: onde, usciti fuori apertamente, la miglior parte delle lor genti in luoghi oportuni e necessarii nelle insidie ponendo, come fossero da terrore e spavento impauriti dal luogo dove avevano fermato l'esercito si diedero a fuggire. Li Moscoviti, li quali non erano troppo lontani, conosciuta la fuga delli Tartari, sbandati dagli ordini loro, con corso veloce e grande fecero impeto negli alloggiamenti de' nimici; nelli robbamenti di quali mentre erano occupati, li Tartari, insieme con li Czeremisi sagittarii, usciti fuori degli agguati e insidie fecero tanta strage e ruina delli nimici che li Moscoviti, lasciate le bombarde e instrumenti bellici, si diedero a fuggire. In quella fuga due maestri d'artiglierie, lasciate le bombarde, insieme con gli altri scamparono alla volta di Moscovia, li quali il principe amorevolmente ricevé. Di questi due un Bartolomeo, di nazione italiano, il quale dapoi prese la fede rutenica, era in grand'auttorità appresso il principe. Ritornò anco il terzo bombardiero con la bombarda che gli fu data, sperando per tal cosa dovere qualche gran beneficio appresso il re conseguire. Ma il principe, veduto quello, con villanie gli disse: "Avendo tu esposto e me e te in grandissimo pericolo, o vero tu volevi scampare, o vero insieme con la bombarda ti volevi dare in potestà del nimico: e però, a che fine questa tua diligenza finta in conservare la bombarda? La perdita della quale non stimo niente, purchè gli uomini mi restino sani, li quali sanno fondere l'artiglierie e usarle al tempo suo".
Ma essendo morto il re Machmedemin, sotto il quale li Tartari cazanensi s'erano ribellati, Scheale, tolta per moglie la sopradetta vedova, con l'aiuto del principe di Moscovia e del fratello della moglie il regno di Cazan ottenne, il quale per anni quattro con odio grande e invidia delli sudditi suoi ottenne: le quali cose s'accrescevano per la deformità e bruttezza del corpo, perciochè era uomo grossaro, con la pancia eminente, con la barba chiara, con faccia piú donnesca che virile, le quali tutte cose dimostravano essere poco atto e idoneo alla guerra. Vi s'aggiungeva ancora che, sprezzata e vilipesa la benevolenzia delli sudditi suoi, al principe di Moscovia piú del giusto favoreggiava, e piú si fidava de' forestieri che delli suoi. Onde li Cazanensi mossi, a Sapgirei, figliuolo di Mendligero e uno delli re di Tauris, il dominio del regno diedero. Il qual venendo nel regno, fu comandato a Scheale che gli desse il dominio di quello: il qual, vedendosi di forze inferiore e conoscendo gli animi delli sudditi suoi inimici, pensò esser cosa utile cedere alla fortuna, e cosí con le sue mogli, con le concubine e con tutto il resto della massaria di casa in Moscovia, d'onde era venuto, si ritornò. E queste cose sono state fatte nell'anno del Signore 1521.
Essendo Scheale uscito del regno, Machmetgirei, re di Tauris, un fratello di Sapgirei, con grand'esercito nel regno di Cazan introduce: poi, confermati gli animi delli Cazanensi verso il fratello, ritornando in Tauris e passato il Tanai alla volta di Moscovia se n'andò. In quel tempo Basilio, ben sicuro delle cose sue e non temendo di simil infortunio, udita la venuta delli Tartari subito fece esercito, al quale Demetrio Bielski per capitano diede, e alla volta del fiume Occa, acciochè il passar delli Tartari impedisse, mandò. Ma Machmetgirei, essendo di forze superiore, già aveva passato Occa, e ad un luogo detto le Piscine s'era fermato col suo esercito; e di là poi distendendosi per il paese nimico, ogni cosa con robberie, rapine e abbrucciamenti occupò. In quel tempo Sapgirei con l'esercito uscí fuori di Cazan, e Wolodimeria e Nowogardia bassa saccheggiò. Finite queste cose, amendua li fratelli re alla città Colonna si congregorono, e le forze loro congiunsero insieme.
Basilio, principe della Moscovia, vedendosi ribattere da un tanto nimico molto inferiore, lasciando un certo Pietro suo cognato, il quale dalli re delli Tartari traeva origine, insieme con alcuni altri de' piú nobili alla guardia del castello con buon presidio, fuori della Moscovia fuggí con tanto timore e spavento che, disperatosi delle cose sue, per alcuni giorni sotto un monte di fieno stette ascoso. Alli vintinove di luglio li Tartari, fattisi piú avanti, il paese con incendi e abbrucciamenti ruinavano, e tanto terrore e spavento alli Moscoviti arrecorono che essi né in castello né in la città pensavano di poter esser sicuri. In quella paura tanto tumulto nacque nelle porte, per cagione delle donne, delli putti e delli vecchi, quali con carri fuggivano nel castello, che per troppa fretta s'impedivano. Questa moltitudine tanto fetore nel castello produsse che, se 'l nimico per tre o ver quattro giorni fosse restato sotto la città, era forza che quelli che erano concorsi nel castello corrotti dalla peste morissero, perciochè in tanta moltitudine d'uomini bisognava che 'l luogo che ciascuno aveva occupato sodisfacesse loro a tutti i bisogni. Erano in quel tempo in Moscovia gli ambasciatori livoniensi, li quali, montati a cavallo e postisi a fuggire, e a torno a torno niente altro vedendo che fuoco e fumo, nondimeno si dice che in un giorno in Twer vennero, il qual luogo per trentasei miglia germanici è distante da Moscovia.
Li bombardieri alemanni allora meritorono gran laude, e specialmente un Nicolò nato appresso il Reno, non lontano dalla città imperiale di Spira, al quale e dal capitano e dagli altri consiglieri con piacevolissime parole fu imposto che pigliasse l'impresa di difendere la città, e cosí lo pregorono che con l'artiglierie piú grosse, con le quali le muraglie sogliono esser gettate a terra, condotte quelle sotto la porta del castello di là cacciasse li Tartari. Ma era tanta la moltitudine dell'artiglierie che a pena in spazio di tre giorni si sarebbono potute condurre; oltra di questo li Moscoviti non avevano tanta polvere di bombarde la quale fosse stata bastante a caricare una volta sola il pezzo grosso, perciochè i Moscoviti sogliono sempre osservare questo costume, che hanno tutte le lor cose riposte e non hanno niente mai pronto, ma, costretti dalla necessità, s'ingegnano di fare tutte le cose loro con prestezza. Parve adunque a Nicolò bombardiero essere piú util cosa che le bombarde minori, le quali erano riposte lontane dal castello, sopra le spalle degli uomini con prestezza fossero là in mezo condotte. Mentre in queste erano occupati, un gridore grande nacque che li Tartari s'avvicinavano; la qual cosa tanto spavento diede a quelli della città che, gettate le bombarde per le contrade, abbandonavano il difendere la muraglia dalli loro nimici, di modo che, se allora cento cavalli delli nimici avessero fatto impeto nella città, facilmente con il fuoco dalli fondamenti averebbono quella consumata. In questo spavento il prefetto o ver governatore della città insieme con gli altri compagni pensorono di voler placare l'animo del re Machmetgirei con alcuni doni grandi, e specialmente con una bevanda detta medone, e con questi mezi rimoverlo dall'assedio del paese. Il re Machmetgirei, ricevuti li presenti e doni, rispose che volontieri dall'assedio e dalla provincia si partirebbe, quando avesse lettere per le quali Basilio principe s'obligasse dover essere perpetuo tributario del re de' Tartari, come già suo padre e gli altri suoi maggiori avevano fatto.
Le quali lettere scritte e ricevute secondo 'l suo volere, Machmetgirei l'esercito suo alla volta di Rezan ridusse, dove, data potestà alli Moscoviti di poter riscuotere e cambiare li suoi, il resto della preda fu venduta all'incanto. Era in quel tempo nel campo de' Tartari un certo Eustachio, cognominato Taskowitz, suddito e vassallo del re di Polonia, il quale con le sue genti era venuto in aiuto di Machmetgirei, perciochè alora fra 'l re di Polonia e il duca di Moscovia non era tregua alcuna. Questo Eustachio portava alcune spoglie de' nimici a vendere quasi sotto il castello di Moscovia, con pensiero, venendogli l'occasione e commodità, d'entrare nelle porte del castello con li Ruteni e quello, cacciate le guardie, occupare; al che fare il re de' Tartari con simile astuzia prestava aiuto. Al governatore della rocca un uomo de' suoi piú fedeli mandò, il quale esso governatore, servo del suo tributario, comandò che gli ministrasse e apparecchiasse quelle cose che dimandava, e che avanti il sopradetto re venire dovesse. Il governatore, Giovanni Kowar, delle cose della guerra e dell'astuzie instrutto, non puoté a modo alcuno esser mosso e persuaso che fuori del castello uscisse; ma simplicemente rispose che ancora non sapeva il suo principe essere tributario de' Tartari, e servo: del che se fosse certificato, saperrebbe dapoi quello che fosse bisogno a fare. Onde subito le lettere del suo principe, per le quali s'era obligato al re, furono publicate. Tra questo mezo, mentre per le dimostrate lettere l'animo del governatore era sollicitato e mosso, il capitano Eustachio, sforzandosi di fare l'impresa sua, al castello s'avvicinava; e acciochè tanto piú l'astuzia e inganno suo occulto stesse, knes Theodoro Lopata, uomo primario e grande, e altri Ruteni, li quali ne' saccheggiamenti della Moscovia nelle mani de' nimici erano pervenuti, con certa quantità di danari riscossi erano restituiti alli suoi. Oltra di questi molti de' prigioni, negligentemente servati e quasi volontariamente lasciati, nel castello erano fuggiti: alla ricuperazione de' quali li Tartari con gran moltitudine di gente al castello appressandosi, li Ruteni, da paura percossi, li fuggitivi prigioni di nuovo restituirono. Né però li Tartari per questo si ritiravano, anzi, piú cresceva il numero di quelli: li Ruteni, per il soprastante pericolo, erano in grandissimo terrore e disperazione, né vedevano quello fosse bisogno fare. Allora Giovanni Giordan alemanno, maestro delle bombarde, considerando la grandezza del pericolo piú che facevano li Moscoviti, l'artiglierie nell'ordine suo collocate e poste contra li Tartari e li Lituani scaricò, e quelli talmente spaventò che, lasciato il castello, tutti si diedero a fuggire.
Il re, con il mezo d'Eustachio, artefice e inventore di questa fraude, dalla ricevuta ingiuria con il governatore del castello si duole e lamenta. Il qual governatore dicendo il bombardiere aver scaricato senza sua saputa, e tutta la colpa di questo fatto in esso trasferendo, il re de' Tartari dimandò che 'l bombardiero gli fosse dato nelle mani. E, come al piú delle volte nelle cose disperate si fa, la maggior parte, acciochè dal terrore nimico fossero liberati, pensorono di dover dare il bombardiero nelle mani del re de' Tartari, eccetto Giovanni Kowar governatore, il quale non volse a ciò consentire; e cosí il bombardiero alemanno per beneficio del governatore del castello fu liberato. Perciochè 'l re de' Tartari, o vero per la ritardanza impaziente, o vero perchè avesse li soldati suoi carichi di preda, richiedendo cosí li suoi bisogni, subito (lasciate le lettere del principe di Moscovia, per le quali si faceva perpetuo tributario del re, nella rocca) disfatti gli alloggiamenti in Tauris ritornò.
Questo re tanta moltitudine di prigioni di Moscovia con esso lui aveva condotto che pareva cosa incredibile, perciochè dicono un numero d'ottocentomila persone, le quali in Capha parte a' Turchi aveva venduta e parte aveva uccisa: perciochè li vecchi e gl'infermi, li quali gran prezzo non possono esser venduti, come quelli che sono inutili a sopportare le fatiche, appresso li Tartari a' giovani loro sono concessi e dati, non altramente che si fanno le lepri a' cani giovanetti, acciochè i principii della prima milizia imparino, o ver sagittandogli, o ver gettandogli in mare, o vero con altra sorte di morte facendogli morire. Quelli che sono venduti sono astretti al giogo della servitú per anni sei continovi, e dapoi, finito tal tempo, sono fatti liberi; ma non possono però partirsi fuora della provincia. Sapgirei, re di Cazan, tutti li prigioni, quali aveva condotti fuori di Moscovia, in Astrachan, luogo di mercatanti non troppo lontano dalle bocche del fiume Wolga, alli Tartari vendette.
Or finalmente essendosi partiti li re delli Tartari fuori della Moscovia, Basilio principe di nuovo nella Moscovia ritornò; e conciosiacosachè nel primo suo ingresso avendo veduto Nicolò alemanno, per diligenzia e solicitudine del quale dissi il castello esser stato conservato, in presenzia di tutta quella moltitudine, la quale era venuta su la porta per ricevere il principe loro, con chiara voce gli disse: "La tua fede verso di me e la diligenzia la quale in conservare il castello hai dimostrata ci è nota, e di questo tuo beneficio te ne daremmo buona rimunerazione". Similmente a l'altro Alemanno, chiamato Giovanni, il quale dal castello Rezano con le sue artiglierie li Tartari aveva ribattuti, disse: "Sei tu salvo? Iddio onnipotente ci ha data la vita e tu ce l'hai conservata; e però ci ricorderemo di questo beneficio". L'un e l'altro sperava d'esser premiato dal principe, nondimeno niente fu dato loro, benchè spesse volte l'ammonissero delle promesse. Per la qual ingratitudine sdegnati, dimandarono licenzia di poter andare a rivedere li suoi, li quali tanto tempo non avevano veduti; ma per commissione del principe a ciascuno furono aggiunti dieci fiorini.
Tra questo mezo, essendo nella corte del principe nata certa contenzione, che fosse stato l'auttore della fuga delli Ruteni al fiume Occa, li vecchi in Demetrio Bielschi, capitano dell'esercito, uomo giovane e disprezzatore delli lor consegli, tutta la colpa transferivano, dicendo per negligenzia sua li Tartari aver passato il fiume Occa. Ma egli all'incontro rispondendo tutta la colpa ributtava da sé in Andrea, fratello piú giovane del principe, come quello che fosse stato primo di tutti a fuggire, e gli altri lo seguitorono. Basilio, acciò che non paresse piú crudele e severo contra il fratello, il qual sapeva esser stato auttore della fuga, un delli suoi governatori, il quale insieme con il fratello era fuggito, fece mettere in catene, e della dignità e del principato lo privò. Nella seguente estate Basilio, per fare della ricevuta ingiuria dalli Tartari vendetta e per scancellare la macchia la quale fuggendo, sotto il fieno nascondendosi, aveva ricevuta, fece un bellissimo e grossissimo esercito, con grandissimo apparato di bombarde e d'altre sorti d'artiglierie, li quali per avanti li Ruteni nelle guerre non avevano usate, e con tale esercito di Moscovia infin al fiume Occa e alla città Colonna se n'andò, e ivi fermossi. E dapoi, mandati alcuni caduceatori, cioè annunziatori della guerra, a Machmetgirei, re delli Tartari in Tauris, quello sfidò al combattere, dicendo nell'anno innanti esser stato oppresso senza annuncio di guerra, secondo il costume e usanza de' ladri. Il re gli respose che a lui molte vie erano aperte a poter assalire la Moscovia, e che le guerre non erano piú dell'armi che delli tempi, e però che usava di far tal guerre piú secondo la volontà sua che degli altri. Per le quali parole l'animo di Basilio provocato a sdegno, ardendo di desiderio di far vendetta, nell'anno del Signore 1523, mosso il campo, alla volta della Nowogardia bassa per saccheggiare il regno di Cazan se n'andò; e di là poi al fiume Sura nelli confini delli Cazanensi andato, un castello edificò, al quale dal suo nome diede il nome, e per allora non volse andare piú oltra, ma il condotto esercito nel suo paese ricondusse.
Ma nell'anno seguente Michele Georgio, uno de' principali consiglieri ch'egli avesse, con maggior copia di soldati a soggiogare il regno di Cazan mandò, onde Sapgirei, re di Cazan, sbigottito, fece chiamare a sé il nepote, figliuolo del suo fratello re di Tauris, giovane di tredici anni, accioch'egli il regno governasse, ed egli alla volta dell'imperator de' Turchi ne gitte per dimandare aiuto e soccorso contra li suoi nimici. Il giovane, per ubidire a' comandamenti di suo zio, si mise in viaggio e a Gostinowosero, cioè all'isola de' mercanti, la quale tra il corso del fiume Wolga e il castello Cazan è posta, pervenne, e onoratamente dalli principi del regno fu ricevuto. In questa compagnia v'era un certo seid, sommo sacerdote de' Tartari, il quale appresso di quei in tant'auttorità e venerazione è tenuto che eziandio li re gli vanno incontro e, stando costui a seder a cavallo, gli porgono la mano e col capo chino, il che alli re soli è concesso, lo toccano: perciochè li duchi non gli toccano la mano, ma le ginocchia, li nobili li piedi e li plebei solamente le vesti o vero il cavallo. Questo seid sacerdote, occoltamente le parti del principe Basilio difendendo, con ogni diligenzia e cura cercava di pigliare il detto giovane e di mandarlo prigione in Moscovia; ma discoperto, fu preso, e in presenzia di tutti con un coltello ucciso. Tra questo mezo Michele, capitano dell'esercito, raunate nella bassa Nowogardia, per portare le artiglierie e la vettovaglia, le navi, delle quali era tanta la moltitudine che 'l fiume parea fosse coperto di naviganti, alla volta del regno di Cazan col suo esercito affrettava: e all'isola di Gostinowosero pervenuto, alli 7 di luglio, fermatosi col suo esercito ivi per vinti giorni aspettando la cavalleria restò.
Tra questo mezo Cazan castello, il quale era fatto di legno, per via d'alcuni soldati dalli Moscoviti subornati fu abbrucciato e dalli fondamenti ruinato. L'occasione d'occupare il castello fu disprezzata per la paura e pigrizia del capitano, talmente ch'egli non condusse pure un soldato ad espugnare il colle del castello, né fu d'impedimento a' Tartari, li quali di nuovo l'edificorono. Ma alli vintiquattro del medesimo mese, trapassato il fiume Wolga in quella parte nella quale è posto il castello, appresso il fiume Cazanca con l'esercito fermossi, ivi per vinti giorni aspettando occasione buona. Non molto lontano il re cazanense aveva fermato il suo esercito e, mandando fuori li Czeremissi pedoni, molestava li Ruteni, benchè indarno. Scheale re, il quale a tal guerra con le navi era venuto, con lettere ammonisce il sopradetto re de' Tartari che voglia cedere del suo regno ereditario. Al quale rispose il Tartaro: "Se tu desideri aver questo regno, combattiamo insieme, e chi resterà vittorioso sarà padrone del regno". Mentre li Ruteni cosí indarno consumano il tempo, consumata la vettovaglia cominciorono a patire di fame, perciochè, ruinando il paese li Czeremissi e osservando il viaggio de' nimici, niente poteva esser portato nel campo de' Moscoviti; né il principe poteva intendere quello che si faceva nel suo esercito, né essi potevano farglielo a sapere.
Basilio fece sopra questo Giovanni knes Paliczki, il quale della Nowogardia con le navi cariche di vettovaglia a seconda per il fiume all'esercito andasse, e, ivi posta la vettovaglia e inteso lo stato delle cose, in Moscovia se ne ritornasse. Un altro similmente a questo fine con cinquecento cavalli per terra fu mandato, il quale dalli Czeremissi, insieme con li suoi, fu tagliato a pezzi, e di quelli a pena nove scamporono, e il capitano dopo tre giorni, essendo ferito, nelle mani delli Czeremissi morí. Questa cattiva nuova nell'esercito di Moscoviti pervenuta fece tanto spavento che altro non pensavano se non di fuggire: ma dubitavano molto se dovessero ritornare per il fiume contrario, il che era difficilissimo a fare, o vero seguitare il medesimo fiume sino a tanto che trovassero altri fiumi, e poi per viaggio di terra con longo circoito ritornare in Moscovia. Mentre stanno in queste consultazioni e ragionamenti sopravennero quelli nove cavalli, quali erano scampati dalle mani de' nimici, e dissero Giovanni Palitzki dover arrivar con la vettovaglia. Al qual Giovanni, benchè la navigazione facesse con prestezza, nondimeno la fortuna fu contraria, perciochè, perduta la maggior parte delle navi, con poche ne venne. Perciochè, essendo per la continova fatica faticato molto, e per una notte nel lito del fiume Wolga riposò restando. Subito li Czeremissi con gran clamore là corsero e dimandarono chi navigasse: alli quali rispondendo li servitori di Giovanni, pensando esser quelli servi de' naviganti, dissero loro villania, minacciando il dí seguente volergli battere, che con gridi la quiete e riposo del suo padrone avevano impedito. A le quali parole rispondendo, li Czeremissi dissero: "Domani altre facende avremo da fare con voi, perciochè tutti prigioni e legati vi condurremo in Cazan". La mattina adunque, avanti il levar del sole, perciochè era una densissima nebbia, li Czeremissi all'improviso fecero impeto nelle navi, il che tanto terrore e spavento diede alli Ruteni che 'l capitano dell'armata, Palitzki, lasciate nonanta navi delle piú grandi in man de' nimici, in ciascuna delle quali erano trenta uomini, quasi nudo alla volta dell'esercito pervenne. Dapoi, di nuovo tentò ancora di portare nuova vettovaglia, ed ebbe la fortuna contraria, e dalle mani delli Czeremissi a pena scampò.
Mentre li Ruteni dalla fame e dalla violenza ostile erano costretti e molestati, di nuovo dal principe Basilio fu mandata una buona cavalleria per la via del fiume Wiega, il quale da mezogiorno in Wolga fiume entra: e mentre quelli s'affrettano di congiungersi con l'altro esercito, venne due volte alle mani con Tartari e con li Czeremissi, e da una banda e l'altra fu combattuto sanguinolentemente. Nondimeno diedero luogo alla fortuna e con il resto dell'esercito moscovitico si congiunsero; il quale per tal cavalleria confermato, alli quindici d'agosto cominciorono l'assedio intorno a Cazan castello. Il che conosciuto dal re cazanense, ancora egli da l'altro lato del castello rincontro a' nimici pose il suo esercito, e facendo passare di là la sua cavalleria, gli comandò che dovessero stuzzicare e molestare l'esercito nimico: e cosí da una parte e l'altra si facevano spesse scaramuccie. Ci fu referito da uomini degni di fede, quali furono presenti, una volta sei Tartari essersi fatti avanti l'esercito moscovitico in una pianura: li quali volendo il re Scheale con cento e cinquanta cavalli tartari assaltare, dal capitano dell'esercito gli fu proibito, opponendosi avanti esso con duemila cavalli, e cosí l'occasione di fare una bella impresa gli fu tolta delle mani. Volendo li cavalli moscovitici serrare li sopradetti sei Tartari in mezo, acciochè non scampassero, li Tartari dall'altra parte delli nimici con astuzia davano la berta, e seguitandogli li soldati moscoviti, li Tartari alquanto si ritiravano, e dapoi si fermavano, e questo medesimo facevano li Moscoviti: ma li Tartari, vedendo la timidità di quelli, con gli archi gettavano le frecce arditamente contra essi, e quelli conversi in fuga perseguitando, molti ne ferivano. Mentre queste cose si facevano, due cavalli delli Tartari da un tiro d'artiglieria furono gettati per terra, senza offesa degli uomini, li quali gli altri quattro condussero alli suoi.
Mentre in questo modo si davano la berta uno a l'altro, violentemente il castello da' nimici con le bombarde s'oppugnava, e quelli di dentro con non manco vigore, ingegno e arte si difendevano. In questo conflitto un bombardiero, quale avevano unico nel castello, per un colpo di bombarda dalli Ruteni percosso finí sua vita. Il che conosciuto, li soldati mercenari, cioè li guastadori, delli Germani e delli Litwani cominciorono aver speranza di poter facilmente pigliare il castello. Il che certo sarebbe successo, se l'animo del capitano fosse stato conforme al voler loro: ma egli, vedendo che li suoi soldati di giorno in giorno piú dalla fame e sete erano molestati e oppressi, prima che per li suoi ambasciatori occultamente trattasse con li Tartari di far tregua, non solamente non lodò l'audacia de' suoi soldati del voler pigliare il castello, ma con ira e sdegno quelli riprese, e minacciogli di battiture, perchè avevano ardimento di voler oppugnare il castello senza sua saputa. Perciochè egli pensava in tanta strettezza di cose succedere bene al suo re se, fatta tregua col nimico, le bombarde e l'esercito salvo conducesse. Li Tartari similmente, conosciuta la volontà del capitano moscovitico, da buona speranza mossi, le condizioni le quali il capitano gli offeriva, di voler mandare gli ambasciatori in Moscovia per trattare della pace, volentieri accettorno. Le quali cose finalmente composte e assettate, Palitzch capitano, toltosi via dall'assedio, con l'esercito in Moscovia se ne ritornò: benchè era fama il capitano dalli Tartari con doni esser stato corrotto, il che un certo Savoiese aveva accresciuto, il quale, essendo bombardiero, volse partire e andare nell'esercito di nimici, e a far questo solicitava ancora gli altri; e preso, confessò dicendo sé aver ricevuto danari e alcune tazze tartariche dalli nimici, né però fu punito.
Essendo adunque ritornato l'esercito nella patria, il quale dicono esser stato di numero di cento e ottantamila persone, gli oratori del re di Cazan vennero in Moscovia avanti il principe Basilio per confirmare li patti e le promissioni della pace; ed eziandio quando noi eravamo in Moscovia vi erano presenti, e insino allora fra loro non era speranza alcuna di concludere la pace. Perciochè le fiere, le quali vicino a Cazan nell'isola delli mercanti si solevano fare, per dispetto delli Cazanensi Basilio in Nowogardia transferí, imponendo gravissima pena a' suoi se al mercato nella detta isola n'andassero, sperando tal cosa dover essere loro di grande incommodità e danno, e spezialmente per levar via la commodità di comprare il sale, del quale li Tartari in quella fiera solevano comprare gran copia dalli Ruteni. Nondimeno il transferimento di questa fiera non fu manco di danno e d'incommodità alla Moscovia che alli Cazanensi, perciochè di molte cose, le quali dal mar Caspio, da Astrachan, dalla Persia, dall'Armenia per il fiume Wolga erano portate, venne gran carestia, e spezialmente di pesci nobilissimi e buoni, nel numero delli quali è un pesce detto beluga, li quali e di là e di qua da Cazan nel fiume Wolga si trovano.


