Giovanni
Battista Ramusio
NAVIGAZIONI
E VIAGGI
Volume
Quinto
Discorso di messer Gio. Battista Ramusio sopra il terzo volume delle Navigazioni e Viaggi nella parte del mondo nuovo.
All'eccellente messer Ieronimo Fracastoro.
Avendo Platone, eccellente Signor mio, da scrivere quel famoso e divino Dialogo nominato il Timeo, dove tratta della natura dell'universo, tolse per suo principio l'istoria dell'isola Atlantide, e dei re e dei popoli che abitavano in quella, e come combatterono con gli Ateniesi e furono vinti da loro. Egli fa raccontare questa istoria, come ben sa Vostra Eccellenzia, da un Crizia, che diceva averla intesa da un suo avolo detto similmente Crizia, il qual fu al tempo di Solone, uno de' sette savii della Grecia, e la seppe in questo modo: che essendo andato Solone in Egitto ad una città detta Saim, posta dove il fiume Nilo dividendosi fa l'isola Delta, quivi parlò con alcuni sacerdoti peritissimi dell'antichità del mondo, i quali li dissero che essi avevano memorie d'infinite cose, le quali erano avvenute avanti il diluvio di Deucalione e l'incendio di Fetonte; perciochè questa guerra de' popoli atlantici con gli Ateniesi fu molto prima del sopra detto diluvio e incendio. Il qual sacerdote parlò a Solone in questa forma:
"Molte veramente e mirabili opere si leggono, o Solone, d'alcune città nelle scritture e memorie nostre antiche: ma sopra l'altre d'una impresa per la sua grandezza e virtú singolare e maravigliosa. È fama che la vostra città altre volte facesse resistenza ad una innumerabile moltitudine di genti, le quali, venute dal mare Atlantico, quasi tutta l'Europa e l'Asia aveano assediato. Quel mare allora si potea navicare, e avea nella bocca e quasi nella prima entrata un'isola, dove voi chiamate le colonne d'Ercole, la qual si diceva ch'era maggior che non è tutta l'Africa e l'Asia insieme, e da quella si poteva andar all'altre vicine isole, e dall'isole poi alla terra ferma, ch'era posta all'incontro vicina al mare, ma dentro della bocca v'era un picciol colfo con un porto. Il mare profondo di fuori era il vero mare, e la terra di fuori il vero continente. Questa isola si chiamava Atlantide, e in quella era una maravigliosa e grandissima potenza di re che signoreggiavano e tutta la detta isola e molte altre e grandissima parte di quella terra che abbiamo detto esser continente, e oltre di ciò queste nostre parti ancora; perciochè erano signori della terza parte del mondo, che è chiamata Africa, insino all'Egitto, e dell'Europa insino al mare Tirreno. Ora, essendosi la potenza di costoro messa insieme, se ne venne ad assaltare il nostro e anco vostro paese, e tutte le parti che sono dentro delle colonne d'Ercole. Allora, o Solone, la virtú della vostra città verso tutti i popoli si dimostrò chiara e illustre; perciochè avanzando di gran lunga in eccellenza tutti gli altri, sí di grandezza d'animo come di perizia dell'arte militare, e in compagnia degl'altri Greci e anco sola, essendo stata da loro abbandonata, sostenne tutti gli estremi pericoli che dir si possano, fin che espugnò e mandò a terra i detti nemici, per conservare e restituire agli amici la lor primiera libertà. Poichè fu condotta a fine l'impresa, avvenne che, fattosi un grandissimo terremoto e inondazione, che durò per ispazio d'un giorno e d'una notte, la terra s'aperse e inghiottí tutti quei valorosi e bellicosi uomini, e l'isola Atlantide si sommerse nel profondo del mare. Il che fu cagione che da quel tempo in poi non s'è potuto navicare, per il gran fango e terra che v'è rimasa dell'isola sommersa".
Questa è la somma delle cose che Crizia il vecchio diceva avere inteso da Solone. Ora questa isola e guerra, da grandissimi filosofi che hanno commentato il detto Dialogo del Timeo, è stata riputata favola e cosa allegorica, perciochè alcuni hanno detto che ella voglia significar l'opposizioni che si fanno nell'universo, altri l'opposizioni che si fanno tra li pianeti e la terra, o vero la discordia fra li demonii superiori e inferiori e infinite altre chimere. Ma la verità è questa, che avendo Platone a scriver della fabrica del mondo, il qual teneva esser stato fatto per collocarvi l'uomo, animal divino, acciochè, vedendo egli tanti ornamenti di stelle nel cielo e il moto di cosí stupendi e maravigliosi luminari, conoscesse il suo fattore e conoscendolo di continuo lo laudasse, gli pareva cosa pur troppo fuor di ragione che due parti d'esso fossero abitate e l'altre prive d'uomini: e 'l sole e le stelle con loro splendore facessero la metà del corso indarno e senza frutto, non lucendo se non al mare e a' luoghi deserti e privi d'animali. E però, intesa che egli ebbe questa istoria de' sacerdoti d'Egitto, nella quale si faceva menzione d'un'altra parte del mondo oltra l'Asia e l'Europa e l'Africa, l'ammirò grandemente e, come cosa sacra e conforme a' suoi pensieri, la volse porre nel principio del predetto Dialogo. E veramente noi siamo, oltra gl'infiniti doni concessine da Iddio, obligati grandemente a sua divina Maestà di questo sopra tutti gli altri uomini stati nei secoli passati, che a' nostri tempi si sia scoperta questa nuova parte del mondo, della quale in cosí lungo spazio di tempo non se n'è avuta notizia, e appresso che siamo chiari come sotto la nostra Tramontana e sotto la linea dell'equinoziale vi siano abitatori, e che vivono cosí commodamente come fanno l'altre genti nel rimanente del mondo, la qual cosa gli antichi negarono.
Ma non sarà fuor di proposito (benchè Vostra Eccellenza sappia benissimo tutte queste cose) di parlar alquanto della Tramontana, avendo noi in diversi altri nostri discorsi a bastanza dimostrato sotto la detta linea il tutto essere abitato, con grandissimo temperamento d'aere, ma di quest'altra parte non n'avendo toccato, se non un poco nel parlar che facemmo del viaggio che per fortuna fece il magnifico messer Pietro Querini, gentiluomo veneziano, sotto la Tramontana, come si legge nel secondo libro de' Viaggi. E però qui ci sforzeremo il meglio che sapremo di dimostrare il maraviglioso e stupendo effetto che si vede far il sole, e sopra la linea e sotto ambedue i poli in un istante, ma diversamente e al contrario l'uno dall'altro. Avendo quel supremo e divino Fabricatore disposto il tutto con tanto artificio che, presso a coloro i quali sono sotto l'equinoziale, e hanno l'orizonte che passa per i due poli, il giorno è di ore dodeci e la notte d'altretante, e l'anno loro è diviso in 12 mesi, quelli che abitano sotto la nostra Tramontana, e che hanno l'orizonte il qual passa sopra la detta linea, e il polo per zenit, hanno il giorno di sei mesi continui, cioè cominciando da' 25 di marzo, che 'l sole vien sopra il detto orizonte, fin che ritorna a passar di sotto agli 8 di settembre; e all'incontro una notte d'altri sei mesi hanno gli abitanti sotto l'Antartico, e il lor anno, cioè tutto il corso che fa il sole per li 12 segni del zodiaco, si compie in un giorno e una notte.
Cosa veramente stupenda e maravigliosa, perchè, quando noi abbiamo la state, quelli che son sotto la nostra Tramontana hanno il giorno di detti sei mesi, e quelli dell'altra opposta la notte del medesimo spazio; e quando è il verno presso di noi, sotto la nostra Tramontana è la notte di detti sei mesi, e nella opposta il giorno d'altretanta lunghezza; sí che a vicenda ora i nostri hanno il giorno, ora quelli dell'altra, e al medesimo modo la notte. La quale, ancorchè sia cosí lunga e di tanto spazio di tempo, non è però di continue e oscurissime tenebre, ma il sole fa il suo corso con tal ordine che gli abitanti nella detta parte non come talpe vivono sepolti sotto terra, ma come l'altre creature che sono sopra questo globo terreno vengono illuminate, sí che possono benissimo sostenersi e riparar la lor vita; perciochè il corpo solare non declina mai, né di sotto della detta linea né di sopra di quella, che è l'orizonte di ambidue i poli, piú di 23 gradi, e anco in questi 23 non cammina per diametro opposto, ma va di continuo circondando attorno, sí che i suoi raggi, percotendo il cielo, rappresentano a loro quella sorte di luce ch'abbiamo noi qui la state due ore avanti che 'l sole lievi.
E questo esempio che abbiamo preso, della diversità degli orizonti dell'equinoziale e di sotto i poli, è stato per dimostrare il mirabile effetto che fa il sole, partendosi delle ore dodeci e venendo pian piano illuminando il globo della terra, riducendo l'anno di dodeci mesi in un sol giorno e una notte, come di sopra è stato detto; sotto l'infinite varietà del corso del quale, ora con giorni lunghi, ora con brevi, tutti gli abitanti sono stati formati e disposti con tal complessione e fortezza di corpo, che ciascuno è proporzionato al clima assegnatoli, o caldo o freddo che sia, e vi può abitare e ripararsi come in luogo suo naturale e temperato, non si lamentando o cercando di partirsi e andare altrove, ma si contenta di starvi per l'amor naturale del sito suo natio. Perciochè ragionevolmente non è da credere che il fattore di cosí bella e perfetta fabrica come sono i cieli, il sole e la luna, non abbia voluto che, essendo ella fatta con tanto stupendo e maraviglioso ordine, il sole non illumini se non una particella di questo globo che chiamano terra, e il resto del suo corso sia in vano sopra mari, nevi e ghiacci; ma l'ha coperta in ciascuna sua parte di diversi animali, e sopra gli altri dell'uomo, come padrone e signor di tutti, per cagion del quale ella era stata fabricata, avendolo dotato di quella divina e celeste parte che è l'anima: e appresso ha disposti e in ciascun luogo compartiti i doni necessarii al vivere, piú e meno, secondo che alla divina sua providenza è piaciuto. Di maniera che chi leggerà l'Istoria del reverendissimo monsignor Olavo Magno, gotto, arcivescovo d'Upsala, delle genti e natura delle cose settentrionali, descritta in 22 libri, quali ora si traducono di lingua latina nella toscana per dargli alla stampa, chiaramente conoscerà che questa tal parte di sotto la nostra Tramontana è tutta abitata d'infiniti popoli delle provincie e regioni di Biarmia, Finmarchia, Scrifnia, Lappia e Botnia, poste sotto li regni di Norvega e Svezia.
Ma per non partirmi dal parlar del viaggio che fa il sole in un anno intero, ora appressandosi a noi e ora allontanandosi, dico che in un medesimo tempo in diverse parti sopra questa rotondità della terra egli causa primavera, state, autunno e verno, e nel medesimo istante, e quasi punto, si veggono apparire i raggi del sole, esser mezzodí, e farsi sera e mezzanotte. La qual varietà, quantunque paia incomprensibile alla picciolezza dell'ingegno umano, pure, speculandola con l'occhio dell'intelletto, e mettendo avanti di quello il moto inestimabile che di continuo fa il sole, vedrassi esser vera a rispetto della diversità de' siti della terra che di continuo vengono illuminati. La qual varietà è fatta con tanta armonia e consonanza, e con una legge cosí immutabile e perpetua, che ogni picciol punto che vi mancasse si dubiteria che tutti gli elementi si confondessero insieme e ritornassero nel primo caos.
Ora, per le cose dette di sopra, penso che non ci sia piú dubbio alcuno che sotto l'equinoziale e sotto ambidue i poli non si trovi la medesima moltitudine degli abitanti che sono in tutte l'altre parti del mondo; e che per questo nuovo scoprir dell'Indie occidentali non si conosca chiaramente quanto tutti gli antichi filosofi con le lor sapienze e gran speculazioni si siano ingannati, pensando che la fabrica di questo mondo, fatta in ogni sua parte con sí mirabil disposizione e da cosí perfetto maestro, fosse la metà sotto il mare, difforme e guasta, e per il caldo e per il gielo inabitata.
Ritornando adunque al primo nostro proponimento, dico che questa parte del mondo nuovo fu trovata nell'anno 1492 dal signor don Cristoforo Colombo genovese, come si vedrà per un Sommario che scrisse in quei tempi don Pietro Martire milanese, che allora stava in Spagna col re catolico, e anco per un altro ch'ha scritto il signor Gonzalo Fernando d'Oviedo, ch'è tanto amico della Eccellenza Vostra, il qual Sommario egli ampliò dapoi e divise in tre parti, chiamandole l'Istorie generali e naturali dell'Indie, delle quali n'è venuta in luce la prima, come si leggerà in questo volume. L'altre due, cioè la seconda, che contien il discoprir di Mexico e la Nuova Spagna, e la terza, dell'acquisto della gran provincia del Perú, essendo, sí come ho inteso, venuto il prefato signor Gonzalo gli anni passati dall'isola Spagnuola fino in Sibilia per farle stampare (non so che cosa vogliamo dir che sia stata cagione) con gran danno de' studiosi di questa cognizione, egli poco dapoi se n'è ritornato alla città di S. Domenico nella Spagnuola, riportando seco dette due parti d'istoria soppresse. Nelle quali, secondo ch'egli medesimo scrisse all'Eccellenza Vostra quest'anni, v'erano piú di 400 figure de' ritratti delle cose naturali, come animali, uccelli, pesci, arbori, erbe, fiori e frutti delle dette due parti dell'Indie. Il che è stato di gran perdita a' studiosi, che desiderano di legger e intender particolarmente e piú volentieri le cose sopradette dalla natura prodotte in quelle parti, dissimili da quelle che nascono presso di noi, che di saper le guerre civili ch'hanno fatte molt'anni gli Spagnuoli tra loro, ribellandosi alla maestà cesarea di Carlo V imperatore per l'immensa ingordigia dell'oro.
Delle quali guerre tutti gl'istorici spagnuoli di questi tempi s'hanno affaticato e affaticano continuamente di scrivere con un'estrema diligenza, notando che ne' fatti d'arme di Salinas, Chupas, Quito, Guarina, Xaquixaguana v'erano i tali e tali capitani, alfieri e adelantadi, co' nomi di tutti i soldati spagnuoli, sí da cavallo come da piedi, e in qual città di Spagna ciascun di lor nacquero, cosa vana e ridicolosa; delle cose naturali veramente sopradette se ne passano brevemente, se non in quanto non possono far di meno di non nominarle alle fiate. Che all'incontro in dette due parti d'istoria del nostro signor Gonzalo vi sono scritte molte cose notabili, e fra l'altre che 'l Messico è in 19 gradi di latitudine di sopra la linea dell'equinoziale, e cento dall'isole Fortunate, dove Tolomeo incomincia le longitudini. Parimente, che v'è differenza d'ore otto del sole dalla città di Messico a quella di Toledo in Spagna, il che è stato osservato con gli ecclissi, cioè che 'l sole nasce otto ore avanti in Toledo che non fa nel Messico; e che 'l sole a' 18 di maggio passa sopra il Messico per andare al tropico di Cancro, e ch'ei ritorna indietro sopra detta città a' 15 di luglio, e getta l'ombre in tutto quello spazio di tempo verso mezzodí, e non vi è caldo di qualità che alcuno sia sforzato a lasciare le vesti; che 'l paese è molto sano e temperato, e nei monti che circondano la laguna del Messico, in gran parte simile a quella di questa nostra gloriosa città di Venezia, vi sono molti luoghi ameni per andar a piacere. E medesimamente come, all'incontro del mal francese, che già fu condotto a noi di dette Indie, i nostri vi portarono il male delle varuole, che mai piú non era stato veduto né udito in quelle parti: e furono alcuni marinari giovani dell'armata di Panfilo Narbaez, ai quali venne detto male, e lo communicarono con gl'Indiani della Spagnuola, in guisa che, d'un millione e seicentomila anime ch'erano sopra detta isola, non se ne ritrovano al presente intorno a 500, tanto questa malattia di varuole, accompagnata d'infiniti strazii e fatiche che gli fecero far gli Spagnuoli, ebbe poter di levar loro la vita. E non solamente nella Spagnuola, ma è passata questa contagione talmente alla Nuova Spagna e anco oltra il mar del Sur nel Perú, che molte provincie sono rimaste deserte e disabitate da Indiani per cagione di queste varuole, e delle guerre civili che hanno fatte gli Spagnuoli fra loro.
Si leggeva anco in detta istoria del signor Gonzalo, la forma e modo come essi con alcune imagini ieroglifice descrivono le loro istorie e notano le memorie dei loro re del Messico, che sono certe figure d'animali, fiori e uomini fatti in diversi atti e modi: sí come s'è veduto in quei libri che 'l detto signor Gonzalo mandò a donare a V.E. e a me, gli anni passati, pieni di varie figure e bizzarrie. Oltra di questo si trattava come nella provincia del Perú, per aver memoria de' loro re e degli anni che hanno regnato, fanno in questo modo, che hanno case grandi con alcune persone diputate, le quali tengono il conto delle cose segnalate con alcune corde fatte di bombagio, che gl'Indiani chiamano quippos, dinotando i numeri con groppi fatti in diversi modi, e cominciano sopra una corda da uno fino a dieci, e d'indi in su, mettendovi la corda del color della cosa che essi vogliono mostrare e significare. E, come è detto, in ciascuna provincia vi sono questi tali, ch'hanno carico di metter sopra quelle corde le cose generali, e chiamano quippos camaios. E se ne trovano case publiche piene di dette corde, con le quai facilmente dà ad intender, colui che n'ha il carico, le cose passate, benchè elle siano di molta età avanti di lui, sí come noi facciamo con le nostre lettere.
Ora, queste due parti d'istoria del detto signor Gonzalo non essendo venute ancora in luce, ed essendo stato divulgato che egli l'avea portate indrieto alla isola Spagnuola, forse per non volerle per ora publicare, acciochè gli studiosi di simili lezioni non stessero piú con l'animo sospeso, ma potessero in qualche parte sodisfarsi leggendo le cose che si trovano scritte di questo mondo nuovo, ho usato diligenza di far mettere insieme i sommarii e le relazioni che furono scritte dai medesimi capitani nel principio del trovar di quello. Il che s'è fatto nel miglior modo ch'è stato possibile, ancora che abbiamo avute le copie incorettissime; perciochè in ogni modo, per quel che vien detto, le due parti della detta istoria che non abbiamo potuto avere sono state tratte da simili relazioni.
Nell'ultima parte di questo volume sono state poste alcune relazioni di messer Giovanni da Verazzano fiorentino e d'un capitan francese, con le due navigazioni del capitan Iacques Carthier, il qual navigò alla terra posta sotto la Tramontana gradi 50, detta la Nuova Francia; delle quali fin ora non siamo chiari s'ella sia congionta con la terra ferma della provincia della Florida e della Nuova Spagna, overo s'ella sia divisa tutta in isole, e se per quella parte si possa andare alla provincia del Cataio, come mi fu scritto già molti anni sono dal signor Sebastian Gabotto nostro viniziano, uomo di grand'esperienza e raro nell'arte del navigare e nella scienza di cosmografia. Il qual avea navicato disopra di questa terra della Nuova Francia a spese già del re Enrico VII d'Inghilterra, e mi diceva come, essendo egli andato lungamente alla volta di ponente e quarta di maestro dietro queste isole, poste lungo la detta terra fino a gradi 67 e mezo sotto il nostro polo, a' 12 di giugno, e trovandosi il mare aperto e senza impedimento alcuno, pensava fermamente per quella via di poter passar alla volta del Cataio orientale: e l'avrebbe fatto se la malignità del padrone e de' marinari sollevati non l'avessero fatto tornare adietro. Ma Iddio forse riserba ancora lo scoprir di questo viaggio al Cataio per questa via, il qual per condur le spezie sarebbe piú facile e piú breve di tutti gli altri fin ad ora trovati, a qualche gran prencipe, come fa anco il discoprir l'altra parte della terra verso l'Antartico: il che fin al presente non vi è alcuno che abbia voluto o tentato di fare. E veramente questa sarebbe la maggiore e piú gloriosa impresa che alcuno imaginar si potesse, per fare il suo nome molto piú eterno e immortale a tutti i secoli futuri di quello che non faranno tanti travagli di guerra che di continuo si veggono nell'Europa fra i miseri cristiani.
Nel fine adunque di questo nostro discorso non pur è convenevole, ma parmi anco d'essere obligato a dire alquante parole accompagnate dalla verità per diffesa del signor Cristoforo Colombo, il quale fu il primo inventore di discoprire e far venire in luce questa metà del mondo, stata tanti secoli come sepolta e in tenebre, tal che a' tempi nostri s'adempia il detto del profeta della nostra santissima fede: "In omnem terram exivit sonus eorum", avendolo il nostro Signor Iddio eletto e datogli valore e grandezza d'animo per far cosí grande impresa. La qual essendo stata la piú maravigliosa e la piú grande che già infiniti secoli sia stata fatta, molti maestri, pilotti e marinari di Spagna, parendo loro in questa cosa esser tocchi pur troppo adentro nell'onore, essendo palese al mondo che ad un uomo forestiero e genovese era bastato l'animo di far quello che essi non avevano mai saputo né tentato di fare, s'imaginarono, per abbassar la gloria del signor Cristoforo, una favola piena di malignità e di tristizia.
Dipoi gli istorici spagnuoli, che scrivono tutto questo successo, non potendo far di meno di nominar l'auttore di cosí stupendo e glorioso fatto, che ha portati tanti tesori alla corona di Castiglia e a tutta la Spagna, tolsero ad approvar la detta favola e dipingerla con mille colori, la qual è tale. Che un padrone di caravella, navigando per il mare Oceano, fu assaltato da un vento di levante tanto sforzevole e cosí continuo che lo condusse nell'Indie occidentali; e che, ritornato poi indietro, per la fame e per li travagli non gli erano restati se non due o tre marinari, e quelli infermi, i quali, dapoi che furono giunti, incontanente morirono; e che anche il padrone mal condizionato alloggiò in casa del Colombo, il quale era suo amico, e perchè egli sapeva far carte da navicare, gli volse mostrar la terra che esso avea scoperta per la fortuna, e per qual vento aveva fatto questo pareggio. Alcuni dicono che questo padrone era d'Andaluzia, e facendo il viaggio delle Canarie nel suo ritorno arrivò all'isola della Madera, dove allora si trovava Colombo. Altri affermano che era biscaino, il qual andava in Inghilterra carico di tante vettovaglie che li furono bastanti per l'andarvi e per il ritorno. Altri vogliono ch'ei fosse certo Portoghese, che veniva dal castel della Mina; e chi dice ch'egli arrivò in Portogallo, chi all'isole d'Azori e chi alla Madera. E di questo non sanno però alcun di loro affermar cosa alcuna certa, ma ben tutti in ciò si conformano, che 'l detto, arrivato in casa del Colombo, fra spazio di pochi giorni vi morí, e in poter del Colombo rimasero le scritture e le relazioni del detto viaggio, e che per questa informazione il signor Cristoforo si pose in animo d'andare poi a trovar queste terre nuove.
Favola veramente e invenzione ridicolosa, composta e formata con tanta malignità, in pregiudicio del nome di questo gran gentiluomo, quanto dire o imaginar si possa. Né mi pare che l'uomo per confutarla si debba troppo affaticare, essendo assai chiaramente per se medesima conosciuta esser senza alcun fondamento, e finta con molta confusione, non esprimendo alcuno di questi né il luogo, né il tempo, né il nome dell'auttore, ma solamente volendo che si porga fede alla loro semplice parola. Ed è da credere che quelli, i quali volessero torre a provar con simil via che questo pilotto sia stato il primo a trovar queste Indie, appresso ogni prudente e giusto giudice sarebbono riprovati per manifesti calunniatori. Perchè se il signor Cristoforo Colombo avesse fatta questa impresa già 200 anni, la lunghezza del tempo potrebbe forse oscurar qualche parte della verità, e molte finzioni di simili favole potrebbono essere da alcuno credute; ma egli la fece del 1492, nel conspetto e negli occhi di tutto quel regno. E oggidí ancor vivono nella Spagna e nell'Italia di quelli che si trovarono alla corte quando esso fu spedito per andar al detto viaggio; dove non apparve pur un minimo segno di sospizione, né detto parola alcuna di questa caravella né d'altro marinaro: anzi tutto il mondo sapeva ed era chiaro che, perchè il detto era grandissimo marinaro e molto ben pratico del quadrante e dell'altezze del sole e dell'elevazioni del polo, e che aveva navigato gran parte della sua età per tutto il Mediterraneo e per l'Oceano verso Inghilterra, e verso mezogiorno alle Canarie e anco in Portogallo, sovra i liti del quale aveva osservato in certo tempo dell'anno una continua cola di venti di ponente, che tutte queste cose l'inducevano a voler far questo viaggio, avendo fisso nell'animo che, andando a dritto per ponente, esso troverebbe le parti di levante ove sono l'Indie.
E che ciò sia la verità, in tutta la corte a quel tempo non si parlò mai altramente: di che ne dà chiara testimonianza nella sua istoria don Pietro Martire, scrittor celebre in que' tempi che allora stava in Spagna a' servizii di quelli serenissimi re di gloriosa memoria, i quali, veduto il felice successo del viaggio, si trovarono tanto satisfatti del servizio suo che lo divulgarono per tutto il mondo, esaltandolo e inalzandolo fin al cielo, e gli fecero tutti quegli onori che si possono imaginar maggiori, confermandogli i privilegi che gli aveano fatti delle decime di tutte l'entrate e diritti reali che si cavassero di tutte le terre ch'egli scoprisse, creandolo perpetuo almirante dell'Indie, e lui e tutti li suoi descendenti, e facendolo sedere nel conspetto delle lor Maestà, che a privata persona è onor grandissimo in quei regni. E dandogli il titolo di don, volsero che egli aggiugnesse presso all'armi di casa sua quattro altre, cioè quelle del regno di Castiglia, di Leon, e il mar Oceano con tutte l'isole, e quattro ancore per dimostrar l'ufficio d'almirante, con un motto d'intorno che diceva: "Per Castiglia e per Leon nuovo mondo trovò Colon". Che se avessero avuto sospicion alcuna di questa favola, la qual maliziosamente dopo il suo ritorno fu per invidia finta dalla gente bassa e ignorante, affezionata a' detti pilotti, quei prencipi tanto savi e prudenti non gli averebbono fatti cosí gran privilegi, concessioni e onori. Oltre di ciò, si sa chiaramente che nel cuore e nell'animo di tutti i grandi e signori di Spagna è fin al presente scolpita la memoria di questo gran fatto del signor Cristoforo Colombo, e tutti ne parlano di continuo molto onoratamente. E ho già udito dire molte volte da molti gravissimi senatori, che in diversi tempi sono stati ambasciatori di questa Repubblica in Spagna, che ognuno di quella corte diceva ch'egli meriteria che gli fusse fatta una statua di bronzo, acciochè li posteri in tutti li regni di Spagna avessero sempre dinanzi agli occhi l'auttore di tanti tesori e grandezze aggiunte a quei regni.
Questo è quanto per difesa dell'onor di cosí grande uomo mi è parso che si dovesse toccare. La nobilissima adunque e ricchissima città di Genova si vanti e glorii di cosí eccellente uomo cittadin suo, e mettasi a paragone di qualunque altra città, perciochè costui non fu poeta, come Omero, del qual sette città delle maggiori che avesse la Grecia contesero insieme, affermando ciascuna che egli era suo cittadino; ma fu un uomo il quale ha fatto nascer al mondo un altro mondo, effetto in vero incomparabilmente molto maggiore del detto di sopra. Del quale non posso far che non mi stupisca, avendo trovato che un poeta spagnuolo di Cordova, nominato Seneca, già 1500 anni, mosso dal furor poetico ne dipinse tutta questa impresa, perciochè nella tragedia ch'egli compose di Medea, nel fine d'un coro, scrisse questi versi latini:
Venient annis
secula seris, quibus Oceanus
vincula rerum laxet, et ingens
pateat tellus, typhisque novos
detegat orbes.
nec sit terris ultima Thyle.
Li quali tradotti suonano in questo modo:
Tempi verranno ancora
dopo lunga dimora,
che 'l gran padre Oceano ad altre genti
delle cose mondane il fren rallenti,
che 'l gran corpo terreno
tutto apparisca e si dimostri a pieno
che di Tifi solcando a parte a parte
de l'onde il vasto seno
nuovi luoghi discopra il senno e l'arte,
né sia Tile del mondo ultima parte.
Ora, perchè l'Eccellenza Vostra piú volte per sue lettere m'ha esortato che della parte di questo mondo di nuovo ritrovato, ad imitazione di Tolomeo, ne volessi far fare quattro o cinque tavole di quanto se ne sapeva fin al presente, ch'erano i liti posti nelle carte da navicare, fatte per li pilotti e capitani spagnuoli, e appresso volutomi mandar quel tanto che lei n'avea già avuto dal predetto illustre signor Gonzalo Oviedo, istorico cesareo, sí delle marine della Nuova Spagna e isole del mar del Nort, come della parte che si chiama la terra del Brasil e Perú nel mar del Sur, non ho voluto mancar di non obedir a' suoi comandamenti, e ho fatto che messer Giacomo de' Gastaldi piamontese, cosmografo eccellente, n'ha ridotto in picciol compasso uno universale, e poi quello in quattro tavole diviso, con quella cura e diligenza ch'egli ha potuto maggiore, acciochè gli studiosi lettori vegghino di quanto per mezzo di V.E. se n'ha avuto notizia. Conciosiacosachè, sapendosi in Spagna e in Francia il piacer grande che ella ha di questa nuova parte del mondo, e come ella medesima di sua mano spesse volte ne suol far disegni, tutti gli uomini letterati ogni giorno la fanno partecipe di qualche discoprimento che è loro portato da capitano o pilotto che venga di quelle parti; e fra gli altri il sopradetto signor Gonzalo dall'isola Spagnuola, il quale ogn'anno una volta o due la visita con qualche carta fatta di nuovo. Il simile fanno alcuni eccellenti uomini francesi, che da Parigi gli hanno mandato le relazioni della Nuova Francia, con quattro disegni insieme, che saranno posti in questo volume a' suoi luoghi.
E questo è quanto, facendo fine, s'appartiene a queste tavole nuovamente fatte di geografia e relazioni, a contemplazione di Vostra Eccellenza e degli studiosi mandate in luce.
Sommario dell'istoria dell'Indie occidentali cavato dalli libri scritti dal signor don Pietro Martire milanese, del Consiglio delle Indie, prima del re catolico e poi della maestà dell'imperatore.
Come Cristoforo Colombo genovese, avendo proposta alla Signoria di Genova e poi al re di Portogallo di trovar il mondo nuovo, e non essendoli creduto, lo propose al re catolico, quale gli armò una nave e due caravelle e lo lasciò andare al detto viaggio.
In Genova, antica e nobil città d'Italia, nacque Cristoforo Colombo di famiglia popolare, e sí come è il costume de' Genovesi, si dette a navicare. Nel quale esercizio, essendo di grande ingegno e avendo bene imparato a conoscere li moti de' cieli e il modo d'adoperare il quadrante e l'astrolabio, in pochi anni divenne il piú pratico e sicuro capitano di navi che fusse al suo tempo. Navigando adunque come era suo costume, in molti viaggi fatti fuor dello stretto di Gibilterra inverso Portogallo e quelle marine, aveva molte volte osservato con diligenzia che in certi tempi dell'anno soffiavano da ponente alcuni venti, li quali duravano equalmente molti giorni: e conoscendo che non potevan venire d'altro luogo che dalla terra, che gli generava oltre al mare, fermò tanto il pensiero sopra questa cosa che deliberò volerla trovare. Ed essendo d'età d'anni XL, uomo di alta statura, di color rosso, di buona complessione e gagliardo, propose prima alla Signoria di Genova che, volendo quella armargli navili, si obligheria andar fuor dello stretto di Gibilterra e navicar tanto per ponente che, circondando il mondo, arriveria alla terra dove nascono le spezierie.
Questo viaggio parve a chiunque l'udí molto strano, come a quelli che mai avevano a tal cosa pensato o con l'intelletto fattone alcun discorso, e riputavansi saper tutto quel che fusse possibile dell'arte del navicare, e per questo tennero questo suo ragionamento per una favola e un sogno: ancor che avessero sentito dir che da qualche uno degli scrittori antichi è stata fatta menzione d'una grande isola molte miglia fuora di questo stretto alla volta di ponente. Vedendo Colombo che non era dato fede alle sue parole, gli parve di tentare il re di Portogallo. Né anche appresso questo prencipe gli fu prestato orecchi, essendo li capitani di navi di quel regno molto superbi, né giudicavan che alcuno meglio di loro potesse o sapesse parlare dell'arte del navicare. E questo solamente perchè sempre a vista di terra, né mai da quella allontanandosi e andando ogni sera in porto, avevano scorso tutta quella costa dell'Africa la quale in su l'oceano guarda verso mezzodí. Il qual viaggio de' Portoghesi mai bastò l'animo agli antichi fare, perchè tenevan per certo che fusse arso dal sole qualunque passava sotto l'equinoziale, e reputaron favola quando fu riferito loro che s'era trovato chi da Gades era andato circondando l'Africa insino al mar Rosso.
Rimaso adunque in questo modo ingannato, e avendo sentito parlar della grandezza d'animo del re catolico e della regina Isabella, si dirizzò alla corte loro, con fermo proposito di non partirsi da quelli fin che non gli armassino navili per andare a discoprir detta terra per ponente. E avendo molte volte a lor Maestà e a molti grandi d'Ispagna detto le ragioni che lo movevano a tener certo che questo fusse la verità, pareva che ancora in questa corte delle sue parole fusse tenuto poco conto, perchè lo reputavano uomo leggiero, e giudicavano che la cosa non manco si potesse fare che volare. Pure Iddio, il quale aveva determinato per mezzo di costui scoprir quello che tanto tempo aveva tenuto ascoso a tutti gli savi del mondo, dapoi che fu dimorato in quella corte alcuni anni, pose questa impresa in cuore alla regina Isabella, qual fu una delle rare donne e di tanto cuore quanto alcuna altra che giamai nascesse. E cosí essendo un giorno sollecitata dal detto Cristoforo, persuase al re catolico che non restasse per modo alcuno di far tale esperienzia. E fu tale la persuasione, che gli armorono una nave e due caravelle, con le quali al principio di agosto 1492 con 120 uomini si partí da Gades, e la prima scala fece all'isole Fortunate, le quali dagli Spagnuoli si chiamano le Canarie, gradi 28 in circa sopra l'equinoziale. Questa navigazion fu di mille miglia, perchè, secondo il conto de' marinari, queste isole sono lontane da Gades 250 leghe a quattro miglia per lega. Queste isole dagli antichi furon chiamate Fortunate perchè sono di aere temperatissimo e non senton mai per tutto l'anno né caldo eccessivo né freddo; ancora che alcuni pensino che l'isole Fortunate siano quelle che sono non molto lontane dal Capo Verde dell'Africa, tenute oggi da' Portoghesi, gradi 17 sopra l'equinoziale, chiamate l'isole di Capo Verde.
Delle isole Fortunate, dette ora Canarie, e di quelle che furono trovate a' tempi nostri. E come, navigato che ebbe Colombo trenta giorni per ponente, scoperse terra. E del sito e abitatori e animali di quella.
Ma come quelle che posseggon gli Spagnuoli, alli quali arrivò Colombo, la prima volta fusser trovate, non voglio lasciar di dire. Queste isole, ancor che appresso gli antichi fusser conosciute, pur la memoria dove quelle fussero era smarrita. E nel 1405 uno di nazion franzese, chiamato Giovanni Bentachor, avuta licenzia da una regina di Castiglia di scoprir terre nuove, trovò quelle due che si chiamano Lancilotto e Forteventura: le quali, morto Bentachor, dalli suoi eredi furon vendute agli Spagnuoli. La Gomera e l'isola del Ferro furono trovate da Ferrando Darias; le altre tre, cioè la Gran Canaria, Palma e Tenerife, alli tempi nostri sono state trovate da Pietro di Vera e Alfonso di Lucho.
Ma torniamo a Colombo, il quale, partito da queste isole al diritto di ponente, ancor che tenesse un poco a man sinistra verso gherbino, navigò trentatre giorni non vedendo altro che cielo e acqua, e ogni giorno con l'astrolabio osservava la declinazion del sole, e la notte l'altezza delle stelle fisse, non allontanandosi dal tropico del Cancro, e la Tramontana se gli levava gradi 20 in circa, e a questo modo comandava il cammino. Buttava ancor due volte il giorno lo scandaglio in mare, e notava li segnali della terra dove passava e l'altezza del mare. Ma gli Spagnuoli che erano sopra li navili, passati li primi dieci giorni, comincioron fra loro a mormorare secretamente, dipoi alla scoperta a lamentarsi di Colombo, e vennero a quello, che eran deliberati buttarlo in mare, dicendo che erano stati ingannati da un Genovese, e che lui gli aveva condotti in luogo donde mai piú potriano tornare. Pure andavano scorrendo, essendo nel miglior modo che era possibile da Colombo trattenuti; ma poi che furon passati venti giorni, entroron in gran furore gridando non voler andar piú avanti. Ma Colombo, or con umane parole, or dando loro speranza, e alcune volte arditamente dicendo loro che se gli facevano alcuna violenzia sarebbon tenuti ribelli delli re catolici, gli andava menando di giorno in giorno, tanto che tre giorni avanti che scoprissero terra, dormendo Colombo, gli apparve una mirabil visione, tale che destatosi pieno di allegrezza, chiamati a sé li compagni disse loro che in breve tempo vedrebbon terra. E una mattina, al far del giorno, buttato lo scandaglio in mare e veduta certa sorte di terreno del fondo di quello, conobbe non esser molto lontan da quella, e tanto piú di questo faceva congiettura perchè la notte avanti era soffiato una insolita inequalità di vento, il quale non era causato da altro che dal vento contrario che veniva dalla terra.
Mosso da questi segni, Colombo comandò che uno delli compagni montasse in su la gabbia della nave; il che fatto, non passò molte ore che cominciò di lontano a discoprir certi monti, li quali veduti, subito cominciò con grande allegrezza a gridar: "Terra, terra". Gli altri compagni e quelli delle caravelle, udita questa voce, gridorono ancor loro: "Terra, terra", discaricando tutti li pezzi che avevan di artigliarie. Cristoforo Colombo, vedendo li suoi disegni con l'aiuto di Dio avere avuto sí felice principio, si riempié di tanta allegrezza che era cosa mirabile a vederlo. E avendo buon vento, a mezzogiorno arrivorno appresso terra, qual viddero verdissima e piena di grandissimi arbori: dove arrivati, comandò che fussero buttati gli schifi della nave e caravelle, e che dodici uomini con lui smontassero. Il quale, primo, con una bandiera nella quale era figurato il nostro Signore Iesú Cristo in croce, saltò in terra e quella piantò, e poi tutti gli altri smontorono e inginocchiati baciorono la terra tre volte piangendo di allegrezza.
Dipoi Colombo, alzate le mani al cielo, lagrimando disse: "Signor Dio eterno, Signore omnipotente, tu creasti il cielo e la terra e il mare con la tua santa parola; sia benedetto e glorificato il nome tuo, sia ringraziata la tua maestà, la quale si è degnata per mezzo d'uno umil suo servo far che 'l suo santo nome sia conosciuto e divulgato in questa altra parte del mondo". Questa terra, secondo il conto che faceva Colombo, è lontana dalle Canarie 950 leghe. Nella quale dimorati alquanto, conobbero che era una isola disabitata, e per questo deliberorono andar piú avanti. Ma, per lasciare un segno d'aver preso la possessione in nome di nostro Signore Iesú Cristo, fece tagliare arbori e di quelli fare una gran croce, e collocata in luogo della bandiera, rimontorno in nave. E seguendo il loro viaggio al medesimo modo, dopo alcuni giorni scopersero sei isole, delle quali due erano molto grandi: di queste la maggiore nominarono Spagnuola e l'altra Giovanna, ma di questa non eran certi se la erano isola o terra ferma. E cosí, andando drieto alli litti di queste, sentirono tra boschi folti cantar li rosignuoli del mese di novembre.
In questo luogo trovarono gran fiumi di acque chiarissime e porti naturali capaci di gran navili. Ma a questo non stava contento Colombo, anzi pensava tanto andare avanti che trovasse il fine di questa terra, e arrivasse alli liti orientali e terre dove nascon le spezierie. E per questo andorono scorrendo per li litti di Giovanna, per il vento di maestro, piú di ottocento miglia, e giudicarono che quel fusse continente, come dapoi si è trovato esser la verità, non trovando segno alcuno di fine di quelli litti. Per questo, e per essere stretti dal tempo e fortune che avevano da tramontana, deliberarono di tornar indietro, e cosí ritornati verso levante di nuovo arrivorno all'isola Spagnuola. La natura della quale e gli abitatori desiderando di voler conoscere, si accostarono dalla banda di tramontana, dove la nave maggior dette sopra uno scoglio piano, che era coperto dall'acqua, e si ruppe; le altre due caravelle aiutarono gli uomini e le robe, e smontati in terra viddero una moltitudine di uomini tutti nudi, li quali, subito che viddero li cristiani, si miseno a fuggire con grande impeto in boschi grandissimi. Gli Spagnuoli, seguitandogli, presero una femina e la menarono alle navi, dove la vestirono bene e gli dettero da mangiare e da bere vino, e la lasciorono andare. Subito che fu giunta a' suoi, che sapeva ove stavano, mostrando il nostro vestire a loro maraviglioso e la liberalità delli nostri, tutti a regatta corsero alla marina, pensando questa esser gente mandata dal cielo, e si gittavano in acqua e portavano seco l'oro che avevano e barattavanlo a piatti di terra e tazze di vetro. Chi donava loro una stringa o sonaglio, overo un pezzo di specchio o altra simil cosa, davano in cambio oro.
Avendo già fatto commerzio famigliare, cercando li nostri li loro costumi, trovarono per segni e atti che avevano re tra loro; e dismontando in terra, furono ricevuti onoratissimamente dal re, il qual chiamavano Guaccanarillo, e dagli uomini dell'isola bene accarezzati. Venendo la sera e dato il segno dell'Ave Maria, inginocchiandosi li nostri, similmente facevano loro, e vedendo che li nostri adoravano la croce, e loro similmente l'adoravano. Vedendo ancora la sopradetta nave rotta, andavano con loro barche, che chiamavano canoe, a portar in terra li uomini e le robe, con tanta carità con quanta avrebber fatto se fussero stati de' lor proprii. Le loro barche sono di uno solo legno, lunghe e strette, cavate con pietre acutissime, delle quali alcune erano capaci di ottanta uomini. Appresso costoro non è notizia alcuna di ferro, per la qual cosa li nostri molto si maravigliorono come fabricassero le loro case, le quali maravigliosamente erano lavorate, e l'altre cose che a loro fanno di bisogno; ma si comprese che tutto facevano con alcune pietre di fiumi durissime e acutissime. Intesero che non molto lontano da quella isola erano alcune isole di crudelissimi uomini che si pascono di carne umana, e questa fu la causa che, al principio che viddero li nostri, si misono in fuga, credendo fussino di quelli, quali chiamano canibali. Li nostri aveano lasciato quelle isole quasi a mezzo il cammin dalla banda di mezzodí. Lamentavansi e mostravano con cenni li poveri uomini, che non altramente erano molestati e perseguitati da questi canibali che dalli cacciatori sono perseguitate le fiere salvatiche; e che li putti che loro pigliano, castrano, come facciamo noi li porci o capponi, acciochè diventino piú grassi per mangiarseli, e gli uomini maturi cosí come gli prendono gli ammazzano, e mangiano freschi gl'intestini e le estreme membra del corpo, il resto insalano e dapoi gli serbano alli suoi tempi, come facciamo noi li prosciutti. Non ammazzano le donne, ma le salvano a far figliuoli, non altrimenti che facciamo noi le galline per ova. Le vecchie usano per schiave.
In queste isole e nelle altre, cosí gli uomini come le femine, subito che presentono questi canibali approssimarsi a loro, non trovano per loro altra salute che fuggire, ancora che usino saette acutissime per difendersi; nondimeno, a reprimere il furore e la rabbia di quelli, trovano che poco gli giovano, e confessano che dieci canibali mettono in fuga cento di loro. Non poterono li nostri ben intendere che adorasse questa gente altro che il cielo, sole e luna. Delli costumi d'altre isole, la brevità del tempo e mancamento d'interpreti fu causa che non potettero saper altro. Gli uomini di quella isola usano in luogo di pane certe radici di grandezza e forma di navoni e carote, alquanto dolci, simili alle castagne fresche, le quali chiamano agies. Si trova ancora un'altra radice, che chiamano iuca, della qual fanno pane in questo modo, che la tagliano sottilmente e poi la pestano, la qual ha sugo assai, e ne fanno a modo di focaccie. Ma è cosa maravigliosa questa radice, che chi beve il suo succo subito muore, ma il pane che fanno della massa pesta, buttato via il succo, è sano e saporito. Èvvi ancora un'altra sorte di grano, che chiamano maiz, del qual fanno pane, ed è simile al cece bianco over piselli, e fa una panocchia lunga una spanna, acuta, grossa come è il braccio, dove sono messi li grani ad ordine. L'oro appresso di essi è in alquanta estimazione; ne portano alcuni pezzi appiccati all'orecchie e al naso.
Avendo conosciuti li nostri che da un luogo all'altro non fanno traffico alcuno, né si partono mai di suo paese, cominciorono a dimandare per segni dove trovavano quello oro ch'essi tenevano all'orecchie e al naso. Intesero che 'l trovavano nella rena di certi fiumi che corrono d'altissimi monti, né con gran fatica lo raccoglievano in grani e lo riducevano dapoi in lame. Ma non si trovava in quella parte dell'isola dove allora erano, come dapoi circundando l'isola cognoscettero per esperienzia, perchè, partiti di lí, s'abbatterono a caso a un fiume di smisurata grandezza, dove essendo smontati in terra per far acqua e pescare, trovorono la rena mescolata con molti grani d'oro. Dicono non aver visto in questa isola alcuno animale di quattro piedi, salvo di tre sorte conigli, e serpenti di grandezza e numero admirabile, quali la isola nutrisce, ma non nuocono ad alcuno. Viddono ancora oche salvatiche, tortore e anitre maggiori delle nostre, bianchissime col capo rosso. Viddero pappagalli, delli quali alcuni erano verdi, alcuni gialli tutto il corpo, altri simili a quelli di Levante con una gorgiera rossa, delli quali ne portarono quaranta, ma di diversi e variissimi colori, e massime nelle ale, la quale varietà di colori arrecava alla vista grandissimo piacere. Questa terra produce di sua natura copia di mastice, legno di aloe, cottoni e altre simili cose, certi grani in una scorza rossa piú acuti del pepe che noi abbiamo.
Come Colombo ritornò in Spagna, e del grande accetto fattoli per li re catolici, e come, preparatoli dicessette navili, ritornò al viaggio. Poi che fu partito dalle Canarie, tra l'altre terre scoperse una grande isola abitata dalli canibali, i quali mangiano gli uomini, nella qual si truovano otto grandissimi fiumi e gran copia di pappagalli.
Colombo, contento d'aver trovato questa nuova terra, qual è parte d'un nuovo mondo, essendo oramai la primavera, deliberò tornarsene e lasciò appresso al re sopradetto trentotto uomini (e fece far loro un castel di legno meglio che potette), li quali avessero ad investigare la natura de' luoghi e stagion de' tempi, insino che lui tornasse. Col quale fece lega e confederazione, per quelli cenni e modi che gli fu possibile, a salute e difensione di quelli che restavano. Il re, veduta la partita di Colombo e il restar delli compagni, parve che mosso a compassione lacrimasse, donde abbracciandogli monstrava loro grandissimo amore; e Colombo in questo fece vela per Spagna, e menò seco dieci uomini di quella isola. Dalli quali si comprese che la loro lingua facilmente s'impararebbe e con nostre lettere si scriverebbe. Chiamavano il cielo turei, la casa boia, l'oro cauni, uomo da ben tayno, niente mayani; gli altri loro vocaboli non proferiscono manco chiari che noi li nostri vulgari. E questo fu il successo della prima navigazione.
All'arrivar di Colombo in Spagna fu ricevuto dal re e dalla regina con gran festa, e li fecero grande onore, facendolo sedere publicamente avanti loro, il che appresso li re di Spagna è fra li primi onori, né usano farlo se non a quelli da' quali ricevono qualche gran servizio. E volsero che fusse chiamato admirante del mare Oceano, e a un suo fratello chiamato Bartolomeo dettero il governo dell'isola Spagnuola. Ma, per tornare alla nostra narrazione, dico che l'admirante Colombo, narrato tutto il successo alli re, affermava che sperava trar grandissima utilità di queste isole e per mezzo di queste trovare molti altri ricchissimi paesi. Onde sue Maestà fecero preparare dicessette navili, cioè tre navi con gabbie grandi e quattordeci caravelle senza gabbie, con piú di mille e dugento uomini fra a piè e a cavallo, con sue armadure. Oltra li quali erano ancora fabri, artefici di tutte le arti mecaniche salariati, alli quali comandò che portassero ciascuno tutti gl'istrumenti dell'arte sua, e ogni altra cosa che fusse a proposito per edificare una nuova città in paesi stranieri. Ma Colombo preparò cavalli, porci, vacche e molti altri animali con li suoi maschi, legumi, formento, orzo e altri simili semi, non solo per vivere ma ancora per il seminare, vite e molte altre piante d'arbori che non erano in quelli paesi: perchè non trovarono in tutta quella isola altro arbore di nostra cognizione che pini e palme altissime di maravigliosa durezza, dirittura e altezza, per la grassezza e bontà della terra, e altri assai che fanno frutti che ci sono ignoti, perchè quella terra è la piú abbondante che altra che sia sotto il sole.
Molti fidati e servidori del re si miseno di propria volontà a questa navigazione per desiderio di nuove cose e per l'auttorità dell'admirante. Alli venticinque di settembre del MCCCCXCIII con prospero vento fecero vela da Gades, e il primo d'ottobre arrivorono a una delle Canarie chiamata l'isola del Ferro: nella quale dicono non essere altra acqua da bere che di rugiada, la quale casca da uno arbore in una lacuna fatta a mano sopra un monte della detta isola. Alli tredici d'ottobre fecero vela, né si ebbe nuova di loro fino al marzo, che, essendo il re e la regina a Medina del Campo, a' ventitre di marzo per un corriero ebbero nuova esser giunte a Gades dodici di questi navili, l'anno MCCCCXCIIII. Dall'arrivar delli quali s'intese quanto qui sotto è scritto.
Alli tredici giorni d'ottobre partito l'admirante Colombo dalle Canarie con dicessette navi, navigò vintun giorno prima che scoprisse terra alcuna; ma andò piú a man sinistra verso ostro garbino che l'altro primo viaggio, onde incorsero nell'isole de' canibali, o vero caribbi, detti di sopra. Nella prima viddero una selva tanto spessa d'arbori che non si poteva discernere se sotto fusse o sasso o terra, e perchè era domenica il giorno che la viddero, la chiamarono Domenica: e accorgendosi che era disabitata, non si fermorono in essa, ma andorono avanti. In questi vintun giorno, secondo il giudicio loro feceno ottocento e venti leghe, tanto gli era stato favorevole il vento da tramontana. Dapoi partiti di questa isola, per poco spazio arrivorono a un'altra piena e abbondante di molti arbori, che rendevano odori suavissimi e admirabili. Alcuni che discesero in terra non viddero uomo alcuno, né animale di altra sorte che lacerti, come cocodrili d'inaudita grandezza. Questa isola chiamorono Marigalante, da un capo della quale avendo lontano in su un'altra isola veduto un monte, si partirono alla volta di quello, donde scopersono un fiume grandissimo, al quale andando, trovorono quella isola esser in quel luogo abitata, e fu la prima terra abitata che viddero dapoi il suo partire dalle Canarie.
Era questa isola delli canibali, come dapoi connobbero per esperienzia, e per gl'interpreti dell'isola Spagnuola che avevano seco. Cercando l'isola, trovorono molte ville e borghi di venti e trenta case l'uno, le quali erano tutte edificate per ordine attorno a una piazza tonda; le case, come dicono, tutte erano di legno fabricate in tondo in questo modo. Prima ficcano in terra tanti arbori altissimi, che fanno la circunferenzia della casa; dapoi mettono d'attorno alcuni travi corti, accostati a questi lunghi per puntello, acciochè non caschino, e il coperto fanno in forma di padiglione da campo, in modo che tutte queste hanno il tetto acuto. Dapoi cuoprono questi legni di foglie di palme e di certe altre simile foglie, che sono sicurissime per l'acqua; ma dentro, fra trave e trave tirate corde di cottone o di alcune radici che simigliano sparto, vi pongon su tele fatte di cottone. Hanno alcune sue lettiere che stanno in aere sopra le quali mettono bambagia e fieno per letto. Hanno le dette case ancora portichi, dove si riducono a giocare.
In un certo luogo avendo viste due statue di legno che soprastavano a due serpi, pensarono che fussero suoi idoli, ma intesero dipoi che erano in quel luogo poste solo per ornamento; perchè loro solamente adorano il cielo, ancora che finghino alcune imagini di cottone, le quali dicono essere a similitudine di demoni che veggono la notte. Accostandosi li nostri a questo luogo, gli uomini e le donne si miseno a fuggire e abbandonavano le sue case. Trenta femine e garzoni che erano prigioni, li quali questi canibali avevano presi d'alcune isole per mangiarseli e le femine per servirsene per schiave, fuggirono alli nostri, li quali, entrati nelle sue case, trovorono che avevano vasi di terra a nostra usanza e d'ogni sorte, e nelle cucine carni d'uomini lessate, insieme con pappagalli e oche e anitre, e altre in spiedi per arrostire. Per casa trovorono ossi di bracci e coscie umane, che salvavano per fare punte a sue freccie, perchè non hanno ferro; e trovorono ancora il capo d'un garzone morto poco avanti, che era appiccato ad un trave, e gocciava ancora il sangue.
Ha questa isola otto grandissimi fiumi, tra li quali n'è uno grande quanto il Tesino, con le ripe amenissime da ogni banda. Questa isola chiamorono Guadaluppa per esser simile al monte di Santa Maria di Guadaluppo di Spagna. Gli abitanti per proprio nome la chiamano Caruqueria, ed è la principale dell'isole de' Caribbi. Portorono da questa isola pappagalli maggiori che fagiani, molto differenti di colore dagli altri: hanno tutto il corpo e le spalle rosse, le ali di diversi colori. Non manco hanno copia di pappagalli che noi di passere. Ancora che li boschi siano pieni di pappagalli, nondimeno gli nutriscono e poi gli mangiano. L'admirante Colombo fece donar molti presenti alle donne che erano rifuggite a loro e ordinò che con quelli andassero a trovar li canibali, imperoch'esse sapevano dove stavano. E andate dette donne, dimorate con loro una notte, il giorno seguente menoron seco molti di quelli, i quali venivano per ingordigia delli doni. Ma subito che viddero li nostri, per paura che avessino o per conscienzia di loro sceleraggine, guardandosi l'un l'altro, con grande impeto si misero a fuggire alle valli e boschi vicini.
Come navigando, lasciate a man destra e sinistra molte isole, scoperse una grande isola Matityna, abitata solamente da femine, e come quelle si reggano. E poi ch'ebbe combattuto con una canoa di quegli uomini e donne, e quella messa in fondo, entrò in un mare pien d'isole innumerabili. E dell'isola chiamata San Giovanni, e suoi abitatori, e del re di quella.
Li nostri che erano scorsi per l'isola ridotti alle navi, rotte quante barche trovorono de' detti, si partirono da Guadaluppa alli dodici di novembre per andar a trovar li suoi compagni, li quali restorono nell'isola Spagnuola nel primo viaggio. E navigando lasciavano a man destra e sinistra molte isole. Scopersero in questo viaggio da tramontana una grande isola, la quale, e quelli Indiani che l'admirante aveva menati seco dall'isola Spagnuola, e quelli che erano recuperati dalle mani delli canibali, disseno che si chiamava Matityna, affermando che in essa non abitavano se non femine, le quali a certo tempo dell'anno si congiungevano con li canibali, e se partorivano maschi li nutrivano e poi gli mandavano alli loro padri, e le femine le tenevan seco. Dicevano ancora che queste femine hanno certe cave grandi sotto terra, nelle quali fuggivano se ad altro tempo dell'anno che l'ordinato alcuno andava ad esse, e se alcuno per forza o per insidie cercasse d'entrare a loro, che le si difendono con freccie, le quali traggono benissimo. Per allora non poterono li nostri accostarsi a quella isola, essendo impediti dal vento da tramontana.
Navigando dalla vista di questa isola lontani circa quaranta miglia, passorno per un'altra isola, la quale i predetti dell'isola Spagnuola dicevano esser popolatissima e abbondante di tutte le cose necessarie al vitto umano: e perchè quella era piena di alti monti, gli posono nome Monferrato. Li prefati dell'isola Spagnuola e li recuperati da' canibali dicevano che alcune volte essi canibali andavano mille miglia per prender uomini per mangiarli. Il seguente giorno scoprirono un'altra isola, la quale per esser tonda l'admirante chiamò Santa Maria Ritonda. Un'altra il giorno seguente chiamò San Martino. Ma in niuna di queste si fermorono. Il terzo giorno ne trovorono un'altra, la quale fecero giudicio esser lunga per costa da levante a ponente centocinquanta miglia. Gl'interpreti del paese affermano queste isole essere tutte di maravigliosa bellezza e fertilità. E questa ultima chiamarono Santa Maria Antica. Dapoi la quale trovò altre assaissime isole, ma di lí a quaranta miglia una maggior di tutte l'altre, la quale dagli abitanti è chiamata Ay Ay, e li nostri la chiamarono Santa Croce.
Qui smontorno per far acqua, e l'admirante mandò in terra trenta uomini della sua nave che ricercassero l'isola, li quali trovarono quattro canibali con quattro femine, le quali, visti li nostri, con man giunte pareva domandassero soccorso; le quali liberate per li nostri da' canibali, essi fuggirono alli boschi, come nell'isola Guadaluppa avevan fatto. E dimorando quivi l'admirante duo giorni, fece stare trenta delli suoi uomini in terra continuamente in agguato, nel qual tempo li nostri viddero venire una canoa, cioè una barca, con otto uomini e altretante donne: e fatto segno li nostri gli assaltorono, e loro con freccie si difendevano, per modo che, avanti che li nostri si coprissero con le targhe, un d'essi che era biscaino con una ferita fu morto da una delle femine, la quale similmente ne ferí un altro gravissimamente. Dalle quali due freccie li nostri s'accorsero che quelle e l'altre erano attossicate, perchè avevano in molti luoghi intaccata la punta e con certo liquore venenata. Fra questi era una femina alla quale pareva che tutti gli altri obbedissero come a regina, e con essa era un giovane suo figliuolo robusto, d'aspetto crudele e guardatura di leone. Li nostri, dubitando di non esser peggio trattati da lontano con freccie che combattendo da presso, giudicorono esser meglio da presso venir alle mani, e cosí, dato delli remi in acqua, con un batello di nave investiron la canoa e la misono in fondo. Loro veramente, cosí uomini come femine, notando non restavan di trarre freccie, né con manco impeto, alli nostri, che se fussero stati in barca, e montati sopra un sasso coperto d'acqua, combattendo valentemente furono presi, essendone stato morto uno e il figliuolo della regina ferito di due ferite. Li quali, condotti davanti a l'admirante, mostravano quanto fussino per natura atroci e crudeli: non era uomo che gli vedesse che non avesse paura, tanto atroce e diabolico era il loro aspetto.
Procedendo in questo modo l'admirante, ora per ostro, ora per gherbino, ora per ponente, entrò in un gran mare pieno d'innumerabili e varie isole. Alcune parevano boscose e amene, e altre secche e sterili, sassose, montose; altre mostravano fra sassi nudi colori rossi, altre di viole, altre bianchissimi, onde molti stimavano che fusser vene di metalli e pietre preziose. Non sorsero per queste perchè il tempo non era buono, e per paura della moltitudine e densità di tante isole, dubitando che le navi maggiori non investissero in qualche scoglio. Per questo riservorono a un altro tempo il ricercare le dette isole. Pure alcuni con legnetti piccioli, alli quali non bisognava troppo fondo, passorono per mezzo d'esse, e ne numerorono quarantasei, e questo mare chiamorono Arcipelago per tanto numero d'isole.
Passando avanti per questo mare, in mezzo del camino trovorono l'isola Burichena, da' nostri chiamata San Giovanni, nella quale quelli che furono liberati dalle mani de' canibali dicevano esser nati, e che era popolatissima, cultivata e piena di porti e boschi, e che gli abitatori d'essa erano stati sempre inimici delli canibali; e non hanno navili da poter andar a trovar li detti canibali, ma se per caso li canibali vanno alla sua isola per depredarli, e li possono metter le mani addosso, in presenza l'uno dell'altro tagliati in pezzi gli arrostiscono e gli divorano per vendetta. Tutte queste cose intendevano per gl'interpreti menati dall'isola Spagnuola.
Li nostri per non tardare troppo la lasciorono: pure dall'ultimo capo inverso ponente per far acqua smontorono in terra, dove trovorono una gran casa e bella a suo costume, con altre dodici picciole intorno a questa edificate, ma disabitate. Per qual causa non intesero, se 'l fusse o perchè per la stagion del tempo abitassero al monte per il caldo, o pur per paura delli canibali. Tutta questa isola ha un solo re, quale chiamano cacique, ed è ubbedito con grandissima reverenza da tutti. La costa di quest'isola verso mezzodí s'estende circa a dugento miglia. La notte due femine e un giovane liberati dalle mani delli canibali si gittorono in mare, e notorono all'isola ch'era la loro patria.
Della regione chiamata Xamana. Del re Guaccanarillo, e come da lui furono sviate sette femine cavate dalle mani de' canibali. Del porto reale. E come da una banda furono scoperti quattro gran fiumi e da un'altra tre, nell'arena de' quali si cava oro. E del signor cacique Caunoboa.
L'admirante finalmente giunse con la sua armata all'isola Spagnuola, distante dalla prima isola delli canibali cinquecento leghe, ma molto malcontento, perchè trovò morti tutti li compagni li quali vi aveva lasciati. In questa isola è una regione che si chiama Xamana, dalla quale l'admirante volendo tornar in Spagna la prima volta si partí, e menò seco dieci uomini di quelli dell'isola, delli quali tre solamente ne erano vivi in questa sua seconda tornata: gli altri tutti eran morti per la mutazione dell'aere e delli cibi. Delli quali per ordine dell'admirante uno, subito che arrivorono a Santo Eremo (che cosí chiamorono quella costa di Xamana) smontò in terra, per intendere quello che degli altri era seguito. Gli altri duoi di notte furtivamente si gittorono in mare, e notando scamporono. Della qual cosa però non si curò, credendo trovar vivi li trentotto che aveva lasciati, e cosí non gli dover mancare gl'interpreti. Ma andando un poco avanti incontrò una canoa di molti remi, nella quale era un fratello del re Guaccanarillo, col quale quando l'admirante si partí aveva fatta molto ferma confederazione e raccomandato li suoi. Costui, accompagnato da un solo, venne all'admirante e per nome di suo fratello gli portò in dono due imagini d'oro. E come dapoi s'intese in suo linguaggio, incominciò a narrar la morte delli nostri; ma per mancamento d'interprete al tutto non fu inteso.
Giunto l'admirante al castel di legno e alle case qual li nostri avevano fatte, trovò che tutte erano destrutte e arse, della qual cosa tutti ricevetteno gran passione. Pur, per veder se alcun di quelli eran restati vivi, fece discaricare molte artiglierie, acciochè se alcun fusse ascoso venisse fuora; ma tutto fu fatto in vano, perchè tutti erano morti. L'admirante mandò suoi messi al re Guaccanarillo, li quali riportarono quanto per segni avevan possuto comprendere: che in quella isola, per esser grande, sono molti signori maggiori di lui, delli quali duoi, avendo inteso la fama di questa nuova gente, vennero al castello con grande esercito, dove li nostri venti furono morti, e ruinorono il castello abbruciandolo tutto; e che lui volendoli aiutare era stato ferito d'una freccia (e mostrò una gamba che aveva fasciata con cotone), dicendo che questa era la causa, perchè non era venuto all'admirante come desiderava. L'altro seguente giorno l'admirante mandò un altro nunzio detto Marchiò di Sibilia al detto re, al quale levato via la fascia dalla gamba, trovò non avere ferita alcuna né segno di ferita; pur trovò che era in letto mostrando d'essere ammalato, il letto del quale era congiunto con altri sette letti di sue concubine. Onde incominciò a sospettare l'admirante e gli altri che li nostri fussero stati morti per consiglio e volontà di costui. Nondimeno, dissimulando, Marchiò messe ordine con lui che 'l seguente giorno venisse a visitare l'admirante alle navi. Il quale, arrivato alle navi, come avevano ordinato, fece buona cera e gran carezze alli nostri, facendo loro alcuni presenti, e molto si escusò della morte delli nostri. In questo mezzo, vista una delle femine cavata dalle mani delli canibali, la qual li nostri chiamavan Caterina, gli fece festa e parlò con essa molto amorosamente. Dapoi, domandato all'admirante licenzia, si partí, non senza grande admirazione per aver visto cavalli e altre cose a sé incognite. Furono alcuni che consigliavano che 'l si dovesse ritenere e far che confessasse come li nostri erano stati morti, e se si fusse trovato che lui fusse stato in causa, se gli facesse portar la debita pena; ma l'admirante considerò che non era tempo di irritar gli animi di quelli dell'isola.
Il giorno seguente il fratel di questo re venne alle navi, e parlò con le femine sopradette e le sviò, come mostrò l'esito della cosa; perchè la notte sequente quella Caterina, per liberarsi di cattività o per persuasione del re, si gittò in mare con sette altre femine tutte invitate da lei, e seguitando un fuoco che si vedeva sopra il lito, passorono circa tre miglia di mare, ancor che fusse turbato. Li nostri andorono dietro al medesimo lume, e seguitandole con le barche ne recuperorono tre solamente. Caterina con l'altre quattro se n'andorono al re, il quale la mattina seguente se ne fuggí con tutta la sua famiglia; onde li nostri compresero che quelli che eran restati fussero da costui stati morti.
L'admirante li mandò dietro il sopradetto Marchiò, il qual cercandolo arrivò a caso alla bocca d'un fiume, dove trovò un commodo e bonissimo porto, il qual chiamò Porto Reale. L'entrata è tanto ritorta che, come l'uomo è dentro, non conosce dove sia entrato, ancora che l'entrata sia sí grande che tre navi insieme vi potriano entrare. Intorno surgono alcuni colli in luogo di litti, li quali rompono tutti li venti che potessero farli fortuna, e nel mezzo è un monte tutto verde, pieno d'arbori, con pappagalli e altri uccelli che continuamente cantano suavemente, e massime intorno alla bocca di duoi fiumi, li quali vi metton capo. Procedendo piú avanti viddero un'altissima casa, e pensando che ivi fusse il re Guaccanarillo se n'andò a quella, e approssimandosi li venne incontro uno accompagnato da cento uomini ferocissimi in aspetto, tutti armati con archi, freccie e lancie acutissime, minacciando e gridando che non erano canibali ma taynos, cioè gentiluomini. Li nostri fattoli cenno di pace, e loro diposta la sua ferità, pigliando dalli nostri in dono ciascuno uno sonaglio da sparviere, si fecero insieme molto amici, e tanto che immediate senza rispetto dalle alte ripe del fiume discesero alle navi, dove loro all'incontro donorono alli nostri molte cose.
Noi dipoi entrammo in casa, la quale era tonda, e misurando la grandezza sua trovammo ch'era il diametro, cioè la larghezza, trentaduoi gran passi, e aveva all'intorno trenta altre case picciole. Li palchi erano di canne di diversi colori, con maraviglioso artificio tessuti. Dimandarono li nostri nel miglior modo che poterono dove fusse il re scampato; loro risposono che quella provincia non era del re Guaccanarillo, ma di quello che era lí presente, e che avevano inteso che Guaccanarillo era fuggito al monte; la qual nuova li nostri, fatto prima con questo cacique amicizia e lega, deliberarono far intender all'admirante. Il che inteso, l'admirante mandò in diverse parti diversi uomini ad investigar del detto re, tra' quali mandò Hoieda e Gorbolano, giovani nobili e animosi, accompagnati d'alcuni Indiani. Un di costoro trovò discendere da una banda di certi monti altissimi quattro gran fiumi, l'altro dall'altra ne trovò tre, nell'arena de' quali gl'Indiani, presenti li nostri, raccoglievano l'oro in questo modo: mettevano le braccia in alcune fosse, e con la man sinistra cavavano la rena e con la destra cernivano li grani dell'oro senza altra industria, e lo davano alli nostri; li quali dicono aver visto molti granelli di grandezza di cece. Tra gli altri io ne vidi uno, il quale fu mandato in dono da Hoieda al re, di peso di oncie nove, simile a una pietra di fiume, e questo fu visto da piú persone. Li nostri, visto questo, tornorono all'admirante, perchè quello aveva comandato sotto pena della vita che nessuno facesse altro che discoprire paese. Intesero ancora che uno certo signore delli monti donde discendevano li fiumi, il qual chiamavano cacique Caunoboa, cioè signore della casa dell'oro, perchè boa vuol dir casa, cauno oro e cacique signore.
Trovorono in questi fiumi pesci di eccellente sapore e bontà, e similmente l'acque sanissime. Dicono alcuni che il mese di decembre appresso li canibali è equinozio, ancorchè questo non sia in tutto conforme alle ragioni della sfera, e che quel mese gli uccelli facevano li suoi nidi, e alcuni avevano già figliuoli. Nondimeno, dimandati dell'altezza del polo, dicevano che appresso costoro gran parte del Carro era ascoso sotto il polo artico e che li Guardiani erano molto bassi. Né di questo si può dire altro, perchè di là non è infino a questa ora venuto a chi si possa prestar ferma fede, per esser uomini senza lettere e di tal cose ignoranti.
Dell'isola Spagnuola, e come l'admirante vi edificò in mezzo una città, e della maravigliosa fertilità di quel terreno. Della provincia di quell'isola detta Cibao e sue grandissime ricchezze. Delli gran fiumi che escono da quei monti, e della fortezza quivi edificata per il detto admirante.
L'admirante in questo tempo elesse un luogo alto, propinquo ad uno sicurissimo porto, per edificar una città. E in pochi giorni fabricò case ed edificò una chiesa, nella quale il giorno della Epifania fece solennemente cantare una messa, celebrata da tredici sacerdoti, la quale fu la prima che in questo nuovo mondo in onore di nostro Signore Dio fusse cantata. Ma approssimandosi il tempo che avea promesso al re notificarli del suo successo, rimandò dodici caravelle indietro con notizia di tutto quello che aveano visto e fatto infino all'anno 1494. Essendo rimaso l'admirante nell'isola Spagnuola (la quale per sua larghezza è miglia 220, e il polo si leva da tramontana gradi 22 e mezzo e da mezzogiorno da 19 in 20; la sua lunghezza da levante a ponente è miglia 600 in circa; la forma dell'isola è come la foglia del castagno), l'admirante deliberò edificare una città sopra un colle in mezzo l'isola dalla parte di tramontana, perchè lí appresso era un monte alto con boschi e sassi da fare la calcina, la qual chiamò Isabella. E alli piedi di questo monte era una pianura di 60 miglia lunga, e larga in alcun luogo 20, in alcun 12 e nel piú stretto sei, per la qual passavano molti fiumi, e il maggiore di essi scorreva davanti la porta della città un trar d'arco. In modo che questa pianura è tanto grassa, che in alcuni giardini che fecero sopra la rena del fiume seminandovi diverse sorti d'erbe, come lattughe, verze, borrana, tutte in termine di sedici giorni nacquero e vennero grandi; li melloni, cocomeri, zucche e altre simile cose in 36 giorni furono raccolte migliori che mai fussero mangiate. Ma quello che è piú maraviglioso fu che, essendo piantate alcune radici di canne di zuccaro, in quindeci giorni vennero all'altezza di due braccia e mature. Dicono ancora che le vite il secondo anno fecero uve suavissime, ma poche, per grassezza della terra; fu ancora uno che seminò al principio di febraio, per far prova, un pochetto di grano, il quale alli trenta di marzo (nel qual giorno fu Pasqua della Resurrezione) portò nella città un fascio di spighe mature.
In questo mezo l'admirante, per la notizia che aveva da quelli isolani che aveva seco, mandò trenta uomini ad una provincia di questa isola detta Cibauo, la qual in mezo dell'isola era situata, montuosa, con gran copia d'oro, per quello che mostravano gli abitanti. Questi uomini, ritornati, referirono maravigliose cose delle ricchezze di quel luogo, e che da quelli monti descendevano quattro grandissimi fiumi, che dividono l'isola in quattro parti quasi eguali: l'uno va verso levante, chiamato Iunna, l'altro inverso ponente, Attibunico, il terzo a tramontana, detto Iachen, il quarto a mezodí, Naiba.
Ma per tornar al proposito, l'admirante, fatta questa città circundata di argini e fossi, a fine che se, essendo lui absente, gl'Indiani gli assaltassero, si potessino li nostri difendere, a' dodici di marzo si partí con circa 400 fra a piedi e a cavallo, e si mise in camino per andar alla provincia dell'oro, dalla parte di mezodí. E dapoi passati monti, valli e fiumi, discese in una pianura, la quale è principio de' Cibaui; per la qual pianura corrono alcuni rivoli, nelle arene delli quali si trovava l'oro. Entrato adunque l'admirante per 72 miglia dentro dell'isola e distante dalla sua città, giunse alla ripa d'un gran fiume, sopra la quale in un colle eminente deliberò far una fortezza per poter piú securamente cercare li secreti del paese, e chiamò la fortezza S. Thomé. Mentre che l'admirante era occupato nell'edificar questa fortezza, molti paesani vennero a lui per aver sonagli e altre cose delle nostre, e lui all'incontro gli domandò che gli portassero dell'oro. Onde costoro, alla piú propinqua riva del fiume correndo, in breve spazio di tempo tornavano con le mani cariche d'oro; delli quali un vecchio portò due grani d'una oncia per un sonaglio, e vedendo che li cristiani si maravigliavano della grandezza di questi grani, per segni mostrava che quelli erano piccoli e di poco momento, e prese in mano quattro pietre, delle quali una era minore d'una noce, la maggiore come una arancia, cosí grandi grani d'oro accennava nella sua patria trovarsi, la quale da quel luogo era lontana meza giornata, e con poca fatica potersi cogliere. Oltre a questo vecchio vennero altri, li quali portavano pezzi di peso di piú di tre ducati l'uno e affermavano trovarsene ancora de' maggiori. L'admirante mandò alcuni de' suoi a quel luogo, li quali ritrovarono molto piú di quel che gli era stato detto.
Trovarono del mese di marzo uve salvatiche ben mature e di ottimo sapore, delle quali gli abitatori dell'isola tengono poca cura. Questa provincia, non obstante che sia sassosa, nondimeno è piena d'arbori e tutta di erbe verde. Dicesi ancora che tagliandosi l'erba di quelli monti, che in quattro giorni rimette e cresce all'altezza d'un braccio, e che vi piove assai e per questa cagione vi sono molti fiumi e rivi, la rena delli quali essendo mescolata con oro, tengono per certo che quell'oro tirato dalli torrenti descenda da quelli monti. Gli uomini sono molto oziosi e senza alcuna industria, di modo che d'inverno ne' monti tremano di freddo, e benchè abbino li boschi pieni di bombagia, nondimeno non sanno farsene vestimenti, il che non accade a quelli che abitano alla pianura.
D'una fertilissima isola piena di popoli, detta Iamaica, e d'uno bellissimo porto capace di cinquanta navi. Come ne' conviti regali si danno serpenti a mangiare. Di un fiume navigabile, l'acqua del quale è molto calda. Del modo di pescare d'alcune di quelle genti; e come scopersero un paese qual si crede esser terra ferma, dove si trovano ostriche, nelle quali nascono perle; e di certi fuoghi che si viddero continuar per spazio di 80 miglia.
Cercato quanto è detto, l'admirante se ne tornò alla rocca Isabella, dove lasciò al governo suo fratello con alcuni altri, e lui si partí con tre navili per andar a discoprir certa terra che lui pensava fusse continente, ed è miglia ottanta e non piú lontana dall'isola Spagnuola. La qual terra nel primo viaggio chiamoron Giovanna, e dipoi dalli paesani trovoron chiamarsi Cuba. All'incontro della quale nell'estrema parte della Spagnuola trovò un porto sicurissimo, al quale pose nome porto San Nicolò, il quale era lontano dalla Cuba 20 leghe. Passato de lí alla banda da mezzogiorno, si mise andar verso ponente: quanto piú andava innanzi, tanto piú si slungavano i liti e andavansi ingolfando verso mezzodí. Dalla qual banda trovorono un'isola chiamata da' paesani Iamaica, qual è maggior della Sicilia, e ha un sol monte in mezzo, che incomincia a levarsi da tutte le parti dell'isola, e va ascendendo cosí a poco a poco fino nel mezzo dell'isola, talmente che pare che non ascenda chi sale. Questa isola, cosí alle marine come al mezzo, è fertilissima e piena di popoli, li quali sono piú acuti e di maggior ingegno che gli uomini d'altre isole, e piú dediti alle arti manuali e atti alla guerra. Volendo l'admirante metter in terra in diversi luoghi, correvano armati e non lo lasciavano smontare, e in molti luoghi combatterono con li nostri, ma restando vinti si fecero dipoi amici.
Lasciata l'isola Iamaica, navigarono per ponente settanta giorni, nella quale navigazione, che fu circa 220 leghe, trovorono alcuna volta il mare che a modo d'un torrente correva, e spesse volte si trovorono in luoghi pieni di scogli e secche, per la grande quantità d'isole che da ogni banda si vedevano. Ma pure andavano avanti, per desiderio che avevano di vedere il fine di questa terra. Nel qual viaggio scopersero molte cose da non esser lasciate indietro senza farne menzione. Perchè partendosi dal capo della Cuba chiamato Alfa e Omega, trovorono un bellissimo porto capace di gran numero di navi, il quale era a modo d'un semicirculo e aveva all'intrata da ciascuna banda un monticello, che rompeva tutte le botte del mare che venivano; dentro si slargava ed era profondissimo. Alcuni di loro, smontati in terra con l'armi per sospetto, trovorono alcune case di paglia senza alcun dentrovi, e in molti luoghi il fuoco acceso con spiedi di legno pieni di pesce, e oltre a questo due serpenti di otto piedi l'uno. Visto che nessuno vedeano, incominciarono a mangiar il pesce e lasciarono li serpenti, che erano alla forma di cocodrilli. Dapoi si miseno a cercar un bosco lí vicino, e viddero molti di questi serpenti vivi legati ad arbori con corde, e scorrendo un pezzo avanti trovarono circa settanta uomini, che erano fuggiti in cima d'una grandissima rupe per veder quello che volesse questa nuova gente; ma li nostri fecero loro tante carezze con segni, mostrandoli sonagli e altre cose, che uno di loro s'arrischiò smontare in un'altra rupe vicina; allora uno dell'isola Guanaha, che è vicina alla Cuba, la lingua della quale ha similitudine con la lingua degli uomini della Cuba, nutrito in corte dell'admirante, s'avicinò a costui e gli parlò, e assicurando lui e gli altri, persuadendo loro che senza paura venissero, tutti discesero e fecero grande amicizia con li nostri e gli dichiarorono che loro erano pescatori venuti a pescare per il suo re, che faceva un solenne convito ad un altro re. Trovando che li nostri avevano mangiati li pesci e lasciati li serpenti, ne furono molto contenti e allegri, perchè quelli salvavano per la persona del re per pasto delicatissimo, come appresso di noi si salvano li fagiani e pavoni; dicendo che delli pesci la seguente notte ne piglieriano altretanti. Ed essendo domandati da' nostri perchè gli cocevano, risposero che lo facevano per poterli portare piú freschi e migliori.
L'admirante, avuta l'informazione che desiderava, gli lasciò andare, e lui seguí il suo viaggio verso ponente, e scorrendo quei liti, ancora che fussino pieni d'arbori, alcuni carichi di fiori, e alcuni di frutti, che davano grande odore alla marina, nientedimanco erano aspri e sassosi; il paese era fertile e pieno di genti mansuetissime, le quali senza alcun sospetto correvano alle navi e portavano a' nostri del pane che usavano e zucche piene d'acqua, e gl'invitavano a smontare in terra amorevolissimamente. Ma passando avanti arrivorono a una moltitudine d'isole di numero quasi infinito, le quali tutte conobbero essere abitate, piene d'arbori e fertilissime; e fra gl'altri arbori ne viddero una sorte di grandezza d'un olmo, li quali producono zucche, delle quali non si servono se non della scorza per portare acqua, per esser durissima, la midolla gettano via per essere amarissima. Nella costa che scorrevano trovarono un fiume navigabile, d'acqua tanto calda che non vi si poteva tenere le mani dentro. Trovarono dipoi andando piú avanti alcuni pescatori in certe sue barche d'un legno solo cavato, che pescavano in questo modo: avevano un pesce d'una forma a noi incognita, che ha sopra il corpo alcune squamme con spinette, e sopra la testa ha certa pelle tenacissima, che par una borsa grande; e questo lo tengono legato con una corda ad una banda della barca, tanto sotto acqua quanto va la barca, perchè non può patir vista di aere; e come veggono alcuni pesci grandi o testuggine, delle quali si trovano grandissime, gli slongano la corda e quello subito, sentendosi sciolto, corre come una saetta al pesce o testuggine, buttandogli adosso quella pelle s'appica, e con le spinette, tanto forte che non possono fuggire, e non gli lascia insino a tanto che lui insieme con la preda è tirato dalli pescatori vicino alla riva, li quali a poco a poco raccolgono la corda; e il pesce subito che sente l'aere lascia la preda, e li pescatori saltano con gran prestezza in acqua, tanti che siano sufficienti a tener la preda, la qual dapoi dagli altri compagni è tirata in barca. Presa la preda, di nuovo slongano tanto di corda al pesce cacciatore che possa tornare al luogo suo sotto la barca, dove con una corda della medesima preda gli danno a mangiare. Questo pesce gl'Indiani chiamano guaicano, e li nostri lo chiamarono roverscio perchè pesca roverscio. Questi pescatori, avendo preso quattro testuggini tanto grandi che con la loro grandezza occupavano tutta la barca, le donorono alli nostri per cibo delicatissimo; li quali domandando quanto durarebbe questa costa di terra verso ponente, risposero che non aveva fine e pregarono l'admirante che dismontasse in terra, o vero mandasse per suo nome a salutare il loro cacique, promettendo loro, se andassero, grandissimi presenti. Il che l'admirante per non perdere tempo non volse fare.
Partiti di qui, e scorrendo piú avanti pur per costa verso ponente, dopo pochi giorni s'abbatterono a un monte altissimo, il quale era benissimo cultivato e pieno di gente, le quali, vedute le navi, subito corsono a quelle portando pane, conigli, uccelli e cotone, e dallo interprete domandavano con gran maraviglia se la gente che era arrivata lí veniva dal cielo. Li nostri, veduta la umanità di costoro, all'incontro fecero loro gran carezze facendoli ancor alcuni presenti, e massime a quello che vedevano da costoro essere onorato come principale. Da questo cacique e molti altri uomini di gravità che gli erano appresso, intesero questa costa non essere isola, ma terra ferma.
Appresso questa terra scopersero un'isola a man sinistra, dove non viddero alcuno, perchè tutti, veduti li nostri, se n'erano fuggiti, ma solo viddero quattro cani di bruttissimo aspetto, e non abbaiavano, li quali costoro mangiano come noi li cavretti, ancora oche, anitre e aghironi. Tra questa isola e molte altre e la costa di terra ferma trovorono tanto stretti canali, con tanti gorghi e secche, che molte volte toccorono con il fondo delle navi la rena; durorono questi gorghi circa quaranta miglia, dove l'acqua era tanto spumosa e bianca e tanto spessa, che pareva vi fusse stata gittata farina. Finalmente usciti di queste secche, e intrati in alto mare circa ottanta miglia, viddero un monte altissimo, dove posero in terra alcuni uomini per far acqua e legne; li quali fra pini e palme altissime trovorono duoi fonti d'acqua dolcissima, e mentre che tagliavano le legne e impievonsi li vasi d'acqua, un balestriere de' nostri andò piú dentro nel bosco a spasso e si scontrò in un uomo vestito di bianco fino in terra, che gli fu sopra a capo che non se n'avidde. Nel principio credette che 'l fusse un frate che con loro avevano in nave, ma subito dietro costui ne apparsero due altri vestiti a quel medesimo modo, e cosí risguardando ne vidde una squadra da circa a trenta; li quali visti, subito incominciò a fuggire, e quelli seguitandolo facevano segno che non fuggisse, ma lui quanto piú presto potette venne alle navi e fece intendere all'admirante quanto aveva visto. Il qual mandò in terra per diverse vie molti uomini con ordine che bisognando andassino fra terra quaranta miglia, infino a tanto che trovassero o li vestiti di bianco o altri abitatori. Questi, passato il bosco, entrorono in una pianura piena di varie erbe, nella quale non era pur un segno di strada o sentiero, e volendo andare piú avanti per l'erba, s'invilupporono tanto nell'erba che per buono spazio di tempo con gran fatica fecero un miglio, e questo perchè l'erba era in tanta altezza in quanto sono li nostri formenti quando sono maturi; donde cosí stracchi se ne tornorono indietro.
Il giorno seguente l'admirante mandò altri venticinque uomini armati, alli quali similmente ordinò che con diligenzia cercassino che gente abitasse questa terra. Questi, avendo trovato non molto lontano dalla marina sopra quel lito pedate di grandi animali, pensando che fussero di leoni, impauriti si tornarono indietro per altra via; per la quale trovorono una selva d'arbori, alli quali erano appiccate vite prodotte dalla natura, cariche di grandi grappoli d'uve dolcissime, e altri arbori che avevano frutti odoratissimi e aromatici. Dell'uve seccorono alcuni grappoli, quali per mostra portoron seco, ma gli altri frutti, non potendo seccarsi, tutti si marcirono.
Fra questi boschi in alcuni prati viddero grue in gran quantità, il doppio maggiori delle nostre. Ed essendo andati piú avanti, smontati in terra arrivorono appresso ad alcuni monti, dove in due casette trovorono un solo Indiano, il quale, condotto davanti all'admirante, con cenni delle mani e della testa mostrava che di là da certi monti lí vicini erano luoghi molto abitati; dove, stando in questo luogo li cristiani alcuni giorni, molte barche di gente del paese gli vennero a trovare, e con cenni amichevolmente gli salutavano. Con cenni dico, perchè la lingua loro non era intesa, né ancora da quello Indiano il quale era famigliare dell'admirante e servivalo per interprete, e da questo manifestamente si conobbe fra gl'Indiani esser varie lingue. Pure in questo modo intesero fra terra essere uno potentissimo cacique, il quale andava vestito al modo nostro.
Questa costa è tutta paludosa e piena d'arbori, nella quale cercando li nostri far acqua, trovorono di quelle ostriche nelle quali nascono le perle, con alcune d'esse dentrovi. Né per questo parve loro dover dimorar lí lungo tempo, perchè il loro intento non era altro che scoprir piú terra che fusse lor possibile, secondo che era stato loro comandato dalli re, dubitando non esser prevenuti dal re di Portogallo, il quale, inteso l'acquisto di Colombo, aveva mandato uomini a questa volta, essendo questa consuetudine, che qualunche primo discoprisse fusse signore. Partiti adunque di qui e seguitando il loro viaggio, vedevano per tutti quelli liti fuochi grandi e in gran quantità, perchè essendovi assai monticelli nessuno v'era, per picciolo che fusse, che non avesse il suo, e questo si vedeva per lo spazio di circa ottanta miglia. Qual fusse causa di quei fuochi non potettero intendere, né sapere se fussero fatti ordinariamente dalle case per suoi bisogni, o pur fussero segni dati alli vicini per ridursi insieme, come si fa nelli luoghi di sospetto, al tempo di guerra, o pure perchè convocassino li popoli a vedere le nostre navi, come cosa mai piú da loro veduta. Li litti della detta costa, quanto piú andavano avanti, tanto piú ora ad ostro e ora a gherbino s'ingolfavano, e vedevasi il mare tutto pieno d'isole.
Come l'admirante, ritornando indietro, s'abbaté ad una parte di mare piena di testuggini molto grandi; e quel che gli disse un vecchio Indiano, d'aspetto di molta gravità, e la risposta fattali per l'admirante. In che modo quegli Indiani adorino il sole, e del vivere e costumi loro.
Ma trovandosi l'admirante con le navi per il lungo viaggio mal condizionate, e con mancamento di biscotto, prese partito di tornarsene indietro, e chiamò questa ultima parte della costa, che si pensò che fusse terra ferma, Evangelista. E nel tornare adietro, passando appresso ad altre isole, s'abbaté a una parte di mare tanto piena di testuggini, o vogliamo dire biscie scodellaie, e tanto grandi, che alcuna volta le navi non potevano andare avanti. Passata questa parte, scorse per alcuni gorghi d'acque bianche, simili a quelle delle quali di sopra si è detto. E finalmente, per schivar le secche dell'isole, fu constretto smontare in su li litti di detta terra, al quale molti Indiani vennero portandogli molti doni, come pappagalli, conigli, pane e acqua; ma il piú portavano alcuni colombi maggiori delli nostri e al gusto molto piú soavi, come dipoi riferí l'admirante, che le nostre pernici. Per il che quella sera nella quale erano arrivati in quel luogo, cenando e sentendo in essi certo odore aromatico, ordinò che ne fusse di subito morto alcuno e sgozzato: il che fatto, trovorono loro il gozzo pieno di fiori odorati, li quali davano cosí suave sapore alla carne.
La mattina sequente, secondo che era usato, fece l'admirante dir la messa; mentre che la si diceva, sopragiunse un vecchio d'anni circa ottanta, uomo nell'aspetto di molta gravità, accompagnato da molti Indiani tutti nudi, eccetto le parti pudibunde. Questo, vedendo celebrarsi la messa, stette intento con grande admirazione; la qual finita, subito presentò all'admirante un canestro pieno di frutti del paese, donde l'admirante l'accolse molto graziosamente e se lo fece sedere appresso. Il buon vecchio, per quello Indiano famigliare dell'admirante, del quale esso si serviva, come si è detto, per interprete, perchè intendeva questa lingua, parlò in questo modo: "Noi abbiamo inteso che tu hai molto arditamente scorso tutte queste terre infino a questo giorno da te non piú vedute, e hai molto spaventati questi popoli. Per la qual cosa io ti conforto e prego che sapendo tu che l'anime nostre hanno, poi che sono uscite del corpo, due vie, una oscura e tenebrosa, per la quale vanno l'anime di quelli che sono stati molesti all'umana generazione, un'altra lucida e chiara, ordinata per quelli li quali hanno amato la pace e quiete, essendo tu mortale e aspettando il premio delle tue operazioni, non vogli ad alcuno esser molesto". Alle quali parole l'admirante, restando stupefatto del giudicio di questo vecchio, rispose che sapeva e teneva per certo tutto quello che lui delle anime diceva, ma che si pensava che queste cose non si sapessero dagli abitatori di queste regioni, vedendogli contenti di quanto richiede la natura né cercar piú avanti; e che dalli re catolici era stato mandato con ordine che reducesse in pace e quiete tutte le parti del mondo da loro non piú conosciute, cioè perchè distruggesse li canibali e altri scelerati uomini di quel paese, e gli punisse secondo li meriti loro, e gli uomini quieti e da bene onorasse e defendesse; e che né lui né altri che avesse buona mente temesse di cosa alcuna, e di piú che se da alcuno gli fusse fatto ingiuria, o a lui o ad altri della sua sorte, lo manifestasse, che lui a tutto porrebbe rimedio. Queste parole dell'admirante piacquero grandemente al vecchio, in modo che, ancora che fusse di quella età, diceva esser deliberato di seguirlo dovunque andasse: il che sarebbe successo, se la moglie e figliuoli non gliel'avessero con molte lacrime proibito. Maravigliossi nondimeno il vecchio intendendo dall'interprete l'admirante avere altro signore sopra di sé, e molto piú quando intese quanto fusse la potenzia delli re catolici per li regni e città che avevano sotto il loro imperio, e piú volte domandò se quella terra nella quale nascevano cosí grandi uomini fusse il cielo.
L'admirante volse intendere qualche particularità di questo paese, e cosí per via dell'interprete intese come non hanno tra loro signore alcuno particulare, ma vivono a commune, e li vecchi sono quelli che governano, il numero de' quali è grande. Adorano il sole in questo modo: la mattina, avanti che apparisca a levante, vanno appresso il mare o fiumi o fonti, e come appariscono i primi raggi subito si bagnano le mani e il volto e gli fanno reverenzia. Poi li vecchi si riducono all'ombra d'alberi altissimi e verdissimi, non molto lontani dalle loro abitazioni, e quivi sedendo e ragionando stanno oziosi. Li giovani vanno a far tutte le cose necessarie, come seminare e ricorre il maiz, iuca e agyes, secondo il tempo, e ciascuno lo può ricorre dovunque gli piace per servirsene per casa sua, ancorchè da lui non sia seminato, sí perchè la terra ne produce in tanta quantità che avanza loro, sí ancora perchè hanno opinione che la terra, e ciò che di quella nasce, debba esser commune come è il sole e l'acqua. E per questa causa mai fra loro si sente dire "questo è mio e questo è tuo", né si vede por termini, over fosse e siepi, per dividersi l'uno dall'altro, ma in commune di quanto la natura produce vivono senza bisogno di legge overo giudicio, per lor medesimi naturalmente osservando il dovere.
Il principale intento delli vecchi è ammaestrare li giovani, che nelli cibi e nel resto, che fa lor di bisogno per il viver suo, si contentino di adoperar poche cose, e quelle ancora le quali nascono nel paese loro; e per questa cagione non lasciano venire a' paesi loro alcun forestiero che porti cose nuove, né vogliono far baratti, e proibiscono alli suoi partirsi del paese nativo e pratticar con forestieri, e questo per dubbio che hanno che, presi li costumi stranieri, non diventino scelerati. Spesse volte si riducono, sí gli uomini come le donne, sotto altissime ombre, e quivi ballano a lor modo e si danno buon tempo.
Come l'admirante fu assalito da una grave infermità, e Hoieda, fatta una imboscata, prese il cacique di Caunoboa, qual aveva disegnato di ammazzar l'admirante. Edifica un'altra fortezza, e per qual causa si rimuove dall'incominciato camino. Di alcuni boschi di verzino ritrovati, e come li caciqui del paese si obligorono dar tributo di quelle cose che avevano.
Intesi tutti questi particulari, l'admirante si partí di questo luogo, e di nuovo arrivò all'isola Iamaica, a quella banda che è volta a mezzodí, la qual tutta trascorse da ponente a levante. Dall'ultima parte della quale guardando verso tramontana, vidde a man sinistra alcuni alti monti, li quali conobbe esser nell'isola Spagnuola, in quella parte la quale per ancora lui non aveva scorsa. Desiderando vedergli si dirizzò a quella volta e arrivò al porto chiamato S. Nicolò, con animo di restaurar li navili per andare a ruinar li canibali e abbrucciar loro tutte le lor barche. Il che non potette mandare ad effetto, essendo soprapreso da gravissima malattia per li grandi disaggi e fatiche sopportate in questo viaggio, per la quale fu forzato farsi portare alla città Isabella dove erano due suoi fratelli e il resto di sua famiglia. Quivi recuperata la sanità, non potette esequir la sua impresa per le molte sedizioni nate nell'isola fra gli Spagnuoli, per le quali sedizioni fra le altre cose trovò che un Pietro Margarita, gentiluomo della corte delli re catolici, con molti altri, li quali lui aveva lasciati al governo dell'isola, s'erano partiti irati contra l'admirante e tornati in Spagna; per la qual cosa ancora lui deliberò andare alla corte, dubitando che quelli che si erano partiti non referissero mal di lui alli re, e per dimandar gente in luogo di quella che si era partita e vettovaglie come frumento e vino, perchè gli Spagnuoli non potevano molto facilmente assuefarsi alli cibi indiani. Ma prima che si partisse, cercò di mitigare alcuni di quelli signori del paese che s'erano ancor loro sdegnati contra gli Spagnuoli, per le insolenzie, furti, rapine e omicidii che facevano avanti li loro occhi senza alcuno rispetto; e prima reconciliò e si fe' amico un cacique detto Guarionesio, e perchè questo meglio gli succedesse, maritò una sorella del cacique a quello suo interprete indiano chiamato Didaco, allevato lungamente in sua corte.
Dopo questo andò al cacique Caunaboa, signore delli monti Cibaui, cioè della region nella quale cavano l'oro, dove aveva fatta la fortezza chiamata S. Thomé e postovi alla guardia Hoieda con cinquanta armati, la qual era stata assediata da quel cacique già trenta giorni, e la liberò; e perchè quel cacique aveva nella absenzia sua fatto morire molti delli nostri, deliberò l'admirante con ogni industria averlo nelle mani, e per far questo mandò Hoieda per persuadergli che gli venisse a parlare. Dove arrivato, Hoieda trovò molti mandati da' signori dell'isola a Caunaboa, li quali gli dicevano che non dovesse per alcun modo tenere amicizia con li cristiani, se non voleva diventare loro vasallo. All'incontro Hoieda, parte pregando e parte minacciando, s'ingegnava persuadergli il contrario, cioè che in persona andasse a l'admirante e con lui facesse confederazione. Finalmente Caunaboa, fingendo esser persuaso, disse volersi abboccare con l'admirante, e con questa coperta disegnava ammazzarlo; messo adunque in ordine tutta la sua famiglia e molti altri armati, andava a quella volta. Domandollo Hoieda perchè menasse tanta gente; rispose che un tal signore quale era lui, non doveva andare con manco compagnia. Ma Hoieda, conosciuto questo suo disegno, fatta una imboscata lo prese a man salva, e con ferri a' piedi lo menò all'admirante.
Preso Caunaboa, l'admirante aveva deliberato andar scorrendo tutta l'isola soggiogando quelli signori: ma inteso che per l'isola gli uomini si morivano di fame e che già n'erano morti circa a cinquanta mila (il che tutto aveniva per loro difetto, perchè, acciochè i cristiani patissero e fussero forzati abbandonar l'isola, non solo non avevano quell'anno voluto seminare o piantare le radici delle quali fanno pane e si nutriscono, come di sopra s'è detto; ma ancora avevano svelte e sbarbate ciascuno nel suo paese le seminate e piantate, e specialmente appresso i monti Cibaui, dove si cava l'oro, conoscendo esser potissima causa di far dimorar li nostri nell'isola, il che causò una fame grandissima: ma il male era sopra di loro, perchè li nostri furono soccorsi di vettovaglie da Guarionesio, il quale nel suo paese non aveva tanta necessità), per questa causa l'admirante si rimosse dall'incominciato camino. E perchè li suoi avessino piú ridotti in quella isola, per ogni occorrenzia e assalto che dagl'isolani potesse loro sopravenire, fra la città Isabella e la rocca di San Thomé, sopra una collina abbondante di acque, alli confini del paese di Guarionesio, edificò un'altra fortezza, qual chiamò la Concezione. Allora, vedendo gli uomini dell'isola che li cristiani ogni giorno fabricavano qualche nuova fortezza in su l'isola, e che quelli tenevano poco conto delle navi, le quali già erano quasi tutte marcie, si trovavano in grandissima ansietà conoscendo certo che del tutto erano per perdere la libertà, e cosí pieni di doglia spesso domandavano se li nostri mai erano per partirsi dell'isola. Li nostri, per non gl'indurre a disperazione, al meglio che potevano gli confortavano. E andando scorrendo non molto lontano dalla fortezza per li monti Cibaui, fu presentato loro da uno cacique un pezzo d'oro a similitudine d'un pezzo di tuffo di peso di venti oncie. Questo grano d'oro fu poi mandato in Spagna alli re, che si trovavano in Medina del Campo, e fu veduto da tutta la corte. Trovorono ancora in questi monti molti boschi di arbori di verzino, delli quali dapoi caricorono assai sopra navi per Spagna. Queste cose, quando erano vedute dagl'Indiani, davano loro grandissima molestia.
L'admirante adunque, vedendo gl'isolani afflitti e travagliati, sí per le cose sopradette sí ancora per le rapine delli nostri, quali non potevano tenere che non andassino facendo per tutta l'isola infiniti mali, fece convocare a sé tutti li caciqui del paese, con li quali venne a questo accordo, che lui non permettesse che gli suoi scorressino per l'isola, perchè loro, sotto pretesto di cercare oro, depredavano tutte l'altre cose dell'isola; li caciqui all'incontro s'obligarono dare tributo di quelle cose che avevano, una certa porzione per testa. Gli abitatori delli monti Cibaui si obligorono dare ogni tre mesi, che loro chiamano ogni tre lune, una certa misura piena d'oro e mandarla fino alla città; gli altri che stanno alla pianura, dove nascono li cottoni e altre cose da mercato, si obligorono dare di quelle una certa quantità per testa. Ma questo accordo fu rotto per la fame, perchè essendo mancate quelle sue semenze e radici delle quali facevano pane, avevano assai travagli andar tutto il giorno per boschi procurando da mangiare radici e frutti d'arbori salvatichi, in modo che non avevano tempo di cercare oro; pure alcuni attesero, e al tempo debito portorono parte dell'obligazione, escusandosi del resto, e promettevano che piú presto che si potessino restaurar pagariano il doppio, il che non potettero fare gli abitatori delli monti Cibaui, per esser piú che gli altri oppressi dalla fame.
In che modo gl'Indiani disposero le sue genti per combattere con cristiani, e come combattendo furono superati e vinti. Come furono trovate alcune minere d'oro, appresso le quali il governatore fratello dell'admirante edificò una fortezza.
Ma torniamo a Caunaboa prigione, il quale, pensando dí e notte in che modo potesse liberarsi, cominciò a persuadere all'admirante che avendo lui presa la defensione delli monti Cibaui, che dovesse mandare a quella volta qualche presidio de' cristiani, essendo quelli tutto il giorno infestati dagli nemici suoi vicini. Il che faceva con questo disegno, perchè trovandosi un suo fratello con molti Indiani da guerra in detta provincia, era possibile che, o per forza o per inganni, tanti delli nostri fussero presi da loro, che servissino al riscatto suo. L'admirante, accortosi dell'inganno, mandò Hoieda talmente accompagnato che potesse esser superiore alli Cibaui, se loro contro di lui movessero l'armi.
Subito che Hoieda fu arrivato al paese di Caunaboa, il fratello, secondo l'ordine datogli da quello, mise insieme circa cinquemila Indiani armati al modo loro, cioè nudi, con saette senza ferri, ma con punte di pietre acutissime, e con mazze e lancie. E come quello che avesse qualche notizia del combattere al modo indiano, s'accampò piú d'un trar d'arco lontano dalli nostri, dividendo le genti in cinque squadroni, assegnando a ciascuna squadra il luogo suo, egualmente lontano l'una dall'altra, ordinate in forma d'un semicircolo. Lo squadrone del quale lui era capo pose all'incontro delli nostri, e cosí avendo ordinate le squadre, comandò che si desse segno che tutti egualmente si movessino e che tutti gridando ad un tratto appiccassino la zuffa, acciochè nessuno delli nostri, essendo circundati da tale moltitudine, potesse scampare. Li nostri, vedendo questo, giudicarono esser meglio combattere con uno delli squadroni che con tutti, e cosí si caricorono adosso al maggiore che veniva per la piú piana, e questo perchè in quel luogo si potevano meglio adoperare li cavalli, con tanto impeto che non potettero gl'Indiani, essendo nudi, sostenere la furia delli cavalli, anzi rotti e mal trattati si misero in fuga. Il che fecero gli altri, spaventati per aver visto il primo squadrone ruinato e disfatto, e con quanta celerità potettero si ritirorono alli piú alti monti del paese, donde mandorono ambasciatori alli nostri, promettendo far quanto fusse lor comandato se fosse lor concesso stare in casa loro. Il che facilmente ottennero, poichè li cristiani ebbero nelle mani il fratello di Caunaboa. Li quali tutti due, essendo menati prigioni in Spagna per presentargli alli re catolici, nel viaggio di dolore si morirono.
Dopo questo restarono quieti tutti gli abitatori delli monti Cibaui, fra li quali è una valle, dove abitava il cacique Caunaboa, chiamata Gagona, piena di fiumi che menano oro e di fonti di acque chiarissime, il che fa la valle fertilissima. Questo anno, nel mese di giugno, sopra questa provincia si mosse dalla parte di levante, a ora quasi di mezzogiorno, una fortuna di vento furiosissima, la quale spigneva una moltitudine di nuvole grosse, le quali occupavano lo spazio di circa dieci miglia per ogni verso, e scontrandosi con un vento da ponente, tutti due insieme combattendo facevano cose inaudite e spaventevoli. Perchè or pareva che rompessino le nuvole e le mandassero infino al cielo con tuoni grandissimi e lucidissimi lampi, e ora, appressandosi alla terra, ciò che trovavano girando lo levavano da suolo, ed era tanta la oscurità dell'aere che gli uomini non vedevano l'un l'altro non altrimenti che se fusse stata mezzanotte, quando quella è piú oscura. Dove passava questo impetuoso turbine, non solo sbarbava quanti arbori trovava, e alcuni, che facevano per esser maggiori piú resistenzia, con maggior ferocia con tutte le radici portava lontani per aria, ma, mosse le pietre dalle cime de' monti, le facevano andare a basso con incredibil ruina. Di qui nasceva un rumore nell'aria e per la terra, tanto orribile e pieno di spavento che ognun pensava che il fin del mondo fosse venuto, né si sapeva dove fuggire perchè in ogni luogo appariva la morte manifesta; nelle case non pareva sicuro stare, essendosene vedute gran quantità sfondate dalli sassi e tronchi di alberi che pareva piovessino, e alcune levate in aria con gli abitatori insieme; solo a quelli pareva esser sicuri, come veramente erano, li quali, trovandosi appresso ad alcune caverne, in quelle rifuggirono. Giunse questa rabbia di vento al porto, dove erano tre navi dell'admirante surte con molte ancore, e di queste rotti li canapi e sartie, giratele tre volte le cacciò sotto, insieme con gli uomini che vi si trovoron suso. Il mare, il quale in quelle bande non è solito crescere o decrescere come in Spagna, ma sta sempre nelli suoi termini, e per questo si veggono li liti dove batte pieni di fiori ed erbe, per questo sí crudel temporale gonfiò in modo che allagò in molte parti i piani dell'isola, per lo spazio di tre o quattro miglia.
Gl'Indiani, cessato il vento, qual durò per tre ore, e venuto il sole, tutti attoniti guardavano l'un l'altro né potevano parlare, restando loro ancora nell'animo quel tanto orrore; pur doppo alquanto preso fiato, dicevano mai piú né alli tempi loro né delli loro antichi esser accaduti simili uracani, che cosí chiamano le tempeste, e pensavano che Iddio, vedendo tali mali e sceleraggini che facevano li cristiani per l'isola, volendogli punire avesse mandato loro questa ruina adosso, e dicevano questa gente esser venuta a muover l'aria, l'acqua e la terra per disturbare il lor tranquillo vivere. L'admirante, venuto al porto e visti rotti li suoi disegni d'andare in Spagna per esser rotte le navi, immediate fece far due caravelle, perchè aveva seco maestri sufficientissimi di tutte le arti. E mentre che le si fabricavano mandò Bartolomeo Colombo, suo fratello, che era governator dell'isola, con alcuni bene armati, alle minere dove cavavano l'oro, che sono sessanta leghe lontane dalla fortezza Isabella, per investigar pienamente la natura di quelli luoghi. Andato il detto governatore, trovò profondissime cave, come pozzi: li maestri di minere che aveva menato seco, crivellando la terra in diversi luoghi delle dette minere, quali duravano per spazio di circa sei miglia, giudicarono che quelli tenessero tanta quantità di oro che ogni maestro facilmente potesse cavar ogni giorno tre ducati di oro. Della qual cosa il governatore subito dette notizia all'admirante, il quale, inteso questo, deliberò tornarsi in Spagna. E cosí partí agli undici di marzo 1495.
Partito l'admirante, il governatore suo fratello, per consiglio di quello, edificò appresso le prefate minere dell'oro una fortezza, e la chiamò la fortezza dell'Oro, perchè nella terra con la quale facevano le mura trovorono mescolato oro. Consumò due mesi in far strumenti e vasi da ricorre e lavare l'oro, ma la fame il disturbò e costrinse a lasciar l'opera imperfetta; donde, partitosi di lí, lasciò alla guardia della fortezza dieci uomini, con quella parte che poté di pane dell'isola e un cane da prender alcuni animali simili a' conigli, li quali loro chiamano utias, e tornossi alla rocca della Concezione, nel mese che Guarionesio e Manicatesio signori dovevano pagar il tributo. E, stato lí tutto giugno, riscosse il tributo intiero da questi due caciqui, e oltre a questo ebbe molte cose necessarie al vivere, per sé e per gli suoi che aveva seco, li quali erano circa quattrocento uomini.
Come il detto governatore edificò una rocca sopra un colle propinquo alle minere dell'oro, e fece tagliar gran quantità di verzini nei boschi d'alcuni caciqui. Del grande apparecchio di Beuchio Anacauchoa fatto alla venuta di esso governatore con feste, giuochi e danze, e con far combatter due squadre di uomini armati. E come 10 mila Indiani ch'aveano deliberato venir alle mani con li nostri furono sconfitti, e castigati due de' prigioni, gli altri furono liberati.
E circa il primo giorno di luglio giunsero tre caravelle di Spagna con formento, olio, vino, carne di porco e di manzo salate; le quali tutte cose furono partite, e a ciascuno dato la sua porzione. Per queste caravelle ebbe commessione il governatore dalli re, e suo fratello lo admirante, il quale con li re di tal cosa aveva parlato, che dovesse andare ad abitare in quella parte dell'isola che è esposta a mezzogiorno, perchè stando lí era molto propinquo alle minere dell'oro; e di piú che mandasse prigioni in Spagna tutti li caciqui dell'isola li quali avesser morto cristiani: donde il governatore mandò trecento Indiani con alcuni signori. Dipoi, scorsa tutta la parte di mezzogiorno dell'isola, elesse un luogo per abitare sopra un colle propinquo a uno sicurissimo porto, in sul quale edificò una rocca, la qual chiamò di San Domenico, perchè in domenica arrivò a quello luogo.
Appiè del detto colle corre e sbocca nel porto un bellissimo e largo fiume di chiara acqua, abbondantissimo di diverse sorti di pesci, con le sue ripe da ogni banda amenissime per la diversità dell'erbe e arbori fruttiferi che in esse sono, con tanti frutti che possono li naviganti a loro piacer pigliarne. È questa parte della isola (come dicono) non manco fertile che la provincia dove è la fortezza Isabella; dalla quale partendo il governatore lasciò tutti gli ammalati con alcuni maestri, li quali avevan cominciate due caravelle, acciochè le facessino; gli altri menò a San Domenico. Fabricata questa rocca, la qual dapoi è diventata la principal città di quella isola, lasciò in guardia in detta venti uomini e si partí col resto, e andò per veder le parti fra terra dell'isola verso ponente, delle quali non aveva alcuna notizia. E messo in cammino, lontano da quel luogo trenta leghe, trovò il fiume Naiba, il qual, come è detto di sopra, descende dalli monti Cibaui dalla parte di ostro e corre a diritto per mezzo l'isola. Passato quello, mandò duoi capitani con gente a man sinistra alle terre di alcuni caciqui, che avevano molti boschi di verzini, li quali mai infino a quella ora erano stati tagliati, e di questi tagliorono gran quantità e li misero nelle case di quegli isolani per salvargli, fin che ritornassero a levargli co' navili.
Ma il governatore, scorrendo a man destra non molto distante dal fiume Naiba, trovò un cacique potente nominato Beuchio Anacauchoa, il quale con molta gente era alla campagna per subiugare li popoli di questi luoghi. Lo stato di questo cacique era in capo dell'isola verso ponente, qual si chiama Xaragua, lontan dal fiume Naiba trenta leghe, paese montuoso e aspro, e tutti li cacique di quelle parti gli danno obedienzia. In tutta questa parte da Naiba infino all'ultima parte dell'isola verso ponente non si truova oro. Questo cacique, veduto li nostri venire, poste giú l'armi e dato loro segno di pace, s'incontrò con il governatore, domandando quello che cercassino; al quale rispose che voleva che, sí come gli altri cacique dell'isola pagavan tributo a suo fratello lo admirante, per nome delli re catolici, cosí ancor lui pagasse. Beuchio, inteso questo, admirato disse (come quello che aveva inteso questa nuova gente non cercare altro che oro): "Come posso io pagarvi tributo, conciosiachè in tutto il mio stato non si trovi pur un gran d'oro?" Allora il governatore, conosciuta la verità della cosa, e inteso che aveva gran copia di cottone e canape, vennero all'accordo che di questo gli dovesse pagar tributo. Fatto l'accordo, questo cacique menò seco li nostri alla terra dove lui teneva corte, dove furono molto onorati. E gli venne incontro quel popolo con gran festa, e tra l'altre cose vi furono questi duoi spettacoli. Il primo, che venne loro incontra trenta belle giovani mogliere del cacique, nude tutto il corpo, eccetto quelle che avevan dormito con lui, le quali avevan coperte le parti pudibonde con un certo panno di cottone, secondo loro usanza; ma le donzelle erano tutte nude, con capelli sparsi per le spalle, ma legata la fronte con una benda. Queste eran bellissime e di colore ulivigno, e portavano in mano rami di palme, e venivano incontro al governatore con diversi suoni e canti, ballando: le quali, fattogli riverenzia con le ginocchia in terra, gli presentarono dette palme. Intrati in casa, gli fu apparecchiata una cena molto splendida a loro usanza, e dapoi tutti alloggiati, secondo la qualità di ciascuno. La notte dormirono in letti di corde sospesi da terra, come altra volta abbiamo detto.
Il seguente giorno furono menati ad una casa grande, nella qual usano quegli Indiani far lor feste, dove furon fatti molti giuochi e danze a loro usanza, molto lontane dal danzare nostro. Dopo questi, partiti di questa casa, andorono a una gran pianura, dove all'improviso vennero due squadre d'uomini armati al modo loro, da due diverse bande, le quali il cacique aveva fatto mettere in ordine solo per delettazion delli nostri. Queste vennero alle mani con dardi e freccie e altre armi, cosí ferocemente che pareva che fussero capitali nemici e combattessero per la moglie e figliuoli, in modo che in poco spazio di tempo ne furon morti quattro e molti feriti. E la zuffa sarebbe andata piú in lungo, e di morti e feriti sarebbero stati piú, se il cacique a preghiere delli nostri non avesse dato segno che restassero.
Il seguente giorno, avendo determinato partire, ragionando con il cacique lo consigliò che, acciochè piú facilmente potessero li popoli pagare il tributo impostoli del cottone, facesse seminar quello vicino alle rive delli fiumi. E cosí si partí, e arrivati alla rocca Isabella, dove aveva lasciati gli ammalati e li navili che incominciati si lavoravano, trovò che erano morti di quelli da trecento per varie infirmità. Di che si trovava molto malcontento, e piú perchè non vedeva apparir navili di Spagna con vettovaglie, delle quali aveva gran necessità. Finalmente deliberò divider il resto degli ammalati per li castelli edificati nell'isola, fra Isabella e San Domenico, che è camino diritto da ostro a tramontana, per veder se per mutare aere si potevano sanare. Li quali castelli son questi: prima partendosi da Isabella, lontan trentasei miglia, è la rocca Speranza, e da Speranza lontan ventiquattro miglia è Santa Caterina, da Santa Caterina lontan venti miglia San Iacopo, da San Iacopo altre venti la Concezione, posta alle radici de' monti Cibaui, in una pianura grassissima e molto popolata; tra la Concezione e San Domenico ne era un'altra chiamata Bonauo, dal nome d'un cacique lí vicino.
Partiti gli ammalati per questi castelli, lui se ne andò a San Domenico, riscottendo per il viaggio li tributi da quelli caciqui. E cosí stando, dopo pochi giorni gli venne a orecchi tutti li caciqui che erano vicini alla fortezza della Concezione, per li mali portamenti de' nostri viver malcontenti e desiderar cose nuove. Il che poi che ebbe inteso, subito si mosse a quella volta, e approssimandosi a quel luogo intese che dagli uomini della provincia era stato eletto Guarionesio per signore, e quasi per forza condotto a questa impresa; per forza dico, perchè, avendo provato altra volta l'armi de' nostri, temeva; pur convenne con costoro un dí determinato con quindicimila uomini venire alle mani con li nostri. Il che avendo inteso il governatore, consigliatosi con il capitano della fortezza e altri suoi soldati, determinò assaltar costoro ciascuno in disparte, avanti che si mettessino insieme, e cosí fu fatto. Perchè mandò diversi capitani alli borghi degl'Indiani, li quali erano senza alcun fosso o argine, e trovatigli alla sprovista e disarmati gli assaltorono e tutti gli presero, e legato ciascuno il suo gli menorono al governatore, il quale era andato alla volta di Guarionesio, come a quello che era piú potente, e avevalo preso alla medesima ora. Li presi furon quattordici, li quali tutti furon menati alla Concezione, delli quali duo soli furon castigati; gli altri licenziò il governatore insieme con Guarionesio, e gli licenziò solo per non spaventare gli uomini del paese, il che alli nostri sarebbe stato molto dannoso, perchè avrebbon lasciato di coltivar la terra.
Erano corsi alla fortezza, ciascuno per riscuotere il suo, circa cinquemila Indiani disarmati, i quali con le grida che andavano infino al cielo facevano tremar la terra. Il governatore, fatti molti presenti a Guarionesio e altri caciqui, con promesse e minaccie gli admoní che guardassino di non machinare altra volta cosa che tornasse contra alli re catolici. Allora Guarionesio parlò alli suoi, mostrando la potenzia delli nostri, e la clemenzia inverso chi errava e la liberalità inverso li fedeli, pregandoli che posassino l'animo e che non facessino cose che fussino contro li cristiani. Allora gl'Indiani preson Guarionesio e lo portorono in su le spalle infino alla casa dove abitava. E cosí quella provincia per qualche giorno stette in pace. Pur li nostri erano in gran fastidio trovandosi in paesi stranieri abandonati, conciosiachè già fusser passati quindici mesi dopo la partita dell'admirante, e già mancavan loro tutte le cose necessarie cosí al vivere come al vestire. Il governatore, pascendogli di speranza, meglio che poteva gli confortava.
Dell'ottime condizioni della moglie del cacique di Caunoboa ritornata dal fratello per la morte del marito, e in qual modo essi andorono incontra al governatore, e li presenti e grande accoglienze a lui fatte. E come ne' conviti de' signori usano mangiare serpenti per cibo delicatissimo, e il modo di cuocergli.
Mentre che stavano in questo modo vennero nuncii dal cacique Beuchio Anacauchoa, che aveva lo stato suo verso ponente, detto Xaragua, come di sopra si è detto, a fare intendere al governatore come era preparato tutto il cottone e altre cose delle quali erano debitori lui e tutti gli suoi subditi per tributo. Il governatore, inteso questo, si mise in cammino per andarlo a trovare, e questo faceva molto volentieri perchè aveva inteso che era tornata a casa del detto cacique una sua sorella, detta Anachaona, che in lingua nostra vuol dire "fior d'oro", qual fu moglie del cacique Caunoboa, che fu preso dalli nostri. Questa era reputata la piú bella donna dell'isola Spagnuola, e alla bellezza s'aggiugneva l'ingegno e piacevolezza, per le quali cose era di tanta autorità che la governava tutto lo stato del fratello, appresso il quale era ritornata dopo la morte del marito; e sapendo quello gli era intervenuto, acciochè 'l fratello non incorresse in simile errore, gli persuase che onorasse gli cristiani né negasse far cosa che da quelli gli fusse imposta. Intesa la venuta del governatore, questo cacique e Anacaona sua sorella per onorarlo gli andoron alquante miglia incontro. Con ordine diverso dal primo fecero andare insieme uomini e donne ballando e cantando avanti, poi veniva il cacique sopra un legno leggieri portato da sei Indiani, nudo eccetto le parti pudibunde; similmente Anacaona veniva appresso portata al medesimo modo da sei Indiani. Era costei nuda tutto il corpo, il quale aveva tutto dipinto a fiori rossi e bianchi, le parti vergognose aveva coperte con un telo sottilissimo di cottone di varii colori, in testa e al collo e braccia aveva ghirlande di fiori rossi e bianchi odoratissimi, e nell'aspetto veramente, come dicono, mostrava esser signora. Incontrato il governatore, si fecero porre in terra da quelli che gli portavano il cacique e la sorella, e gli fecero reverenzia. Dipoi l'accompagnarono a casa, dove erano congregati li tributi di trenta caciqui, e oltre a quel che erano obligati, per farsi benivoli li cristiani avevano portati diversi presenti, come pan di maiz e iucca e molti di quelli animali dell'isola chiamati utias, simili a' conigli, pesci di diverse sorti tutti arrostiti perchè non si guastassero, fra i quali eran certi serpi grandi e spaventosi al vederli, di quattro piedi, chiamati yuana, che nascono nell'isola, di diversi colori, con spine dal capo alla coda e con denti acutissimi. Gl'Indiani mangiano questi, e reputangli il migliore e il piú delicato cibo che si possa trovare, e cibo da signori. Li cristiani, ancorchè di questi avesser piú volte veduto mangiarne agl'Indiani, mai ne volser mangiare, perchè la bruttezza loro facea nausea grandissima allo stomaco.
Venuta la sera fu preparata la cena bellissima e abbondatissima di cibi fatti in diverse maniere. Sedeva ad una mensa separata dagli altri il governatore con il cacique e la sorella Anacoana; la qual mensa era un tela di cottone fatta di diversi colori distesa in terra, intorno la quale sedevano loro sopra monticelli, a modo di cussini, di foglie d'arbori tonde, un palmo l'una larghe, odoratissime. E qualunche volta li ministri portavano nuove vivande, portavano similmente un mazzo di dette foglie per nettarsi con esse le mani. Anacoana, ch'era quanto patiscono li costumi del paese delicatissima e bella, guardava il governatore molto amorosamente, parendogli il piú bell'uomo che giamai avesse veduto. Ed essendo ingegnosa e molto piacevole, motteggiava con lui diverse cose per via d'interpreti, e fra l'altre gli disse che teneva per certo che la bellezza del paese de' cristiani superasse la bellezza di qualunque altro paese, vedendo che in quello nascevano uomini tanto belli. E per questo lo pregava che gli dicesse per che causa, lasciando una cosa sí bella, andavano cercando le brutte, come sono le sue. E quando furono portati quelli serpi cotti, lei, spiccatone un pezzo della coda, lo presentò al governatore, con allegro viso invitandolo che per amor suo lo volesse gustare. Il governatore, già preso dalla gentilezza di costei, desiderando fargli piacere, ancorchè contra sua voglia pure lo accettò, e fatto animo lo cominciò a gustare con le labbra solamente, e non gli dispiacendo lo masticò e mangiò, e fu tanta l'eccellenza e la soavità di questa carne al gusto e al palato, che dapoi non volse mangiare altro che yuana. Il che veduto dagli altri Spagnuoli, ancor loro a regatta l'uno dell'altro si misero a mangiarne di questi serpi, né di altro parlavano che della loro bontà, dicendo che la soavità di questa carne passava di gran longa quella dei pavoni, fagiani e pernici. E perchè aveva inteso che la soavità di questa carne consisteva in saperla cuocere, volse il governatore intendere il modo, il quale gli fu detto esser questo: presi che sono questi animali, si aprono e cavano le budelle e tutte le altre interiora, e con grande diligenza dentro si nettano lavandogli, e levansi di fuora le loro squame meglio che si può; dapoi si mettono in un vaso di terra capace della loro grandezza, a modo di una conca, e messovi dentro un poco d'acqua con alquanto di quel pepe che abbiamo detto nascer in questa isola, si mette al fuoco e fassi lentamente bollire, e le legne vogliono esser di certo legno odorato, il quale non fa fumo alcuno. E perchè li serpi sono grassi fanno un brodo molto spesso e delicato. Fugli ancora detto che le ova di questi serpi cotte sono soavissime, ed è cibo che dura molti giorni. Con queste, e molte altre parole simili il governatore con li compagni furono menati a dormire in una camera, dove era un letto di corde di cottone sospeso e appiccato al modo loro, ma intorno e di sotto di quello la gentile Anacaona aveva fatto fare ghirlande di diversi fiori, i quali mescolati rendevano un soavissimo odore. Il quale poi che lei ebbe veduto spogliato ed entrato nel letto, se ne andò a dormire in un altro luogo, insieme con molte indiane sue schiave.
Ma per tornare al proposito nostro, poi che il governatore ebbe piena una certa cassa di cottone riscosso delli tributi, il cacique insieme con gli altri gli offersero dare tanto del suo pane quanto lui volesse, e lui, accettata la offerta, gli ringraziò. E mentre che il pane per il paese si faceva, mandò messi alla fortezza Isabella con ordine che conducessero in quelle bande una delle caravelle, le quali lui aveva lasciate incominciate, e che facessero intendere a quelli della fortezza che lui manderebbe in là carica di vettovaglie. Condussero costoro la caravella, secondo il comandamento del governatore, al lito chiamato Xaragua, il che poi che ebbe inteso Anacaona volse andare insieme con il fratello a vederlo. E andando stettero una notte ad un borgo, dove essa aveva il suo tesoro, non di oro né di argento o veramente di altre gioie, ma vasi di legno necessari al vivere, come piatti, scodelle, catini di legno nerissimo e lucidissimo, maravigliosamente dipinti con teste di animali, serpi, fiori e altre simili cose. Delli quali vasi ne donò sessanta al governatore, con quattuordeci scanni del medesimo legname e al medesimo modo dipinti, i quali tutti si lavorano nell'isola Guanaba, ch'è alla parte di ponente della Spagnuola, con pietre di fiumi acutissime. Dettegli ancora quattro grandi palle di cottone filato finissimo e di diversi colori da far tele.
Il giorno seguente andarono ad un villaggio del cacique appresso al lito; il governatore fece mettere ad ordine un suo brigantino, il cacique fece venir due canoe dipinte di varii colori, una per sé e altri suoi famigliari, l'altra per Anacaona e sue schiave. La quale, non tenendo gli occhi ad altro che al governatore, volse montar sola con il governatore in su 'l brigantino, le schiave la seguitorono in su la canoa. Giunti che furono non molto lontani dalla caravella, avendo il governatore fatto cenno, furono scariche tutte l'arteglierie, delle quali tanto fu lo strepito che risonò per il mare e monti vicini, con il fuoco e fumo che andava a l'aere, che Anacaona, attonita e fuor di sé, come morta cascò in braccio al governatore. Tutti gli altri similmente restorono spaventati, e pensorono che il mondo venisse al fine. Il governatore, sollevandola e ridendo in verso loro, liberò tutti di questo spavento, e massime che, cessato lo strepito delle artiglierie, cominciorono a sonare trombe, piffari e tamburi, il che dette gran piacere agl'Indiani. Dapoi il governatore, fatta montare Anacaona in su la nave, a mano la menò per tutto, mostrandogli particolarmente tutti li luoghi d'essa; dietro la quale venne il cacique con gli altri Indiani, li quali, entrati similmente nella nave, considerandola tutta di sotto e di sopra restorono admirati, né altro dicevano se non che guardavan l'un l'altro; il che veduto dal governatore comandò che si togliessero su le ancore e dessersi le vele a' venti, la qual cosa fu loro ancora di maggiore stupore, vedendo una sí gran macchina muoversi senza remi o fatica d'uomini, e piú quando vedevan la nave per il medesimo vento andare innanzi e indietro. Finalmente, carica la nave di pane di iucca e maiz, licenziò il cacique e la sorella, poichè ebbe donato loro molte cose di quelle che fra li cristiani si fanno. Anacaona nell'aspetto mostrava gran doglia di questa partita, e pregava il governatore che fusse contento o restar lí alquanti giorni o veramente voler che lei lo seguitasse. A questo il governatore disse assai parole, promettendogli tornare altra volta.
E finalmente, mandata la nave al suo viaggio, lui per terra insieme con li soldati se n'andò alla fortezza Isabella, dove trovò un Roldano, il quale, di vil condizione, servidore dell'admirante, era stato inalzato da quello e lo aveva lasciato alla sua partita presidente della giustizia, esser di molto male animo in verso di lui, ed esser andato per l'isola rubando. E per sua causa, e degli altri lasciati alla guardia della fortezza, Guarionesio cacique, non potendo tollerare li lor mali portamenti e insolenzie, se n'era fuggito con suoi famigliari a certi monti, lontani da Isabella circa dieci leghe verso ponente, in sul lito di tramontana; dove sono alcuni monti, gli abitatori delli quali si chiamano Ciquaghi, e il cacique Maiabonesio, lo stato del quale sono montagne aspre e dove difficilmente si può andare, talmente fatte dalla natura, che essendo vicini al mare si distendono in verso quello facendo un semicirculo a modo di duo corni. Nel mezzo di quelli è una pianura per la quale molti fiumi di chiarissime acque e abondanti sboccano in mare. Gli abitatori son tali che molti si pensano che abbino avuto origine da' canibali, perchè scendendo alla pianura per guerreggiare tanti quanti prendono degli inimici vicini se li mangiano. Guarionesio si rifuggí alla fortezza di questo cacique, chiamata Caprone, portandogli molti gran doni di quelli che hanno carestia gli abitatori di quelli monti, dicendogli esser stato molto mal trattato dalli nostri, né mai aver possuto con umiltà e buone parole aver pace con essi; e per questo esser ricorso a lui, pregandolo che lui lo volesse aiutare e difendere dalla furia di questi cosí cattivi uomini. Maiabonesio l'accettò e fecegli gran carezze, promettendogli ogni aiuto contro li cristiani.
Trovato adunque le cose cosí disposte, se n'andò alla fortezza della Concezione, vicino alla quale intese esser il detto Roldano, e che andava rubando quanto oro trovava in man degli Indiani, e sforzando tutte le femine che gli piacevano. Per le quali cose lo fece venire a sé domandandolo della causa di questa insolenzia. Lui sfacciatamente gli rispose: "Io ho inteso come l'admirante è morto, e che li re catolici non tengon piú cura alcuna delle cose dell'isola, e noi, seguitandoti e stando sotto il tuo governo, ci moiamo di fame e siamo constretti cercarci il vivere per l'isola. Oltre di questo, io penso aver qui tanta autorità quanto hai tu, e per questo son deliberato non stare piú a tua obedienzia". Per queste parole adirato il governatore gli volse far metter le mani adosso, ma lui, accortosene, si fuggí con sessanta uomini in verso ponente alla provincia Xaragua, dove cominciò a far il peggio che poteva, rubando, sforzando donne e ammazzando.
Delli mali portamenti di Roldano, già servitore dell'admirante. Di una impetuosissima correntia d'acqua salsa e d'acqua dolce, quali insieme facevano gran combattimenti. Come fu scoperta una pianura grandissima molto popolata da genti umanissime, le quali abondano d'oro e di perle.
Mentre che le cose dell'isola erano in questi travagli, li re catolici avevano assegnato dieci caravelle all'admirante, per mandare con vettovaglie a suo fratello, delle quali lui di subito ne mandò due a drittura all'isola Spagnuola; queste per ventura arrivorono a quella parte dell'isola di ponente dove si trovava Roldano con li compagni, il quale, veduti costoro e parlando con essi, subito cominciò a persuader loro che non stessero all'ubidienzia del governatore, promettendo loro, in cambio delle fatiche che avrebbero sotto quello, far loro aver grandissimi piaceri di donne e altre cose che loro venisse voglia, e che diventerebber ricchi con le prede e rapine fatte a quegli Indiani. Il che dal governatore era loro vietato. Queste cose tutte molto piacquero a quelli delle caravelle, e d'accordo insieme attesero a vivere delle vettovaglie che avevan condotte, e lo elessero per lor capo. E benchè avessero per certo e sapessero che presto l'admirante era per arrivare, non per questo restavan di far quanto mal potevano senza paura alcuna.
Dall'altra parte Guarionesio, messo insieme molti Indiani suoi amici con l'aiuto di Maiabonesio, spesso discendeva dalli monti alli piani, e tanti quanti cristiani trovava, o vero Indiani loro amici, tutti gli tagliava a pezzi, saccheggiando e ruinando tutto quel che trovava. In questo tempo, quando le cose della Spagnuola eran tanto perturbate, l'admirante si partí di Spagna, con il restante delli navilii assegnati dalli re catolici, a questa volta non per la diritta, ma tenne il camino piú verso mezzodí. Nella qual navigazion quel che discoprisse di paesi e mari si dirà nella seguente narrazione.
L'admirante Colombo, adí 28 di maggio 1498 partito da San Lucaar di Barameda, poco lontano dall'isola di Gades, in su la bocca del fiume Guadalchibiri, con otto grandi navili molto carichi, storcendo il consueto suo camino per le Canarie per paura d'alcuni corsali franzesi che lo aspettavano a quella volta, si voltò a man sinistra verso l'isola della Madera. E de lí mandò cinque navili a diritto camino all'isola Spagnuola, e seco ritenne una nave e due caravelle, con le quali si mise a navigare verso mezzodí, con intenzione di trovar la linea equinoziale, e de lí voltarsi poi verso ponente per investigar la natura di diversi luoghi. E navigando in quella parte arrivò all'isole Esperide, chiamate da' Portoghesi l'isole di Capo Verde, lontane da terra due giornate, in numero tredici, tutte disabitate eccetto una, la quale si chiama Buonavista; e da queste parti, per avervi trovato cattivo aere, per gherbino navigò quattrocentottanta miglia con tanta bonaccia e caldo, perchè era del mese di giugno, che quasi li navili s'abbrucciavano, e similmente li cerchi delle botti scoppiavano, in modo che l'acqua e il vino si perdeva, né gli uomini potevan tolerare il caldo, per esser lontani dall'equinoziale gradi cinque. Pure otto giorni tolerorono in questo travaglio, parendo lor sempre con le navi montare non altrimenti che se su per un alto monte salissero in verso il cielo; e il primo giorno fu sereno, e gli altri nebulosi con pioggia, e per questo piú volte si pentirono esser andati a quel camino. Passati gli otto giorni si misse il vento per levante, il qual tolto in poppa se n'andorono alla volta di ponente, continuamente trovando miglior temperie d'aere e la notte altro aspetto di stelle; in modo che il terzo giorno trovorono l'aere temperatissimo, e all'ultimo dí di luglio dalla gabbia della maggior nave si scopersero tre altissimi monti; della qual cosa non poco si rallegrorono, perchè stavano malcontenti per esser per il caldo mezzi abbruciati, e l'acqua gli cominciava a mancare.