Sin qui della guerra del principe di Moscovia con li Tartari cazanesi fatta avemo detto: ora alla tralasciata narrazione di nuovo ritorniamo.

Dopo li Tartari cazanesi, li primi Tartari, cognominati Nagai, scorrono, li quali di là dal fiume Wolga, appresso il mar Caspio, al fiume Iaich che scorre dalla provincia Sibier abitano. Questi non hanno re, ma duchi; alli tempi de' nostri fratelli, partita la provincia con eguale porzione, quelli ducati ottenevano. Delli quali il primo si chiamava Schidach, e la città Scharaitztch, di là dal fiume Rha, verso l'oriente, con la propinqua regione al fiume Iaich ottenuta; l'altro era detto Cossum, e tutto quel che è tra 'l fiume Kama e il fiume Rha possedeva; il terzo fratello era Schichmamai, il quale parte della provincia di Sibier e tutta la regione circonvicina possede. Schichmamai è interpretato santo, o ver potente. Tutte queste regioni sono quasi selvose, eccettuata quella provincia che alla volta di Scharaitzch si distende, la quale è tutta campestre.
Tra Volga e Iaich fiumi, intorno al mar Caspio, abitavano già li re sawolhensi, delli quali diremo dapoi. Appresso questi Tartari una cosa maravigliosa e a pena credibile Demetrio di Daniele, uomo fra li barbari di fede singulare, ci raccontò: che essendo stato mandato suo padre per ambasciatore dal principe di Moscovia al re zawolhense, mentre era in quella legazione aveva veduta una certa semenza in quelle isole, poco maggiore e piú rotonda del seme di mellone, ma non dissimile però da quella. La qual semenza ascosa in terra, nacque poi di quella una certa cosa simile ad un agnello, di altezza di cinque palmi, e questo in lor lingua chiamano boranetz, cioè agnello, perciochè ha il capo, gli occhi, l'orecchie e tutte l'altre cose alla similitudine d'uno agnello nuovamente nato. Oltra di questo, ha una pelle sottilissima, la quale molti in quel paese usano in capo in luogo di berretta; e molti dicono averne vedute. Diceva ancora quella pianta, se pianta è lecito d'essere chiamata, aver in sé sangue, ma senza carne, ma, in luogo della carne, una certa materia simile alla carne de' gambari; ha l'onghie non cornee, come li agnelli, ma con certi peli vestite, alla similitudine d'un corno; ha la radice sin all'umbilico, e dura sin a tanto che, mangiate l'erbe a torno a torno, la radice per carestia del pascolo si secca. Dicono aver in sé una dolcezza maravigliosa, e che perciò è molto desiderata da' lupi e d'altri animali rapaci. Io, quantunque giudico tutto questo, e del seme e della pianta, essere cosa favolosa e incerta, nondimeno, perchè me l'hanno riferita uomini degni di fede, l'ho voluta riferire agli altri.
Andando dal principe Schidach in oriente per spazio di vinti giorni, si truovano certi popoli li quali li Moscoviti Iurgenci chiamano, alli quali Baracch soltan, fratello del gran Chan, o vero re di Cataia, signoreggia. Dal signor Baracch soltan per dieci diete si va alla volta di Bebeiddichan, e questo è il gran Can di Cataia.
Astrachan è città ricca e opulenta, ed è fontico delli Tartari; dalla qual città tutto il paese circonvicino ha preso il nome, e per il viaggio di dieci giorni sotto Cazan, nella ripa di qua dal fiume Wolga, quasi appresso le bocche del fiume è posta, benchè alcuni dicono non esser cosí, ma per alcune giornate esser distante.
Veramente in quel luogo nel quale Wolga fiume in piú rami si divide, li quali dicono molti che sono settanta, e fa molte isole, e con tante bocche entra nel mar Caspio, e con tanta copia d'acqua v'entra che alli spettatori di lontano pare che sia un mare. Questa città molti Citrahan la chiamano.
Di là da Wiatcham e Cazan, appresso Permia, abitano li Tartari li quali Tumenschi, Schibanschii e Cosatzchii sono chiamati. Delli quali i Tumenschii abitano nelle selve, e non passano il numero di diecimila. Oltra di questo sono ancora altri Tartari di là dal fiume Rha, li quali soli, perchè nutriscono li capelli, Calmuchi sono chiamati; e verso il mar Caspio la provincia, detta Schamachia, dalla quale ha preso il paese il nome. Questi Tartari in tessere vesti di seta sono eccellenti; e la città di questi è lontano per viaggio di sei giorni da Astrachan città, la quale insieme con il paese il re di Persia non molto tempo fa ha occupata.
Asoph città, appresso il Tanai, per viaggio di sette giorni è distante da Astracham; ma da Asoph, Tauris Chersoneso e spezialmente Precop città è lontano per viaggio di cinque giorni. Ma tra Cazan e Astrachan, con longo tratto appresso il fiume Wolga fin al fiume Boristene, sono campi sterili e deserti, li quali luoghi i Tartari senza certe e ferme abitazioni abitano, eccettuate Asoph e Achas città, la quale è dodici miglia sopra Asoph, appresso il Tanai, e gli altri Tartari vicini al Tanai minore, li quali coltivano la terra e hanno certe abitazioni. Da Asoph a Schamachia vi sono dieci diete.
Dall'oriente verso mezogiorno piegando, circa alle Meotide paludi e il mare Ponto, al fiume Cupa, il quale scorre nelle paludi, sono certi popoli chiamati Aphgasi; dal qual luogo sin al fiume Meruli, il quale scorre nel mare, sono certi monti li quali i Circassi o vero i Cichi abitano. Costoro, dall'asprezza delli monti confidatosi, né alli Turchi né alli Tartari danno ubidienza; nondimeno li Ruteni affermano questi Circassi esser cristiani, vivere con le sue leggi e nel culto e nelle cerimonie con li Greci convenirsi, e usare la lingua slavonica a celebrare le cose sacre. Sono audacissimi corsari in mare, perciochè per li fiumi, li quali corrono dalli monti loro, con le barche scorrono nel mare: tutti quelli che passano spogliano, e specialmente quelli li quali navigano da Capha in Costantinopoli. Di là dal fiume Cupa è Mengarlia, la quale il fiume Eraclea bagna; dapoi è Cotapis, la quale pensano alcuni che sia Colchi. Dopo questo si truova il fiume Phasi, il quale, prima ch'entri nel mare, non molto lontano dalla bocca fa una isola, detta Satabello, nella quale è fama già le navi di Iasone essere state. Di là da Phasi è Trapezus.
Dalle paludi di Tauris Chersonese, le quali dalle bocche del Tanai in longhezza sono dette aver trecento miglia italiani, sin al capo promontorio di San Giovanni, in quella parte che piú sono propinqui vi sono solamente due miglia italiane. In questa parte vi è Krijme città, già regno e sedia di Tauris, dalla quale Krijmkii sono nominati. Dapoi, cavato tutto l'istmo, cioè la terra ferma fra due mari posta, qual era di spazio di mille e dugento passa, alla similitudine d'una isola, li re non Krijmschi ma Precopschii si chiamano, preso il nome da quel cavamento, perciochè percop in lingua slavonica vuol dire cavato; onde appare un certo scrittore avere errato, il quale scrisse ivi un certo Procopio aver signoreggiato. Tutto il Chersoneso da una certa selva è partito per mezo: e quella parte la quale riguarda il mare, nella quale è Cafa, nobile città già detta Theodosia, e colonia de' Genovesi, tutta è ora posseduta dal Turco. Ma Capha Maumetto, il quale, espugnato Costantinopoli, distrusse l'imperio de' Greci, a' Genovesi tolse; l'altra parte della penisola i Tartari posseggono.
Ma tutti li Tartari re di Tauris dalli re zawolhensi hanno l'origine loro; e quando alcuni di quelli per odio e sedizione furono cacciati del regno, e in nissun luogo vicino ferma abitazione potero avere, questa parte dell'Europa occuporno, e della ingiuria ricordevoli longamente con li Zawolhensi combatterono, sin a tanto che, al tempo de' nostri padri, regnando Alessandro granduca della Litwania in Polonia, Scheachmet, re delli Zawolhensi, nella Litwania venne, acciochè, confederatosi e legatosi con Alessandro e congionte in uno le forze loro, Mahmetgieri, re di Tauris, scacciassero dal regno. Al che fare l'un e l'altro delli due principi consentí; ma conciosiachè i Litwani, secondo il lor costume, piú longo tempo di quel porta il dovere prolongavano la guerra, la moglie del re zawolhense e l'esercito suo, impazienti per la longa dimora e per il gran freddo, solicitavano il lor re che, lasciato il re di Polonia, volesse in altro modo provedere alli casi suoi. Ma la persuasione fu senza frutto: per il che sdegnata la moglie, lasciato il marito, con parte dell'esercito se n'andò a ritrovare Machmetgirei, re delli Precopensi, e tanto lo persuase che mandò il suo esercito a profligare il resto della gente del re sawolhense, suo marito. Le quali genti dissipate e distrutte, Scheachmet, re delli Sawolhensi, vedendo la sua infelicità e disgrazia, quasi da seicento cavalli accompagnato ad Alba città, la quale è posta appresso il fiume Thira, con speranza d'aver soccorso dalli Turchi se n'andò. Ma, conoscendo ivi non esser sicuro, a pena con la metà delli sopradetti cavalli partitosi in Chiovia pervenne, dove dalli Litwanii fu preso; e per commissione del re di Polonia ad Wilna condotto, il re gli venne incontro e onorevolmente lo ricevette, e alla dieta che si faceva delli Poloni seco lo menò, dove fu concluso di mover guerra contra Mendligerei. Ma conciosiachè li Poloni in radunare l'esercito piú tempo consumassero di quello che portava il dovere, il Tartaro, grandemente sdegnato, di nuovo cominciò a pensar di voler fuggire, e fuggendo a Trochij castello, quattro miglia lontano da Wilna, fu preso e menato indietro. Io lo viddi e desinai seco una mattina. E questo fu il fine dell'imperio delli re sawolhensi, con li quali re parimente li re di Astracchan, li quali da quelli medesimi re avevano l'origine, insieme perirono.
Li quali cosí oppressi ed estinti, la potenzia delli re di Tauris a tanta grandezza pervenne ch'alle genti vicine era di non poco terrore e spavento, di modo che constrinsero il re di Polonia a dar loro un certo stipendio over tributo, con questa condizione però, ch'egli in ogni sua occorrenza e bisogno gli potesse chiedere aiuto e soccorso. Similmente il principe di Moscovia, mandati presenti e doni al re di Tauris, spera di farselo benevolo e amico, perciochè, facendo essi continova guerra insieme, ciascun di loro pensa con l'aiuto e favore delli Tartari poter superare il compagno. Il che conosciuto dal barbaro re di Tartari, e ricevuti presenti, l'un e l'altro con vana speranza nutriva. Il che in quel tempo che io, in nome di Cesare Massimiliano, appresso il principe di Moscovia trattavo di far fare la pace con il re di Polonia: perciochè non potendo il principe di Moscovia ridursi alle condizioni giuste e ragionevoli della pace, il re di Polonia corrupe il re precopense con danari, che col suo esercito assaltasse una parte della Moscovia, ed egli similmente dall'altra per la via d'Opotzkan moverebbe l'armi contra Moscoviti. Con la quale astuzia il re di Polonia sperava di poter astringere il principe di Moscovia a far pace con esso lui: il che esso principe di Moscovia considerando, subito mandò li suoi ambasciatori al re de' Tartari, che trattassero con lui di muover guerra contra Lituani, ed essendo la provincia loro vuota d'ogni timore e nuda d'ogni presidio, tutte le forze sue contra questa rivoltare dovesse. Il consiglio del quale il re de' Tartari, avendo solo rispetto al commodo suo, seguitò, e cosí, per le discordie di tali principi piú potenti divenuto desideroso d'accrescere l'imperio suo, a maggior cose drizzò l'animo. E tolto in suo aiuto Mamai, principe nahaicense, nell'anno del Signore 1524, del mese di gennaio, in Tauris con l'esercito se n'andò, e ivi il re d'Astrachan assaltò, e la città di quello, la quale egli da paura lasciò, assediò e prese, restando vittorioso.
Tra questo mezzo Agis, principe delli Nahaicensi, il suo fratello Mamai riprende che abbia dato aiuto con le sue genti a un vicino tanto potente; oltra di questo, l'ammonisce che abbia l'occhio alla potenzia del re Machmetgirei, la quale ogni giorno cresceva, e di tal sorte che forse sarebbe di danno a l'un e l'altro, rivoltando l'arme alli danni e ruine loro. Per le quali parole Mamai mosso, avisa il fratello che con maggior quantità di gente ch'egli può ne vada a lui, dicendo che, essendo Machmetgirei per il felice successo delle cose sue fatto superbo e sicuro, senza altra paura vivendo, gli bastava l'animo di poter liberare l'uno e l'altro del timore. Agis, ubidendo all'ammonizioni del fratello, al tempo ordinato gli promette andare a ritrovarlo con il suo esercito, il quale teneva in ordine per difendere li confini del regno dalle guerre. La qual cosa intesa da Mamai, subito avisa il re Machmetgirei che non nutrisse il soldato con licenziosa disciplina sotto il tetto e che non lo corrompesse, ma che, lasciata la città, piú presto nelli campi, come è usanza, vivesse. Al consiglio del quale accostandosi, il re il soldato condusse in campo. Agis con il suo esercito vi concorre, e insieme col fratello si congiunge: li quali non molto dapoi il re Machmetgirei, nulla cosa di male pensando, insieme con il suo figliuolo Bathir soltan, giovane di venticinque anni, all'improviso assaltorono e la maggior parte dell'esercito di quello uccisero, e il resto rivoltorono in fuga, e dal Tanai fino in Tauris perseguendogli ammazzorono e fugorono in tutto.
Dapoi Precop città, la quale dissi essere nell'entrare del Chersoneso, assediorno: ma tentate tutte le cose, e veggendo che né per forza né per rendersi la potevano pigliare, tolto via l'assedio se ne ritornorono a casa. Adunque per opera di costoro il re d'Astrachan di nuovo ricuperò il regno suo, e le forze del regno di Tauris con Machmetgirei, re fortissimo e felicissimo, afflissero totalmente. Morto Machmetgirei, il suo fratello Sadachgirei, con l'aiuto dell'imperatore de' Turchi, alli quali egli serviva, il regno precopense occupò, il qual, delli costumi turcheschi ripieno, chiare volte, fuori del costume de' Tartari, in publico veniva e dalli sudditi suoi poco era veduto; onde dalli Tartari, li quali questa cosa insolita in un principe patire non potevano, fu cacciato fuori del regno, e in luogo di quello il suo nepote fu posto. Dal quale essendo Sadachgirei suo zio preso, pregava il nipote che nel sangue suo non s'incrudelisse, ma che avesse misericordia della sua vecchiaia, e volontariamente privossi del regno, e al nepote tutta la signoria concesse, pregandolo che si contentasse che abbia almeno il nome e titolo di re.
Li nomi delle dignità appresso li Tartari sono questi: chan, come ho detto di sopra, vuol dir re; solta, figliuol di re; bij, duca; mursa, figliuol di duca; olboud, nobile, o vero consigliero; olboadulu, figliuolo di qualche nobile; seid, supremo sacerdote; ksi, uomo privato; ulan, la seconda dignità dopo il re; perciochè li re delli Tartari hanno quattro uomini, il consiglio de' quali usano nelle cose piú gravi e importanti, e di questi il primo è chiamato schirni, il secondo barni, il terzo gargni, il quarto tziptzan.
Sin qui avemo detto delli Tartari: ora della Lituania vicina alla Moscovia ragionaremo.


Della Littuania.