Finalmente con l'aiuto di Dio giunsero a terra, ma per esser il mare tutto pieno di secche, non si potevano accostare. Ben compresono che era terra molto abitata, perchè dalle navi si vedeva bellissimi orti e prati pieni di fiori, li quali la mattina per tempo, con la rugiada, mandavano soavissimi odori fina alle navi. De lí a venti miglia trovorono un buonissimo porto, ma senza fiume, per la qual cosa scorsero piú avanti, e finalmente trovorono un porto altissimo da potersi ristorare, e far acqua e legne, il qual chiamorono Punta di Arena. Non trovorono vicino al porto alcuna abitazione, ma molte pedate d'animali simili a quelle delle capre, delle quali ne viddero una morta molto simile alle nostre. L'altro giorno viddero venir da lontano una canoa con ventiquattro giovani di bella e grande statura armati di freccie, arco, con targhe, oltre al costume degl'Indiani. Ed erano nudi, eccetto le parti vergognose, le quali avevan coperte con un panno di cottone di diversi colori, con li capelli lunghi distesi, e quasi al modo nostro partiti in su la fronte. L'admirante, per allettare e assicurare questi della barca, comandò fusse mostro loro specchi di vetro, scodelle e altri vasi di rame con sonagli; ma loro, quanto piú erano invitati, tanto piú temevano d'essere ingannati, sempre tirandosi indietro, e tenevano gli occhi fissi verso li nostri con grande admirazione. Donde, vedendo l'admirante non li poter tirar con queste cose, ordinò che nella gabbia della maggior nave si sonasse tamburini, pive e altri instrumenti, e da basso si cantasse e ballasse, sperando, con canti a lor nuovi, potergli dimesticare. Ma loro, pensando che quelli fussero suoni che gli invitassino a combattere, tutti in un tratto lasciati li remi tolsero gli archi e freccie in mano, e pensando che li nostri li volessero assaltare, tenevano diritte le punte verso di loro, stando a vedere quel che volessen dire questi suoni e canti. Li nostri all'incontro, ancor loro con le freccie in su gli archi a poco a poco s'accostavano alla barca. Ma gl'Indiani, partiti dalla nave maggiore, confidandosi nella celerità de' suoi remi s'accostarono ad una nave minore, e tanto se gli avicinarono che il patron della nave gittò nella barca un saio di panno e una berretta a uno de' primi di loro. Dal che successe che dipoi con segni si detter fede di scendere in sul lito, dove piú commodamente potrebbero insieme parlare. Ma andato il patron della nave a dimandar licenzia all'admirante, e loro temendo di qualche inganno, dettero delli remi in acqua e se n'andarono via. In modo che di questa terra non ebbero altra cognizione.
Non molto lontano da questo luogo trovorono una correntia d'acqua da levante in ponente, tanto celere e impetuosa che pareva un torrente che altissimi monti discendesse, tale che l'admirante affermava mai, dapoi che navigava, aver avuto maggior paura. Andato alquanto avanti per questa correntia, trovò una bocca di larghezza d'otto miglia, che pareva l'entrata d'un grandissimo porto, dove sboccava questa correntia, la quale chiamaron Bocca di Drago; e un'isola che era all'incontro, chiamaron Margarita. All'incontro di questa correntia d'acqua salsa veniva con non minore impeto da terra una correntia d'acqua dolce, e faceva forza di sboccare in mare, ma dalla salsa era impedita, in modo che insieme facevano gran combattimento, con bollori e spume. Entrati in questo golfo trovorono finalmente acqua dolcissima e buona; navigarono 104 miglia continuamente per acqua dolce, e quanto piú andavano verso ponente tanto piú erano dolci. Scopersero dipoi un monte altissimo, il quale dalla parte di levante era pieno di gatti mammoni, e disabitato per esser molto aspro; pure misero in terra, e videro molti campi cultivati. Ma non viddero uomini né anco case. E dal lato del monte verso ponente viddero una pianura grandissima, alla quale li nostri andorono per vedere chi l'abitasse.
Gl'Indiani, veduto arrivare alli suoi liti questa nova gente, correndo tutti a regatta senza alcuna paura andorono alle navi, dove con li nostri fatta amicizia, intesero per segni questa terra chiamarsi Paria ed esser grandissima, e che quanto piú s'andava a ponente tanto piú era popolata. Tolsero di qui quattro uomini in nave e andarono seguitando quella costa di ponente, per la qual navigando trovavano ogni giorno l'aere piú temperato e il paese piú popolato e ameno. Dalle quali cose compresero quella esser regione da tenere gran conto; e un giorno fra gli altri, la mattina avanti il levar del sole, tirati dall'amenità del luogo, perchè sentivano da' fiori e erbe delli prati grandissimi odori, volsero smontare, dove trovorono maggior numero d'uomini che in alcun luogo mai avesser trovato; e che, subito che furono smontati, vennero nuncii all'admirante per parte del cacique di questa terra, li quali con viso allegro, per cenni e segni e grande offerte l'invitavano a dismontar in terra. Il che ricusando l'admirante, quelli andorono alle navi con molte barche piene d'Indiani, ornati tutti le braccia e il collo di catene d'oro e perle orientali; e dimandati dove raccoglievano quelle perle e oro, con cenni rispondevano che le perle si trovavano nel lito del mare lí vicino. Dimostravano ancora con segni delle mani e muover della testa e torcer delle labra che appresso loro non se ne faceva conto alcuno. E presi alcuni vasi a modo di canestri, accennavano che se li nostri volessino star lí, ne potevano empir quelli a lor piacere. Ma, perchè li formenti che l'admirante portava all'isola Spagnuola si guastavano, deliberò differir questo commerzio ad altro tempo piú commodo, e mandò allora due barche d'uomini in terra, per investigare e intender la natura di quel paese e gli costumi degli uomini, e far pruova di barattare delle cose che avevano con le lor perle.
Degli abiti di quelle genti. D'un fiume profondissimo e di maravigliosa larghezza. Come Magnabonesio e Guarionesio caciqui furono presi e i lor popoli vennero all'obedienzia dell'admirante. Per qual causa fusse creato un nuovo governatore che andasse all'isola Spagnuola, e per ordine di quello mandati in ferri l'admirante e suo fratello in Spagna.
Andati adunque in terra furono li nostri ricevuti da loro molto amorevolmente, e correvano da ogni banda a vederli, come un miracolo. E duo di costoro, che parevano di piú stima e gravità degli altri, primi si ferono loro incontro; uno era vecchio, l'altro giovane suo figliuolo, li quali, secondo loro costume salutatili, gli menarono in una casa fatta in tondo, avanti la qual era una gran piazza, dove gli fecero sedere sopra alcune sedie fatte d'un legno nerissimo, e lavorate con grande arte; e sedendo li nostri insieme con quelli, vennero molti scudieri carichi di diverse sorti di vivande, e la maggior parte di frutti incogniti a noi e di vini bianchi e rossi, non di uve, ma fatti di diversi frutti molto suavi al gusto. Poi che ebber alquanto mangiato, il giovane, presi per mano li nostri amichevolmente li condusse in una camera dove erano molti uomini e donne, separati l'una parte dall'altra, bianchi come li nostri eccetto quelli che andavano per il sole. E nell'apparenza mostravano esser gente molto mansueta e benigna in verso li forestieri. Li quali tutti erano nudi eccetto le parti pudibunde, le quali portano coperte con certi veli di cottone tessuti di varii colori, e nessuno vi era, né uomo né donna, che non fusse ornato con filze di grosse perle e catene d'oro. E addimandati da' nostri donde avessero l'oro che portavano, rispondevano con segni che veniva da certi monti, li quali a dito mostravano, accennando che per modo alcuno li nostri non vi dovessero andare, perchè in quel luogo gli uomini erano mangiati. Ma li nostri non gli potevano intendere se dicevano da fiere o vero da' canibali, della qual cosa, cioè che loro non gli intendessero, mostravan pigliar gran molestia, dolendosi di non si potere parlare insieme l'un con l'altro e intendersi.
Stati adunque li nostri in terra fino a mezodí, tornorono alle navi con molte filze di perle. E l'admirante immediate si levò con tutte le navi, per rispetto che 'l formento, come abbiamo detto, si marciva, con animo di tornar un'altra volta, ordinate che fussero le cose dell'isola Spagnuola; sollecitollo al partire, ancora che l'acque in quello luogo erano molto basse e facevano gran correnzia, di modo che la nave maggiore per ogni piccol vento era travagliata e andava a gran pericolo, e per questo per molti giorni mandarono avanti una caravella minore con lo scandaglio che faceva la via all'altre, con la qual guida andorono scorrendo circa 230 miglia di questa provincia detta Paria, nella quale viddero Cumana, Manacapana e Curiana. Lontano da queste molte miglia, e andati per ponente molti giorni credendo che questa fosse isola, e de lí voltandosi per tramontana per poter andare alla Spagnuola, capitorono ad un fiume di profondità di trenta braccia e di larghezza inaudita, perchè dicevano ch'era largo circa 112 miglia. oco avanti pur per ponente ma un poco piú a mezodí, che cosí s'ingolfava quel lito, viddero il mar pieno d'erba che pareva che corresse come un fiume, e sopra il mare andavano alcune semenze che parevano lenti. Ed era tanta spessa l'erba che impediva il navigare delle navi. In questo luogo referisce l'admirante esser gran temperie d'aere. E il giorno tutto l'anno quasi è eguale e non molto varia, perchè non è lontano dall'equinoziale piú di cinque gradi; e vedendosi in questo gran golfo quasi intricato, non trovando essito per tramontana donde potesse andar all'isola Spagnuola, con grande fatica uscito dell'erbe, preso verso tramontana il diritto suo cammino con l'aiuto di Dio giunse all'isola Spagnuola, secondo il suo disegno, adí 28 d'aprile 1498.
Dove arrivato trovò ogni cosa in confusione, e che quel Roldano ch'era suo allievo con molti altri Spagnuoli s'era ribellato da suo fratello governatore. Il qual volendo mitigare, non solamente non si pacificò, ma scrisse alli re catolici tanto male dell'admirante quanto mai fusse possibile a dire; e ancora del fratello, accusandolo ch'egli era scelerato d'ogni disonestà, crudelissimo e ingiusto, che per ogni picciola cosa faceva appiccare e morire uomini, e tutti due erano superbi e invidiosi, e pieni di ambizione e intolerabili, e per questa causa essersi ribellati da loro, come da fiere che si allegrano di spandere sangue umano, e inimici dell'imperio di loro Maestà, e come da quelli che non cercano altro che usurpar lo stato di quell'isola, accrescendo questi carichi che davano loro con vane congietture, e massime che non lasciano andare alle cave dell'oro se non gli suoi famigliari. L'admirante similmente notificò alli detti re catolici la natura di questi uomini di mala sorte, dichiarando che non attendevano se non a sforzar donne e assassinamenti, e che temendo non esser puniti al suo ritorno si erano ribellati e andavano per la isola violando, rubando e assassinando.
Mentre si facevano queste accusazioni l'admirante mandò suo fratello con novanta fanti e alcuni cavalli ad espugnare il cacique Guarionesio, il quale con li popoli Ciguati si era ribellato e aveva messo insieme circa seimila uomini, tutti armati di archi e freccie, ma nudi, con il corpo dipinto di vari colori dal capo alli piedi. Con il quale il governatore venne piú volte alle mani, e massimamente al passare di un gran fiume, in su la riva del quale costoro si erano accampati, e con innumerabili saette e sassi impedivano il passo alli nostri; il che da loro conosciuto, subito mandorono occultamente alcuni cavalli a passare il fiume lontano da quel luogo. Gli Indiani, vedutosi li nostri alle spalle cosí all'improviso, restorono admirati, e dubitando di non esser messi in mezo si ritirono a capo de' monti Ciguaui, al cacique Maiabonesio, dal quale Guarionesio dimandò aiuto; né lo potette ottenere, perchè li popoli, sentita la venuta del governatore, dubitavano non essere tagliati a pezzi. Donde tutti due questi cacique furon constretti fuggirsi alle selve sopra altri monti altissimi, accompagnati da alcuni pochi Indiani. Il governatore, arrivato a Caprone e intesa la fuga delli caciqui, ancorchè gli paresse difficil cosa poterli trovare, pur deliberò fare ogn'opera per avergli nelle mani. Al che gli fu la fortuna favorevole, perchè alcuni cristiani, forzati dalla fame, cercando pigliare degli utias, i quali abbian detto esser simili a' conigli, a caso si abbatterono a due famigliari di Maiabonesio, che gli portavano per vivere del loro pane. I quali presi insegnorono a' nostri dove questo cacique fusse; il che inteso dal governatore, adoperati questi per guida, fece dipignere dodeci delli suoi al modo indiano e gli mandò al luogo dove era Maiabonesio, il quale vedendoli da lontano si credette che fussero Indiani; venendo loro incontro fu subito preso, lui con tutta la sua famiglia, insieme con Guarionesio. E in questo modo tutti li popoli Ciguati e gli altri vicini dopo la presa di questi caciqui vennero alla obedienza dell'admirante.
Mentre che l'admirante, insieme con suo fratello, con quanta diligenza si è detto, si affaticavano ridurre alla obedienza de' re catolici tutti li signori e popoli dell'isola Spagnuola, giunsero a' prefati re lettere degli Spagnuoli sollevati e appresso di quelle i nunzii mandati dall'admirante, come di sopra è detto. Oltre a questo la fama dell'oro di questa isola era tanto grande fra tutti gli uomini della corte, i quali erano usi vederne poco, che ciascun, tirato dalla cupidità di quello, desiderava aver questo governo, e non avendo animo dimandarlo per la gran reputazione e grazia che vedevano aver l'admirante, cominciorono a sparger per tutta la corte che il prefato con il fratello si volevano far signori di quella isola, con tutti li paesi nuovamente trovati; e dicevano che li segni si vedevan manifesti, perchè si intendevan per lettere di diversi che essi avevan cominciato a non volere che alcuno Spagnuolo praticasse alle minere dell'oro, e che l'avevan date in guardia a particolari persone loro intrinseche e famigliari, aggiugnendo che di quello si cavava essi ne mandavano poco in Spagna, ma lo serbavan per li loro bisogni. E che, a fine che questo loro disegno piú facilmente si potesse mandare ad effetto, essi volevano levarsi dagli occhi tutti gli Spagnuoli che erano sopra detta isola, e già ne avevan cominciati a far morir molti, sotto diversi pretesti e cause. Le quali parole, dicendosi per tutta la corte, operarono tanto che li re catolici furono forzati, vedendo in effetto che non gli era stato mandato quella quantità di oro che si diceva essersi cavato in detta isola (il che non procedeva d'altro che dalle discordie che erano in quella fra gli Spagnuoli), eleggere un nuovo governatore, il quale andasse a quella volta e arrivato intendesse quali fussero li colpevoli e gli castigasse.
Questo governatore adunque, partitosi con buon numero di fanti senza che l'admirante sapesse cosa alcuna, giunse alla Spagnuola, dove, intesasi la sua venuta, andò l'admirante col fratello ad incontrarlo, e volendolo accettar con allegro volto, all'improviso furono presi e spogliati di tutto quello ch'avevano, e in ferri per ordine del nuovo governatore mandati in Spagna.
Qui si può considerar la varietà e giuochi della fortuna, che quello che poco avanti era in tanta grazia delli re catolici, avendo lor fatto con la sua virtú e ingegno un tanto gran beneficio nel scoprirgli tanti nuovi paesi e signorie, che per opinion d'ogni uomo non pareva che mai si potesse trovar modo di rimunerarlo, in un momento insieme con il fratello cadesse in tanta miseria. Ma venuta la nuova alli re catolici che in ferri erano arrivati a Gades, subito mossi da grandissima compassione mandorono ad incontrarli diverse persone l'un dopo l'altro, con commession che subito fusser fatti liberi e che vestiti onorevolmente fusser menati alla lor presenzia, il che fu fatto. E inteso da costoro la verità della cosa, subito ordinorno che li delinquenti fusser puniti.
Come Pietro Alfonso chiamato Nigno, partito di Spagna per scoprir nuovi paesi, arrivato alla provincia detta Curiana, in un borgo di quella con certe cose che valevano pochi danari ebbe gran quantità di perle. E della gran copia d'animali di quel luogo. Della provincia di Cauchiete, dove si trova oro.
Dapoi che l'admirante Colombo fu arrivato in Spagna ed ebbe mostrato l'innocenzia sua alli re catolici, molti de' suoi pilotti e nochieri, che seco continuamente erano stati alle sopradette navigazioni, fecero tra loro deliberazione andar per l'oceano a discoprire nuovi paesi. E tolto dali re licenzia con promettere di darli il quinto del tesoro che trovassino, armarono alquanti navili a sue spese e se n'andarono a diversi camini, con ordine però di non s'accostare dove era stato l'admirante a cinquanta leghe.
Tra li quali Pietro Alfonso, chiamato Nigno, con una caravella si mise andar verso mezodí, e capitò a quella parte di terra ferma che si chiama Paria, nella quale già di sopra abbian detto che l'admirante trovò gli uomini e le donne con tanta copia di perle. E scorrendo piú avanti per quella costa per spazio di cinquanta leghe, lasciandosi a dietro le provincie di Cumana e Manacapana, arrivò alla provincia chiamata Curiana dagli abitanti, dove trovò un porto simile a quel di Gades, nel quale entrato vidde un borghetto d'otto case, e smontato in terra trovò cinquanta uomini nudi che non erano di quel luogo, ma d'un altro popolatissimo borgo tre miglia lontano; li quali con il suo cacique gli vennero incontro, pregandolo che l'andasse a porre in terra alle case loro. Ma Nigno, per allora non andando piú avanti, fece con loro permutazione di sonagli, aghi, specchi e filze di pater nostri di vetro; all'incontro ebbe da loro quindeci oncie di perle, di quelle che portavano al collo e alle braccia. Dopo molte preghiere il seguente giorno si levò con la nave e andò al loro borgo, dove giunto tutto il popolo, ch'era infinito, corse a marina, con atti e cenni pregando che dismontassero a terra; ma Alfonso Nigno (vedendo tanta moltitudine) ebbe paura, perchè non aveva seco se non trentatre uomini. Ma per cenni faceva loro intendere che se volevano comperare alcuna cosa andassino con le lor barche alla nave. Onde molti di loro, con sue barchette fatte d'un solo legno, le quali in quel paese chiaman galite, portando seco quantità di perle, per desiderio che avevano delle cose nostre vennero a regatta alla nave. In modo che con alcune cose che valevano pochi denari ebbero circa novantacinque libre di perle, le quali in sua lingua chiaman tenoras. Ma poi che Alfonso Nigno per spazio di venti giorni gli ebbe conosciuti umani, semplici e benigni in verso gli forestieri, deliberò smontare a terra, dove fu ricevuto amorevolissimamente.
Le loro abitazioni sono case di legno coperte di foglie di palme, e il loro famigliar cibo sono per la maggior parte l'ostriche, dalle quali cavano le perle, e n'hanno gran copia in quelli liti. Mangiano ancora animali salvatichi, come sono cervi, porci, cignali, conigli di colore e grandezza simili a' lepri; colombi e tortore hanno in grande abondanzia. Le donne nutriscono l'oche e anitre come si fa in Spagna. Nelli loro boschi sono pavoni, non però con penne di varii colori come li nostri, perchè il maschio è poco differente dalla femina. Sonvi ancora fagiani in gran copia. Costoro sono perfettissimi arcieri perchè con le freccie danno dovunche vogliono.
In questo luogo Alfonso Nigno con la sua compagnia, per quelli giorni che vi stettero ebber buon tempo, perchè aveano un pavone per quattro aghi, per dua un fagiano, una tortora, una oca e un colombo per un pater nostro di vetro. E in far questi baratti contrastavano non altrimenti che fanno le nostre donne, quando alli mercati voglion comperare qualche cosa. Ma andando nudi domandoron per atti e cenni a che si potessino servir delli aghi, alli quali fu risposto dalli nostri similmente per gesti che con quelli potevano curarsi li denti, e cavarsi le spine de' piedi, e per questo loro cominciorono a stimargli. Ma sopra tutte le cose piacevano loro li sonagli, e per aver questi non lasciavano di dar cosa alcuna.
Sentivasi di quel luogo, nelli boschi d'altissimi arbori e spessi che erano lí vicini, la notte spaventevoli mugghi d'animali. Nondimeno giudicavano che quelli non fussero nocivi, e questo perchè gli uomini del paese andavano sicuramente cosí nudi senza tema alcuna per quelli boschi con loro archi e freccie, né mai si trovò che alcuno da quelli animali fusse stato morto. Quanti o cervi o cigniali li nostri domandavano, tanti con le loro freccie n'ammazzavano. Non hanno buoi né capre né pecore, usano pane di radici e di maiz simile a quello dell'isola Spagnuola. Hanno capelli neri e grossi e mezi crespi, ma lunghi. E per aver i denti bianchi portano in bocca continuamente una certa erba atta a questa cosa, e come la buttano via si lavano la bocca. Le donne attendono piú all'agricoltura e alle cose di casa che gli uomini; ma gli uomini attendono alle caccie, guerre, giuochi, feste e altri sollazzi. Hanno pignatte, cantari, urne e altri simili vasi di terra, non fatte nel suo paese ma avuti per baratto in altre provincie, nelle quali fanno loro fiere e mercati dove concorrono tutti gli altri vicini, e portavi ciascuno quelle cose delle quali ha copia nella sua provincia. Fanno baratti e permutazioni d'una cosa all'altra secondo che a loro piace. E tutti hanno piacere portare in suo paese cose nuove né piú in quello luogo vedute. Portano al collo appiccati filze di perle, uccelletti e altri animaletti formati d'oro e ben lavorati, e questi hanno in baratto nell'altre provincie. Il quale oro è del caratto del fiorino di Reno. Gli uomini portano alle parti vergognose, in luogo di braghe, una zucca o un caragolo, le quali s'accommodano con una corda che portano cinta. Simili braghe portano ancora le donne, ma poche volte, perchè quelle per la maggior parte del tempo stanno in casa.
Dimandati quelli per cenni e atti se andando piú avanti si trovava mare o pur terra ferma, dimostravano non lo sapere. Ma facendo congiettura dagli animali che si trovano in quelle parti di Paria, si può facilmente credere che sia terra ferma. E tanto piú ancora perchè, avendo navigato per quelle costiere di ponente piú di tremila miglia, mai hanno trovato fine. Dimandorono dipoi da che luogo avevano quell'oro e da che banda venga; per cenni risposono che lo portavano d'una provincia chiamata Cauchiete, lontana da loro sei soli verso ponente, cioè sei giornate, accennando che gli artefici del paese lo formavano in quelli animali che portavano al collo. Inteso questo, Alfonso Nigno deliberò partirsi da Curiana e andar a quella volta. E il primo dí di novembre 1500 arrivò a Cauchiete dove surse con la nave. Gli uomini del paese, visti li nostri, subito vennero alla nave senza timore alcuno, e portorono quell'oro che allora si trovavano cavato nel paese loro, e della sorte e bontà sopradetta. Portavano ancor costoro perle al collo, le quali avevano da Curiana per baratto d'oro. Trovorono qui gatti mammoni e molti belli pappagalli di varii colori. Eravi suavissima temperie senza freddo alcuno. La gente è di buona natura, stanno senza sospetto alcuno; tutta la notte con le sue barche venivano alla nostra nave sicuramente, e in quella entravano come in casa loro; delle sue donne son molto gelosi, e per questo le facevano star indietro, e molto rimesse, se alcuna volta ancor quelle volevan vedere le cose nostre come miracolose. Hanno grande quantità di cottone, il quale da sua posta nasce senza cultura alcuna, del qual fanno loro brache. Di poi partendosi di qui e scorrendo piú avanti vidder un paese bellissimo con molte case e alcuni borghi con fiumi e luoghi ben cultivati. Al qual luogo volendo dismontare, gli vennero all'incontro piú di duomila uomini armati all'usanza loro, li quali mai per alcun modo volsero con li nostri né pace, né amicizia, né patto alcuno. Dimostravano grandissima rusticità, anzi pareano uomini quasi salvatichi, ancora che fussino belli uomini e di corpo proporzionatissimi, bruni di colore e universalmente magri. Per il che Alfonso Nigno, contento di quanto aveva trovato, deliberò tornarsi per la via che era venuto.
Quello accadete al detto Nigno con li canibali navigando con la compagnia verso Paria, e de' costumi di detti canibali. Come si faccia il sale nella provincia Haraia. E dell'osservanza di quel paese nel sepellir gli uomini da conto.
E cosí tornando indietro con l'aiuto di Dio giunse con la compagnia alla provincia delle perle chiamata Curiana, dove dapoi stettero giorni venti a darsi piacere. Ma quello che accadesse loro vedendo da lontano il paese di Paria, avanti che vi arrivassero, non mi par fuor di proposito narrarlo. Navigando adunque e andando avanti, a quel luogo che abbian detto chiamarsi Bocca di Drago s'incontrorono in 18 canoe, over barche di canibali, li quali andavan cercando di pigliare uomini. Costoro, visto la nave, con grande ardire l'assaltarono, e circondandola, con loro archi e freccie incominciarono a combattere. Ma gli Spagnuoli con loro artiglierie gli spaventoron molto, in modo che tutti si misero in fuga. Li nostri con la barca armata li seguitorono tanto che presero una loro barca, della quale molti delli canibali, buttatisi in acqua, notando scamporono. Solamente uno ne presero che scampar non poté, il qual aveva tre uomini legati con mani e piedi per volergli a suo bisogno mangiare; il che compreso dalli nostri disciolsero li legati; e il canibale legato dettero in man delli prigioni, dando lor licenzia che di lui facessero quella vendetta che a loro piaceva. Quelli immediate con pugni, calci e bastoni tanto lo batterono che lo lasciarono quasi morto, ricordandosi che li canibali avean mangiato li loro compagni, e che il sequente giorno similmente volevano mangiar loro. Dimandando li nostri de' costumi di questi canibali, risposero che costoro andavano per tutte queste isole scorseggiando e rubando tutte quelle provincie, e che subito che arrivano a terra fanno uno steccato di pali, li quali portan seco nelle barche, per poter la notte star sicuri, e de lí vanno a rubare. Trovorono in Curiana la testa d'un de' primi de' canibali appiccata a una porta, la qual tengon per memoria e in segno di vittoria.
Nella region di Paria è una provincia molto celebrata, chiamata Haraia, per la gran copia di sale che in quella si truova, il quale viene in questo modo. Quando li venti soffiano con impeto spingono l'acqua del mare in una gran pianura di questa provincia, la quale, quietato il vento e venendo il sole, in breve tempo si congela e diventa sale bianchissimo, e in tanta copia che andando a queste saline avanti che piova se ne potrebbono caricare navili assai, ma subito che piove si disfa e torna in acqua. Questo sale non solo serve agli uomini del paese, ma lo danno in baratto d'altre cose delle quali hanno carestia a tutti li vicini, ridotto in pezzi grandi.
Quando appresso costoro muore alcun uomo di conto, lo mettono sopra una gratella, sotto la qual fanno un fuoco lento, tanto che si distilli a poco a poco tutta la carne, e non resta se non la pelle e l'ossa; dipoi lo salvano e gli hanno reverenzia, e in questo tempo ne viddero duo posti in questo modo.
Alli tredici di febraio partirono di questa provincia per venir in Spagna con 96 libre di perle a oncie otto per libra, avute in baratto per cose di poco prezio. In 60 giorni arrivati in Galizia, il qual viaggio fu piú del dover lungo per le correnzie dell'acque, che tiravano la nave verso ponente, fu Alfonso Nigno dalli compagni accusato d'aver preso maggior parte di quello che se gli veniva di tutte le perle che in questo viaggio s'erano acquistate, e che n'avea defraudato li re catolici della lor porzione, ch'era la quinta parte. E per questo da Ferrando di Vega, governatore di Galizia, dove era arrivato, fu preso. Finalmente, trovato innocente, fu lasciato. Le perle quali portorono erano orientali e assai grosse; nondimeno, per non esser ben forate, come dicono molti mercatanti che le conoscono, non sono di molto prezzo.
Come Vicenzianes, detto Pinzone, e Aries suo nepote, armate quattro caravelle e partiti da Palos per scoprir nuovi paesi, persono la Tramontana, e trovato il Polo Antartico viddero un'altra forma di stelle molto differenti dalle nostre. Come, trovata gran quantità di genti di spaventevole aspetto, fu appiccata una gran zuffa con loro, e quello succedesse.
In questo medesimo tempo Vicenzianes, chiamato Pinzone, e Aries suo nepote, che si trovorono nel primo viaggio con l'admirante Colombo, armorono a sue spese quattro caravelle e adí 18 di novembre 1499, partiti da Palos per andare a discoprire nuove isole e terreni, in breve tempo arrivorono alle Canarie e de lí all'isole di Capo Verde. Dalle quali partendosi, e pigliando la via per gherbino navigorono con quel vento trecento leghe. Nel qual viaggio persono la Tramontana, la qual persa furono di subito assaliti da terribilissima fortuna di mare, con pioggia e vento crudelissimo. Nondimeno, seguitando il lor camino continuamente per gherbino non senza manifesto pericolo, andorono avanti dugentoquaranta leghe. Nel qual luogo, preso l'astrolabio in mano e trovato il polo antartico, non vi viddero alcuna stella simile alla nostra Tramontana: ma riferirono aver visto un'altra forma di stelle molto differenti dalle nostre, le quali non poterono ben conoscere per esser stati impediti da una certa caliggine che intorno a queste stelle si levava, e impediva loro la vista. Ma intorno, fuor della caliggine, si vedevano figure di stelle lucidissime e maggiori che le nostre.
E adí 20 di gennaio da lontano viddero terra, alla qual approssimandosi, e veduta l'acqua molto torbida, gittarono lo scandaglio e trovorono sedici braccia d'acqua. E finalmente, giunti a terra, dismontorono e lí stettero due giorni, che mai apparse uomo alcuno benchè trovassero molte pedate d'uomini. Costoro, acciochè da qualunque per ventura arrivasse a quel luogo fusse conosciuto come v'erano stati, segnorono le scorze degli arbori del suo nome e delli re catolici. E dipoi partiti de lí e scorrendo piú avanti, viddero la notte molte luci che pareva fussero in un campo di genti d'arme, verso le quali mandò il governatore 20 uomini bene armati e comandò loro che non facessero strepito alcuno; li quali andati e compreso esser gran moltitudine di gente, non le volsero per alcun modo disturbare, ma deliberarono aspettare la mattina e poi intender chi fussero. Fatta la mattina, al levar del sole mandò in terra quaranta uomini armati, li quali subito che furono da quelle genti visti, quelli mandorono all'incontro delli nostri 32 uomini a modo loro armati d'archi e freccie; dopo li quali veniva l'altra moltitudine, uomini grandi d'aspetto spaventevole e faccia crudele, e non cessavano di minacciare. Gli Spagnuoli quanto potevano mostravano voler esser loro amici e facevano loro molte carezze, ma quanto piú ne era lor fatte, tanto piú si dimostravano isdegnosi, né mai volsero o pace o accordo o amicizia con loro. Onde per allora se ne tornorono alle navi, con animo, la mattina seguente, di combattere con essi. Ma quelli, subitamente che apparse la notte, si levorono e andorono via. Quelli delle navi giudicarono che costoro fussero gente che andasse vagando, come i Tartari che non hanno propria casa ma vanno oggi in qua e domani in là, vivendo di quello che trovavano con sue mogliere e figliuoli. Li nostri volsero andar piú avanti seguendo le loro pedate, le quali trovorono nel sabbione esser il doppio maggiori delle nostre.
Navigando piú avanti trovorono un fiume, ma non di tanto fondo che le caravelle vi potessero surgere. Per la qual cosa mandorono a terra quattro barche cariche d'uomini armati, li quali andassino ricercando quelli paesi. Costoro, smontati in terra, viddero in su un monticello vicino al lito una compagnia d'uomini, li quali con cenni e atti dimostravano molto desiderare il commercio delli nostri. Ma gli Spagnuoli non s'assicurorono di accostarsi; ma mandorono uno de' suoi il quale da lontano gittò loro un sonaglio, e all'incontro quelli gittorono un pezzo d'oro, il quale volendo colui torre, subito una turba di quelle genti gli fu adosso per volerlo pigliare. Ma lui, defendendosi con la spada, non poteva al gran numero resistere, perchè quelli non stimavano morire; pur tanto si difese che saltorono in terra tutti gli uomini delle quattro barche, e appiccata una gran zuffa furono morti otto delli nostri, e gli altri ebbero gran fatica a scampare e a ritirarsi alle barche. Né gli giovò esser armati di lancie e spade, che questa gente, ancorchè di loro fussero morti molti, ne tenevano poco conto; ma sempre piú arditi gli seguitavano fino all'acqua, per modo che alla fine presero una delle quattro barche e amazzarono il padrone di essa. Il resto ebbe di grazia scampar con l'altre tre e andarsene alle navi. Pinzone, con li compagni, veduto questo si trovorono malcontenti, e deliberarono partir de lí, il che fecero e presero il loro camino per tramontana, che cosí s'ingolfa questa costa.
Come trovorono il mare d'acqua dolce e un grossissimo fiume detto Maragnon, alcune isole piene di verzino e altre copiose d'arbori di cassia fistula e altri grossissimi arbori; e di un nuovo e monstruoso animale.
Andati con questo vento quaranta leghe trovorono il mare d'acqua dolce, e ricercando donde quest'acqua venisse, trovorono discender da altissimi monti alcuni fiumi con grandissimo impeto e per una bocca entrare in questo mare, davanti della qual bocca erano molte isole abitate da umana e piacevole gente. Ma non vi trovorono cosa da contrattare. Tolsero solo trentasei schiavi, dapoi che altro non vi trovorono di che potessero guadagnare. Il nome di questa provincia si chiamava Mariatambal: la parte che è vicina al fiume verso levante chiamano gli uomini del paese Camomoro, e quella che è a ponente Paricora. Quelli del paese riferivano che fra terra si trovava gran quantità d'oro. Dapoi, partiti da questo fiume, in pochi giorni andando verso settentrione ritrovorono la Tramontana, che era quasi all'orizonte. Tutta questa costiera è della terra Paria, la qual fu scoperta, come abbiamo detto, dall'admirante Colombo, con tante perle.
Ma avanti che arrivassero alla Bocca del Dragon trovorono il Maragnon, fiume grossissimo, di larghezza, come dicono, di 90 miglia, pieno d'isolette, il qual sbocca con grande impeto in mare. Arrivati dipoi a detta bocca vicino a Paria, trovorono alcune isole molto copiose di verzini, delli quali caricorono le loro navi. Andando poi per greco trovorono molte isole disabitate per paura delli canibali, benchè la terra fusse buona e piena d'arbori ed erbe verdissime; viddero fra case ruinate molti uomini che fuggivano alli monti. Trovorono ancora molti arbori grossissimi di cassia fistula, della quale ne portorono in Spagna. E li medici che la viddero, dissero ch'ella sarebbe stata ottima se la fusse stata colta al suo debito tempo. Viddero ancora arbori di tal grossezza che sei uomini con fatica gli averebbero abbracciati. In questo luogo viddero un nuovo animale quasi mostruoso, perchè aveva il corpo e il muso di volpe, e la groppa e li piedi di dietro di gatto mammone, e quelli davanti quasi come la mano dell'uomo, l'orecchie come la nottola; e aveva sotto il ventre un altro ventre di fuora, come una tasca, dove asconde i suoi figliuoli dapoi che sono nati, né mai gli lascia uscire sino a tanto che da loro medesimi siano bastanti a nutrirsi. Uno di questi tali animali insieme con suoi figliuoli fu preso dagli Spagnuoli, e portavanlo alli re catolici, ma li figliuoli morirono in nave e la madre dopo pochi giorni per la mutazione dell'aria e cibi, li quali cosí morti furono visti da molte e diverse persone.
Questo Vicenzianes afferma aver navigato per la costa di Paria piú di seicento leghe, e giudica che là sia terra ferma, dalla qual partendosi con le quattro caravelle che avevano, furono assaliti da una gravissima fortuna del mese di luglio, due delle quali si sommersero, una si ruppe, e piú per esser gli uomini persi e smarriti che per altro. La quarta stette ferma, ma non senza molto travaglio, tanto che avevano già perso ogni speranza di salute. La qual cosí stando vidde una loro nave andare a seconda, perchè aveva pochi uomini, li quali, dubitandosi sommergere, si buttarono a terra, dove stavano in grandissimo dubbio e paura d'esser mal trattati da quella gente, ed erano ridotti a tale, che fecero deliberazione di tagliare a pezzi tutti gli uomini del paese vicino e fabricarsi case per abitare; e stettero cosí alcuni giorni, doppo li quali, abbonacciandosi il tempo, viddero la loro nave, ch'era restata solo con 18 uomini, in su la qual montati insieme con quell'altra che s'era salvata fecero vela alla volta di Spagna, e arrivorono a Palos appresso Sibilia l'ultimo di settembre.
Doppo costoro molti altri hanno navigato questo viaggio per mezzodí, e di continuo andati per la costa della terra Paria, né mai hanno trovato termine alcuno che sia isola. Per questo ciascuno manifestamente tiene esser terra ferma, dalla quale ultimamente è stata portata cassia in tutta perfezione, oro, perle, e verzini della sorte detta di sopra.
Come l'admirante Colombo, per ordine delli re catolici, ritornò per scoprir nuovi paesi e ritrovò l'isola detta Guanasa e un paese molto grande chiamato dagli abitanti Quiriquitana, abbondante di tutte le cose al viver necessarie. Del sito di detta isola. Della varietà de' frutti, grani e animali che vi si trovano, e degli abitatori e costumi di quella.
Dipoi l'admirante Colombo, essendo stato molto dalli re catolici accarezzato, passati due anni, per ordine di loro Maestà, insieme con suo fratello, armarono quattro navi per andar a discoprir terre nuove oltra l'isola Spagnuola verso ponente. E nel 1502, alli nuove di maggio, con 270 uomini si partirono dalli liti di Spagna e in cinque giorni vennero alle Canarie, donde partiti con buon vento giunsero all'isola Domenica delli canibali in giorni 16, e in altri cinque alla Spagnuola. Di modo che in 26 giorni fecero circa 1200 leghe secondo il conto suo.
Nell'isola Spagnuola dimorò l'admirante pochi giorni, né si sa la causa, o se fusse perchè il vice re di quella non volesse, overo perchè lui voluntariamente si volesse partire, e se n'andò verso ponente, lasciando a man destra verso tramontana l'isola Iamaica e la Cuba. E arrivò finalmente ad una isola piú verso mezzodí della Iamaica, detta Guanassa, la qual per allora fu reputata isola, qual viddero verdissima e piena d'arbori altissimi. E scorrendo per li liti di quella si abbatterono in due canoe grandi, le quali alcuni Indiani nudi, che avevano attorno alle spalle corde di cottone, tiravano per mare a canto il lito, sí come appresso di noi si tirano le barche al contrario delli fiumi: in dette canoe era il padrone dell'isola con la moglie e figliuoli nudi. Quelli che tiravan le canoe, veduti li nostri che già eran smontati in su 'l lito, gli fecer cenni con superbia per ordine del suo signore si tirassero indrieto, e gli dessero luogo. Mostrando li nostri di non ne far stima gli cominciorono a minacciare, ed era tanta la semplicità loro che non risguardavano alla grandezza de' nostri navili, né la moltitudine di gente che vi era sopra, e pareva loro che fosse il dovere che i nostri dovessero aver quella medesima reverenzia al lor signore che loro gli hanno. Ma li nostri, buttati gli schifi in mare, furono a torno le canoe, e quelle a man salva con tutti presero. E per via d'un interprete che avevano, intesero come costui era un gran mercatante, qual veniva di terre lontane dove era stato a barattare molte sue cose, e all'incontro ne portava dell'altre di quelli paesi, quali erano rasoi, coltelli e scure, fatte d'una pietra transparente di color giallo, con li manichi d'un legno molto tenace. Aveva ancora alcune masserizie di casa, come sarian vasi di cucina, parte di terra cotta molto ben lavorati, e alcuni della medesima pietra trasparente. Ma sopra tutto erano coltre lavorate con penne di papagalli e tele fatte di cottoni di varii colori. Il che inteso dall'admirante, lo fece lasciare e restituirli le cose sue, delle qual il detto Indiano volse donare parte alli nostri.
Da costui l'admirante si volse informare della costa di quella terra verso ponente, e inteso il tutto prese il camino verso quella parte. E avendo navicato da dieci miglia trovò un paese molto grande e spazioso, qual intese esser detto dagli abitanti Quiriquitana, ma l'admirante lo chiamò Ciamba; e parendoli bello e frutifero, pieno di molti arbori, volse in quello smontare per aver meglio notizia di che sorte uomini vi abitassero. Giunto in terra fece far molti padiglioni, parte di frasche di arbori e parte di tende, in un de' quali fece celebrare una messa per onor del nostro Signor Iddio. Quivi concorsero una infinita moltitudine d'Indiani, quali erano tutti nudi eccetto le parti pudibunde, perchè con foglie molto larghe di certi arbori grandi se le nascondevano, e senza paura alcuna vennero a veder li nostri come cosa maravigliosa; e alcuni di loro portavan frutti di diverse sorte che nascono in quel luogo, altri alcune zucche grandi piene d'acqua, e, presentate le loro cose, abbassavan la testa con certa reverenzia e si tiravan molto indietro.
L'admirante, veduta tanta umanità di costoro, fece loro assai carezze e donolli molti presenti all'incontro de' suoi, come alcuni specchietti e paternostri di vetro di diversi colori, e aghi e altre simili cose; alli detti piacquero molto. Conobbe che questi popoli erano molto pacifici e avean piacere di veder forestieri, e che in tutta quella costa, e ancor fra terra, l'aere era molto temperato e il paese amenissimo e grasso; perchè intese che hanno grandissima abondanza di ciò che fa loro di bisogno al vivere, e il sito parte è pianura e parte sono colline tutte verdissime, vestite e piene di arbori fruttiferi; e pare che sempre in quella costiera sia primavera e autunno, per li fiori e frutti continui. Sonvi molti fiumicelli e fontane che la vanno bagnando; vidde ancor molti boschi di lecci e pini altissimi, con diverse sorti di palme, delle quali parte avean li frutti di dattili, ma piccoli. Fra queste selve trovorono molte viti salvatiche ch'eran nate da loro medesime, e andavan sopra alberi cariche di uve mature. Fanno costoro, d'una certa sorte di legno di palma, spade larghe e aste da lanciare, e chiamanle machane. Il cottone per tutto il paese nasce da per sé senza alcuna cura; produce ancora quella terra alcuni arbori, li quali fanno frutti simili a susine molto suavi al gusto, quali si pensa che siano li veri mirabolani, li quali adoperano li medici. Nasconvi tutte le sorte di grani e radici da far pane, quali s'è detto nascere nelle altre parti di queste Indie. Nutrisce ancor leoni, tigri, cervi, cavrioli e altri simili animali; uccelli diversi, tra li quali sono alcuni di colore e grandezza delle pavonesse, e al gusto del medesimo sapore, e allevonseli in casa per mangiarseli, come noi le galline. Gli abitatori sono di grande statura, ben proporzionati. Vanno nudi, eccetto le parti vergognose, le qual cuoprono con certi panni fatti di cottone e di varii colori. Il resto del corpo per ornamento si dipingono con un sugo di certi frutti simili a' pomi, li quali per questo effetto piantano nelli lor orti; le pitture son varie, perchè alcuni si tingon tutto il corpo o di rosso o di nero, alcuni altri parte di quello; li piú si dipingono la persona a fiori e rose, o vero groppi moreschi. Il parlare di costoro è molto diverso da quello delle isole vicine.
In questo luogo vedendo lo admirante l'acque del mare correr con grande impeto in verso ponente, non altrimente che uno rapido torrente, deliberò non andar piú avanti, ma per questa costa voltarsi verso levante, e navigar tanto che arrivasse per questo lito a Paria e alla Bocca del Dragon, li quali luoghi pensava gli fussero vicini.
Come trovarono tre grandi fiumi pieni di pesci e testuggini, e gran quantità di animali molto differenti dalli nostri, e un altro fiume grosso con quattro isole. Di uno porto che s'ingolfa fra terra lo spazio di tre leghe e poco men largo. Di una selva piena di mirabolani. Del porto detto Cariai, e della civilità e varii costumi di quelle genti. Cose maravigliose d'un animale simile al gatto mamone.
A li 21 d'agosto partí da Quiriquetana, e poichè ebbe navigato 30 leghe trovò un fiume molto grande, fuor della bocca del quale molte leghe in mare prese acqua dolce. In questo luogo le navi potevano sicuramente surgere per esser il fondo molto atto a tener le ancore; il lito era tutto piano e verdissimo, ed era tanto grande la correnzia dell'acqua del mare verso ponente, che in 40 giorni con gran fatica fece 70 leghe volteggiando sempre; e alcuna volta tanta era la furia dell'acqua che si trovava molto piú adietro di quello era andato avanti, il che lo strigneva ogni sera andare in terra, acciochè la notte non fusser condotti in qualche secca. Andando a questo modo, in spazio di otto leghe trovorono tre fiumi grandi di acque chiarissime, pieni di pesci e testuggini, sopra le rive delli quali erano canne piú grosse della coscia d'uno uomo, fra le quali viddero gran quantità di animali simili a crocodilli, li quali stavano con la bocca aperta al sole, e altri animali assai differenti dalli nostri, tale che non gli sepper dar nome.
Tutta questa costa trovò varia, perchè quella in alcuni luoghi era sassosa, piena di scogli aspri e ripe salvatiche, in alcuni altri era piena, verde e molto amena, tale che invitava ciascuno a smontarvi. Andando adunque avanti in questo modo, e smontando ogni sera in terra ebbe comerzio con gli uomini del paese e da questi intese molte varie cose. Tra le altre, che quelli che gli altri chiaman cacique costoro chiamon quebi o ver tiba, gli altri gentiluomini sacco o ver iura, e quello che in guerra si è portato valentemente e ha avuto qualche ferita in sul viso lo chiaman capra, e fannone gran conto.
Non molto lontano di qui trovoron un fiume capace di navili grandi, in su la bocca del quale, alquanto lontano da terra, erano quattro isolette piene di fiori e arbori, li quali facevano con gli suoi lati un sicurissimo porto, alle quali pose nome Quattro Tempora. Di qui partendosi, navicando sempre verso levante, a contrario del corso del mare, trovò 12 isolette, sopra le quali smontato e avendole trovate piene di arbori, li quali perchè fanno frutti simili a' nostri limoni, chiamò Limonere. Di qui partito, poichè fu andato 12 o 13 leghe, trovò un gran porto il quale s'ingolfava infra terra lo spazio di tre leghe, e poco manco era largo; nel quale sboccava un gran fiume, dove Nicuessa, come si dirà, cercando la provincia di Beragua si perse, e per questo fu chiamato di poi fiume delli Persi.
Andando sempre a contrario d'acqua lo admirante trovò varii monti, valli e fiumi, pieni di tanti arbori e fiori che rendevano odore grandissimo a chi passava lor vicino; e di tanta temperie d'aere che mai alcuno delli suoi vi s'amalò, infino a quella parte la quale gli Indiani chiamano Quicuri, nella quale è uno porto detto Cariai. E perchè qui l'admirante trovò una selva di mirabolani chiamò questo porto Mirabolano, dove gli vennero incontro 200 delli paesani delli quali ciascuno avea in mano tre o quattro aste da lanciare; erano nondimeno mansueti e mostravano ricevergli amichevolmente, e aspettavano di vedere quel che questa nuova gente volesse fare, cercando e domandando di parlare insieme, e datosi segno di pace vennero alle navi e a quelle feciono assai baratti. L'admirante comandò che fusse dato loro di quelle cose che erano nelle navi qualunche piacesse loro, e questo faceva per entrar loro in grazia. Loro per cenni recusavano (per cenni dico, perchè le parole loro non si potevano intendere) perchè dubitavano che qualche fraude o inganno fusse nelle cose nostre. E tanto piú che li nostri non volevano accettare li doni che da quelli eran lor fatti, di modo che tutto quello che fu lor dato lasciorono in su 'l lito. E tanta è la civilità e benignità d'animo delli Cariai, che quelli vogliono piú presto dare che ricevere.
Mandorono alli nostri due femine vergini di bella forma, e per cenni rimettevano nell'arbitrio delli nostri il menarle via. Queste come l'altre erano coperte infino alle parte vergognose con una tela di cottone, che cosí è costume di questo paese. Gli uomini vanno nudi, radonsi la fronte e di dietro hanno li capelli lunghi; le femine se gli avoltono alla testa legati in una fascia di cottone, come veggian fare alle donne nostre. L'admirante onoratamente le vestí e con un cappelletto rosso in testa le rimandò al padre, ma e le veste e li capelli furon lasciati in su 'l lito, perchè li nostri non avevan voluto accettar li doni fattigli da quelli. Non recusoron già menar seco due uomini di quelli, acciochè o loro imparasser il linguaggio nostro o li nostri il suo.
Per tutta questa costa conobbe l'admirante che 'l mare cresceva poco da questo segno: li liti vicini all'acqua aveano molti arbori come si veggono in su le rive delli fiumi. Questo medesimo affermano tutti quelli ch'hanno dapoi navicato quelli mari, cioè che l'acque non crescono e scemano sí come si vede nelli mari di Francia e Inghilterra. Nascono in su le ripe di questo mare vicino all'acqua certe sorti di grandi arbori verdissimi, li quali, cresciuti alti, piegano li rami infino al fondo dell'acqua e sotto quella s'appiccono, e mandon fuora altri della medesima sorte, come si vede appresso di noi propaginare le viti.
Trovorono in questa provincia, oltre agli animali detti di sopra, uno animale simile al gatto mamone, ma maggiore e con la coda molto piú lunga e grossa, della quale si serve appiccandosi per quella qualunque volta vuol saltare d'alto a basso, o da ramo in ramo, o d'arbore in arbore, il che fa con gran velocità. Uno de' nostri balestrieri con una freccia ne ferí uno, il quale, con gran prestezza smontato dell'arbore, assaltò quello che l'aveva ferito, il quale messo mano alla spada ferí il gatto e taglioli una delle gambe davanti, e preso lo menò alle navi dove, legato con catene, diventò mansueto. Un giorno fra gli altri, essendo gli uomini delle navi andati per provedersi carne da mangiare, stretti da necessità, s'abbatterono a un porco cigniale, il quale preso lo menorono alle navi. Questo animale vedutolo con gran furia l'assaltò, e con la coda legandolo per il collo, con quella zampa che davanti gli era rimasta tanto lo strinse che lo strangolò.
Hanno li Cariai per antica usanza, quando muoiono li loro caciqui, seccargli nel modo che da noi è detto di sopra, e dipoi involti in foglie grandi d'arbori conservargli; gli altri tutti sotterrano nelli boschi e selve.
Del lito chiamato dal lato destro Cerebaro e dal sinistro Aburema, e sue isole, e fiumi dove si cava oro, e de' costumi degli uomini e re di quelle provincie, e come sono chiamate, e de' cocodrilli che quivi si trovano.
Partito di questo luogo l'admirante e lontanatosi circa venti leghe trovò un golfo molto amplo di circuito circa dieci leghe, alla bocca del quale sono quattro isolette non molto lontane l'una dall'altra, tutte verdi e molto fruttifere, le quali fanno che questo golfo è un porto sicurissimo. Il destro lato del quale dagl'Indiani è chiamato Cerebaro, e il sinistro Aburema. È questo golfo molto famoso per alcune isole che in esso sono fruttifere e piene d'arbori, e per la gran copia di pesci che in quello si trova. La terra che lo circonda è di tanta bontà e grassezza che non par sia inferiore ad alcuna infino a questa ora trovata. Entrato l'admirante in questo golfo e posto in terra, gli venne alle mani due Indiani del paese, quali avevano al collo catenelle d'oro, le quali loro chiamano guanine, che avevano appiccate certe figurette del medesimo oro d'aquile, leoni e simili animali. Ma quell'oro, per quello che si poteva vedere, non era di buon caratto. Da quelli due giovani, li quali, come abbiamo detto, l'admirante menò seco del paese de' Cariai, s'intese che queste provincie Cerebaro e Aburema erano molto ricche d'oro, e tutto l'oro del quale gli Cariai s'ornano lo cavano in baratto di sue cose di questi luoghi, nelli quali sono cinque casali, appresso li quali sono li luoghi donde cavano l'oro e, come intesero, non erano molto lontani da quel lito dove allora si trovavano. Gli uomini del paese di Cerebaro vanno in tutto nudi, ma dipinti il corpo in varii modi. In testa portano ghirlande di varii fiori, ma a quello pare averla preziosa il quale l'ha fatta d'unghie o di tigri o di leoni, e questo perchè è segno di gran fortezza e animo. Le femine vanno parimente nude, eccetto che portano alle parti vergognose una sottile fascia e stretta di cottone.
Partiti di qui, poichè furono andati avanti circa quattordici leghe per quella costa appresso le ripe d'un gran fiume, si fecero loro incontro trecento uomini nudi li quali con gran voci esclamando minacciavano. E presa in bocca acqua o erbe del lito sputavano inverso li nostri, e lanciando dardi e movendo l'aste e spade ch'avevano, come abbiamo detto, di legno, s'ingegnavano tenergli lontani dal lito. Questi erano tutti dipinti, alcuni tutto il corpo eccetto il volto, alcuni parte, e mostravano non voler per modo alcuno pace con li cristiani. L'admirante comandò che a voto si scaricasse qualche pezzo d'artiglieria, a voto dico, perchè questo sempre fu in animo di Colombo trattar le cose pacificamente con le genti nuove. Costoro, spaventati dallo strepito dell'artiglierie, tutti gittati in terra domandorono pace e cominciorono a mercatare e barattare insieme loro catene d'oro con paternostri di vetro e simili altre cose. Costoro hanno tamburri e cornetti fatti di caragoli marini, quali adoperano ad incitare gli uomini alla guerra.
In quella costa sono molti fiumi, fra li quali è il Beragua, e di tutti si cava oro. Gli abitatori di questo luogo, per defendersi dalla pioggia e dal caldo si cuoprono con foglie d'arbori molto grandi. Di qui andò vedendo le riviere di Ebetere ed Embigar, nelle quali sono duoi fiumi d'acqua dolce e abbondanti di pesci, Zachora e Cubigar. Lontano da questo luogo circa quattro leghe è la rupe, della quale si farà menzione quando si dirà della trista fortuna del capitan Nicuessa, chiamata dalli nostri Pegnone. La regione dagli abitatori si chiama Vibba, nella qual costa è un porto il quale da Colombo fu chiamato Porto Bello, la provincia del quale chiamano Xaguaguara. Tutta questa regione è popolatissima di gente tutta nuda. In Xaguaguara il re tiene il corpo tutto dipinto di nero; il resto del popolo il tigne di color rosso. Il re e sette altri primi appresso lui avevano appiccato al naso una lametta d'oro, la quale veniva insino sui labri, e questo par loro grandissimo ornamento. Gli uomini cuoprono le parti vergognose con la scorza d'una ostrica marina, le donne con una fascia fatta di cottone. Hanno questi popoli nelli loro giardini una pianta la quale fa il frutto simile al cardo, il qual frutto è molto delicato, e al gusto paion cotogne; è piú carnoso che la pesca, cibo veramente regale. Hanno zucche ancora, che fanno alcuni arbori, delle quali si servono a portare acqua o altro per bere. Incontravansi in questo luogo alcuna volta i cocodrilli, che chiaman lagarti, li quali veduti li cristiani fuggivano e fuggendo lasciavano un odore piú suave che il musco.
Come l'admirante, condotto al fiume Durubba, deliberò fermarsi quivi, e cominciato a fabricare fu proibito dagli Indiani; e riposatosi alquanti giorni nella città di San Domenico, ritornò in Castiglia a dar conto al re catolico dell'ultimo discoprimento ch'avea fatto verso terra ferma. E della morte sua, e le particularità che lasciò scritte di questa sua ultima navigazione.
L'admirante non volse andare piú avanti, sí perchè non poteva tollerare la corenzia dell'acqua che gli era contraria, sí ancora perchè li navili piú l'un dí che l'altro diventavano marci, e per questo si voltò verso ponente a seconda d'acqua e prese porto in un fiume chiamato Hiebra, capace di grandi navili, lontano da Beragua due leghe; la regione piglia il nome da Beragua, benchè sia minor fiume, perchè vicino a quello abita il signore. Stando cosí surto Colombo in Hiebra, mandò Bartolomeo suo fratello con schifi e uomini circa settanta al fiume Beragua, al quale si fece incontro il signore del luogo, venendo per il fiume a seconda d'acqua in certe barchette fatte d'un pezzo, accompagnato da una gran compagnia d'Indiani, ma tutti disarmati e dipinti. Il quale, subito che venne a parlamento con li nostri, stando in piedi, agl'Indiani parve cosa non conveniente alla sua grandezza, e per questo alcuni di loro corsero al fiume e di quello presero un gran sasso, e lavatolo bene lo portorono dove era il signore e lo fecero sedere. E cosí parlando, parve che facesse segno che fusse lecito andare per tutti li fiumi del suo stato. Allora il capitano, smontato in terra, andò su per le rive del fiume, lasciate le barche, e condussesi al fiume Durubba, il quale trovò piú abbondante d'oro che Hiebra o Beragua; del quale ancor questi tengano come tutti li fiumi di questi paesi. Fra le radici degli arbori lasciate scoperte dall'acqua, per esser gli arbori in su le ripe delli fiumi, e fra sassi e in ogni piccola fossa, pur che fusse un palmo profonda, trovavano l'oro mescolato con la terra.
Per questa causa deliberò fermarsi qui, ma gli Indiani, conosciuto il lor pensiero, glielo proibirono. Perchè, messisi insieme gran numero, vennero gridando con grande impeto adosso alli nostri, li quali di già avevano cominciato a fabricar qualche casetta, e con gran fatica potettero resistere al primo impeto, nel quale gl'Indiani combatterono da lontano, lanciando dardi e altre cose da trarre; dipoi d'apresso, con le spade di legno, con gran furore cominciorono a combattere, ed era tanta la rabbia loro che né da freccie o artiglierie che dalle navi venissero, le quali insieme con l'admirante erano venute a questa volta, potevano esser spaventati, e giudicavano meglio morire che veder la patria occupata. Come gente forestiera che andasse in viaggio gli ricettorono amichevolmente, ma come abitatori non gli volse a modo alcuno tolerare; e benchè fussero ributtati sempre tornavano con maggior impeto. In modo che, quanto piú li nostri facevano forza starvi, tanto maggior moltitudine d'Indiani veniva con impeto loro adosso per scacciarli, e d'ogni banda dí e notte gli combattevano.
Per il che l'admirante deliberò lasciar questa provincia e, perchè aveva le navi tutte abisciate, venirsene per la piú breve via gli fusse possibile all'isola Iamaica, la quale è all'incontro della Spagnuola e Cuba inverso mezzogiorno. E in questo viaggio patirono assai disagi, di modo che molto mal condizionati arrivorono alla detta isola, dove stettero molti mesi constretti dalla necessità, perchè avevano le navi che facevano acqua, in modo che di quelle non si potevano valere; con grandissima difficultà di vettovaglie, dove bisognava si contentassino delli cibi li quali produceva quella terra, e quando quelle genti barbare ne concedevano loro. Dette loro grande aiuto l'inimicizia che avevano quelli signori l'uno con l'altro, perchè ciascuno, per aver li nostri in favore, gli pasceva di quel pane che aveva.
Trovandosi l'admirante in queste difficultà, e volendo provedere d'aver soccorso dall'isola Spagnuola, mandò il suo maestro di casa Diego di Mendez con alcuni Indiani dell'isola Iamaica in una barca, li quali di scoglio in scoglio con gran difficultà finalmente arrivorno al primo capo dell'isola inverso ponente, il qual è lontano dall'isola Spagnuola quaranta leghe. Gl'Indiani, per la speranza delli premi promessi dall'admirante, tornorono indietro per dargli nuova d'aver messo il detto Diego di Mendez in su l'isola Spagnuola, e come lui s'era partito da loro a piedi alla volta della città di San Domenico; l'admirante di questa nuova rimase molto allegro.
Diego, arrivato a San Domenico, dette le lettere dell'admirante al comendador maggior, qual subito armò una caravella, e il medesimo volse far detto Diego, perchè, comprato un navilio dei danari dell'admirante e quello fornito di vettovaglie, insieme con la caravella del comendador mandorono a levar l'admirante di Iamaica e condurlo nella città di San Domenico, nella qual riposatosi alcuni giorni, con le prime navi che si partirono passò in Spagna, a dar conto al re catolico dell'ultimo discoprimento ch'egli avea fatto verso la terra ferma; la qual relazione fu udita da detta Maestà e da tutta la corte con grandissimo piacere e admirazione, e fu causa che molti si proposero in animo di voler andare ancor loro a discoprir detta terra ferma.
Ed essendo andato detto admirante in Castiglia per riposarsi, trovandosi vecchio e infermo massimamente delle gotte che lo tormentavano in tutta la persona, mancò di questa vita in Vagliadolit nel mese di maggio 1506. E per il suo testamento ordinò di esser portato a sepelir nella città di Sibilia nel monasterio della Certosa. Uomo veramente che se fosse stato appresso gli antichi, per l'admirabile e stupenda impresa d'aver trovato un mondo nuovo, oltra li tempii e statue gli averian dedicato qualche stella ne' segni celesti, come ad Ercole e a Bacco; e l'età nostra si puol tener gloriosa d'aver avuto in suo tempo un uomo italiano cosí grande e cosí famoso, le laudi del quale saranno celebrate per infiniti secoli. Al qual successe nello stato e titolo don Diego Colombo suo figliuolo, qual per le sue virtú e ottimi costumi, e del padre, meritò d'aver per moglie la signora Maria di Toledo, figliuola dell'illustre don Ferrando di Toledo comendador di Leon.
Ma non è da lasciare indietro come il detto admirante lasciò scritto alcune cose particolari di questa sua ultima navigazione, cioè che tutte quelle costiere che scorse, tutto l'anno avevano gli arbori verdissimi e carichi di fiori e frutti, ed erano di aere temperatissimo e salubre, in modo che mai alcuno delli compagni vi s'amalò. E che dal porto grande Cerbaroo infino al fiume Hiebra e Beragua, il qual spazio è di leghe cinquanta, mai sentiron né freddo eccessivo né caldo. E come li popoli Cerbaroi e gli altri sopradetti non attendono a cavar l'oro se non in alcuni tempi dell'anno determinati, della qual cosa sono perfetti maestri come appresso di noi li minerali; e che costoro conoscono li luoghi dove si trova maggior quantità d'oro dal corso dell'acque de' fiumi e dal colore dell'arena d'essi; e che credono oltra di questo ch'esso abbi in sé qualche divinità, secondo che dalli loro antichi avevano inteso, e per questo con gran cerimonie si preparavano quando l'andavano a cavare, e tutto il tempo che attendevano a questo essercizio stavano casti e mangiavano e bevevano poco per reverenzia, astenendosi d'ogni altro piacere. E che adorano il sole in questo modo, quando nasce facendogli reverenzia.
In tutte le navigazioni che fece l'admirante in questi mari, li quali continuamente corrono con grande impeto da levante in ponente non molto lontano dalli liti che sono in quella terra, che tenevon per certo fusse continente, esso diceva vedersi altissimi monti li quali scorrevano da levante a ponente, e cominciando dal capo di Sant'Agostino verso levante (il quale è di quella parte che oggi tocca al re di Portogallo), e passando per Uraba e il porto Cerbaroo, e altre provincie verso ponente trovate infino a questo giorno, sempre, quando da lontano e quando da presso, si offeriscono congiunti insieme agli occhi di quelli che navigano per queste parti, e in alcuni luoghi paiano colline piene d'arbori, erbe e terra molto atta a coltivarsi, con bellissime valli; in alcuni altri si veggono altistimi, aspri, sassosi e inculti. Quella parte di monti la qual è nella provincia di Beragua è tanto alta che molti pensano che con la sua cima passi le nuvole, perchè rare volte si può vedere detta cima per esser continuamente coperta da nebbie e nuvole. L'admirante, il quale fu il primo che gli scoperse, affermava l'altezza loro passare le cinquanta miglia.
Questo è quanto infino a quell'ora s'intese della longitudine di questa terra. Quello che per la latitudine e del mare di mezzogiorno si trovassi di questa terra, nelle seguenti narrazioni si dirà.
Come il re catolico, deliberando seguir l'impresa di scoprir altre terre del mondo nuovo, ordinò ad Alfonso Fogheda capitano di Uraba e a Diego Nicuessa capitano di Beragua che facessero abitar quelli luoghi da' cristiani, e quanto infelicemente gli successe detta espedizione.
Poi che fu morto Cristoforo Colombo primo admirante, il re catolico deliberò seguir l'impresa del discoprir queste parti del mondo nuovo e quelle dare ad abitare alli cristiani, e avendo inteso dal detto admirante che duoi principali luoghi, Uraba e Beragua, in detta terra ferma si dovevano far abitare, dette questo carico con sue lettere a duoi capitani, cioè al capitan Alfonso Fogheda di Uraba e al capitan Diego Nicuessa di Beragua, li quali luoghi non sono troppo lontani l'uno dall'altro e sono circa gradi sette sopra l'equinoziale.
Alfonso, avuto questo ordine, desideroso di essequirlo, trovandosi nella città di San Domenico, armati alcuni navili con circa trecento uomini si misse in mare, e dalla detta città prese il suo camino verso mezzodí, e navigando alcuni giorni arrivò ad un luogo in terra ferma il quale già per avanti fu discoperto da Colombo e nominato porto di Cartagenia, perchè ancor questo ha un'isola all'incontro della bocca chiamata dagl'Indiani Codego, la quale rompe l'impeto dell'onde del mare, e dentro è grandissimo e d'ogni banda falcato, non altrimenti che porto di Cartagenia di Spagna. Il paese si chiama Caramairi. Dove trovorono gli uomini e le donne di bella e grande statura, ma nudi, e gli uomini avevano li capegli fino alle orecchie tagliati, e le donne molto lunghi; ma tutti valentissimi arcieri. Viddero ancora molti arbori carichi di pomi, belli alla vista ma venenosi, perchè qualunque ne mangiava si sentiva rodere il corpo non altrimenti che se l'avesse pieno di vermini. E se alcuno dormiva all'ombra di quelli si destava con la testa enfiata e quasi cieco. Questo porto è distante da quella parte dell'isola Spagnuola dove è l'isola chiamata la Beata circa quattrocento e cinquantasei miglia. Entrato nel porto, Fogheda assaltò con impeto gli abitanti in quello all'improviso, come aveva commissione dal re catolico e n'ammazzò assai trovandogli separati l'uno dall'altro, e tutti nudi.