La Lituania è vicina alla Moscovia: ma ora io non parlo solamente della provincia, ma eziamdio dell'altre regioni propinque a quella, le quali sotto il nome della Lituania sono comprese. Questa provincia con longo tratto dalla città detta Circass, la quale è posta al fiume Boristene, fino in la Livonia si distende. Li Circassi abitatori del Boristeno sono ruteni, diversi da quelli li quali vi ho detto di sopra abitare appresso il mare nelli monti. A questi, al tempo nostro, signoreggiava Eustachio Tascowitz, il quale con Machmetgirei re esser andato in Moscovia vi ho detto di sopra. Costui era uomo peritissimo nella guerra, d'astuzia singolare, e benchè avesse commerzii continovi con li Tartari, nondimeno spesse volte quelli vinse e fugò, e il principe moscovitico, del quale alcuna volta era stato prigione, in grandissimi pericoli condusse.
Quell'anno che noi eravamo in Moscovia con maravigliosa astuzia fugò li Moscoviti, e però mi pare cosa degna e onorevole a scriverla in questo luogo. Questo Eustachio condusse certi Tartari in Moscovia, vestiti in abito lituanico, nelli quali, come nelli Lituani, senza paura li Moscoviti dover far impeto sapeva esso. Poste le insidie, gli agguati, nelli luoghi opportuni e necessarii, aspettava che li Moscoviti dessero dentro. Li Tartari, saccheggiata parte della Sewera provincia, verso la Litwania pigliarono il cammino; e indi mutato il viaggio andorono alla lor via li Moscoviti, pensando quelli essere Litwani. Desiderosi di far vendetta, con grande impeto diedero dentro nella Litwania e quella depredorono; e carichi di molte prede nella Moscovia ritornando, furono dal sopradetto Eustachio colti in mezo tutti e tagliati a pezzi. La qual cosa conosciuta, il principe moscovitico subito mandò oratori al re di Polonia, li quali della ricevuta ingiuria appresso quello si lamentassero; alli quali oratori rispose il re li suoi soldati non averli fatto ingiuria niuna, ma della ingiuria ricevuta aver fatto vendetta.
Sotto i Circassi non sono abitazioni di cristiani. Appresso le bocche del fiume Boristene è Otzakhow castello e città, 40 miglia lontana da' Circassi, la quale città il re di Tauris, già non molto tempo al re di Polonia tolta, possedeva; e al presente il Turco la tiene.
Da Otzakow ad Alba, circa la bocca del fiume Thira, la qual anticamente è detta Moncastro, sono quattordici miglia; da Otzakow in Precop quattordici miglia; da Cercas, circa il Boristene, a Precop quaranta miglia. Sopra i Circassi sette miglia per il Boristene montando la città di Caijnow si trova, dalla quale per spazio di diciotto miglia è la vecchia Chiowia, città principale della Russia, la quale esser stata magnifica e regia le ruine della città e le memorie antiche che vi si veggono manifestano. Si veggono sino al tempo d'oggi, nelli monti vicini, le vestigie delle chiese e delli monasterii destrutti e desolati. Oltra di questo vi sono molte caverne, nelle quali antichissimi sepulcri e corpi in quelli non ancora consumati sono veduti. Da uomini degni di fede ho inteso le fanciulle ivi, dopo sette anni, rare volte servare castità, e di ciò varie ragioni ho udite, delle quali niuna mi ha satisfatto; che a lor voglia è permesso alli mercatanti servirsene, ma menarle via no, perciochè, s'alcuno fusse ritrovato con una fanciulla menata via, e della vita e delli beni è privato, eccetto se la clemenza del principe in ciò non l'aiutasse. Evvi ancora una legge che vuole che tutti li beni delli mercanti forestieri quali ivi morissero vadano overo al re overo al suo prefetto. Il che ancora appresso de' Tartari e de' Turchi chiovensi s'osserva. Appresso di Chiowia è un certo monticello per il quale, per certa via alquanto difficile, è da passare a' mercatanti: nel montare del quale se per sorte qualche parte del carro si spezza, le cose le quali nel carro erano portate vanno al fisco. Tutte queste cose messer Alberto Gastol palatino, luogotenente nella Litwania del re wilnense, mi riferí.
Da Chiowia ascendendo per il Boristene per spazio di trenta miglia, Mosier, appresso il fiume Prepetz, il quale per dodici miglia sopra Chiowia nel Boristene scorre, si truova. Il fiume Thur, il quale è pescareccio molto, in Prepetz fiume mette capo. Ma da Mosier a Bobranzko 30 miglia, e di là montando per 25 miglia, si perviene in Mogilew, e da qui Orsa per sei miglia è distante. Tutti questi luoghi già detti appresso il fiume Boristene sono del re di Polonia, cioè quelli che sono nel lito occidentale; e quelli che sono all'oriente al principe di Moscovia sono sottoposti, eccetto Dobrowna e Mitislaw, quali sono sotto la giurisdizione della Litwania.
Trapassato il Boristene, per spazio di 4 miglia a Dobrowna, e di là per 20 miglia a Smolenzko si perviene. Da Orsa facessimo il nostro viaggio in Smolenzko, e di lí fino in Moscovia.
Borisowo città per vintidue miglia in occidente è lontana da Orsa, di dove il fiume Beresina, il quale sotto Bobrantzko nel Boristene scorre, trapassa. È questo fiume Beresina, come ho veduto con gli occhi, alquanto piú grande del Boristene, appresso di Smolentzko. Io penso certo questo fiume Beresina, il che ancora il suono del vocabolo dimostra, dagli antichi essere avuto per il fiume Boristeno, perciochè, se riguarderemo alla descrizione di Tolomeo, Beresina piú si convenirà con li fonti che con Boristeno, il quale chiamano Nieper.
La Litwania quali principi abbia avuti e quando sotto la religione cristiana sia venuta, a bastanza è stato detto. Le cose di questa gente sino alli tempi di Witoldo sempre fiorirono. Se gli è mossa la guerra contra, e che debbano difendere le cose loro contra la forza degli nimici, chiamati, piú presto ne vengono alla guerra con certa ostentazione che instrutti con grande apparato; ma, fatta la risegna, presto si partono, e quelli che restano, mandati a casa li cavalli e li vestimenti megliori, con li quali ben vestiti s'avevano fatto scrivere per soldati, con pochi quasi constretti seguitano il capitano. Ma gli uomini grandi, li quali sono costretti a mandare un certo numero di soldati alle lor spese, dato il danaro al capitano francano e restano a casa: e questa cosa si fa senza alcuna vergogna, di modo che li prefetti e i capitani della milizia publicamente per il campo fanno proclamare, se alcuni vi fossero che volessero ritornare a casa, che numerino il danaro, e liberamente possano ritornare. Ma è tanta la licenzia tra costoro di fare tutto ciò che gli piace che non sono veduti usare una libertà temperata, ma prosuntuosa e temeraria. Li beni delli principi loro in tanta libertà possedevano che, quando essi principi nella Litwania ne venivano, con le sue entrate non potevano vivere se con l'aiuto delli suoi provenzali non erano sostentate. L'abito di questa gente è longo; usano l'arco, secondo li Tartari, e la lancia e il scudo, secondo il costume degli Ongheri. Hanno buoni cavalli, e quelli castrati e senza ferri, e quelli con certi freni teneri e facili constringono.
Wilna è capo della gente, città grande e fra li colli posta, appresso il corso del fiume Welio e Wilna. Ma Welia, un miglio piú sotto a Wilna, nel fiume Cronone entra, e Cronone Grodno città, dal nome suo non molto dissimile, bagna, e li Pruteni, già a l'ordine teutonico sottoposti, dalli Samogiti in quel luogo dove il mare Germanico scorre divide; dove è città di Mumel, perciochè li Germani Cronon Memel col vocabulo della patria Nemen chiamano. Ora alli Pruteni Alberto, marchese di Brandenburgo, dapoi che egli al re di Polonia si sottopose, deposta la croce e l'ordine signoreggia. Wilna città è cinta di mura, e ha dentro tempii e case di pietra fabricate. Ha la sedia episcopale, la quale allora Giovanni, figliuolo naturale del re Sigismondo, uomo di singulare umanità ornato, teneva, e noi nel nostro ritorno umanamente ricevette in casa sua. Oltra di questo vi è la chiesa parrochiale e alcuni altri monasterii, e specialmente un luogo delli frati osservanti di San Francesco, bellissimo e con grandissime spese fabricato. Nondimeno vi sono molto piú tempii sottoposti alla ubidienza delli Ruteni che alla romana. Nel principato della Litwania vi sono tre vescovati della romana ubidienza, cioè wilnensia, di Samogizia e chiowiense. Li vescovati ruteni nel regno di Polonia e nella Litwania, o vero nelli suoi territorii, sono l'arcivescovo che sta ora in Wilna, il polocense, il wolodimerense, il lucense, il pinski, il chomense, il premisliense, etc.
Li Litwani fanno buon guadagno di mele e di cera, perciochè di quelli sono abondanti, e gran copia di questa mercanzia sono portate a Gedano e dapoi in Olandia. Similmente la Litwania ha pece e tavole da fabricare navi, ed eziandio gran copia di formento; ma non ha sale e lo compra in Bretagna. Quando Cristierno fu cacciato del regno della Dania, e che 'l mare era di corsari ripieno, il sale non di Bretagna ma della Russia era portato, il che eziandio usano sino al tempo presente.
A' tempi nostri appresso li Litwani due uomini nell'arte della guerra chiari ed eccellenti sono stati: il capitano Constantino Ostrochi, il quale per molte vittorie acquistate contra a Walacho dal principe moscovito e da li Tartari felicissimo è riputato; e il capitano Michael Linski, il quale, essendo ancora giovane, in Germania venne con Alberto, duca della Sassonia, e in quel tempo per commissione d'esso duca Alberto nella Frisia andando, dicono che tanto valorosamente per ogni grado della milizia si portò che acquistò nome di gran capitano. Dapoi, delli costumi germanici ripieno essendo ritornato nella patria, appresso il re Alessandro fu di tanta auttorità che 'l re tutte l'imprese ardue e difficili secondo il suo giudicio e parere faceva. Ma intervenne che per causa del re venne in discordia con Giovanni Sawersinski, palatino trocense; ma dapoi, rassettate le cose, in vita del re tutte le cose quietamente passavano. Ma, morto il re, l'odio ancora restava nell'animo di Giovanni, perciochè per causa del capitano Michaele era stato privato del palatinato, e però Giovanni e gli altri amici suoi appresso Sigismondo re, il quale era successo ad Alessandro, accusarono il capitano Michele di ribellione. La qual ingiuria Michele non potendo sopportare, spesse volte ne ragionò col re, e pregollo che in giudicio fosse veduta e conosciuta la differenza fra lui e Giovanni Sawersinski; ma il re sopra ciò non gli diede troppo grata udienza. Onde egli mosso, andò in Ongheria, e da Wladislao, fratello del re; dal quale e lettere e oratori a pregare il re sopra la causa detta ottenne, nondimeno non poté cosa alcuna impetrare. Onde sdegnato, disse al re che un giorno farebbe tal fatto e operazione che e a lui e a se stesso sarebbe di dolore e pianto; e tutto d'ira e sdegno ripieno se ne ritornò a casa. E uno delli suoi fidatissimo con lettere e commissioni mandò alla volta del principe di Moscovia, scrivendogli: "Se tu mi prometti sicura e libera potestà di venire alla tua presenza, e sopra di ciò scriverai lettere, insieme con giuramento, ti prometto dover esserti d'onore e grandissima utilità, e con le fortezze che possedo nella Litwania voglio a te darmi". Onde il principe moscovitico mosso, come quello che la fortezza e la destrezza di tal uomo conosceva, n'ebbe grandissima allegrezza e consolazione, e tutte quelle cose le quali egli dimandava concesse, sopra ciò scrivendo come esso desiderava e aggiungendovi il giuramento.
Avendo il capitano ottenute tutte le cose appresso il principe di Moscovia secondo 'l desiderio suo, era tutto ardente di far le sue vendette contra Giovanni Sawersinski, il quale allora era nella sua villa appresso Grodno, nella quale io dapoi una notte alloggiai; e ritrovata l'occasione, con tutto l'impeto suo a tal impresa si pone, e, acciochè 'l nimico scampare non potesse, pose le guardie delli suoi soldati atorno le case del nimico, e poi mandò uno delli suoi soldati il quale il nimico suo nel letto ammazzasse. La qual cosa secondo 'l desiderio suo ottenuta, alla volta del castello detto Miensko con il suo esercito se n'andò, e si sforzò di pigliarlo, o vero per forza, o vero a patti. Ma in ciò indarno affaticandosi, altri castelli e altre cose cominciò assalire. Tra tanto, intendendo le genti del re venire incontro a lui, e conoscendo essere di gran lunga inferiore a quello, lasciata l'oppugnazione delli castelli in Moscovia se n'andò, dove dal principe onorevolmente fu ricevuto, perciochè sapeva la Litwania non avere un uomo simile a quello. Onde cominciò aver grandissima speranza di potere, con il consiglio, con l'opra e con l'industria di costui, farsi padrone di tutta la Litwania; della qual speranza totalmente non fu ingannato, perciochè, communicati con quello li disegni suoi, di nuovo Smolenczko, nobile principato della Litwania, assediò, e quello piú presto per industria di quest'uomo che per forze pigliò. Perciochè solo Michele alli soldati li quali erano alla guardia ogni speranza di poter difendere la città con la sua presenza levò, e quelli parte con paura e parte con promesse che dessero il castello lusingò. Il che piú arditamente e con maggior sforzo faceva perciochè Basilio gli prometteva di dovergli concedere perpetuamente il castello con tutta la provincia vicina, se egli glielo faceva perdere. Delle quali promesse il principe moscovitico dapoi fu poco ricordevole; e quando il capitano gli diceva che si ricordasse della promessa fede, egli con vana speranza lo nutriva e beffava.
Onde Michele sdegnato, e tenendo ancora dentro il petto suo la memoria del re Sigismondo, sperava facilmente poter conseguire la grazia di quello per opera degli amici, qual egli aveva nella corte sua. E cosí uno delli suoi, persona fidatissima, al re mandò pregandolo, se l'avesse offeso, che gli perdonasse e che gli prometteva di voler ritornare. Questa ambasciata fu grata al re, e subito comandò che fossero al noncio date le lettere che egli dimandava, della fede publica. Ma conciosiachè Michele delle lettere del re non si fidasse molto, acciochè piú sicuramente ritornare potesse, da Georgio Pisbeck e da Giovanni di Rechenberg, cavallieri germani, quali di tanta auttorità appresso il re e suoi consiglieri essere sapeva che potevano costringere il re, ancora che non avesse voluto, a osservare la promessa fede, simili lettere con grand'instanza dimandò e impetrò. Ma essendo il noncio di questa cosa nelle guardie di Moscovia capitato, fu preso; e saputa la cosa dal principe, comandò che Michele fosse preso.
In questo medesimo tempo un certo gentiluomo della famiglia delli Trepkoni, giovane polono, era stato mandato dal re Sigismondo in Moscovia per parlare col capitano Michele, e, acciochè le commissioni del re piú commodamente esequire potesse, fingeva d'essere fuggitivo; e anche costui fu preso, e dicendo essere fuggitivo e non se gli prestando fede, fu tanto secreto che eziandio per tortura grande non volse rivelare cosa alcuna.
Essendo Michele condotto al conspetto del principe in Smolentzko, il principe gli disse: "Uomo di poca fede, io son per darti pena degna e conveniente alli meriti tuoi"; al quale rispondendo, il capitano disse: "La poca fede che tu m'opponi io non conosco: perciochè, se m'avesti servata la fede e le promesse fatte, tu averesti avuto il piú fedele servitore di tutti gli altri della corte tua. Ma vedendoti fare poca stima della data fede, ed essere io beffato totalmente da te, molto mi doglio non aver potuto esequire quelle cose che avevo nell'animo contro di te. Io sempre ho disprezzato la morte, e nondimeno ora ella mi sarà cara, per non veder piú il volto di te, tiranno". Dapoi, per commissione del principe, in presenza del popolo fu condotto in Wiesma, dove il capitano generale della guerra, gettate là in mezzo alcune pesanti e gravi catene con le quali egli era da esser legato e incatenato, disse: "Michel, tu sai che al principe nostro, mentre fedelmente lo servivi, tu eri in somma grazia e benevolenza; ma poi che tu hai voluto ingannarlo, questo presente per li meriti tuoi ti dona". E comandò che con le catene fosse legato. Michele, mentre in presenza di tanta moltitudine era con le catene circondato, rivoltatosi al popolo disse: "Acciochè, o spettatori, una falsa fama della mia cattura non sia sparsa appresso di voi, con poche parole vi farò intendere quello ch'io abbia fatto e per qual cagione io sia fatto prigione, acciochè col mio esempio possiate intendere qual principe voi avete, e quel che di lui sperare debbiate".
Cosí cominciando a parlare, tutto l'ordine del suo viaggio nella Moscovia, e le lettere date e ricevute, il giuramento e le promesse fattegli dal re e la rotta fede riferiva, e che ultimamente, ritrovandosi ingannato e per questa causa volendo ritornare nella patria, essere stato preso; onde, conoscendo essere a torto ingiuriato, volentieri si sottometteva alla morte, specialmente sapendo che la morte naturalmente è comune a tutti.
Questo capitano era di corpo forte e d'ingegno atto a tutte le cose, e molto valeva di consiglio, ed era idoneo e sofficiente nelle cose d'importanza, giocose e gravi. Onde per tal destrezza d'animo molta auttorità e riputazione appresso molti, e specialmente appresso li Germani, dove s'era allevato, aveva acquistato. Nel tempo che 'l re Alessandro signoreggiava, cosí valorosamente profligò li Tartari che dalla morte di Witoldo in qua i Litwani mai piú ebbero sí bella vittoria. Questo capitano dalli Germani, con voce boema, pan Michele si chiamava; e da principio seguitò nella fede il costume greco, e dapoi il romano. Ed essendo in prigione, acciochè facesse cosa grata al principe, e per placare l'ira e indignazione sua, di nuovo al costume e religione greca ritornò. Per la liberazione di costui, essendo noi in Moscovia, molti uomini degni, e specialmente la consorte del principe, la quale gli era nezza da canto del fratello, appresso il principe s'affaticavano molto. Intercedeva ancora per costui Massimiliano imperatore, e sopra di ciò nella prima mia legazione mandò lettere particolarmente, per le quali lettere nondimeno non fu fatto frutto alcuno. Ma nell'altra mia legazione, trattandosi della liberazione di quello, spesse volte io ero interrogato se io conoscessi tal uomo, e io rispondevo d'aver udito solamente il nome di quello, pensando questa cosa dovergli giovare. Cosí fu liberato, e avendo il principe, vivendo ancora la prima consorte, presa per moglie una sua nipote, tanta speranza poneva in esso che credeva li suoi figliuoli per il valore di quest'uomo dover essere sicuri e liberi nel regno dalli fratelli, e lo lasciò per testamento tutore delli suoi figliuoli. Ma dapoi, essendo morto il principe moscovitico, e vedendo Michael che la vedova era alquanto lasciva, la riprese: onde sdegnata la donna l'accusò di tradimento nel regno, e cosí fu preso e infelicemente terminò sua vita. Non molto dapoi dicono che similmente la donna fu avvenenata e morí, e che l'adultero suo, detto Owtzi, fu lacerato e squartato in pezzi.
Wolinia, fra li principati della Litwania, ha gente piú bellicosa e piú armigera di tutte l'altre.
La Litwania è piena di selve: ha paludi grandi e molti fiumi, delli quali Bog, Prepetz, Thur e Beresina alla volta dell'oriente nel fiume Boristene entrano; e Boh, Cronon e Narew verso il settentrione vanno. Ha la Litwania aere cattivo, e animali piccioli d'ogni sorte; abbonda di formento, ma chiare volte le biade pervengono alla perfetta maturità. La gente è misera e di grave servitú oppressa, perciochè a ciascuno con molti servitori è lecito entrare in casa di ciascun abitante nelle ville, e può fare ciò che vuole, rapire e consumare le cose necessarie al vivere, e ancora il padrone di casa crudelmente battere. Agli uomini di villa non è lecito per picciola cosa andare alli suoi padroni senza qualche presente; e se per sorte sono ricevuti, si mandano a parlare con li fattori e altri officiali di casa, li quali similmente, se non hanno qualche presente, niente deliberano. E questa condizione non è solamente delli pover'uomini, ma eziamdio de' nobili, se per sorte vogliono impetrare qualche cosa dalli piú grandi. Io ho udito dire da un delli piú principali officiali che fusse là, ciascuna parola nella Litwania essere oro. I Litwani ogn'anno pagano gravezze per difendere li confini del regno, e alli padroni ancora oltra 'l censo per sei giorni la settimana faticano. Al parocchiano, quando menano moglie, o vero quando ella muore, e similmente quando nascono figliuoli o vero muoiono, e nel tempo di confessarsi, sono obligati a dare certa somma di danari. Sotto sí dura servitú sono stati ritenuti dal tempo di Witoldo fino a questo giorno che, se per sorte alcuno è condannato che gli sia tagliata la testa, da se medesimi bisogna che pigli il supplicio; il che se per sorte ricusasse di fare, crudelmente è battuto e inumanamente è scarnificato, e dapoi finalmente è fatto morire. Da questa severità è che, se 'l giudice minaccia al reo che prolonga la espedizione, dicendo solamente: "Affrettati, che 'l signor si adira", il misero, temendo le gravissime battiture, col laccio finisce la sua vita.


Delle fiere.

Le fiere nella Litwania, oltra quelle le quali eziandio si ritrovano nella Germania, sono queste, cioè i bisonti, gli uri, gli alci, li quali alcuni asini salvatichi chiamano, e cavalli salvatichi. Il bisonte col nome patrio è chiamato suber, e in tedesco aurox o vero urox. L'onagro animale i Poloni lo chiamano, e li Germani, ellend o ver loss. Questo animale è piú alto del cervo, con gli orecchi longhi, e per le nari e per le corna niente è disimile dal cervo; ma se alcuno, per la etimologia del nome, questo onagro vorrà che sia l'asino silvestre, in quanto alla forma non può essere, perciochè li onagri hanno l'onghie tagliate, benchè a' tempi nostri sono stati ritrovati onagri eziandio con l'onghie salde e non tagliate; le quali onghie alcuni sogliono portare adosso per remedio contra il morbo caduco. Hanno le corna larghe, sono velocissimi nel corso, ma non già come gli altri animali, ma alla similitudine d'un cavallo che senza molestia alcuna cammina, e con veloce passo similmente il corso loro finiscono. Gli uri, quali gli abitatori thur, li Germani bisonti chiamano, solamente in Mazovia si ritrovano: ed è simile al bove negro, ha le corna piú longhe che non ha il bisonte. Né ti muova punto la parola germanica la quale l'uro chiama il bisonte e il bisonte l'aurox, perciochè si legge nelli Commentarii di Cesare li Germani già li corni delli uri in luogo di tazze onorevoli aver usato, il qual uso eziandio sino al tempo d'oggi li Samogiti osservano. Le corna delli uri, le quali ancora al tempo nostro in alcuni tempii, d'oro e d'argento ornate come cose rare, si ritrovano, sono per longhezza e per colore delli corni dell'animale bisonte alquanto piú corti, e non atti a far tazze; e facilmente si scielgono dagli altri.
Nelli campi vicino al Boristene, Tanai e Rha si truova una pecora salvatica la quale li Poloni solhac, li Moscoviti seigacle chiamano, di grandezza d'una capretta, con piú corti piedi: ha li corni dritti in alto e macchiati d'alcuni cerchietti, delli quali li Moscoviti fanno manichi di coltello trasparenti; è di veloce corso, e di grande e alto salto.
La Samogizia è vicina alla Litwania, nel settentrione alla banda del mar Balteo; la Prussia dalla Liwonia per spazio di quattro miglia germanici divide, e non ha alcuna città o fortezza nobile e famosa. Al governo di questa provincia è posto dal principe della Litwania un governatore, il quale in lor lingua starosta, cioè vecchio, chiamano; e da quest'officio non è rimosso se non con gravissima cagione, ma dura mentre vive. Questa provincia ha il vescovo sottoposto al pontefice romano.
Quivi è degno d'ammirazione che, essendo gli uomini di statura grande, nondimeno ora figliuoli di grandezza di corpo grande, e ora figliuoli piccioli e quasi nani sogliono generare. Questi Samogiti usano un vestimento vile, di color cinericio, abitano in case umili e basse, ma longhe, e fanno il fuoco in mezzo. Al quale sedendo il padre di famiglia li suoi armenti e tutta la massaria di casa vede, perciochè sogliono sotto un medesimo coperto abitare e avervi gli altri animali senza altra separazione. Li grandi usano li corni delli uri in luogo di tazze; sono uomini audaci e pronti alla guerra, e usano le corazze e altre armi, e spezialmente il cuspide corto, alla similitudine de' cacciatori. Hanno cavalli cosí piccioli che a pena par cosa incredibile che possano resistere alla fatica, servendosene essi in guerra e in lavorare i terreni. Rompono la terra non col ferro, ma col legno, il che tanto piú è da maravigliarsi per essere la terra di quelli tenace e non arenosa, e dove il pino mai cresce. Quando sono per arare la terra tolgono piú legni, quali usano in luogo del vomere, acciochè, mancando uno, possano pigliare l'altro. Uno delli governatori della provincia, acciochè alli provinciali cosí gran fatica levasse, aveva fatti portare molti vomeri di ferro; ma conciosiachè quell'anno e gli altri seguenti le biade, per la intemperanzia del cielo, al desiderio degli agricoltori non rispondessero, tale sterilità alli vomeri di ferro attribuivano, onde il governatore, dubitandosi di qualche sedizione, tolto via il vomere di ferro gli concesse che come prima la terra coltivare dovessero.
Questa provincia abbonda di boschi e di selve, nelle quali alcuna volta orribili visioni sogliono essere. Sono eziamdio in quel luogo piú idolatri, li quali certi serpenti da quattro piedi corti, a similitudine di lucerte, col corpo negro e grasso, di longhezza di due palmi, come di domestici in casa nutriscono, e quelli giwoiti dicono, e con certo timore gli hanno in venerazione, e, se qualche cosa contrario gl'interviene, dicono che tali animali non sono stati bene pasciuti.
Nel primo mio viaggio, tornando di Moscovia, essendo in Troki pervenuto, quello che m'albergò mi referí sé, quel medesimo anno ch'io era là, da un certo uomo cultore del serpente aver comprato alcuni alvearii d'api; e avendolo egli persuaso che, lasciata quella vana superstizione, al vero culto di Cristo venisse, e che ammazzasse quel serpente il quale adorava, alquanto dapoi, essendo egli venuto a vedere le sue api, lo vidde con la faccia difforme e brutta, e con la bocca sino alle orecchie miseramente tirata. E dimandatogli perchè cosí fosse divenuto, rispose perchè aveva avuto ardimento d'uccidere il serpente suo dio, per questa causa essere punito di questa calamità e miseria, per purgazione del suo peccato: e molto piú gravi supplicii e pene dover patire quando alli riti e costumi della sua profana religione non ritornasse. Queste cose, benchè non sono state fatte nella Samogizia, ma nella Litwania, nondimeno per uno esempio ho voluto addurle.
Dicono che in nissun luogo si truova miglior mele, piú nobile e piú puro, e separato dalla cera, e che sia di piú bianchezza di quello che è nella Samogizia. Il mare il quale la Samogizia bagna (il quale alcuni Balteo, alcuni Germanico, altri Prutenico, alcuni Venetico; li Germani, alludendo al nome Balteo, Pelts chiamano) propriamente sino è chiamato, perciochè bagna il Cimbrico Chersoneso, il quale oggidí li Germani Iuchtland e li Latini, tolto il nome da quello, Iucia chiamano. Bagna ancora la Germania, la quale Bassam dicono, cominciando da Holsatia, che tocca la Cimbrica, dapoi la terra lubicense, la Vismaria e Rostok, cittadi delli granduchi magnopolensi; similmente tutto il tratto della Pomerania, il che il nome di quel luogo dimostra, perciochè pomeria in lingua slavonica è quel medesimo che se tu dicessi appresso il mare, overo cosa maritima. Bagna ancora la Prussia, della quale è città principale Gdano, il quale Gedano e Dantisco si chiama, ed è sedia del duca di Prussia; il qual luogo li Germani chiamano Monte Regio. In quel luogo, a certo tempo dell'anno, l'ambre, notando sopra 'l mare, con gran pericolo degli uomini per rispetto del crescere e discrescere del mare si pescano. La Samogizia a pena per spazio di quattro miglia tocca, e finalmente con longo tratto la Litwania, e quella parte la quale il volgo Kurland o ver Cureti chiama, e le regioni le quali sono sottoposte al prencipe di Moscovia, e finalmente la Winlandia, la quale è sotto il dominio delli Swetensii, dove eziandio molti pensano questo mare aver preso il nome Venedico, bagna intorno. Dall'altra parte tocca la Swezia. Tutto il regno della Dania, il quale è principalmente d'isole, in questo mare è contenuto, eccettuate però Iucia e Scandia, le quali alla terra ferma s'accostano.
Gotlandia isola, sottoposta al regno di Dania, è anch'essa in questo sino; della qual isola molti pensavano essere venuti li Goti, il che non penso, per essere piú stretta di quello che avesse potuto capire tanta gente. Oltra di questo, se li Goti fossero venuti fuori della Scandia, sarebbe stato mestiero che fossero ritornati di Gotlandia in Swezia, e di nuovo con torto viaggio per Scandia: il che non è verisimile. In Gotia isola ancora si vedono le ruine della città Wijsby, nella quale tutte le liti e controversie delli naviganti che per quel luogo passavano erano conosciute e terminate, e similmente le cause e le differenzie delli luoghi maritimi lontani ivi erano definite.
La Liwonia provincia in longhezza per la costa del mare si distende, e la città principale di questa è Riga, nella quale il maestro dell'ordine teutonico è principale. In questa provincia, oltra l'arcivescovo rigense, vi sono ancora li vescovi rivaliense e ossiliense. Ha molte città, e spezialmente Riga, appresso il fiume Dwina, non lontano dalle bocche, e Rewalia, e Derbten. Rewalia li Ruteni Roliwam, e Derbt Juryowgorod chiamano, e Riga il nome suo in l'una e l'altra lingua ritiene. Ha fiumi navigabili, Rubone e Nerwa. Il principe di questa provincia, li fratelli dell'ordine, delli quali li primi commendatori sono chiamati, similmente li nobili e li cittadini sono quasi tutti germani. La plebe, sí come tre lingue suole usare, cosí in tre ordini over tribú è divisa. Delli principati iuliacensi, geldrensi e monasteriensi di Germania ogni anno e nuovi servitori e nuovi soldati sono condotti nella Liwonia: delli quali una parte in vece di quelli che sono morti, altri nel luogo di quelli succedono li quali, finito l'officio annuale, come fatti liberi tornano nella patria. Abondano di bella razza di cavalli, e sono sí fermi e sí gagliardi che sin ora le nimiche e frequenti scorrerie nelli campi loro, sí del re di Polonia come del granduca di Moscovia, fortemente hanno sostenuto e gagliardamente da quelle si sono difesi.
Nell'anno del Signore 1502, nel mese di settembre, Alessandro, re di Polonia e granduca della Litwania, con certi patti e promissioni il maestro liwoniense Walthero a Pleterberg indusse che col suo esercito bene ordinato le provincie del duca di Moscovia assalisse, promettendogli che, subito ch'avesse le terre nimiche toccate, esso con grandissimo esercito venirebbe in favore di quello. Ma non venendo il re di Polonia al tempo ordinato, come aveva promesso, e li Moscoviti, conosciuta la venuta delli nimici ai danni loro, con grandissima moltitudine di gente vennero incontro al detto maestro liwoniense, il quale, vedendosi essere abbandonato dal re di Polonia né poter ritirarsi se non con vergogna e pericolo grande, primamente con parole confortò li suoi soldati a voler combattere, dapoi, scaricate tutte le sue artiglierie, gagliardamente diede dentro alli nimici, e nel primo assalto li Ruteni levò d'ordinanza, e poi li mise in fuga. Ma essendo al numero grande de' nemici pochi li vittoriosi, e per la gravezza dell'armi impediti non potendo troppo lontano perseguitare il nimico, li Moscoviti, conosciuto ciò e ricuperati gli animi e le forze, di nuovo ritornarono in ordinanza e la fanteria di Pletenbergio, la quale non era piú che un certo squadrone di mille e cinquecento fanti, gagliardamente assaltorono e tagliorono a pezzi.
In quel conflitto il capitano Matteo Pernauer insieme col fratello Enrico e con il banderario Conrado Schwartz perirono. Di questo banderario un fatto egregio e degno di memoria raccontano: che per la copia delle freccie de' nimici soffocato non potendo durar piú, prima che morisse con alta voce chiamava alcuno il quale la bandiera della man sua pigliasse: alla cui voce un certo Luca Hamersteter, il quale si gloriava essere della famiglia delli duchi bransvicensi, benchè d'illegitimo matrimonio, subito corse e sforzavasi di pigliare la bandiera dalle mani sue. Conrado, o vero che la fede sua avesse in sospetto, o vero che giudicasse quello non essere degno di tant'onore, ricusava di dargli la bandiera: per la quale ingiuria essendo Luca impaziente, cavata fuora la spada, la mano di Conrado con la bandiera tagliò. Conrado nondimeno con l'altra mano teneva la bandiera e, con li denti pigliandola, la stracciava, onde Luca, tolti su li pezzi della bandiera e tradita la fanteria, nel campo delli Ruteni se n'andò: onde per tal ribellione da quattrocento fanti dalli nimici furono tagliati a pezzi, e il restante con la cavalleria, servati gli ordini de l'ordinanza, alla volta delli suoi salvi ritornorono. Dapoi, essendo egli preso dalli Moscoviti e mandato in Moscovia, nella corte del principe per alcun tempo in luogo onesto e convenevole restò; ma non potendo egli sofferire l'ingiuria, di Moscovia secretamente fuggí, e a ritrovare Cristierno, re di Dania, andò, dal quale fu fatto capo sopra l'artiglierie. Ma essendo alcuni pedoni, li quali erano fuggiti dal fatto d'armi, nella Dania pervenuti, il tradimento di Luca al re palesorono, e non volendo essi stare nella milizia con quello il re Cristierno in Stockholm lo mandò, e dapoi, mutatosi il stato del regno, Iosterico, altramente detto Gustavo, re della Swezia, ripigliò Stockholm, e ivi Luca ritrovando nel numero delli suoi familiari lo pose, e di Wiburg governatore lo fece. Nondimeno, vedendosi dapoi essere di non so che cosa incolpato, dubitandosi di non venire a peggio di nuovo ritornò in Moscovia, dove io lo viddi onorevolmente vestito e fra gli altri stipendiarii del re numerato. La Swezia, contermina all'imperio di Moscovia, non altrimenti con la Nortwegia e con la Scandia è congiunta di quello ch'è l'Italia col regno di Napoli e con il Piemonte: e oltra di ciò dal mar Balteo all'Oceano e da quello che è detto il mar Glaciale quasi d'intorno intorno è bagnata.
La Swezia, della quale Holmia è città regale, la quale dagli abitanti Stockholm e dalli Ruteni Stecolna è detta, è regno amplissimo e molte e varie nazioni abbraccia e contiene in sé, fra le quali vi sono li Goti, per valore di guerra celebri e famosi. Li quali in due sono divisi, in Ostrogoti, cioè orientali, e in Vestrogoti, cioè occidentali, li quali, già usciti fuori del sito delle loro regioni e paesi, furono di terrore e spavento a tutto 'l mondo, come li scrittori raccontano.
La Nortwegia, la quale alcuni Nortwagia chiamano, con longo tratto alla Swezia s'accosta e dal mare è bagnata. E sí come questa da sud, cioè dal mezzogiorno, cosí quella da nort, cioè da settentrione, dove è posta, ha preso il nome, perciochè li Germani alle 4 zone o vero climi del mondo hanno dato li nomi volgari, e le provincie vicine a questi da quelli hanno chiamate: perciochè ost significa l'oriente, onde è detta Austria, la quale li Germani, propriamente esprimendo, Osterreich chiamano; west l'occidente, dal quale Westvalia; e cosí similmente da sud e nort, come è detto, la Swezia e la Nortvegia.
La Scandia non è isola, ma terra ferma, e parte del regno di Swezia, la quale con longo tratto tocca li Goti, e di essa al presente buona parte il re di Dania possiede. Ma avendo li scrittori di queste cose fatta maggiore la Scandia della Swezia, e dicendo li Goti e i Longobardi d'essa essere usciti, secondo la mia opinione pare che questi tre regni come un certo corpo intero e fermo solamente col nome della Scandia abbiano compreso: perciochè allora quella parte di terra che è fra 'l mar Balteo, il quale bagna la Finlandia, e il mare Glaciale non è stata conosciuta, né meno ora, per rispetto di tante paludi e per li fiumi innumerabili e per la intemperanza del cielo, il che ha fatto che molti questa isola d'estrema grandezza con nome di Scandia chiamino.
De la Corela è detto di sopra essere tributaria al re di Swezia e al principe di Moscovia, per esser sottoposta alla signoria dell'uno e dell'altro principe, e perciò l'uno e l'altro si gloria d'averla. Li termini di questa provincia fino al mar Glaciale si distendono: ma perchè del mar Glaciale varie e molte cose da molti sono state scritte, m'è parso non dover essere fuori di proposito il narrare brevemente la navigazione di quel mare.