Questo ordine d'ammazzarli gli era stato dato imperochè per avanti, quando fu discoperto questo porto, mai poteron li cristiani persuader loro che fossero contenti ch'essi l'abitassero. Trovorono poca quantità d'oro, e quello ancora di basso caratto e fatto in alcune lame che per bellezza portano sopra il petto. Non contento di questa preda, Fogheda, da alcuni Indiani li quali aveva presi, si fece condurre ad un altro luogo distante dal porto dodeci miglia, dove erano stati ricevuti tutti quelli che dal porto s'erano fuggiti. E ancor che gli abitatori di detto luogo fossero nudi, nondimeno gli trovò molto atti e animosi al combattere, e armati con alcuni scudi tondi di legno e spade similmente d'un legno durissimo; gli arcieri avean le saette con le punte d'un osso molto acute e venenate. Questi, come viddero li nostri approssimarsi, si missero insieme con quelli che a loro s'eran rifuggiti, perchè per li danni che vedevan quelli aver patito, per essere stati molti di loro morti, e parte cosí maschi come femine fatti prigioni dalli nostri, s'eran mossi a compassione, e con tanta furia e impeto assaltorono li nostri, che alla prima zuffa con le freccie venenate li ruppero e n'ammazzarono circa settanta, tra li quali fu un Giovan della Cossa luogotenente, il quale fu il primo che con Colombo admirante trovò l'oro nel discoprir la provincia d'Uraba. Per il che fu forza al capitan Fogheda riffugirsene al porto dove erano li navili, e quivi essendo arrivati, pieni di dolore per la perdita fatta delli compagni, sopragiunse il capitan Diego di Nicuessa con cinque navili, e aveva seco settecento e ottantacinque uomini. La causa veramente che maggior numero d'uomini avevan seguitato Nicuessa era perchè, oltre che gli era piú vecchio e per questo di maggiore auttorità, si diceva che la provincia di Beragua concessagli dal re era piú ricca d'oro che la provincia di Uraba data ad Alfonso Fogheda.
Giunto che fu Nicuessa feceno consiglio quello che si dovesse fare, e tutti conclusero che si dovesse vendicar la morte delli compagni; e fatte le sue ordinanze la notte secretamente caminorono al luogo dove era stata la zuffa, e due ore avanti giorno all'improviso circondorono quella villa, la quale era di cento e piú case fatte di legname e coperte di foglie di palme, e messovi il fuoco dentro tutta l'abbrucciorono; né rimase maschio o femina che non fosse o abbrucciato o morto, eccetto sei fanciulli, dalli quali intesero come gl'Indiani avevano tagliati in pezzi il capitan Giovan Cossa con gli altri Spagnuoli morti, e quelli poi cotti mangiati. Questi Indiani, detti Caramairi, par che abbino origine dalli caribbi, overo canibali, quali mangiano carne umana. Fatta questa vendetta, avendo trovato fra la cenere alquanto d'oro, ritornorono al porto. E Alfonso Fogheda, ch'era stato il primo a venir a detto luogo, si partí per andar ad Uraba, provincia assegnatali dal re catolico, e passò per l'isola detta la Forte, la qual è in mezzo il cammino tra il porto di Cartagenia e Uraba, dove smontato conobbe quella esser abitata dalli prefati crudelissimi canibali, delli quali prese duoi maschi e sette femine, gli altri fuggirono. In questo luogo guadagnò oro fatto in diverse lamette di valuta di cento e novanta castigliani, e de lí partitosi, andando verso levante, arrivò alla provincia d'Uraba, e dismontò a un luogo detto Caribana, donde è opinione che si partissero li caribbi, overo canibali, che abitano nell'isole.
Quivi, essaminato il sito del luogo, parendogli bello e comodo per abitare, vi cominciò a far un borgo di case e una fortezza a canto, dove per ogni caso li suoi si potessino salvare. Dipoi, dimandando ad alcuni prigioni de' luoghi vicini, intese dodici miglia lontano esser una villa abitata dagl'Indiani detta Tirufi, appresso la quale si trovava una minera d'oro ricchissima. Il che inteso, parendogli a proposito pigliar detta villa, messosi ad ordine andò ad assaltarla; gl'Indiani, avendo inteso prima del giunger del prefato capitan Fogheda, e poi del fabricare ch'egli aveva fatto delle case, pensando che d'ora in ora gli verria a trovar s'erano messi in ponto di ciò che bisognava loro per difendersi. Per il che il detto Fogheda nel primo assalto fu ributtato con gran perdita delli suoi. Perchè ancor questi nel combattere adoperano saette venenate. E doppo alcuni giorni, volendo assaltare un'altra villa d'Indiani, fu rotto similmente e gli fu passata una coscia con una saetta venenata, per la qual stette grandissimo tempo infermo con grandissima carestia di vettovaglie, perchè aveva tutto il paese inimico.
Ma torniamo al capitan Nicuessa, il quale avea il carico d'abitar la provincia detta Beragua; partitosi ancor lui il giorno seguente dal porto di Cartagenia, cominciò a navigar per ponente verso Beragua, non partendosi troppo lontano dalla vista di terra. E giungendo a un golfo detto Coiba, dove era una terra con un cacique nominato Careta, trovò che queste genti parlavano di lingua molto diversa dagli abitatori dell'isola Spagnuola e di quelli che stanno nel porto di Cartagenia; perchè chiamavano il suo signore chebi, over tyba. Dove essendo stati alcuni giorni, volse de lí partirsi e seguir il viaggio suo. Navigando adunque pur sempre per ponente lasciò Uraba a man sinistra, e se n'andò verso Beragua, come al suo luogo si dirà.
Al capitan Fogheda, qual era ferito, in questo tempo venne un navilio dall'isola Spagnuola con vettovaglie, il quale ricreò alquanto lui e li compagni ch'eran molto affamati; pur essendo quelle dapoi consumate, assalendogli la fame, per non potersi aiutar in luogo alcuno vicino, cominciorono li compagni a sollevarsi contra di lui, dicendo che morivano di fame e non volevano piú star in quel luogo pasciuti di parole, perchè lui diceva loro che aspettava il baccalario Anciso, il quale, quando lui si partí dell'isola Spagnuola, aveva già caricato una nave di vettovaglie con ordine di venirgli subito drieto. Costoro adiratisi deliberavano tuor per forza duoi brigantini, e montati sopra quelli ritornarsi alla Spagnuola. La qual cosa intesa, il prefato Fogheda chiamatigli a sé disse che voleva andar lui in persona, cosí ferito, a far venir il ditto baccalario Anciso con vettovaglie. E che stessero quieti per 50 giorni, che prometteva loro andar e ritornare, e che guardassero con diligenza la fortezza che lui aveva fabricata, lasciandogli per lor capitano un gentiluomo nominato Francesco Pizaro, con 60 uomini, che tanti n'eran rimasti delli 300, perchè gli altri tutti o di fame o in zuffe d'Indiani erano morti.
Partitosi Fogheda, e passati li cinquanta giorni, non apparendo né lui né altri con vettovaglie, dalla fame astretti montorono sopra duoi brigantini, li quali erano restati loro per ritornarsene; delli quali uno, essendogli stato da un grandissimo pesce (delli quali in quelli mari è gran copia) con la coda rotto il timone, e sopragiuntali un poco di fortuna, se n'andò a fondo con tutti gli uomini appresso l'isola detta la Forte, fra Cartagenia e Uraba. L'altro, accostatosi a detta isola, fu ributtato ferocemente dagli uomini dell'isola con le freccie. Per il che seguitando costoro il suo viaggio, s'incontrorono per ventura nel detto baccalario Anciso tra il porto di Cartagenia e Cuchibacoa, appresso un fiume detto dalli nostri Boiagatto, quasi casa del gatto, avendo prima in quel luogo veduto un gatto; e boia in lingua dell'isola Spagnuola vuol dir casa.
Detto Anciso aveva una nave carica sí di vettovaglie come di cose da vestirsi e armarsi, e menava seco un brigantino. E quattro giorni dapoi partitosi dalla Spagnuola riconobbe alcuni monti altissimi in terra ferma, che furono chiamati da Cristoforo Colombo, il qual fu il primo che discoprisse quelli paesi, dalle continue nevi che sopra quelli si veggono, la Serra Nevada in lingua spagnuola. E passato detto fiume e la Bocca del Dragon s'appressorono con il brigantino al detto Anciso, e narrarongli come il loro capitan Alfonso Fogheda era venuto verso la Spagnuola, e come per la fame avevano lasciata Caribana. La qual cosa il baccalario Anciso non volse credere, ma per l'auttorità che aveva comandò loro che tornassero indietro, ch'aveva deliberato di far abitar Uraba. Quelli del brigantino all'incontro gli domandavano di grazia o che gli lasciasse tornare alla Spagnuola o veramente lui gli menasse ove era il capitan Nicuessa, e s'offerivano donargli due millia castigliani d'oro. Il che Anciso non volse far per modo alcuno, ma si misse a navigar verso Uraba insieme con il brigantino.
Come il signor di Caramairi fece pace con li nostri, e come si ruppe la nave del baccalario Anciso ben in ordine d'artigliarie e altre arme da combattere; e ritornato in Uraba, visto essere stata ruinata la fortezza e abbrucciate le case dagl'Indiani, andò piú avanti alla provincia Darien, cosí chiamata da un fiume che sbocca in quel mare, dove superati gl'Indiani, fatto un gran bottino, edificorno la città di Santa Maria dell'Antica del Darien.
Alla qual avanti che arrivassero, non sarà fuor di proposito narrar quello ch'intervenisse nella provincia de' Caramairi, dove è il porto di Cartagenia, come di sopra abbiamo detto. Buttate l'ancore per far acqua e per acconciare la barca della nave, ch'era un poco rotta, mandò alcuni uomini in terra, li quali, subito che furono smontati, furono circundati da una moltitudine grande d'Indiani armati con archi e saette; ma non traevano, e stavano in ordinanza con gli occhi fissi a guardar li nostri, li quali similmente in ordinanza con l'armi in mano guardavano quelli, né alcuno si moveva. E cosí stettero tre giorni, ma li nostri non restavano però di far quanto faceva lor dibisogno per acconciar la barca.
Mentre che stavano cosí, due delli nostri volsero andar fuor dell'ordine con due vasi a pigliar acqua al fiume vicino; il che veduto un Indiano, che pareva fra gli altri il primo, con dieci armati fu loro intorno con gli archi tesi. Allora un di questi due per paura si fuggí, l'altro piú ardito stette saldo e cominciò a riprendere colui che fuggiva, e perchè sapeva un poco della lingua indiana, imparata da alcuni schiavi li quali per avanti erano stati presi, cominciò a parlar con quel che gli pareva il signore. Costui, maravigliatosi di questo parlare in suo linguaggio, cominciò a farsegli domestico e mostrargli buona cera, domandando chi fussino. Il nostro gli disse ch'erano peregrini ch'andavano al suo viaggio, e ch'erano smontati per torre acqua, e che si portavano inumanamente se la volevano vietar loro, minacciandogli che se immediate non ponevan giú l'armi e gli accettavano amichevolmente sopragiugnerebbero altri uomini armati in tanto numero quanta è l'arena del mare, li quali gli taglierebbon tutti in pezzi.
In questo mezzo il baccalario Anciso, avendo inteso che li due compagni erano stati ritenuti, dubitando di qualche inganno, avea messo in ordine assai delli suoi con le targhe per paura delle freccie, e andava verso quella parte dove questo nostro parlava con il signore. Il che veduto il nostro di subito fece segno che stessero indietro, perchè costui mostrava di voler pace, e riferiva che la causa perchè stavan cosí armati era perchè poco avanti alcuni (volendo intender Fogheda e Nicuessa) avevano saccheggiato un loro borgo e fatti de' loro prigioni, e fra terra abbrucciatone un altro, e che desideravano vendicarsi dell'ingiuria ricevuta. Ma che non volevano contra chi non gli avesse ingiuriati far vendetta. E cosí fece immediate che tutti gli suoi, posti in terra gli archi e le freccie, se ne vennero con allegro volto a ricever li nostri, alli quali donorono alcuni pesci salati e pane di maiz e vino fatto di certi frutti molto buono, del quale empirono due botti; e cosí fu fatta la pace con li Caramairi del porto di Cartagenia.
Di qui partendosi alla volta d'Uraba il baccalario Anciso con la sua nave, sopra la qual erano 150 uomini con molti animali, cosí maschi come femine, per levarne la razza in quella provincia, e tra gli altri cavalli e cavalle, e gran copia d'artiglierie e altre armi, come spade, lancie, scudi e simili cose da combattere, la qual nave, subito che fu passata l'isola detta la Forte, volendo entrare in porto si ruppe, e il tutto fu perduto perchè andò in fondo, eccetto gli uomini li quali scamporono con un poco di pane fatto in biscotto. Per il che baccalario Anciso, giunto alla terra d'Uraba da lui tanto desiderata, si trovava in grandissimo affanno e angustia con tutti gli suoi. E oltre all'altre molestie erano tanto oppressi dalla fame che erano forzati per ogni luogo cercar da vivere, ed essendovi molti palmetti sopra li liti quelli mangiavano, e trovati porci salvatichi ne prendevano quanti potevano, quali parevano loro piú saporiti che i nostri; dicono che hanno la coda tanto picciola che pare che la sia stata tagliata, e ne' piedi di drieto hanno un deto senza ungia.
Andando fra terra il detto baccalario con 100 compagni, s'incontrò in tre Indiani nudi, ma armati d'archi e saette venenate, i quali ferirono assai de' nostri e alcuni ne ammazzorono, perchè come aveano tirate le saette come vento se ne fuggivano, per il che furono forzati a tornarsene a' compagni molto di mala voglia. Vedendosi in tanta infelicità e roina deliberarono di lasciar questa provincia, e massime perchè, dapoi il partir di Francesco Pizarro, gl'Indiani avean roinata la fortezza la quale avea fabricata il Fogheda e abbrucciate tutte le case d'intorno; pur ricercando intesono che la parte di questo golfo di Uraba qual è verso ponente era piú fertile e di miglior aere, e piú atta a fabricarvi una città.
È il detto golfo di circuito di 24 miglia, e quanto si va verso la terra ferma pare che si vada piú restringendo. Sboccano in esso diversi gran fiumi, tra gli altri uno detto il Darien ch'ha dato nome alla provincia, le ripe del quale sono amenissime per esser vestite tutto l'anno d'erbe e arbori verdissimi.
Fatta questa deliberazion il baccalario Anciso, lasciata la metà delli compagni sopra la detta parte di levante, con li brigantini cominciò a traghettar il resto verso questa parte del golfo di ponente. Gl'Indiani, vedendo venir li brigantini con le vele, quali sono molto maggiori delle sue canoe, prima stettero molto admirati, poi, vedendo che s'appressavano, mandorono via tutte le femine e fanciulli, e loro armati d'archi e freccie in un luogo alto messi in ordinanza aspettavano i nostri, e potevano esser da 500 uomini. Il baccalario Anciso, tenendo il luogo del capitan Fogheda, veduto questi Indiani ordinò la sua gente. E prima solennemente inginocchiati feceno un voto a Dio e alla Nostra Donna, la chiesa della qual in Sibilia si chiama Santa Maria dell'Antica, che se restavano vincitori di metter nome alla città che in quel luogo fabricariano Santa Maria dell'Antica. E appresso manderiano un pellegrino per nome loro a visitare la detta chiesa sino in Sibilia. E oltra di questo dedicheriano un palazzo del signor del detto luogo per chiesa di sua Maestà.
Il che fatto tutti giurorono di non voltar mai le spalle agl'inimici, e con grande impeto gli andorono ad assaltare. Gl'Indiani, vedutigli venir, tirorono ad un tratto tutte le sue freccie, che non una andò in fallo, ma per essere coperti li nostri di scudi di legno forte non furono feriti; poi con mirabil destrezza si tirorono indietro alquanti passi, e di nuovo tirorono un'altra moltitudine di freccie, le quali similmente non fecero danno alcuno; ma li nostri, discaricati alcuni schioppi, li fecero fuggire e voltar le spalle e abbandonar quel luogo dove abitavano, nel quale entrati li nostri trovorono assai pane di maiz e di iucca, con alcuna sorte di frutti dissimili alli nostri, i quali loro serban tutto l'anno come appresso di noi si salvano le castagne.
Gl'Indiani di questo paese vanno tutti nudi, ma le femine portano una camicia di cottone dall'umbilico in giuso. Questa regione è di temperato aere, e la bocca del fiume del Darien è lontana dall'equinoziale gradi sette, e li giorni di tutto l'anno sono quasi eguali con la notte, e talmente che vi si conosce poca differenza.
Il giorno drieto volsono li nostri andar a contrario d'acqua su per il fiume, e lontano da quel luogo un miglio trovorono un folto canneto nel quale, coperti con gli scudi per piú sicurtà, dubitando d'insidie, si missero ad andare con opinione che gl'Indiani si fussero in quello ascosi con le robbe loro; la quale opinione non fu falsa perchè, presentito gl'Indiani il venir de' nostri, l'aveano abbandonato e lasciate assai robe, come sono coltre di cottone dove dormono, masserizie di casa fatte a nostro modo di legno e di terra, e alcuni pettorali d'oro e catene che portano al collo, per valuta in tutto di 5000 castigliani, le quali catene erano molto ben lavorate; e come poi s'intese questi lavori d'oro sono portati in questa provincia d'altri paesi e barattati con pan di maiz e altre vettovaglie, perciochè tutti questi popoli non hanno commerzio alcuno tra loro se non con baratti, né conoscono alcuna sorte o uso di moneta. Li nostri veramente, avendo trovato quest'oro, con grand'allegrezza tornorono al borgo dove avevano rotti gl'Indiani, e quivi fatto venir gli altri compagni restati dall'altra parte del golfo, comincioron a fabricar la città di Santa Maria dell'Antica del Darien, che poi è diventata molto famosa e celebrata in terra ferma dell'Indie occidentali.
Come il capitan Nicuessa smarrí una notte li navili che lo seguivano, perse per fortuna la sua caravella, e smontato in terra andò piú e piú giorni errando fra le paludi e lito del mare. E in che modo ritornasse a Beragua. Dipoi de lí partito, procedendo avanti verso levante, giunto al luogo già da Colombo chiamato Marmore edificò una torricella, qual oggi è delle famose città dell'India.
Or ritorniamo a Nicuessa, ch'avea il carico d'abitar la region detta Beragua. Costui, partitosi come di sopra è detto d'Uraba, cominciò a navigar verso ponente e andò tanto avanti che passò la detta provincia, e una notte smarrí gli altri navili che lo seguivano, di sorte che un Lopes di Oliano, ch'era capo d'un di detti navili, insieme con un Pietro d'Umbria, capo di un altro brigantino, cercando il capitan Nicuessa si trovorono alla bocca di un fiume, il quale da Colombo era stato chiamato Lagarto perchè in quell'erano assai animali simili a' cocodrilli, dagli Spagnuoli detti lagarti; ed entrati in detto fiume trovoron il resto delli compagni, eccetto Nicuessa, li quali tutti, fatto consiglio di quello fusse da fare, deliberorono andare alla volta di Beragua come era il lor primo disegno. E cosí messeno ad effetto e la trovoron non molto lontano.
Beragua è un fiume che mena oro, e per questo è molto famoso in quelle parti, tanto che dà il nome alla provincia; allegri d'averlo trovato, tutti d'accordo elessero per suo capo, in luogo di Nicuessa, il detto Lopes d'Olano, qual con consiglio delli principali, acciochè ponessino da parte ogni pensiero di doversi partir piú di quel luogo e vi abitassero piú volentieri, subito permisse che 'l mare con l'onde rompesse tutti li navili con li quali eran venuti, avendo prima cavate le migliori tavole e tutti li serramenti; delli quali poi, con le tavole nuovamente fatte d'arbori grandissimi trovati in detta provincia, fabricorono una caravella sola, per qualche caso che gli potesse intervenire. Quivi sopra la ripa cominciorono a fabricar una fortezza, e in una valle molto fertile e grassa parte di loro, lavorata la terra, seminorono del maiz; gli altri compagni si missero andar fra terra e trovorono alcuni villaggi d'Indiani che loro chiamano mumu, gli abitatori delli quali erano persone molto inumane, in modo che non potettero aver con loro alcun commerzio.
Procedendo cosí le cose, un giorno viddero venir per mare una vela piccola, la qual giunse a costoro con grande allegrezza. Questo era un schifo d'un naviglio del capitan Nicuessa, sopra il qual ascosamente s'erano partiti tre compagni del detto capitano, non potendo piú sopportar l'estrema fame nella qual si trovavano; allegri d'aver ritrovati gli altri compagni sopra il fiume di Beragua, narrorono loro come il detto capitano, avendo perso per fortuna la caravella, era smontato in terra, dove andava errando fra paludi e il lito del mare, senza pane o altra cosa da vivere, ma si sostentava con li pochi compagni che avea, già settanta giorni, con radici d'erbe, e molte volte non avea acqua da bere, e che era sopra quella costa che va verso ponente, la qual da Cristoforo Colombo fu discoperta; e ad un luogo detto dagli Indiani Cerbaro pose nome la Grazia di Dio. Nella qual regione corre un fiume chiamato da' nostri San Matteo, il quale è lontano da Beragua verso ponente cento e trenta miglia.
Tutte queste particularità dalli detti avendo inteso, Lopes d'Olano mandò un brigantino a trovar Nicuessa, e fecelo venir in Beragua, dove giunto che fu ed ebbe inteso che Lopes d'Olano era fatto capo, immediate per l'autorità sua comandò che fosse messo in prigione, accusandolo di ribellione per essersi fatto capo e signore e che per sua negligenzia avea tanto tempo tardato a ricercarlo. Agli altri compagni disse che voleva che si partissero di quel luogo e lo seguissero dove lui gli meneria, ma dimandandogli loro di grazia che aspettasse tanto che cogliessero il grano, chè avean seminato del maiz, il qual in quattro mesi si matura, costui ostinatamente mai volse compiacergli, ma gli fece montar sopra brigantini e altri legnetti piccioli e far vela verso levante, non si discostando molto da terra; e andati circa quindici miglia riconobbero un porto grande, al quale da Colombo fu posto nome Porto Bello. E smontando sforzati dalla fame per il viaggio, alcuna volta in terra erano dagli uomini del paese molto mal trattati, li quali ammazzorono venti de' nostri con le loro saette venenate.
Arrivati a questo porto parve loro necessario di far smontar la metà dell'armata, e in quello si facesse un ridotto forte. Con l'altra metà Nicuessa passò piú avanti verso levante, e arrivato a un luogo dove la terra esce con un monte in mare e fa un capo che da Colombo fu chiamato Marmore, lontano da Porto Bello circa ventotto miglia, deliberò edificarvi una fortezza. Ma vedendo li compagni ridotti dalla fame in grande estremità, in modo che non si potevano a pena piú sostenere, essendo già ridotti da settecento e ottantacinque che venner in sua compagnia a cento (gli altri tutti erano morti per diverse cause, parte di fame, parte per varie zuffe fatte con gli Indiani), e per questo non arebber possuto edificar gran fortezza, fabricò meglio che potette una torricella, per poter sostener l'impeto degli Indiani se alcuni gli venisser ad assaltare, e pose nome a questo loco il Nome di Dio, il quale dapoi è venuto in tanta grandezza che è uno de' primi luoghi delle città famose dell'Indie; e questo fu il suo principio.
Come il capitan Rodorico Colmenar giunse nel golfo di Uraba con duoi navilii carichi di vettovaglie e panni, assalito prima da settecento Indiani posti in agguato, dove molti de' nostri morirono, e con quai mezzi ritrovasse li compagni che de lí erano partiti. E per qual causa mandassino a torre il capitan Nicuessa, e dipoi giunto fu constretto a partirsi, con un discorso sopra gli infortunii per lui patiti.
Ma lasciamo star Nicuessa con gli compagni affamati, e ritorniamo agli abitatori di Santa Maria Antica in Uraba, quali fra loro erano venuti a gran dispute chi di loro dovesse esser capo, essendo partito Alfonso Fogheda, qual pensavano fosse morto; queste dispute si facevano perchè fra loro era un Vasco Nunez Balboa, uomo molto insolente, che si voleva fare capo e non voleva che il baccalario Anciso governasse; e li piú, per non poter tolerar la sua insolenzia, dicevan che si doveva far venir Nicuessa, qual aveano inteso che per la sterilità della terra avea abbandonata Beragua. All'incontro, dubitando il detto Vasco che per la venuta di Nicuessa non gli fusse tolto il governo, non voleva che fosse chiamato, dicendo che ciascuno de' loro compagni era tanto sufficiente quanto Nicuessa a governargli. Ma stando in queste altercazioni fra loro, giunse il capitan Rodorico Colmenar con due navi grandi, con sessanta uomini e assai vettovaglie e panni per vestirgli. Della navigazion del quale, e come si partí dalla Spagnuola e giunse ad Uraba, non è fuor di proposito narrarne qualche parte.
Rodorico si partí dal porto dell'isola Beata, che è appresso alla Spagnuola, del 1510, alli tredici d'ottobre, e navigò verso terra ferma, e alli nove di novembre arrivò alla provincia detta Paria, tra il porto di Cartagenia e il paese di Cuchibacoa, qual similmente fu discoperto da Colombo per avanti. E avendo patito nel viaggio molti incommodi e disagi, un giorno per far acqua dismontò alla bocca d'un gran fiume atto a ricever navi, qual si chiama Gaira dagli Indiani. Questo fiume si vedeva descendere da un altissimo monte del medesimo nome, carico la cima di nevi, e come dissero li compagni del detto Rodorico, mai si vidde il piú alto. Ed era cosa ragionevole essendo carico di tante nevi, e lontano dall'equinoziale non piú di gradi dieci, che fusse altissimo.
Nella bocca di questo fiume avendo mandato un schifo a far acqua, e intrati nel fiume, ecco che viddero un uomo di bella statura, vestito di tela fatta di cottone, con venti compagni similmente vestiti. Costui portava a modo d'un fazuolo di tela di cottone in su le spalle, il quale gli copriva le braccia infino alla cintura; di sotto dal traverso avea un'altra vesta della medesima tela infino alli piedi. E venendo verso li nostri pareva che dicesse loro che non prendessero di quella acqua, perciochè ella era cattiva, mostrandogli non troppo lontano de lí un altro fiume di miglior acqua dove volendo li nostri andare, questo cacique over signore avea posto in aguato da settecento Indiani, nudi con gli archi e freccie, perciochè altri che li signori con quelli della sua corte non portan veste. Costoro assalirono li nostri, quali erano smontati per empier le barile d'acqua, con gran furia, e al primo tratto presero il battello e quello feceno in mille pezzi, poi tirorno verso li nostri tante freccie in un batter d'occhio che, avanti che si potessero coprir con gli scudi, ne ferirono circa quarantasette; de' quali, per il veneno che era sopra d'esse, un solo scampò, gli altri morirono, sette s'ascoson in un arbore corroso per vecchiezza e stettero fin a notte. Ma perchè la nave si partí la notte si pensa che ancor loro fossero morti dagli Indiani.
Detto Rodorico con questi infortuni finalmente giunse nel golfo di Uraba, in quella parte che guarda verso levante. E buttate l'ancore, non vedendo alcun delli compagni che pensava trovare, stette molto admirato. Non sapendo se fossero vivi overo avessero mutato luogo, deliberò di far loro segno della sua venuta, e però cariche tutte l'artigliarie a quelle ad un tratto fece dar fuoco, per il strepito delle quali tutto il golfo di Uraba risonò. E oltra di questo sopra le cime delli monti vicini fece far la notte fuochi grandissimi. Li nostri abitatori di Santa Maria dell'Antica, udito lo strepito e visti la notte li fuochi, conosciuto il giugner de' suoi, risposero ancor loro e con artiglierie e con fuochi. Per il che detto Rodorico se n'andò verso di loro, i quali corsono a riceverlo con tanta allegrezza che non potevano ritener le lagrime, perciochè per la fame e disagio erano ridotti in estrema necessità, oltr'a che non aveano da vestirsi; e con la giunta del detto Rodorico si vestirono e scacciarono via la fame.
Giunto che fu Rodorico Colmenar, li primi uomini di Uraba e quelli che eran riputati di maggior consiglio, come abbiam detto di sopra, erano d'opinion che si dovesse far venire Nicuessa per governatore, per levar via le discordie e contenzioni che eran tra loro di quel governo; la qual cosa non piaceva al baccalario Anciso né a Vasco Nunez. Nondimeno fu deliberato che 'l detto Rodorico, con una delle sue navi e un brigantino, andasse a farlo venire. La qual cosa esseguendo, in pochi giorni giunse in Beragua, dove trovò lo sfortunato capitano Nicuessa che appresso il capo d'un monte che si prolunga in mare detto Marmor fabricava una torricella, ridotto in estremo disagio, e di settecento e ottantacinque compagni n'avea vivi solamente sessanta, e quelli ancora di modo per la fame afflitti che con gran pena si reggevano in piedi. Del qual non è fuor di proposito discorrer da che procedesse, che avendo sí bella banda di gente armata di schioppi e di picche, e atta a far ogni grande impresa, e trovandosi in quella parte di terra ferma dove erano infinite terre e città d'Indiani, e ricche e abbondanti di vettovaglie, il prefato capitano si lasciasse piú presto morir di fame che esperimentar la fortuna. Certo chi leggerà le cose fatte dapoi per altri capitani con minor numero di gente in questa parte, comprenderà che la causa nascesse dalla poca prudenzia del detto capitano, qual dovea esser vile d'animo e di poco intelletto.
Dismontato in terra che fu il Colmenar, come gli vidde cosí afflitti, se gli rappresentò avanti gli occhi il volto di tanti uomini morti; pur, dato loro le vettovaglie che seco avea condotte, gli consolò grandemente, e ritrovato Nicuessa e quello abbracciato, gli disse ch'egli era molto desiderato da quelli di Santa Maria dell'Antica del Darien, perciochè, essendo tra loro grandissime discordie, speravano che con l'auttorità sua le si quetariano. Nicuessa ringraziò grandemente Colmenare che lo fusse venuto a trovare, e disse esser contento d'andarvi, e cosí d'accordo immediate montorono in nave; dove, dapoi che ebbero ragionato gli infortunii l'un dell'altro, Nicuessa, che già aveva scacciata la fame, cominciò a dir male degli Spagnuoli di Santa Maria dell'Antica, e che gli voleva levar via de lí e torgli ancora tutto l'oro che aveano, perciochè senza licenzia del capitano Fogheda, ch'era suo collega, o sua, che eran capitani del re catolico, non potevan partirse fra loro quell'oro. Le quali parole venute all'orecchie delli detti Spagnuoli, con l'aiuto di Vasco Nunez e del baccalario Anciso, come giunsero li detti Colmenare e Nicuessa li vennero all'incontro, e con minaccie grandi strinsero Nicuessa a montar sopra un brigantino, con diecisette compagni soli di sessanta ch'avea menati seco, e partirsi. La qual cosa dispiacque a tutti gli uomini da bene, pur non ardirono contradirgli per paura ch'avean della parte del detto Vasco. E questo fu l'anno 1511.
Nicuessa, entrato che fu in mare per andar all'isola Spagnuola a lamentarsi dell'oltraggio che 'l detto Vasco gli aveva fatto, mai piú fu veduto; credesi che s'annegasse con tutti gli uomini.
Come Vasco Nunez, fatto capo di cento e cinquanta uomini, tolto in compagnia il Colmenar, fecero prigione il cacique Caretta e saccheggiorono il suo villaggio, dipoi liberatolo mossono guerra unitamente al cacique Poncha; e del modo del combattere di quegl'Indiani. Della provincia chiamata Comogro, e dell'amicizia contratta col cacique di quella.
Partito che fu Nicuessa, avendo li detti di Santa Maria dell'Antica consumate tutte le vettovaglie che avea condotte Colmenar, furono forzati come lupi affamati andar cercando per il paese vicino da mangiare, per il che, fatto capo il detto Vasco Nunez di cento e cinquanta di loro, tolto in compagnia sua ancor Colmenar, si dirizzorono drieto al lito verso quella provincia che di sopra abbian detto chiamarsi Coiba. Dove trovorono il cacique Caretta, dal quale con minaccie volendo che gli desse vettovaglie, e lui scusandosi che non n'avea, perciochè n'avea dispensate assai ad altri cristiani che eran passati per quel luogo, e appresso, per la guerra che avea con il cacique vicino detto Poncha, non avea potuto raccoglier la semenza del maiz, costoro, fortemente adirati né admittendo alcuna scusa, prima saccheggiorno tutto quel suo villaggio, e poi, presolo con due mogli, figliuoli e famiglia, lo mandorono in prigione al Darien. Tra la famiglia del detto Caretta furon trovati tre Spagnuoli grassi del corpo ma nudi de' panni. Costoro fuggirono 18 mesi avanti da Nicuessa, quando andò verso Beragua, quali il detto Caretta avea trattato benissimo.
Vasco ritornò al Darien con quella poca di preda e vettovaglia che avea trovato, dove subito giunto fece metter in prigion il baccalario Anciso e confiscar tutto il suo avere, accusandolo che senza lettere del re catolico s'era fatto governatore. Pur furono tanti li preghi delli primi del Darien, che fu lasciato andarsene con una nave. Essendo queste discordie e travagli fra costoro, fu deliberato di mandar al vice re della Spagnuola, qual era il figliuol dell'admirante Colombo morto, e alli consiglieri datigli dal re catolico, per intendere come s'avessero a governare, avisandogli nelle calamità che si trovavano e ciò che speravan di trovare se fossero soccorsi di vettovaglie; e questo carico dettero ad un Valdiva, della fazion del detto Vasco, ordinandogli che, esposta l'imbasciata sua alli detti della Spagnuola, dovesse caricata una nave di vettovaglie ritornarsene al Darien.
In questo mezzo il detto Vasco non potendo star ozioso e desiderando di far qualche impresa, avendo parlato con interpreti al detto cacique Caretta imprigionato, si compose con lui prima di liberarlo, e poi d'andar a far guerra al cacique Poncha, assai fra terra ferma alli confini di Coiba, promettendogli il detto Caretta sumministrargli le vettovaglie e lui medesimo con la sua famiglia e subditi con l'arme andarlo ad aiutare. Gl'Indiani di questo paese non combattono con freccie venenate, come quelli che abitano la costa del golfo di Uraba verso levante, ma con spade molto lunghe, le quali chiamano machane, e son fatte di legno durissimo per non aver ferro, e con lancie con la punta acutissima fatta d'osso. Per esecuzion di questo ordine il cacique Caretta fece seminar del maiz quanto piú gli fu possibile dalli suoi, e doppo alcuni mesi raccolto il loro grano per far pane, si posero in cammino con il detto Vasco e suoi compagni verso il paese del detto Poncha, il qual, intendendo la venuta di costoro, se ne fuggí.
Li nostri, giunti al villaggio e non trovando il cacique, lo saccheggiorono tutto e si fornirono d'assai vettovaglie che trovorono, con alquanto oro fatto e lavorato in diversi ornamenti di quelli che portano gl'Indiani. Ma delle vettovaglie non poteron soccorrer alli compagni lasciati al Darien, perciochè la casa del detto Poncha era lontana dal Darien piú di cento miglia; e bisognava portar il tutto sopra le spalle, non avendo altro mezzo da condurle. E cosí ritornati al Darien deliberorono non andar piú tanto fra terra, ma dirizzarsi contra gli cacique vicini al lito, per potersi con le navi aiutar in condur via ciò che guadagnassero.
È posta non troppo lontan da Coiba una provincia detta Comogra, dove è una pianura circundata da' monti, di lunghezza di circa 36 miglia, molto bella e cultivata, appresso la radice de' quali è il palazzo del cacique di detta provincia, chiamato Comogro, con infinite altre case e abitazioni d'Indiani; fra le quali sono molte fontane che vengono da' detti monti vicini, le quali poi giunte tutte insieme, fanno correr un fiumicello per mezzo detta pianura. Vasco Nunez con la sua compagnia se ne andò a questa volta per saccheggiarla. Ma la ventura volse che per avanti un gentiluomo del cacique Caretta, che in loro lingua chiamano iura, s'era ritirato a questo cacique Comogro. Costui, intesa la venuta de' nostri, avendo amicizia con li tre Spagnuoli che abbian detto di sopra, che furono trovati nel prender il Caretta, s'interpose e fece con mezzo loro far amicizia grande tra il detto cacique Comogro e li nostri. Li quali per questa causa come amici introrono in questo paese di Comogro, qual è circa trenta leghe lontan dal Darien per via piana, la qual è necessario che si facci attorno ad alcuni monti che vi son in mezzo. Giunti al palazzo furono da Comogro e da sette giovani suoi figliuoli, di bello aspetto, ma nudi tutto il corpo eccetto le parti vergognose, allegramente raccolti.
Descrizione del palazzo di Comogro cacique, e del presente per lui fatto a Vasco Nunez e a Colmenar, d'oro lavorato per valuta di quattro mila castigliani, e sessanta schiavi, e come il figliuolo di Comogro gli fece avertiti di alcune provincie ricchissime d'oro.
Questo palazzo aveva avanti verso mezzodí una piazza di 150 passa e altretanto larga, la quale era circondata da palme altissime molto spesse, dove si stava all'ombra; in su questa piazza s'entrava in un portico della medesima longhezza e di larghezza di passa ottanta, il quale aveva davanti, posti ad uso di colonne, molti legni grossissimi e ben lavorati; l'altre tre parti erano circondate d'alberi al medesimo modo, ma serrati con pareti fatti tanto forti quanto si fussero stati fatti di pietra. In mezzo di questo portico era una porta grande, la quale entrava in su una sala quadra: da una parte di questa verso levante era una camera grande, nella quale dormiva il cacique. Di questa s'entrava in due camere, l'una delle quali serviva per il dormire delle donne del cacique, l'altra a canto a questa era piena di corpi morti secchi, legati con corde di cottone e appiccati al palco per il traverso. All'incontro di queste erano tre camere: una serviva per dispensa, ed era piena di pane e altre vivande le quali loro usano; l'altra era piena di vasi di legno e alcuni di terra al modo di Spagna, pieni di vino qual si fa in quella provincia, parte di maiz e radici d'agyes e iucca, e parte di frutti di palme di diversi colori, cioè neri e bianchi, e di perfetto sapore e bontà. Nella terza stanza stavano gli schiavi e quelli che tengon cura delle cose del vivere della corte, e questa serviva, per esser grande ancora per cucina. Li pavimenti tutti e palchi erano lavorati di bellissimi lavori; il coperto tutto era in forma di padiglione, con travi longhissimi coperti di foglie ed erbe, tanto dense che l'acqua non passava, e piovea in quattro faccie. Dimandati da' nostri perchè tenesser quelli corpi secchi cosí appiccati, gli risposero quelli esser i corpi di tutti i caciqui antecessori del parentado di Comogro, l'ultimo de' quali mostrorono, che fu suo padre, quali cosí ad ordine conservavano con gran diligenza e venerazione. Aveano questi corpi secchi intorno alcuni lenzoletti lavorati con oro, e alcuni ancora appresso l'oro qualche gioia; il modo nel qual gli seccano s'è detto di sopra.
Il maggiore delli figliuoli di Comogro mostrava nell'aspetto esser molto savio e prudente, il quale cominciò a parlare a suo padre e dirgli che queste tali genti, che andavano facendo guerra di qua e di là e vivevano solamente di rubare, era necessario di accarezzarle, per non dar loro causa che facessero dispiacere a loro e a casa sua, come aveano inteso che avean fatto in altri luoghi. E perchè vedeano che non dimandavano altro che oro, mandarono a donare a Vasco Nunez e Colmenar oro lavorato in diverse lame e cose per valuta di castigliani quattromila, e sessanta schiavi per servirli. Questa usanza di far schiavi è molto commune a questi Indiani, alcuni de' quali non fanno altro traffico che prendersi l'un l'altro e barattarsi per altre cose che gli siano necessarie.
E questo per non conoscer l'uso de' danari. Li nostri, avuto quest'oro, si misero in piazza a volerlo pesare insieme con altretanto guadagnato altrove, per cavar fuori la quinta parte, la qual ordinariamente si cava del tutto e s'assegnava alli tesori de' re. Il resto si parte egualmente. In questo partir d'oro vennero fra loro alle mani, la qual cosa vedendo questo figliuol maggiore di Comogro, mosso un poco ad ira dette con furia delle mani nelle bilancie, e sparse l'oro per tutta la piazza, dicendo per uno interprete: "Che vergogna è questa, o cristiani, che per cosí poca quantità di oro vi offendiate l'uno l'altro, e questo ancorchè è lavorato lo volete disfare e ridurre in piastre? Se avete tanto desiderio di oro, per il quale mi pare che andate perturbando la quiete di tutti gli uomini del mondo, partendovi da casa vostra e sofferendo tanti disaggi, io vi dimostrerò paesi ricchissimi d'oro nelli quali vi potrete saziare. Ma sarà di bisogno che abbiate piú numero di gente per poter combattere con alcuni caciqui, i quali sono potentissimi nelli loro paesi; fra gli altri vi verrà incontro Tumanama, quale è signor d'un paese ricchissimo, e non è distante da noi piú di sei soli". E questo disse perciochè gl'Indiani computano i giorni col sole. "Poi sopra alcuni monti che vi bisognano passare abitano una sorte di genti detti Caribbi, che mangiano carne umana e non hanno né signore né legge alcuna, e vivono oziosi. Costoro ne' tempi passati, lasciate le loro proprie abitazioni per aver oro da barattare in uomini per mangiarsegli, sapendo che in detti monti si cavano oro, v'andarono. Dove presi gli abitatori gli fanno cavar l'oro, e quello poi ridotto in lame per orefici che hanno, e altre cose lavorate, barattono in ciò che gli vien desiderio. Noi non facciamo maggior conto dell'oro non lavorato di quello che facciamo di un pugno di terra avanti che dalla mano di un artefice la sia formata in alcun vaso, de' quali, e di coltre di cottone, dalli detti nostri vicini ne abbiamo assai in cambio di schiavi presi, che loro pigliano da noi per mangiarsegli. Noi gli forniamo di molto pane per il loro vivere, del quale hanno gran carestia perciochè abitano sopra montagne. E però con le armi è necessario che vi facciate la strada e che passiate quelli monti". E con il deto glieli mostrava verso mezzogiorno. "Passati quelli, voi vederete un mare, il quale ha navili che vanno a vela come li vostri", dimostrando le nostre caravelle. "E gli abitatori di quelli liti, ancorchè siano nudi come siamo noi, pure sanno andare a vela e a remi in tutto quel mare che è di là da' detti monti dove è tanta copia di oro". E dimostrando alcuni piatti e scodelle di terra, diceva che 'l re Tumanama e tutti li paesani di quello aveano que' fatti d'oro, e cosí come appresso i cristiani era abbondanzia di ferro, non altrimenti appresso quelli popoli era d'oro. Disse del ferro, perciò che da' nostri intese noi averne gran copia, vedendo tante spade e armi intorno alli nostri.
Tutte le parole di questo giovane ci riferirono quelli tre Spagnuoli che erano stati diciotto mesi con Caretta, e aveano imparato il loro parlare, e furono di tanta efficacia a Vasco Nunez e Colmenar, che non pensavano altro e pareva loro mill'anni di trovarsi dove era quel tanto oro. E però, laudato il giovane di quanto gli aveva narrato, cominciorono di nuovo a dimandargli come doveriano governarsi contro quelle tanti genti, quando l'anderanno a trovare. Questo giovane, udite queste parole, stette un poco sopra di sé, mostrando di pensare, e poi disse: "Sappiate, cristiani, che ancor che noi siamo nudi e che 'l desiderio dell'aver l'oro non travagli gli animi nostri, non però stiamo quieti, ma la cupidità d'aver gran signorie ne fa star in continue guerre, volendo sempre esser signori del paese delli vicini; di qui nascon li nostri travagli e ruine, e gli antecessori nostri e il medesimo mio padre Comogro, per questa causa ha fatto gran guerre con li re che v'ho mostrati di là dalli monti. Nelle quali, secondo che suol accadere, ora siamo stati vincitori, ora abbiam perduto. E sí come avendo avuta vittoria contro li nemici nostri, di quelli abbiam fatti prigioni, delli quali ve ne abbiam donato sessanta, cosí loro alcune volte han preso delli nostri e menatigli schiavi". E cosí dicendo ci mostrò un Indiano suo famigliare, il qual era stato schiavo appresso uno di questi re di là da' monti, la provincia del quale è abbondantissima d'oro.
Come Comogro, cosí persuaso da' nostri, si battezzò con tutta la sua famiglia. Valdiva ritorna alla Spagnuola con la quinta parte dell'oro trovato aspettante alli re, per valuta di millecinquecento castigliani. Vasco Nunez, pervenuto ad un grossissimo fiume con molte abitazioni d'Indiani, il signor delle quali era fuggito, trovò lame e catenelle d'oro per molta valuta, e gran quantità d'archi e freccie.
"Da costui, e da molti altri uomini quando siamo in pace passano di qua e di là, vi potrete informare che quanto vi ho detto è la verità. Nondimeno, acciochè siate piú sicuri delle cose sopradette, e che io non v'inganno, io m'offerisco venir con voi, e non trovando esser cosí mi facciate morire. E però mettete ad ordine 1000 cristiani, che con l'armi, insieme con li soldati di mio padre, quali armati all'usanza nostra verranno con voi, possiamo discacciar gl'inimici nostri. Perciochè questo vi darà quanto oro saperete dimandare, e noi, in premio dell'aiuto che vi averemo dato, oltra la parte del paese che acquisteremo appresso al nostro, saremo sicuri di poter viver continuamente in pace, senza far piú guerra ad alcuno".
Da queste parole del prudente figliuolo di Comogro li nostri grandemente commossi per la speranza di tanto oro, a pena potevano rispondergli. E stati lí alcuni giorni, conosciuta la umanità e intelleto di costoro con il mezzo di quelli tre Spagnuoli interpreti, persuasero al vecchio Comogro di farsi cristiano. E cosí quello con li figliuoli e tutta sua famiglia battezzorono, e gli posero nome Carlo, perchè cosí allora si chiamava il prencipe di Spagna. Fatto questo deliberorono di tornar alli compagni suoi nel Darien, ben affermando che torneriano presto con gran numero di gente, con la qual potriano passar fino al mar di Mezzogiorno.
Partiti adunque di qui e arrivati a Santa Maria del Darien, intesero come Valdiva, mandato già sei mesi alla Spagnuola, era ritornato, e avea condotto poca quantità di vettovaglie, escusandosi che il navilio che avea menato era un poco piccolo, e che 'l vice re e gli consiglieri della Spagnuola gli avean promesso di mandargli dietro prestissimamente e vettovaglie e uomini assai. Il che fin allora non aveano fatto, tenendo certo che la nave che condusse il baccalario Anciso fosse venuta salva, ma che per l'avenir non gli mancheriano d'alcuno aiuto possibile. Queste vettovaglie che condusse Valdiva durorono pochi giorni, quali passati cominciorono a patir al medesimo modo come facevano per avanti. E la mala ventura di costoro, volendo aggiugner mal a male, si fece venire nel mese di novembre una fortuna di tempesta grossissima con tanti tuoni e saette spaventevoli, e con diluvio di tanta acqua, qual corse giú delli monti, che il maiz seminato il settembre fu annegato e menato via dalla furia dell'acqua. Questo maiz quelli di Uraba chiamano hoba, e tre volte l'anno si semina e raccoglie perchè, per esser vicini alla linea dell'equinoziale, questa provincia non patisce alcun freddo né caldo eccessivo.
Vedendosi quelli del Darien ridotti in queste calamità, deliberorono di mandar un'altra volta Valdiva alla Spagnuola, con relazion di quanto aveano inteso delle grandissime ricchezze e oro che era sopra l'altro mare, acciochè gli mandassero e vettovaglie e genti per poter far quella impresa, e discoprir il detto mare. E gli dettero di tutto l'oro trovato e partito fra loro, il quinto che toccava alli re, qual fu castigliani quindecimila, fatto in verghe, non cavato d'altro che d'alcune lamette che portano detti Indiani alle orecchie e naso, e catenelle alle braccia e collo e lame grandi avanti il petto. E cosí il detto Valdiva, con gli ordini datigli da Vasco Nunez, entrò di nuovo in mare con la sua caravella alli dieci di gennaio del 1512. Aveva ancor seco assai oro, che mandavano li detti dal Darien in Spagna, chi a suo padre e madre e chi a' suoi parenti.
Ma lasciamo il detto Valdiva andar al suo cammino, del qual al suo luogo diremo, e ritorniamo a quelli del Darien che, cacciati dalla fame deliberorono d'andar cercando tutti li luoghi lí vicini. Dalla bocca del golfo di Uraba fino all'ultimo angulo sono miglia ottanta in circa, e questo angulo li nostri chiamano Culata. Quivi andò Vasco Nunez con cento uomini sopra un brigantino e alcune canoe, le quali da quelli di Uraba si chiamano uru. In questo angulo cade un fiume dieci volte maggiore del Darien, su per il quale andati circa trenta miglia verso mezzodí trovorono assai abitazioni d'Indiani, il signor delli quali si chiamava Daiba, appresso il quale intesero che era fuggito Cemaco, signore del Darien, che fu rotto dalli nostri. Questo Daiba, non volendo aspettar li nostri, mosso dall'essempio di detto Cemaco se ne fuggí. E però smontati li nostri trovorono il tutto spogliato; solo v'era rimasto gran copia di fasci d'archi e freccie, e molte reti con barchette per andar a pescare. Quivi non trovoron troppo vettovaglie, perciochè tutti quelli luoghi sono paludosi e per questo non sono buoni per seminare, ma gli abitatori di quelli, con barattar il pesce che prendono, si forniscono da altri Indiani di pane. Nondimeno, cercando le case con diligenzia, trovorono diverse lame d'oro e catenelle per valuta di settemila castigliani. E levorono tutti gli archi e freccie e massarizie che poterono, e caricorono le barche di detti Indiani.
Vasco Nunez e Colmenar contrassono amicizia col signor Turui e trovorono l'isola detta della Cassia, abitata solamente da' pescatori, e un borgo di settecento fuochi. Come superorono il signor Abenamachei, e procedendo piú avanti trovorono il signor Abibeiba. Del suo palazzo, e richiesta a lui fatta, e la sua risposta.
Dicono questi che furono a questa impresa, che la notte veniva fuori di quelli paludi pipistrelli, overo nottole grandi come tortore, le quali mordevano, e il morso loro era come venenato, e al principio non sapevano come medicarsi; pur intesero da alcuni Indiani che erano seco che con l'acqua marina guaririano. E ritornando costoro indietro da questo ultimo angulo, e trovandosi in mezzo il golfo, gli sopravenne tanta fortuna di mare che quel che avevano guadagnato da' pescatori fu forza che 'l buttasseno in mare, e molte di quelle barche insieme con gli uomini annegorono.
Mentre che Vasco Nunez fece questa impresa verso mezzodí, Colmanar con sessanta uomini volse navicar per la bocca d'un altro gran fiume, che cade in detto golfo verso levante, per circa quaranta miglia all'insuso; dove trovò molte abitazioni fatte sopra la ripa, e il suo signore detto Turui, qual gli fece smontare e gli tolse in casa, facendogli buona cera e dandogli da mangiare quanto volevano. La qual amicizia come fu intesa da quelli del Darien, Vasco Nunez, che era ritornato, gli volse andar a trovare; dove arrivato, e saziati tutti li compagni con le vettovaglie dategli da questo signor Turui, deliberorono insieme d'andar su per detto fiume. E fatte altre quaranta miglia trovorono una isola grande circundata dal detto fiume, dove non abitavan altro che pescatori. Dismontati quivi viddero assai reti di cottone distese al sole, fatte in diverse maniere, alcune larghe e lunghe, altre come un sacco con la bocca stretta, e con alcuni legni che le tenevano aperte. Entrati nelle case, quali erano fatte picciole e tonde, coperte di molte foglie grandi d'arbori, viddero le lor femine che parte di loro facevano reti, altre aprivano pesci molto grandi e insalatili gli mettevano al sole, e ne viddero di secchi gran quantità. Questi Indiani pescatori non volsero fuggire, ma ricevettero li nostri allegramente, dando loro quanto pesce che volevano, ma poco pane, perchè n'avevano poco. E dissero che venivano Indiani d'altre provincie lontane e portavano loro pane, pignatte di terra e filo di cottone, e barattavano in questi pesci salati. Viddero quivi alcuni pesci grandi simili alla truta, ma la carne era piú rossa, de' quali n'avevano gran copia, e tutti gli seccavano al modo detto di sopra. Gli uomini e le femine delle reti vecchie e inutili si coprivano le parti inoneste. Il loro dormire era sopra certi monti di foglie grandi messe una sopra l'altra. E perchè viddeno li molti arbori di quelli che fanno la cassia, che eran naturali di quella terra, la chiamorono l'isola della Cassia.
Dalla banda destra di detta isola correva un altro fiume, qual chiamorono il Rio Nero. E andati da quella bocca da quindeci miglia in su trovorono un borgo di settecento case abitate, e il signor detto Abenamachei, qual sentiti li nostri abbandonò le case, dapoi mutatosi di pensiero, ne venne con gran furia adosso con spade grandi di legno durissimo e lancie lunghe, per non essere avezzi tirar archi e saette; nondimeno subito fu rotto dalli nostri, e preso Abenamachei con molti principali Indiani. Un fante a piedi spagnuolo, che era stato ferito, accostatosi al detto gli levò via con un colpo di spada la man destra, contra il voler però de' capitani, quali dapoi lo fecero medicare.
Tutti questi nostri che erano a questa impresa potevano esser da 150, de' quali la metà parse che dovesse restar quivi, gli altri con nuove uru, cioè barche al modo loro, navigorono al contrario del fiume, da una banda e dall'altra del quale ogni dí scorrendo, vedevano grandissimi fiumi che cadevano in quello, e andati per settanta miglia dal sopradetto fiume Nero, avendo per lor guida un Indiano pratico di quel fiume, s'abbatterono arrivar dove era la signoria d'un chiamato Abibeiba, ed era in mezzo di grandissimi paludi. E il palazzo suo, e tutte l'altre abitazioni qual erano minori, erano fabricate in questo modo: sopra li rami d'un grandissimo arbore, che da ogni canto si vedevano spessi e folti, avevano intraversati molti legni e di quelli fatto come un palco, qual poi era diviso in altre parti, le quali d'intorno erano serrate da legni, con tanto artificio collegati insieme, che potevano sopportar ogni impeto di vento per grande che 'l fusse; di sopra poi con alcune erbe e foglie erano coperti. È opinione che costoro abitino in questo modo per causa che li fiumi spesso allagano tutto quel paese. Detti arbori dapoi il detto palco vanno con la cima diritta, tanto in alto che per buon braccio che l'uomo abbia non potria trarvi con una pietra. E sono alcuni di grossezza che sette o otto uomini non gli potrian con le braccia circundare. In terra appresso li piedi hanno il luogo dove tengono il vino, qual fanno al modo detto di sopra, e questo perchè alcune volte soffia tanta furia di vento che, ancor che non rovini quel palco fatto sopra li rami, nondimeno fa muover e crollare, il che saria causa di guastar li vini, delli quali sempre hanno assai. Il resto tutto tengono di sopra. Quando questo signor mangia, li servitori corrono a trargli il vino di nuovo, e portanlo per alcuni scalini che son posti appresso il detto arbore, con quella medesima prestrezza che farian li nostri in un luogo piano.
Li nostri, giunti appresso questo arbore, feceno chiamar Abibeiba, pregandolo che 'l volesse descendere, facendogli segni di pace, e mostrando li presenti che gli portavano. Abibeiba fece lor rispondere che gli pregava che lo lasciassero star quieto in casa sua, e concedessergli che vivesse in pace senza dargli molestia. Ma non giovando le molte preghiere che gli feceno, vedendolo pur ostinato, i nostri gli feceno intendere che, s'el non descendeva con tutta la famiglia, che abbruciarebbono l'arbore, overo il tagliarebbono dalli piedi. Sopra il che stando pur fermo Abibeiba, li nostri cominciorono con molte scure a percuoter l'arbore, del qual vedendo Abibeiba saltar molte stelle mutò consiglio, e subito discese con duoi soli suoi figliuoli; dove fatta pace con li nostri gli domandò quel che volevan da lui. I nostri gli disseno che cercavan dell'oro, al che lui rispose che non avea oro, del quale non si servendo a cosa alcuna non avea mai pensato né posto cura d'averne. Ma facendo tanta instanzia e mostrando d'averne tanto desiderio, s'offerse d'andar a cercarne nelli monti vicini, dove diceva nascerne assai, e fra un certo termine portarlo; e cosí s'accordorono. Ma, passati i giorni del termine che dovea tornar Abibeiba con loro, vedendosi beffati, i nostri si partirono con vettovaglie assai che trovoron del detto Abibeiba, ma senza oro.
Come Abibeiba e Abenamachei caciqui combattendo con li nostri furono rotti, e mandati prigioni in Darien. E come fu scoperta la congiura di molti caciqui Indiani, i quali aveano ordinato d'assaltare e ammazzar li nostri.
Intesero qui dagli abitanti quel medesimo che aveano inteso dal cacique Comogro delli Caribbi, che mangiano carne umana, quali occupano nelli sopradetti monti le minere dell'oro. E per questa causa i nostri volsero andar circa trenta miglia ancor su per il fiume. E giunti a certe capanne di paglia dei detti caribbi, quelle trovorono abbandonate, perchè per la fama del venir de' cristiani avean fuggito, ciò che aveano portandolo sopra le spalle, alla sommità d'alti monti.
Mentre che Vasco Nunez e Colmenare andavan su per il detto fiume discoprendo nuove genti e nuovi paesi, un Spagnuolo detto Raia, delli lasciati alla guardia del paese d'Abenamachei, qual è nel Rio Nero come di sopra abbian detto, essendo astretto dalla fame, over desiderio di trovar oro, volse andar con nove compagni a cercar quel che fosse in alcune abitazioni d'un cacique non troppo lontano, detto Abraiba. Qual, avendo inteso la venuta di costoro, pose molti Indiani armati a lor modo di lancie in un bosco foltissimo, appresso una strada per la qual erano astretti i nostri passare. Quali non piú presto furono entrati nel bosco, che tutti gl'Indiani se gli spinsero adosso. E per esser pratichi del luogo immediate ammazzorono il detto Raia con duo compagni. Gli altri, veduto questo, perchè per la spessezza degl'arbori non potevano adoperar gli schioppi, si ridussero fuor in una pianura. Ma agli Indiani non bastò mai l'animo d'assalirgli, overo uscir del bosco, per il che i nostri ritornorono alla sua guardia donde s'erano partiti.
Gli Indiani, spogliati i cristiani morti nel bosco dell'armi di ferro, quelle portorono al suo cacique, dove s'erano ridotti d'Abibeiba, abitator di quel arbor grande, e Abenamachei fuggitosi, al qual fu mozza la mano. Costoro, vedute l'armi tolte alli nostri, cominciorono tra loro a metter ordine di far gran numero d'Indiani e andar ad assaltar quelli che erano alla guardia del Rio Nero e fargli morire, dicendo: "Noi vedemmo che sorte di gente è questa, arrabbiata d'aver oro, e per quello andar turbando la quiete e pace che noi abbiamo; doverian pur contentarsi possedendo cosí belle e resplendenti armi come sono queste spade, le quali tagliano e si possono adoperar in molte cose per uso degli uomini, e in difendersi dagl'inimici, il che dell'oro non si può fare. Voglian noi star sempre schiavi di costoro, insieme con nostre mogliere e figliuoli, e da loro esser spogliati tutto il giorno delle vettovaglie e altre cose che son per il viver nostro? Andiamo adosso a questi che sono stati lasciati alla guardia del paese di Abenamachei, poi piú facil ne sarà il distrugger gli altri passati su per il fiume".
Messo questo ordine e determinato il giorno, la fortuna volse che i nostri ritornorno con le barche dalle capanne delli Caribbi; e questo fu la notte avanti il giorno determinato, qual come fu venuto una gran moltitudine d'Indiani e con freccie e con lancie assaltorono li nostri, pensando che fossero pochi, ma vedutogli tanti, e che animosamente uscivano a combatter con loro, cominciorno a tirarsi un poco indietro, dove facendo forza li nostri e ammazzandone assai si missero poi in fuga; e molti di loro furono presi, ma tutti i caciqui scamporono. I prigioni furono mandati al Darien per adoperargli a far lavorar la terra. Acquietati gli uomini di quel paese, deliberarono li nostri di partirsi e di lasciarvi una conveniente guardia, e cosí feceno restar il capitan Hurtado con trenta uomini.
Costui un giorno deliberò mandar a seconda del fiume alcuni suoi compagni con femine e Indiani presi dal capitano Vasco Nunez, e gli fece montare sopra una delle barche d'Indiani, che gli feceno andar a fondo e quanti poteron aver ammazzorono. Solamente duoi compagni, appiccati a certi legni che venivano giú per il fiume, scapolorono; da questi duoi li nostri intesero come tutti gl'Indiani vicini erano sollevati, e quel che avean fatto a quelli della barca. Li nostri, sospesi di tal nuove, ogni giorno consigliavano fra loro la provision che dovessin fare. E come pur Iddio volse, la cosa fu scoperta in questo modo.
Vasco Nunez, che era il capo di quelli del Darien, tra le altre femine indiane che aveva menato via n'aveva una molto bella, quale amava molto e gli faceva gran carezze. A veder costei veniva spesso un suo fratello, qual un giorno gli disse: "Sorella, tu vedi la grande insolenzia che usano verso di noi questi cristiani, tale che piú i nostri caciqui non la possono sopportare; sappi che sono messi insieme cinque di loro con cento barche, e per terra piú di cinquemila Indiani, e nella villa de Tichri sono preparate tutte le vettovaglie, e ordinato il giorno che si venga ad assaltargli; e però ti prego che quel giorno tu vegga di trovar modo di non star lí fra loro, acciochè in quella furia tu non fussi morta". La giovane, intesa tal congiura, amando Vasco Nunez andò subito a manifestargli il tutto; la qual cosa tenne modo che 'l detto fratello, qual era famigliare d'un di questi caciqui, ritornasse a lei, qual subito fu preso e confessò come Cemaccho, che era uno de' detti caciqui, scacciato dal luogo dove edificorono la terra di Santa Maria del Darien, e avea fatto affondar la barca con gli uomini che venivano dal Rio Nero, e appresso avea messo ordine con quaranta delli suoi Indiani di far ammazzar Vasco Nunez un giorno che andasse fuori della città a veder gli Indiani che lavoravano gli maizali il che spesso soleva fare. Ma la fortuna l'aveva aiutato, che sempre che gli andava o era a cavallo overo armato con lancia e spada, per il che agli Indiani non era mai bastato l'animo di ammazzarlo, e che vedendo non gli esser riuscita questa via, avea fatto adunar tutte le genti delli caciqui vicini e voleva venir a destruggier li cristiani.
Intesa questa congiurazione, Vasco Nunez immediate ordinò che sessanta delli suoi ben armati lo seguitassino, non dicendo dove andava, e alla diritta s'indrizzò dove pensava che fusse il detto cacique Cemaccho, lontan dal Darien circa dieci miglia, qual trovò esser andato al cacique Daiba, signor di quel luogo che si chiama la Culata dalli nostri, e non gli potendo far altro prese un Indiano delli suoi primi, con molti servitori e alcune femine, e quegli menò prigioni.
Dall'altro canto Colmenar andò ancor lui con sessanta compagni a contrario d'acqua con quattro barche, e aveva per guida il fratello di quella innamorata di Vasco Nunez, e gionse alla villa sopradetta di Tichiri, dove abbian detto che si conducevan tutte le preparazioni per venir a la ruina de' cristiani. Ed entrati nelle case e trovata gran quantità di vini, cosí bianchi come neri, e d'ogni sorte di pane e altre vettovaglie, quelle tolsero per loro uso; poi presero il capo di detta villa, il qual aveva il carico d'esser capitano generale a questa impresa contra cristiani, e quello con quattro delli primi Indiani fece legare ad alcuni arbori, e con freccie ammazzare, per essempio degli altri. Il che messe tanto terror in quella provincia, che piú alcuno non ebbe ardire di sollevarsi contra di loro. I nostri stettero alcuni giorni in questo luogo di Tichiri, dove ebber buon tempo con le vettovaglie e vini che avean trovati.
Come Giovanni Quincedo e il Colmenare furono mandati alla Spagnuola, e poi al re catolico per narrargli le cose trovate, e dimandargli mille uomini per passar il mar di mezzogiorno, e quello che gli intravenisse in tal viaggio. Del giunger di baccalario Anciso ad un cacique per avanti battezzato, e d'uno stupendo e maraviglioso miracolo di Nostra Donna.
Partiti di qui e ritornati al Darien, deliberarono di mandar un imbasciatore prima alla Spagnuola, e poi in Spagna al re catolico, e narrar tutte le cose trovate e dimandare a sua Maestà cento uomini per passar al mar di mezzogiorno. La quale impresa cercò d'aver Vasco Nunez, ma quegli suoi partigiani e affezionati non volsero, pensando certo che come una volta si partissero, mai piú torneriano in tanti travagli e dissensioni. E però elessero un Giovanni Quincedo, uomo di gravità, il quale era tesoriero del re catolico, e perchè lasciava la moglie e figliuoli nel Darien non dubitavano che non tornasse; ma pareva loro dover dargli un compagno per ogni caso che potesse intervenire, e dicevan che essendo quasi assuefatti alla temperie di quel aere appresso l'equinoziale, come andassero in Spagna verso tramontana e mutassero li cibi, che potrian morire, e però elessero Colmenar. Li quali, montati in su uno brigantino, non avendo maggior nave, del mese di novembre l'anno 1512 partiron dal Darien, e drizzoron il cammin loro verso l'isola Spagnuola.
Nel qual viaggio ebbero infinite fortune, dalle quali furono condotti ora in qua ora in là, e finalmente per forza di venti scorsero all'ultima parte dell'isola Cuba che guarda verso ponente. E perchè eran già passati tre mesi dopo la partita dal Darien, e aveano consumate tutte le vettovaglie che portorono seco, furon forzati dismontar in terra per cercar qualche cosa da viver, trovandosi in estrema necessità. Giunti in terra viddono molti pezzi di tavole nella rena, quali parevano di qualche navilio rotto de' cristiani, e si maravigliarono molto. Ma avendo preso duoi degl'isolani, intesero come per avanti giunse lí un naviglio con cristiani, li quali dagl'Indiani dell'isola erano stati presi e morti, e spogliati di molto oro che avevano. Per alcuni segnali conobbero che questo era stato Valdiva. Per questa causa deliberorono Quincedo e Colmenar partirsi di quel luogo, e tornati nel navilio andorono al loro viaggio, come al suo luogo si dirà.