Della navigazione per il mare Glaciale.

Quando io era oratore del serenissimo mio principe appresso il granduca di Moscovia, v'era Gregorio Istoma, interprete del principe, uomo industrioso, il quale appresso Giovanni, re della Dania, la lingua latina aveva imparata. Costui, nell'anno del Signore 1496, essendo stato mandato dal suo principe al re di Dania insieme col maestro David scozzese, allora oratore del re di Dania, il quale io nella prima mia legazione avevo conosciuto, tutto il suo viaggio brevemente mi raccontò; il quale parendomi per la difficultà de' luoghi arduo e laborioso, con poche parole, sí come da quello intesi, ho voluto scriverlo.
Primamente mi diceva, insieme con David oratore dal principe licenziati, nella gran Nowogardia esser pervenuti; ma conciosiacosachè in quel tempo il regno della Swezia dal re di Dania si ribellò, e che 'l granduca di Moscovia alli Swetensi fosse poco amico, non poteron fare il commune e usitato viaggio, per rispetto delli tumulti bellici, e furono sforzati di fare un altro viaggio, piú longo ma piú sicuro. E primamente dalla gran Nowogardia alle bocche del fiume Dwina e di Potiwolo con viaggio difficile pervennero, viaggio di trecento miglia, ma tanto cattivo che peggio non si può imaginare. Essendo montati in quattro navilii, nell'entrare del fiume Dwina, navigando, il lito destro dell'Oceano tennero, e ivi monti altissimi e aspri viddero; e finalmente, fatti sedici miglia e passato un certo braccio di mare, il lito sinistro navigarono: e lasciato l'ampio mare dalla man destra, il quale da Petzora fiume, come gli altri monti vicini, ha il nome, alla volta di certi popoli chiamati Finlappii pervennero, li quali, benchè in case umili e basse appresso il mare abitino e quasi una vita fierina e bestiale menino, nondimeno sono piú mansueti delli Lappi, e sono tributarii al principe di Moscovia.
Poscia, lasciata la terra delli Lappi e fatta una navigazione d'ottanta miglia, arrivorono alla regione Nortpoden, sottoposta al re di Swezia. Questa provincia li Ruteni Kaienskasemla, e li popoli Kaieni chiamano. Da qui poi, navigato e passato il lito tortuoso, il quale alla parte destra si destendeva, ad un certo promontorio il quale Santonaso chiamano, pervennero. Questo Santonaso è un gran sasso, il quale alla similitudine d'un naso nel mare soprastà, sotto il quale una spelonca o ver grotta cavernosa si vede, la quale di sei ore in sei ore sorbisce il mare, e dapoi con gran suono e strepito rende e getta fuori tutta quella voragine o vero acqua che aveva inghiottita. Altri hanno detto qua essere l'ombilico del mare, altri Cariddi. Dicono essere tanta la forza e la potenzia di questa voragine che le navi e l'altre cose propinque tira a sé, sorbe e inghiotte; e diceva questo oratore mai piú esser stato in tanto pericolo, perciochè la forza di questa voragine con tanta prestezza e violenza la nave loro traeva a sé che a pena con grandissima fatica per forza di remi poteron salvarsi.
Passato Santonaso, ad un certo monte sassoso, al quale bisognava andare attorno attorno, pervennero; dove per li venti contrarii essendo per alcuni giorni restati, il padron della nave disse: "Questo sasso che voi vedete si chiama Semes, e, se con qualche dono da noi non sarà placato, non facilmente lo trapassaremo". Il qual padron di nave Gregond Isthoma per la vana superstizione riprese molto, ed esso tacque, e cosí per quattro giorni in quel luogo per la fortuna grande del mare restorono; e dapoi, essendo cessati li venti, si diedero alla navigazione. E navigando con prospero e felice vento, il nocchiero disse loro: "Voi della mia ammonizione di placare il Semes come di vana superstizione vi ridevate, ma, se io di notte non fossi secretamente montato nel scoglio e non lo avessi placato, per nissun modo il passare a noi sarebbe stato concesso". Dimandato che cosa gli avesse offerto, rispose farina di segala, o vero di avena, mista con il butiro.
Dapoi, navigando, un altro gran promontorio, Motka chiamato, alla similitudine quasi d'un'isola trovorono, in fine del quale v'era Bartho castello, che vuol dire casa di soccorso, o ver presidio, perciochè ivi li re della Nordwegia per difendere i lor confini vi tengono guardie. E tanta era la longhezza di questo promontorio in mare che apena per spazio d'otto giorni poteva circondarsi: onde, acciochè per questo non fossero impediti, per terra per spazio di mezzo miglio con grandissima fatica e la barca e le robbe loro portorono su le spalle. Dapoi navigorono verso la regione delli Dikiloppi, quali sono i fieri Loppi, verso un certo luogo chiamato Dront, il quale per dugento miglia è lontano da Dwina verso settentrione, fin dove dicono che 'l prencipe di Moscovia suole riscuotere tributo. Quivi lasciata la barca, il resto del viaggio fecero per terra. Mi riferiva il sopradetto Gregorio ivi aver veduto le mandrie o ver greggi di cervi, come sono appresso di noi li bovi, li quali in lingua di Nordovegia rhen sono chiamati: e sono alquanto maggiori delli nostri cervi, delli quali i Loppi in luogo di giumenti si servono, e acciochè alcuno per il corso delli cervi non caschi, lo leggano per li piedi in un carro, fatto in forma d'una barca pescareccia. Tiene la briglia, con la quale il corso delli cervi è moderato, nella sinistra, e la bacchetta nella destra, acciochè, se per caso il carro che tirano li cervi in qualche parte piú del giusto si volta, gli possino dare aiuto; e diceva con questa sorte di carro in un giorno aver fatto vinti miglia, e dapoi aver lasciato andare il cervo, il quale da sua posta tornò a casa del padrone e nelle proprie stalle. Dapoi a Berges, città di Nordwegia, per la dritta via nel settentrione posta fra li monti, arrivorono; e di lí poi cavalcando nella Dania pervennero. A Dront e Berges dice il giorno nel solstizio estivale essere di vintidue ore.
Biasio, l'altro interprete del principe, il quale pochi anni avanti dal principe suo era stato mandato a Cesare nella Spagna, diverso viaggio e piú compendioso ci riferí. Perciochè diceva che, essendo stato mandato di Moscovia a Giovanni, re di Dania, sino a Rostow venne a piedi, e dapoi montato in nave a Pereaslaw, per il fiume Wolga venne in Castromow, e di là per spazio di sette miglia italiani per terra ad un certo fiumicello pervenne; per il quale primamente tra Wolochda, dapoi a Suchana e Dwina e fino a Berges, città della Nordwegia, avendo navigato, e tutti li pericoli e fatiche le quali Istoma racconta avendo superati, finalmente per la diritta via in Hafnia, città principale della Dania, la quale da' Germani Koppenbagen è detta, pervenne. Nondimeno nel ritorno e l'un e l'altro essere ritornati nella Moscovia per via della Lituania e tal viaggio aver finito per spazio d'un anno riferiva. Benchè Gregorio Istoma diceva sé esser stato impedito e ritardato in molti luoghi la metà del detto tempo per le fortune del mare, nondimeno l'un e l'altro constantemente affermava aver fatto un viaggio di mille e settecento werst, cioè 340 miglia italiani.
Demetrio similmente, il quale ultimamente fu oratore appresso il sommo pontefice in Roma, per la cui relazione Paolo Giovio discrisse la sua Moscovia, per questo medesimo viaggio, cioè per la Nordwegia e per la Dania, era venuto, e tutte le cose essere cosí come dicevano gli altri confirmò. Ma tutti costoro, essendo interrogati da me del mare Glaciale, o vero congelato, niente altro risposero se non che avevano veduti nelli luoghi maritimi molti e grosissimi fiumi, per il grande e copioso corso de' quali i mari per lungo spazio dalli proprii liti erano discacciati, e quelli fiumi per certo spazio di longhezza dalli quali liti insieme con il mare congelarsi, come nella Lituania e in altre parti della Swezia. E benchè per l'impeto delli venti contrarii il giaccio nel mare si spezzi, nondimeno nelli fiumi rare volte o non mai, eccetto se qualche grande inondazione sopragiunge, non si spezza; e i pezzi del giaccio per forza dalli fiumi portati in mare quasi per tutto l'anno vanno notando sopra l'acqua, e di nuovo poi per il freddo cosí fattamente si serrano e chiudono insieme che alcuna volta si vede il giaccio e piú anni insieme unito e duro, il che dalli pezzi di quelli li quali dalli venti sono ributtati alla volta del lito facilmente si conosce. Io ho udito dire da uomini degni di fede in molti luoghi e spesse volte il mar Balteo essersi congelato.
Dicono ancora che in quella regione la quale dalli feri Loppi è abitata il sole, nel solstizio estivale, per quaranta giorni non va a monte, ma che per tre ore della notte il corpo del sole da certa nebbia sí fattamente è veduto esser coperto che li raggi di quello non appaiono niente, e nondimeno tanto di lume dà che nissuno per le tenebre è impedito di far le sue facende. Li Moscoviti si vantano d'aver il tributo dalli feri Loppi, il che, benchè verisimile non sia, nondimeno non è cosa degna d'ammirazione, conciosiachè non abbiano altri popoli vicini alli quali paghino tributo. E in luogo di tributo, non avendo altro che dare, danno pelli e pesci; pagato il tributo annuale, si gloriavano di non esser obligati ad alcuno e d'esser liberi. Li Loppi, benchè non abbiano pane, sale e altri incitamenti della gola, ma solamente di pesci e d'animali vivono, nondimeno sono molto inclinati alla libidine. Tutti costoro sono sagittari peritissimi e di tanta eccellenza che, se nella loro caccia aranno trovata qualche fera nobilissima e bella, acciochè la pelle di quella resti intera e senza macchia l'amazzano con la freccia tirandogli nella faccia, appresso le nari del naso.
Quando vanno a caccia lasciano in casa loro insieme con le donne loro i mercanti e altri uomini forestieri; dapoi ritornati, se ritrovano la moglie per la conversazione delli forestieri lieta e piú che l'usato allegra e gioconda, donano loro qualche presente: e quando no, vergognosamente gli cacciano via. Ora, per la conversazione degli uomini forestieri li quali per guadagno in tali luoghi vanno, già cominciano a deporre quella innata ferità e salvatichezza e farsi piú mansueti e civili. Ricevono volentieri li mercanti, e da quelli sono portate nelli loro paesi vesti di panno grosso, manare, aghi, cucchiari, coltelli, tazze, farina, pignatte e altre sorti di merci, di modo ch'ora usano cibi cotti, e di costumi piú umani si vestono. Usano le pelli di diversi animali che pigliano, e con questo abito alcuna volta ne vengono in Moscovia. Pochissimi usano calze e capelli, fatte di pelle cervina; non hanno uso alcuno di monete d'argento e d'oro, ma sono contenti della sola permutazione delle cose, e perchè non intendono il parlare e la favella degli altri appresso l'altre genti come muti restano. Cuoprono le loro abitazioni con le scorze degli arbori; in nissun luogo hanno ferma e stabile stanza, ma, in un luogo consumando le fere e li pesci, in un altro vanno ad abitare.
Raccontano ancora li predetti oratori del principe di Moscovia aver veduto in quelle parti monti altissimi, li quali alla similitudine del monte Etna mandavano fuori sempre le fiamme; e in Nordwegia molti monti con perpetuo abbruciamento essere ruinati e ridutti in polvere, onde alcuni hanno favolosamente detto ivi essere il foco del purgatorio. Delli quali monti, mentre io ero oratore appresso Cristierno, re della Dania, quasi quelle medesime cose dalli prefetti e governatori della Nordwegia, li quali allora ivi erano, intesi.
Circa le bocche del fiume Petzore, le quali sono da man sinistra, alla bocca del fiume Dwina, sono detti esser varii e grandi animali nell'Oceano, e fra gli altri un certo animale della grandezza d'un bue, il quale gli abitanti del luogo mors chiamano. Ha li piedi corti, alla simiglianza delli castori, e ha il petto alla misura del resto del suo corpo alquanto piú alto e piú largo, con due denti di sopra longhi in fuora; e per causa della prole e del riposare con gli animali della sua specie, lasciato l'Oceano, va alli monti, dove, avanti che si metta a dormire, in che è di sonno profondo, alla similitudine delle grui uno del numero delli suoi vigilante guardiano constituisce. Il qual guardiano se dorme ancor esso, o vero per sorte dal cacciatore vien preso, allora tutto 'l resto degli altri animali facilmente può essere pigliato; ma se col mugito suo, come è solito di fare, dà il segno, il resto del gregge, destatosi, mordendo li piedi di dietro con li denti, con gran celerità come in un carro del monte scendendo nell'Oceano si gitta, dove alcuna volta sopra li pezzi del ghiaccio che vanno per mare si sogliono riposare. Questi animali li cacciatori solamente gli sogliono perseguitare per li denti, perciochè di quelli li Moscoviti, li Tartari e li Turchi fanno bellissimi manichi di spade e di pugnali, e questi usano piú presto per ornamento che perchè facciano ferite e percosse piú gravi e terribili, come raccontano falsamente alcuni. E questi denti sono venduti a peso, e da tutti denti di pesci sono chiamati.
Il mare Glaciale di là da Dwina alla volta di Petschora e fino alle bocche del fiume Obio per longhezza e per larghezza si distende, e di là dicono essere una regione la quale si chiama Engronelandt: la quale, parte per gli alti monti li quali per le continove nevi sono rigidi e alpestri, e parte per il perpetuo giaccio sopra del mare natante, il quale impedisce la navigazione e la fa pericolosa, è separata dalla conversazione e commerzio delli nostri uomini, e però non è conosciuta.


Del modo di ricevere e di trattare gli oratori.

Andando l'oratore nella Moscovia e alli confini di quella approssimandosi, un messo alla città vicina manda, il quale faccia intendere al governatore, o ver locotenente di quella città, ch'egli è oratore del tal signore che vol entrare nelli confini del principe. Dapoi il governatore non solamente da quel principe è mandato, ma eziandio di che condizione e dignità sia esso oratore e quanti vengano con esso lui diligentemente ricerca. Le quali cose conosciute e considerate, similmente la dignità tanto del principe dal quale è mandato quanto dell'oratore, manda alcuno delli suoi con compagnia a riceverlo e condurlo dentro; e tra questo mezzo fa intendere al granduca da chi venga ambasciatore. Similmente quello che è mandato a ricever l'oratore nel viaggio fa intendere per mezzo d'alcuno delli suoi all'oratore che un grand'uomo debbe venire a lui, il quale sia per riceverlo nel tal luogo, nominando il luogo. Il titolo di grand'uomo per questa causa usano, perchè questo nome magno si dà e attribuisce a tutte le persone eccellenti, e nissun uomo strenuo, o vero nobile, o vero barone, illustre, o vero magnifico o con altro titolo ornano. Quello che è mandato dal governatore, essendo il tempo dell'inverno, comanda che si faccino nette le strade dalla neve, acciochè l'oratore possa passare, ed esso non si parte dalla via trita e publica. Oltra di questo, nel congresso, o ver cammino, sogliono avere questo costume, che mandano un messo o vero nuncio all'oratore, il quale l'ammonisca che smonti da cavallo, o vero dalla carretta; e se l'oratore trovasse scusa, dicendo esser stracco o vero ammalato, gli rispondono che non è lecito né proferire né udire le parole del signore se non stando in piedi. Quello che è mandato si debbe guardare di non smontar prima da cavallo, o vero dalla carretta, acciochè in questa parte non scemi la grandezza del suo signore; ma, subito che vede l'oratore smontare, ancor egli smonti.
Nella prima mia legazione io dicevo a quello che mi venne incontro fuori della Moscovia d'esser stracco per rispetto del viaggio, e che però cavalcando espedissimo quelle cose ch'erano da espedirsi; ma egli all'incontro rispondendo diceva non poter far ciò. Gl'interpreti e gli altri già erano smontati da cavallo, e mi dicevano ch'io dovessi fare il simile, alli quali io rispondevo: "Subito che 'l Moscovito scenda da cavallo, io scenderò del mio", perciochè, vedendo quelli fare tanta stima di questa cosa, similmente io non volsi mancare al mio signore, né l'auttorità di quello punto scemare. Ma perchè il Moscovito non voleva essere il primo, e per la sua superbia alquanto piú del dovere menando in longo, volendo io por fine, mossi il piede fuora della staffa, come volessi smontare: la qual cosa vedendo egli smontò da cavallo, e io, lento e pian piano, scesi giú del cavallo, onde egli si pentí dapoi, vedendo esser stato ingannato da me.
Dopo queste cose, venendo alla volta dell'oratore, col capo coperto dice: "Il luogotenente e capitano della tal provincia del gran signore Basilio, per grazia di Dio re e signore di tutta la Russia e granduca della Moscovia etc. (recitando li piú notabili principati), m'ha comandato ch'io vi dica che, dapoi che ha inteso l'oratore di tanto signore venire al grande nostro signore, ci ha mandati incontro acciochè ti conduchiamo a quello (ripetendo di nuovo il titolo del principe e del luogotenente). Oltra di questo, ci ha commesso che dimandiamo se hai avuto buon viaggio" (perciochè quest'è il modo nel ricever l'oratore: "Hai avuto buon viaggio?") Dapoi quello che è mandato porge la destra a l'oratore, né gli dà altro onore se non vede l'oratore star col capo scoperto; ultimamente gli dà segno con la mano, accennandolo che monti a cavallo e che vada. Cosí montati a cavallo, o vero nelle carrette, il Moscovito si ferma con li suoi e non va avanti l'oratore, ma lontano lo seguita, e ha cura che nissuno torni indietro e lo seguiti. Andando avanti l'oratore, dimandano il nome dell'oratore e di ciascun servitore, il nome del padre e di qual provincia ciascuno abbia tratta l'origine, che linguaggio sia di ciascuno, di che condizione sia, o ver servitore di qualche principe, o ver parente dell'oratore, e se prima sia stato piú nella provincia loro, le quali tutte cose a una per una subito riferiscono al granduca con lettere. Essendo l'oratore andato piú avanti, un uomo gli viene incontro, dicendo aver commissione dal luogotenente di provedergli di tutte le cose necessarie al vivere.
Essendo adunque noi usciti fuora di Dobrowna, piccolo castello della Litwania appresso il fiume Boristene posto, e quel giorno avendo fatto otto miglia, alli confini della Moscovia pervenissimo, e ivi la notte a l'aere dormimmo; ma prima fu gittato un ponte sopra un picciol fiume, cresciuto per l'acque, acciochè dopo mezzanotte, passato il fiume, a Smolentzko potessimo pervenire, la qual città dodici miglia germanici è distante dalla Moscovia. La mattina, essendo andati avanti per spazio d'un miglio, onorevolmente fossimo ricevuti, e di lí poi a pena mezzo miglio camminato, in un luogo preparato all'aere pazientemente stessimo la notte. Il dí seguente circa due miglia andassimo avanti e in un certo luogo alloggiassimo, nel quale da quello che ci conduceva amorevolmente fossimo ricevuti. Il giorno seguente (qual era il giorno delle Palme), benchè avessimo comandamento alli nostri servitori che in nissun luogo si fermassero, ma che per la dritta via con le valigie e robbe nostre a Smolontzko ne venissero, nondimeno apena avevamo fatti due miglia germanici che quelli in un certo luogo datogli per alloggiamento della notte ritrovassimo, e vedendo che noi andavamo avanti ci pregavano che ivi almeno volessimo desinare: il che fu onesto di fare, perciochè in quel giorno il nostro condottore aveva invitato a desinare gli ambasciatori del suo principe, cioè il nobile Giovanni posetzen Iaroslawski e Simone Trophimow secretario, li quali erano stati in Spagna per ambasciatori a Cesare imperatore e con noi ritornavano nella patria. Io, che sapevo la cagione perchè tanto tempo in quelle solitudini ci retenevano (perciochè avevano mandato da Smolentzko al granduca di Moscovia, nonziandoli la venuta nostra, e aspettavano risposta se fosse lecito di condurci nel castello o no), volsi fare esperienza dell'animo loro, e cosí mi misi in via verso Smolentzko. Il che vedendo, gli altri procuratori del viaggio subito corsero al conduttore nostro dicendogli che partivamo, e, ritornando, ci pregarono, meschiando eziandio le minaccie con le preghiere, che noi dovessimo restare. Ma scorrendo essi tra questo mezzo or qua or là, essendo noi al terzo alloggiamento pervenuti, il mio procuratore disse: "Sigismondo, che fai? Perchè secondo il tuo volere nelli dominii d'altri, contra l'ordinazione del signore, ne vai cosí inanti?" Al quale risposi: "Io non son uso nelle selve all'uso di fiere, ma sotto li tetti e fra gli uomini vivere. Gli oratori del vostro principe sono passati per il regno del mio signore secondo che hanno voluto, e sono stati menati per la città, per le castella e per le ville, e cosí il medesimo sia lecito a me di fare. E poi che non v'è commissione del vostro principe, né vedo la cagione e necessità di questa ritardanza". Dapoi dissero che volevano andare un poco avanti, escusandosi che la notte era vicina e che non è lecito di notte entrare nel castello: ma noi, non curando le ragioni dette da loro, per la dritta via a Smolentzko gimo, dove in tanto strette stanze lontane dal castello fossimo ricevuti che non si potevano condurvi dentro li cavalli se prima non si spezzavano le porte.
Il seguente giorno, di nuovo per il fiume Boristene andando, alloggiassimo quasi all'incontro di Smolentzko. Finalmente il luogotenente del luogo per mezzo delli suoi ne ricevé, e con invitarci a bere cinque volte ci onorò, con buona malvasia, con vin greco e altre bevande, dette medone, con il pane e con certe vivande al modo loro. Cosí in Smolenczko per dieci giorni restammo, aspettando la risposta del granduca. Erano venuti due gentiluomini del granduca per aver cura di noi e per condurci in Moscovia; e, entrati nel nostro alloggiamento, ornato di bellissime vesti, non si cavorono la beretta, pensando che noi prima di loro dovessimo fare questo: del che noi nondimeno facemmo poca stima, ma, riferendosi le commissioni del principe, fosse dall'uno e l'altro, e nominandosi il principe, gli facessimo onore. Ma sí come in varii luoghi ritenuti piú tardamente a Smolentzko eramo venuti, cosí ivi piú di quello che portava il dovere fossimo ritenuti. E tra tanto, acciò per la longa ritardanza non fossimo offesi, e acciochè non fossero veduti mancare in cosa alcuna al desiderio nostro, ci dicevano: "Domattina ci partiremo", cosí noi la mattina fossimo all'ordine con li cavalli, e per tutto il giorno stessimo in aspettazione. Finalmente sul tardi con pompa vennero, e dissero in quel giorno non essersi potuti espedire, ma che la mattina seguente erano per mettersi in viaggio: il che eziamdio fu differito, e a pena dopo tre giorni sul mezzogiorno ci partimmo, e tutto quel giorno digiunammo. Il giorno seguente ordinorono un viaggio piú longo di quello che li nostri carri potessero arrivare. Fra questo mezzo tutti li fiumi, essendosi disfatte le nevi del verno, erano oltra modo cresciuti: li rivoli similmente senza ripe gran copia d'acqua menavano, di modo che sicuramente senza gran fatica non si poteva passare, perciochè li ponti due o ver tre ore inanti fatti per la moltitudine delle acque notavano, di modo che poco mancò che 'l conte Leonardo da Nogarola, oratore di Cesare, il giorno dopo la partita nostra da Smolentzko non s'annegasse. Perciochè, mentre io ero sopra 'l ponte e procuravo che gl'impedimenti fossero trasportati di là, il cavallo del conte gli cascò sotto, e quello in una ripa lasciò, e li due procuratori del viaggio vicini ad esso non mossero pur il piede per soccorrerlo; e se alcuni che erano lontani non gli avessero dato aiuto egli era spedito. Venimmo in quel giorno ad un certo ponte, il quale il conte insieme con li suoi con grandissimo pericolo aveva passato: ma io, che sapevo li nostri carri non potere seguitarli, restai di qua dal ponte, e in casa d'un contadino entrai: e vedendo che 'l procurator nostro negligentemente procurava da mangiare, dicendo aver mandato avanti la vettovaglia, io comprai il cibo da una donna per giusto prezzo. Il che agl'orecchi del procuratore nostro pervenuto, li proibí che non mi dovesse vendere piú cosa alcuna, onde io chiamai il messo di quello e gli commisi che dicesse al procuratore che o vero procurasse al viver nostro a tempo o vero ci desse licenza di poterlo comprare: che quando non lo facesse io ero per romperli il capo. "Io ho conosciuto - gli dissi - il vostro costume: molte cose voi ricercate per commissione del principe in nostro nome, e nondimeno quelle non ci date; oltra di questo voi non lasciate che alle nostre spese viviamo", e cosí minacciai di voler dir questo al principe. Con queste parole talmente l'auttorità di quello scemai che per l'avvenire mi aveva in gran riverenza.
Dapoi finalmente al corso di Voppo e del Boristene fiumi venimmo, e ivi caricammo le nostre robbe, le quali fino a Mosaisko a contrario d'acqua furono portate; ma noi, passato il Boristene, in un certo monastero alloggiammo la notte. Il seguente giorno li nostri cavalli per spazio di mezzo miglio tedesco erano constretti non senza pericolo passare notando tre fiumi e altri rivi di grossa acqua ripieni, e noi, per il Boristene con barche pescareccie da un certo monaco portati, quelli circondammo: e finalmente alli 26 d'aprile arrivammo in Moscovia. Da la quale essendo lontani circa mezo miglio germanico, ci venne incontro, tutto allegro e di sudore ripieno, quel vecchio secretario il quale in Spagna era legato, annonciandoci il suo signore mandarci incontro uomini grandi e nominandogli; oltra di questo disse ch'era bisogno che noi smontassimo da cavallo e stando in piedi le parole del principe udissimo. Dapoi, portagli la mano, ragionando insieme gli dimandai quale fosse la causa di tanto sudore: egli, ad alta voce rispondendo, disse: "Sigismondo, è altro costume di servire appresso il nostro signore che non è appresso il tuo". E mentre cosí camminammo, vedemmo con longo ordine come un esercito star fermo, e, vicinandosi a noi, smontare da cavallo, il che ancora noi facessimo. E nel primo ragionamento un Moscovito cominciò a parlare in questa forma: "Il gran signor Basilio, per grazia di Dio re e signore di tutta la Russia etc. (recitato il titolo), avendo inteso voi oratori del suo fratello Carlo, eletto romano imperatore e supremo re, e del suo fratello Ferdinando esser venuti, ha mandati noi suoi consiglieri e ci ha imposto che da voi ricerchiamo come stia bene il suo fratello Carlo romano imperatore e supremo re, e similmente Ferdinando". Un altro poi, voltatosi al conte Nogarola, disse: "Il gran signore (recitando tutto il titolo come di sopra) m'ha imposto che io ti venisse incontro e che fino all'albergo ti conducessi, e di tutte le cose necessarie ti provedessi". Il terzo questo medesimo disse a me; e queste cose furono dette e udite da una parte e l'altra col capo scoperto. Dapoi di nuovo il primo disse: "Il gran signore (recitando tutto 'l titolo) m'ha comandato che io ricercassi da te, o conte Leonardo, se hai avuto buon viaggio", e il simile disse ancora a me. Alli quali secondo il loro costume rispondemmo: "Dio dia sanità al gran principe; per la clemenza di Dio e per grazia del granduca abbiamo avuto felice viaggio". Dapoi il medesimo di nuovo disse: "Il granduca etc. (di nuovo ripetendo tutto 'l titolo) manda a te, Leonardo, una chinea con li suoi ornamenti e un altro cavallo della sua stalla", e questo medesimo disse ancora a me. Delle quali cose gli riferimmo grazie convenevoli; poi dicevano essere conveniente che noi onorassimo il loro signore, e che sopra de' donati cavalli cavalcassimo, il che facemmo volentieri, e, passato il fiume Moscva e mandate avanti tutte le cose nostre, seguitassimo dietro.
Nella ripa del fiume è un monastero, e indi per via piana e per mezo la turba degli uomini, li quali da ogni banda correvano, fossimo condotti dentro la città e alli nostri alloggiamenti, li quali erano vacui d'abitatori e di massarie di casa. Venuti al luogo nostro ciascun procuratore diceva al suo oratore che egli, insieme con quelli procuratori quali erano venuti con esso noi da Smolentzko, avevano commissione dal lor principe di provedere a noi di tutte le cose necessarie al viver nostro, ponendoci eziandio appresso un scrivano, il quale il cibo cotidiano e le cose necessarie ci portasse; e ci pregorono che, se ci fosse bisognato cosa alcuna, lo facessimo intendere loro: e quasi ogni giorno ci visitavano, domandandoci se ci mancasse cosa alcuna. Hanno li procuratori il suo ordinario nel spendere, altro per li Germani, altro per li Litwanii e altro per gli altri oratori: cioè quanto in pane, vino, carne, biada, fieno e tutte l'altre cose secondo il numero delle persone debbono spendere sanno, quante legne si danno per la cucina, quante per le stufe, quanto sale o pevere, oglio, cipolle e dell'altre cose minute ciascun giorno debbano dare: e questa medesima ragione, o vero regola, osservano quelli procuratori li quali conducono e riducono gli ambasciatori da Moscovia. Ma benchè sufficientemente ci dessero sí del cibo come del bere, nondimeno tutte le cose che noi dimandavamo cambiandole con le prime ci davano. Sempre ci portavano da bere per cinque volte, tre di medone e due di cervisia. Alcuna volta per certe cose io mandava a comprare in piazza delli pesci vivi, di che ne avevano gran sdegno, dicendo in ciò farsi grande ingiuria al suo signore. Io dicevo al mio procuratore di voler procurare letti per cinque gentiluomini venuti meco, ed esso mi rispondeva non essere di costume provedere ad alcuno di letti: al quale risposi che volevo comprarli e che avevo voluto ciò seco communicare, acciò non si turbasse come prima. Il dí seguente, ritornando a noi, disse: "Ho riferito alli consiglieri del mio signore quelle cose che ieri ragionammo, ed essi m'hanno imposto che io vi dica che non spendiate danari in letti, perciochè sí come gli uomini nostri nelle parti vostre avete trattato, cosí promettono di voler trattare voi".
Ed essendo noi per due giorni riposati nell'albergo, dimandassimo alli procuratori nostri qual giorno il principe ci chiamerebbe e ci darebbe audienza. Ed essi risposero: "Qualunque volta vorrete, di ciò parleremo con li consiglieri del principe". E finalmente fu a noi ordinato il termine, ma nondimeno fu rimesso per l'altro giorno, e cosí il dí inanti disse il procuratore a noi: "Li consiglieri del nostro principe m'hanno commesso che io v'annuncii che domane sete per andare avanti il principe", e qualunque volta ci chiamavano, sempre avevano appresso di loro gl'interpreti. Quella medesima sera ritornò l'interprete e dissemi: "Apparecchiati, perchè sarai chiamato avanti al signore"; e, appena passato un quarto d'ora, venne l'uno e l'altro delli nostri procuratori, dicendo: "Or su, già già gli uomini grandi vengono per voi, e però si conviene a voi venire nelle medesime case"; e mentre io parlava con l'oratore cesareo, subito l'interprete volando venne e disse: "Gli uomini grandi e principali presto denno giungere", acciò ci conducessero nella corte. Tra' quali era uno chiamato Basilio Iaroslawski, parente del granduca, e l'altro era uno di quelli il quale in nome del principe ci aveva ricevuti; ed erano accompagnati da molti nobili. Li nostri procuratori ci dicevano che dovessimo onorare quelli grandi uomini, e che gissimo loro incontro: alli quali rispondemmo che sapevamo il debito nostro, e che lo faressimo volontieri.
Cosí, essendo già quelli smontati da cavallo ed entrati nell'albergo del conte, li procuratori ci instavano che noi gissimo loro incontro, e che 'l principe per far loro onore alli nostri signori preponessimo. Ma noi tra questo mezo, mentre quelli venivano a noi, or una cosa or un'altra fingendo, l'andar nostro intorno tardavamo, di modo che in mezo li gradi in quelli s'incontrammo, e, volendo noi condurli nella nostra stanzia acciochè alquanto si riposassero, non volsero consentire. E Basilio ci disse: "Il gran signore (recitando tutto il titolo) ha commandato che voi dobbiate venire a lui"; e dapoi, montati a cavallo, accompagnati da gran moltitudine andammo avanti, e appresso la rocca in tanta turba di uomini ci scontrammo che appena con grandissima fatica delli officiali penetrammo per mezo quella gente. Perciochè è usanza appresso loro che qualunche volta li nobili oratori delli principi over re forestieri sono da esser condotti alla corte, gli stipendiarii e li soldati delli nobili delle regioni vicine per comandamento del principe sono chiamati; e in questo tempo tutte le botteghe e l'arti della città sono serrate, e quelli che comprano e vendono sono cacciati della piazza, e finalmente li cittadini d'ogni parte vengono alla città. E questo fanno acciò che per la gran moltitudine d'uomini e per la gran turba delli subditi la potenza del principe loro appresso l'altre nazioni grande, e per le tante legazioni delli principi esterni paia alli subditi che il loro principe è in stima.
Entrando noi nella rocca, in diversi luoghi molti uomini vedessimo: stavano appresso la porta li cittadini, e li soldati e gli altri stipendiarii tenevano la piazza, e li pedoni che ci accompagnavano givano avanti, e fermandosi alcuna volta erano d'impedimento che non potessimo pervenire alle case; perciochè appresso le scale non è lecito ad alcuno smontare da cavallo, se non al principe, il che per altra cagione non si fa se non acciò che si veda maggior onore esser dato al principe. Essendo noi al mezo delle scale pervenuti, ci vennero incontro certi consiglieri del principe, porgendoci la mano, e baciandoci ci condussero piú su. Poi, alla cima della scala pervenuti, altri consiglieri di maggiore auttorità ne vennero incontro, dando luogo i primi a quelli (perciochè è costume che li primi alli seguenti e alli piú prossimi ordinatamente cedono), e avendoci salutati ci diedero la destra. Dapoi, entrando nel palazzo, nel quale la turba delli nobili stava intorno intorno, li principali consiglieri del principe similmente ne vennero incontro, e cosí ordinatamente, con il modo predetto, si salutarono. Poi fussemo condotti in un altro portico, o vero salotto, il quale era pieno di signorotti e d'altri uomini d'alto legnaggio, dell'ordine e numero de' quali i consiglieri sono eletti; di dove fino al conclave del principe pervenimmo, avante il quale stavano quelli li quali giornalmente al principe servono. E niuno tra questo mezo delli circonstanti un minimo onore ci fece, anzi, se passando oltra qualche nostro amico avessimo salutato, egli non altrimente ci rispondeva e salutava come se già mai da noi conosciuto non fosse.
Finalmente entrando dentro nella camera del principe, gli consiglieri alla venuta nostra si levavano in piedi, eccetto però li fratelli del principe, li quali, se vi sono, non si levano in piedi, ma col capo scoperto seggono. E uno delli piú principali consiglieri, voltatosi verso il principe, secondo il costume suo, diceva queste parole: "Signor grande, il conte Leonardo percuote la fronte, per tua gran grazia", e quel medesimo disse di Sigismondo. Il primo detto significa quasi si inchina e ti rende onore; il secondo, ti riferisce grazie della grazia ricevuta. Perciochè il percuotere la fronte pigliano per salutazione, per riferimento di grazie e per altre cose di questa sorte, perchè, quando alcuno dimanda qualche cosa, overo riferisce grazie, suole abbassare il capo: e se vuol far ciò con piú sforzo, s'inchina talmente che con la mano tocca terra. E se al granduca per qualche gran cosa vogliono riferire grazie, o vero qualche cosa dimandare, talmente s'inchinano e s'abbassano giú, e con la fronte toccano terra.
Il principe in un luogo eminente e illustre col capo scoperto sedeva; el pariete dietro le spalle per l'imagine d'un santo risplendeva; dalla man destra aveva nel scanno il cappello kolpack, dalla sinistra il bastone con la croce posoch, e aveva un bacile con due ramini e una tovaglia appresso, perchè dicono che, quando il principe porge la mano all'oratore della fede romana, egli crede porger la mano a un uomo immondo e impuro, perciò, licenziato che è l'oratore romano, subito si lava le mani. Era ivi all'incontro del principe, in un luogo piú basso, un scanno adornato per gli ambasciatori; al qual luogo esso principe, rendutogli prima da noi il debito onore, con cenni e con parole ci chiamò, e con la mano ci dimostrò il luogo da sedere. Nel qual luogo ordinatamente salutando noi il principe, l'interprete era presente, il quale il tutto a parola per parola riferiva. E udito fra l'altre cose il nome di Carlo e di Ferdinando, esso principe si levò su e scese giú del scabello, e udita la salutazione sino al fine disse in questa forma: "Il fratel nostro Carlo, eletto romano imperatore e supremo re, è egli sano?"; mentre il conte risponde: "È sano", tra questo mezo montò nel suo scabello. Queste cose medesime, finita la mia salutazione, ricercò da me di Ferdinando. Dapoi ordinatamente chiamò l'un e l'altro di noi appresso di sé, e ci disse: "Porgetemi la mano", la quale data, soggiunse: "Avete avuto buon viaggio?" E noi, secondo il costume loro, rispondemmo: "Dio faccia che tu sia sano per molti anni; noi, per clemenza di Dio e per la grazia tua, abbiamo avuto buon viaggio". Detto questo, comandò che noi sedessimo; ma noi, prima che sedessimo, secondo il loro costume, primamente al principe, dapoi alli consiglieri e alli altri nobili, li quali ivi stavano per onor nostro, abbassando il capo, all'una e all'altra parte grazie infinite riferimmo. Ma altramente sogliono fare gli oratori degli altri principi, della Litwania, della Liwonia e della Swezia, perciochè, avanti il conspetto del principe introdotti insieme con la compagnia e con li servitori, sogliono offerire ciascuno doni al principe.
E questo costume d'offerire i doni è in questo modo. Udita ed esposta la legazione, quel consigliero il quale ha introdotto gli oratori avanti il principe leva su, e con chiara e aperta voce dice: "Signor grande, il tale oratore percuote la fronte con il tale e tale dono", e questo medesimo replica del secondo e del terzo. Dapoi li nomi e li presenti di ciascun nobile e di ciascuno servitore con quel medesimo modo esprime e dichiara. È ordinato ancora là un secretario, il quale parimente li nomi e li presenti nominatamente degli oratori e di tutti quelli che offeriscono ordinatamente scrive. Questi doni essi pominki, cioè memoria e ricordanza, chiamano. Ammonivano li nostri delli presenti, alli quali rispondendo dissi non essere nostro costume di far ciò. Ma torniamo al proposito.
Fatta la salutazione e avendo seduto un poco, il principe ordinatamente invitò l'un e l'altro di noi, dicendo: "Voi desinerete meco". Nella prima mia legazione, acciochè questo ancora vi aggiunga, secondo il costume loro in questo modo mi aveva invitato: "Sigismondo, tu mangierai il sale e il pan nostro con noi". Dapoi, chiamati a sé li nostri procuratori, disse loro non so che con voce bassa; alli quali procuratori gl'interpreti ammoniti ci dissero: "Levatevi su, andiamo nell'altre abitazioni", nelle quali, mentre il resto della nostra legazione e delle nostre commissioni ad alcuni consiglieri e secretarii ordinati dal principe esponemmo, erano apparecchiate le tavole. Il che fatto, il principe, li fratelli e li consiglieri già postisi a mensa, e noi similmente essendo condotti a tal convito, li consiglieri e tutti gli altri ordinatamente si levorono per onorarci, verso li quali ancora noi facemmo il simile, e, inchinando il capo in ogni parte, grazie onorevoli riferimmo, e poi prendemmo il luogo nel sedere a tavola, il quale il principe ci accennò con la mano. Le tavole dove si mangiava intorno intorno erano adornate, e in mezo v'era una credenziera piena e carica di diverse sorti vasi d'oro e d'argento. Nella tavola dove sedeva il principe, da una parte e l'altra era tanto di spazio lasciato quanto esso principe con le mani stese arebbe potuto toccare. Sotto il qual luogo li fratelli, quando vi sono presenti, seggono, il piú vecchio dalla destra e il piú giovane dalla sinistra; dapoi, con poco piú maggior spacio, i signori piú vecchi, li consiglieri e altri che erano di qualche grazia e auttorità appresso il principe sedevano.
All'incontro del principe nell'altra tavola noi sedevamo, e con poco intervallo sedevano li nostri familiari e servitori; e nell'altro lato ordinatamente stavano quelli li quali dall'alloggiamento nella corte ci avevano condotti. Nelle ultime tavole poi sedevano quelli li quali il principe aveva fatti invitare insieme con gli altri stipendiarii del principe. Nelle tavole erano posti certi vasi, delli quali uno era pieno d'aceto, l'altro di pevere e l'altro di sale: e questi vasi erano talmente distribuiti che quattro de' convivanti li avevano tutti. Oltra di questo li servitori e quelli che portavano le vivande erano vestiti di splendidi vestimenti, li quali, entrati dentro nel gran cenacolo, primamente circondavano la credenziera a torno a torno, e poi all'incontro del principe, sprezzato ogni onore, si fermano. E mentre tutti gl'invitati sedevano a tavola, e mentre si portavano le vivande, tra questo mezo il principe aveva chiamato un delli suoi ministri, al quale aveva dato due pezzi longhi di pane, dicendo: "Da' questi al conte Leonardo e a Sigismondo". Il ministro, chiamato appresso di sé l'interprete, ordinatamente a l'uno e a l'altro di noi porse il pane, e disse: "Conte Leonardo, il gran signor Basilio, per la grazia di Dio re e signore di tutta la Russia e granduca, ti fa la sua grazia e ti manda il pane della sua tavola". Queste parole l'interprete con chiara voce ci riferiva ed esponeva, e noi, stando in piedi, la grazia e il favore del principe udivamo, e gli altri similmente, per onor nostro, s'erano levati su, eccettuati però li fratelli del principe.