Ma avendo parlato della disgrazia accaduta a Valdiva sopra l'isola Cuba, non mi par fuor di proposito narrar quel che intervenne al baccalario Anciso, qual fu scacciato da quelli del Darien, come di sopra è detto. Costui ancor giunse all'isola di Cuba, ma la ventura il condusse nel paese d'un cacique che per avanti d'alcuni cristiani, né si sa in che modo, era stato battezzato e postogli nome il Comandatore. Qual, veduto detto Anciso, gli andò incontro e gli fece grandissime carezze, donandogli quante vettovaglie volse, e sopratutto il volse menar a veder dove aveano fatto una cappella con un altare alla Nostra Donna, e a quella ogni giorno al tardi andavano a far riverenza, e non sapevan dir altro che "Ave Maria, Ave Maria".
Detto Comandator narrò al detto Anciso come per avanti era stato lungamente con lui un marinaro cristiano, del quale si serviva per capitano in tutte le guerre che avea con gli suoi vicini; e che costui, per portar una imagine della Nostra Donna dipinta in petto, sempre avea avuto vittoria. E che gli cemi, degli inimici, che cosí chiamano li loro dei, fatti in forma di demoni neri e cornuti, quali portano ancor in guerra, non potevan resistere alla imagine della Nostra Donna, ma come s'appressava questa imagine alla figura de' cemi quella si vedeva tremare, e per questa causa gli avean fatto questa cappella e altare e l'andavano a salutare, alla quale offerivano ancora diverse collane d'oro e alcuni vasi pieni di diversi mangiari, altri acqua per bere, non volendo mancar di quell'onor che solevan far alli suoi cemi per avanti. Dapoi partitosi il detto marinaro sopra un navilio che giunse lí, detto Comandator avea sempre fatto il simile, di portar nelle guerre che gli accadevano la detta imagine.
E che una volta tra le altre, accadde un miracol grandissimo, qual tutti gli Indiani, che erano presenti quando il detto Comandator lo narrava al baccalario Anciso, confermorono aver loro medesimi veduto. Che essendo differenzia qual fosse miglior, la figura della Nostra Donna o la figura delli suoi cemi, e per questo volendo venir alle mani e tagliarsi a pezzi, si composero in questo modo; che in mezzo d'una grandissima pianura si mettesser duoi giovani Indiani per parte, quali fossero legati con le man di dietro con molte corde, cioè quelli del Comandator degl'inimici, e i duoi degl'inimici da quelli del Comandatore, cosí stretti come a lor paresse, e quel cemi saria miglior che prima anderia a dislegare i suoi giovani. Fatto questo, e tutto il popolo stando lontano a veder la fine, il Comandator gridò "Ave Maria, aiutami". Alla qual voce subito apparse una donna vestita di bianco, qual s'accostò alli duoi suoi giovani, e con una bacchetta toccò loro le mani, le quali subito furono dislegate, e li legami andorono di nuovo a legar i duoi giovani degli Indiani inimici. E a questo miracolo non volendo assentir ancor gli inimici, volsono di nuovo fargli legare, e similmente di nuovo venne la detta donna a dislegarli. Per la qual cosa tutti confessorono che la figura della Nostra Donna era migliore delli suoi cemi.
Intesosi il giugner del baccalario Anciso in questo luogo dal Comandatore, tutti gli Indiani vicini, che per avanti guerreggiavan con lui, mandorono suoi nunzii pregandolo che gli mandasse persone che gli battezzasse. Il che il baccalario Anciso fece, mandando loro duoi preti che per aventura si trovavan seco. Quali giunti a' detti Indiani ne battezzorno da cento e ottanta in un giorno, e ciascuno di quelli che si faceva battezzare gli donava una gallina overo un gallo, e altri pesci salati e alcune focaccie fatte del suo pane. E volendosi Anciso partire, il Comandator indiano gli domandò di grazia che gli lasciasse un cristiano che insegnasse a lui e a' suoi subditi l'Ave Maria intera, perchè pensavano far maggior riverenzia sapendola dir tutta che quelle due sole parole "Ave Maria". E per questo restò uno de' compagni con il detto Comandatore, e Anciso andò a drittura alla corte in Spagna. Dove, per le gran querele che fece appresso il re detto baccalario, Vasco Nunez fu sentenziato per rebelle alla corona.
Come Colmenare e Quincedo esposero al nuovo admirante, e dipoi al re catolico il successo dell'Indie, e quello aveano inteso delle ricchezze si truovano sopra il mar di mezzogiorno. Pietro Aria fu eletto governator di tutta terra ferma dell'Indie, con mille e dugento fanti.
Ritorniamo a Colmenar e Quincedo, nuncii di quelli del Darien, che 'l viaggio, che si suol fare con buon tempo in otto giorni fino all'isola Spagnuola, li prefati, per le continue fortune che ebbero, stettero tre mesi e mezzo a farlo. E giunti alla Spagnuola esposero al nuovo admirante, figliuolo di Colombo, e altri regii consiglieri, quanto avean in commission da quelli del Darien. E dapoi, montati sopra alcune navi di mercanzia, che molte ne vanno e vengono di Spagna alla detta isola, con quelle vennero alla corte del re catolico, nel 1513 del mese di maggio, e a sua Maestà minutamente narrano tutti i successi di quelle parti, e sopratutto quello che aveano inteso delle ricchezze che si trovavano sopra il mar di Mezzogiorno.
Sua Maestà, avuto sopra di questo maturo consiglio, sapendo esser morti i primi capitani Fogheda e Nicuessa, e che tutti li restati nel Darien erano fra loro in confusione, elesse per governator di tutta la terra ferma dell'Indie un Pietro Aria, che per sopranome in tutta la Spagna si chiamava il Giostrador, e avea fatte gran pruove d'esser valente della persona e dell'ingegno, nelle guerre di Barbaria. E ordinò che gli fossero pagati 1200 fanti e preparatogli navi con vettovaglie per passar all'Indie. Il vescovo di Burgos, qual avea questa cura, fece che 'l tutto fusse in ordine in Sibilia. Dove giunto il detto capitano, che fu al principio dell'anno 1514, trovò tanta moltitudine di gente che voleva andar con lui che era cosa incredibile, e non solamente di giovani, ma di vecchi e impotenti: tutti, tirati dall'avarizia e cupidità dell'oro che vedevan portarsi da quelle parti, s'offerivan senza pagamento alcuno andarlo a servire. Alli quali fu data licenzia, e scielti solamente 1200, e questo acciochè li navili non fossero troppo carichi e le vettovaglie per cammino non gli mancassino. E allora fu fatta una pubblica proibizione, che alcuno non potesse navigar a dette Indie senza licenzia del re. E quella ancora non si dava se non a Spagnuoli. E con gran preghi fu impetrata licenzia per alcuni genovesi, la qual ancor fu data per far piacere al nuovo admirante.
Questo Pietro Aria avea per moglie una gentildonna detta l'Isabetta Boadiglia, nepote della marchesana d'Amoia, delicatamente allevata, e di lei avea otto figliuoli. Costei, vedendo partir il marito, né paura del mare né amor delli figliuoli la potette ritenere che la non lo volesse accompagnare. Quali, come furono partiti di Sibilia e intrati nel mar Oceano, furono assaliti da tanta fortuna che due navi si ruppero, e l'altre furono forzate, buttando in mare gran parte delle vettovaglie che portavano, ritornarsene donde erano partiti. Ma immediate furono ristorati dagl'officiali regii, e di nuovo seguitorno il suo viaggio con bonissimo vento.
Governava per ordine regio la nave del capitano un Giovanni Vespucci fiorentino, uomo molto perito dell'arte del navigare, il quale ben sapeva conoscere le declinazioni del sole con il quadrante e i gradi dall'equinoziale al polo, il che aveva imparato da un suo zio, Amerigo Vespucci, con il quale s'era trovato in grandissimi viaggi. Questo Amerigo fu il primo che per ordine del re di Portogallo navigò tanto verso mezzodí che, passato l'equinoziale gradi cinquantacinque, discoperse terre infinite, come nelli libri da lui scritti si vede.
Come Vicentianes, fatto conoscer l'isola della Cuba non esser terra ferma, trovò molte terre già dall'admirante scoperte, e furono assaltati dalli signori delle terre vicine, chiamati chiaconi, i quali, dipoi fatta la pace, fecero un presente molto onorato a' nostri. Della gran copia e varietà de' papagalli di quel paese.
Ma lasciamo andar il governator Pietro Aria al suo viaggio, del qual dapoi si dirà, e diciamo al presente del secondo viaggio che fece il capitano Vincenzianes Pinzon, qual fu compagno in molti viaggi, come abbian detto, del primo admirante. Costui, l'anno avanti che si partisse Fogheda e Nicuessa dalla Spagnuola, era a sue spese, con licenzia però del re, andato a discoprir tutta la costa di mezzogiorno dell'isola della Cuba, e fatto conoscer che l'era isola, e non terra ferma come molti pensavano. Il che poi che ebbe fatto, gli parse di passar piú avanti verso ponente, oltra la detta isola di Cuba, e trovò molte terre le quali dal primo admirante erano state tocche. E navigato alcuni giorni a vista delle dette terre, si voltò indietro a man sinistra, e si misse a navigar per levante, e passò avanti i liti e i golfi di Beragua, poi di Uraba e Cuchibachoa, e giunse a quella parte terra ferma che abbian detto chiamarsi Paria, dove è la Bocca del Dragon con un golfo grandissimo d'acqua dolce e infinite isole dove si pescano perle assai, e lontane per levante dalla provincia detta Curiana cento e trenta miglia. Nel mezzo del qual spazio, come s'è detto, è Cumana e Manacapana.
In questo luogo avendo inteso li signori delle terre vicine, li quali chiamano chiaconi, il giugner di questa nave, mandorono alcune barche d'un pezzo solo, le quali chiamano chicos, con uomini armati d'archi e freccie, e come la viddero con le vele drizzate stettero tutti molto admirati. Ma dapoi, fatto animo, gli andorono appresso, e ad un tratto tutti tirorono le freccie, pensando ammazzare li nostri, overo spaventargli. Ma furono difesi dalle tavole bande della nave, in modo che non furono feriti. E immediate scaricorono alcuni pezzi d'artigliaria, delle quali fu tanto lo strepito che costoro restoron tutti attoniti, né seppeno fuggire. Li nostri con la barca della nave gli andorono a trovare, e parte ne ammazzorno, e parte feceno prigioni; altri si buttorono in mare. Sentita l'artiglieria dalli chiaconi e veduta la ruina delli suoi, dubitando che se i nostri come inimici fusser dismontati in terra non gli abbruciassero tutti i loro villaggi, menandogli via schiavi con le mogli e figliuoli, cominciorono con cenni e gesti del corpo a dimandar pace; perchè del parlare di costoro mai ne fu intesa parola alcuna, e per segno di pace dimostravan voler dar oro. Dismontati li nostri sul lito, gli appresentorono in lame e catene e simil cose lavorate tanto oro che valeva tremila castigliani, e un vaso come una botte di legno piena d'incenso che poteva esser da 2600 libbre a ragion di oncie otto per libra. Portorono ancora molti pavoni, molto differenti dalli nostri nel colore e nella grandezza. E oltra di questo alcuni panni di cottone lavorati di diversi colori, con alcune frangie overo cordelle alle quali erano appiccati alcuni pezzetti d'oro fatti di lamette.
Veduto Vincenzianes la umanità di costoro volse star alcuni giorni in quel luogo, dove viddero pappagalli in tanto numero come sono a noi li passeri, e di tanti colori che non si potrian narrare, e alcuni tutti bianchi over rossi. De' quali una sorte ne era di grandezza come un gran cappone, e altri d'una sorte molto minori che passeri. E tutti cantavano variatamente, che era cosa dilettevole ad udire. Di questi furon tolti assai e mandati in Spagna al re, e furon visti da molti.
Gli uomini andavano coperti con panni di cottone fino alle ginocchia, e le femine fino al collo de' piedi, ma il panno delle femine era semplice, quello degli uomini era doppio, e quasi come imbottito con altro cottone.
Conobbe detto Vincenzianes che gl'Indiani, in ciascuna villa di questa provincia di Paria, fanno di nuovo ogni anno i loro governatori, i quali chiamano chiaconi, che vuol dir li piú onorati, alli quali obbediscono in ciascuna cosa che loro gli comandano; e se gli accade far guerra o pace gli stanno con gli occhi fissi a guardar nel volto, e quel che loro accennano subito è fatto, e chi non obedisce subito è morto dagli altri senza un minimo rispetto. Cinque di questi chiaconi gli vennero a visitare e gli portorono diverse cose a donare, con qualche poco d'oro, ma la maggior parte delli doni erano diverse sorti d'uccelli e frutti da mangiare. Vincenzianes gli carezzò e donò loro all'incontro alcuni vasi di vetro per bere, filze di paternostri fatti di vetro di diversi colori i quali gli piacquero molto, perchè subito ciascuno se le misse atorno al collo.
Questo golfo dicevano alcuni marinari che da Cristoforo Colombo fu scoperto, e nominato il golfo della Natività. Fatta amicizia grande con detti chiaconi, Vincenzianes si partí, e messosi a navigar detta costa verso levante, trovò gran spazio di paese che dall'acque che venivano dalli monti era fatto a modo di palude, e per questo non abitato. E passati detti paludi e luoghi deserti navicò fino ad una punta di questa terra che guarda verso levante. E qui vi trovò aver passato l'equinoziale verso l'altro polo gradi sette, né andò piú avanti. Ma fermatosi lí, intese da alcuni Indiani di una provincia vicina, detta Ciamba, quali dimostravano monti altissimi verso mezzodí, che oltra quelli erano paesi ricchissimi d'oro, e per questo detto Vincenzianes, con cenni accarezzandoli, ne condusse alcuni in nave, quali menò alla Spagnuola e all'admirante acciochè imparassero la nostra lingua, per potergli poi adoperare per interpreti al discoprir de' detti paesi.
E partitosi dalla Spagnuola se ne venne di lungo in Spagna al re e impetrò d'esser fatto governator dell'isola Burichena, che dagli Spagnuoli si chiama San Giovanni, ed è lontana dalla Spagnuola venticinque leghe, la quale detto Vincenzianes per avanti discoperse avere molto oro.
Come nacque grandissima differenza tra Castigliani e Portoghesi per il trovar delle navigazioni, e quello che sopra ciò papa Alessandro Sesto fu eletto loro giudice terminasse. Vincenzianes impetrò d'esser governatore dell'isola di San Giovanni, nella qual già li canibali ammozzorono Cristoforo, figliuolo del conte di Carmigna, con tutti li cristiani. Nuova vendetta de' canibali contra il cacique di detta isola.
Ma perchè abbiam detto che 'l detto Vincenzianes non volse passar piú oltre che li sette gradi dell'equinoziale verso l'altro polo, è necessario che ne dichiamo la cagione, la qual fu questa. Regnando il re Giovanni in Portogallo, qual fu cognato e precessor del re Emanuel presente, nacque grandissima differenza fra Portoghesi e castigliani per il trovar di queste navigazioni. Perchè li Portoghesi dicevano quelle appartener a loro, per esser stati i primi che avevano cominciato a navigar il mar Oceano, e di questo non esser memoria alcuna in contrario. All'incontro i Castigliani dicevano che Iddio, nel principio che creò il mondo, aveva lasciato tutte le cose communi agli uomini, e per questo essergli lecito, dove non trovassero abitar cristiani, poter quel paese occupare e farselo suo. E adducendo l'una parte e l'altra molte ragioni apparenti in favor suo, doppo molto tempo divennero d'accordo che 'l sommo pontefice fusse giudice, promettendo con solenni patti di star quieti e contenti a quanto da sua santità fusse giudicato.
Governava a quelli tempi il regno di Castiglia la regina Isabella insieme con il re Ferdinando suo marito, per averlo dato in dote, la qual (come di sopra s'è detto) fu dotata di singolar virtú e prudenzia, e per esser costei cugina del detto re Giovanni di Portogallo piú facilmente l'accordo successe. Alessandro Sesto, che allora era sommo pontefice, sopra questa differenzia determinò, per un breve piombato, che 'l mondo fosse partito in due parti in questo modo, cioè che si tirasse una linea da tramontana verso mezodí, qual passasse sopra di una di quelle isole che, dal nome del promontorio d'Africa che gli è all'incontro, si chiamano dal Capo Verde. E che poi, partendosi dalla detta linea, s'andasse verso ponente trecento e settanta leghe, dove si verria andar sopra la terra ferma dell'Indie occidentali, non molto lontana dal fiume detto Maragnon, e che ivi cominciasser le parti de' Castigliani e Portoghesi, cioè, voltandosi verso levante, 180 gradi di lunghezza fussero de' Portoghesi, e altri 180 de' Castigliani verso ponente. E per esser il capo di Sant'Agostino di detta terra ferma intra li termini de' Portoghesi, però Vincenzianes non volse passar li detti gradi sette, ma tornò addietro, e andato in Spagna ottenne dal re, come è detto, d'esser governatore dell'isola di San Giovanni, qual già cominciava ad esser abitata da' cristiani, ancora ch'ella fusse vicina all'altre isole de' caribbi.
In detta isola soleva esser governatore un Cristoforo figliuol del conte di Carmigna, persona di buon ingegno e grand'animo, qual attendeva appresso un bellissimo e sicuro porto a fabricar una terra ed empierla di popolo, e fargli ancora una fortezza. La qual cosa intesa dalli canibali dell'isole vicine, o che gli dispiacesse che i cristiani si fermassero ad abitar lí vicini, overo che desiderassero d'averli per mangiarsegli, un giorno, adunate molte canoe di loro armate con archi e freccie, all'improvviso assaltorono detto Cristoforo, e quello con tutti li cristiani ammazzorono, e morti se li partirono tanti per canoa, ritornandosene a casa molto allegri. Solo l'episcopo, qual era stato ordinato che fusse in detta isola, se ne fuggí al bosco con li suoi famigliari, che non fu veduto. E perchè s'è detto che era un episcopo di detta isola, è da sapere che già dal sommo pontefice n'erano stati creati cinque in queste terre nuove, cioè in San Domenico della Spagnuola un frate di san Francesco; nel castello detto Concezione un dottor don Pietro Zuarez; nella Cuba un frate di san Domenico di Toledo; nel Darien un Giovan Cabedo predicator dell'ordine di san Francesco; in San Giovanni il licenziato Alfonso Manso. Costui, scampata la furia de' canibali, si ridusse ad un cacique di detta isola molto amico de' cristiani, e de lí se ne venne alla Spagnuola.
E passati alcuni mesi li canibali dell'isola nominata da' nostri Santa Croce, vicina a San Giovanni, messisi insieme con molti altri vennero alla detta isola di San Giovanni, e andorono al diritto dove abitava il sopradetto cacique, amico nostro, e quello preso con tutta la famiglia e gli abitanti in quella villa ammazzorono, e senza partirsi de lí arrostiti se gli mangiorono, e fatto questo abbrucciorono la villa. Dove dipoi giunti molti delli nostri partiti dalla Spagnuola, e per via d'interpreti dimandando da' detti caribbi perchè aveano abbrucciata quella contrada, e fatti morir tanti uomini, dissero averne avuto grandissima causa; la qual era che, essendo venuti a questa isola mandati da loro sette canibali, gran maestri di far quelle lor barche che sono d'un legno solo, perchè sapevano che in questa isola erano alberi molto grossi, crescendovi il doppio piú in grandezza e grossezza che in alcuna altra isola, detto cacique, dapoi accettatigli in casa, gli aveva fatti morire. E per questo aveano abbrucciato la villa e morti e mangiati il cacique e gli altri per far vendetta. E mostrorono alli nostri un gran fascio d'ossa di gambe e braccia delli sopradetti mangiati, quali volevano portar a casa loro per mostrarle alle mogli e figliuoli delli detti maestri, acciochè conoscessino che era stata vendicata la lor morte. Il che inteso dalli nostri, restorono stupidi e attoniti, e per non trovarsi tanto forti che potessino nuocer alli detti canibali non gli dissero altro, ma gli lasciorono andar al lor viaggio.
Della varietà degli arbori e gran copia de' soavissimi frutti del paese del Darien, e nomi di quelli, e degli animali di piú sorte, e de' fiumi. Impresa di Vasco Nunez per andar alle terre dell'oro.
Come s'è detto di sopra, l'admirante Colombo, avanti che 'l morisse, avea consigliato li re catolici che di tutte le parti di terra ferma detta Paria dell'Indie, due provincie sopra l'altre fussero abitate, cioè Beragua e Uraba, dove fussero porti principali a quelli che smontassero in detta terra ferma; e cosí fu fatto, chiamando Beragua Castiglia dell'Oro e Uraba l'Andalosia Nuova, e fabricate abitazioni e chiese, per commodità e ornamento di detti luoghi, fecero eleggere un episcopo per luogo, li quali instruissero gl'Indiani nella fede nostra. Feceno portar ancor di Spagna tutte le semenze d'erbe d'orto da mangiare, le quali crebbero fuor di misura e in poco tempo, perchè li cocomeri, melloni e zucche, dapoi che eran seminate venti giorni, vi si facevan maturi; le latughe, borragini, bietole e cavoli in termine di dieci giorni si potevan cogliere. Delle viti e altri arbori de' nostri che fanno frutti da mangiare, portati di Spagna, producevan frutti cosí presto come abbiam detto che facevano nella Spagnuola. Ma essendo in Santa Maria Antica del Darien in Uraba molti frutti naturali di quel luogo e di varie sorti, che sono molto suavi al mangiare e sani agli uomini, non mi par fuor di proposito parlar d'alcuni d'essi, cioè delli migliori.
Vi è un arbore, detto guainaba, che produce un frutto come pomi, molto simile alli limoni, e sono di sapor dolce mescolato con garbo. Trovavansi ancora molte palme, ma li frutti d'alcuni d'esse non si possono mangiare per esser sempre di sapor garbo. Èvvi ancora un arbore, detto guarabana, che è maggior dell'arbore dell'arancio, qual produce frutti maggiori de' cedri, grandi e grossi che paiono melloni, e son molto buoni a mangiare. Gli arbori detti havos fanno certi frutti come susine nel sapore e odore, e si pensa che questi sian quelli che noi chiamiamo mirobolani, che vengon condotti dall'India orientale, secchi, per medicina. Questo arbore è molto frequente in ciascuna parte dell'isola Spagnuola, e produce tanti frutti che li porci, quando gli trovan maturi, per mangiargli vanno alli monti dove ne è copia grande, e si fanno con quelli grassissimi, né gli pastori gli possono ridurre a casa, anzi molti per questa causa rimangono nelle selve e si fanno salvatichi, e per questo dicon che le carni di detti porci della Spagnuola mangiate si sentono piú saporite e migliori, e le trovano molto sane.
Il re catolico mangiò di uno delli sopradetti frutti detto guarabana, grande come un gran cedro, con alcune squame sopra a modo d'una pigna, ma nella tenerezza era come quella d'un mellone, e di sapore, come allora sua maestà disse, superava ogni altro frutto che mai avesse mangiato. Quello solo fu portato con gran diligenzia a sua maestà, perchè gli altri si guastorono nel viaggio. Hanno alcune radici dette batatas, le quali mangiano; io, come le viddi, giudicai che fussero navoni grandi, con la scorza nera e dentro bianchissime, e sono buone cotte e crude, e paiono della bontà delle castagne o migliori.
Ma lasciamo stare l'erbe e arbori e diciamo degli animali. In questa provincia si trovano, oltra molti leoni e tigri, gatti cervieri, volpi e cervi, ancora alcuni animali mostruosi, tra li quali ne è uno che è della grandezza d'un bue over mula, con un mostaccio lungo a modo d'elefante, e ha il color del pelo che s'assomiglia al bue, le unghie tonde come quelle del cavallo, e gli pendono l'orecchie quasi come all'elefante, ma sono minori. Sonovi ancora molti di quelli animali di quattro piedi, che portano in seno sotto la pancia li figliuoli piccioli quando poppano, e vanno correndo sopra gli arbori a mangiar frutti, come di sopra s'è detto.
In questo golfo di Uraba corrono molti fiumi, e tra gli altri il Darien, sopra le ripe del quale hanno fabricato la città di Santa Maria dell'Antica. Èvvi ancora un fiume grandissimo, qual fu navigato per Vasco Nunez, che è largo piú di quattro miglia e di grandissima profondità, e lo chiamarono il Rio Grande, nel quale trovorono infiniti lagarti. Nelle ripe di questi fiumi, e in alcuni luoghi dove per il suo crescer fanno palude, si trovano molti fagiani, pavoni d'altri colori che non sono li nostri, e infiniti altri uccelli differenti dalli nostri, quali sono eccellenti a mangiare e cantano soavemente. Ma gli Spagnuoli che abitano in questo luogo hanno l'animo intento ad altro che a pigliarli. Sonovi ancora pappagalli innumerabili, diversissimi fra loro di grandezza e colori.
Or ritorniamo a Vasco Nunez, qual, dipoi che intese delle gran ricchezze e ori che si trovavano appresso gli abitanti del mar del Sur, mai non pensava ad altro, e molte notti dormendo gli pareva di passar quegli altissimi monti che gli erano stati mostri, e veder tutto detto mare pieno d'oro. Costui, avendo speso tutto il tempo della sua gioventú sopra la guerra, era uomo di gran cuore e valente con l'arme in mano, e spesse volte per conto dell'onor aveva combattuto a corpo a corpo e riportatone vittoria. Ma dipoi, col tempo essendosi raffreddato il calor giovenile, era divenuto molto prudente e considerato nelle sue azioni, e per esser di buono intelletto e avere l'animo sempre volto a gran cose, con la liberalità s'era fatto capo di quelli del Darien. Ora, il detto avendo inteso che di Spagna il re catolico mandava Pietro Aria con molta gente a queste nuove Indie, dubitando che non gli togliessi la gloria del discoprir del detto mare, volse con la detta impresa vedere di placar l'animo del prefato re catolico, il quale intendeva esser seco molto adirato, sí ancora per farsi ricco e famoso al mondo.
Messi adunque insieme alcuni delli piú vecchi di Santa Maria dell'Antica, e alcuni che di nuovo erano venuti a trovarlo dall'isola Spagnuola, per la fama dell'oro che avevano inteso che 'l detto Vasco andava a trovare, con cento e novanta fanti armati, il primo giorno di settembre 1513 si partí dal Darien con un brigantino e venti canoe, e menò seco molti Indiani suoi amici, con scure e altri instrumenti, per farsi la strada per li boschi dove avevano a passare.
E andò per mare fin a Coiba, luogo del cacique Caretta, dove smontato e lasciati li navili in guardia del detto cacique, che era suo amico, avanti che 'l prendesse il camino verso li monti, fece che tutti li suoi s'inginocchiorono, pregando Iddio che gli desse favore al far tanta impresa. Poi se n'andò al diritto dove erano le terre del cacique Poncha, qual trovò che era fuggito come fece l'altra volta. Pur col mezzo di alcuni Indiani di Coiba, famigliari del detto Caretta, fece tanto che Poncha s'assicurò di venirlo a trovare, dove gli fece gran carezze e l'un all'altro fecero diversi presenti. Poncha donò a Vasco oro per valuta di cento e venti castigliani, per non ne aver piú essendo stato l'anno passato saccheggiato, come si disse. Vasco all'incontro donò a lui alcune filze di paternostri di vetro di diversi colori, da portar intorno al collo e alle braccia, e specchi di vetro e sonagli, delle quali cose questi Indiani, come s'è detto, hanno gran piacere. Sopratutto gli dette due scure di ferro, sapendo che di niuna cosa fanno tanto conto come di quello, perchè con maggior facilità possono tagliar arbori e fabricar case e cavar canoe, che sono le lor barche; non conoscendo questi popoli altro metallo che oro. E per far gli esercizii sopradetti, non adoperano altro che alcune pietre acutissime che si trovano ne' fiumi.
Detto cacique Poncha, per mostrare maggior benevolenzia verso Vasco, mandò seco molti Indiani di conto e suoi famigliari, che fussero la guida al dimostrargli la strada per quelli monti, e alcuni suoi schiavi, che portassero sopra le spalle il vivere, perciochè avevano a passar montagne per la densità d'arbori grandissimi, quasi inaccessibili. Né vi era strada, né sentiero, overo abitazione alcuna, pratticando rare volte l'un con l'altro per causa di commerzii o baratti, perchè andando nudi, né avendo l'uso di moneta, di poche cose gli fa mestiero per il viver loro, e quelle poche ancora prendono dalli piú vicini, quando gli accade, con baratti. E per questa cagione non hanno strade publiche dove vadino ordinariamente. Ma essendo costume fra un paese e l'altro di prendersi con agguati e inganni per farsi schiavi, e resistendo per ammazzarsi, hanno ciascuno le sue spie che fanno alcuni sentieri secreti e difficili, per li quali di notte fanno simil rubbarie.
Avendo dunque Vasco Nunez questi Indiani di Poncha per guida, con l'aiuto di quelli, che facevano la strada con le scure, passò molte montagne asprissime, e in molte valli dove correvano grandissimi fiumi, fatti ponti con attraversar legni lunghissimi che in quelli monti si trovano, fece passar tutta la gente commodamente.
Come Vasco Nunez, pervenuto alla provincia detta Esquaragua e appiccata una gran zuffa, furono tra morti e feriti di quelli Indiani da seicento, tra i quali fu morto anco il suo cacique, e come dette la morte a molti cortegiani imbrattati d'un orrendo vizio. E, giunto agli altissimi monti da' quali si vede il mar del Sur, asceso alla sommità di quelli vidde e salutò detto mare.
Non voglio qui narrar li travagli che ebbero, sí per il mancamento del vivere, come per le gran fatiche nel far detto camino. Solo dirò alcune cose degne di memoria, che intervennero loro con li caciqui che in questo viaggio trovorono. Avanti che montassero le alte cime delli monti, entrorono in una provincia detta Esquaragua; il cacique della qual, che avea il medesimo nome, venne loro all'incontro con gran moltitudine d'Indiani nudi, con archi, saette, e con alcune spade di legno fortissimo, quali per esser lunghe adoperano con tutte due le mani, e con esse alcuni dardi con la punta abbrucciata, li quali tirano con tal modo che mai non fallano. Costoro, fattisi all'incontro de' nostri, non volevano che passassero, e con feroce viso dimandavano dove andassero e quel che volessero, facendogli intendere per un suo Indiano che tornassero indietro, se non sariano tutti morti. Dette queste parole si fece avanti lui con tutti li famigliari vestiti di cottone, e cominciò a ferir li nostri che volevano passar avanti, li quali immediate discaricorono molti schioppi e balestre che avevano. Il strepito e rumor delli quali uditi dagl'Indiani, pensorono che le fussero saette che venissero dal cielo, e si misseno in tanta fuga e paura che molti di loro caddero in terra. Altri restorono attoniti, di modo che non sapevano fuggire. Dove giunti dalli nostri con le spade ne furono tra morti e feriti piú di seicento, e tra gli altri fu morto il cacique Esquaragua.
Fatto questo, Vasco s'avviò con gli altri verso la casa del detto, dove trovorono assai da mangiare. E viddero il fratello del detto cacique, insieme con molti altri, ch'erano vestiti a modo di femine. Del che si maravigliò forte, e massimamente che non s'era fuggito. E dimandata la causa, gli fu detto da tutti li vicini, li quali dapoi la morte del cacique corsero a vedere li cristiani come uomini venuti dal cielo, che 'l detto cacique con tutti li suoi cortegiani erano imbrattati di quel nefando vizio contra natura. E che per questo il detto fratello con gli altri ch'erano in casa andavano vestiti da femine, né potevano toccar archi né saette, ma attendevano a far servizi di casa, come fanno le femine. Vasco, udito il parlar di costoro, molto piú si maravigliò che fra quelli monti asperrimi e fra tante selve, dove vivon solamente di pan di maiz con bere acqua, né hanno frutti o uccelli né salvaticine come in altri luoghi dell'Indie, in queste genti prive di delizie vi fusse entrato simil abominevol peccato. E subito gli fece pigliare, che potevan esser circa quaranta, e legati gli fece stracciare e sbranare da alcuni cani grandi ch'aveva menato seco, e gli adoperava a seguire gl'Indiani quando fuggivano. Veduto il castigo di costoro da quelli della villa, ciascuno dove sapeva che fussero alcuni di questi simil tristi, li quali tutti erano delli cortegiani, perchè il vulgo non era tinto di simil macchia, lo prendevano, e sputandogli nel viso lo menavan a Vasco Nunez, pregandolo che li facesse morire.
E uno piú vecchio degli altri, alzate le mani e gli occhi verso il cielo, dimostrava il sole (quale adorano) e diceva ch'era irato per simil sceleraggine, e per questa causa si sentivan li tanti suoni e saette in quelle parti, e dalli monti correvan l'acque alcune volte con tanto impeto che menava via tutti li maizali, la qual cosa gli faceva morire di fame. E che levati via della terra simil tristi, il sole non saria piú adirato e gli lasciaria raccoglier il loro vivere. Queste parole piacquero molto a Vasco, e quanti di simil scelerati gli erano menati, tanti ne faceva morire. Conobbe che questi popoli erano molto docili, e che facilmente, se s'insegnasse loro, si redurriano a costumi civili. E oltre a questo, ch'erano uomini di cuore, e d'adoperarsi in guerra; però gli carezzò quanto potette.
Il paese è molto sterile, per esser tutto sasso e montagna con le selve sopra, e qualche poco di valle la quale lavorano, né vi si trova oro in alcun luogo. Fra quelli monti sono freddi maggiori che nelle parti di pianure. Per questo li signori con li suoi cortegiani vanno vestiti d'un drappo di cottone fin alla centura, e alcuni piú abbasso. Il resto delle genti, che non possono con baratti aver di detti panni, vanno nudi, e s'hanno freddo si cuoprono con una sorte di foglie grandi d'alcuni arbori salvatichi, quali secche sono dure e non si rompono, anzi, addoppiate con certi legami con li quali le cucino insieme, si acconciano a modo d'un panno di cottone, e con quelle si difendono dal freddo. Furono veduti in questo luogo alcuni schiavi tutti neri, come sono i saracini. E dimandati dove erano stati presi, dissero che lontano de lí due giornate abitava una generazione delli detti neri, quali sono molto feroci e terribili, e con li quali di continuo hanno grande inimicizia e guerra, e tutto il giorno si prendono l'un l'altro, overo s'ammazzano, e che avevano inteso dalli suoi antichi che questi neri non erano naturali di quel paese, ma venuti d'altro luogo ad abitarvi.
In questo luogo Esquaragua fu forza a Vasco Nunez lasciar alcuni delli suoi compagni, li quali, per la fatica ch'avea durata nel far il difficile e aspro camino per le montagne e foltissime selve, e per il disagio del vivere che alcuni giorni aveano sofferto, erano tanto afflitti e deboli che non potevano star in piedi, e tolse seco molti Indiani di Esquaragua che gli mostrassero il camino nell'ascendere la sommità delli monti, donde si poteva veder il mare. Ed essendo dal luogo del cacique di Poncha fin alla sommità di detti monti il camino di sei piccole giornate, detto Vasco, per la gran difficultà che trovò in quello, non lo poté far in manco di venticinque giorni.
Alli ventisei adunque di settembre, essendogli stato mostrato dalle guide d'Esquaragua le dette sommità, donde si poteva veder il mare, detto Vasco Nunez ordinò che tutte le genti si fermassero, e lui solo volse esser il primo che le montasse. Dove giunto e vedutolo, subito si buttò in terra inginocchioni, e con le mani alzate al cielo ringraziò Iddio e tutti li santi del cielo, che ad una persona bassa e rozza come lui era, e non di grande stato, avesse riservato vittoria di tanta impresa, e tre volte per riverenza volse basciar la terra. Poi levatosi cominciò a salutar il mare, dicendo: "O mare del Sur, veramente per le ricchezze che si trovano appresso delli tuoi abitatori re degli altri mari, fa' che placido e quieto riceva la mia venuta, né ti disdegni che, d'oscuro e ignobile ch'eri per avanti, ti faccia al presente chiaro e nobilissimo appresso tutto 'l mondo. Iddio ti ha riservato, con la infinita sua sapienzia, a dimostrarti a' nostri tempi per qualche grande effetto che tien determinato. E però di nuovo ti saluto, o re degli altri mari". Il che detto accennò che venissero tutte le genti, le quali giunte alla detta sommità, e dimostratogli il mare, fece che tutti inginocchiati ringraziorono Iddio che gli aveva dato grazia d'esser discopritori di cosí gran tesoro. La qual cosa tutti ad una voce con grandissima allegrezza facendo, li monti e colli vicini tutti risonarono. E Vasco, chiamatigli a sé, diceva: "O carissimi compagni, eccovi il desideratissimo mare che dal figliuol di Comogro e da tanti altri Indiani n'è stato predicato, dove ci potremo far ricchi e sodisfar alli desideri nostri. E però, acciochè nel tempo ch'ha a venire si conosca che noi siamo stati li primi a passar per questi luoghi, fatte in queste sommità da due bande monti di sassi, che saranno testimonii di questa verità". E cosí subito fu fatto, perchè con l'aiuto degl'Indiani ch'erano con loro, fecero duoi grandissimi monti, e in mezo vi posero una croce fatta d'un altissimo arbore. Poi, descendendo dalle dette sommità, nella scorza di ciascuno arbore che trovavano ordinava che scrivesse il nome di Castiglia, facendogli appresso qualche monticello di sassi.
Come, superato dalli nostri, il cacique Chiappe fece dipoi grande dimostrazione d'amicizia con Vasco Nunez. E come esso Vasco, per nome del re catolico, tolse il possesso del mare del Sur, e parimente delle terre e provincie del detto mare. E della fortuna ch'ebbero nel golfo di San Michele.
Partiti di quel luogo e pervenuti ad un vilaggio d'un cacique detto Chiappe, trovò che quello armato con gran moltitudine gli aspettava, non volendo non solamente che non passassero, ma n'anche s'avicinassero. Li nostri, ancor che fussero pochi, pur si missero in ordinanza con gl'Indiani amici ch'aveano, e con gli schioppi prima, e poi con li cani che aveano seco, salutorono la moltitudine del cacique Chiappe. Li quali, udito lo strepito delli schioppi che per il risonar de' monti li parve molto piú orrendo, e veduta la fiamma e il fumo, si misseno in fuga, pensando che fussero saette che dal ciel venissero. Delli quali li nostri n'ammazzorono pochi, perchè la voluntà di Vasco Nunez era di farsegli amici e con lor mezo conoscer quelli paesi. E però, entrato che fu nella casa del cacique Chiappe, la quale fra l'altre era maggiore, edificata in tondo con arbori dritti a modo di padiglione e coperta di foglie grandi, fece dislegar molti degl'Indiani presi, alli quali ordinò che andassero a ritrovar il signore, e gli affermassero che se 'l veniva li nostri fariano pace e amicizia con lui, e gli donariano molti presenti; ma stando ostinati gli abbrucciarebbono tutto il villaggio e taglieriano in pezzi tutti gl'Indiani restati. E acciochè 'l detto fusse piú sicuro di quanto gli mandava a dire, mandò insieme con detti Indiani alcuni di quelli d'Esquaragua, che di sopra abbiam detto ch'aveva menato seco; li quali, avendo trovato detto Chiappe, gli dissero prima ciò ch'era intravenuto loro e al suo cacique che fu morto, poi, predicata l'umanità di Vasco verso quelli che l'obedivano, fu contento di ritornarsene. E, giunto a Vasco, fecero amicizia grande insieme, e per maggior dimostrazione detto cacique gli donò oro in diverse lamette e catenelle per valuta di quattrocento castigliani, e Vasco all'incontro alcune filze di paternostri di vetro che li piacquero [piú] dell'oro donato, perchè di quelle n'ornano il collo a sue mogliere e figliuoli.
E dimorati alcuni giorni con questo cacique Chiappe, dette licenzia agl'Indiani d'Esquaragua, e tolse per sua guida il detto Chiappe e alcuni altri suoi famigliari, e in quattro giorni dalla sommità delli monti pervenne al desiderato lito del mare. Dove con gran solennità, in presenzia di molti testimoni sí degl'Indiani come delli nostri, tolse il possesso di quello, e di tutte le terre e provincie con termine al detto mare, per nome del re catolico. E di ciò ne fece far publici instrumenti, e pose le bandiere del regno di Castiglia in quattro luoghi. E lasciata parte della compagnia in casa del detto Chiappe, per poter piú facilmente andar a riconoscer le terre vicine, tolse nove barche fatte d'un legno che in quella lingua chiamano culche. Ed entratovi dentro Chiappe con alcuni suoi famigliari, e Vasco Nunez con ottanta compagni, passorono un gran fiume e andorono verso un signore detto Coquera, qual similmente volendo resister fu rotto e fugato, e fu deliberato che 'l cacique Chiappe l'andasse a trovare. Qual gli disse molte cose dell'incredibile fortezza delli nostri, e ch'avean le saette del cielo e le mandavan con fuoco adosso gli suoi vicini ogni volta ch'essi vogliono contrastare; ma venendo a dimandargli perdono gli usano misericordia e clemenzia. E che con l'amicizia delli nostri saria sicuro che mai alcun suo inimico li potria far guerra, ma staria in pace sempre. Da queste parole commosso, Coquera venne a trovar Vasco Nunez e fece pace con lui, e gli presentò oro in diverse cose piccole per valuta di seicento e cinquanta castigliani, e all'incontro Vasco gli donò delle cose sue. Il che fatto ritornorono a casa di Chiappe, dove si riposò alcuni dí.
Quivi, informatosi d'un golfo grande lí vicino che fa il detto mare, chiamato oggi il golfo di San Michele, il quale dalla bocca sua insino all'estremo angulo può esser circa sessanta miglia di lunghezza, e si vede pieno parte d'isole abitate e parte di scogli deserti, detto Vasco deliberò di vederlo, ancor che dal cacique Chiappe con molte parole fusse dissuaso, qual diceva che per modo alcuno non era da navigarlo, per esser allora li mesi dell'anno nelli quali vi facevan grandissime fortune, e che spesse volte avea veduto molte di quelle sue culche da onde grandissime essere state inghiottite con tutti gli uomini. Vasco veramente, il quale non poteva star quieto e indarno, diceva che sperava che 'l nostro Signor Dio gli sarebbe in aiuto, massime trattandosi di cosa pertinente alla religion cristiana, perchè si potria far duo servizii insieme, cioè raccorre oro assai per far guerra agl'inimici della fede nostra, e discoprire popoli nuovi e incogniti e poi fargli cristiani; e cosí persuasi tutti li compagni, montorono sopra nove culche, cioè barche.
Il cacique Chiappe, veduto il deliberato animo di Vasco, acciochè non dubitasse della fede sua, disse voler ancor lui andar ovunque Vasco andasse, e che per nessun modo voleva restare. Entrati costoro in detto mare e andati per alquante miglia, cominciò il mare a sgonfiarsi e l'onde a crescer di sorte che parevan monti, ed essendo li navili piccoli, e mal atti a reggersi in simil fortune, erano tanto travagliati che non sapevan che farsi, né potevan andar avanti né tornarsi indietro. E tutti impauriti si guardava l'un l'altro. Ma la paura era maggiore di Chiappe e delli suoi famigliari, perciochè conoscevano la natura del mare e il pericolo che vi soleva essere. Pur, affaticatisi molto con remi, giunsero ad un'isoletta vicina diserta, dove smontati, e legate le culche meglio che poterono, si ridussero sopra un colle di quella, dove tagliati rami d'arbori grandissimi si prepararono per dormirvi. Ma l'acqua del mare crebbe tanto alta la notte ch'ella coperse tutta l'isola, eccetto il colle ove li detti erano. Dicono tutti questi ch'hanno veduto questo mare del Sur, che fa ogni giorno le maree di crescere e decrescere simili a quelle che fa il mar nella costa di Spagna e Francia, fuor dello stretto di Gibilterra, e che quando il decresce, che lascia molti scogli che paion isole, le quali poi nel crescer si cuoprono d'acqua. E che al contrario il mar di Nort, che è quel che è dalla banda di tramontana, non cresce di piú di duo palmi. La qual cosa confermano tutti gli abitatori dell'isola Spagnuola.
Venuta la mattina, e andata giú la marea, li nostri come attoniti ritornorono al lito dove erano le culche, e quelle trovorono meze affondate e piene d'arena, perchè per il battersi l'una con l'altra, ancor che fossero fatte d'un legno solo, erano sfesse in molti luoghi e le corde tutte rotte. Per la qual cosa fu di bisogno legarle con certi legami, li quali fecero d'alcuni scorzi d'alberi e d'una sorte d'erbe marine ch'erano flessibili e tenacissime, e le fessure turorono con dette erbe il meglio che potettero. E fatta bonaccia, se ne ritornorono mezi morti di fame, avendo buttato in mare per avanti ciò ch'aveano da mangiare, per salvar le persone. In questo tempo si sentiva un rumor grandissimo che faceva il mare, e non traendo vento non si sapeva da che procedesse; adimandati gl'Indiani pratichi di quello, dicevano che nel crescere over scemare del mare, per esservi molti scogli e isole, l'acque stringendosi e urtandosi l'una con l'altra facevan sentire detto rumore di lontano, e massimamente nelli tre mesi detti dal cacique Chiappe, cioè ottobre, novembre e decembre, e perchè nominavano li mesi dalle lune, per esser il mese d'ottobre, mostrando la luna dicevano di quella e dell'altre due subseguenti.
Come Tumacco signor su l'altro lito del golfo fu messo in fuga, rotto e ferito, dipoi fatta amicizia con Vasco gli donò oro e molte perle. Del ritorno d'esso Vasco in Darien, avuta prima notizia d'alcune isole ricchissime, e come si pescano le perle.
Ristoratosi alcuni giorni, Vasco volse doppo andar a trovar un altro signore detto Tumacco, qual abita l'altro lato di quel golfo, dove giunto e trovatolo armato al modo degli altri fu messo in fuga e rotto, nel combatter ferito. Costui, né per parole del messo del cacique Chiappe, né per paura voleva venire, pur essendogli detto ch'abbrucierebbono tutto il suo paese, ordinò che 'n suo luogo il figliuol venisse. Qual come Vasco vidde subito gli fece carezze e lo vestí al modo nostro, e appresso gli donò alcune filze di paternostri di vetro, e gli fece dir ch'andasse a trovar suo padre e gli narrasse della fortezza delli nostri, che portano le saette dal cielo in mano, e come sono benigni verso quelli che gli vengono a trovare.
Tumacco, veduto il figliuol vestito e intese le parole, deliberò venir verso Vasco. E doppo tre giorni si mise in camino, accompagnato da molti suoi famigliari, e per allora non portò cosa alcuna a donargli, ma, avendo fatta amicizia grande con Vasco, subito mandò delli detti suoi famigliari e gli fece portar diversi lavori d'oro, per valuta di 614 castigliani, e 240 perle assai grosse e una infinità di minute. Li nostri, vedute le perle, s'allegrorono molto, le quali però non erano di quella bianchezza che doveano essere, e la causa intesero perchè non le sanno cavar dell'ostriche dove nascono se non le scaldano al fuoco tanto che da se medesime s'apprino, e dipoi mangiano la carne che v'è dentro. Ed è cibo da signori, del qual per esser molto buono tengon gran conto, e fannone maggior stima che delle perle che in quelle nascono. Tumacco, veduti li nostri che facevano tanto conto delle perle, ordinò ad alcuni Indiani lí presenti che andassero a pescarne, quali dipoi quattro giorni ritornarono con dodeci libre di perle tra grosse e minute. Le quali perle, perchè furono per consiglio de' nostri cavate senza scaldarle al fuoco, eran bianchissime. E con questi modi e presenti gl'Indiani accarezzavano li nostri, e li nostri donavano loro delle cose sue le quali erano loro gratissime, e Tumacco era molto allegro e si riputava felice per aver fatto amicizia con Vasco. Ma molto piú Vasco, vedendo le gran ricchezze ch'erano appresso costoro.
Il cacique Chiappe, per essere stato compagno a Vasco, si teneva molto altiero e superbo, perchè vedeva che li nostri erano assai satisfatti di lui, e che Tumacco conosceva la benevolenzia che gli portavano. E questo faceva perchè essendo Tumacco piú potente di lui, e appresso non troppo amico, li pareva accrescer gran riputazione allo stato suo quando mostrava che li nostri gli erano amici. Questi signori, ancor che vivino cosí poveramente, e gran parte dell'anno vadino nudi, e che l'animo loro non sia travagliato dalle cupidità d'aver ricchezze, pur sono tra loro molto ambiziosi e si portano odii capitali.
Tumacco, per acquistarsi la benevolenzia di Vasco, cominciò a dirgli che in questo golfo di San Michele era un'isola maggiore di tutte l'altre, signoreggiata da un re potentissimo, qual, a certi tempi dell'anno che 'l mare è quieto, faceva un'armata di molte culche e veniva a scorseggiar tutti li loro liti vicini, ammazzando e facendo qualunche trovava prigione; la qual isola era distante da quel lito venti miglia, e chi montava sopra li colli vicini poteva scoprirla, e vedere che per la sua lunghezza usciva fuor della bocca del golfo ed entrava per molte miglia nell'ampio mare; e che sapeva che appresso a quella si pescavano ostriche quali erano grandi come un cappello (dimostrandone una ch'avea uno delli nostri in capo) nelle quali si trovavano perle grandi come una fava, over oliva: il che dimostrò facendo una pallotta di terra picciola. E questo medesimo confermava il cacique Chiappe ch'era lí presente. La qual cosa intesa da Vasco, s'allegrò fuor di misura. E per farsi costoro amici e benevoli cominciò a far gran braverie contra il re di detta isola, e che voleva al tutto passar sopra quella e distruggerlo, e farne poi signori Tumacco e Chiappe. E in questo cominciò a ordinar che piú numero di culche che si potessero avere si mettessino insieme e anche loro facessino venir gli suoi sudditi a questa impresa, che in pochi giorni l'espedirebbe. Ma Chiappe e Tumacco cominciarono con una incredibile amorevolezza a disconfortarlo, pregandolo che 'l non volesse allora andar a far quel viaggio, ma differirlo a miglior tempo; perciochè non si troveria navilio alcuno atto a far quel pareggio, essendo il mare allora (ch'era alli cinque di novembre) troppo grosso con onde grandissime, talchè non si potria far questa impresa senza gran pericolo della vita di qualunche v'andasse. Delle quali cose si conosceva che dicevano la verità, perciochè soffiando il vento di sirocco levante insieme con ostro, per questi gonfiava fuor di misura il mare e faceva onde grandissime, e per il romper dell'acque in quelli scogli e isolette, si sentiva di continuo uno strepito e rumore spaventevole. Per alcuni giorni che stette Vasco appresso il lito del mare, furono grandissime fortune, accompagnate da venti e piogge con infinite saette e baleni che venivano dal cielo. E dalli monti corsero torrenti inestimabili, che oltra gli arbori intieri con tutte le radici menavano seco ancora sassi d'incredibile grandezza. Le quali cose, ancor che gli abitanti dicessero esser solite venir ogni anno a quelli tempi, pur pareva che fussero molto maggiori allora che mai piú per avanti si fussero vedute e sentite. E dicevano fra loro secretamente che pareva che 'l mar del Sur fusse sdegnato per la venuta de' cristiani.
Pur fattosi sereno l'aere, e Vasco inteso che Tumacco e Chiappe aveano non molto lontano dal lito, dove era fondo grandissimo, alcuni luoghi proprii tutti pieni d'ostriche di perle, dove altri non potevan andar a pescar che li pescatori suoi, lasciata l'impresa d'andar sopra l'isola all'estate futura, volse che li prefati mandassero a pigliarne. Questi Indiani pescatori di perle sono allevati da piccoli ad entrar nel mare quando gli è quieto e andar fino al fondo, perciochè dicono che le maggiori delle dette ostriche stanno in fondi grandissimi, e le mezzane si trovano poco lontano dal lito, ma le minori, nelle quali stanno le perle di poco pregio, sono a canto al lito, dove batte il mare. Chiappe, per satisfar al desiderio di Vasco, ancor che fusse la fortuna, ordinò che trenta di questi suoi andassaro al suo luogo, in compagnia delli quali Vasco mandò sei compagni, quali stessero a vedere sopra il lito come facessero a pigliarle.
Questo vivaio delle perle era distante dalla casa di Chiappe forse dieci miglia, dove giunti non ebbero animo d'entrar nelli gran fondi, per esser il mare troppo grosso, ma si missono a prender di quelle ch'erano appresso il lito, e in quattro giorni ne presero tante che caricorono sei indiani. Le quali crude furono tutte aperte, e cavate le perle si missero a mangiar la carne che v'era dentro, qual dicono che parse loro delicatissima, il che poteva proceder dalla fame la quale li nostri lungo tempo avevan tolerato. Le perle veramente non erano maggiori d'un gran di cece over di lente, ma di grandissima bianchezza e molto lustre.
Avendo conosciute e intese tutte le cose sopradette di questo mare, deliberò Vasco Nunez di tornarsene al Darien alli suoi compagni. Ma volse far un'altra strada diversa da quella per la quale era venuto, e prese licenzia dal cacique Chiappe e da Tumacco, con le miglior parole che seppe, pregandogli che si conservassero sani, e che presto gli ritorneria a veder per far l'impresa dell'isola. In questi pochi giorni che Vasco era stato con loro, essi gli avevan posta tanta affezzione che abbracciandolo non potevan far che non piangessero, e cosí toccorono la mano a tutti gli compagni, delli quali essendone alcuni molto infermi che non potevan caminare, Chiappe volse che restassero in casa sua fin che fussero sani, dicendo che poi gli remanderia con buona scorta.
E cosí fatto, Vasco, presi alcuni Indiani di Chiappe per guida, passò con le culche un fiume grande, ed entrò nel paese d'un cacique detto Teaocha, qual, inteso la venuta delli nostri, avendo per avanti avuto notizia di ciò che li nostri avean fatto in quelli paesi, gli venne incontro molto allegro e con umanissime parole a salutargli, invitandogli ad andar alloggiar in casa sua, nella quale entrati fece preparare da mangiare. E appresso fece un presente d'oro di valuta di 1000 castigliani, e 200 perle assai grandi ma non chiare, perchè l'avean cavate fuora col fuoco. Vasco all'incontro presentò a Teaocha due belli spechi di vetro e altre cose che gli furono molto care. E Teaocha gli disse che dovesse far tornar indietro gl'Indiani di Chiappe, perchè lui, acciochè conoscesse che gli era affezzionato, desiderava mandar delli suoi a fargli compagnia e mostrargli la strada. E cosí Vasco gli licenziò, ancor che recusassero perchè cosí da Chiappe avean commissione. E al partir de' nostri Teaocha gli consegnò alcuni Indiani per guida del camino, e altri ch'eran schiavi carichi di vettovaglie, e mandò per capo il maggior de' suoi figliuoli, ordinandogli che non si partisse mai da Vasco fin che da lui non gli fusse comandato. Questi Indiani schiavi erano carichi di pan fatto di iucca e di maiz e di pesci salati. Di vino costoro non hanno cognizione, ma bevon acqua.
Come Pacra cacique, prima fuggito, poi venuto nelle mani di Vasco, fu meritamente punito delle sue sceleraggini, e il ringraziamento fattogli per la punizione da Bononiama signore, con la risposta ch'esso Vasco gli fece.
Questa provisione avea fatto Teaocha, perchè sapeva che li nostri aveano a passar per monti e luoghi sterili e inabitati con infinite selve, dove si trovan assai tigri e leoni, che agl'Indiani che vanno nudi sono molto pericolosi. Presero li nostri il camino essendo guidati dagl'Indiani verso un cacique nominato Pacra, qual dicevano ch'era uomo molto crudele e inimico degli altri caciqui vicini allo stato suo, per essere piú potente di ciascuno di loro. Costui, conscio delle sue sceleraggini, e dubitando che li nostri non venissero a punirlo, sapendo non esser bastante a contrastargli immediate se ne fuggí.
In questo camino, che fu nel mese di novembre, in due giornate che fecero, ascendendo e descendendo dalli monti asprissimi, tutti di sasso senza erba over arbore alcuno, stettero li nostri in gran pericolo di morire di sete; perchè, appresso l'affanno del viaggio difficile, il sole batteva in quelle valli e monti tanto che gli abbrucciava; e avendo consumata tutta l'acqua che sopra le spalle portavano gl'Indiani cercavan dell'altra, né in alcun luogo in quelle valli ne trovavano. Ma Iddio volse aiutargli, perchè passando vicino a una rupe d'un alto monte, tutto di sopra vestito di selve e arbori grandissimi, per ventura vedute molte erbe verdissime e fermatisi per maraviglia, viddero a canto una grotta molto grande, che intrava in detta rupe, dentro della quale dalla banda di sopra per tutto stillavan acque chiarissime, le quali poi nel suo suolo si raccoglievano come in un gran vaso, dal quale per l'abbondanza dell'acqua nasceva un fiumicello che correva giú per il monte. A questo tutti corsero con una estrema allegrezza, e con alcuni vasi fatti di zucche d'arbori si missero a bere, e appresso empieron li vasi degl'Indiani.
Avean fantasia di fermarsi la notte in detto luogo, ma furono disconfortati dagl'Indiani per il pericolo che dicevano esservi delli leoni e altri animali terribili, i quali la notte si riducevan al detto luogo per bere. E per questo andati avanti giunsero alle case del cacique Pacra, qual trovorono senza alcun dentrovi, ma gli altri Indiani vicini, subditi del detto, vennero ad incontrargli, portando loro da mangiar e da bere, dalli quali s'intesero le molte sceleraggini del detto Pacra, qual si dilettava di quel abominevol peccato e usava violenzia a chi non gli compiaceva, e nuovamente avea per forza menate via quattro giovane figliuole d'alcuni signori lí vicini, delle quali faceva quello strazio che gli pareva per suo piacere.
Vasco deliberò, per farsi amici tutti li popoli e signori vicini, di veder d'aver nelle mani il detto Pacra, e parte con lusinghe, e parte con minaccie, fece tanto che s'assicurò di venirlo a trovare. E menò seco tre altri signori similmente imbrattati del medesimo vizio di Pacra. Scrisse Vasco che quello cacique Pacra era nell'aspetto il piú brutto e sozzo Indiano che mai avesse veduto, e che alla bruttezza se gli aggiugneva una ferocità nel guardare che piú presto pareva animale salvatico che persona umana. Giunto che fu, lo fece legare insieme con li tre compagni, dicendo voler udire le querele di quelli che si lamentavano di lui, e far giustizia. Il che intesosi, concorse una infinita moltitudine ad accusarlo, sí de' signori vicini come d'Indiani, provandogli su 'l viso gli enormi delitti e grandissime ribalderie, e principalmente d'aver sforzato tutti li giovani e le giovane che gli venivano avanti, overo che intendeva che fussero in alcun de' luoghi vicini. Per la qual cosa Vasco lo condannò che insieme con li tre compagni vivi fussero devorati da quelli cani che di sopra abbiam detto che Vasco menava seco; quali, avezzi a correr adosso agli Indiani nelle battaglie, come furono loro appresentati costoro legati, in un momento gli mangiorono insino agli ossi. Ma avanti che gli facesse morire, lo dimandò dove egli aveva il suo oro, qual disse non ne avere, e avendogli mostrato li nostri alcune lame e catenelle che in una sua camera avean trovate, qual poteva valer da 1500 castigliani, disse che quell'oro avea avuto dalli suoi antecessori, e ch'erano morti quelli che lo raccoglievano, e che mai s'era dilettato d'aver oro né postovi cura alcuna. Né altra parola di bocca gli potette cavare.
Per questa severità fatta contra Pacra, si fece tanti amici e benevoli tutti li caciqui vicini, che un di loro, nominato Bononiama inteso che Chiappe (appresso il qual restarono gli ammalati) gli rimandava a Vasco con scorta, gli andò ad incontrare menandogli a casa sua, dove dette loro da mangiare abbondantemente, e appresso, donatogli oro per valuta di 1000 castigliani, volse venirgli accompagnar fin al luogo di Pacra dove era Vasco. Al qual di sua mano gli consegnò dicendogli: "O uomo fortissimo e giustissimo, ecco che t'appresento li tuoi compagni, li quali, cosí come sono giunti alla mia casa, cosí te gli consegno. E se questo è stato poco servizio alli tanti beneficii che n'hai fatto, colui che fa venir li tuoni e le saette dal cielo sopra gli uomini cattivi, e a noi con buon tempo dona il maiz e la iucca, ti possi rimeritare". E detto questo, alzati gli occhi verso il sole, dimostrava quello. Poi disse: "Tu con la tua venuta n'hai levato via un crudelissimo tiranno e inimico, e dato pace perpetua a noi e a' nostri figliuoli. Per il che pensiamo che tu e li tuoi compagni siate discesi dal cielo, e però in eterno ne renderemo grazie a quello che t'ha mandato in queste bande". Con simili parole dicono che parlò Bononiama a Vasco, qual lo ringraziò grandemente della buona compagnia e accetto fatto alli suoi compagni, e appresso gli fece assai presenti delle cose sue.
Da costui Vasco intese molti secreti di quelli paesi, e dove si trovava oro assai, e veramente in ciascuna casa degl'Indiani trovorono qualche lama o catenella, che portavano al collo o alle braccia o sopra il petto. Detto Vasco non poté far alcuna esperienzia di far cercare, imperochè di 190 uomini che menò seco dal Darien, di settanta e alcune volte al piú di ottanta si poté servire. E gli altri bisognò andar lasciando indietro in diversi luoghi di quelli cacique amici suoi, perchè caddero in diverse infermità, e sopra gli altri quelli ch'erano venuti dall'isola Spagnuola, che non potettero tolerar il mangiar solamente pane di maiz con erbe salvatiche senza sale, e bere acqua, e qualche volta ancora non ne avendo da potersene saziare, essendo usi nella Spagnuola a viver con piú delicati cibi. Ma quelli del Darien erano assuefatti a disagi grandissimi, di sorte che non è uomo che 'l potesse pensare. E però costoro patirono piú gagliardamente l'asperità di questo viaggio.
La difficultà ch'ebbe Vasco nel passar certe selve e paludi. Del cacique Bucchebua. Ringraziamento e dono fatto a Vasco per Chioriso cacique per la giustizia usata contra gli scelerati. Costumi di quegli Indiani nel mangiare.
Vasco in questo luogo di Pacra stette trenta giorni, parte per farsi amici tutti li popoli vicini, e per aver di quelli cognizione, e parte per ristorare tutti li compagni. Dipoi con le guide dateli da Teaocha si drizzò verso il paese di Comogro, dove corre un fiume del medesimo nome, e passò alcune montagne al descendere in detto paese, nelle quali non trovò alcuna cosa da mangiare, salvo che erbe salvatiche e frutti d'arbori salvatichi. Quel paese era signoreggiato da duoi Indiani parenti, l'uno chiamato Catocho e l'altro Ciuriza. Costoro lo vennero ad incontrare e gli dettero un poco di pane, offerendosi di fargli compagnia. Per la qual cosa Vasco licenziò gl'Indiani del cacique Teaocha, e menò seco questi duoi caciqui, e stette tre giorni a far un camino molto difficile, per alcune selve tanto spesse, che con le scure era forza alcune volte farsi la strada; e poi bisognava passar attraversando valli sopra alcune paludi, nelle quali si affondava di sorte che spesso spesso qualche Indiano che andava avanti si vedeva inghiottirsi dalla palude, al che li nostri provedevano con tagliar assai legnami e distendergli sopra per potervi passare, e cosí passarono queste tre giornate con grandissimi travagli e quasi morti di fame. E la difficultà di questo camino causa il non esser commerzio alcuno di questi caciqui da un luogo all'altro, essendo inimici di continuo e facendosi schiavi e ammazzandosi l'un l'altro.
Pur, giunsero alle case d'un cacique detto Bucchebua, qual trovorono ch'era fuggito alle selve con tutti gli suoi e aveva lasciato le case vacue. Presi alcuni de' suoi Indiani, e mandatogli a dire che tornasse, che non gli fariano dispiacer alcuno, costui gli rispose che s'era fuggito non per altro se non per vergogna, che non aveva il modo di poter accettar li nostri onorevolmente e come meritariano, non avendo alcuna cosa da dargli da mangiare. E per segno d'amore gli mandò a donar alcuni vasi piccoli fatti d'oro, dicendo che se non fusse stato spogliato da un altro cacique in una guerra ch'avea avuto seco, gli averia portato piú oro. Li nostri veramente, ancorchè l'oro che gli mandò gli fusse piacciuto, averiano piú presto voluto qualche vettovaglia che oro, perchè con quello non si potevano aiutar a cavarsi la fame.
Pur, pasciuti con certe radici salvatiche e acqua, si partirono. E andati alcuni miglia, viddero sopra un colle alcuni Indiani nudi che facevano cenni alli nostri che si fermassero. Vasco ordinò che non s'andasse avanti, ma che si vedesse quel che volessin dire. Fermati li nostri, gli Indiani gli vennero subito a trovare, e col mezzo degli interpreti ch'erano con li nostri, s'intese il parlar di costoro, che fu in questo modo: "Il nostro signore Chioriso desidera la vostra salute e il vostro contento. E avendo inteso che siete uomini forti e giusti, perchè punite quelli che fanno ingiurie, e li cattivi e pessimi uomini levate via dalla terra, però per aver questa notizia di voi v'ama e ha in reverenza. Grande allegrezza gli saria stata se fusse arrivati a casa sua, dove v'avesse potuto accettare e darvi delle sue vettovaglie, e si saria reputato piú felice avendovi appresso, che non si reputano quelli ch'abitano doppo la morte appresso il sole. Ma dapoi che la sorte gli è stata contraria, che in questo vostro viaggio non siete passati appresso casa sua ma lontani, in segno di benevolenzia vi manda questi pochi pezzi d'oro". E con viso allegro, ridendo, gli detti Indiani gli porsero trenta come taglieri d'oro, simili a quelli con li quali li nostri preti coprono il calice nel dir la messa. Li quali taglieri questi Indiani con alcuni cordoni portavano appiccati al collo, che pesavano da settecento castigliani.
Dipoi stati un poco, ne feceno intendere ch'aveano non troppo lontano un signor loro inimico, qual era ricchissimo d'oro, e che ogni anno gli andava a molestar rubandogli e facendogli schiavi, e ancor che non lo esprimessero fuori, pur pareva che volesser dire che, ruinando questo signore, li cristiani averiano quanto oro volessino, e loro suoi amici sariano liberati da cosí crudel inimico. La qual cosa mostravano con gesti agl'interpreti che saria facile, volendo fargli spalle, e che loro sariano li primi a cominciar la guerra. Vasco gli fece risponder che ringraziava il suo signore della buona sua volontà e del presente, e che stesse di buona voglia, che presto gli mandaria aiuto che potria vendicarsi degl'inimici, e che gli accettasse all'incontro dell'oro quattro scure di ferro con le quali potria tagliare quel che volessero. Le quali loro presero con grande allegrezza, perchè di queste gl'Indiani tengono maggior conto che dell'oro, perchè dicono che l'oro è cosa vana e cercasi solo per satisfare all'appetito e agli sfrenati desiderii; e che chi mancava di quello non mancava d'alcuna sua commodità.