Per questo favore e onore non è bisogno d'altra risposta, eccetto che pigliare il pane, sopra la tavola porlo e con la inchinazione del capo parimente al principe, e dapoi alli consiglieri, e ultimamente a tutti gli altri con bel modo grazie riferire.
Per il sopraditto pane il principe la sua grazia dimostra, e per il sale l'amore; e maggior onore non può dare il principe ad alcuno nel suo convito che mandarli il sale della tavola sua. Li pani, che hanno la forma del pettorale di cavallo, secondo la mia opinione dinotano il duro giogo e la perpetua fatica della servitú. Nel principio del convito, li servitori la prima cosa portano in tavola l'acqua di vita, e quella avanti l'altre cose bevono; dapoi, quando mangiano carne, sogliono portare alli forastieri per primo cibo i cigni arrostiti, delli quali tre sono posti avanti il principe, e pungendoli col coltello dimanda quale sia il megliore, e poi comanda che siano portati via; e cosí sono smembrati e posti in certi piattelli minori, quattro pezzi per piattello, delli quali li servitori ne portano cinque piatti avanti il principe, e l'altre parti distribuiscono alli fratelli, alli consiglieri, agli oratori e agli altri ordinatamente. Sta appresso il principe un servitore, il quale gli porge da bere, e per il quale manda li doni a chi gli piace.
Suole ancora il principe dare una certa particella a gustare a quello che porta le vivande; e dapoi, squarciandole in diverse parti, le gusta e ne manda un piatto o al fratello o a qualche consigliero overo agli oratori. Sempre nella maggior solennità tali vivande, come è stato detto del pane, si offeriscono agli oratori: nel ricever delle quali deve levare in piedi non solamente colui al quale sono mandate, ma tutti gli altri, di modo che, tante volte levando, stando, riferendo grazie e inchinando il capo in tante parti, ciascuno non poco stracco diviene.
Nella prima legazione, essendo io oratore di Cesare Massimiliano, ed essendo ricevuto nel convito regio, alcuna volta per onorare li fratelli del principe mi ero levato in piedi; ma vedendo che quelli all'incontro non mi referivano grazie, né in modo alcuno mi rispondevano, per l'avvenire, qualunque volta io vedevo che ero per ricevere la grazia e il favore del principe, cominciavo a parlare con alcuni, e fingendo di non vedere, benchè alcuni all'incontro m'accennavano, e stando li fratelli del principe in piedi mi chiamavano, io nondimeno fingevo non vedere, e appena dopo la terza ammonizione a quelli domandavo che volessero da me. Ed essi rispondendo che io avvertisse che li fratelli del principe stavano in piedi, prima che io risguardassi e che mi levassi su le cerimonie loro erano quasi finite. Similmente una volta piú tardo essendo levato su, e subito postomi a sedere, di ciò quelli che mi erano all'incontro si ridevano; e dimandando io per qual cagione ridessero, nissuno mi voleva dire la causa. Onde io, mostrandogli di saperla, con volto grave diceva: "Io ora non son qui come persona privata, ma oratore, e sprezzerò quello che sprezza il mio signore". Oltra di questo, mandando il principe qualche presente ad alcuni delli giovani, io eziandio era ammonito che levassi su in piedi, e rispondevo: "Colui che onora il mio signore, questo ancora io onorerò". E avendo cominciato a mangiare delli cigni rostiti, ponevano insieme con quelli l'aceto, il sale e il pevere, perciochè usano queste cose in luogo di condimento over brodo. Oltra di questo v'era il latte acro, a questo medesimo uso posto, e li cucumeri salati e li pruni, nel medesimo modo conditi.
Il medesimo ordine servano nel portar l'altre vivande, eccetto che di nuovo come li rosti sono portati varie sorte di vini sono portati, cioè malvagia, vin greco e varie sorti di medoni. Il principe communemente comanda che gli sia sporto da bere una volta over due; e quando beve, ordinatamente chiama avanti sé gli oratori, dicendo: "Leonardo, Sigismondo, tu sei venuto da un gran signore ad un altro gran signore, hai fatto un gran viaggio, hai veduta la grazia nostra e gli occhi nostri sereni: bevi e ribevi e mangia bene fino alla sazietà, e dapoi riposerai, acciochè finalmente tu possi ritornare salvo al tuo signore". Tutti li vasi nelli quali mettono il cibo, il bere, l'aceto, il pevere, il sale e altre cose, come avemo veduto, dicono essere d'oro puro: il che appareva esser vero al gran peso di quelli. Sono quattro persone le quali stanno dall'una e l'altra parte della credenziera, e ciascuno tiene una tazza over bicchieri d'oro, delli quali il principe piú volte beve, e spesse volte parla con gli oratori e gli dice che mangino. Qualche volta ancora dimanda qualche cosa a quelli, e alcuna volta molto faceto e umano se gli dimostra. Fra le altre cose mi interrogava una volta se io mi fussi rasa la barba, il che con una sola parola si dice, cioè brill. Dicendo io di sí, rispose ancora egli: "E noi ci siamo rasi", perciochè, avendo presa un'altra moglie, tutta la barba s'era rasa, il che giamai da nissun altro principe dicevano esser stato fatto.
Prima li ministri della tavola alla similitudine delli leviti, che servono nelle cose sacre, erano vestiti, ma cinti; ora hanno vesti diverse, le quali terlik chiamano, ornate di gemme e margarite. Dura qualche volta il desinare del principe tre over quattro ore; nella prima mia legazione durò il desinare eziandio fino a un'ora di notte. Perciochè, come nelle cose dubiose consultando spesse volte tutto un giorno consumano, né mai si partono se prima non hanno fatta deliberazione del tutto, cosí parimente nelli conviti qualche volta un giorno intero sogliono consumare, e, sopragiunta la notte, si partono. Questo principe spesse volte e con le vivande e con il bere onora quelli che mangiano nel suo convito. Nel fine del desinare niente parla di facende gravi e d'importanza, anzi, finito il convito, suole dire agli oratori: "Andate al presente", e, avuta la licenzia, quelli consiglieri li quali avevano condotti gli oratori dentro nella corte di nuovo gli riducono e accompagnano ai proprii alloggiamenti, e dicono aver commissione di restare lí, e di tenergli in allegrezze e in piaceri. Sono portate certe tazze d'argento e certi altri vasi, con certa sorte di bere, per bevere bene, e tutti s'ingegnano di fare imbriachi quelli, perchè sanno bene invitare gli uomini a bere; e quando non hanno altra occasione, cominciano a bere per la sanità di Cesare, del suo fratello, del principe, e finalmente per la sanità di quelli li quali credono esser posti e collocati in qualche onore e dignità, e pensano niuno dovere ricusare il bere sotto il nome di quelli.
Il modo e l'usanza del bever loro è questo: quello che comincia piglia la tazza e va in mezo della stanza; stando col capo scoperto, con faceto parlare dice per la salute di cui egli beva e quel che gli desideri, dapoi, votata e voltata sottosopra la tazza, con quella la sommità del capo si tocca, acciò che tutti vedano ch'egli ha bevuto, e che desidera sanità a quello signore per nome del quale ha bevuto. Dopo questo nel piú alto luogo ne va, e comanda che siano empite piú tazze di vino, e dapoi a ciascuno porge la sua, e il nome per la salute del quale si ha da bere dice. E cosí tutti a un per uno sono costretti andar là, in mezo l'abitazione, e voltare le tazze, e poi ritornare al luogo suo. Ma quello che vuole fuggire cosí longo bere, è necessario che finga d'essere imbriaco, overo di sonno oppresso, overo che, avendo bevute molte tazze, affermi di non poter bevere piú, perciochè non credano li convivanti esser stati bene ricevuti e lautamente trattati se prima imbriachi non divengono. Questo costume communemente l'osservano li nobili e quelli alli quali è concesso di poter bevere il medone e la cervosa.
Nella prima mia legazione, finiti li miei negozii, e dovendo partir presto, fui chiamato ad un convito del principe (perciochè suole quello tanto nel partire quanto nella venuta ricevere gli ambasciatori nel suo convito); il quale finito, il principe si levò su, e, appoggiandosi appresso la mensa, comandò che gli fusse dato in man la tazza, poi disse: "Sigismondo, io voglio, per l'amore che io ho verso il nostro fratello Massimiliano, imperatore eletto delli Romani e supremo re, e per la sanità sua bevere questa tazza di vino, e cosí tu beverai di questo, e gli altri tutti ordinatamente, acciò che tu veda l'amor nostro verso il nostro fratello Massimiliano etc., e che tu gli riferisca quelle cose che tu hai vedute". Dapoi mi porse la tazza e disse: "Bevi per la sanità del nostro fratello Massimiliano, eletto imperatore romano e supremo re". Dapoi la porgeva a tutti gli altri li quali erano presenti nel convito, e a ciascuno usava le sopradette parole. Le quali cose finite, chiamommi avanti di sé, mi porse la mano e disse: "Or su, va' via".
Suole oltra di questo communemente il principe, trattati che ha in qualche parte li negocii degli oratori, invitare quelli alla caccia per solazzo. È un certo luogo appresso la Moscovia, pieno di arbori e alli lepori molto commodo, nel qual luogo, come in un leporario, grandissimo numero di lepri è nutrito e allevato, e a pigliare questi è pena grandissima, e non è permesso a niuno in tal luogo tagliar arbore alcuno. E oltra di questo nutrisce ancora gran numero d'altri animali nelli barchi, vivarii e altri luoghi commodi. E qualunque volta vuole pigliarsi solazzo, comanda che da diverse parti siano portati lepori, perciochè quanti piú lepori piglierà, con tanto maggior sollazzo e onore pensa aver cacciato. Quando è per venir fuora in campo alla caccia, manda certi suoi consiglieri insieme con certi cortegiani, over cavallieri, per gli oratori, e comanda che menino quelli avanti esso. Li quali ivi condotti e appropinquatosi al principe, per admonizione delli consiglieri sono costretti a smontare da cavallo e girsene per alquanti passi a piedi alla volta del principe. Con questo medesimo modo e ordine ancora noi fossimo condotti alla caccia, essendo il principe a cavallo in un bello e ornatissimo cavallo, d'una splendida veste vestito; cavatosi li guanti, con il capo però coperto, umanamente ne ricevette, e portaci la nuda mano per mezo dell'interprete diceva: "Siamo usciti fuora a nostro sollazzo e abbiamo chiamati ancora voi, acciochè siate presenti in quello medesimo diporto, e che di ciò ne riportiate quel piacere che a voi piú diletterà: e però montate a cavallo e seguitateci".
Aveva il principe un certo coprimento, il quale kolpak chiamano, il quale aveva d'una parte e l'altra, cioè dalle spalle e dalla fronte, certi monili, overo pendenti, dalli quali le lamine d'oro in modo di penne in alto tendevano, e dapoi piegate e rivoltate in sé di sopra e di sotto andavano. La vesta era alla similitudine di terlik, con fili d'oro tessuta; dalla cintura pendevano, secondo il costume della patria, due longhi coltelli e un longo pugnale, e dalle spalle sotto la cintura aveva una certa sorte d'armi, alla similitudine del cesto, la quale communemente usano in guerra, ed è un bastone alquanto piú longo d'un cubito, con un cuoio attaccato di longhezza di due palmi, nella estremità del quale vi è una clava over mazza di rame overo di ferro, ed è d'ogni parte ornato d'oro finissimo. Dalla banda destra del principe andava Scheale tartaro, re di Casan, il quale era stato scacciato dal suo regno; dalla sinistra erano due giovani nobilissimi, delli quali uno aveva nella man destra un bel manarino col manico di avolio, il quale essi topor chiamano, quasi di quella forma che si vede espressa appresso gli Ongheri, e l'altro aveva una clava, over mazza, simile all'ongheresche, la quale essi schestopero chiamano, cioè di sei penne. Il re Scheale era cinto di due faretre: in una aveva le frecce ascose, e nell'altra l'arco chiuso. Erano in campo piú di trecento cavallieri.
Mentre per il campo cavalchiamo, il principe alcuna volta comandava che ci fermassimo ora in questo luogo e ora in quello, e alcuna volta ci faceva cavalcare appresso di lui. Dapoi, essendo al luogo della caccia pervenuti, ci diceva: "È usanza appresso di noi che, qualunque volta nella caccia e nel nostro solazzo ci ritroviamo, noi medesimi e parimente tutti gli altri galantuomini con le proprie mani meniance li cani da caccia", e cosí pregava noi che facessimo il simile. Aveva ordinati appresso ciascun di noi due uomini, delli quali l'un e l'altro menava il suo cane, acciochè quelli per nostro diporto usare potessimo. Alle quali cose noi rispondemmo: "Noi questa grazia e favore con animo lieto e grato riceviamo, e questo medesimo costume e usanza è ancora appresso li nostri". Ma egli quella escusazione usava perchè appresso loro il cane è riputato animale immondo, ed è cosa vergognosa toccare cani con le mani nude. Stavano con longo ordine circa cento uomini, delli quali parte di negro e parte di turchino erano vestiti. Non molto lontano da questi s'erano fermati tutti gli altri cavallieri, per vietare che per quella parte non trapassassero i lepri. Da principio a niuno era concesso di lassare il cane alla lassa, se non al re Scheale e a noi. Il principe era primo, che con alta voce comandava che li cacciatori cominciassero, e subito con il corso velocissimo del suo cavallo alla volta degli altri cacciatori, delli quali v'era numero grande, volava. Dapoi tutti a una voce esclamano, e subito lasciano li cani, detti molossi, e odoriferi; e certo è cosa dilettevole e grata udire tanti e cosí vari abbaiamenti di cani.
Ha la Moscovia molti cani, e quelli ottimi e perfetti, tra quali alcuni sono li quali in la lor lingua chiamano kurtzos: sono belli, con le code e con l'orecchie pelose, generalmente sono audaci, nondimeno non hanno lena e possanza di poter correre e seguitare gli animali per longo spazio. Subito che 'l lepore se gli offerisce avanti, tre, quattro, cinque e piú cani gli sono lasciati dietro, e, come l'hanno preso, con tanto segno d'allegrezza alzano la voce come se qualche grande animale avessero pigliato. Li lepori alcuna volta corrono piú tardamente di quello che vorrebbono li cacciatori: allora il principe suole nominare qualcuno che fra gli arbori avesse il lepore nel sacco, esclamandogli adosso, dicendo: "Hui, hui", per la qual voce significa che debba mandare fuora il lepre. Escono fuora alcuna volta li lepri come sonnolenti, saltando fra li cani come caprioli overo agnelli fra 'l gregge. Quel cane che ne piglia piú, quello in quel giorno è riputato aver fatte cose stupende e maravigliose, ed esso principe parimente fa segni d'allegrezza e di congratulazione con l'oratore, il cane del quale averà pigliato piú lepri che gli altri. Finita la caccia, si congregorono tutti insieme e portorno i lepri, li quali numerandogli trovorono ch'erano piú di trecento. Erano ivi allora presenti li cavalli del principe, non già molti, né troppo belli, perciochè nella prima mia legazione essendo stato presente in simile sollazzo, mi ricordo aver veduto piú cavalli e piú belli, e specialmente di quella sorte li quali noi chiamiamo turchi, e quelli in lor lingua argama. Vi erano ancora piú falconi, delli quali altri erano bianchi, altri di colore purpureo, per grandezza eccellenti; e quelli che noi girofalconi chiamiamo, essi chiamano kretzet, con li quali sogliono pigliare i cigni, le grue e altri uccelli di questa sorte.
Questi kretzet sono uccelli audacissimi, ma non tanto atroci e d'impeto orrendo che gli altri uccelli rapaci per il volare e per la veduta d'essi, come un certo delle due Sarmazie ha raccontato, manchino e muoiano. Che questo sia vero, per esperienza conoscere si può: se alcuno va a caccia col sparaviero, col niso over con altri falconi, e tra questo mezo il kretzet (il qual uccello subito lo sentano volar da lontano) ne venisse volando, non piú oltra la cominciata preda seguitano, ma tutti impauriti si fermano. Ci hanno riferito uomini degni di fede e nobili che questi uccelli kretzet, quando da quelle parti dove fanno li nidi loro sono portati, che alcuna volta quattro, cinque e sei in un carro a questo fine accommodato si chiudono e serrano, e, quando gli è porta l'esca avanti da mangiare, con certa osservanza d'ordine di vecchiezza sogliono quella pigliare: il che se sia fatto in loro per ragione, overo per natura, overo per altro modo, è cosa incerta. E sí come contra gli altri uccelli con impeto nimico e minaccievole vanno e sono rapaci, cosí fra loro medesimi sono mansueti e umani, né mai fra di loro con rapaci morsi si percuotano o battano. Non si lavano mai con l'acqua, come gli altri uccelli, ma solamente con l'arena, con la quale si nettano delli pidocchi. Hanno tanto piacere del freddo che perpetuamente o vero sopra il giaccio o vero sopra la nuda pietra sogliono stare.
Ora, ritornando al nostro ragionamento, il principe, partendosi dalla caccia, alla volta d'una certa torre di legno la quale è lontana da Moscovia cinque miglia c'inviò. Dove erano certi padiglioni drizzati in piedi: il primo era grande e amplo, alla simiglianza d'una casa, per il principe; l'altro, per il re Scheale; il terzo, per noi. E dapoi ve n'erano degli altri, per l'altre persone. Nelli quali padiglioni essendo noi condotti, il principe entrò nel suo, e mutatasi la veste, subito ci fece chiamare alla presenza sua. Ed entrando noi, egli sedeva in una sedia d'avolio; dalla destra era il re Scheale, e noi all'incontro del principe in un luogo ordinato sedessimo. Sotto il re stavano certi signori e altri consiglieri; dal sinistro lato sedevano quelli nobili giovani alli quali il principe con favor singulare porta affezione. Sedendo adunque tutti, furono portate certe confezioni (come chiamano) di corandi, anici e amandole, dapoi noci e una piramide intera di zuccaro: le quali cose li ministri, riverentemente tenendo in mano, al principe, al re e a noi le porgevano, e dapoi, secondo l'usanza, fu dato da bevere. E il principe la grazia sua (come nelli conviti è solito di fare) ci dava. Nella prima mia legazione in quel medesimo luogo desinassimo, ed essendo noi a tavola, ed essendo caduto in terra un certo pane, il quale essi chiamano il pane della beata Vergine (e il quale, come consecrato, hanno in venerazione, mangiano e communemente nelle loro abitazioni in luogo piú eminente onorevolmente sogliono conservare), il principe e tutti gli altri di paura ripieni restorono: e, chiamato il sacerdote, quello dalle gramegne, le quali erano in terra, con sommo studio e venerazione raccolse. Fatta la collazione, e tenuto quello che 'l principe ci aveva porto, ci diede licenzia, dicendo: "Ora andate via", e cosí onorevolmente sino alli nostri alberghi fossimo condotti.
Oltra di questo, il principe ha eziandio un'altra sorte di sollazzo il quale suole usare, come ho inteso per gli altri oratori. Sono notriti orsi in una casa amplissima a questo effetto preparata, nella quale il principe suole dimostrare li giuochi degli orsi. Il modo è questo. Ha certi uomini d'infima e bassa condizione, li quali, per commissione del principe, con certe forcelle di legno vanno incontro agli orsi, e quelli provocano e incitano alla pugna. E venuti alle mani e attaccata la zuffa, se per sorte li sopradetti uomini dalli provocati e rabiosi orsi sono laniati e feriti, alla volta del principe corrono, ed esclamando dicono: "Signore, eccoti che siamo feriti". Alli quali rispondendo, il principe dice: "Andatevi, che vi farò grazia", e cosí dapoi comanda che siano curati e che gli siano donati certi vestimenti e alcuni moggi di formento.
Avvicinandosi il tempo di partire e d'essere licenziati dal principe, fossimo invitati a desinare. Oltra di questo, a l'un e l'altro di noi una veste onorevole, foderata di zibellini, fu donata; e di quella vestitici e nel conclave del principe introdotti, il marescalco ordinatamente, in nome dell'un e dell'altro di noi, diceva al principe: "Signore grande, Leonardo e Sigismondo della tua immensa grazia percuote la fronte", cioè per il dono ricevuto riferisce grazie. Furono aggionte alla veste che ci furon donate quarantadue zibellini e 300 pelli d'armelini, 1500 pelli d'aspreoli. Nella prima mia legazione mi diede una carretta al modo nostro con un bellissimo cavallo e una pelle d'orso bianco, con un altro commodo coprimento. Mi avea dato ancora molte sorti di pesci, beluge, osetri e sterled, seccati a l'aere ma non salati; e umanissimamente ne diede licenzia. Delle altre cerimonie le quali usa il principe in licenziare gli oratori, e similmente come sono ricevuti quando entrano nelli confini della Moscovia e come sono condotti e trattati, di sopra nel licenziare gli oratori litwani copiosamente avemo trattato.
Ma perchè fossimo mandati da Cesare Carlo imperatore e dal suo fratello re Ferdinando, arciduca d'Austria, a trattare perpetua pace o vero almeno tregua fra 'l principe di Moscovia e il re di Polonia, emmi parso cosa ragionevole aggiungervi le ceremonie le quali usa il principe di Moscovia in confermazione e stabilire la tregua con altri signori. Avendo noi conclusa e in certa forma ridotta la tregua con Sigismondo re di Polonia, fossimo chiamati nella corte del principe e in una stanzia condotti, dove erano gli oratori della Litwania, e dove eziandio vennero quelli consiglieri del principe, li quali quelle medesime avevano concluse con esso noi; e verso gli oratori rivoltatisi, in questa forma cominciorono a parlare: "Ha voluto il nostro principe, per singolar grazia e richiesta delli gran principi, fare perpetua pace con Sigismondo nostro re; ma conciosiach'essa pace ora per niuna condizione può esser fatta, ad instanzia e richiesta delli sopradetti principi ha voluto far la tregua con il vostro re, e però alla deliberazione e legitima confermazione di quella il principe nostro vi ha fatti chiamare, acciochè ancora voi siate presenti". Tenevano in mano lettere, le quali il principe era per mandare al re di Polonia, bollate e sigillate con un sigillo picciolo, ma rosso, nella cui prima parte era una imagine di un uomo nudo, che sedeva sopra un cavallo senza sella e con l'asta in mano trapassava per mezo un dracone; da l'altra parte eravi un'aquila con due teste, e ciascuna aveva la sua corona. Oltra di questo avevano in mano le lettere della tregua, con certa formula composte e ordinate, l'esempio e copia delle quali esso re di Polonia all'incontro era per mandare al principe di Moscovia, eccettuati però nomi e titoli da essere mutati: nelle quali lettere, fatte dagli consiglieri, niente era mutato, eccetto questa clausola, la quale era aggiunta nel fine delle lettere e diceva cosí: "Noi Pietro Giska palatino polocense e capitano drobitzinense, e Michael Bohusch Bohuttinowitz tesoriere del granducato della Litwania e capitano stovinense e kamenacense, oratori del re di Polonia e del granduca della Litwania, confessiamo, e con questo nome avemo baciato il segno della croce, e astretti noi, che 'l nostro re è per confirmare e parimente le medesime cose con il bacio de la santa croce: e in fede megliore di ciò, queste lettere con li nostri proprii sigilli avemo sigillate". Le quali cose udite e vedute, fossimo chiamati tutti avanti il principe, e nel luogo ordinato postici a sedere, egli cominciò in questa forma a parlare: "Giovanni Francesco, conte Leonardo, Sigismondo, con grande instanzia ci avete richiesto in nome di papa Clemente settimo e del fratello nostro Carlo imperatore e del suo fratello re Ferdinando che noi facessimo pace perpetua con Sigismondo re di Polonia; ma conciosiachè ciò per le condizioni incommode a una parte e l'altra non si possi lodevolmente conchiudere, ne avete pregato che almeno facessimo tregua, e cosí per l'amor nostro verso li principi vostri ora la facciamo e l'accettiamo volentieri. Alle quali cose avemo voluto che voi siate presenti, acciochè riferiate alli vostri signori esser stati presenti alla tregua già fatta, e legittimamente confermate e noi tutte queste cose per amor di quelli aver fatte".
La quale orazione finita, fece chiamare a sé Michael di Giorgi consigliero, e gli comandò che pigli la croce d'oro, la quale era attaccata con un cordon di seta all'incontro del pariete. Onde il prefato consigliero, tolto un fazzuolo mondo il quale sopra un bacile e un ramino era collocato, la croce con somma riverenza e venerazione pigliò, e nella man destra la tenne. Il secretario similmente le lettere della tregua nelle mani aveva, talmente che le lettere de li Litwanii erano superiori, e quella clausula per la quale gli oratori litwani s'erano astretti appareva, ponendo Michele la mano destra, con la quale teneva la croce. Sopra quali lettere il principe, levandosi in piedi, rivolto il parlare verso gli oratori litwani, con longa orazione disse ch'egli la pace, secondo la singolare richiesta e osservazione di tanti principi, de li quali i legati mandati a lui vedeva avanti gli occhi, non averebbe già mai sprezzata e fuggita, quando quella con commode e onorevoli condicioni se fosse potuto fare. Ma poi che tal pace perpetua non può aver luogo, per grazia delli sopradetti principi ha fatto tregua per anni cinque, secondo il tenore delle lettere le quali esso mostrava col dito, la quale tanto tempo conserverà quanto vorrà il magno Iddio: "E la nostra giustizia al fratel nostro re Sigismondo faremo, con questa condizione però, che 'l vostro re ne dia lettere simili alle nostre in tutte le cose, e scritte con quel medesimo esempio, e che quelle in presenzia delli nostri oratori confermi, e la giustizia sua faccia verso di noi, e che procuri che siano portate a noi per mezzo delli nostri ambasciatori: e tra questo mezzo voi col giuramento vi astringerete il vostro re dover fare e osservare tutte le sopra nominate condicioni".
Finite queste parole, verso la croce voltossi e tre volte con il segno della santa croce segnossi, ogni volta abbassando il capo, e con le mani quasi toccando la terra. Dapoi, appressandosi alla croce, moveva le labbra, come volesse orare, e, nettandosi la bocca con un fazzoletto e sputando in terra, finalmente la croce baciò, e primamente con la fronte, e dapoi con l'un e l'altro occhio quella toccò, e, ritiratosi indrieto, di nuovo inchinato il capo con la croce segnossi. Dopo questo ammonisce i Litwani che venissero avanti, e che essi quel medesimo fare dovessero. Ma prima che gli oratori litwanii facessero questo, un certo Bogusio ruteno recitava la sottoscrizione per la quale gli oratori s'erano astretti, la quale, benchè con piú parole fosse composta e ordinata, nondimeno né piú né meno conteneva di quello ch'è detto di sopra. Le parole della qual sottoscrizione a una per una Pietro, per fede romano, e collega, l'esponeva, e quella medesima parimente l'interprete del principe a noi a parola per parola recitava. Il che finito, Pietro e Bogusio ordinatamente la santa croce in presenza del principe baciorono.
Le quali cose finite, il principe, sedendo, con simili parole cominciò: "Voi avete veduto che noi avemo fatto al nostro Sigismondo re la giustizia nostra, per la singulare richiesta di Clemente, di Carlo e di Ferdinando, e però diretti alli vostri signori, tu Giovan Francesco al papa, tu conte Leonardo a Carlo e tu Sigismondo a Ferdinando, noi aver ciò fatto per il loro amore e acciò che 'l sangue cristiano per le guerre non si sparga". Or finalmente avendo il principe con longa orazione e con li consueti titoli fatto fine, all'incontro per la singolare sua benevolenzia verso li nostri principi grazie infinite gli riferimmo, e le commissioni di quello diligentemente dover eseguire gli promettemmo. Dapoi, due delli suoi consiglieri piú principali e secretarii avanti sé chiamò, e dice alli Litwani quelli essere ambasciatori che dovevano andare in Polonia al re Sigismondo. Ultimamente molte tazze per commissione del principe furono portate a noi e alli Litwani, e a ciascuno sí delli nostri nobili come delli Litwani, e con la man propria il principe le porgeva, e, chiamando per nome gli ambasciatori della Litwania, diceva loro: "Quelle cose che ora avemo fatte e le quali dalli nostri consiglieri avete intese, al fratel nostro re Sigismondo esporrete". Dapoi di nuovo si levò su e disse: "Pietro, e tu, Bogusio, al fratel nostro Sigismondo e re di Polonia e granduca della Litwania in nome nostro (movendo esso il capo) vi inchinerete", e, ponendosi a sedere, l'un e l'altro chiamò, e tanto a quelli quanto eziandio alli nobili loro ordinatamente porse la mano, e disse loro: "Andate, ora", e cosí licenziò.


GLI ITINERARII OVERO VIAGGI NELLA MOSCOVIA.

Nell'anno MDXV erano venuti in Vienna, a Cesare Massimiliano, Wladislao e il suo figliuolo Lodovico, re dell'Ongaria e della Boemia, e Sigismondo, re di Polonia; dove, contratti e conclusi i matrimonii delli figliuoli e delli nepoti, e confirmata fra di loro l'amicizia, fra l'altre cose Cesare gli aveva promesso di voler mandare suoi ambasciatori a Basilio, duca delli Moscoviti, acciochè egli facesse pace con il re di Polonia. A questa legazione Cesare aveva ordinato Cristoforo, vescovo labacense, e Pietro Mrazi. Ma tal impresa, e tra questo mezo essendo Giovanni Dantista, secretario del re Sigismondo e dipoi vescovo warmiense, di tanta tardanza impaziente, e la legazione con ogni instanzia solicitando, quest'officio a me, che poco avanti era tornato dalla Dania, fu imposto. E cosí, ricevute le commissioni da Cesare Massimiliano, da Haganoe, città dell'Alsazia, mi parti'.
Primamente, passato il Reno, per il dominio delli marchesi badensi e per le città dette Restat, Etlingen, Pfortzach, nel ducato wirtembergense, Constat e finalmente in Eslingen, città dell'imperio, appresso il fiume Necaro, il quale e Nicro chiamano, di là in Gopingen e Ceislingen venni. Dapoi in Olma città, superato il Danubio, per Gunspurg e per il castello Purgaw, dalla quale il marchesato di Burgovia ha preso il nome, in Augusta Vindelica al fiume Lico pervenni, dove m'aspettavano Gregorio Sagrewski, oratore del duca di Moscovia, e Crisostomo Columno, secretario di Elisabetta, vedova di Giovanni Sforza di Milano e di Bharii, li quali erano compagni del viaggio.
Lasciata Augusta nel principio dell'anno MDXVI, di là dal fiume Lico, per le città della Baviera Frindberg, Inderstoff, Freysingen, cioè per il vescovato frisingense, al fiume Ambor, Landshuet, al fiume Isera, Gengkhon, Pfarkhirchen, Scharding, al fiume Eno passammo. E superato il fiume Eno, trapassando per le ripe del Danubio, passammo l'Austria sopra Onaso; dapoi in Lincio, città posta sopra la ripa del Danubio, capo di quella provincia, entrati, e per il ponte in quel luogo posto sopra il Danubio passando, per Ganeukirchen, Pregartn, Pierpach, Kunigswsin, Arbaaspch, Rapolstain seguitassimo il nostro viaggio. E finalmente camminando piú oltra nell'arciducato d'Austria, alla Valle Chiara, volgarmente Tzwetl detta, in Rastnfeld, Horn e Retz pervenimmo.
Dapoi per la dritta via della Moravia, di là dal fiume Teya, il quale per la maggior parte separa l'Austria dalla Moravia, a Snoima castello pervenimmo, dove io intesi Pietro Mraxio, mio collega, esser morto: onde io solo questo officio di oratore feci. Da Snoima arrivassimo a Wolfernitz, a Bruna e ad Olmuzio, sedia episcopale, appresso il fiume Moravia posta. E quelle tre città, cioè Snoima, Bruna e Olmuzio, sono le prime nel marchesato; di là poi passammo per Lipneck, per Hranitza (in todesco Weissenkirchn), per Itzin (in todesco Titsthein), per Ostrava (in tedesco Ostra), dov'è il fiume Ostrawitz, il quale il castello bagna e la Lesia dalla Moravia divide. Dopo Feistar, castello delli duchi teschinensi, posto al fiume Elsa, arrivammo a Strumen (in tedesco Schwartzwasset), dapoi a Ptzin (in tedesco Ples) principato. Dal qual luogo andando avanti per spazio di due miglia è il ponte di là da Istula, termine del territorio della Boemia. Dal ponte di Istula in là è il dominio della Polonia, e di qua sino a Oschwentzin principato, detto in tedesco Auscavitz, dove il fiume Sola entra nel fiume Istola, viaggio un miglio.
Fuora di Oschwentzin, per il ponte superammo il fiume Istula, e, fatti otto miglia, in Cracovia, capo del regno di Polonia, pervenimmo, e li nostri carri sopra le trahi ponemo. Dapoi da Craccovia partiti, rivammo a Prostovitza, 4 miglia; a Wilitza, 6 miglia; a Schidlow, 5 miglia; a Oppatow, 6 miglia; a Sawicost, 4 miglia, dove di nuovo passammo il fiume Istula, e, lasciato quell'a banda sinistra, ad Ursendow per spazio di 5 miglia, e dapoi a Lubin palatinato per 7 miglia pervenimmo. Nel qual luogo, in certo tempo ordinato dell'anno, si fa una bellissima fiera, alla quale vi concorrono uomini e genti d'ogni parte, Moscoviti, Litwani, Tartari, Livoniensi, Pruteni, Ruteni, Germani, Ongheri, Armeni, Walachi ed Ebrei.
Otto miglia piú oltra si truova Cotzko; e avanti che si pervenga a questo luogo si trova il fiume Wiepers, verso settentrione. Dopo otto miglia Meseriz, termine overo confine della Polonia; e sei miglia piú avanti si truova, appresso el fiume Buh, Melnik, castello della Litwania; e dopo otto miglia un luogo chiamato Bielsco; e dopo quattro Narew, dove un fiume di quel medesimo nome, che nasce da un certo lago e paludi, come fa il fiume Buh, verso il settentrione corre. Da Narew caminando piú oltra si passa una selva per otto miglia di longhezza, e fuora di quella evvi un castello detto Grinzki, dove gli uomini del re, li quali ci provedevano di vettovaglia per il viver nostro (pristawos chiamano) e fino a Wilna ci conducevano, mi aspettavano. Dapoi per spazio di sei miglia si perviene a Grodno, dove è un principato, secondo la natura di quel paese, assai commodo: la rocca con la città è vicina al fiume Nemen, il quale in lingua germanica Mumel è chiamato, e bagna la Prussia, la quale già dal gran maestro dell'ordine teutonico era governato; ma ora quella Alberto, marchese di Brandenburg, per nome ereditario del ducato tiene. Il detto fiume chiamano ancora Cronomen, alludendo al nome del castello. In questo luogo Giovanne Saworsinschi da Michael Lincki in quella medesima casa over, come dicono, corte nella quale io era alloggiato fu morto. In questo luogo io lasciai l'ambasciatore moscovito, il quale il re avea proibito intrare in Wilna. Dipoi a duo miglia a Prelai, a cinque miglia a Wolconikt, a quattro miglia a Rudnii, e per altre quattro miglia ad Wilna pervenimmo.
Avanti Wilna uomini nobili e di alto legnaggio mi aspettavano, li quali in nome del re onorevolmente mi recevettero, e in una ampla e gran carretta ornata di bellissimi cussini e di certi coprimenti di seta e d'oro tessuti collocatomi, con molti staffieri d'ogni parte circondato, officiosamente, come fosse stato il proprio re, sino all'ordinato ospizio m'accompagnorno. Dapoi Pietro Tomitzki, vescovo premisliense, vicecancelliero del regno di Polonia, uomo per testimonianza di tutti di singular virtú e d'integrità di vita ornato, venne a visitarmi e in nome del re umanissimamente salutommi e ricevettemi. E cosí, finiti li nostri ragionamenti, con gran moltitudine delli cortegiani al conspetto del proprio re mi condusse, dal qual, in presenza di molti nobilissimi signori del granducato della Litwania, onorevolmente io fui ricevuto.
In quel medesimo tempo, oltra l'altre cose, nella città di Wilna il matrimonio fra esso re di Polonia e la signora Bona, figliuola di Giovan Galeazzo Sforza, duca di Milano, col mezo di Cesare, essendo io ambasciatore, fu fermato e concluso. Erano ivi in strette prigioni tre capitani di Moscovia, alli quali nell'anno MDXIIII, appresso di Orsa città, la somma di tutte le cose e il governo dell'esercito moscovitico era stato commesso, fra li quali Giovanni Czeladin era il primo. Li quali io, con licenzia del re, visitai, e con quel modo che io potei gli consolai.
Wilna è capo del granducato della Litwania, ed è posta in quel luogo nel quale Welia e Wilna fiumi concorrono, e nel fiume Nemen, over Cronomen, entrano. In questa lasciai Crisostomo Columno, e poco tempo in quella dimorai. Alli 14 di marzo, uscito di Wilna, io non andai per la publica e usitata via, delle quali una va per Smolenzko e l'altra per la Liwonia in Moscovia, ma usai la strada meza fra l'una e l'altra, e per la dritta via per quattro miglia a Nementschin, e di là a otto miglia, passato il fiume Schamena, a Swintrava pervenni.
Il seguente giorno per spazio di sei miglia venni a Disla, dove è un lago del medesimo nome, e di là quattro miglia è Driswet, dove l'ambasciatore moscovito, il quale io avevo lasciato a Grodno, venne a ritrovarmi. Di là quattro miglia a Braslaw, al lago Nawer, il quale è di longhezza quasi d'un miglio; poi per spazio di cinque miglia a Dedina e al fiume Dwina, il quale i Liwoniesi (perchè passa per il paese di quelli) Duna chiamano, e altri Turante, pervenimmo. Dapoi per sette miglia a Drissa, e di nuovo sotto il castello Betha al fiume Dwina arrivammo. Ed essendo quello aggiacciato, con certe carrette, secondo il costume di quella gente, per spazio di sedici miglia fossimo portati in su. E mentre facevamo tal viaggio, due vie avanti gli occhi s'appresentorono: e mentre stavamo in dubio per qual dovessimo entrare, mandai il servitore a dimandare alla casa d'un certo villano vicino qual fusse la strada. Il qual poco mancò che non perisse nel fiume, per rispetto della giaccia qual s'era disfatta sul mezogiorno, nondimeno fu tirato fuora. Avvenne ancora che in un certo luogo il fiume d'ogni parte era sgiacciato, e tanta strada era lasciata quanto si poteva passare oltra, e a pena le ruote del nostro veicolo erano capaci di tal passo: accresceva ancora la paura la fama commune, perchè dicevano che non era molto che in tal luogo cento assassini moscoviti s'erano sommersi, per voler passare tal fiume congelato.
Da Drissa a Doporoski sono sei miglia, e di là poi a Polotzco principato, il quale waiwoda lo chiamano, e a quella parte del fiume Dwina, la quale alcuni Rubone chiamano, pervenimmo: dove onorevolmente in mezo di grandissima frequenzia d'uomini fossimo ricevuti, e magnificamente e abondantemente trattati. Finalmente sino alla stanza nostra vicina fossimo condotti. Tra Wilna e Polotzco sono molti laghi, spesse paludi e selve di grandissima longhezza, per modo che qualche volta per spazio di cinquanta miglia germani si distendono.
Andati piú avanti nelli confini del regno, il viaggio, per le spesse correrie de l'una e l'altra parte, non era troppo sicuro, e avessimo alloggiamenti abandonati e pochissimi; e finalmente per grandi paludi e selve in Harbsle e Milenki, case di pastori, pervenimmo, nel qual viaggio il Litwano condottor nostro m'aveva abandonato. Vi si aggiongeva alla incommodità delli nostri alloggiamenti la somma difficultà del viaggio, perciochè era forza di passare fra li laghi e le paludi carche di neve e di giaccio, a noi molto nocivo; mentre ad un castellotto, detto Nischa, e al lago di quel medesimo nome, e di là 4 miglia a Quadassen pervenimmo. E quivi con grandissima paura e pericolo un lago aggiacciato, stando l'acqua sopra il giaccio, passammo; ed essendo ad una cappanna over tugurietto d'un certo villano pervenuti, per commissione di Georgio moscovito, mio compagno in viaggio, ci fu portato vettovaglie per mangiare: ma in questo luogo i termini dell'un e l'altro principe non ho potuto conoscere e discernere come desiderava.
Senza contradizione alcuna, Corsula è sotto il dominio della Moscovia; dove passati due fiumi, cioè Welicarecka e Dsternicza, finiti due miglia pervenimmo ad Opotzka città, con il castello, o ver rocca, posta appresso il fiume Welicareka, dove è ponte che si passa, e alcuna volta li cavalli passano quello con l'acqua sino al ginocchio. Questa rocca il re di Polonia, mentre io trattava della pace in Moscovia, aveva assediata. In questi luoghi, benchè per le spesse paludi, selve e fiumi innumerabili gli eserciti commodamente condurvi non si possano, nondimeno a ciascun luogo che vogliono vanno, mandandovi inanti guastatori e altri abitatori del paese, li quali tolgano via tutti gl'impedimenti tagliando arbori, legnami e facendo li ponti sopra le paludi, fiumi e altri luoghi necessarii. Di là a otto miglia si truova una città detta Woronecz, posta appresso il fiume Ssoret, il quale, ricevendo il fiume Woronetz, non molto lontano sotto il castello di Welicarecka scorre. Cinque miglia dipoi a Enburg; e tre miglia a Woledimeretz, castello con la rocca; tre miglia a Brod, casa d'un certo abitatore; e di qui poi cinque miglia, gittato un ponte sopra il fiume Ussa, il quale a Scholona scorre, a Parcho città venimmo, la quale, insieme con il castello, è appresso il fiume Scholona. E di qui si viene ad una certa villa detta Opoca, sotto la quale è il fiume Widocha, il quale per spazio di cinque miglia entra in Suchana; quivi, passati sette fiumi, dopo cinque miglia s'arriva a Reisch villa, e per altri cinque miglia alla villa detta Dwerenbutig, sotto la quale, per spazio di mezo miglio, è Pschega fiume, il quale, ricevuto in sé il fiume Strupin, entra in Scholona; nel quale ancora altri quattro fiumi, li quali passammo in quel giorno, entrano. A cinque miglia si truova Sotoki, casa d'un povero uomicciuolo, e di qui a quattro miglia finalmente nella gran Nowogardia alli 4 d'aprile pervenimmo. Da Polotzko fino alla Nowogardia passammo tante paludi e tanti fiumi, delli nomi de' quali e numero né anco gli abitatori del paese si ricordano.
Nella Nowogardia per sette giorni ci riposammo, e nel giorno delle Palme dal luogotenente di quella fui ricevuto in convito. E dapoi, da quello consigliato che, lasciati li servitori e li cavalli in quel luogo, per via delle poste alla volta della Moscovia ne gissi, al quale vedendo, ed entrato in viaggio, primamente a quattro miglia a Beodnitz venni, e di qui il viaggio di tutto il giorno appresso il fiume Msta, il quale è navigabile, e dal lago Samdin nasce, io feci. In quel giorno, andando io per un prato e liquefacendosi la neve, con veloce corso delli cavalli, un cavallo d'un mio servitore litwanico cadde insieme col servitore precipitando e in modo d'una rota rivoltandosi per terra; finalmente il cavallo levossi con li piedi davanti e fermossi, né però con il lato suo toccava terra, né punto il servitor mio, sotto di sé prostrato e giacente, offese. Dapoi per dritta via sei miglia a Seitskoov, di là dal fiume Nischa; dapoi sette miglia a Harosczi, di là dal fiume Calacha; e per sette miglia, Oreat Rechelwitza, alla fiumara Palamit pervenimmo. In quel giorno passammo otto fiumi e lago congelato, ma sopra il giaccio d'acqua ripieno.
Finalmente, nella sexta feria avanti la festa della santa Pasqua, alla casa delle poste pervenimmo, e tre laghi passammo: il primo fu Woldai, il quale è un miglio in larghezza e due in longhezza; il secondo è Lutinitsch, non molto grande; e il terzo Ihedra, al quale una villa di quel medesimo nome è vicina, lontano da Oreat per spazio d'otto miglia. Nel qual giorno, per li sopradetti laghi congelati, ma per la neve liquescente d'acque ripieni, seguitata la trita via, avessimo viaggio difficilissimo e pericoloso; e per l'altezza delle nevi e perchè niuno vestigio over segno d'alcuna strada appareva, non avemmo ardimento di partirci dalla via publica. Finito cosí difficile e pericoloso viaggio, per spazio di sette miglia a Choitilowa pervenimmo, sotto la qual città, in quel luogo che li due fiumi Schlingwa e Snai corrono ed entrano nel fiume Msta, passammo, e a Woloschak giungemmo; e ivi nel giorno di Pasqua ci riposammo.
Dapoi camminammo per sette miglia, e passato il fiume Twerza a Wedrapusta castello, posto nella ripa, arrivammo: da qui poi per sette miglia scendendo venimmo a Dwerschak città, sotto la quale per due miglia, con una barchetta pescareccia, il fiume Schegima passammo, e, a Ossoga castello pervenuti, ivi per un giorno ci riposammo. E il seguente giorno, per spacio di sette miglia navigando per il fiume Twerza, a Medina pervenimmo, e, ivi desinato, di nuovo entrati nella barchetta per sette miglia navigammo Wolga, fiume celeberrimo e famoso, e nel principato Twer arrivammo. Dove, presa una barca maggiore, per il fiume Wolga navigammo, e non molto dapoi ad esso fiume congelato e di pezzi di giaccio ripieno venimmo, e in certo luogo, con grandissima fatica e sudore, arrivammo, dove la ripa del fiume, carica di molto giaccio, appena superammo. E di là per terra alla casa d'un certo abitatore pervenuti, ritrovammo alcuni pochi cavalli, e sopra quelli montati finalmente al monasterio del Beato Elia giungemmo. Dove poi mutati li cavalli, per tre miglia a Gerodin castello, al fiume Wolga posto; dapoi per la dritta via tre miglia a Schossa, poi per tre altri miglia a Dscorno, casa delle poste; dapoi per sei miglia a Clin castello, al fiume Ianuga posto; poi per tre miglia Piessak, casa delle poste; dapoi per spazio di sei miglia a Schorna, appresso il fiume di quel medesimo nome, arivammo; dapoi finalmente per spazio di tre miglia, alli diciotto d'aprile, pervenimmo in Moscovia, dove in che maniera io fossi salutato e ricevuto abondantemente in questo libro vi ho esposto e dichiarato, quando del modo di recevere e di trattare gli oratori ho ragionato.


Del ritorno della Moscovia nella patria.