Costoro non usano nel cibarsi quelle delicatezze che usiamo noi, non vasi lavorati, non tovaglie, non mantili; solo gli signori hanno vasi d'oro in su la mensa, gli altri con una man tengono il pane, o di maiz o di iucca, con l'altra o pesce arrostito o altra cosa che mangia per companatico, e con queste cose caccian via la fame. Della carne rare volte gustano. Se qualche volta accade che s'abbino a nettare le dita, per aversele con qualche cibo unte, se le nettano o a piedi o a' fianchi. Questo medesimo si dice che fanno quelli che abitano la Spagnuola. Quando si voglion bene far netti si tuffano ne fiumi, il che fanno spesso, e cosí si lavano tutto il corpo.
Come arrivorono al cacique Pocchorrosa, e quivi lasciati gli ammalati andorno nello stato del cacique Tumanama, qual fatto prigione con ottanta femine per lui tolte per forza a diversi signori, iscusatosi e liberato fece a Vasco un presente di valuta di 4500 castigliani.
Li nostri partiti di qui andorono piú avanti con assai oro, ma molto mal condizionati per la fame, tanto che arrivorono al cacique Pocchorrosa, dove per trenta giorni pascendosi di pane di maiz essendo affamati si saziorono. Pocchorrosa, intesa la lor venuta, si fuggí; nientedimanco, persuaso dalle buone parole e promesse di Vasco, tornò, alla tornata del quale furono fatti dall'una parte e dall'altra diversi presenti; Vasco donò a Pocchorrosa delle cose che aveva, lui all'incontro donò a Vasco tanto oro che valeva 4500 castigliani, con alcuni schiavi. Volendo Vasco partir di quel luogo, gli fu fatto intendere che gli bisognava passar per lo stato d'un cacique chiamato Tumanama. Questo è quello signore ch'altra volta s'intese dal figliuol di Comogro esser potentissimo, e da temerne assai, appresso del quale molti de' famigliari del detto figliuolo di Comogro erano stati schiavi essendo stati vinti in guerra, la potenzia del quale all'arrivar delli cristiani fu conosciuta esser piccola.
Trovorono che questo cacique non era di là dalli monti, come si pensavano, né aveva tanto oro quanto aveva riferito il figliuolo di Comogro; pensorono non dimanco di saccheggiarlo. Era questo Tumanama nimico di Pocchorrosa. Per questo, quando Pocchorrosa intese la fantasia di Vasco, ch'era di distruggere il suo nemico, gli piacque molto questo disegno.
Lasciò adunque Vasco nel paese di Pocchorrosa tutti gli ammalati, e chiamati a sé sessanta, che aveva sani e molto animosi, espose loro quello fusse da fare, e in un giorno fatto il cammino di due, a fine che Tumanama non avesse tempo a mettere insieme gente, successe loro quanto avevan disegnato. Perchè al principio della notte insieme con gl'Indiani di Pocchorrosa l'assaltorono, e trovatolo sprovisto lo presero insieme con duoi Indiani che teneva appresso di sé e 80 femine, le quali per forza a diversi caciqui aveva tolte. Tutti gli altri subditi erano sparsi in diverse case all'intorno, non pensando a cosa alcuna di guerra, ma sicuri e oziosi.
Le abitazioni di costoro non sono contigue, anzi separate, e tutte di legname e coperte di paglia ed erba o altra simil cosa, molto forti. Alla casa di Tumanama n'era appiccata un'altra, non inferiore a quella; la lunghezza di queste due case fu referito esser di 120 passa, e la larghezza di 50, ed eran fatte cosí grandi per far rassegna degl'Indiani da guerra, qualunche volta a Tumanama era mosso guerra.
Preso che fu Tumanama con tutta la sua compagnia di femine, le genti di Pocchorrosa lo schernivano, sputando loro adosso e facendo molti altri atti di dispregio, i quali in quelle parti s'usano. E quando la nuova fu sparsa fra li vicini al suo stato, tutti ne facevan gran festa, perchè esso era loro molto in odio. Vasco minacciava Tumanama, ma simulatamente, perchè l'animo suo non era di fargli alcuna villania, e dicevagli: "Ladrone, tu patirai le pene delle tue sceleraggini; tu molte volte hai minacciati li cristiani, e detto che se mai venivano al paese tuo, che per li capelli gli strascinaresti al fiume che è qui vicino; tu sarai al medesimo fiume strascinato e dentrovi submerso". E subito comandò che fusse preso; nientedimanco accennò a' compagni che la volontà sua era di perdonarlo, e cosí l'infelice Tumanama, tutto spaventato, pensando che tutto questo fusse fatto e detto da vero, prostrato in terra domandò perdono a Vasco, affermando che mai aveva tali cose dette, e che forse qualcuno delli suoi cortegiani imbriaco aveva usate simili parole.
Li vini di quel paese, benchè non siano d'uve, come abbiam detto, nientedimanco sono atti a imbriacare. Aggiugneva alle sopradette parole ancora che gli signori vicini per invidia l'avevano accusato e finto di lui simili cose, e promesse, se gli era loro perdonato, dare a Vasco una gran quantità d'oro. E ponendosi la man destra al petto disse sempre avere amato e temuto gli cristiani, perchè aveva inteso che le machane, cioè le spade di quelli, tagliavano meglio ed erano piú acute che le spade delli suoi. E voltando gli occhi verso Vasco disse: "Chi sarebbe quello, se già non fusse fuor dell'intelletto, ch'avesse ardire alzar la mano contra la tua spada, con la quale puoi in un colpo fendere un uomo per mezo? Non sia alcuno che creda esser uscito mai di mia bocca parole simili a quelle che da te ho intese, contra li cristiani". Queste e molte altre parole disse Tumanama, e già pensava esser vicino alla morte quando Vasco finse essersi mosso per le sue lacrimose parole, e con benigna faccia parlandogli comandò che fusse lasciato.
Mentre ch'erano a questo ragionamento, gli fece portare Tumanama tanto oro che valeva 1500 castigliani, tutto di catene delle quali s'ornavano le sue femine. Il seguente giorno ne fu portato la valuta di 3000 castigliani dalli cortegiani, per la pena di quello ch'avevan detto contra li cristiani. Ma volendo Vasco sapere donde si cavasse quell'oro, non volse mai Tumanama confessare che si trovasse nel suo paese, ma sempre disse ch'era stato portato alli suoi antecessori dal fiume Comogro, il quale era a mezodí; ma gli uomini di Pocchorrosa dicevano che non voleva dirne la verità, e affermavano che 'l paese suo abondava d'oro, e ch'egli era ricchissimo. All'incontro Tumanama diceva non sapere esser nel suo paese alcuna minera d'oro, ed esser vero che se ne è trovato alcuna volta qualche grano, ma che lui di questo aveva tenuto poco conto, né mai v'aveva atteso, perchè non si poteva far tal cosa se non con lunghezza di tempo e con gran fatica, e poco utile.
Come Vasco, fatto cavare in alcune terre di Tumanama e trovato alquanto oro, essendosi ammalato ritornò al palazzo del vecchio Comogro, al quale per la sua morte era successo il figliuolo, e presentatisi l'un l'altro ritornò in Darien, fatto capitano di tutte quelle genti dal re catolico.
Trovandosi le cose in questo modo, a Vasco vennero quelli li quali eran rimasti ammalati a Pocchorrosa, e arrivarono alli 24 di dicembre 1513, e seco portavano alcuni instrumenti da cavare oro. E perchè il giorno seguente era la Natività di Nostro Signor Iesú Cristo, lo volse Vasco celebrar senza operar cosa alcuna, ma il giorno di San Stefano andò a un monticello non molto lontano dalla casa di Tumanama, e perchè gli parve che 'l terreno tenesse d'oro, fece fare una fossa profonda un palmo e mezo, e in questa trovò grani d'oro non molto grandi. Per questo si può dire che quello che dalli vicini era stato detto a Vasco era la verità, e che li fatti respondevano alle parole, ancor che mai potessino far dire a Tumanama che nel paese suo fusse oro. Il che pensavano alcuni farsi da Tumanama, perchè di quel poco oro ch'avevan trovato ne teneva poco conto. E altri dicevano che lui stava in questa ostinazione solo perchè non arebbe voluto che li nostri, tirati da questo oro, fusser andati ad abitare in quella provincia. Ma questo poco li giovò, perchè Vasco con gli altri suoi elessero per abitare la provincia di Tumanama e quella di Pocchorrosa, e pensavan d'edificare novi castelli in ciascuna di queste, sí perchè fusser come un ricetto a quelli cristiani ch'andassero a quelle bande per passare al mar del Sur, sí perchè pareva loro che quella terra fusse molto atta a produrre qualunche sorte di biada e arbori.
Volendo per allora partir Vasco di quel luogo, volse di nuovo far prova d'un'altra terra, la qual al colore mostrava esser molto atta a generar oro, e cosí, fatta una fossa non molto profonda, in poco tempo referiscono essersi trovato tanto oro quanto era un castigliano, non però in un solo grano, ma in piú. Vasco, allegro per questi segni, dette buona speranza a Tumanama d'avere a tenerlo per amico, pur che lui non desse molestia ad alcuno di quelli che lui suoi amici lasciassi in quelle bande, e gli persuase che attendesse a cavare oro piú che poteva; Tumanama, rimasto in buona amicizia con Vasco, per mostrare quanto di lui si fidava, volontariamente gli dette un suo figliuolo, solo acciochè conversando fra li nostri imparasse la lingua e li costumi nostri, insieme con la religione.
In questo tempo Vasco era gravemente ammalato di febre, per la fatica grande ch'aveva durata, e per la fame e sonno ch'aveva tolerato. Per questo partendo di quel luogo si fece portare su certi legni, che chiamano amache, da' suoi schiavi Indiani; gli altri compagni, parte andoron per lor medesimi, parte, per esser mal condizionati, andoron sostentati dagl'Indiani, li quali tanto eran debili che gli sostenevan sotto le braccia; e arrivato al palazzo del vecchio Comogro, del quale di sopra è fatta assai menzione, lo trovò morto, e che 'l figliuolo era successo in suo luogo, e preso il nome del padre si chiamava Carlo. È il palazzo di questo cacique appiè di monti molto ben cultivati, e ha dalla banda di mezodí una pianura di circa ventisei miglia, molto abbondante e grassa. Questa pianura gli abitatori chiaman zavana. Dopo questa sono li monti altissimi quali abbiam detto dividere li duoi mari, cioè il mare del Sur dal mare del Nort. Da questi monti discende il fiume Comogro, il quale, scorrendo per quella pianura e per valli d'altissimi monti, dove riceve molti fiumi e fonti che discendon da quelli, va a sboccare nel mar del Sur cioè di mezodí, ed è lontan dal Darien circa 70 leghe verso ponente.
Come Carlo intese il venir delli nostri, venne loro incontro ballando con molti Indiani, e facendo grandissima allegrezza menogli al palazzo, dove dette loro da mangiare abbondantissimamente, poi gli presentò oro per valuta di duemila castigliani. Ma Vasco gli donò all'incontro molte delle cose sue, e tra l'altro un saio di panno e una camiscia sottile di tela, e alcune scure per poter tagliar arbori e fabricar case, che gli furono molto care. E subito il detto Carlo si volse vestire delli presenti donatigli da Vasco, tenendosi molto superbo, e da piú d'alcun altro cacique vicino.
Stato qui Vasco alcuni giorni, avanti che partisse, chiamato a sé Carlo con molti delli suoi principali, gli disse ch'avendolo conosciuto prudente e grande amico delli cristiani, dalli quali vedeva essere stato onorato e accarezzato, lo pregava che dovesse continuare in questo buon volere, né mai partirsi dall'obedienzia del re catolico. E volendo che gl'inimici suoi vicini mai gli potessin nuocere, e che sempre li cristiani fussero in suo aiuto e difendessero le sue case, mogli e figliuoli, l'essortava a raccorre piú oro che gli fusse possibile, per presentar al tiba, che cosí chiaman un gran re, volendo intender il re catolico. Detto questo si misse in cammino a dirittura alla casa del cacique Poncha, dove avea promesso a quelli del Darien tornare subito che potesse. E in questo luogo trovò esser arrivati quattro giovani venuti dal Darien per incontrarlo per suo ordine, e per dargli nuova che là eran giunti alcuni navili dalla Spagnuola carichi di vettovaglie. Per la qual cosa lui, presi venti delli compagni li piú sani, a gran giornate se n'andò al Darien. Gli altri lasciò appresso Poncha con ordine di mandargli con duoi navili a levare, subito che fusse arrivato al Darien, come poi fece. E questo fu l'anno 1514 alli 19 di gennaio.
Arrivato Vasco al Darien, con quella prestezza che gli fu possibile scrisse al re catolico, dimostrandogli quanto aveva operato in quelle bande. Le lettere al re furon molto grate, il che dall'effetto si conobbe, perchè dove Vasco, come s'è detto, era stato giudicato rebelle di sua maestà, subito tornò in grazia e fu fatto capitano di tutte le genti che si trovavan nel Darien, e giustamente, perchè cosí meritavan le fatiche e disagi tollerati in una cosí grande e degna impresa, come a suo luogo si dirà.
Come Vasco, inteso che sopra il fiume Dabaiba in certi monti si trovava oro infinito, andò con 300 uomini a quella volta, e assaltati da quattromila Indiani, appiccatosi una gran zuffa prima furono superati gl'Indiani, dipoi, rinforzatasi la pugna, Vasco gravemente ferito fu costretto ritornarsi in Darien.
Essendosi riposato il capitan Vasco alcuni giorni e ristoratosi delle fatiche, molti uomini principali del Darien lo vennero a trovare, dicendogli che avevano inteso d'alcuni Indiani stati molte leghe fra terra, come sopra il fiume Dabaiba, qual mette capo nell'ultimo angulo del golfo d'Uraba con sette bocche, e per la sua grandezza, come di sopra s'è detto, fu chiamato il Rio Grande overo di S. Giovanni, abitavano in alcuni paludi molti Indiani, quali andavano alli monti vicini dove raccoglievan infinito oro, e quello poi barattavano in diverse cose che faceva lor di bisogno per il vivere e casa sua. E che chi facesse quella impresa troveria molto oro appresso detti Indiani, che tengon del continuo raccolto. Questo partito piacque grandemente a Vasco, perchè era desideroso di veder cose nuove.
Per il che, messi insieme 300 uomini con li detti del Darien e montati parte sopra brigantini, si misero a navigare al contrario d'acqua su per il detto fiume, qual dove sbocca nel golfo sopradetto è gradi sei sopra l'equinoziale. E andati per spazio di 40 miglia sempre trovavano d'una banda e dall'altra grandissimi paludi, con canne e giunchi ch'erano molto grossi; e la notte infiniti pipistreli e zanzare molto grandi che gli mordevano. Vedevan ben di lontano alcuni monti, ma non vi potevan andar, impediti dalle dette paludi; vedevan ancora molti arbori simili a palme, altissimi. Incontroronsi in molte canoe piene d'Indiani tutti armati di freccie e archi, quali come vedevan li nostri, tirate le freccie, si mettevan a fuggire per alcuni canaletti di detti paludi, tanto stretti ch'era impossibile potergli giugnere.
Pur, dapoi fatti circa 60 miglia, trovoron una grande pianura dove questo fiume faceva un lago, nel quale era una isola tutta piena d'arbori di palme altissime, sopra le quali, per esser nate una appresso l'altra, avean fatte le sue abitazioni gl'Indiani, attraversando legni dalli rami d'una all'altra, e poi serrando all'incontro con altri legni e foglie, tale che parevano come palchi coperti; e ciascuno aveva certi legami di stroppe appiccati al tronco, per li quali vi montavano sopra, e tutti questi palchi eran continui e appresso l'uno all'altro per la densità degli arbori, che di lontano pareva cosa strana a vedergli, perciò non si poteva comprender se fussero abitazioni overo bosco folto.
Di sotto questi palchi erano adunati circa quattromila Indiani, tutti armati d'archi e freccie venenate e dardi lunghissimi, quali con un certo legame appiccatovi tiravano ove volevano. Aveva tutta questa moltitudine di case un canale in mezzo che la divideva in due parti, dove erano legate molto delle loro canoe. In questo canal essendo entrato Vasco Nunez con tutti li compagni, furono assaltati d'ogni canto da detti Indiani, e gli furono tirate tante freccie venenate, e dietro e davanti, che non fu possibile di coprirsi tanto con gli scudi che non ne fussero feriti al primo tratto piú di 107, quali morirono.
Vasco, essendosi trovato in tante zuffe con Indiani, e in tutte riportatone vittoria, non volse patir questa vergogna, ma smontato sopra una ripa con il resto si misse ad ordine meglio che potette, per esser il sito tutto intricato d'arbori, e con gli schioppi cominciò a salutargli. Gl'Indiani, udito lo strepito e veduto il fuoco, si misero a fuggire, ma vedendo che li nostri volevano montare sopra li palchi, dove erano lor mogli e figliuoli, come arrabiati fra quella densità d'arbori vennero di nuovo ad assaltargli, non stimando la morte, e tirorono tante freccie e dardi che la maggior parte degli smontati furono feriti; e Vasco medesimo ebbe due ferite, una sopra 'l viso d'una spada di legno, la qual tagliava come se la fusse stata di ferro, l'altra fu d'un dardo che gli passò il braccio diritto. Quelli ch'eran restati ne' brigantini, dagl'Indiani ch'eran dall'altro canto del canale furono similmente per la maggior parte feriti, tanto che finalmente Vasco ferito, con gli altri molto maltrattati, furono costretti tornarsene alle barche a seconda del fiume e andarsene al Darien.
Come Petraria, governator della terra ferma dell'Indie occidentali, dopo scoperte alcune isole, monti, fiumi e porti, entrò nel porto di Santa Marta, dove abitano uomini ferocissimi, e come furono ribattuti da' nostri. Delle gioie trovate per Gonzalo Hermandes, e d'una gran valle molto abitata, e diverse cose che in quella si trovorono.
Ma torniamo a Petraria, governator della terra ferma dell'Indie occidentali, qual partí, come di sopra abbiam detto, con l'armata di 17 navili e 1200 uomini al principio dell'anno 1514, e in otto giorni giunse all'isola delle Canarie che si chiama la Gomera, dove stette 16 giorni per fornirsi di acqua e legne, e ancora per acconciare il timon della nave capitana, che per fortuna se gli era rotto. Poi, messosi in mare alla volta di ponente, ma un poco verso gherbino, a' 3 di giugno arrivò all'isola delli canibali detta la Domenica, gradi 14 sopra l'equinoziale, dove stette quattro giorni per far legne e acqua, né mai vidde uomo o vestigio d'alcuno che vi fusse stato, ma vi trovò gran copia di granchi marini e di lagarti.
Di qui partitosi, passando avanti l'isola Matitina, Guadaluppo e Galante, entrò in un mare pieno di molte erbe, per il quale abbiamo detto che navigò l'admirante Cristoforo Colombo. Né dal detto, né da questi altri s'è potuto intendere la vera causa donde procedino quelle tante erbe, né si sa se le naschino nel fondo del mare e poi venghino a pelo dell'acqua, come si vede in molti laghi, o vero che naschino negli scogli e isole vicine, le quali sono infinite, e poi per furia di venti spiccate da quelle, vadino notando sopra 'l mare.
Quattro giorni dipoi partiti dall'isola Domenica, andando verso ponente, scopersero monti altissimi sopra la terra ferma, carichi di nevi, dove trovorono grandissima correnzia del mare verso ponente; e pareva che l'acque fussero d'un rapido torrente. Da' detti monti correva il fiume Gaira, gradi 11 sopra l'equinoziale, dove furono rotti li nostri con Rodorico Colmenar, e molti altri fiumi della provincia de' Caramairi, dove sono due bellissimi porti, uno nominato di Cartagenia, gradi dieci e mezo, l'altro di Santa Marta, gradi undeci sopra l'equinoziale. Ma il porto di Santa Marta è piú vicino a' monti delle nevi, perciochè quasi giace alle radici di detti monti. Il porto di Cartagenia è piú verso ponente, circa 50 e piú leghe.
In questo porto di Santa Marta trovorono gli abitatori essere persone ferocissime e grandi arcieri, sí gli uomini come le femine, i quali veduti i nostri, si fecero loro incontro con tante saette venenate ch'era maraviglia a vedere e la moltitudine e l'animo di quelli ch'avessero ardire, vedendo tanta armata, volerla combattere. Pur, poi da' nostri furono discaricate l'artigliarie, per il fuoco e strepito che sentirono si missero a fuggire, perciochè parve loro che fussero saette che venissero dal cielo, le quali abitando appresso quegli alti monti sentono spesso.
Il governatore misse in terra in detto porto da 900 uomini, qual è di circonferenzia circa tre leghe, profondo, e d'acqua tanto chiara che si vedea nel fondo ogni picciola pietra. In questo porto sboccano due fiumi piccioli e atti solamente a navicarvi con canoe, nelli quali fiumi e porto trovorono gran quantità di pesci, cosí marini come d'acqua dolce, e molte erbe e case di pescatori, nelle quali erano infinite reti fatte a diversi modi di filo di cottone e di radici d'erbe, alcune lunghe e larghe, con pietre appiccate da una banda, altre strette e fatte in forma di sacco, legate ad alcuni legni lunghi, quali ficcano sotto il mare quando pescano. Trovoronvi ancora assai quantità di pesci salati e altri secchi, de' quali ne aveano acconci assai sopra legni con foglie, e pareva che fussero preparati per portar in qualche paese lontano; trovarono ancora cantari, scodelle, taglieri e pignatte fatte di terra cotta benissimo lavorate; ma sopra tutto si maravigliarono d'alcune, che erano come urne grandi di terra cotta, che adoperano a tenervi l'acqua fresca, tutte dipinte di varii colori con animali e fiori.
Gl'Indiani, ancorchè fussero stati ributtati, come viddero entrare i nostri nelle loro case, dove erano rimase molte femine e fanciulli, tornorono di nuovo come arrabbiati ad assaltare i nostri con freccie, ma similmente con gli schioppi furono fugati e rotti. E li nostri gli seguitorono per spacio di una lega.
Donde ritornati, trovorono in alcune altre case molte stuore, ch'erano fatte di canne sottili sfesse e d'alcune erbe e di sparto. Ma prima tutte queste cose erano state tinte di vari colori, cioè giallo, rosso, azurro finissimi, e poi tessute con grandissima arte, perchè si vedevano ritratti leoni, tigri, aquile e altre sorti d'animali. Similmente v'erano panni fatti di cottone tessuti con li medesimi animali di diversi colori; e con questi cuoprono li muri delle loro case, sopra le porte delle quali, e sopra quelle delle camere appiccano alcune filze fatte di scorze grandi di lumache marine, le quali, come il vento le muove, fa un certo suono che gli diletta grandemente.
Sopra questa armata del detto capitan Petraria si trovava un gentiluomo, Gonzalo Hernandes d'Oviedo, persona molto dotta e virtuosa, e al qual il re catolico avea dato il carico di veder il fonder l'oro di tutte le minere. Costui, dismontato e andato capo di molti uomini fra terra, trovò in alcuni monti alcune rocche di calcidono, diaspro, e un pezzo di zafiro maggiore d'un ovo di oca; trovò ancora pezzi d'ambra gialla; delle quali pietre preziose ne viddero anche in alcune case appiccate alli panni di cottone che tengono, come è detto, sopra li loro pareti. E che gran parte delli boschi di quelli paesi erano d'alberi di verzini. Intese il detto Gonzalo, d'alcuni Indiani presi, come alcuni di quelli popoli Caramairi di Gaira e Saturma, che è una provincia vicina gradi undici sopra l'equinoziale, li quali abitano appresso il mare, erano grandissimi pescatori, e che con li pesci insalati che danno per baratto, aveano da popoli lontani tutte le stuore e cottone e masserizie che fa loro di bisogno per casa sua.
Entrò il detto Gonzalo fra terra in una valle che poteva esser larga due leghe e lunga tre, tutta abitata, ma le case erano separate e lontane una dall'altra, poste tutte alle radici di colline verdissime e piene d'arbori fruttiferi, con fontane che d'ogni canto discendevano. In questa valle trovò infiniti orti e campi lavorati e seminati, quali adacquavano con quelle fontane per canali fatti a mano. In questi orti e campi erano agies, iucca, maiz, batatas e molti altri frutti naturali di quel paese, la descrizione e natura delli quali al presente non si dirà, avendone il detto Gonzalo Oviedo scritto particolarmente e distintamente. Il libro del quale sarà il secondo dell'istoria di queste Indie occidentali, per non esservi pretermesso di dire cosa alcuna che si possa desiderare.
L'aere di questi paesi è tanto benigno e temperato, ch'avendo dormito li nostri molte notti al discoperto, sopra le ripe de' fiumi, mai si sentirono la testa grave. Son fatte le strade tanto diritte e a filo che pareva che fusser state tirate a corda.
Presono molti di questi Indiani, quali menorono a veder le nostre navi, e dapoi vestitogli con nostri panni, e datogli da mangiar e bever del nostro vino, gli lasciavano andar a trovar gli altri, e questo facevano per dimesticargli e far amicizia con loro. Ma il tutto era indarno, perchè ogni volta che gl'Indiani vedevano li nostri gli salutavano con freccie venenate; delle quali, e d'archi in alcune case trovorono le camere piene, come per munizione, qual tutte furono abbruciate.
Nelle case fra terra trovorono assai carne di cervi e porchi cignali, e molte sorte d'uccelli ch'allevano in casa, con li quali per molti giorni li nostri ebber buon tempo. Eranvi ancora molte palle grandi di cottone filato, e tinto in diversi colori finissimi, e fasci di penne grandi d'uccelli di diversi colori, con le quali si fanno alcuni pennacchi che portano in capo, sopra alcune meze teste di dette penne, a modo che portano gli uomini nostri d'arme a cavallo. Fannosi ancora con dette penne certi vestimenti corti per ornamento.
Conservano in alcune camere separate dalla casa l'ossa e le cenere delli suoi signori, poste in alcuni vasi di terra cotta dipinti. Altri non gli abbrucciano, ma gli seccano, e coperti con tele di cottone, ch'hanno alcune lamette d'oro intorno, gli salvano con gran riverenza. Di queste lamette d'oro e catenelle ne trovorono assai, ma l'oro era di basso caratto, come al fonder si conobbe. Non molto lontano dal lito trovorono alcuni pezzi di marmo bianchissimo e durissimo, che si vedevano che di lontano erano stati portati in quel luogo, e pareva che fussero stati lavorati da maestri scarpellini. Il che fece maravigliar li nostri, non avendo detti Indiani ferro alcuno da poter tagliarli.
In questo luogo, per mezo d'alcuni Indiani presi, intesero come il fiume del Maragnon, qual abbiam detto esser tanto grande nella bocca, discendeva da quelli monti altissimi carichi di neve; qual poi facendo un gran circuito, passando per diversi paesi, e ricevendo in sé gran moltitudine di fiumi, andava a sboccare in mare.
Avendo li nostri intese le sopradette cose, ed essendo carichi di preda tolta nelle case di detti Indiani, montati in nave alli 15 di giugno si partirono, e presono il cammino verso il porto di Cartagenia e alcune isole lí vicine abitate da canibali per ruinargli, avendo cosí in commessione dal re catolico; ma era tanta la correnzia dell'acqua del mare verso ponente, che tutti li pilotti dell'armata si trovorono ingannati, ancor che fusser pratichi di quelli mari, perchè in una notte furono transportati 40 leghe piú in là di quello si pensavano.
La qual correnzia è tanto grande in alcuni luoghi di questa terra ferma, che l'admirante, qual fu il primo che la vidde, soleva dire che quando ei navigò appresso la costa di detta terra, dove è Beragua, verso ponente gradi sette sopra l'equinoziale, volendo tornare alla volta di levante, alcune volte buttato lo scandaglio in mare quello non poteva andar al fondo, perchè dal corso del mare era tirato a pelo d'acqua, e ancor ch'avesse vento in poppa non potevan però far un miglio il giorno.
Varie opinioni circa la correnzia del mare di continuo appresso li liti dell'Indie occidentali, e donde proceda il flusso e reflusso che 'l mare fa ogni giorno.
Della qual correnzia non mi par fuor di proposito parlare un poco, ancor che fin a ora (per quel che s'è inteso) non se ne sappi la vera causa, come anche non s'è potuto comprender da che proceda il flusso e reflusso che 'l mar fa ogni giorno, piú in una parte che in un'altra, come nel seguente libro si dirà; del qual alcuni assegnano la causa alli moti della luna, altri del sole, chi a' venti che sian sotto il mare, e chi pensa che li particolari siti della terra, dove quella è piana, facci parere detto reflusso maggiore e minore. Né manca chi dica il mar esser come un animal grande qual respiri, e da questo naschino questi flussi e reflussi. Ma di questo correr del mare del continuo appresso li liti di dette Indie occidentali da levante in ponente, che causa ne potremo assegnare? Quelli che dicono che 'l mar Maggiore sempre alla bocca che è appresso Costantinopoli corre fuori, oltre che dicono che venendo l'acqua di sotto tramontana, la qual parte tengono che sia la piú alta della terra, e per questo corrono all'ingiú, come a luogo piú basso, vogliono ancora che proceda dalli gran fiumi che in quello metton capo, e per la quantità di rena e terra che conducono in detto mare gli alzino il fondo, e di qui nasca il tanto correr dell'acque per quella bocca. La qual causa come potrem poi salvare, vedendosi che tutti li mari Mediterranei, nelli quali corrono innumerabili fiumi e non hanno altro esito che lo stretto di Ghibilterra, non sboccano per quello, anzi par che 'l mar Oceano vi corra dentro e si vada voltando a man dritta verso la costa di Barberia, e scorra a canto detta costa fino in Alessandria, che è da ponente in levante? Ancor che di questo entrar dell'Oceano per lo stretto di Ghibilterra un savio antico n'adducesse questa ragione, che essendo l'Oceano manco profondo che il mar Mediterraneo, perchè in quello non regnano venti che lo cavino come negli altri mari, e massime che quella parte che è vicina all'isola Corsica e Sardigna, nel qual luogo questo medesimo ha opinione che quel sia piú profondo che in alcun'altra parte del mare Mediterraneo, per questo l'Oceano sbocca per detto stretto nel detto mare, per correre a un luogo piú basso.
Quelli che hanno navigato la costa di detta terra ferma dell'Indie, pensano che in quelle parti dove la terra si ristrigne, fra il mar del Nort e il mar del Sur, o vogliam dir fra la Città del Nome di Dio e Panama, gradi sette sopra l'equinoziale per spazio di miglia ottanta, siano caverne grandissime, per le quali tutte l'acque d'un mare sbocchino nell'altro, girandosi poi verso levante, e che la causa di questo girare sia il moto del sole che le tiri seco. Altri credono che per queste caverne l'acque corrino al suo principio, il quale sia in mezzo della terra, secondo l'opinione d'un savio antico, dal quale di nuovo dipoi eschino e vadino girando successivamente. Altri dicono che le dette acque corrono a ponente, perchè sono strette da innumerabili isole, che di continuo si veggono, non troppo lontane dalla costa, e che poi che sono corse in capo d'un golfo che fa detta costa, l'ultimo angulo del quale è gradi ventitre sopra l'equinoziale, girino intorno, come si vede che fanno l'acque nelle volte d'alcuni fiumi grandi. E che la causa proceda dall'isole dicono toccarsi con mano, perciochè, partendo dalla Spagnuola e ritornando verso le parti nostre di levante, come si sono allontanati molte miglia in mare, non si sente correnzia alcuna. Sono alcuni che pensano che dette acque vadino correndo sempre appresso li liti e coste di detta terra ferma, la qual va verso ponente dove la fa il golfo sopradetto, e poi si voltino verso tramontana, dove ancora non si sa alcuno che abbi trovato dove termini la terra, la qual si pensa che sia appiccata con l'Europa.
Come Sebastian Gabotto viniziano, partitosi d'Inghilterra per scoprir nuove terre, in certo luogo trovò la Tramontana sopra di sé elevata cinquantacinque gradi, e la notte in quel luogo non esser simile alle nostre; e in che modo gli orsi faccino la caccia con certi pesci grandi detti baccalai.
Ma a questa ultima opinione è contraria la navigazione che fece il molto prudente e pratico dell'arte del navicare Sebastian Gabotto viniziano. Costui essendo piccolo fu menato da suo padre in Inghilterra, dapoi la morte del quale trovandosi ricchissimo e di grande animo, deliberò, sí come avea fatto Cristoforo Colombo, voler ancor lui scoprire qualche nuova parte del mondo. E a sue spese armò duoi navili, e del mese di luglio si misse a navigar tra il vento di maestro e tramontana, e tanto andò avanti che col quadrante vedeva che la Tramontana gli era levata gradi 55, dove trovò il mare pieno di pezzi grandissimi di ghiaccio quali andavan in qua e in là, e li navili andavano a gran pericolo se urtavano in quelli. In quel luogo allora non si vedeva la notte simile alle nostre, perchè quel spazio che è dal tramontar del sole al levare era chiaro come da noi si vede la state alle 24 ore. E per cagione di detto ghiaccio gli fu forza tornarsene adietro, e torre il camino per la costa, la qual scorre prima per un spazio verso mezodí, poi si drizza verso ponente, e perchè in detta parte trovò una moltitudine di pesci grandissimi che andavan insieme appresso li liti, e intese per cenni dagli abitatori che gli chiamano baccalai, chiamò questa la terra delli Baccalai. Con li quali abitatori avuto un poco di commercio, gli trovò esser di buono intelletto, e che andavan coperti tutto il corpo di pelli di diversi animali. In questo luogo, e poi nel resto della navigazion che fece dietro a questa costa verso ponente, disse che sempre trovava l'acque correr verso ponente, alla volta del golfo che abbiam detto che fa detta terra ferma.
Né voglio che lasciamo adietro un giuoco, qual referí detto Sebastian Gabotto aver veduto insieme con tutti li compagni con lor gran piacere, che molti orsi che si trovano in quel paese venivan a far la caccia di questi pesci baccalai in questo modo. Appresso li liti sono molti arbori grandi, le foglie de' quali cascano in mare, e li baccalai a schiere le vanno a mangiare. Gli orsi, che non si pascon d'altro che di questi pesci, stanno in agguato sopra li liti, e come veggono appressarsi le schiere di detti pesci, quali sono grandissimi e hanno la forma di tonni, si lanciano in mare abbracciandosi con un di loro, e appiccandogli l'unghie sotto le squamme non gli lascian partire, e si sforzan di tirargli su 'l lito. Ma li baccalai, ch'hanno gran forza, gli girono intorno e tuffano in mare, di maniera che essendo questi duoi animalacci insieme è grandissimo appiacere vedere ora un sotto il mare, ora l'altro di sopra, sbuffando l'acqua in aere. Pur alla fine l'orso tira il baccalao al lito, dove se lo mangia. Per questa causa si pensa che tale moltitudine d'orsi non faccino dispiacere agli uomini del paese.
Del giunger del governator Petraria all'isola detta Forte, e poi al Darien, e l'accetto fattogli per Vasco Nunez. Del cacique Caretta. Come esso governatore ordinò si facessero tre ridutti per facilitar il cammino del mar del Sur. Delle ruberie di Giovanni Aiera mandato per il governator per passar il mar di mezzodí.
Ma torniamo al governator Petraria, qual dalla correnzia del mare essendo transportato di là dal porto di Cartagenia, e alcune isole de' canibali, e l'isola di San Bernardo, e tutta la costa di Caramairi, giunse all'isola detta la Forte, gradi 9 sopra l'equinoziale; dove smontato, tutti gli abitanti fuggirono alle selve e abandonorono le case, nelle quali li nostri trovorono tra l'altre cose alcuni canestri fatti di canne marine, tessuti con tanta arte che piú non si potria dire, quali eran pieni di sale bianchissimo, il qual portano quelli popoli in terra ferma, e fanno baratto con altre cose le quali fanno lor di bisogno. Detta isola ha molti luoghi dove il sale da se medesimo si fa, come abbiam detto di sopra. Essendo quivi surte le navi, si viddero non molto lontano sopra certi scogli infiniti uccelli grandi con un gozzo rosso avanti il petto, tanto grande che vi poteva star dentro uno staio di grano. Delli quali un volò sopra la nave capitana e lasciossi pigliare, qual per esser bellissimo fu portato a torno a mostrare per tutta l'armata, ma dopo alcuni giorni morí.
Da questa isola finalmente arrivorono al golfo d'Uraba, e alla città di Santa Maria Antica del Darien, dove venne loro incontro tre miglia Vasco Nunez con tutto il popolo, e gli ricevette con grandissima allegrezza, e furono alloggiati in tutte le case piú commodamente che fu lor possibile; e la prima sera ebber da cena pan di maiz e iucca, con pesci salati e infinite frutte del paese, ma il giorno seguente, discaricate le farine, biscotto e carni salate, furon partite a casa per casa secondo il numero degli abitanti. Poi si ridussero a consiglio con il nuovo governatore piú di quattrocento degli abitatori del Darien, dove da Vasco Nunez, come capo, fu narrato il successo particolarmente del viaggio fatto nel scoprir il mar del Sur, e le ricchezze grandi ch'avean inteso in quelle isole e parti, e il modo che si doveva tenere per potervi andare commodamente. Le quali cose intese dal governatore, fu laudato grandemente Vasco, dicendo che meritava la grazia del re catolico d'esser tenuto fra li cari suoi capitani, e gli fece grandissime carezze.
In questo tempo il cacique Caretta, signor di Coiba, inteso il giunger del signor governatore, volse andarlo a visitare, e portogli molti presenti, tra li quali fu una veste con le maniche, non troppo lunga, tutta lavorata di penne d'uccelli di varii colori, e due coltre grandi fatte pur di dette penne, le quali d'ogni banda parevan di seta. Il governator gli donò all'incontro una veste di raso e un giuppone con una baretta di velluto, che gli furono molto care. Dimorò Caretta con il governatore tre giorni, sempre sedette alla sua mensa e fu servito con li cibi preparati al modo nostro, delli quali sopra gli altri gli piacquero il nostro pane e il vino; e dicevano non aver mai mangiato la miglior vivanda, né bevuto la miglior cosa. Dapoi il desinare il governator faceva sempre sonar diverse sorti d'instrumenti di musica, e avendo il Caretta quelli uditi con grandissima attenzione, sospirando disse che gli cristiani avevano molti piú doni dal sole che non avevan loro Indiani, imperochè sí come avevan le saette del cielo nelle lor mani, con le quali quando vogliono ammazzano li loro inimici, cosí ancora hanno suoni di tanta suavità e dolcezza che potevan far tornar vivi li loro amici quando fussero morti.
Il governator, per fargli maggior onore, fece metter ad ordine un squadrone di gente a cavallo, tutti armati d'armi bianche con li cavalli bardati, e fece far loro una mostra avanti quello, della qual cosa restò molto stupefatto, vedendo la bellezza e destrezza di quelli che maneggiavano li cavalli. Fu menato poi sopra le nostre navi, le quali similmente con grande ammirazione vidde; a proposito delle quali detto Caretta disse che si trovava in quella provincia arbori grandissimi, e il legno delli quali è tanto amaro, che facendone navili li vermini, li quali vi sogliono nascere sotto quando stanno gran tempo in mare, per causa della detta amaritudine non vi nasceriano. E di questo n'avevano fatto prova nelle loro canoe, imperochè quelle che erano fatte di detti arbori, mai si trovavano corrose da' vermini. E appresso esservi altri arbori tanto venenati che solamente il fumo di quelli, abbrucciandone, ammazzavano l'uomo che lo sentiva. Detto cacique, stato con li nostri tre giorni, ben contento e satisfatto si partí.
Il governator Petraria, per scoprir piú che fusse possibile di questa terra ferma e far piú facile il cammino verso il mar del Sur, ordinò, con il parere e consiglio di Vasco, che subito fussero fatti tre ridotti, dove li cristiani potessero alloggiarsi sicuramente quando passassero per quel cammino. Il primo fece far nel paese di Comogro. Il secondo nella provincia di Pocchorrosa. Il terzo in quella di Tumanama, e a ciascun d'essi pose sufficiente guardia. Mandò diversi capitani, altri ad una parte e altri ad un'altra, e prima mandò un Giovanni Aiora, gentiluomo di Cordova, molto onorato, con molti uomini sopra due caravelle, verso la costa del mare dove confina il paese di Comogro, per passare da quel luogo al mar di Mezzodí. Costui, smontato in terra, andato a trovar il cacique Carlo, che abbiam detto di sopra che fu battezzato da' nostri, cominciò a torgli per forza tutto l'oro e robe di casa che poteva trovare, né sazio di questo si misse a spogliare tutte le femine e uomini di quelli panni di cottone con li quali si coprivano le parti vergognose; e de lí partitosi, andato a diversi paesi di piú caciqui, tutti gli saccheggiava senza rispetto alcuno, di sorte che ovunque si sentiva la venuta di costui tutti fuggivano. Poi ch'ebbe fatte ruberie, dubitando d'essere punito dal governatore, se ne venne con alcuni suoi fidati verso il mare, dove sapeva trovarsi una caravella, e sopra quella ascosamente montato, con l'oro e robbe se ne fuggí, né di lui mai s'è saputo nuova alcuna.
Come Gasparo Morales, mandato dal governatore, pervenne all'isola delle perle, e superato dopo lunga battaglia il cacique di detta isola fece dipoi grande amicizia con lui, e donogli un canestro di perle, e battezzossi con tutta la sua famiglia, e fattosi tributario di pagar ogni anno al re catolico libre cento di perle. E come elle nascono.
Mandò similmente il detto governatore un Gasparo Morales a passar li monti verso il mar del Sur, e dettegli l'impresa di passar l'isola ch'è nel golfo di San Michele del detto mare, la quale si vedeva da' liti, e dicevan sopra quella nascer perle molto grosse, come da Vasco Nunez aveva inteso; e mandò con lui cento uomini, fra i quali erano alcuni di quelli che furono con il detto Vasco la prima volta che discoperse il detto mare. Costoro, passati li monti e giunti a' caciqui Tumacco e Chiappe, gli presentorono di varii doni, e dissero esser venuti per andare a subiugare il re dell'isola delle perle, che cosí allora la chiamarono, ancorchè d'altri sia stata chiamata l'isola dell'oro. Questi caciqui accettorno il detto Gasparo molto volentieri con tutta la sua compagnia, e fatta provvisione di lor vettovaglie, e delle barche che chiamano culche, passarono sopra l'isola. Ma per mancamento ch'avevano di culche, non vi poterono passare se non sessanta de' nostri.
Il cacique di questa isola, avendo inteso che i cristiani erano venuti nel paese di Tumacco e Chiappe, come vidde venir le culche per mare verso l'isola, se gli fece incontro con gran moltitudine d'Indiani armati di lancie e spade di legno, i quali gridavano "guazzavara guazzavara", che vuol dire alla guerra d'inimici. Con tanta ferocità e ardire assaltorono i nostri da diverse bande, che essendo tre volte stati ributtati sempre tornavano con maggior ardire ad assaltargli. Finalmente, essendone stati morti molti dagli schioppi, se ne fuggirono. Ma dopo questa rotta il cacique attendeva a mettere insieme piú gente che poteva, benchè fu persuaso dalli vicini, che lo confortavano che non volesse piú combattere con li nostri, ponendogli avanti agli occhi con lo essempio loro la ruina del suo stato se perseverasse, e mostrandogli l'amicizia delli cristiani avergli ad esser molto utile e gloriosa. E gli dicevano quel che a Poncha, a Pocchorrosa, a Chiappe e Tumacco fusse intervenuto, per aver voluto combatter con essi.
Finalmente costui, posate l'armi, venne incontro a' cristiani e menogli al suo palazzo, il quale era maravigliosamente edificato, e subito che furono entrati dentro presentò al governatore un canestro molto ben lavorato pieno di perle, la somma delle quali fu circa 110 libre, ad oncie otto per libra; e avendo avuto in cambio alcune filze di paternostri di vetro, specchi e sonagli, n'ebbe gran piacere, e ancora qualche scure, le quali stiman piú che i monti dell'oro. E perchè vedeano che' nostri lo stimavan molto, se ne rideano, e parea loro gran cosa che per un poco d'oro dessero una cosa sí grande e tanto utile, essendo le scure all'uso dell'uomo tanto necessarie.
Allegro adunque per la conversazion de' nostri, prese per mano i primi d'essi e gli menò alla piú alta parte del palazzo, dove era una torre dalla quale si potea veder tutto quel mare, e voltando gli occhi intorno disse: "Ecco qui questo gran mare". E dipoi mostrava la terra distendersi in infinito, e oltre a questo mostrò molte isole propinque e disse: "Queste tutte son sottoposte al nostro imperio, tutte felici e ricche, se voi chiamate quelle terre ricche le quali son piene d'oro e di perle. D'oro noi ne abbiam poco, ma di perle son pieni tutti questi mari vicini a queste isole. Di queste qualunche vorrete sarà vostra, purchè perseveriate in quell'amicizia che fra noi s'è cominciata. Io molto piú mi contenterò della utilità che avrò della vostra buona grazia, che delle perle. Per questo tenete per certo ch'io mai sarò per separarmi da voi". Queste e molt'altre parole furon dette fra loro, e volendosi i nostri partir di quel luogo vennero a questo patto, che questo cacique ciascuno anno mandasse un dono al re catolico di libre 100 di perle. Lui accettò la condizione e poco la stimò, perchè gli parve piccola cosa, né per questo si pensò esser fatto tributario.
È appresso questo signore, il paese del quale è sei gradi lontano dall'equinoziale, tanta copia di cervi e conigli che potevan li nostri di casa al lor piacere ammazzarne quanti volevano. Il pan di maiz e di radici e vino, con altri frutti del paese, è in questo luogo simile a quel di Comogro. Battezzossi costui con tutta la sua famiglia, e volle esser chiamato per il nome del governatore Pietro Aria, e perchè amichevolmente s'abboccorono insieme si spartirono nel medesimo modo, cioè avendo fatto insieme grandissima amicizia, e volse il cacique mandar molte delle sue culche in compagnia e aiuto delli nostri, acciochè piú commodamente potesser tornare in terra ferma, e lui in persona gli accompagnò infino al lito. Delle perle la quinta parte fu assegnata dipoi alli tesorieri del re, il restante fu diviso fra li compagni equalmente.
Fra queste perle che portò Gasparo Morales dalla detta isola, ne fu una grande come una noce mezzana, la quale fu messa all'incanto nel Darien, dopo molte contese di chi la dovesse essere, e fu comperata 1200 castigliani dal signor governatore per sua moglie signora Isabella Boadiglia, la qual, come è detto di sopra, era andata seco. Questi che ritornorono da detta isola non sanno referire altro del modo come nascono dette perle, se non che le ostriche che hanno perle grandi stanno in fondi grandissimi, e le altre minori piú vicine al lito. E assomiglian dette ostriche alle galline che abbin ova assai in corpo, che le mature mandano fuori e l'altre si ritengono fin che creschino. Il simile dicono delle dette ostriche, che quando le aprono trovan le perle grosse giacer loro vicine alla bocca, come che essendo mature volessero venir fuori, le picciole stanno nel fondo, nutrendosi per poter ancor loro con il tempo uscirsene. Il che veramente pensano che le ostriche faccino, e che le perle uscite nel profondo del mare, essendo tenere, sien mangiati dalli pesci.
Come Gonzalo Badaghiozzo e Ludovico Mercado capitani, andando al mar del Sur, saccheggiati i paesi di molti caciqui e raccolto grandissima quantità d'oro, pervenuto a un paese dove il cacique Parizza s'era posto in agguato con cinquemila Indiani, furono rotti con grande occisione, onde lasciato l'oro furono astretti ritornarsene al Darien.
Ma avendo detto a bastanza di Gasparo Morales, non lasceremo di dire del viaggio che fece lo sfortunato capitano Gonzalo Badaghiozzo, qual del 1515, al principio di marzo, con ottanta uomini fu mandato dal medesimo Petraria verso ponente, alla parte nominata Grazia di Dio, come s'è detto per adietro, la quale è gradi 14 sopra l'equinoziale.
Costui, giunto che fu al detto luogo, mai poté far tanto che alcuno delli caciqui vicini, quali tutti eran fuggiti, lo venisser a trovare; ancorchè per questo effetto usasse l'opera di molti Indiani, che mandar loro diversi presenti. E mentre che stava sopra queste pratiche giunse un altro capitan detto Ludovico Marcado con 50 compagni. Costoro, fatto consiglio di quel che fusse da fare, deliberorono di passar li monti e andare al mare del Sur, e preso il cammino, come furono alle sommità de' monti, trovorono il paese d'un cacique detto Iuanna, appresso il quale intesero esser molto oro, e che in tutti li fiumi vicini, quali vanno a sboccare nel detto mare, si trovava oro nella rena. Ma il cacique, come sentí il venir di costoro, subito se ne fuggí e portò seco tutto l'oro, per il che li nostri gli saccheggiorono tutto il villaggio.
In questo luogo viddero alcuni schiavi del detto cacique, quali avevano segnato il viso di color nero e rosso; e intesero che con stili fatti d'ossi facevan loro alcuni buchi nel viso, e messavi dentro certa polvere d'erba, venivan loro detti segni quali piú non si potevan levar via. Li detti capitani menorono via detti schiavi carichi della preda fatta. E allontanatisi da quel luogo dieci miglia, trovorono un cacique vecchio che gli aspettava, e fece loro buona ciera. Ma non trovorono oro, perchè non molti mesi avanti, per la guerra fattagli da un cacique vicino, era stato saccheggiato. In tutto questo paese intesero che si trovava oro, e viddero la terra molto grassa e piena d'arbori carichi di frutti e fiori. Ma partiti del detto luogo camminorono alcune giornate per paese diserto e non lavorato.
E un giorno viddero al traverso venire duoi Indiani carichi, quali presi trovorono che ciascuno avea un sacco pieno di pane di maiz, e dimandati donde venivano, dissero che erano pescatori d'un cacique detto Totonoga, qual abitava sopra il mare, e che lui gli avea mandati con detti sacchi pieni di pesce ad un altro cacique che abita fra terra, detto Periquete, con il qual avean barattato li pesci con pane. Con la guida di detti Indiani li nostri arrivorono al cacique Totonoga, il paese del quale è alla parte di ponente del golfo detto di San Michele, dove arrivati il detto cacique venne loro incontro, menato da alcuni schiavi Indiani perciochè gli era cieco. Entrati li nostri in casa, essendo stato presentato loro da mangiare, cominciorono a dimandar oro, minacciando d'ammazzarlo se non ne dava assai. Per questo il cacique gli dette oro in diverse cose per valuta di seimila castigliani, e tra questi un grano cosí come l'avean trovato nelli fiumi, di valuta di duoi castigliani.
Partiti di qui, seguendo il lito, arrivorono ad un cacique detto Taracura, al qual tolsero oro per valuta d'ottomila castigliani; ma volendo andar a far il simile ad un suo fratello detto Panome, non potetter farlo, perchè costui se ne fuggí e portò seco l'oro. Di questo luogo avendo saccheggiato il tutto, si partirono, e giunti dopo dodici miglia ad un altro cacique detto Cheru, il quale, avendo inteso la furia che li cristiani facevano per avere oro, per paura ne dette loro quanto n'avea, che fu di valuta di quattromila castigliani. Questo Cheru avea certi luoghi appresso il mare dove gli Indiani facevan sale bianchissimo e lo portavan a barattare in diversi paesi.
Andando cosí li nostri saccheggiando senza alcun rispetto tutti li paesi, e trovandosi aver raccolto oro in tanta quantità che per portarlo, e per le vettovaglie, menavan seco da quattrocento Indiani schiavi, s'abbaterono finalmente nel paese d'un cacique detto Pariza, quale intesa l'insolenzia de' nostri si messe in agguato con forse cinquemila Indiani arcieri a canto una strada posta fra duoi colli, tutti vestiti di selve e arbori spessissimi. Li nostri, giunti alla strada, non dubitando di cosa alcuna entrorono dentro, e andati circa un miglio subito furono assaltati da ogni canto da tanta moltitudine di freccie e dardi che non poterono né mettersi in ordinanza né coprirsi con gli scudi, e settanta di loro furono subito morti. Gli altri, strettisi insieme, se ne tornorono adietro, lasciando tutto l'oro e schiavi che avean guadagnato, e sconsolati e dolenti, sopportando grandissimi disagi nel cammino, giunsero al luogo detto la Grazia di Dio, dove avean li navili. E sopra quelli montati, mezzi morti di fame se n'andorono al Darien, dove, narrato ciò che gli era intervenuto, il governatore deliberò di andar lui medesimo a trovar questo cacique Pariza e far la vendetta delli nostri, ma essendosi ammalato differí l'andata sua ad un altro tempo.
Come Giovanni Soliseo capitano, per ordine del re catolico, passato il capo di S. Agostino, navigando a canto la costa di terra ferma tanto che 'l polo antartico se gli levava gradi trenta, vedute assai case d'Indiani, smontato nel lito con alquanti uomini, furono circondati e morti, arrostiti e mangiati da' canibali; e il simile intravenne a Giovanni Ponzio mandato dal re catolico.
Non mi par di restar di narrar quel che scrisse al re catolico un Corales dottor di legge, qual era ufficiale di sua maestà nel Darien, che essendogli stato menato un Indiano, qual diceva esser fuggito dal suo patrone di paesi molto lontani verso ponente, un giorno che 'l detto Corales leggeva una lettera, questo Indiano con grande admirazione corse a vederla, e per via d'interpreti disse che suo patron e tutti li popoli di quelli luoghi leggevan ancor loro lettere, e avean libri come noi, ma fatti di foglie d'arbori cucite insieme, e che tutte le loro città eran serrate con muraglie di pietre grossissime, e andavan vestiti tutto il corpo; costui non seppe dire altro.
In questo medesimo anno del 1515 il re catolico mandò con tre navili un capitan detto Giovanni Solisio, con ordine che passato il capo di Santo Agostino, qual è di là dall'equinoziale gradi sette, scoprisse quella costa verso mezzodí, la qual va scorrendo anche verso ponente ed entra nelle parti di sua maestà.
Costui, passato detto capo, andò navigando tanto a canto la costa di terra ferma, che 'l polo antartico se gli levava gradi trenta, vedendo ora monti ora fiumi grandissimi. Un giorno, vedute appresso il lito assai case d'Indiani, li quali con tutte le femine e loro figliuoli correvan al lito a veder passar le navi de' nostri e con cenni mostravan di voler far loro presenti mettendo alcune cose sopra il lito; detto capitano deliberò di voler aver cognizione di costoro, e fatta buttar in acqua la barca della nave, con tanti uomini quanti vi poteron stare smontò sul lito. Gl'Indiani, che non desideravan altro se non che li nostri smontassero, vedendogli cosí bianchi, per potersegli mangiare, avevan messo una gran moltitudine d'Indiani arcieri in agguato dietro ad una collina, e come li nostri s'allontanorono un poco dal lito, costoro gli circundorono con tanta furia di freccie e dardi che in un momento gli fecero tutti morire, né valse che quelli delle navi scaricassero l'artigliarie, perchè, toltigli in spalla, se gli portorono sopra un colle, non tanto lontano che quelli delle navi non vedessero ciò che facevano. Questi Indiani, avendo levato via alli morti tutte le teste, braccia e piedi, mettevan li corpi in alcuni legni lunghissimi e arrostivangli, e tanto era il desiderio che avean di mangiarsegli, che mezzi crudi e insanguinati gli levavan dal fuoco e tra loro se gli mangiavano.
Questo spettacolo orrendo e spaventoso avendo veduto li nostri dalle navi, con maggior prestezza che poterono voltorono adietro le prue; e giunti al capo di Santo Agostino, avendo veduti non molto lontano dal lito molti boschi di verzini, smontati e caricate le navi se ne tornorono di molta mala voglia in Spagna.
La medesima disaventura accadde ad un altro capitan detto Giovanni Ponzio, qual similmente nel detto anno fu mandato dal re catolico con alcune caravelle alla destruzione de' canibali. Costui, trovandosi in corte di sua maestà, e udendo tutto il giorno nuove di quelli che venivan dall'Indie, e come li canibali che abitano l'isole facevan gran danni a qualunque vi s'appressava, faceva gran bravarie, dicendo che se lui avesse carico e modo di far questa impresa in pochi giorni gli distruggerebbe. Per il che il re catolico gli armò due caravelle, con le quali messosi in cammino arrivò ad una di dette isole che si chiama Guadaluppa. Come li canibali lo viddero venire si misero in agguato, e non si mostrorono mai fin che questo capitano insieme con alcuni compagni smontati in terra appresso un fiume, per farsi d'alcune femine che avevan seco lavare li loro panni. Come li canibali gli viddero allontanati dal lito gli furono subito intorno, e prima ammazzate le femine con molti delli compagni, fecero che 'l capitan, ferito ancor lui d'una freccia, con duoi di loro soli fuggisse alli navili, dalli quali viddero che li canibali arrostirono tutte le femine e compagni morti e quelli si mangiorono. Questo capitan con la sua caravella non si sa dove capitasse, perchè dapoi non se n'ebbe novella alcuna. L'altra caravella si tornò in Spagna.
Come, nata inimicizia tra il governatore e Vasco Nunez, si partí con trecento uomini per andar ad abitar presso al mar del Sur, e fatto con gran prestezza quattro caravelle, il detto governatore, mandatolo a chiamare, lo fece miserabilmente morire.
Dapoi non molti mesi che 'l governator Petraria avea mandato diversi capitani con gente a scoprir nuovi paesi, come s'è detto, giunsero lettere al Darien del re catolico, per le quali s'intese la satisfazion grande che sua maestà avea ricevuto delle operazioni fatte per Vasco Nunez, nel discoprir del mar di Mezzodí; vennero ancor patente come l'avea creato capitano delle genti della città di Santa Maria Antica del Darien. Le quali lettere furono lette avanti tutto il popolo, perchè erano piene di laudi di Vasco. Il qual, vedendosi aver recuperata la grazia del re e che ancor lui era capitano di sua maestà in quelle parti, trovandosi assai oro e molti partigiani di quelli della detta città, cominciò a non far piú quella tanta stima del governator Petraria che per adietro avea fatta.
Similmente, il governatore, conoscendo il mal animo di costui, dimostrava di non volerlo tolerare. E dubitando li principali del Darien che dall'inimicizia di questi duoi non nascesse qualche tumulto, persuasero ad un frate di San Francesco, gran predicatore, che si trovava in quel luogo, che si mettesse di mezzo per accordargli; il qual parlò molte volte con l'uno e con l'altro, proposti diversi partiti, e tra gli altri offerse a Vasco Nunez di fargli dar per moglie una figliuola del governatore. Ma l'alterezza dell'animo ch'era in ciascun di loro non gli lasciò accordare. Per la qual cosa Vasco Nunez, volendo schivar ogni scandalo che potesse advenire, deliberò partirse e andar ad abitar sopra il mar del Sur. E messo insieme tutto l'oro e robbe sue menò seco 300 delli suoi fidati del Darien; quali molto volentieri lo seguitorono, sí per non star sotto il governatore, sí ancor perchè speravan farsi ricchissimi. E con molti schiavi indiani, che gli portorono dietro tutte le lor robbe e vettovaglie, in pochi giorni giunse al paese del cacique Chiappe e Tumacco, dove fu ricevuto con tanta allegrezza che piú non si potria dire.
Vasco, ancor che con speranza di far una città appresso li liti del detto mare, in qualche bel e commodo sito, avesse condotti li sopradetti 300 suoi fidati, volse pur fabricar quattro caravelle e con quelle andar scorrendo per detto mare, tanto che arrivasse all'isole dove nascon le spezierie, giudicando di far con questo suo viaggio grandissimo beneficio al re catolico. E fece far dette caravelle con l'aiuto delli detti caciqui, quali gli mostrorono boschi d'arbori grossissimi e pece assai di pini e altri simili arbori, e fu tanta la solicitudine delli maestri che menò seco Vasco, aiutati in molte cose dagl'Indiani di Chiappe e Tumacco, che in poco tempo furon fabricate le quattro caravelle, tutte confitte con chiodi di legno che non eran manco forti che se fussero stati di ferro. Mentre che le dette caravelle si fabricavano, Vasco fece condur dal Darien molte tele di cottone per far vele, e per le sartie presero l'erba del sparto e alcune radici d'erbe molto flessibili, le quali gli Indiani usano a questo ufficio.
Dapoi alcuni giorni che dette caravelle furon fornite, avendo presentito Vasco che molti delli suoi compagni andavan mormorando che non volevan esser condotti sempre alla ventura, senza saper dove andassero, e che volevan una volta riposare, e godere quel che avevan guadagnato senza travagliar di continuo, per quietargli e fargli piú pronti a seguitarlo ovunque andasse gli chiamò tutti insieme, alli quali parlò in questo modo: "Carissimi compagni, con la fortezza e pazienzia delli quali io ho espedito cosí gloriosa impresa, come è stato lo scoprir di questo mare, voi vedete la grande insolenzia e mali modi del governatore, qual, non contentandosi delli titoli e autorità che gli ha dato la maestà del re sopra la terra ferma dell'Indie, vorria ancora che io, il quale per le fatiche mie sono stato fatto da sua maestà capitano delle genti del Darien, gli fusse servitore, e comandarmi come a uno schiavo indiano. Il che veramente, ancor che mi fusse parso grave, pur pazientemente l'averei sopportato, quando in questo nostro obedire fusse stato il beneficio del re. Ma l'animo altiero e avaro di costui non era per questo per acquietarsi, perciochè avendo inteso il tanto oro che da noi con tanti sudori e fatiche era stato guadagnato, voleva, trovata questa occasione d'inobedienzia, spogliarci di quello insieme con la vita; e per questo siamo stati astretti, volendo viver sicuri, di partirci dal Darien e venir a questo alto mare, dove ancora, se non eleggiamo qualche luogo lontano e sicuro dove non possa facilmente trovarci, sappiate certo che non staremo sicuri dall'avidità di costui. E però, avendone il nostro Signor Dio preparato il modo con il quale possiam uscir di questo sospetto, che sono queste quattro caravelle, messe ad ordine con tutte le vettovaglie da questi caciqui nostri amici, montiamoci sopra allegramente, e seguitiamo il camino dove la maestà divina ne guiderà. Voi vedete la grandezza di questo mare e avete inteso l'infinite ricchezze d'oro e perle che si trovano appresso gli uomini che ci abitano intorno; a noi sta elegger quella provincia che sia d'aere temperato, e di sito atto a produrre ciò che fa di bisogno al viver nostro, e in quella fabricare una città dove possiamo allegramente, quel tempo che ci resta di vita, godere le ricchezze che abbiam guadagnate. E non dubitate che sí come fin ad ora Iddio in ogni impresa non c'è mancato, ma sempre ci è stato favorevole, cosí per l'avvenire non facci il medesimo. E però con lieto animo seguitatemi, perchè vi guiderò in luogo dove il nostro Signor Iesú Cristo prima, e poi la maestà del re sarà servita". Finito che ebbe Vasco, tutti li compagni ad una voce dissero che ovunque andasse mai erano per abandonarlo.
Queste parole subito furono scritte al governatore per alcuni suoi servitori, quali ascosamente avea fatto andar fra quelle genti del Darien. Quale appresso, avendo inteso il fabricar delle quattro caravelle, dubitando dell'animo grande di Vasco, e che con questa fizione d'andar a trovarsi un luogo per fabricarvi una città, non discoprisse qualche paese ricchissimo, e crescesse in maggior reputazione appresso il re, togliendoli la gloria che lui desiderava avere per trovar nuovi paesi, avuta questa occasione ordinò che per gli ufficiali regii fusse formato un processo contra il detto; e mandò quattro de' suoi primi capitani a trovar Vasco, e fargli intendere che lui insieme con quattro de' principali compagni, lasciate le caravelle, sotto pena della disgrazia del re, se ne venissero al Darien, perchè avea trovato che s'erano ribellati da sua maestà.
Vasco, intesa questa cosa, stimando l'onor suo sopra il tutto né volendo quello con la inobedienza macchiare, sapendo ch'era innocente, senza troppo pensare con parte de' compagni se ne andò al Darien, dove non fu prima giunto che per ordine del governatore gli fu posta una catena grossa al collo e menato prigione. Il simil fu fatto a quattro de' detti suoi compagni. E gridando Vasco per che causa gli era fatta questa villania, gli fu risposto perchè s'era voluto ribellare dal re, avendo parlato a' compagni come avea fatto. E negando Vasco d'averli dette quelle parole, se non a fine ch'andassero piú volentieri seco a discoprir nuovi paesi per beneficio di sua maestà, mai glielo volsero credere, anzi fu giudicato che gli fosse tagliata la testa in prigione. Dove il giorno dipoi, essendo giunti gli essecutori, Vasco dimandò di grazia che avanti che 'l morisse fussero chiamati sei de' principali ufficiali regii, alli quali disse l'animo e desiderio suo grande ch'avea avuto sempre di far servizio al re catolico, e che questo l'avea condotto a tanto miserabil fine, il qual non si dovea già da lui sperare dopo tante fatiche e disaggi patiti. E che di due cose si doleva, l'una che senza causa e innocentemente fusse fatto morire, l'altra che la maestà del re con sua morte fusse privata di tanto servizio, che sperava fargli. Ma che la morte lui sopportaria constantemente, sí come con deliberato animo, in molti pericoli dove molte volte l'aveva veduta manifesta, non l'aveva voluta temere. Ma che pregava Iddio che concedesse a sua maestà nell'avenir un servitore in queste parti di cosí grande animo e affezione al beneficio di quella, come lui era stato.
Queste parole furono di poco momento appresso i detti ufficiali, quali volsero essequire la sentenza del governatore senza altro indugio. Perchè, levatogli la catena dal collo e fattolo inginocchiare, gli fu tagliato la testa; poi fu messo il corpo sopra la piazza del Darien, per spettacolo di tutto il popolo, dove non passò alcuno, sí degli abitatori della città come delli venuti nuovamente con il governatore, che potesse ritenere le lagrime, pensando che un uomo di tanta grandezza d'animo, accompagnato da infinita liberalità, dopo tante fatiche e stenti patiti avesse fatto sí miserabil fine.
E veramente chi legge l'istorie antiche e moderne, dove si narra la vita di eccellenti e virtuosi capitani, debbe molto maravigliarsi che pochi si sono trovati che, dapoi che la fortuna ha lor concesso espedire qualche famosa e degna impresa, quella non faccia lor patir qualche crudel e miserabil morte.
Il governator Petraria, dopo la morte di Vasco, lasciata la moglie nella città del Darien, passò li monti, e arrivato al mar del Sur montò sopra le caravelle fatte per Vasco, dove essendo navigato alcuni giorni gli sopravenne tanta fortuna di mare che, rotte l'antenne e squarciate le vele, scorse per due giorni e notte per perso; e finalmente dette sopra un lito dove era un villaggio d'Indiani chiamato Panama, dove essendo smontato e veduto il sito atto e bello a fabricarvi, perchè intese ch'era il piú vicino luogo nello stretto di questa terra ferma del mar del Sur a quel del Nort, fabricò una città, la quale dapoi è venuta una delle famose città dell'Indie.
Minuta descrizione dell'isola Spagnuola, e de' primi abitatori suoi, e in quante provincie sia divisa; de' fiumi, laghi, spelonche, e di certi uomini salvatichi nell'ultima parte di quella abitanti.
Sí come debbono i buoni marinari, i quali non vogliono riportar biasimo della loro navigazione, poi che sono stati in diverse parti del mondo e hanno veduti diversi paesi e conosciute diverse nazioni, voltar la prua de' loro navili e tornarsene al porto donde prima partirono, cosí mi pare dover fare nel fine di questo primo libro della mia istoria, e però avendo io cominciato dall'isola Spagnuola, e scorsa tutta la costa di terra ferma dell'Indie occidentali, tornerò alla medesima isola, la quale è stata causa di questa mia narrazione, e ancorchè io l'abbia in qualche parte descritta secondo ch'è accaduto, pur, acciochè se n'abbia miglior notizia, fattane la figura, la descriveremo particolarmente con quella diligenzia che a noi sarà possibile.
L'isola Spagnuola adunche è posta fra la linea dell'equinoziale e il tropico del Cancro, e distendesi per longhezza da levante a ponente circa 500 miglia, e da mezodí a tramontana in alcune parti è larga miglia 300; la parte di mezodí, dove è la città principal detta San Domenico, è gradi 18 sopra l'equinoziale, la parte verso tramontana gradi 20 e mezo. Chi fussero li primi che l'abitassero si narra in questo modo, che trovandosi nell'isola detta Matitina, non molto lontana, due fazioni, vennero alle mani fra loro e fu forza alla parte piú debole fuggirsene con le mogli e figliuoli, e cosí con canoe, che abbiam detto esser lor barche, se n'andorono alla ventura per mare; pur veduti li liti della detta isola, smontorono in quella parte, la qual chiamano Cahonao, dove corre un fiume grosso detto Bahaboni, qual ha nella sua foce una isoletta sopra la quale è fama che li primi abitatori fabricassero la prima casa, la qual chiamano fino a oggi Camoteia, e l'hanno in tanta reverenzia che piú non si potria dire, perciochè vanno di tutta l'isola sí gli uomini come le donne a visitarla per devozione.
Giunti sopra l'isola e vedendola grandissima, né sapendo dove la terminasse, pensavano che quella fusse tutto il mondo, né che il sole scaldasse altra terra oltra quella e l'isole vicine, e però la chiamarono Quizqueia, perchè quizquei vuol dir in lor lingua il tutto. E intrativi poi fra terra, come viddero alcuni altissimi monti con rupe aspere la chiamorono anche Haiti, perchè haiti vuol dir aspro; gli posero ancor il terzo nome Cipanga per cagion di certi monti, simili ad alcuni monti che nell'isola Matitina chiamano Cipangi; ma li nostri la chiamorono Spagnuola.
Questa isola ha li giorni tutto l'anno quasi eguali, e quando il sole è nel tropico di Cancro non si altera il giorno a pena un'ora. È molto temperata d'aere, perciochè non vi è caldo né freddo eccessivo, ancora che in alcune parti dove sono li monti altissimi sia freddo; ma questo accade per causa de' detti monti. Si veggono di continuo in tutte le parti verdissimi gli arbori carichi di fiori e di frutti, né mai cascono le foglie se non nascendo le nuove. Tutte l'erbe d'orto da mangiare, e tutti gli arbori fruttiferi che vi sono stati condotti di Spagna, vengono in quella perfezione che nel seguente libro si dirà, e il medesimo dico degli altri animali, come buoi, cavalli, ecc. Il formento, avendone seminato in molti luoghi, trovano che risponde meglio a seminarlo sopra colline e monti, dove sia alcune volte freddo e la terra non cosí grassa, perchè seminandolo al piano è tanta la grassezza del terreno che divien piú longo con la paglia che appresso di noi la canna del sorgo; e non fa tanti grani nella spiga, ma ne' monti la spiga è grossa come è il braccio dell'uomo, tutta piena di grani che numerati passano duoimila. Ma è opinione, appresso quelli che sono andati di Spagna in questa isola e altre vicine, che mangiando pan di formento o pan di iucca, smaltiscono piú facilmente il pan di iucca, ancorchè non sia cosí suave al gusto.
Ma venendo alla particolar descrizione delle parti dell'isola, ancorchè di sopra abbiam detto che l'è divisa in quattro parti da quattro gran fiumi, che descendono da altissimi monti, cioè da levante dal fiume Iunna, da ponente Altibunico, da mezzodí Nabia e da tramontana Iacche. Pur sono venuti dapoi molti capitani e persone d'intelletto che si sono voluti informar piú particolarmente dagli abitatori di quella, e la dividono in cinque provincie principali. E cominciando dalla parte verso levante, dicono quella chiamarsi Caizcimu, che in lingua dell'isola Spagnuola vuol dire fronte, over principio; qual provincia confina al mezzodí co 'l fiume Ozama che passa per le città di San Domenico, e da tramontana con li monti altissimi detti Haiti per la sua asperità. La seconda è detta Huhabo, qual è tra li monti e un fiume detto Iaciga. La terza, Caiabo, abbraccia tutto lo spazio ch'è tra Cubaho e il fiume Iacche, e va fino alli monti Cibaui, dove è tanta grande copia d'oro, nelli quali nasce il fiume Neyba, che va a sboccare nel mar verso mezzodí. La quarta, detta Bainoa, comincia da' confini di Caiabo e si slunga verso tramontana, dove è il fiume detto Bagaboni, dove abbiam detto che fu fabricata la prima casa. Tutto il resto verso ponente occupa la provincia detta Guaccaiarima, perchè nella lor lingua caiarima vuol dir le natiche, e gl'Indiani tengono questa ultima parte dell'isola per la piú stretta, gua è l'articolo che in quella lingua appiccano a tutti li nomi propri, come è Guarionesio, Guaccanarillo. Ma lasciando li nomi a parte, diciamo di qualche luogo particolare, degno d'essere inteso.
Nella provincia Caizimu è un altissimo monte mezzo miglio lontano dal mare, qual ha una spelonca grandissima, l'entrata della quale s'assomiglia ad una porta d'un grandissimo palazzo. In questa spelonca si sentono cadere fiumi, con tanto romore e strepito che si sente di lontano cinque miglia, e chi va a dimorarvi appresso alquanto spazio diventa sordo. Questi fiumi fanno un grandissimo lago, dentro al qual sono alcuni bollori e rivolgimenti d'acque di continuo, e sí grandi che chi v'entrasse dentro sarebbe subito inghiottito. Perciochè si pensa che dette acque, dapoi cadute in quel luogo, siano inghiottite da altre caverne della terra. Nella parte di sopra di questa spelonca, secondo che per l'entrata si può vedere, è molto alta, e si veggono di continuo nebbie che nascono della umidità de' bollori di quelle acque. Sopra la sommità d'alcuni monti altissimi per mezzo la città di San Domenico, ma distante da quella miglia sessanta, è un lago, al quale per l'asprezza della strada con gran difficultà si può andare. Pur li nostri, che non potevano star oziosi, lo volser vedere, dove giunti essendo al principio del mese di giugno ebbero freddo, e trovorono oltra tutte l'altre erbe infinite felci, e di quelle spine che fanno le more per le siepi, le quali non si trovano nelli piani dell'isola.
Questo lago è d'acqua dolce, pieno d'infinite sorti di pesci, delli quali li nostri presero assai avendoli serrati con frasche e foglie in un seno che fa il lago in un monte vicino. Detto lago gira circa tre miglia, né però di quello sbocca alcun fiume, essendo li monti all'intorno altissimi, dalli quali si veggono corrervi dentro infinite fontane d'acqua chiarissime, con le ripe piene di molte erbe, essendo le altre parti di detti monti orride e sassose. Sopra questa isola in molte parti sono assai laghi d'acque dolci, alcuni di salse, e d'acque amare, come quel che è nella provincia di Bainoa, qual è di lunghezza di trenta miglia, e largo dove quindici e dove dodici, e si chiama dagli Indiani Haguey Gabon; ma li nostri lo chiamorono il mar Caspio, perchè correndovi dentro infiniti fiumi, nondimeno da questo non nasce alcun fiume. È opinione che per caverne di sotto terra v'entri il mare, per trovarvisi dentro molti pesci marini; fa questo lago fortune grandi, e molte volte affonda molte canoe con tutti gl'Indiani, alli quali, quando egli è turbato, non giova il saper notare, perchè esso gli inghiottisce con le canoe insieme, né mai s'è veduto che alcun che vi sia annegato dentro sia stato buttato dipoi dall'onde in sul lito.
In mezzo è un'isola detta Guarizacca, dove stanno molti pescatori indiani che prendono de' detti pesci e gli seccano. Sonvi duoi altri laghi salsi ma piccioli; non troppo lontani da questi sono altri laghetti d'acque dolci. Tutti questi laghi sono in una valle grandissima, la qual va da levante a ponente per lunghezza piú di cento miglia, e per larghezza, dove è piú larga, sono venticinque miglia; ha da una banda li monti detti Daiguani, dall'altra Caiguani. Non troppo lontano dalla detta è un'altra valle lunga circa dugento miglia, qual si chiama Maguana, dove è un bellissimo lago d'acqua dolce, non troppo grande, appresso del quale ha lo stato suo il cacique Caramatexio, e il suo palazzo, con infinite abitazioni d'Indiani.
Costui, dilettandosi d'andar a pescare, avea sempre in casa le maggiori e piú forti reti che si trovassero in tutto quel paese. E avendo, un giorno ch'egli era andato sopra il lito del mare, veduto prender dalli suoi pescatori un delli pesci detti manati, li quali, ancorchè venghino molto grandi, pur questo allora era piccolo, lo fece portar a casa vivo e buttar nel lago vicino, dove ogni giorno gli dava del pan di maiz e iucca, di modo che divenne tanto mansueto che veniva ogn'ora che lo chiamavano a pigliare il cibo che con la mano gli porgevano, lassandosi maneggiar tutto; e alcune volte, se qualcuno voleva passar dall'altra banda del lago, si lasciava cavalcare e lo conduceva dove voleva. Questo pesce è molto brutto a vedere, perchè ha il corpo grosso a modo d'animale di quattro piedi; non ha piedi, ma invece di quelli alcuni ossi grossi e duri che gli spuntano fuori del corpo, qual è coperto di squame durissime; ha la testa di bue, nel muoversi è pigro. Dicono che la carne è suavissima al gusto, e miglior di qualunque altro pesce. Questo pesce cosí piacevole e mansueto fu tenuto gran tempo in quel lago, con gran piacer di ciascuno che lo vedeva, perchè da ogni parte dell'isola andavan molti a vederlo chiamare e traiettare persone da una all'altra riva del lago. Ma essendo un giorno venuto un uracan grandissimo, cioè tempesta con vento e pioggia, di sorte che molti fiumi corsono grossissimi dalli monti vicini, e feceno che detto lago si gonfiò in modo che l'acque di quello corsono fino al mare, allora il pesce manati fu menato di nuovo in mare, né piú si poté vedere.
Qui non voglio distendermi piú in numerare le valli, monti, fiumi e li nomi loro, che saria cosa lunga e di tedio alli lettori; solo dirò d'alcuni, e massime del fiume detto Bahuam, qual passa per mezzo d'un paese detto Maguana della provincia Bainoa. Questo fiume nasce a' piedi d'un monte altissimo e corre tutto salso per molte miglia, fin che gli sbocca in mare, ancorchè in quello caschino molte fontane d'acqua dolci. È opinione che detto fiume passi di sotto li monti Diagoni, che sono in detta provincia di Bainoa, lontani dodici miglia dal lago salso nominato il mar Caspio. In questi monti cavando si trova il sale durissimo e chiaro come cristallo, del quale si servano gl'Indiani fra terra, avendo carestia di quello che si fa appresso il mare.
Nella sommità delli monti Cibaui, quali sono altissimi, dove abbiam detto che si cava l'oro, e che sono quasi nel mezzo dell'isola, nella provincia detta Caiabo, è un piano detto Cotohi lungo miglia 25 e largo 15; quale, ancora che sia altissimo e che di sotto quello pare che si vegghino le nuvole, pur ancor lui è circondato da altri monti, li quali par che signoreggino tutta l'isola. Da' detti monti corrono infinite fontane d'acque chiarissime nel detto piano, qual è cultivato e ha alcune ville d'Indiani. Questo luogo sente nell'anno la varietà de' tempi, cioè primavera, estate, autunno e inverno, imperochè vi è freddo di sorte che agli arbori cascano le foglie e l'erbe si seccano; la qual cosa non suol accader in alcuna parte di tutta l'isola, essendovi sempre primavera e autunno perchè gli arbori sono sempre carichi di fiori e frutti. Il freddo veramente non è però tanto grande che vi nevichi overo ghiacci, ma rispetto all'altre parti di detta isola è grande.
In detto piano nascono felce tanto grosse nel gambo quanto è una asta di giannetta, e molte di quelle spine che fanno le more rosse. Dicono nelli monti che circondano detto piano essere molto oro, ma li vicini che vi abitano non si curano di cercarlo, producendogli la terra per la sua grassezza tanta quantità di maiz e iucca che basta loro per il pane. Appresso delle fontane che corrono chiarissime si cavano la sete. Il resto del tempo, o stanno oziosi sedendo all'ombre, overo ballano a lor modo, né pensano ad altro.
È ancora un altro paese in questa isola, fra la provincia de Huhabo e quella di Caiabo, detta pur Cotohi, qual ha grandissime pianure, valli e monti, ma per esser tutti sterili non è abitato, e per questo rare volte vi vanno uomini. In questo luogo gl'Indiani dicono che è il principio della minera di tutto l'oro che è in quella isola, e che fra quelli monti si vede che gli esce fuor della terra, come se fusse una pianta che nascesse. La qual cosa, ancorchè paia incredibile che l'oro facci questo effetto, pur in queste nostre parti dell'Europa, nel reame d'Ungheria, in molti luoghi a' nostri tempi da infinite persone è stato trovato, e di continuo si trova l'oro uscir della terra, e andarsi appiccando a torno agli arbori come fanno le viti, ed è finissimo.
Nella provincia di Caizimu, nelle contrade dette Guanama, e Guariagua, sono alcune fonti, l'acqua delli quali nella superficie è dolcissima e buona per bere, a mezzo comincia a sentirsi salsa, e nel fondo è molto amara. Pensano che questi fonti naschino d'acqua salsa, e che di sopra vi corrino poi acque dolci dalli monti, le quali non si mescolino insieme. Appresso queste fonti, se alcun si distende in terra e mette l'orecchie sopra quella, sente che la è concava di sotto, perchè quella risuona, e un uomo a cavallo si sente venir tre miglia lontano, e un a piedi un miglio.
Nella ultima provincia, detta Guaccaiarina, sono uomini che abitano in caverne e sopra selve e monti altissimi, e non vivon se non di frutti salvatichi, li quali mai hanno voluto aver commerzio con gli altri uomini dell'isola, né, ancor che siano stati presi, si son potuti domesticare. È opinion che non abbino determinato parlare fra loro come han tutti gli altri uomini del mondo; e che non sappino ciò che sia signore, over legge alcuna, ma che sian del tutto salvatichi animali, eccetto che hanno l'effigie umana. Alcune volte si veggono e vanno del tutto nudi, né è possibile pigliargli, perchè son piú veloci nel correr dietro a cani velocissimi menati nell'isola, né mai gli hanno potuti giugnere. In questa ultima parte dell'isola, in una bellissima valle, avevan molti campi lavorati alcuni cristiani, dove essendo andati del mese di settembre a vedergli con tutta la lor famiglia e figliuoli, ed essendo sparsi chi in qua e chi in là, eccoti uscir d'un bosco vicino un di questi uomini salvatichi, grande e terribile, il qual, preso sotto il braccio un fanciullo piccolino, che giaceva sopra l'erba non molto lontano dal padre, se ne fuggí come un vento. Il padre e tutti gli altri, veduta questa cosa, messi stridi fino al cielo, con la maggior celerità del mondo si missero a corrergli dietro. Ma l'uom salvatico vedutili da lontano si fermò, e pareva che stesse ad aspettargli, fin che gli giunsero un poco appresso, ma poi un'altra volta si misse a correre, e piú non fu veduto. Il padre, dolente e come morto, pensava che 'l figliuolo fusse stato portato via per mangiarlo, ma l'uom salvatico, come s'accorse che non gli andavan piú dietro, veduti in una valle vicina certi pastori che pascevan una mandria di porci, andò pianamente dove erano, e lasciò il fanciullo alquanto lontano sopra una strada dove avean a passar li pastori, li quali, avedutisi del fanciullo, presolo in braccio lo portorono la sera al padre. Né si maraviglino li lettori che in questa isola tanto lontana da noi si truovi questa generazione d'uomini salvatichi, che ancora nell'isola Hibernia, qual è sotto il re d'Inghilterra, non troppo lontana da quella, nella parte fra terra, dove non è altro che selve e monti altissimi, si sa trovarsi uomini infiniti salvatichi, quali mai hanno voluto aver commerzio con quelli che abitano appresso il mare, né si son potuti mai espugnar dalle genti del detto re.
In questa isola si trova pece in copia grande, sopra molti pini che vi sono, e un altro arbore detto coppei, qual arbore è molto grande, e fa un frutto come susini assai buoni da mangiare, ma la foglia del detto è maravigliosa, perciochè è larga mezzo piede e molto tonda. Questa foglia, veduta dalli cristiani e conosciuto ch'era grossa e flessibile, cominciorono con un stilo a scrivervi su, e trovorono che le lettere si vedevano come se fosser state scritte sopra una carta con inchiostro. Per tanto, veduta questa commodità, non avendo carta si misero a scriver tutto quel che faceva lor di bisogno, e mandar Indiani di qua e di là con le dette lettere. Tra gli altri un capitano mandò per un suo schiavo con lettere quattro di quegli animali che si chiamano utias, simili a conigli, cotti, a donar ad un suo amico, scrivendogli quello che gli mandava. Lo schiavo nel viaggio ne mangiò duoi, donde l'amico riscrisse averne ricevuto solo duoi; giunto lo schiavo e dato la risposta al padrone, quello gli cominciò a far un rabuffo e dirgli la maggior villania del mondo, mostrandogli che quella foglia gli diceva che non avea dato se non duoi utias all'amico suo, e che gli altri duoi se gli aveva mangiati. Il che lo schiavo con paura confessò. Questa cosa, divulgatasi per l'isola, fece che tutti gli Indiani non ragionavan d'altro che delle foglie dell'arbor cotoy, e non si volevan appressar a quello quando parlavano insieme, acciochè quelle non dicesser alli cristiani quel che tra loro ragionavano.
Dicono li vecchi di questa isola, quali per la maggior parte vivon cento e dieci e cento e venti anni, aver sentito dire da' lor padri che sempre per il passato gli abitatori di quella eran vissuti di certe radici salvatiche, alcune delle quali sono simili a cipolle, altre come pastinache, e altre come noci, overo tartufe, quali chiamano con diversi nomi, cioè cibaio, macaone, caboie, guaiero; ma che un vecchio molto savio, stando un giorno sopra la ripa d'un fiume, vidde un'erba molto grande con le foglie simili al canapo, la qual portò a casa, e piantata la radice cominciò a farla diventar domestica, e gli misse nome iucca, la qual, essendo suave al gusto, di quella cominciorono a far il pane detto cazabi; qual voglion che sia molto sano e facile a digestire, e adesso è commune a tutti gli abitatori della Spagnuola. Questo vecchio trovò ancora le radici dette agies e batatas, delle quali, parlandosene copiosamente nel sequente libro, si resterà di dire altro.
Degli abitatori di detta isola, e diversi ridotti fatti per cristiani. De' costumi de' caciqui quando mangiano e quando nascono figliuoli.
Tutti gli abitatori di questa isola sono uomini semplici e attendono per la maggior parte a viver oziosi all'ombra, avendo bisogno di poche cose, andando sempre nudi, e producendogli la terra tanti frutti quanti hanno di bisogno, perchè si vede di continuo sopra gli arbori li fiori, insieme con li frutti maturi. E se vogliono hanno il modo ancora molto facile a pigliar pesci nel mare e ne' fiumi di detta isola, dove ne trovano gran quantità. Questi tali, dapoi che son venuti li cristiani, e che gli hanno constretti a star tutto il giorno al sole a cercar oro nell'arena di fiumi, ne sono morti infiniti, sí per non esser assuefatti a questa fatica, sí ancora perchè si sono ammazzati da loro medesimi per disperazione, vedendosi ridotti da una felice vita a cosí estrema miseria e servitú, e molti ancora di loro non si sono curati di maritarsi per non far figliuoli schiavi per li cristiani. Le femine medesime, come si son sentite esser gravide, con una certa erba hanno operato di disperdere, di sorte che chi avesse veduto il numero degli abitatori, qual si trovava al principio che li cristiani andorono alla sopradetta isola, a comparazion di quello che si truova al presente, staria molto stupefatto. E ancor che per ordine della maestà del re sian stati fatti liberi tutti gli abitatori di detta isola, né possino esser astretti ad alcuna cosa, pur gli officiali che si son trovati lí, di tempo in tempo, per avarizia hanno esseguito quel che gli è parso. È opinion che nel principio in detta isola fossero da novecentomila persone, e al presente sono tanti pochi che è vergogna a narrarlo.
Li nostri, dapoi che hanno fatto quelle fortezze nel mezzo dell'isola, come abbiam di sopra detto, hanno fabricato a marina ridotti in diverse parti, serrati con li suoi muri, nelli quali sono molte abitazioni, come è il porto della Plata, Porto Regal, Lares Villa Nuova, Azua, Salvaterra. In alcune parti di questa isola, come saria a dire nel paese del cacique Beuchio detto Xaragua, rare volte piove, e per questo dove sono seminati li suoi maiz, over iucca, conducono l'acque delle fontane per canali fatti a mano per adacquarli. In molte valli piove poi piú che non gli fa di bisogno, come in tutto il paese a torno la città di San Domenico. In altre parti piove temperatamente.
Quando li caciqui muoiono, come instituiscono li suoi eredi, e come molti suoi famigliari si ammazzino con esso loro, si pretermette di dire, dicendosene a bastanza nel seguente libro. Una particolarità non voglio restar di dire. Che essendo venuto a morte il cacique Beuchio fratello di Anacaona, del qual di sopra s'è fatta menzione, la detta sua sorella, per onorarlo, essendo stato riputato il piú valente cacique di tutta l'isola in componer areyti, che sono versi, come si dirà, ordinò che molte delle sue donne fossero sepolte vive con il detto. Ma trovandosi a caso in quel luogo alcuni frati di san Francesco, quali andavano ammaestrando gl'Indiani nella nostra fede, con gran preghere impetroron che una sola fusse sepolta, perchè non è possibile dir la grande opinion che hanno di questi suoi caciqui, che da poi che sono morti vadino al sole. Questa che volse morir volontariamente con il detto cacique Beuchio si chiamava Guanahatta Sienechena, ed era bellissima, e volse portar seco tutti li suoi ornamenti, con un vaso d'acqua e pan di maiz e iucca.
Quando ad alcun cacique nasce un figliuolo di nuovo, tutti li vicini del paese vanno a trovar la donna di parto, e come entrano nella camera dove ella giace salutano il figliuolo o figliuola, chi con un nome chi con un altro. Uno dirà "Facella rilucente", un altro "Facella piena di fiamme", altri "Vincitor degli inimici", over "di un fortissimo signore nepote", o "piú lucido dell'oro". Alle femine dicono "piú odorata di qualche fiore", e dicono il nome, "piú dolce che il tal frutto", "Occhi di sole", over "di stelle". Il cacique Beuchio sopradetto aveva molti nomi oltra il primo. Cioè Turehiguahobin, che vuol dir re resplendente piú che l'oro. Un altro Starei, cioè fiammeggiante. E Huiho, cioè altezza. E Duiheyniquen, cioè fiume ricco. E quando si ordinava alli paesani alcuna cosa per suo ordine, era necessario dir tutti li suoi nomi da un capo all'altro, altramente l'averia avuto forte per male, e quello che avesse lasciato di dire uno per negligenzia saria stato punito.
Della religione e cerimonie de' sopradetti Indiani.
Io mi penso, anzi tengo per certo, che molti che leggeranno la presente istoria desidereranno intendere quello che questi popoli dell'isola Spagnuola adorino, e che religione e cerimonie siano le loro. Delle quali, ancor che in molti luoghi sia stato detto che adorano il sole e la luna, nondimeno per far cosa grata alli lettori si dirà quello che se n'è possuto intendere.
L'admirante Colombo, nel secondo suo viaggio fatto all'isola Spagnuola, menò seco un frate dell'ordine degli eremitani, detto maestro Ramone, persona dotta e di santissima vita, acciochè egli ammaestrasse nella fede cristiana gli uomini dell'isola. Costui, avendo in breve tempo imparata la lingua loro, conversando famigliarmente con quelli, intese molte particulari loro superstizioni e cerimonie, e cosí ne compose un libro in lingua castigliana, del quale, lasciando da parte molte cose impertinenti, se ne dirà alcune brevemente.
Appresso questi popoli è questa opinione, che sia un primo motore, omnipotente, eterno e invisibile, qual ha duoi nomi: Iocauna, Guamaonocon. E che questo Iddio ha madre, la qual ha cinque nomi: Attabeira, Mamona, Guacarapita, Iiella, Guimazoa. Ma di Dio eterno, senza fine e omnipotente, dicono esser diversi messaggieri, li quali chiamono Cemi over Tuyra, e ciascun signore over cacique ha un particular Cemi over Tuyra, il qual lui adora. E affermano che questi Cemi appariscono loro la notte, e da loro intendono molte cose. La forma de' quali fanno di cottone tinto di nero, simile alla forma de' demoni piccoli, li quali dalla bocca gettan fuoco, e hanno la coda e piedi di serpi neri. E di questi Cemi ne fanno alcuni in piè, altri a sedere, e di diverse grandezze, e quando vanno a combattere contra gl'inimici ne portano legati alla fronte alcuni piccoli, e pensano che avendo quelli debbino esser vincitori. Da questi, se hanno bisogno di pioggia, over sole per li loro maizali, pensano di poterlo impetrare. E se per caso detti Cemi gli appariscono nelli boschi, delli quali son molti in questa isola grandissimi e folti, li fanno di legno; e se in qualche caverna, over monte lo fanno di pietra, e hannogli insomma venerazione in quelli luoghi dove gli hanno veduti. Altri gli fanno di radici di iucca, dicendo avergli veduti sopra quelle, e che hanno cura di farle crescere, delle quali fan pane.
E quando vogliono saper quel che sia per succeder d'una guerra, over altra lor cosa, come se sia per esser abondanzia di maiz e iucca per il loro vivere, over quando alcun gran maestro è ammalato, se debbe vivere o morire, uno delli caciqui principali entra in una casa fabricata alli Cemi, dove gli è preparata una bevanda fatta d'una erba detta chohobba, la qual pigliano con il naso. Il che fatto, subito comincia a diventar furioso, e pargli che la casa vadi sotto sopra e che gli uomini vadino con li piedi in su, e tanta è la forza di questa bevanda che gli leva via tutto l'intelletto e sapere, né sa ove si sia. Poi, come l'ha un poca digerita, si mette a sedere in terra con il capo chino, e le mani intorno alle ginocchia. E stato in questo modo un pezzo, come se da un gran sonno si levasse alza gli occhi e riguarda il cielo, parlando fra li denti e il palato certe parole che non s'intendono. Intorno a questo cacique stanno delli primi della sua corte, né ad alcun del vulgo è permesso che si truovi in queste cerimonie. Questi, come lo vedono un poco ritornato in sé, cominciano con voce alta a ringraziar il Cemi, che l'ha lasciato partir dal suo ragionamento, e che sia ritornato a loro, e gli dimandano quel che ha veduto. Questo come pazzo dice aver parlato allora con il Cemi, qual gli ha promesso di fargli aver vittoria contra gl'inimici, over avergli detto che sarà vinto e ruinato per qualche cosa che li detti non hanno voluto fare, e cosí referisce della abondanza o carestia, vita o morte, come al primo tratto gli vien in bocca.
E avendo detto di sopra che ciascun cacique ha il suo particolar Cemi, qual adora, dico che un cacique nominato Guaramento avea un Cemi detto Corochotto, fatto di cottone, e lo teneva legato sopra il piú alto palco della sua casa, il quale alcune volte rompendo li legami dicono che se ne fuggiva e andava a trovar qualche femina per mescolarsi con lei, over perchè desiderava mangiar qualche cibo che 'l cacique non gli dava; alcuna volta dicevan che gli era fuggito tutto adirato, perchè detto Guaramento avea pretermesso di fargli certi sacrificii in suo onore. Nel principal villaggio di questo cacique, come nascon fanciulli che abbino alcuno segnale sopra il capo over collo, dicono che quelli sono figliuoli del Cemi Corochotto.
Un altro cacique avea il suo Cemi fatto di legno a modo d'animale con quattro piedi, e chiamavalo Epileguanita; quale spesse volte diceva che si partiva dal luogo dove l'adorava e se n'andava alle selve, il che come presentiva mandava molti Indiani cercandone, e trovatolo se lo mettevan in spalla e con gran venerazion lo riportavano al suo luogo.
Ma venuti li cristiani nell'isola cessorono tutte queste illusioni diaboliche, e questo Cemi e tutti gli altri se ne fuggirono, né mai piú gli hanno potuti trovare. E da questo gli Indiani che erano vecchi facevano congiettura che tutte le signorie di quella isola dovean perdersi, e restar sotto altro signore. Alcuni fanno il suo Cemi di marmo, come è una femina, e appresso gli fanno duoi fanciulli come sarian duoi ministri; un di questi dicono che a modo d'un banditore per ordine di questa femina va facendo intender agli altri Cemi che venghino per comandamento di quella con venti, pioggie e nebbie grandissime; l'altro fanciullo d'ordine di quella mette insieme tutte l'acque che caggiono dalli monti e le sgonfia, di sorte che come un mare allagano tutti li maizali. E questi ufficii fanno questi duoi ministri ogni volta che gli Indiani mancano dalli debiti onori alli Cemi di marmo.
È costume antiquissimo appresso questi dell'isola Spagnuola, che tutti li figliuoli delli caciqui sieno ammaestrati da alcuni Indiani savi, che loro chiaman boitij over tequina, quali gli fanno imparar a mente molti versi, nelli quali insegnano loro due cose principalmente: l'una dell'origine e principii delle cose, e come le sono andate augumentandosi, cosí come di sotto si dirà; l'altra delle cose fatte per loro avi maggiori sí in guerra come in pace; e queste cose l'hanno composte in versi nella loro lingua, li quali chiaman areyti. E questi areyti con un certo tamburo fatto a lor usanza cantano, qual chiaman maguey, ed è fatto d'un legno tondo concavo, qual risuona grandemente essendo battuto con un altro legno su 'l fondo, a modo di tamburo de' nostri. E quelli cantando ballano tutti ad un tratto; e in questi balli sono molto piú agili e destri che non sian noi altri, perchè stanno nudi, e gran parte del tempo non spendono in altro che in ballare. Hanno, oltra le sopradette sorte di areyti delle origini delle cose e fatti de' lor antichi, alcuni altri composti d'amore, nelli qual laudano le loro innamorate e poi dicono le passioni che sentono come le veggono, over in sua absenzia quando di lor pensano. Ne hanno alcuni altri molto lamentevoli, e con voci rotte e delicate, quando voglion piangere. Altri terribili, e con voci piene di gravità, quando voglion inanimar gli Indiani, che vadin arditamente adosso gl'inimici e non dubitino di morire, perchè morendo per difension della lor patria anderanno a star appresso il sole. E alla sorte di questi suoi areyti accommodano la voce e gli suoni che fanno con quelli suoi maguey.
In questi suoi areyti ne hanno uno antichissimo, lasciatogli di mano in mano per molte età e generazioni dalli suoi antichi. Il qual è fatto con voci piatose e lamentevoli, nel qual è predetto la venuta delli nostri a quella isola. E quando lo cantavano sempre gli cadevan le lagrime dagli occhi, e gemendo dicevano Guamaonocon, cioè Dio eterno, aver determinato che maguacochios, cioè uomini vestiti, venissero in quella isola armati con spade, che in un colpo tagliariano un uomo dal capo in sino alli piedi, e levarian via tutti li lor Cemi e lor cerimonie, sotto il giogo delli quali tutti li loro figliuoli e posterità eternamente stariano. Molti delli detti Indiani pensavan che volesser dir delli canibali, che dovesser vestirsi e armarsi di spade di legno, e per questo ogni volta che gli vedevan venire fuggivano e ne avean grandissima paura. Ma è cosa certissima e a ciascuno dell'isola manifesta che, molti anni avanti che a quella gli Spagnuoli giongessero, furono duoi caciqui, delli quali l'un fu il padre di Guarionesio, di chi di sopra abbiam fatto menzione; costoro, avendo digiunato cinque giorni continui con gran reverenzia alli suoi Cemi, una notte da quelli gli fu detto che presto era per venir una sorte di gente coperta tutta di veste, la qual levaria via li Cemi e faria tutti li loro figliuoli schiavi. La qual cosa giunti li nostri si verificò perchè non molto dapoi son stati levati via li Cemi, e lo adorar di quelli, e si son battezzati tutti gl'Indiani, e dapoi che fu posto il segno della Santa Croce in quella isola, mai piú li Cemi sono apparsi.
Quali credano esser stati i primi principii delle cose, e il principio dell'umana generazione, e del principio del mare, e d'alcune vanissime loro superstizioni.
Delli principii delle cose prime, dimostrano una spelonca nel paese d'un cacique detto Machinnech, molto grande e oscura, a' piedi d'un altissimo monte, e la chiamano Iovana Boina, qual vanno a visitare con somma riverenza; e l'entrata è ornata con varie pitture, dove si veggon scolpiti duoi gran Cemi, differenti l'un dall'altro di figura, de' quali un è chiamato Binthaitelle, l'altro Marohu, e dimandati perchè vanno con tanta reverenza a visitar quel luogo, dicono con il maggior senno che abbino, che hanno per lor areyti che di quel luogo uscirono il sol e la luna a far luce al mondo.
Il principio dell'umana generazione dicono essere stato in questo modo. È nell'isola una provincia detta Caunana, dove è un grandissimo monte a piè del quale sono due spelonche, una grande detta Caxibaxagua, l'altra minore, Amaiauna. In queste spelonche dicono che abitavano tutti gli uomini, né uscivan fuora, perchè cosí dal sole era stato lor comandato, non volendo da loro esser veduto; per questo aveva posto alla guardia di dette spelonche uno tratto fuora chiamato Machochael. Costui, volendo conoscere quello che era per l'isola, oltre a dette spelonche, si misse andare per essa, e non tornando presto gli sopragiunse il sole, qual veduta la sua inobedienzia, lo convertí in un sasso, il quale ancora in quel luogo mostrano. Dicono ancora che molti di quelli uomini che eran in dette spelonche, avendo grandissimo desiderio d'andar ancor loro a vedere piú oltre, una notte si partirono, e andati per l'isola non poteron cosí presto tornarsi indietro, di modo che, sopravenendo il sole, quale non era lecito loro guardare, furono transformati ancor loro in certi arbori, che sono in ogni canto per la detta isola, e fanno certi frutti come susine; che dapoi dalli Spagnuoli è stato pensato che sian mirabolani, come abbiam detto di sopra. Dicono ancora trovarsi in queste spelonche uno detto Vaguoniona, che era delli primi e avea molti figliuoli; volse mandarne uno fuori, qual fu transformato dal sole in rosignuolo. E per questa causa dicono detto uccelletto cantar la sua sventura tutto l'anno dimandando aiuto a suo padre; perchè in questa isola li rosignuoli e altri simili uccelletti non restano mai di cantare. E che questo Vaguoniona, volendo andar a trovar detto suo figliuolo, perchè lo amava grandemente, lasciati gli altri in detta spelonca menò seco fuori tutte le femine che lattavano con li fanciulli al petto, e giunto alla ripa d'un gran fiume, li fanciulli, essendo affamati e gridando "toa toa", cioè mama mama, dicono che furono dal sole insieme con le madri convertiti in rane, e che per questo fanno quelle continuamente simil voce.
Ma questo Vaguoniona, per aver avuto spezial grazia dal sole, mai fu mutato in alcuna cosa, ma dapoi che fu andato in diversi luoghi, se ne andò per una grotta sotto la terra, dove trovò una bellissima donna qual gli donò certi sassetti piccioli tondi, che chiaman ciba, e certe lamette d'oro, le quali affermano esser fin al giorno presente appresso alcuni caciqui di detta isola, e mostrarsi con grandissima reverenzia. E che gli uomini restati soli nella spelonca, come abbiamo detto di sopra, andando la notte dove eran alcune fosse piene di acqua piovuta per lavarsi, viddero certi animali simili a femine, che andavan sopra gli arbori come fanno le formiche. E per desiderio d'aver femine, non essendone restate loro alcuna, corsero per voler pigliarne ciascuno una. Ma avendogli messe le mani adosso, fuggivano delle lor mani come se fussero state anguille. E cosí, essendo tutti disperati di non poterne pigliare, fecer consiglio quel che si dovesse fare, dove il piú vecchio disse che si eleggessero fra tutti loro quelli che avessero le mani callose e aspre, li quali chiaman caracaracoli, e con questi tornati a volerne pigliare, di molte che ne presero non ne poteron ritener se non quattro, che tutte l'altre gli fuggirono. E referiscono che li figliuoli che nacquero di queste uscirono delle spelonche, né piú il sole gli transformò in altra cosa, ma abitorono tutta la terra.
Del principio del mare dicono che già fu un uomo molto potente detto Iaia, al qual morse un figliuolo che aveva solo, e volendolo sepellire, né avendo dove, lo misse in una grandissima zucca, e questa collocò alle radici d'un monte non molto lontano dal luogo dove abitava, e spesso andava per desiderio che aveva del figliuolo, a vederla. E che un giorno fra gli altri, avendola aperta, saltoron fuori balene e altri pesci grandissimi. Dalla qual cosa spaventato Iaia, tornato a casa, narrò alli vicini tutto quello che gli era intervenuto, dicendo che quella zucca era piena d'acqua e d'infiniti pesci. Questa cosa divulgatasi, quattro fratelli nati d'un parto, per desiderio di pesci, andorono dove era la zucca, e toltala in mano per aprirla, sopragiunse Iaia. Costoro, vedutolo, per paura che ebbero la buttorno in terra, la qual per il gran peso ch'era in quella si ruppe, e per le fissure venne fuora il mare, e che tutta la pianura secca, qual si vedeva senza fine o termine alcuno da ogni canto, ripiena d'acqua fu sommersa. E che solo li monti, per la sua altezza, rimasero scoperti da tanta inundazione; e cosí credono che detti monti siano l'isole e l'altre parti della terra che si veggono al mondo.
Hanno una gran superstizione, che pensano che li morti il giorno stiano nascosi, e la notte vadino di qua e di là, e che mangiano un frutto detto guabana, del qual abbiam detto, e dirassene nel seguente libro. E qualche volta entrano in letto dove dormono le donne Indiane, presa forma d'uomo; e che le donne gli conoscono in questo modo. Se alcuna la notte dubita che alcun morto sia venuto nel suo letto, subito gli mette la mano sopra l'umbilico, qual non gli trovando subito il morto dispare. Perchè hanno opinione che li morti possino transformarsi con tutte le membra dell'uomo, eccetto che l'umbilico. Dicono che di notte spesso nelle strade publiche appariscono li morti, contra li quali, se l'uomo fa buon cuore e non si perde d'animo, subito il morto disparisce; ma se si mostra aver paura, quella ombra gli va adosso, e nuoce loro tanto che spesso rimangono storpiati e persi in qualche parte della persona.
In questa isola sono quelli che chiamano boitij, overo tequina, quali abbiamo detto che insegnano alli figliuoli delli caciqui gli areyti. Costoro sotto ombre grandi alcuni giorni determinati fanno congregare tutta la plebe, e stando a sedere sopra un arbore gli dicono tutte le sopradette superstizioni overo favole, e appresso come il Cemi over Tuyra gli ha parlato e dettogli quel che hanno a fare e quel che debbe venire, e sono di grande auttorità appresso ciascuno.
Sono ancora medici, perchè conoscono l'erbe e virtú di quelle, con il succo delle quali fanno maravigliose prove a sanar ferite. E quando alcun cacique s'ammala, chiamano uno di questi boitij, qual, pigliandolo a guarire, s'obbliga a digiunare e a pigliar dell'erba detta chohobba, la quale lo fa infuriare e voltar gli occhi e uscir fuori di sé; e dapoi alquanto spazio che costui ha fatto questo, fa collocare l'ammalato in mezzo una camera, dove non vuole che sian presenti se non duoi o tre delli suoi piú stretti parenti, e costui gli va intorno tre o quattro volte torcendo il viso e la bocca, e facendo li piú strani atti che mai si vedessero con le mani e co' piedi, e spesso gli soffia sopra la fronte, collo o tempie, e tira a sé il fiato, e dice cavargli delle vene tutto il male; dapoi gli frega le spalle, coscie e gambe, il che fatto strigne tutte due le mani insieme e va correndo alla porta, dove, scosse che l'ha molto bene, dice aver scacciato fuori il male e che fra pochi giorni l'ammalato guarirà. Dapoi, ritornato all'ammalato, gli dà a bere il succo d'alcune erbe che lo purgano, over gli ordina che non mangi fin l'altro giorno. E se vede che sia per guarire, un'altra volta gli va intorno facendo li sopradetti atti, e mostrando di soffiarsi sopra le mani si cava di bocca un pezzo di qualche frutto, o di maiz, o di pesce, over qualche osso, e dice: "Guarda, tu avevi mangiato questa cosa, la qual non hai potuto digestire, e io te l'ho levata del corpo". Se veramente vede che sia per morire, facendo li medesimi atti dice che 'l Cemi è adirato per non esser stata fatta una bella casa, over che se gli è mancato per il cacique della solita riverenza, e che per questo lo vuol far morire. E mancando il cacique, li suoi principali parenti alcune volte vogliono sapere se 'l Cemi l'ha fatto morire, over è morto per negligenzia, che 'l boitio non ha digiunato come doveva, e fatti alcuni strani atti la notte atorno il morto, si mettono a dormirgli intorno, e dicono essersi insognati donde è venuta la causa di tal sua morte, e per questo alcune volte fanno morire il boitio. Le femine veramente, se possono aver uno degli ossi, o frutto, o maiz, che abbi avuto in bocca il boitio nel sanar d'alcun cacique, lo salvano con grandissima devozione involto in alcun drappo, e dicono esser cosa esperimentata a far partorir subito una donna.
Queste sono le superstizioni, o per dir meglio le favole, che credono gli abitatori dell'isola Spagnuola, ingannati da questi suoi Cemi e boitij, le quali al presente, con la fatica e diligenzia di molti valenti predicatori mandati di Spagna a questo effetto, in gran parte sono levate loro via della mente, facendogli conoscere che erano ingannati dal demonio e ammaestrandogli nella fede cristiana piú che a lor è possibile.
Sommario della naturale e generale istoria dell'Indie occidentali, composta da Gonzalo Ferdinando d'Oviedo, altrimenti di Valde, natio della terra di Madrid, abitatore e rettore della città di S. Maria Antica del Darien, in terra ferma dell'Indie, il qual fu riveduto e corretto, per ordine della maestà dell'imperatore, per il suo real consiglio delle dette Indie.
Prologo e introduzione dell'autore della presente opera, dedicata alla sacra cesarea maestà dell'imperadore don Carlo, quinto di tal nome, re delle Spagne e delle due Sicilie, di qua e di là dal faro, e re di Gierusalem e d'Ungheria, duca di Borgogna e conte di Fiandra etc., signor nostro.
Le cose le quali principalmente conservano e mantengono l'opere della natura nella memoria degli uomini, sono le istorie, e i libri composti d'esse: e quelle verissime e autentiche esser si stimano, le quali l'ardito ingegno dell'uomo che ha peregrinato per il mondo, mediante il fidelissimo testimonio degli occhi, ha potuto descrivere, raccontando quello che ha veduto e udito di simile materia. Di questa sentenzia e opinione fu Plinio, il quale, meglio che alcun altro autore, tutto quello che all'istoria naturale s'apparteneva in trentasette libri raccolse, e in un volume a Vespasiano imperatore indirizzò, e come prudente istorico narrò quello che aveva udito; attribuendo, secondo che egli aveva letto, ogni cosa agli auttori i quali avanti a lui ne avevano scritto. E poi quel che egli stesso vide come occulato testimonio aggiunse alla medesima sua istoria.
Il cui esempio imitando io similmente, voglio in questo mio breve sommario ridurre e rappresentare alla real memoria di vostra maestà, quello che ho veduto nel suo imperio occidentale delle sue Indie, dell'isole e della terra ferma del mar Oceano, dove già sono dodici anni che io passai per riveditore del fondere dell'oro, per comandamento del catolico re don Ferdinando, quinto di tal nome, avolo di vostra maestà, a cui Dio abbia data la sua gloria. E cosí dipoi ho servito, e spero servire per l'avvenire quanto m'avanza di vita in quelle parti alla prefata maestà vostra. Delle quali cose e di molte altre simili piú copiosamente ho scritto in una istoria cominciata, poi che l'età mia fu atta ad esercitarse in tale materia; facendo memoria parimente delle cose accadute in Spagna dell'anno 1494, sino a questi tempi, e di quelle di fuori in quei regni e in quelle provincie dove io sono stato, distinguendo l'istorie e le vite delli re catolici don Ferdinando e donna Isabella, di gloriosa memoria, sino all'ultimo delli loro giorni; e cosí di quello che poi nel tempo della vostra felicissima successione è accaduto. E oltre acciò, io ho scritto particolarmente tutto quello che ho potuto comprendere e notare delle cose dell'Indie. Ma perchè tutto questo volume è rimaso nella città di S. Domenico dell'isola Spagnuola, dove abito e sono accasato con la moglie e figliuoli, né altro portai qua meco, né tengo ora de' detti miei scritti piú altro di quello che mi resta nella memoria e da essa posso raccorre, ho determinato, per dare qualche recreazione alla maestà vostra, mettere insieme con brevità alcune di quelle cose le quali mi parranno piú degne d'essere da lei udite; perchè, se bene qui da altri sono state scritte, e col testimonio della vista affermate, non saranno però forse cosí diligentemente state racconte, come da me puntualmente saranno narrate; benchè in alcune di quelle, e forse ancora in tutte, abbino detta la verità, conciosiachè coloro i quali vanno a negociare in dette parti dell'Indie, attendano ad altre cose che gli possano essere di maggior utilità di quelle che si cava della memoria delle cose di questa qualità, onde con minore attenzione le guardano e considerano che non ho fatto io, che naturalmente vi ho avuta inclinazione e ho desiderato saperle, mettendovi ogni opera e volgendovi gli occhi e la mente.
Questo presente Sommario non sarà contrario né diverso da quello che (come ho detto) piú distesamente ho scritto, ma sarà solo piú breve, e per far l'effetto di sopra narrato, insino a tanto che Dio mi conduca salvo a casa; onde io poi gli manderò tutto quello che io ho investigato e inteso di questa vera istoria. Alla quale dando principio, dico che don Cristoforo Colombo (come è cosa nota), primo admiraglio di questa India, la discoperse al tempo delli catolici re don Ferdinando e donna Isabella, avoli di vostra maestà, nell'anno 1492 alli 3 d'agosto, e venne a Barzellona l'anno 1493 con li primi Indiani, e con la mostra e saggio delle ricchezze e notizia di questo imperio occidentale. Il quale dono e beneficio è stato sino ad oggi un delli maggiori che mai vasallo o servidore abbia possuto fare al suo prencipe e signore, e tanto utile alli suoi regni (come è cosa manifesta). E dico tanto utile (parlando sempre per la verità) ch'io non reputo buon Castigliano né buono Spagnuolo colui che questo non volesse riconoscere. Ma perchè di ciò è stato scritto piú particolarmente nelle dette istorie, non voglio in questa materia dire altro, fuor che raccontare spezialmente alcune cose con brevità, come di sopra ho promesso; le quali certamente saranno molte poche, rispetto alle molte migliaia che di tal qualità si potriano raccontare. Per tanto tratterò prima del cammino che si fa in questa navigazione, poi dirò delle generazioni delle genti che in quelle parti si trovano, e oltre a questo diremo degli animali terrestri e uccelli, de' fonti e fiumi, mari e pesci, piante ed erbe e altre cose le quali produce la terra, e cosí d'alcuni riti, consuetudini e ceremonie di quelle genti salvatiche. E perchè io sono in ordine e spedito per tornarmi in quelle terre a servire la vostra maestà, se le cose in questo libro contenute non saranno cosí distinte con tanto ordine come io ho promesso che sarà quella opera maggiore e piú copiosa che io ho composta, non guardi vostra maestà a questo, ma attenda alla novità delle cose che voglio dire, la qual cosa è propriamente il fine che m'ha mosso a scrivere. Sichè io scriverò raccontando le cose secondo la verità di quelle, come potranno testificare molti uomini degni di fede, i quali sono stati in quelle parti, e al presente si trovano in questi regni in corte della vostra maestà.
Della navigazione.
Cap. I.
La navigazione che di Spagna communemente si fa verso l'Indie è da Sibilia, dove v. maestà ha la sua casa reale di contrattazione per quelle parti, e gli suoi ufficiali; dalli quali prendono licenzia li capitani e patroni delle navi che fanno quel viaggio, e s'imbarcano a San Lucar di Barameda, dove 'l fiume Guadalchibir entra nel mar Oceano, e de lí seguono il suo cammino verso l'isole di Canaria, e communemente toccano una di due delle sette che sono, cioè o la Gran Canaria o la Gomera, e ivi li navilii pigliano rinfrescamento d'acqua, legne, formaggio, carne fresca e altre cose che gli pare conveniente aggiungere a quelle che portano seco di Spagna. Di Spagna a queste isole si tarda communemente otto dí, poco piú o meno, e arrivati lí hanno navigato dugento e cinquanta leghe, che a quattro miglia per lega sono mille miglia. Dalle dette isole tornando a seguir il suo cammino tardano i navilii venticinque giorni, poco piú o meno, fino al veder la prima terra dell'isole che sono avanti di quella che chiamano la Spagnuola. E la terra che communemente si suol vedere prima è una dell'isole che dicono Ogni santi, Marigalante, La Desseada, Matitino, La Domenica, Guadalupe, San Cristoval etc., o alcuna dell'altre molte che sono con le sopradette. Pure alcuna volta accade che li navilii passano senza vista d'alcuna delle dette isole, né di quante sono in quel pareggio, finchè vegghino l'isola di San Giovanni o la Spagnuola o Iamaica o Cuba, che sono piú avanti, o per aventura niuna di quelle, finchè diano in terra ferma. Ma questo accade quando il pilotto non è pratico della navigazione, ma facendosi il viaggio con marinari pratichi (delli quali già se ne trovano molti) sempre si riconosce una delle prime isole sopradette. E dall'isole di Canaria fino lí sono novecento leghe di navigazione o piú; e di lí fino alla città di San Domenico, ch'è nell'isola Spagnuola, sono cento e cinquanta leghe; di modo che di Spagna fino lí sono mille e trecento leghe. Pure, perchè alle volte la navigazione non va cosí diritta che non si vadi vagando assai ad una parte e all'altra, ben si può dire che si vadano mille e cinquecento leghe, e piú.
Si tarda nel viaggio communemente trentacinque o quaranta dí, e questo suol accadere il piú delle volte, non pigliando gli estremi o di quelli che tardano molto o di quelli che arrivano molto piú presto, perchè qui non si debbe considerare se non quello che accade il piú delle volte. Il ritorno da quelle parti a queste suol esser d'alquanto piú tempo, come saria in 50 giorni, poco piú o meno. Tuttavia in questo presente anno 1525 sono venute quattro navi da S. Domenico fin a S. Luca di Spagna in 25 giorni; pur, come è detto, non abbiamo da giudicar quel che si fa rare volte, ma quello che è piú ordinario.
È la navigazione molto sicura fino alla detta isola, e da quella alla terra ferma attraversano le navi in cinque, sei e sette giorni e piú, secondo la parte dove sono dirizzati, perchè detta terra ferma è molto grande, e sono diverse navigazioni e viaggi a quella parte. Pure alla terra che è piú vicina di questa isola, e ch'è opposita a S. Domenico, si va nel tempo sopradetto. Ma tutto questo è meglio rimettere alle carte da navicare e cosmografia nuova, della qual Tolomeo e altri antiqui, per non averla intesa, non hanno detto cosa alcuna. Però, perchè questo non è di bisogno qui, passerò all'altre particolarità, nelle quali dimorerò piú che in questo, che è piú a proposito della generale istoria che scrivo delle Indie che di questo luogo.
Dell'isola Spagnuola.
Cap. II.
L'isola Spagnuola ha di longhezza dalla punta del Higuei fino al capo di Tiburon piú di 150 leghe, e di larghezza, dalla costa over spiaggia della Nativitade, ch'è da tramontana fin al capo di Lobos, che è dalla banda di mezodí, 55 leghe; è la propria città in 19 gradi alla parte di mezodí. Sono in questa isola molti be' fiumi e fonti, e alcuni di loro molto principali, com'è il fiume dell'Ozama, che è quel che entra in mar per la città di S. Domenico, e un altro che si chiama Neiva, che passa vicino alla terra di Santo Iuan della Maguana, e un altro che si chiama Hatibonico, e un altro detto Haina; e al detto Nizao, e altri minori, che non mi curo narrargli.
È in questa isola un lago, che comincia due leghe lontano dal mare, vicino alla terra di Iaguana, che dura quindeci leghe o piú verso levante; e in alcuna parte è largo una, due e tre leghe, nell'altre parti tutte è molto piú stretto, e in piú parti è salato e in alcuna è dolce, e specialmente dove entrano in lui alcuni fiumi o fonti. Pur la verità è ch'egli è come un occhio di mare, qual gli è molto vicino. In detto lago sono molti pesci di diverse sorti, e specialmente tiburoni, che del mar entrano nel detto per disotto della terra, o per quel luogo o parte che per disotto della terra il mar penetra, e genera il detto lago. E questa è la commune opinion di quelli che han veduto questo lago.
Questa isola fu molto abitata da Indiani, ed erano in essa due gran re, che furono Caonabo e Guarionez; e dipoi successe nella signoria Anacaona. Pure, perchè manco voglio dir a che modo fu acquistata questa isola, né la causa perchè gl'Indiani sono ridotti a poca moltitudine per non dimorare, né dir quel che lunga e veramente ho scritto in altra parte, e perchè questo non è quello che ho da trattare, d'altre particolarità delle quali vostra maestà non die aver tanta cognizione, o se le può aver scordate, risolvendomi in quel che ho proposto di dir qui di questa isola, dico che gl'Indiani che sono al presente sono sí pochi, e li cristiani non sono tanti quanti doveriano essere, perchè molti ch'erano in quella isola hanno passato ad altre isole e in terra ferma; perchè, oltra che gli uomini sono amici di novità, quelli che vanno a quelle parti li piú sono giovani, e non obligati per matrimonio a far residenzia in parte alcuna; e perchè, avendosi discoperto e discoprendosi altre terre nuove, gli par di dover empier piú presto la borsa in l'altre. Il che ancora che sia accaduto ad alcuni, li piú però si sono trovati ingannati, e specialmente quelli che avevano case e abitazioni in questa isola; perchè senza dubio alcuno io credo, formandomi con il parer di molti, che se un prencipe non avesse piú signoria di questa isola, in breve saria tale che non cederia né a Sicilia né ad Inghilterra; né al presente è cosa alcuna della qual si possi aver invidia ad alcuna delle dette, anzi quel che avanza nell'isola Spagnuola potria far ricche molte provincie e regni, perchè, oltra che ha piú ricche minere, e di miglior oro che fino ad oggi in alcuna parte del mondo si sia trovato né discoperto in tanta quantità, ivi la natura da sé produce tanto cottone che, se si mettessero a lavorarlo e aver cura d'esso, se ne faria piú e migliore che in alcuna parte del mondo.
Ivi è tanta cassia e sí eccellente che già se ne porta molta quantità in Spagna, e de lí poi si riparte in molte parti del mondo, e se ne va tanto aumentando che è maraviglia. In quella isola sono molte ricche botteghe, dove si lavora di zuccaro, ed è molto perfetto e buono, e in tanta quantità che le navi ne vengono cariche ogni anno. Ivi tutte le cose che si seminano e cultivano, di quelle che sono in Spagna, si fan molto migliori e in piú quantità che 'n parte alcuna della nostra Europa. E quelle non si fanno buone e non si moltiplicano delle quali gli uomini non hanno né pensiero né cura alcuna, perchè vogliono, il tempo ch'averiano ad aspettar queste cose, spender in altri guadagni e cose che piú presto empian l'ingordigia degli avari, che non hanno voglia di perseverar in quelle parti. Per questo non si mettono a seminar formenti, né piantar vigne, perchè in quel tempo che queste cose tardariano a far frutti, le truovano a buon mercato, e le navi le portano di Spagna, e lavorando le minere o esercitandosi in mercanzia o in pescar perle o in altri esercizii (come ho detto) piú presto accumulano roba di quello che fariano per via di seminar formento o piantar vigne; e tanto piú ch'alcuni particolarmente, che pensano continuar in quel paese, si son posti a piantarle.
Similmente sono molte frutte naturali di quel paese, e di quelle che vi si sono portate di Spagna, e quante se ne son portate rispondono molto bene; e perchè particolarmente si trattarà da qui avanti delle cose che la medesima isola e l'altre parti dell'Indie aveano naturali di quei luoghi, e che li cristiani trovorono in esse, dico che di quelle cose che portorono in Spagna è in quella isola, in tutti li tempi dell'anno, molta e gran quantità d'erbe da mangiar bonissime d'ogni sorte, molti pomi granati e buoni, molte naranze dolci e garbe, molti bei limoni e cedri, e di tutti questi agrumi molto gran quantità. Sonvi molti fichi tutto l'anno e molte palme di dattali, e altri arbori e piante che si sono portate di Spagna.
In questa isola non era animale alcuno di quattro piedi se non due sorti d'animali molto piccoli, che si chiamano l'un utias e l'altro coris, che sono quasi a maniera di conigli. Tutti gli altri animali che vi sono al presente, sono stati portati di Spagna; delli quali non mi pare che sia bisogno parlare, dapoi che si portorono di qui, né che si debba notar altro che la gran quantità nella quale sono cresciuti, cosí le mandrie di vacche come gli altri; ma sopra tutto le vacche, le quali sono augumentate in tanta quantità che sono molti patroni di bestiami che hanno piú di duemila capi, e assai passano tre e quattromila, e v'è chi arriva a piú di ottomila. Di cinquecento, o poco piú o manco, ne son molti che n'hanno. E la verità è che 'l paese ha li megliori pascoli del mondo per simili bestiami, e acque molto chiare e aere temperato; e cosí gli armenti sono maggiori e piú belli molto di tutti quelli che sono in Spagna. E perciochè il tempo in quelle parti è molto piacevole e soave, e di nissuno freddo, però non sono mai magre, anzi grassissime e di molto buon sapore; e similmente vi sono molte pecore e porci in gran quantità, delli quali e delle vacche molti ne sono fatti salvatichi; e medesimamente molti cani e gatti, di quelli che si menorono di Spagna per servizio degli abitanti che passorono in quelle parti, quali andorono al bosco. E vi sono di loro molti e cattivi, e spezialmente cani, che si mangiano già molti bestiami, per poca cura de' pastori che mal gli guardano. Vi sono molte cavalle e cavalli, e tutti gli altri animali delli quali si servono gli uomini in Spagna, che si sono augumentati di quelli che furono menati di qui.
Vi sono alcuni luoghi medesimamente che sono abitati, ancora che piccioli, nella detta isola, delli quali non curarò di dire altra cosa, se non questo, che veramente tutti sono in siti e regioni che, correndo il tempo, cresceranno e si faranno nobili, per causa della sua molta fertilità e abbondanzia del paese. Pur del principal di questi luoghi, ch'è la città di S. Domenico, parlando piú particolarmente, dico che quanto agli edificii non è terra alcuna in Spagna a tanto per tanto, ancora che sia Barzellona, la quale ho io molto ben visto molte volte, che se gli possa anteponere generalmente, perchè le case di S. Domenico sono di pietra come quelle di Barzellona per la maggior parte, o di terra sí ben lavorata e forte che fa una singulare e forte presa. E il sito è molto miglior di quel di Barzellona, perchè le strade sono tanto e piú piane, e molto piú larghe, e senza comparazione alcuna piú diritte, perchè, essendo stata fondata a' nostri tempi, oltra l'opportunità e apparecchio della disposizione che ha il luogo di fondarla, fu tutta dirizzata a corda e compasso; e tutte le strade a misura, nel che è molto superiore a tutte le città ch'io ho visto. Ha il mare sí vicino, che da una parte tra il mare e la città non è piú spazio della muraglia, e questo è circa di cinquanta passi largo donde è piú lontana, e per quella parte li battono l'onde negli vivi sassi e costa brava.
Dall'altra parte, a canto e a piè delle case, passa il fiume Ozama, che è porto maraviglioso, e le navi cariche surgono vicino alla terra e sotto le finestre, e non piú lontano dalla bocca dove il fiume entra in mare, di quanto è dal piè del colle di Monivie al monasterio di San Francesco, o alla loggia di Barzellona. E in mezo di questo spazio nella detta città è la fortezza e castello, sotto del quale e lontano venti passi passano le navi a surgere, alquanto piú avanti nel medesimo fiume e dall'entrar delle navi, finchè buttando l'ancora non si allontanano dalle case della città trenta o quaranta passi se non a lungo di ella, perciochè da quella parte l'abitazione è vicina al fiume. Dico che porto di tal sorte bello, né sí atto a discaricare non si trova in molte parti del mondo.
Li fuoghi che possono essere in questa città sono da settecento, e tali case come ho detto; e alcune particolarmente sono sí buone che qualsivoglia de' signori di Castiglia si potriano molto ben alloggiar in esse, e particolarmente quella che lo admirante don Diego Colombo, vice re di vostra maestà, vi ha, è tale che non so io alcuna in Spagna che per un quarto l'abbia tale, considerate le qualità di quella; cosí il sito, che è sopra il detto porto, come per esser tutta di pietra e aver molte buone e assai stanze, e della piú bella vista di mare e di terra che possa essere; e per l'altre quattro parti che si hanno a fare di questa casa, ha la disposizione simile a quello che è finito, che è tale che, come ho detto, vostra maestà vi potrebbe star sí ben alloggiato come in una delle piú compiute case di Castiglia.
Èvvi ancora una chiesa catedrale che ora si lavora, dove cosí l'episcopo come le dignità e canonici sono molto ben dotati, e secondo lo apparecchio che vi è di pietre, calcina e altro che lavorano, e la continuazione del lavoro, si spera che molto presto sarà compita, e sarà assai sontuosa e di buona proporzione e bello edificio, per quello ch'io viddi già fatto. Sonvi medesimamente tre monasterii, che sono San Domenico, San Francesco e Santa Maria della Mercede, ancora loro molto ben edificati, ma moderati però e non fatti con tanta curiosità come quelli di Spagna. Ma parlando senza pregiudicio di alcuno monasterio di religiosi, può vostra maestà tener per certo che in questi tre monasterii si serve ad Iddio molto devotamente, perciochè veramente sono in quelli santi religiosi e di molto buono esempio. Vi è ancora un molto bello ospitale, dove li poveri sono accettati e ben trattati, che fu fondato da Michel Passamonte, tesoriero di vostra maestà.
Vassi questa città di giorno in giorno augumentando e facendo piú nobile, e sempre sarà maggiore, sí perchè in quella fa la sua residenzia il detto admirante, vice re e consigliero, e la cancelleria reale che vostra maestà tiene in quelle parti, come perchè di quelli che vengono in quella isola li piú ricchi sono gli abitatori della detta città di San Domenico.
Della gente naturale di questa isola e d'altre particolarità di quella.
Cap. III.
La gente di questa isola è d'alquanto minor statura che comunemente è la spagnuola, e di color berettino chiaro. Hanno moglie proprie, né alcuno di loro toglie per mogliera sua figliuola o sua sorella, e s'abstien da sua madre, e in tutti gli altri gradi usan con loro, essendo e non essendo sue mogliere. Hanno la fronte larga, e li capelli neri e molto distesi, e niente di barba, né peli in alcuna parte della persona, cosí gli uomini come le donne; e s'alcuno o alcuna se ne trova ch'abbi alcune di queste cose, sono, tra mille, uno o pochissimi. Vanno nudi come nacquero, salvo che le parti che manco si debbon mostrare portano uno pampano, ch'è un pezzo di tela, grande quanto una mano, ma non messo con tanta diligenzia ch'impedisca che non si vegga quanto ch'hanno.
Ma mi par conveniente cosa, prima che io proceda piú avanti, dire la sorte del pan e mantenimento ch'hanno gl'Indiani di questa isola, acciochè ne resti manco che dir nelle cose di terra ferma, perchè in questa parte e questi e quelli hanno uno medesimo sostentamento.
Del pan che fanno gl'Indiani del maiz.
Cap. IIII.
Nella detta isola Spagnuola hanno gl'Indiani, e li cristiani ch'usano mangiare il pane degl'Indiani, due sorti di pane, una di maiz, ch'è grano, l'altro di cazabi, ch'è radice. Il maiz è un grano che nasce in certe panocchie di mezo piè l'una in circa di lunghezza, piene di grani grossissimi quasi come ceci bianchi, e seminasi e ricogliesi in questa maniera.
In prima si eradicono li canneti o boschi dove si vuol seminare, perchè la terra dove nasce erba, e non arbori o canne, non è tanto fertile. E dapoi che è fatto questa tagliata, s'abbruccia, e dipoi abbrucciata la terra tagliata, resta di quella cenere uno temperamento nella terra miglior che se fusse letame. E piglia un Indiano un legno in mano, alto quanto un uomo, e dà un colpo di punta in terra e subito lo tira fuora, e in quel buco ch'ha fatto butta con l'altra mano sette o otto, o poco piú o manco grani del detto maiz, e va subito un passo avanti e fa il medesimo, e in questo modo a compasso va seguitando, fin che giunge al capo della terra che si semina e va mettendo la detta semenza; e appresso del primo vanno altri dalle bande facendo il simile, e in questo modo tornano a dar la volta al contrario seminando, e continuando cosí fin che forniscono.
Questo maiz dopo pochi giorni nasce, tal che in quattro mesi si raccoglie, e in qualche luogo si trova alcuna volta piú presto, perchè viene in tre mesi; perochè, cosí come va nascendo, hanno cura di cavar via l'erbe che gli nascon attorno, fin che sia tanto alto che già il maiz vadi superchiando l'erbe. E come egli è già ben cresciuto e comincia a granire, bisogna guardarlo, nella qual cosa gl'Indiani tengono occupati li loro garzoni, li quali per tal causa fanno star in cima d'arbori o di solari, che loro fanno di canne e di legname, coperte di sopra per la pioggia o sole, da' quali danno gridi e voci, cacciando via li pappagalli che vengon in frotta a mangiar li detti maizali.