Io vi dissi nel principio che fui mandato da Massimiliano imperatore nella Moscovia a componere e pacificare i principi di Polonia e della Moscovia; ma senza risoluzione alcuna indi mi parti', perciochè, mentre nella Moscovia, presenti gli oratori del re di Polonia, io trattavo della pace e concordia fra loro, il re di Polonia, raunato l'esercito, Opotzka castello (indarno però) espugnava, e per ciò il principe negava di voler fare tregua con il re di Polonia: e cosí, senz'altra conclusione del negozio, onorevolmente mi diede licenzia. Onde, lasciata la Moscovia, a Moseisko 18 miglia, a Wiesma 26 miglia, Drogobusch 18 miglia, e dapoi a Smolensko 18 miglia pervenni. Dapoi, per due notti a l'aere in mezo delle gran nevi riposati, e da quelli che ci conducevano io era trattato lautamente e onorevolmente; e per difenderci meglio dalle nevi, sopra li scorzi degli arbori stendevamo altamente il fieno, e sopra li stesi lenzuoli, secondo il costume de' Turchi, overo Tartari, con li piedi tirati in su giacendo, pigliamo il cibo; e bevendo alquanto piú largamente la cena nostra tiravamo in longo. L'altra notte poi venimmo ad un certo fiume, allora non congelato: ma dopo mezanotte, per rispetto del grandissimo freddo, talmente era concreto e giacciato che per il giaccio piú di dieci carette cariche tutte andorono. Ma li cavalli in un altro luogo, dove il fiume piú velocemente e con maggior impeto correva, spinsi, e rotta la giaccia passorono di là. Dove lasciati quelli che ci conducevano, andai nella Litwania, e dal confine per otto miglia a Dobrowna venni, dove ebbi onesta copia delle cose necessarie, ma l'albergo fu nella Litwania. Dapoi a quattro miglia ad Orsa, insino a tanto che da Viesma alla man destra arrivammo al fiume Boristene, il quale con non longo intervallo di sopra e di sotto Smolenko fummo constretti a passare. E cosí quello circa Orsa lasciato, per la dritta via per 8 miglia a Druzek, per 11 miglia a Grodno, per 6 miglia a Borisow, al fiume Beresina venimmo, li cui fonti Tolomeo attribuisce al Boristene.
Dapoi per otto miglia a Lohoschkh, per 7 miglia a Radocostye, per 2 miglia a Crasno Sello, per 2 miglia a Modolesch, per 6 miglia a Crewa, castello con la rocca ruinato, per 7 miglia a Mednik, castello con la rocca, e di qua finalmente a Wilna pervenimmo. Dove, dopo la partita del re di Polonia, per certi pochi giorni, mentre li servitori con li miei cavalli ritornavano da Novogardia per la Liwonia, sono restato. Li quali finalmente venuti, indi partiti, per 4 miglia usciti dalla strada arrivammo in Troki, acciochè ivi in un certo orto vedessi i bisonti chiusi, li quali alcuni uros, li Germani aurox chiamano. Dove il palatino, qualunque per la venuta mia all'improviso fosse quasi offeso, nondimeno invitommi a desinare con esso lui; e a questo convito fu presente Scheachmeth, re sawolhense tartaro, il quale in tal luogo in due murati castella, fra li laghi posti, come in libere prigioni onestamente era servato e custodito. Questo re, mentre si desinava, di varie cose per mezo dell'interprete parlava con esso meco, e fra l'altre cose chiamava Cesare suo fratello, e diceva che tutti li principi e re del mondo erano fratelli fra di loro.
Finito il desinare e ricevuto il presente dal signor palatino, secondo la consuetudine delli Litwani, primamente a Moroschei castello, dapoi per 15 miglia a Grodno, per 6 miglia a Grinki, poi, passata la selva, per 8 miglia a Narew, e a Bielsko città pervenimmo. Dove Nicolò Radowil, palatino wilnese, ritrovai, al quale già per avanti avevo date lettere di Cesare. Il qual, benchè per avanti mi avesse donato una chinea con due altri cavalli da carretta, nondimeno di nuovo un altro cavallo castrato e di buona razza mi dette in dono, e oltra di questo mi diede ancora alcuni ducati ongheri, esortandomi che d'essi io procurassi farmi fare un bellissimo anello, acciochè, portando quello e ogni giorno riguardandolo, piú facilmente di lui, specialmente appresso Cesare, io mi ricordassi. Dapoi da Bielsco nella rocca de Briesti, con il castello fatto di legno, appresso il fiume Buh, nel quale Muchawetz scorre, e di qui a Amas castello arrivammo, dove, lasciata la Litwania da parte, a Pareczow, primo castello di Polonia, entrati, sopra il quale non troppo lontano un fiumicello chiamato la Sonica scorre, e la Litwania dalla Polonia divide; dapoi per 9 miglia a Lublin, poi a Rubin, Ursendoff, Sawichost, al passo del fiume Istula, poi a Sandomir, città con la rocca, posta al fiume Istola, e distante da Lupin per spacio di miglia 18, pervenimmo. Dapoi a Poloniza, appresso il fiume Czerna posta, dove certi pesci nobilissimi, volgarmente lachs chiamati, si pigliano. Indi alla Nuova detta Cortzin, con il castello di muro, e poi a Prostwitza, dove buona e ottima cervosa si cuoce, e di qui poi in Craccovia pervenimmo, la qual città è capo del regno, sedia regale, posta e collocata al fiume Istula, e per 18 miglia distante da Sandomir, per copia e frequenzia di clerici, di studenti e di mercatanti celeberrima e famosa.
Dalla qual città, ricevuti li presenti regii e tolta buona licenzia dal re, al quale l'opra mia era grata, ci partimmo, e indi a Lipowez, sotto il castello, di qua poi a 3 miglia ad Oswenzin, castello della Silesia, ma sotto il dominio di Polonia, appresso il fiume Istula situato, giongemmo. Nel qual luogo Sola fiume, il quale, nascendo dalli monti li quali dividono Silesia da l'Ongheria, nel fiume Istula entra. Non troppo lontano, sotto il medesimo castello, è il fiume Preyssa, il quale, dall'altra parte del fiume Istula, Silesia dal dominio di Polonia e Boemia divide, e in Istula entra. Di qua poi a 3 miglia a Pzina (in tedesco Ples), principato in Silesia, della dizione di Boemia; poi per due miglia a Strumen (in tedesco Schwartzvasser), poi a Freystaelth, castello delli duchi teschinensi, il quale Elsa fiume bagna e nel fiume Odera entra; dapoi ad Ostrawa, castello della Moravia, il quale da Ostrawitza fiume è bagnato, e la Silesia dalla Moravia divide; indi poi a 4 miglia in Itschin castello (in tedesco Titzein), e per un miglio ad Hranitza (in tedesco Weissenkirchen) castello, il quale Betwna fiume bagna, e dapoi, per spazio d'un miglio, a Lipnik, e per due miglia ad Wistrica pervenimmo. Dove, mentre per la dritta via camminavamo, a caso da un certo colle Nicolò Czaplitz, nobile della provincia, veggendo che noi andavamo alla volta sua, pigliata un'arma in mano, quasi volesse combattere, con due compagni preparavasi alla pugna. Per il che io, considerando non la temerità e audacia da l'uomo, ma piú presto la imbriachezza, comandai alli servitori che dessero luogo a l'ira e alla pazzia, non facendo altro movimento. Ma quello, sprezzato questo officio, nella gran neve s'era gittato, e con gli occhi tortuosi e minaccievoli ci riguardava, facendo il medesimo verso li nostri servitori che ne seguitavano con le carrette, minacciando loro con la spada in mano di volergli fare dispiacere. Onde da una parte e l'altra nato gridore, ed essendo concorsi li servi, esso Nicolò finalmente da una freccia fu offeso, e il cavallo parimente ferito, sotto quello cascò. Dapoi, seguitando il cominciato nostro viaggio con gli oratori moscoviti, arrivammo ad Olmuzio, dove similmente egli ferito pervenne; e ivi, come abitatore di quella regione conosciuto, raunata una certa moltitudine di quelli uomini li quali erano condotti a cattare e fabricare le piscine, voleva della ricevuta ingiuria fare vendetta; ma io, con maturo consiglio, l'audacia sua ritenni.
Fatto questo ci partimmo da Olmuzio, e per 4 miglia a Bischow, piccolo castello, e per altri 4 miglia a Niklspurg, rocca bella, venimmo, la quale, benchè per spazio d'un miglio di là dal fiume Theya, il quale in molti luoghi l'Austria dalla Moravia divide, sia posta, nondimeno s'accosta alla Moravia e al dominio di quella è sottoposta. Di qua poi a 8 miglia Mistlbach, castellotto dell'Austria, e per altri tre miglia a Ultrichskirchen, e poi per altri tre miglia a Vienna, città nobile e da molt'altri scrittori celebrata, pervenimmo, e certo sino in questo luogo in due carrette intere di Moscovia condusse.
Partitomi da Vienna per 8 miglia a Città Nuova, e di là poi oltra il monte Semring e fra li monti della Stiria fino a Salsburg ne venni. Dapoi in Isprug, castello del contado di Tirolo, ritrovai Cesare, alla maestà del quale non solamente quelle cose le quali io avevo fatte per sue commissioni furono grate, ma eziandio la relazione delle ceremonie e della consuetudine delli Moscoviti. Onde Matteo, cardinale di Salsburg, a Cesare caro molto e principe industrioso e nelli negozii versato, giocosamente in presenzia di Cesare protestò che Cesare non dovesse udire il restante delle ceremonie de' Moscoviti in absenza sua.
Dapoi, essendo espedito e licenziato da Cesare l'ambasciatore di Moscovia, e dovendo io similmente come oratore andare in Ongheria al re Lodovico, il sopradetto ambasciatore moscovito per il fiume Eno e per il Danubio a Vienna condussi, e ivi quello lasciato montai in un carro ongaro, e con quello, avendo buonissimi cavalli sotto, in poche ore feci trentadue miglia, e a Buda pervenni. Ma la causa di tanta prestezza è la commodità della respirazione e permutazione delli cavalli per li giusti e ben ordinati intervalli delle poste; delle quali la prima è nel picciolo castello di Prukh, appresso il fiume Leytha, il quale divide l'Austria dall'Ongheria, e per spazio di 6 miglia è distante da Vienna; la seconda in Owar, piccolo castello, in tedesco Altenburg, ed è cinque miglia; la terza è Iaurina, sedia episcopale. Questo luogo li Ongheri Iurr e li Germani dal fiume Raba, il quale bagna il luogo ed entra nel Danubio, Rab chiamano. In questo luogo, distante da Owar cinque miglia, si permutano li cavalli. La quarta posta è sotto Iaurino sei miglia, nella villa Cotzi, dalla quale villa li carrettieri hanno preso il nome e sono chiamati Cotzi. L'ultima posta è in Wark villa, cinque miglia lontano da Cotzi, dove li ferri delli cavalli, vacillanti, sono rimessi, e le carrette e le briglie rifanno. Le quali tutte cose ristorate, per spazio di 5 miglia a Buda, sedia regale, sono portati. Nella qual città esposta e finita la mia legazione e terminata la dieta, la quale non molto lontano da Buda si faceva, in un luogo il quale volgarmente Rakhusch chiamano, onorevolmente fui licenziato dal re, e a Cesare ritornai, il quale poi, nel mese di gennaio, l'anno del Signore 1519, morí. E questa mia andata in Ongheria ho voluto aggiungere, per essere congionta con la moscovitica, e quasi un medesimo viaggio.


Il viaggio della seconda legazione di Moscovia.

Morto Cesare Massimiliano, fui fatto ambasciatore delli Stiriensi a Carlo, re di Spagna, arciduca d'Austria, eletto romano imperatore, alla maestà del quale similmente dapoi il granduca di Moscovia aveva mandato li suoi ambasciatori acciochè le confederazioni con Massimiliano confirmassero. E all'incontro il nuovo imperatore, per gratificare al granduca, diede commissione al suo fratello Ferdinando arciduca ch'egli operasse con Lodovico, re de l'Ongheria, che facesse di modo con suo zio Sigismondo, re di Polonia, che consentisse di far pace overo tregua con giuste condicioni con il granduca della Moscovia. Onde in Vienna, essendo Leonardo, conte di Nogarola, in nome di Carlo romano imperatore e io in nome di Ferdinando, fratello della sua maestà, infante di Spagna e arciduca d'Austria, eletti ambasciatori, montati in certe carrette ongare, a ritrovare Ludovico, re de l'Ongheria, a Buda venimmo; dove, esposte le nostre commissioni e finiti li nostri negozii, secondo il desiderio nostro pigliammo licenzia e a Vienna ritornammo.
Dapoi, insieme con li oratori di Moscovia, li quali allora erano tornati di Spagna da Cesare imperatore, usciti fuora, ci mettemmo in viaggio e venimmo a Mistlbach, 6 miglia; a Wisternitz, 4 miglia, a Wischa, 5 miglia; a Olmuzio, 4 miglia; a Sternberg, 2 miglia; a Parno, dove sono le miniere del ferro, 2 miglia; ove un ponte, posto sopra il fiume Morava, passammo, e ivi lasciata da parte la Moravia nella città e principato della Silesia entrammo; dapoi in Iagerndorff, 3 miglia; a Lubschia, 2 miglia; a Glogovia, 2 miglia; a Crepitza, 2 miglia. Dapoi, appresso il fiume Odera, arrivammo in Opolia città, dove l'ultimo duca delli Opoliensi aveva la sua sedia, per 3 miglia. Dapoi per 7 miglia ad Oleschno, in tedesco Rosenberg, di là dal fiume Malpont, il quale allora per la moltitudine delle acque oltre modo era abondante; poi a 2 miglia pervenimmo a Crepitza, vecchio castello di Polonia. Nel qual luogo intendendo noi il re di Polonia essere in Pietercovia castello, dove li governatori del regno sogliono celebrare li comizii, cioè le loro diete, mandammo avanti il servitore, il quale ne riferí che 'l re per la dritta via era per andare alla volta di Crocovia. Onde noi, mossi da Crepitza, a quel luogo drizzassimo il nostro viaggio, e primamente a Clobutzho, 2 miglia, poi a Czestochow, 3 miglia, il quale è un monasterio dov'è una imagine della beata Vergine, la quale con grandissimo concorso di popolo e specialmente delli Ruteni è venerata; poi a Schaki, 5 miglia; a Cromolow, 3 miglia; a Ilkucsch, 4 miglia, dove sono le minere del piombo; poi finalmente, fatti 5 miglia, il secondo giorno di febraio arrivammo in Cracovia, dove niun onore ci fu fatto, niuno ci venne incontro e niuno alloggiamento era apparecchiato per noi, e niuno delli cortegiani usò verso di noi officio d'umanità né di salutazione alcuna, come se della venuta nostra cosa alcuna intesa e udita non avessero.
Dapoi, ottenuta l'entrata per parlare al re, la cagione della nostra legazione ricercava, e l'ufficio delli nostri principi come fatto fuor di tempo riprendeva, specialmente vedendo gli oratori moscoviti, ritornati di Spagna, essere con noi, e perciò qualche cosa di male si pensava del duca di Moscovia. Onde ci disse: "Qual vicinanza o qual congiunzione di sangue è tra li principi vostri e li Moscoviti, che cosí si sono messi di mezo, specialmente non essendo stati richiesti da quello, onde facilmente potrebbe egli constringere il nimico a condizioni eguali di pace?" Noi dall'altra parte li consigli pii e cristiani e la mente sincera delli nostri principi dimostravamo, e quelli niuna cosa piú desiderare che la pace, la concordia e la mutua amicizia fra li principi cristiani, e quella con ogni studio e arte procurare. Dicevamo ancora: "Se non ti pare che le nostre commissioni seguitiamo piú avanti, overo ritorneremo adietro, non espedita la cosa, overo avviseremo ciò alli nostri principi e aspetteremo la risposta". La qual cosa udita dal re, alquanto piú umanamente e piú liberamente fummo trattati. In quel tempo mi venne occasione di dimandare i mille fiorini li quali la madre della regina Bona mi aveva promesso per aver trattato le nozze della figliuola, secondo la commissione fattami da Cesare Massimiliano; onde, data sottoscrizione al re, quella benignamente ricevette da me, e promise al mio ritorno di sodisfare: e alla tornata mia del tutto fui satisfatto.
Alli 14 di febraio, partitici da Cracovia, montassimo nelli soliti veicoli, over carrette, e con assai commodo viaggio passammo per li castelli di Polonia: Cortzin, nuova città, Poloniza, Ossek, Pocrovitza, Sandomeria, Sawichost, Ursendoff, Lublin, Parczow. E poi di là a 3 miglia arrivammo a Polovizza, castello della Litwania, dove in molti luoghi, per rispetto delle molte paludi, per li ponti passammo. E di qui poi a Rostovsche, 2 miglia; a Pessiczatez, 3 miglia; a Briesti, 4 miglia, castello grande con la rocca, appresso il fiume Buh, nel quale Muchavetz scorre. Poi a 5 miglia a Camenetz castello, con la torre di pietra nella rocca di legno; di qui poi, passati due fiumi, Oschna e Beschna, e fatti 5 miglia, a Schereschova, castello novamente edificato nella gran selva al fiume Lisna, il quale per Camenecz scorre, venimmo. Dapoi a Nowidwor, 5 miglia; a Porossova, 2 miglia; a Wolkhowitza, 4 miglia, arrivammo; dove in tutta la nostra andata non avemmo il piú commodo alloggiamento. Di qui poi a Pieski castello, appresso il fiume Selwa posto, il qual da Wolinia, provincia d'essa Russia, scorre, e nel fiume Nemen entra; poi, per spazio d'un miglio, a Mostu castello, posto appresso il fiume Nemen, il quale nome dal ponte pigliò, perciochè most vuol dire ponte.
Poi arrivammo a Czutzma, 3 miglia; a Basiliski, 3 miglia; a Radomi, 5 miglia; ad Hestlitschkami, 2 miglia; a Rudniki, 5 miglia; a Vilna, 4 miglia, benchè per questa via da Wolkchovitza non pervenissimo a Vilna, ma, piegando il nostro corso alla man destra, verso oriente passammo per Solva, Slonin, Moschad, Czernig, Oberno, Ottmut, Cadayenonw, Miescho castello, il quale è distante da Wolcowitza 35 miglia. E di qui tutti li fiumi entrano nel Boristene, e gli altri detti nel fiume Nemen entrano. Dapoi arrivammo a Borissow, castello posto al fiume Beresina, 18 miglia; poi a Reschak, 40 miglia; ma in quelli luoghi, per rispetto delle grandissime solitudini, non usassimo se non la via commune e usitata, lasciando alla man destra Moligew castello, con intervallo di 4 miglia. Dapoi, seguitando il nostro viaggio, passammo per Schklow, 6 miglia; Orsa, 6 miglia; Dobrowna, 4 miglia, e per altri luoghi nel primo nostro viaggio dichiariti ed esposti, e poi finalmente in Moscovia ne venimmo. Dove longamente trattammo della pace fra li sopradetti principi, ma nondimeno mai potemmo avere altra risposta che questa: "Se 'l re di Polonia vuol far la pace con esso noi, mandi li suoi oratori secondo il consueto, e noi vorremo la pace con esso lui onesta e convenevole". Onde noi, per tali parole mossi, mandammo finalmente alcuni delli nostri al re di Polonia (il quale allora era nella città gdanense) che per amor nostro mandasse li suoi al duca di Moscovia; e cosí egli mandò per suoi oratori Pietro Gysca, palatino plocense, e Michel Bohusch, tesoriero della Litwania.
Il principe di Moscovia, intendendo che gli oratori litwani non erano troppo lontani dalla Moscovia, sotto pretesto di voler andare alla caccia per ricreare l'animo suo, in tempo non molto a proposito a Mosaisko, luogo abondantissimo di lepri, se n'andò, e fece chiamare noi altri, acciò che i Litwani non entrassero nella città. E cosí impetrata e confirmata la tregua d'una parte e l'altra, alli 11 di novembre fummo licenziati. E il principe ci dimandava per qual via noi fossimo per ritornare alla patria nostra, perciochè avea inteso il gran Turco essere a Buda, però sapeva quel ch'egli avesse fatto. Finalmente, partiti della Moscovia, per quella medesima via ritornammo adietro per la quale già eramo venuti, e a Dobrowna giunti, ivi le nostre robbe, le quali avevamo mandate da Wiesma per il fiume Boristeno, ricevemmo. E in questo luogo pristawo lituano, il quale ci aspettava, ritrovammo, e da lui intendemmo Lodovico, re dell'Ongheria, esser morto.
Partiti da Dobrowna, per spazio di 4 miglia venimmo a Orsa, e di qui poi per quel medesimo viaggio il quale nel primo mio ritorno avevo fatto pervenimmo a Vilna, dove da Giovanni, figliuolo naturale del re e vescovo vilnense, umanamente fossimo ricevuti e lautamente trattati. Dapoi di qui partiti andammo a Rudnik, 4 miglia; a Wolkonik, 3 miglia; a Meretsh castello, 7 miglia, il quale ha il nome dal fiume del medesimo nome; a Osse, 6 miglia; a Grodno principato, 7 miglia, posto appresso il fiume Neme; a Grinki, 6 miglia. Al qual luogo andando noi al primo di gennaio, era tanto duro e crudel freddo, e tanto l'impeto del vento che tirava la neve in aere in là e in qua spargendola, che li testicoli delli cavalli, congelati e corrotti, s'erano spiccati e caduti. Il naso similmente, se a tempo per ricordo del nostro pristavo non avessi remediato, arei quasi perduto. Entrato nell'albergo, cominciai destramente a fregare e maneggiare il naso, e finalmente quello, non senza dolore, cominciai a sentire; e nascendovi di sopra come una certa rogna, dapoi seccossi, e cosí fui guarito. Oltra di questo, un certo gallo moscovitico secondo il costume germanico sedendo sopra il carro, e già per il gran freddo morendo, il servitor nostro subito taglioli la cresta, la quale per il gran freddo era congelata, e in questo modo non solamente lo salvò, ma subito, alzato il collo, con grandissima maraviglia di tutti noi cantò.
Partiti da Grinki e passando per una gran selva, venimmo a Narew, 8 miglia; a Bielsco, 4 miglia; a Milenecz, 4 miglia; a Milenik, 3 miglia; a Loschitzi, 7 miglia. Dapoi, fatti otto miglia, arrivammo a Lucow, castello della Polonia, posto appresso il fiume Oxi. Il luogotenente di questo luogo si chiama starosta, come dire vecchio, e sotto la sua ubidienza ha tremila nobili. Sono ivi alcuni villaggi, nelli quali tanto numero de nobili vi è cresciuto che niun altro vi abita. A Oxi, castello posto appresso il fiume di quel medesimo nome, 5 miglia; a Steschicza, castello sotto il quale è il fiume Wiepers, il quale entra nel fiume Istula, 5 miglia; a Swolena castello, 5 miglia. Nel qual luogo, passato il fiume Wiepers, seguitassimo il nostro viaggio alla volta di Senna, 5 miglia; Polki, 6 miglia; Schidlow, castello cinto di muro, 6 miglia; Wislicza, castello murato in un certo lago posto, 5 miglia; Prostwicza, 6 miglia. E di qui poi 4 miglia, finalmente ritornammo in Cracovia, dove trattai molte cose con il re fuora della mia commissione, le quali io sapevo dover essere grate al principe nostro, nuovamente eletto re delli Boemi.
Usciti poi fuora della città di Cracovia e drizzando il nostro viaggio alla volta di Praga, passammo a Cobilagora, 5 miglia; a Ilkusch, dove sono le minere del piombo, 2 miglia a Bensino castello, 5 miglia, sotto il quale, con poco intervallo, il fiume Pieltza divide la Polonia dalla Silesia. Poi a Pielscowicza, castello della Silesia, 5 miglia; a Cosle, castello murato appresso il fiume Odera, il quale Viagro chiamano, 4 miglia; a Biela, 5 miglia; a Nissa, 6 miglia, città e sedia episcopale delli vescovi vratislaviensi, dove da Giacomo vescovo umanissimamente fossimo ricevuti e bene trattati. Dapoi a Otmachaw, castello del vescovo, 2 miglia; a Baart, 3 miglia; a Glacz, castello della Boemia, contado, 2 miglia; a Ranericz, 5 miglia; a Ieromierss, 5 miglia; a Bretschaw, 4 miglia; a Limburg, 4 miglia, città posta appresso il fiume Albi. E dapoi finalmente per 6 miglia pervenni a Praga, capo del regno di Boemia, posta e situata appresso il fiume Moltava. In questa città io ritrovai il mio principe, già eletto re delli Boemi e chiamato alla coronazione, alla quale, alli 14 di febraio, fui presente. Gli oratori del granduca di Moscovia, li quali mi seguitavano e a' quali, per officio e onore, io ero andato incontro, mentre la grandezza della rocca e della città contemplano e bene riguardano, dicevano quello non essere un castello, overo una città, ma un regno, il quale per la fortezza sua espugnare non si potrebbe se non con grandissima effusione e spargimento di sangue.
Il re, clemente e pio, udita la mia relazione e consulto sopra le cose le quali allora soprastavano, l'ebbe molto care, ed ebbe gratissime quelle cose le quali di commissione sua aveva trattate, e parimente quelle che fuori della commissione aveva negociate, e giudicando che dovessero essere a beneficio del regno. E vedendomi per le molte fatiche e disagi malato, mi promise la sua buona grazia, della quale io godo infinitamente, vedendo che l'opera mia gli è stata gratissima.



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