Questo grano ha la canna, over asta dove nasce grossa quanto il dito minore della mano, alcuni manco, alcuni alquanto piú; e cresce piú alto communemente che la statura d'un uomo; e la foglia è come quella della canna commune di qui, salvo ch'è piú lunga e piú flessibile e non tanto aspra, ma non manco stretta. Butta ogni canna una panocchia, nella quale sono dugento o trecento o cinquecento piú e manco grani, secondo la grandezza della panocchia, e alcune canne buttano due o tre panocchie, e ogni panocchia sta involta in tre o quattro o almanco due foglie o scorzi, congiunti e accostati a quella, aspri alquanto e quasi del colore o sorte delle foglie della canna, nella qual nasce e sta rinvolto il grano, di modo ch'è molto guardato dal sole e dal vento; e lí dentro si stagiona, e come egli è secco si raccoglie; però li pappagalli e gatti mammoni gli fanno molto danno, se non gli fanno la guardia.
Dalli gatti mammoni nell'isola stanno sicuri perchè, come da principio abbiam detto, nessuno animal di quattro piedi eccetto coris e utias si truova in quella, e questi duoi animali non lo mangiano; ma adesso gli porci portativi da' cristiani gli fanno danno. E in terra ferma molto piú, perchè sempre in essa sono stati de' salvatichi, e molti cervi e gatti mammoni che mangiano li detti maizali. Per questo, tanto per gli uccelli quanto per gli animali, convien aversene vigilante e continua guardia, mentre che nella campagna è il maiz, e questo avendo imparato li cristiani dagl'Indiani, lo fanno della medesima maniera tutti quelli ch'al presente in quella terra vivono.
Suole uno staio di seme renderne venti, trenta e cinquanta e ottanta; e in alcune parti piú di cento staia. Colto questo grano e posto in casa, si mangia in questo modo. Nell'isole lo mangiano in grani arrostito, o essendo tenero quasi in latte senza arrostirlo; e dipoi che li cristiani si posero ivi ad abitare, si dà a' cavalli e bestie delle quali si servono, ed è a quelli di gran sustanzia. Ma in terra ferma hanno gl'Indiani un altro uso di questo grano, ed è in questo modo. L'indiane lo macinano in una pietra alquanto concava con un'altra pietra tonda, come sogliono li dipintori macinar li colori, gettando a poco a poco un pochetto d'acqua, la qual cosí macinando si mescola col maiz, ed esce di questa macinatura una sorte di pasta come una massa, della quale pigliano un poco e rivoltanla in una foglia d'erba, che già loro hanno preparata per questo servizio, o nella foglia della canna del medesimo maiz o altra simile, e gettanla nella brace, dove s'arrostisce e s'indurisce e si fa come pane bianco, e fa la sua crosta di sopra e di dentro la midolla. Di questa sorte di pane è la midolla assai piú tenera che la crosta, e debbesi mangiar caldo perchè, essendo freddo, non ha tanto buon sapore, né è tanto facile a masticare, perchè è piú secco e aspro. Questa sorte di pane anco si lessa, pure non è sí buono al gusto; aggiugnesi che questo pane, dipoi lessato o arrostito, non si mantiene se non pochi giorni, ma subito fra quattro o cinque giorni diventa muffato né si può mangiare.
D'un'altra sorte di pane che fanno gl'Indiani d'una pianta che chiamano iuca.
Cap. V.
È un'altra sorte di pane, qual si chiama cazabi, che si fa di certa radice d'una pianta che gl'Indiani chiamano iuca: questo non è grano, ma pianta, la qual fa certi fusti piú alti d'un uomo, e ha la foglia della medesima maniera della canapa, grande come una palma di una mano d'un uomo ch'abbia aperte e distese le dita, salvo che questa foglia è maggiore e piú grossa di quella della canapa. Pigliano il fusto di detta pianta per seminarla, e partonla in pezzi grandi duoi palmi, e alcuni uomini fanno monticelli di terra per ordine a filo, egualmente lontani l'uno dall'altro, come in questo regno di Toledo piantano le viti a compasso, e in ogni monticello mettono o cinque o sei o piú pezzi di questa pianta; altri non curano di far monticelli, ma nella terra piana lasciando eguali spazii ficcano questi piantoni. Ma prima hanno tagliato e arso in bosco per seminar la detta iuca, come si disse nel capitolo del maiz scritto avanti a questo; e de lí a pochi dí nasce, perchè subito germuglia, e sí come va crescendo la iuca, cosí vanno nettando il terreno dall'erba, fin che detta pianta signoreggi l'erba, e questa non ha pericolo d'uccelli, ma di porci, se non è di quella che ammazza.
Questo dico perchè se ne trova una sorte venenosa, la quale loro non ardiscono mangiare, perchè mangiandola creperebbono. Dell'altra che non ammazza bisogna averne cura, perchè il frutto di questa nasce nelle radici della detta pianta, intra le quali nascono certe mazocchie, come carotte grosse e molto piú grandi communemente, le quali hanno la scorza aspra, di colore come leonato o bigio: dentro sono molto bianche, e per far pane di quello che chiamano cazabi la grattano, e dipoi quella ch'hanno grattata struccolano in uno cibucan, ch'è un instrumento come un sacco, di dieci palmi o piú longo e grosso come la gamba, che gl'Indiani fanno di palma, come stuora tessuta, e con quel detto cibucan cioè sacco torcendolo assai, come si costuma a fare quando delle mandole si vuol cavare il latte; e quel succo che si cava di questa iuca è mortifero e potentissimo veneno, perchè un fiato di quello preso subito ammazza, ma quello che resta, dapoi cavato il detto sugo o acqua della iuca, che resta come una semola trita, lo pigliano e mettonlo al fuoco in un tegame di terra, cioè intian, della grandezza che vogliono fare il pane, molto ben calda, e la mettono distesa, tenera e premuta molto bene, di modo che non vi sia succo alcuno, la qual subito si congela e fassi una torta, della grossezza che vogliono fare e della grandezza del detto tegame nel qual cuocono; e come è congelata la cavano e l'acconciano, ponendola alcune volte al sole, e dipoi la mangiano: ed è buon pane.
Ma dovete sapere che quell'acqua che prima vi dissi, ch'era uscita della detta iuca, dandogli alcuni bollori e ponendola al sereno alquanti giorni, s'addolcisce, e se ne servono gl'Indiani come di miele o altro liquor dolce per messedar con altri mangiari; e dipoi ancora, tornandola a bollire e mettere al sereno, diventa agro quel sugo, e se ne servono per aceto in quel che vogliono usare e mangiare senza pericolo alcuno. Questo pane di cazabi si mantiene un anno e piú, e portasi da luogo a luogo molto lontano senza guastarsi, e ancora per mare è buona provisione, e si naviga con esso per tutte quelle parti e isole e terra ferma; né si guasta se non si bagna.
La iuca di quella sorte, il succo della quale ammazza come è detto, se ne trova in gran quantità nell'isola di San Giovanni, Cuba e Iamaica. E nella Spagnuola n'è un'altra sorte, che si chiama boniata, il succo della quale non ammazza, anzi si mangia la iuca arrostita come le carotte, e con vino e senza, ed è buon mangiare; e in terra ferma tutta la iuca è di questa boniata, e io n'ho mangiato molte volte, perchè in quella terra non curano di far cazabi se non pochi, e communemente la mangiano nel modo ch'ho detto, arrostita sopra le brace, ed è molto buona.
Ma quella della quale il succo ammazza è nell'isole, dove è accaduto alcuna volta trovarsi alcun cacique o principal Indiano, e molti altri con lui, li quali, volendo volontariamente morir insieme, poichè il principale per esortazione del demonio, ha detto a quelli che vogliono morire con lui le cause che gli pareva per tirargli al suo diabolico fine, tolto ciascun di loro un fiato dell'acqua o succo della iuca, subitamente morivano tutti senza rimedio alcuno. Questa iuca non ha la sua perfezione e non è da raccogliere se non passano dieci mesi o un anno che sia seminata, e a questo tempo si comincia adoperare e servirsi d'essa.
Del mantenimento over provisione ch'hanno detti Indiani, dapoi il detto pane.
Cap. VI.
Dapoi che s'è detto del pane degl'Indiani, diremo delle altre provisioni di viver che in detta isola usano, con le quali si mantengono, piú che di frutti o peschiere, della qual cosa mi riserbo a dire per l'avenire, per esser commune a tutte l'Indie. Dico adunque che appresso di quello, mangiano li detti Indiani quelli cories e utias delli quali per avanti s'è fatto menzione: e li utias sono come sorzi grandi, o tengono con quelli qualche similitudine, e li cories sono come conigli o coniglietti piccoli, e non fanno male e sono molto belli, e ne sono di bianchi tutti, e alcuni bianchi e rossi e d'altri colori.
Mangiano similmente una sorte di serpi detti yuanas, che al veder sono molto fieri e spaventevoli, ma non fanno male, né ancora si sa se sono animali o pesci, perchè vanno per l'acqua e per gli arbori e per terra, e hanno quattro piedi, e sono maggiori che conigli, e tengono la coda come lagarti, cioè ramarri, e la pelle loro è dipinta, e di quella sorte di pellatura, benchè diversa e separata nelli colori; e per il filo della schiena hanno spini levati; e li denti acuti, e massime li canini, e hanno un gosso molto lungo e largo, che gli arriva dalla barba al petto, della medesima pelatura e sorte dell'altra sua pelle, e son muti, che non gemeno né gridano né suonano, e stanno legati al piè di una arca, o dove si voglia legargli, senza far male alcuno né strepito dieci, quindeci giorni senza mangiare né bere cosa alcuna; pure gli danno da mangiare qualche poco di cazabi o altra cosa simile. Ed è di quattro piedi, e ha li piedi davanti longhi con deta, e l'unghie longhe come di uccello, pure fiacche e non di presa. Ed è molto miglior per mangiare che da vedere, perchè pochi uomini sarebbero quelli che lo ardissero mangiare se lo vedessero vivo, eccetto quelli che già in quelle parti sono usati a non aver paura di esso, né di altri molto maggiori animali in effetto, chè questo non è se non in apparenzia. La carne di questo animale è cosí buona, e molto migliore di quella del coniglio, ed è sana, perchè non noce se non a quelli che hanno avuto il mal francioso; ma quelli che sono stati tocchi da questa infermità, benchè molto tempo siano stati sani, nondimeno gli fa danno, e si lamentano di questo mangiare quelli che l'hanno provato, secondo che da molti, che con la sua persona ne hanno fatto esperienzia, l'ho molte volte udito dire.
Degli uccelli dell'isola Spagnuola.
Cap. VII.
Degli uccelli che sono in questa isola non ho parlato, però dico che ho camminato piú di ottanta leghe per terra, che è dalla terra di Iaguana alla città di San Domenico, e ho fatto questo cammino piú di una volta, e in nessuna parte ho veduto manco uccelli che in quella isola. E perciò, perchè tutti quelli che in essa viddi sono ancora in terra ferma, delli quali al suo luogo per lo avenire piú largamente dirò tutto che in questo articulo overo parte si debbe dichiarare, solamente dico che parlando delle galline venute di Spagna ce ne sono molte, e molti buoni capponi. Dirò ancora molto manco di quello che appartiene ai frutti naturali del paese, overo altre piante ed erbe, come pesce di mare e acqua dolce, nella narrazione di questa isola, perchè tutti sono in terra ferma e piú copiosi, e molte altre cose che per l'avenire al suo luogo si diranno.
Dell'isola della Cuba, e altre.
Cap. VIII.
Nell'isola della Cuba e di altre, le quali sono San Giovanni e Iamaica, sono tutte queste cose che si sono dette delle genti e altre particolarità dell'isola Spagnuola; similmente si può dire, benchè non cosí copiosamente, perchè sono minori pure in tutte sono le medesime cose, cosí di minere di oro e di rame come bestiami, arbori, piante e pesci e di tutto quello che è detto. Pure similmente in alcune di queste non era animale alcuno di quattro piedi, se li cristiani non ve ne portavano, sí come nella Spagnuola, finchè li cristiani non gli portorono in quelle; e al presente in ciascuna n'è gran quantità, e similmente molti zuccari e canne di cassia e tutto che di piú è detto. Pure nell'isola di Cuba è una sorte di pernici, che sono picciole, e sono quasi di specie di tortore nelle penne, ma molto megliori di sapore, e pigliasene in grandissimo numero, e condotte in casa vive e salvatiche, in tre over quattro giorni diventano sí domestiche come se le fussero nate in casa. S'ingrassano in molti modi, e senza dubbio è un mangiar molto delicato nel sapore; e io le tengo per molto migliore che le pernici di Spagna, perchè non sono di cosí dura digestione.
Ma, lasciato da parte tutto quello che è detto, vi è due cose admirabili che sono nella detta isola di Cuba, che al mio parere mai piú si udirono né si scrissero. Una è che vi è una valle che dura due o tre leghe tra duoi monti, qual è piena di pallotte da bombarda, liscie e di sorte di pietra molto forte e tondissime, tali che con alcun artificio non si potriano far piú eguali o rotonde, ciascuna nell'esser che la tiene. E ne sono alcune cosí picciole come pallotte da schioppetto, e de lí in suso di maggior grossezza crescendo, ve ne sono tali e cosí grosse come per ciascuna sorte di artiglieria, benchè la portasse tanta polvere come un quintale, o di due o maggior quantità, e di grossezza come si volesse; e trovansi queste pietre in tutta quella valle, come se fussero di minera, e cavando si trovano secondo che le si vogliono, o se n'ha bisogno.
L'altra cosa è che nella detta isola, e non molto lontano dal mare, esce d'una montagna uno liquore o bitume come pegola, molto sufficiente e tale come si richiede per impalmare li navilii, della qual materia entra in mare continuamente molto copia, si vede andar sopra l'acqua in cima dell'onde d'ogni banda, secondo che i venti la muovono o corrono l'acque del mare, in quella costa dove questo bitume o materia ch'è detta va. Quinto Curzio nel suo libro dice che Alessandro arrivò alla città di Memi, dove è una gran caverna o spelonca, nella qual è una fontana che mirabilmente butta grandissima copia di bitume, di sorte che facil cosa è da credere che li muri di Babilonia potessero essere fatti di bitume, secondo che 'l detto autore dice. Non solamente nella detta isola di Cuba ho visto questa minera di bitume, ma un'altra tale nella Nuova Spagna, ch'è poco tempo che si trovò nella provincia che chiamano Panuco, il quale bitume è molto migliore che quello della Cuba, come s'ha visto per esperienzia impalmando alcuni navilii.
Ma lasciando questo da parte, e seguendo quel che mi ha mosso a scrivere questo Sommario, per ridurre alla memoria alcune cose notabili di quelle parti, e rapresentarle a vostra maestà, benchè non mi vengono in memoria cosí ordinarie e copiosamente come le tengo scritte, avanti che passi a parlare della terra ferma, voglio dir qui d'una certa sorte di pesci che gl'Indiani della Cuba e Iamaica pigliano, che usano nel mare, e in un altro modo di caccia o pescheria che in queste due isole li detti Indiani fanno quando cacciano o pescano l'oche salvatiche; ed è di questa sorte. Egli è un pesce longo un palmo o poco piú, che si chiama pesce roverso, brutto da vedere ma di grandissimo animo e intendimento, il qual accade alcune volte che vien preso con gli altri pesci nelle reti, delli quali io n'ho mangiati assai; e gl'Indiani, quando vogliono guardare e allevare alcuno di questi, lo tengono nell'acqua del mare, dove gli danno da mangiare, e quando vogliono pescare con esso lo portano al mare con la sua canova, ch'è come una barca, e tengonlo lí in acqua e gli attaccano una fune doppia molto forte; e quando veggono alcun pesce grande, come sarebbe una testudine o savalo, che ne sono di grandi in quelli mari, o altro qual si sia, che accade andar sopra acqua o di sorte che si possa vedere, l'Indiano piglia in una mano questo pesce roverso, e con l'altra carezzandolo gli dice nella sua lingua che 'l sia animoso e di buon cuore e diligente, e altre parole esortatorie per fargli ardire, e che facci d'esser valente e che s'attachi con il maggiore e miglior pesce che vedrà; e quando gli pare lo lascia e lancia verso dove li pesci vanno.
Il detto roverso va come una freccia e s'attacca da un lato con una testudine, o nel ventre o dove si può, e legasi con essa o con altro pesce grande con qual vuole, il qual, come si vede attaccato da quel pesce piccolo, fugge per il mare di qua e di là. In tanto l'Indiano non fa altro che dare e slungare la corda di tutto punto, la qual è di molte braccia, e nel fine di quella è attaccato un pezzo di sughero o legno o cosa leggiera per segnale che stia sopra l'acqua; e in poco processo di tempo il pesce o testudine grande, con la qual il detto roverso si afferrò, straccandosi, se ne viene verso la costa della terra; e l'Indiano comincia a raccoglier la sua fune nella canova, overo barca, e quando gli manca poche braccia da raccogliere comincia a tirare con destrezza a poco a poco, e tira guidando il roverso, e il pesce col quale sta attaccato, fin che arrivan a terra; e quando egli è a meza via, o l'intorno, l'onde medesime del mare lo gettan fuora, e l'Indiano similmente lo piglia e porta fin che lo mette in secco, e quando già è fuori dell'acqua il pesce è preso con molta desterità a poco a poco, e ringraziando con molte parole il roverso di quello che gli ha fatto e travagliato, lo spicca dall'altro pesce grande che cosí il prese; al quale sta tanto appiccato e fisso che, se per forza si spiccasse, si romperebbe o squarciarebbe il detto roverso.
E sono delle testudini tanto grandi che piglia, che duoi Indiani, e alle volte sei, hanno molta fatica a portarle in spalla fin alla villa. Conduce alla mazza alcuni altri pesci ancora cosí grandi e maggiori, delli quali il detto roverso è il boia che gli prende, nella forma che è detta di sopra. Questo pesce roverso ha alcune squamme fatte a foggia di scalini, o vero come è il palato nella bocca dell'uomo o d'un cavallo, e sopra quelle certe spinette sottilissime, aspre e forti, con le quali si appicca con li pesci che vuole. E queste squamme di spinette l'ha per la maggior parte del corpo.
Ma passando al secondo che di sopra è detto, del prendere dell'oche salvatiche, sappia vostra maestà che, al tempo del passaggio di questi uccelli, passa per quell'isola una molto grande moltitudine di quelli, quali sono molto belli, perchè sono tutti neri e il petto e il corpo bianco, e all'intorno degl'occhi come un cerchietto di carne tondo molto colorito, che pare verissimo e fin corallo; il quale si congiugne nelli cantoni degli occhi e similmente nel principio dell'occhio verso il collo, e de lí descendono per mezo del collo linee al diritto una dell'altra, fino al numero di sei e sette d'esse o poco manco. Queste oche in gran quantità si mettono insieme in una gran laguna ch'è in detta isola, e gl'Indiani che abitano ivi attorno gettano dentro detta laguna di gran zucche vote e tonde, le quali vanno sopra l'acqua, e il vento le porta d'una parte e dall'altra, e le mena fino alla riva. L'oche al principio si spauriscono, e si levano e dispardano vedendo le zucche; pure, quando le veggono che le non gli fanno male, a poco a poco perdono la paura, e di dí in dí, dimesticandosi con le zucche e senza pensamento alcuno, s'arrischiano a montar molte delle dette oche in cima di quelle, e cosí sono portate ora in una parte ora in un'altra, secondo che 'l vento le muove; di modo che, quando l'Indiano già conosce che le dette oche sono molto assicurate, e domestiche della vista del movimento e uso delle dette zucche, si mette una di quelle in testa fino alle spalle, e con tutto il resto del corpo va sotto acqua, e per un bucco piccolo guarda dove sono le dette oche, e si mette appresso quelle, e subito alcune nella zucca saltando in cima, e come lui la sente si parte molto pianamente, se vuole notando, senza esser veduto o sentito da quelle che porta sopra di sé, né d'alcuna altra.
Ma ha a sapere vostra maestà che in questo caso del notare hanno la maggiore agilità gl'Indiani che si possa pensare. E quando egli è un poco lontano dall'altre oche, e che gli pare che sia tempo, cava fuora la mano e se la tira per li piedi e la mette sotto acqua, e annegata l'appicca sotto alla cintura, e nella medesima maniera torna a prenderne dell'altre; e con questa forma e arte prendono gl'Indiani molta quantità delle dette oche, non le facendo disviar de lí: cosí come elle gli montano in cima, cosí le prendono e mettono sotto acqua e poi alla cintura, e l'altre non si levano né spaventano, perchè pensano che quelle tali medesime si siano buttate sotto acqua per prendere qualche pesce. E questo basti quanto a quello che appartiene all'isole, dapoi che del traffico e ricchezze di quelle, nella istoria quale scrivo, nissuna cosa resta a scrivere di quanto fin ad ora si sa.
E passiamo a quello che di terra ferma posso ridurmi alla memoria. Pure prima mi soviene d'una malatia che è nell'isola Spagnuola e altre isole che sono state abitate da' cristiani; la quale già non è cosí ordinaria come fu nelli principii che dette isole si acquistorono, ed è che agli uomini nasce nelli piedi tra pelle e carne, per industria d'un pulice, o cosa molto minore che il piú picciolo pulice, che entra lí dentro, a modo d'una borsa picciolina cosí grande come un cece, e si empie di lendine, che è il lavoro che quella cosa fa, e quando non si tira via con tempo lavora di sorte e cresce quella specie di niguas, perchè cosí si chiama questa bestiola, nigua, di modo che restano gli uomini deboli di qualche membro e storpiati delli piedi per sempre, tale che piú di loro non possono servirsi.
Delle cose della Terra ferma.
Cap. IX.
Gl'Indiani della terra ferma, quanto alla disposizione della persona, sono maggiori un poco, e piú uomini e meglio fatti, che quelli dell'isole, e in alcune parti sono belli e in altre non tanto; combattono con diverse armi e in diversi modi, secondo l'uso di quelle provincie o parti che stanno. Quanto al maritarsi, fanno nel modo che s'è detto che si maritano nelle isole; perchè in terra ferma similmente non si maritano con sue figliuole, né con sorelle, né con sua madre.
Qui non voglio dire né parlare della Nuova Spagna, benchè la sia parte di questa terra ferma, perchè di quella Hernando Cortese ha scritto secondo che gli è parso, e fatto relazione per sue lettere, e molto copiosamente. Io similmente ho raccolto molte cose nelli miei memoriali, per informazione di molti testimonii di veduta, come uomo che ha desiderato trovare e sapere la verità. Dapoi che il capitano qual prima signor Diego Velasque mandò fino alla Cuba il capitano chiamato Francesco Hermandes di Gordova, la discoperse, overo per dir meglio toccò primo in quella terra, perchè discopritore, parlando con la verità, nessuno si può chiamare se non lo admirante primo dell'Indie, don Cristoforo Colombo, padre dello admirante don Diego che al presente è, per aviso e cagione del quale gli altri sono andati e navigati in queste parti. E dietro al detto capitano Francesco Hernandes mandò il detto signor capitano Giovan Grisalva, che vidde molto di quella terra e costa, del quale furono quelle diverse mostre di robbe che a vostra maestà mandò a Barzellona l'anno MDXIX; e il terzo per comandamento del detto signor don Diego che in quella terra passò fu il capitano Hermando Cortese. Questo e molto piú si troverà, e piú copiosamente detto nel mio trattato, overo generale istoria delle Indie, quando piacerà a vostra maestà che si dia in publico.
Lasciata adunque la Nuova Spagna a parte, dirò qui alcuna di quelle che nelle altre provincie, overo al manco nelle città di Castiglia loro si sono vedute, e per costa del mare detto Nort, cioè Tramontana, e alcune del mare del Sur, cioè di Mezzodí. Ed essendo da non lasciare di notare una cosa singulare e admirabile che io ho compresa del mare Oceano, e della quale fino al presente nessuno, né cosmografo, né pilotto, né marinaio, né altra persona mi ha satisfatto. Dico che, come è noto a vostra maestà, e a tutti quelli che hanno notizia del mare Oceano, e hanno bene considerato le sue operazioni, questo gran mare Oceano butta da sé per la bocca del stretto di Gibilterra il mare Mediterraneo, nel quale le acque, alla bocca del detto stretto fino al fine del detto mare, né in levante, né in alcuna costa overo parte del detto mare Mediterraneo, il mare non cala né cresce tanto che sia bisogno di guardarsi da grande mare, cioè da grande calare overamente crescere; ma cresce in poco di spazio. E fora del detto stretto, nel mare Oceano, cresce e cala l'acqua grandemente in grande spazio di terra di sei ore in sei ore, cioè in tutta la costa di Spagna, Bretagna, Fiandra, Magna e costa della Inghilterra.
E il medesimo mare Oceano, in terra ferma trovata nuovamente, alla costa che guarda a settentrione, per lo spazio di tremila leghe non cresce né cala, né ancora nella isola Spagnuola e Cuba e tutte le altre del detto mare che guardano a settentrione, se non nel modo che in Italia il mare Mediterraneo, che è quasi niente a rispetto di quello del detto mare Oceano fa nelle dette coste della Spagna e parimente della Fiandra. Ma questo è maggior cosa, ancora che il medesimo mare Oceano nella costa di detta terra che guarda verso ostro nel Panama, e anco nella costa di quella che guarda verso levante e ponente di questa città e delle isole delle Perle, che gl'Indiani chiamano Teracequi, e ancora in quella di Taboga e in quella di Otoque e tutte l'altre del detto mare di Mezzodí, cresce e cala tanto l'acqua che quando cala quasi si perde di vista, la quale cosa io ho veduto moltissime volte.
Noti la vostra maestà un'altra cosa, che dal mare di Tramontana fino al mare Australe, che sono tanto differenti uno dall'altro nel crescere e calare delle maree, non è però da costa a costa per terra piú di disdotto overo venti leghe di traverso; si che essendo il detto Oceano uno medesimo mare, è cosa degna di considerazione grande, massime a quelli che ci hanno inclinazione e desiderano sapere tali secreti della natura; perchè io, dapoi che per persone dotte non mi sono potuto satisfare, né da quelli sapere intendere la causa, mi contenterò sapere e credere che colui che lo fa, che è Iddio, sa questo e molte altre cose che non concede sapere all'intelletto degli uomini, e specialmente a tanto basso ingegno come è il mio. Quelli veramente che hanno miglior ingegno, pensino per loro e per me quello che possa essere la vera causa di tal cosa, perchè io ho posto la questione in campo nelli termini veri, e come testimonio di vista, e fin tanto che la si truovi.
Tornando al proposito detto, che 'l fiume che li cristiani chiamano San Giovanni in Terra ferma entra nel golfo d'Uraba, dove chiamano la Culata, per sette bocche, e quando il mare cala quel poco che è detto che suole in questa costa di tramontana, cala per causa del detto fiume tutto il detto golfo d'Uraba, che è dodici leghe e piú di lunghezza, e sette overo otto di larghezza; resta dolce tutto quel mare, tanto che detta acqua è bonissima da bere, e io ho provato stando surto in una nave in sette braccia d'acqua, e piú d'una lega lontano dalla costa, per il che si può molto ben credere che la larghezza di detto fiume sia molto grande. Tutta volta, né questo né alcun altro che abbia veduto né udito overo letto fin a ora non si può comparar al fiume Maragnon, che è alla parte di levante nella medesima costa, il quale è nella bocca quando entra nel mare quaranta leghe, e piú di altretante leghe dentro in mare si truova acqua dolce del detto fiume.
Questo ho udito io dire molte volte al pilotto Vincenzianes Pinzon, che fu il primo de' cristiani che vidde detto fiume Maragnon, ed entrò in quello con una caravella piú di venti leghe, e trovò in quello molte isole e genti; e per aver cosí poca gente non gli bastò l'animo di smontar in terra, e ritornò fuora di detto fiume, e ben quaranta leghe dentro nel mare tolse acqua dolce del detto fiume. Altri navilii l'hanno veduto, ma quel che ne sa piú di detto fiume è il sopradetto. Tutta quella costa è terra, che ha molti legni di verzini, e le genti sono arcieri.
Tornando al golfo d'Uraba, e da quello verso ponente e alla parte di levante, è la costa alta, e differente le genti nel parlare e nell'armi. Nella costa veramente verso il ponente gl'Indiani combattono con mazze, overo bastoni: le mazze sono da lanciare, alcune di palma e altri legni duri e acuti nella punta, e queste lanciano con tutta la forza del braccio; ne hanno ancora d'un'altra sorte, di canne diritte e leggiere, alle quali mettono per punta una pietra dura, overo una punta d'un altro legno duro incassato, e queste tali traggono con legami che gl'Indiani chiamano torichia. La mazza è un legno un poco piú stretto di quattro dita e grosso, con duoi fili, e alto quanto è un uomo, poco piú o manco, come a ciascuno piace secondo le forze sue, e sono di legno di palma overo d'altro legno che sia forte: e con queste mazze combattono con due mani e danno gran colpi e ferite, come fa una mazzocchia, e di tal forza che, ancor che diano sopra un elmo, fanno uscir di sentimento ogni forte uomo.
Queste genti che tali armi usano, benchè la maggior parte di loro siano bellicosi, non sono però cosí valenti come gl'Indiani che usano l'arco e le freccie; e questi che sono arcieri abitano nel detto golfo d'Uraba, o punta che chiamano della Caribana, verso la parte di levante, la qual costa è similmente alta, e mangiano carne umana, e sono abominevoli sodomiti e crudeli, e tirano le sue freccie avelenate di tal erba che gran maraviglia è che ne scampi uomo. Quelli che sono feriti muoiono rabbiando, mangiandosi a pezzo a pezzo e mordendo la terra.
Da questo luogo Caribana, tutto quello che va costeggiando la provincia di Cenu e di Cartagenia, e li Coronati e la Bocca del Drago, e tutte l'isole che intorno a questa costa sono per spazio di seicento leghe, tutti, overo la maggior parte degl'Indiani sono arcieri, e con freccie avelenate, e fin ora non si è trovato rimedio alcuno a tal veleno, ancor che molti cristiani siano morti di quello. E perchè ho detto Coronati, è conveniente che io dica perchè si chiamano Coronati: e questo è che gl'Indiani vanno tosi, e il capello è tanto alto come cresce a quelli che si son fatti tosar già tre mesi, e nel mezzo del capel cresciuto è una gran cherica, come i frati di santo Agostino che fossero tosati, molto tonda. Tutti questi Indiani Coronati sono gente forte e arcieri, e abitano da trenta leghe di lunghezza per la costa, cioè dalla punta della canoa in suso, fin al fiume grande che chiamano Guadalchibir, appresso Santa Marta, del qual fiume, attraversando io per quella costa, empí una botte d'acqua dolce del medesimo, dapoi entrato nel mare piú di sei leghe.
Il veleno che questi Indiani usano, lo fanno (secondo che alcuni di loro mi hanno detto) d'alcuni pometti odorati e certe formiche grandi, delle quali nel processo del libro si farà menzione, e di marassi e di scorpioni, e altri veleni che loro mescolano, e lo fanno nero che pare una pegola molto nera; del qual veleno io feci bruciar in Santa Marta una quantità in un luogo, due leghe e piú fra terra, con gran quantità di freccie di munizione, nell'anno 1514, con tutta la casa nella quale stava detta munizione, nel tempo che v'arrivò l'armata co 'l capitano Petrarias d'Avila, mandato alla detta terra ferma per il re catolico don Ferdinando. Però, perchè a dietro s'è detto del modo del mangiare e sorte di vettovaglie, quasi gl'Indiani dell'isole si sustentano ad un medesimo modo come quelli della terra ferma. Dico che quanto al pane cosí è la verità, e quanto alla maggior parte de' frutti e pesci. Nondimeno communemente in terra ferma sono piú frutti, e credo piú differenzie di pesci. Hanno ancora molti strani animali e uccelli, e però, avanti che ad essa particolarità si proceda, mi par che sarà meglio dire alcune cose delli villaggi e case, e cerimonie e costumi degl'Indiani, e dipoi andrò discorrendo per l'altre cose che mi verranno a memoria di quelli genti e terre.
Degl'Indiani di terra ferma, de' suoi costumi e cerimonie.
Cap. X.
Questi Indiani di terra ferma sono della medesima statura e colore che quelli dell'isole, e se v'è alcuna differenzia piú tosto è in grandezza che altrimenti; e specialmente quelli che di sopra sono nominati Coronati, che sono forti e grandi senza dubio piú di tutti gli altri che in quelle parti abbia veduto, eccetto quelli dell'isole delli Giganti, che sono posti alla parte di mezzodí dell'isola Spagnuola, appresso la costa di terra ferma; e similmente alcuni altri che loro chiamano Iucatos, che sono alla banda di verso tramontana; e ciascuno di questi segnatamente, benchè non siano giganti, senza dubio sono maggiori degl'Indiani che fino ad ora si sappia, e sono maggiori communemente delli Todeschi, e specialmente molti di loro, cosí uomini come donne, sono molto alti. E sono tutti arcieri, cosí li maschi come le femine; non tirano però con veleno.
In terra ferma il principal signor si chiama in alcune parti quevi, e in altre cacique, e in altre tiba, e in altre guasiro, e in altre in altro modo: perchè tra quelle genti sono molto diverse e separate lingue; pure in una gran provincia di Castiglia dell'Oro, che si chiama Cueva, parlano e hanno miglior lingua che in alcuna altra parte, e questa provincia è dove li cristiani hanno maggior dominio che in altra parte, perchè tutto il detto paese di Cueva, overo la maggior parte tengono soggiogata. Nella qual provincia un uomo principale, che abbia vassalli e sia inferior del cacique, è chiamato sacho. Questo sacho ha molti altri Indiani a sé soggetti, che hanno terre e luoghi, li quali si chiamano cabra, che son come cavalieri overo gentiluomini, separati dalla gente commune e piú principali di quelli del vulgo, e comandano agli altri; pure il cacique, il sacho e il cabra hanno li suoi nomi proprii. E similmente le provincie, fiumi e valli e stanze dove abitano hanno li suoi nomi particolari. E il modo nel quale un Indiano di bassa condizione ascende ad esser cabra, e acquista questo nome e nobilità, è quando in alcuna battaglia d'un cacique o signor contra alcuno altro fa qualche pruova segnalata e che sia ferito: subito il signor principale gli dà il titolo di cabra, e gli dà gente alla qual comandi, gli dà terre o moglie, overo gli fa alcun'altra grazia segnalata per quello che fece in quel giorno; e dapoi è piú onorato degli altri, ed è separato dal vulgo e gente commune, e li figliuoli di tali valenti uomini succedeno nella nobiltà, e gli chiamano cabra, e sono obligati usar la milizia e arte della guerra; e le mogli di questi nominati cabra, oltre il suo nome proprio, le chiamano espaves, che vuol dire signora, e similmente le mogli delli caciqui e principali si chiamano espaves.
Questi Indiani hanno le sue stanze alcuni appresso il mare, altri vicine a qualche fiume over fonte d'acqua dove si possa pescare, perchè communemente la sua principal e piú ordinaria vettovaglia è il pesce; cosí perchè sono molto inclinati a tal cibo, come perchè facilmente lo possono avere in abbondanzia, e meglio che salvaticine, cioè porci e cervi, che similmente ammazzano e mangiano. Il modo come pescano è con reti, perchè le hanno e sanno fare molto bene di cottone, del qual la natura ha loro provisto largamente, e perchè ne hanno molti boschi e monti pieni; ma quello che loro vogliono far piú bianco e migliore, lo curano e piantanlo nelle sue stanze, overo appresso le sue case e luoghi dove abitano.
Le salvaticine e porci prendono con lacci e reti armate, e alcune volte vanno cacciandogli e gridandogli dietro, e con quantità di gente gli serrano e riducono in luoghi dove possono con freccie e mazze tratte uccidergli, e dapoi morti, perchè non hanno coltegli da scorticargli, gli fanno in quarti, il che fanno con pietre e sassi duri, e gli arrostiscono sopra alcuni pali che mettono in forma di graticola, che loro chiamano barbacoas, con il fuoco di sotto. E in questo medesimo modo arrostiscono li pesci, perciochè, essendo la detta terra in clima e regione naturalmente calida, benchè la sia temperata per la divina providenzia, pure presto si guasta il pesce e la carne, chi non l'arrostisce il medesimo giorno che la s'ammazza.
Io ho detto che la terra è naturalmente calida, e per providenzia di Dio temperata, ed è cosí. Non senza causa gli antichi hanno avuta opinione che la torrida zona dove passa la linea dell'equinoziale sia inabitabile, per aver il sole piú dominio in quel luogo che in alcuna altra parte della sfera, e star continuamente fra li duoi tropici Cancro e Capricorno; e cosí si vede cavando sotto che la superficie della terra quanto è l'altezza d'un uomo è temperata; e in quel spazio gli arbori e piante s'appiccano, né piú a basso passano le radici, anzi in tal spazio s'inzoccano e allargano, e tanto e piú spazio tengono di basso con la radice quanto occupano disopra co' rami, né passano piú a fondo le dette radici, perchè piú a basso si truova la terra caldissima, e la superficie di quella temperata e umida molto, sí per le molte acque che in quella terra dal ciel cascano ne' suoi tempi ordinarii tra l'anno, come per la grande quantità di grandissimi fiumi, torrenti, fonti e paludi, delli quali ben ha provisto a quella terra il superno Signor che la formò. Sonvi ancora molte aspre e alte montagne. Èvvi ancora temperato aere, con suavi sereni la notte. Delle quali particolarità non ne avendo notizia alcuna, gli antichi dicevano la detta torrida zona e linea equinoziale esser naturalmente inabitabile: le quali tutte cose io testifico e affermo come testimonio che le ha vedute, e molto meglio mi si può credere che a quelli che, non avendo veduto cosa alcuna, per congiettura hanno avute opinione contrarie.
È posta la costa del mar del Nort, cioè di Tramontana, nel detto golfo d'Uraba e nel porto del Darien, dove arrivano le navi che di Spagna vengono, in sette gradi e mezo, e in sette e manco, e da sei e mezo fino a otto, eccetto qualche punta che intrasse in mare verso settentrione: di queste ve ne sono poche. Quel che di questa terra e nuova parte del mondo giace piú verso il levante è il capo di Santo Agostino, il quale è in otto gradi, sí che il detto golfo d'Uraba è lontano dalla detta linea dell'equinoziale da cento venti fino a cento trenta leghe e tre quarti di lega, a ragion di 17 leghe e meza che si contano per ciascun grado da polo a polo, e cosí per piú o poco manco va tutta la costa; per la qual causa nella città di Santa Maria dell'Antica del Darien e in tutto quel pareggio del sopradetto golfo d'Uraba, tutto il tempo dell'anno sono i giorni e le notti quasi del tutto eguali e se gli è differenzia alcuna in dette notti e giorni per questa poca lontananza dall'equinoziale, è tanto poca che in ventiquattro ore, che è un giorno naturale, non si conosce se non per uomini speculativi e che intendono la sfera.
De lí si vede la Tramontana molto bassa, e quando quelle stelle di detta Tramontana che si chiamano i Guardiani sono di sotto del Carro lei non si può vedere, perchè essa è sotto l'orizonte. Ma perchè in questo libro non sono per dire il sito della terra, passerò alle altre particolarità, come è stato mio principale desiderio e intenzione.
Io ho detto di sopra che ai suoi ordinarii tempi in quella terra piove, e cosí è la verità, perchè v'è verno e state al contrario di quello che è in Spagna, dove è il maggior freddo il dicembre e gennaio di ghiaccio e pioggie, e la state e il tempo del caldo per san Giovanni, o il mese di luglio. In Castiglia veramente detta dell'Oro è a l'opposito. La state e il tempo piú asciuto e senza pioggie è per Natale, e un mese avanti e un mese poi. Il tempo veramente che piove molto è per san Giovanni, un mese poi, e quello ivi si chiama l'inverno, non già perchè allora faccia piú freddo, né per Natale maggior caldo, essendo in questa parte sempre il tempo d'una maniera, ma perchè in quella stagione di pioggie, non si vedendo il sole cosí ordinariamente, par che a quel tempo dell'acque le persone si ristringhino e sentino freddo, ancora che non ve ne sia.
Li caciqui e signori di questa gente tengono e pigliano quante moglie che vogliono, e possendone aver alcuna che gli piaccia e bella, essendo donne di buon parentado e figliuole d'uomini principali della sua nazione, perchè de' forestieri e altre lingue non le prenderiano, con quelle si maritano e hanno per favorite; ma non avendo di queste, pigliano di quelle che miglior gli paiono, e il primo figliuolo che hanno, essendo maschio, quel succede nello stato. E mancando li figliuoli, le figliuole maggiori ereditano, le quali maritano co' suoi principali vassalli. Ma se del maggior figliuolo saranno femine e non figliuoli maschi, non ereditano, ma i maschi della seconda figliuola, se ne sarà, succedono, perchè sanno che i figliuoli di quella sono della sua generazione necessariamente, si che li figliuoli di mia sorella sono veramente miei nepoti, dove di quelli del fratello se ne può avere dubitanza.
L'altre genti pigliano una sola moglie e non piú, e quelle alcuna volta lasciano e prendano altre, la qual cosa accade rare volte, né però a tal cosa bisogna molta occasione, se non la volontà d'una parte o vero di tutte due, e specialmente quando non partoriscono. E communemente sono continenti della sua persona; pur tutta volta vi sono anche molte che volontariamente si concedono a chi le richiede massimamente le principali, le quali da se medesime dicono che le donne nobili e signore non debbono negar alcuna cosa che le si dimandi, non volendo esser villane; tutta volta le dette hanno rispetto di non si mescolare con gente bassa, eccettuando però li cristiani, perchè, conoscendogli valent'uomini, gli tengono communemente tutti nobili, ancor che conoscono la differenzia che è fra l'uno e l'altro, specialmente di quelli che veggono che sono principali e che comandano agli altri, delli quali ne fanno gran conto e si tengono molto onorate quando alcuno di questi l'amano; e molte d'esse, dapoi che conoscono alcuno cristiano carnalmente, gli servano la fede se quello non sta molto tempo lontano o absente, perchè il fin suo non è di esser vedove o religiose che servano castità.
Hanno per costume molte di queste che, quando s'ingravidano, prendono un'erba con la quale subito disperdono, perchè dicono che le vecchie debbono partorire, e che esse non vogliono star occupate e lasciare li suoi piaceri né ingravidarsi; perchè partorendo le tette s'infiappiscono, le quali molto apprezzano e ne tengono conto. Però quando partoriscono vanno al fiume e si lavano, e il sangue e purgazion subito gli cessa, e pochi giorni restano di far servizii per causa del parto, anzi si stringono di modo che, secondo che dicono quelli che con esse usano, sono tanto strette donne che con fatica gli uomini satisfanno al suo appetito, e quelle che non hanno partorito sono sempre quasi come vergini.
In alcune parti portano alcuni lenzuoletti, dal traverso fino al ginocchio intorno intorno, che cuoprono le sue parti inoneste; il resto veramente del corpo vanno nude come nacquero. E gli uomini principali portano alle parti pudibunde una cannella d'oro; gli altri veramente portano alcuni buovoli, come caragoli grandi, nei quali mettono il membro virile, del resto vanno nudi, perchè dei testicoli che sono vicini, hanno detti Indiani opinione che non sia cosa di averne vergogna, e in molte provincie non portano né gli uomini né le donne alcuna cosa in tal parte né in altra della persona. Nominano la donna ira nella provincia di Cueva, e l'uomo chui. Questo nome ira posto alla donna parmi che non sia molto disconveniente né fuor di proposito a molte di quelle, né anche a queste di qua.
Le differenzie sopra le quali gl'Indiani fanno risse e guerreggiano, sono sopra alcuni che abbino piú terre o signorie, e quelli che possono ammazzare ammazzano, e qualche volta quelli che prendono inferrano e si servono d'essi per schiavi, e ciascun signore ha le sue catene particolarmente conosciute, e cosí incatenano gli suoi schiavi. Sono alcuni signori che cavano un dente di quelli davanti alli suoi schiavi, e quello è il suo segnale. Le nazioni de' Caribi arcieri, che sono quelli di Cartagenia e della maggior parte di quella costa, mangiano carne umana, né fanno schiavi né donano vita ad alcuno de' suoi nemici o forestieri, anzi tutti quelli che pigliano se gli mangiano, adoperando in servizio le donne che pigliano; e i figliuoli che dette donne parturiscono, se per caso alcuno caribe con esse s'impacciasse, da poi nato se lo mangiano, e i fanciulli de' forestieri che pigliano gli castrano e ingrassano e poi gli mangiano.
Nella guerra, over quando vogliono parer uomini di conto, si dipingono con xaugua, che è uno arbore del qual piú avanti si dirà, con il qual fanno una tintura nera, e con bixa, che è un'altra cosa colorata, delle quali cose fanno pallotte come di terra rossa (però la bixa è di piú fin colore), e fannosi molto brutti e di pitture molto differenti il volto e tutte le parti che vogliono della persona. E questa bixa è un color molto difficile a nettarsi se non passano molti giorni, e stringe molto le carni, e oltra che gl'Indiani pare che sia una bella dipintura, è di giovamento alla persona.
Quando cominciano le sue battaglie o vanno a combattere, over cominciano altre cose che gl'Indiani vogliono fare, hanno alcuni uomini eletti, i quali tengono in molta riverenza, chiamati da loro tequina, non ostante che ciascuno che sia eccellente in ciascuna arte, o cacciatore o pescatore, o che faccia meglio una rete o un arco o altra cosa, sia chiamato tequina, che vuol dire in nostra lingua maestro: sí che quelli che sono maestri delle sue responsioni e intelligenze con il diavolo gli chiamano tequina. E questo tequina parla col diavolo e ha da esso le risposte, e poi referisce a costoro quello che hanno a fare e quello che debbe essere domane, overo fin molti giorni. Perchè, essendo il diavolo tanto antico astrologo, conosce il tempo, e guarda dove si addrizzano le cose e dove le guidi la natura, e cosí, per l'effetto che naturalmente si spera, dà loro notizia di quello che debbe avenire, e gli dà ad intendere che per sua deità, e come signor del tutto e motor di tutto quello che è e sarà, sa le cose future e che in ogni momento occorrono, e che il fa li tuoni, fa sole, piove, guida le stagioni, e leva via overo dà il vivere.
Per la qual cosa li detti Indiani, essendo dal detto ingannati, vedendo ancora in effetto le cose a lor dette per avanti venute certe, gli credono in ogni altra cosa, tenendolo e onorandolo, facendogli sacrificii, e in molti luoghi di sangue e vite d'uomini, e in altre parti di buoni ed eccellenti odori aromatici, e similmente di cattivi. E quando Iddio dispone il contrario di quanto il diavol ha lor predetto e lo fa mentire, dà ad intendere a' detti Indiani aver mutato sentenza per alcun loro peccato, o con qualche altra bugia che gli pare, essendo sufficientissimo maestro a saper ordinar inganni alle genti, e spezialmente con quelli poveri ignoranti, che non hanno difensione contra sí potente adversario. Dicono chiaramente che 'l Tuira gli parla, perchè cosí nominano il diavolo; e con tal nome di Tuira in alcune parti chiamano ancora li cristiani, pensando con tal nome onorargli e laudargli molto.
È in verità buon nome, o per dir meglio conveniente ad alcuni, e che bene gli sta, perchè sono andate persone in quelle parti le quali, avendo posto da canto la conscienzia e timore della giustizia divina e umana, hanno fatto cose non da uomini ma da dragoni e infedeli; né avendo rispetto alcuno umano, sono stati causa che molti Indiani, quali forse si sarebbono potuti convertire e salvarsi, si sono morti per diverse maniere e forme; e ancorchè questi tali non si fussero convertiti, vivendo potevano esser utili al servizio di vostra maestà e giovamento a' cristiani, e non si sarebbero disabitate totalmente alcune parti della terra, le quali per tal causa son quasi prive di gente. E quelli che di tal danno sono stati causa chiamano il disabitato pacifico. Io veramente lo chiamo distrutto.
Però in questa parte ben satisfatto il Signor Dio e il mondo della santa intenzione e opera di v. maestà, avendo con consiglio di molti teologi e dottori e persone intelligenti provisto e rimediato con la giustizia a tutto quello ch'è stato possibile, e molto piú ora, con la nuova riformazione del suo Consiglio regale dell'Indie, essendovi tali prelati e tanti uomini detti canonisti e legisti, e di tanta integrità e bontà, che spero nel Signor Dio che tutti gli errori sin ad ora commessi per quelli che da lí sono passati, per la prudenza de' detti s'emenderanno, e per l'avenire s'indirizzeranno di modo che 'l nostro Sig. Iddio ne sarà servito, e v. maestà similmente, aumentando e facendo ricchi questi suoi regni di Spagna, per la grandissima ricchezza che Iddio a quella terra ha concesso e fin ora servata, acciò v. maestà sia universale e unico monarca del mondo.
Or, tornando al proposito del tequina che gl'Indiani tengono, e questo per parlare col diavolo, per mani e consiglio del quale si fanno quei diabolici sacrificii, costumi e ceremonie degl'Indiani, dico che gli antichi Romani, Greci, Troiani, Alessandro, Dario e altri prencipi antichi, eccettuati li cristiani, furono in questi errori e superstizioni, essendo ancora loro governati da quelli suoi indovini, e tanto soggietti agli errori e vanità e congietture de' suoi pazzi sacrificii, nelli quali adoperandosi il diavolo alcune volte gli accertava e prediceva tal cosa che dapoi aveniva, senza saper altra piú certezza se non quanto il commune adversario della natura umana gli insegnava per condurgli nella perdizione. E non gli succedendo alle volte quello che prima avevano detto, davano diverse esposizioni alle loro oscure e dubbiose risposte, e dicendo gli dei esser con loro indegnati.
Dapoi che vostra maestà è in questa città di Toledo, arrivò qui nel mese di novembre il pilotto Stefano Gomez, il quale nell'anno passato del 1524, per comandamento di vostra maestà, navigò alla parte di tramontana e trovò gran parte di terra continovata a quella che si chiama de los Bachallaos, scorrendo a occidente, e giace in 40 e 41 grado, e cosí poco piú e meno; del qual loco menò alcuni Indiani, e ne sono al presente in questa città, li quali sono di maggior grandezza di quelli di terra ferma, secondo che communemente sono, perchè ancora il detto pilotto disse aver visto molti che sono tutti di quella medesima grandezza; il color veramente è come quelli di terra ferma, sono grandi arcieri, e vanno coperti di pelle d'animali salvatichi e d'altri animali.
Sono in questa terra eccellenti martori e zibellini, e altre ricche fodere, delle quali ne portò alcune pelle il detto pilotto. Hanno argento e rame; e secondo che dicono questi Indiani, e con segni fanno intendere, adorano il sole e la luna; anche hanno altre idolatrie ed errori come quelli di terra ferma.
Or lasciando questo da parte, e tornaremo a continuovare nelli costumi ed errori degl'Indiani, delli quali prima narravamo. È da saper che in molti luoghi di terra ferma, quando alcun cacique o signor principal muore, tutti li piú domestici servitori e donne di casa sua che continovamente lo servivano s'ammazzano, perchè hanno opinione, e cosí gli ha dato ad intendere il Tuira, che quel che s'ammazza quando il cacique muore va con lui al cielo, e in quel luogo serve in dargli mangiare o bere, ove dimorerà sempre essercitando quell'istesso officio che qua vivendo avea in casa di tal cacique; e quello che questo non fa, quando poi muore di sua morte naturale o vero altra, insieme con il corpo muore la sua anima; e che tutti gli altri Indiani e subditi di detto cacique quando muoiono similmente col corpo muore l'anima, e cosí finiscono e si convertono in aere, e diventano niente, come il porco o uccello o pesce o vero altra cosa animata; e questa preminenzia hanno e godono solamente li servitori e famigliari che servivano alla casa del principal cacique in alcuno suo servizio. E da questa falsa opinione nasce che similmente quelli che attendevano a seminargli il pane o raccorlo, per godere di questa prerogativa, s'ammazzano e fanno sotterrare seco un poco di maiz e una mazza piccola: e dicono gl'Indiani che quello portano che, se per caso nel cielo gli mancasse semenza, abbiano quel poco per dar principio al suo esercizio, fin tanto che il Tuira, che tutte queste tristizie gli dà a intendere, gli provegga di maggior quantità di semenza.
Questo ho veduto ben io nella sommità delle montagne di Guaturo dove, tenendo prigion il cacique di quella provincia, che s'era ribellato dal servizio di vostra maestà, e domandandogli di cui erano alcune sepolture poste nella sua casa, mi rispose che erano d'alcuni Indiani che s'erano uccisi nella morte del cacique suo padre. E perchè molte volte hanno in costume sepelirgli con molta quantità d'oro lavorato, feci aprir due sepolture, dentro le quali si trovò il maiz e la mazza che di sopra ho detto: e domandato la causa al detto cacique e altri suoi Indiani, dissero che quelli che ivi erano sepolti erano lavoratori di terra, e persone che sapevano seminare e raccorre il pane, ed erano stati servitori del padre, e perchè non morissero le sue anime con li corpi s'erano uccisi nella morte del padre, e avevano quel maiz e mazza per seminarlo nel cielo. Alli quali io dissi: "Guardate come il Tuira v'inganna e tutto quello che vi dà ad intendere è falso, che dapoi tanto tempo che questi sono morti ancor non hanno portato il maiz e mazza, ma è diventato marcio né vale piú cosa alcuna, e manco l'hanno seminato nel cielo". A questo rispose il cacique che, non avendolo portato, era perchè ne dovieno aver trovato di sopra nel cielo, e di questo non aveano avuto di bisogno; a questo errore gli furno dette molte cose, le quali però sono di poco giovamento a rimuovergli di tal sue false opinioni, e specialmente quelli che si truovano in qualche età, essendo presi dal diavolo, il qual, dell'istessa forma che gli appare quando gli parla, è dipinto da loro di colori e di molte maniere. Similmente lo fanno d'oro di rilievo e l'intagliano in legno, molto spaventevole sempre e brutto, e tanto strano come di qui costumano li pittori dipingerlo alli piedi di santo Michel Arcangelo, o vero in altra parte ove piú spaventevole lo vogliono figurare. Similmente, quando il demonio gli vuole spaventare, gli promette il haurachan, che vuol dire tempesta, le quali fa tanto grandi che rovinano case, e cava di molti e grandi arbori; e io ho visto monti pieni d'arbori molto grandi e spessi, in spacio di mezza lega e d'un quarto di lega esser tutto il monte sotto sopra e ruinati tutti gli arbori piccoli e grandi, e molti di quelli cavati con tutte le radici di sopra la terra: cosa tanto spaventosa a vedere che senza dubbio par fatta per mano del demonio, né si può guardare senza paura. In questo caso debbono contemplar li cristiani, e con molta ragione, che in tutte quelle parti dove è riposto il Santo Sacramento giamai piú son stati li detti haurachani e tempesta di quella qualità, né che siano pericolose come soleano.
Similmente, in alcune parti della detta terra ferma, è costume tra li caciqui che, quando muoiono, prendono il corpo del cacique e l'appoggiano sopra un sasso over legno, intorno del quale molto appresso, guardando però che né la bracia né la fiamma tocchi il corpo del defunto, accendono un gran fuoco e continuo, fin tanto che tutto il grasso e umidità gli esce per l'unghie delli piedi e delle mani e va in sudore e s'asciuga, di modo che la pelle s'attacca agli ossi e tutta la polpa e carne si consuma; e poi che cosí è asciutto, senza aprirlo, chè non bisogna, lo mettono in una parte separata della sua casa, dove è anco il corpo del padre di tal cacique, che per avanti in questa medesima forma era stato posto. E cosí, vedendosi la quantità e numero delli morti, si conosce quanti signori ha avuto quello stato e qual fu figliuolo dell'altro, essendo ivi posti per ordine.
E dicono che quando muore alcuno cacique in alcuna battaglia di mare o di terra, e che sia rimasto in parte che gli suoi non abbiano potuto portar il suo corpo nel suo paese, e metterlo dove anco sono gli altri suoi caciqui, e manca in questo numero, acciò vi resti di lui memoria, non avendo lettere, subito fanno che gli suoi figliuoli imparino e sappino minutamente la maniera della morte e la causa perchè non furno ivi posti, e questa cantano nelle sue canzoni, che lor chiamano areytos.
Onde, poi che di sopra dissi che non hanno lettere, anzi mi dimenticai dire che di quelle stupiscono, dico che quando alcuno cristiano scrive, mandando per alcuno Indiano ad alcuna persona che sia in altre parti, overo lontano da quello che gli scrive la lettera, prendono tanta admirazione vedere che la carta dice in altro luogo quello che vuole il cristiano che la manda, e con tanto rispetto e cura la portano, che gli pare che la carta similmente saprà dire quello che per cammino al portatore sarà occorso, e alcune volte quelli di manco intelletto pensano che l'abbia anima.
Tornando ora a l'areytos, dico che è di questa sorte. Quando li detti vogliono darsi piacere e cantare, si mette insieme una compagnia d'uomini e di donne, e piglionsi per mano, e uno gli guida, al qual dicono che lui sia il tequina, cioè maestro; e quello che gli guida, o sia uomo o sia donna, va alcuni passi avanti e alcuni in dietro, a modo proprio di contrapasso, e in questo modo vanno intorno, e dice costui, cantando in voce bassa over alquanto moderata, quello che gli vien nella mente, e commoda il canto con li passi; e poi che lui ha cantato, tutta l'altra moltitudine gli risponde, la qual con il medesimo contrapasso e canto gli van dietro, ma con voce piú alta. E durano queste sue feste tre e quattro ore, e alle volte da un giorno all'altro, nel qual tempo vanno altre persone lor dietro, dandogli da bere un vino che lor chiamano chicha, del qual piú a basso sarà fatta menzione; e tanto beono che molte volte si imbriacano, di sorte che restano come senza sentimento, e cosí imbriachi dicono come morirono li suoi caciqui, come di sopra è detto, e similmente molte altre cose, come meglio viene loro nella fantasia. E molte volte ordiscono tradimenti contra chi vogliono, e alcuna volta mutano il taquina o maestro che guida il ballo, e quel che di nuovo guida la danza muta il tuono e 'l contrapasso e le parole. Questa sorte di ballar cantando (secondo che io ho detto) si assimiglia molto alla forma de' canti che usano li lavoratori e gente di villa, quando nella state si mettono insieme, uomini e donne, con li cembali nelli suoi sollazzi. Ho visto ancora questa istessa foggia e modo di cantar ballando in Fiandra.
E perchè non mi dimentichi di dir che cosa è quella chicha o vino che beono, e come lo fanno, dico che prendono il grano del maiz, secondo la quantità che voglion far di questa chicha, e lo mettono in molle in acqua, dove sta fin che comincia a dar fuora e che 'l gonfia, e mette alcuni rampolletti in quella parte che il grano stava attaccato nella panocchia di che nacque; e dapoi che è cosí stagionato lo cuocono in acqua, e poi che ha avuti alcuni bollori levano la caldiera nella qual si cuoce dal fuoco, e riposasi: e quel giorno non è da bere, ma il secondo dí comincia a riposar e si può bere, il terzo è bonissimo, perchè sta totalmente riposato, il quarto molto meglio, e passato il quinto giorno comincia a farsi aceto, il sesto piú, il settimo non si può bere, e per questa causa sempre ne fanno tanto che gli basti fin che si guasti. Però nel tempo che è buono è di molto miglior sapore che la sidra o vin di pome, e al mio gusto e di molti è miglior che la cervosa, ed è molto piú sano e temperato; e gl'Indiani hanno questa bevanda per principal sostenimento, e non hanno cosa che gli tenga piú sani e grassi.
Le case nelle qual questi Indiani abitano sono di diverse maniere: alcune sono tonde come un padiglione, e questa foggia di casa si chiama caney. È un'altra maniera di case nell'isola Spagnuola, il tetto delle quali piove a due acque, e queste chiamano in terra ferma buhyo. E l'una e l'altra sono di molto buoni legnami, e gli pareti di dentro di canne legate con besuchi, che sono certi legnami o coreggie rotonde che nascono appiccate a grandi arbori e abbracciati con essi; e ne sono di grosse e sottili come le vogliono, e alcuna volta le sfendono e fanno tali come loro hanno di bisogno per legar li legnami e legature di casa; e li parieti sono di canne congiunte una con l'altra, fitte in terra quattro e cinque dita sotto, e vengono fuora e fanno un certo pariete d'esse buono e bello a vedere. In cima sono le dette case coperte di paglia o d'erba lunga e molto buona e ben messa e dura assai, e non piove nelle case, anzi sono cosí coperte per sicurtà d'acqua come sono li coppi. Questo besucho con il qual legano è molto buono pesto e trattone il succo, del qual bevendo gl'Indiani si purgano; e anche alcuni cristiani hanno presa questa purgazione, qual gli è stata di giovamento e gli ha sanati; non è cosa pericolosa né violenta.
Questo modo di coprir case è alla similitudine del coprir le case e ville di Fiandra, e qual sia il migliore o meglio fatto, credo che quelle dell'Indie superino l'altre, perchè la paglia o erba è miglior di quella di Fiandra. Li cristiani fanno oramai queste case in duoi solari e con balconi, perchè sanno farle con inchiavature e con tavole molto buone, di sorte che qualsivoglia gran signore si può in alcuna d'esse molto bene e largamente alloggiare a suo buon piacere. E io n'ho fatto far una tra l'altre nella città di Santa Maria Antica del Darien, qual mi costò piú di mille e cinquecento castigliani, ed è di sorte che io potria accettar ogni signore, e molto commodamente alloggiarlo, restandomene parte dove ancora io potesse abitare: nella qual sono molte stanze, e in solaro e a basso, e ha il suo giardino con molti aranci dolci e garbi, cedri e limoni (delle quali cose già n'è molta quantità nelle case delli cristiani), e per una parte del detto giardino corre un bel fiume. Il sito è molto grazioso e sano, con bonissimo aere e con una bella vista sopra quel fiume; e la terra, quando noi cristiani andammo ad abitarvi, fu abbandonata dalli primi abitatori, per disordine e difetto di quelli che ne dettero causa, i quali qui non voglio nominare, perciochè vostra maestà ha provisto e ordinato, con il suo reale consiglio dell'Indie, che si faccia giustizia e siano satisfatti quelli ch'hanno patito. E Iddio giudicherà il tutto, secondo la santa intenzione di vostra maestà.
Seguitando ora la terza maniera di case, dico che nella provincia d'Abrayme, ch'è nella detta Castiglia dell'Oro, e anco lí intorno sono molte ville d'Indiani che abitano sopra arbori, e in cima di quelli hanno le sue case e abitazioni, e per ciascuna fatta una camera nella quale vivono con le sue mogliere e figliuoli; e sopra detti arbori monta una donna con suoi figliuoli in braccio, come andasse in terra piana, per certi scaloni che hanno legati all'arbore con besuco, o con legacci di corda di besuco. Da basso tutto il terreno è paludoso, d'acqua bassa di manco della statura d'un uomo, e in alcune parti di questi laghi o paludi, dov'è maggior fondo, tengono canoas, che sono una certa foggia di barche che sono fatte d'un albor incavato, della grandezza che la vogliono avere, con le quali vanno in terra asciutta a seminare gli suoi maizali, iucca, batatas e aies e altre cose ch'hanno per il viver loro; e di questa maniera s'hanno fatto gl'Indiani in questi luoghi le sue stanze per star piú sicuri dagli animali e bestie salvatiche e dagli suoi inimici, e piú forti e senza sospetto del fuoco. Questi Indiani non sono arcieri, ma combattono con mazze, delle quali n'hanno sempre gran quantità fatte per potersi difendere, le quali salvano in queste camere over case, con le quali si difendono e offendono gli suoi inimici.
Sonvi un'altra sorte di case, spezialmente nel Fiume Grande di S. Giovanni, che per avanti si disse ch'entra in mar nel golfo di Uraba, nel mezo del qual fiume sono molte palme nate una appresso l'altra, e sopra quelle nella sommità sono le case, fabricate secondo che di sopra è detto d'Abrayme, e assai maggiori, e dove sono molti abitatori insieme; e tengono le sue lettiere legate a' piedi delle dette palme; per servirsi della terra e uscir ed entrar quando gli piace, e queste palme sono tanto dure e difficili a tagliarsi, per esser forti, che con gran difficoltà se gli puol far danno. Questi che stanno in queste case nel detto fiume combattono ancora loro con mazze; e i cristiani che v'arrivorono con il capitano Vasco Nunez di Balboa e altri capitani ricevettero gran danno, né alcuno poteron far agl'Indiani, e tornoron con perdita e morte di gran parte della gente.
E questo basti quanto al modo delle case. Ma nell'abitar insieme delle ville o terre son differenti, perchè alcune terre son maggiori delle altre in alcune provincie, e communemente la maggior parte abitano separati per le valli e per le riviere. In alcuni luoghi stanno in alto, in altri appresso li fiumi, e alcuna volta lontani l'un dall'altro come sono li casoni in Biscaglia e nelle montagne, che sono case una separata dall'altra; nondimeno molte delle dette con gran paese è sotto l'obedienza d'un cacique, il qual sopramodo è ubidito e riverito dalla sua gente, e molto ben servito. E quando il detto mangia alla campagna, overo in casa, tutto quello che è da mangiar gli mettono davanti, e lui lo distribuisce agli altri e dà a ciascuno quel che gli piace. Continuamente ha uomini deputati che gli seminano, e altri per andar alla caccia, e altri che per lui vanno a pescare, e alcuna volta s'occupa in queste cose o in quel che piú gli dà piacere, pur che non sia occupato in guerra.
Li letti sopra li quali dormono si chiamano hamacas, e sono certe coperte di cottone molto ben tessute e di buona e bella tela, e alcune d'esse sottili, di due o tre braccia di lunghezza e alquanto piú strette che lunghe, e al capo sono piene di cordoni lunghi di cabuya e di henequen, la qual maniera di filo e la sua differenzia dipoi si dirà; e questi fili sono lunghi e congiungonsi insieme e serransi, e fanno al capo al modo d'una saccola, come la saccola che è in capo della balestra, e cosí forniscono, e quella legano ad un arbore e l'altro capo ad un altro, con corde di cottone che chiamano hicos, e resta il letto in aere quattro o cinque palmi alzato da terra in modo di fromba. Ed è molto buon dormire in tali letti, e sono molto netti, e per esser l'aere temperato, non bisogna tener altra coperta di sopra; vero è che dormendo in alcuna montagna dove faccia freddo, over ritrovandosi l'uomo bagnato, sogliono metter carboni di fuoco sotto le hamacas, cioè letti, per scaldarsi. E quelle corde con le quali si fa la saccola, overo il fin di detti letti, sono certe corde intorchiate e ben fatte, della grossezza che si conviene, di molto buon cottone. E quando non dormono alla campagna, dove si può legare da un arbore all'altro, ma dormono in casa, legano li letti da un pilastro all'altro, e sempre hanno luogo da tirargli e collocargli.
Sono molto grandi notatori communemente tutti gl'Indiani, cosí gli uomini come le donne, perchè come nascono continuamente vanno nell'acqua; né di questo altrimente dirò, avendo di sopra a bastanza detto, dove si narrò della maniera che nell'isola di Cuba e Iamayca prendono gl'Indiani le ocche.
Quello che di sopra dissi delli fili della cabuya e del henequen, e dove mi offersi particolarmente narrare, è in questo modo, che certe foglie d'un'erba, che è come gigli gialli o ghiacciuoli, fanno questi fili di cabuya e henequen, che tutto è una cosa, eccetto che 'l henequen è piú sottile e fassi del miglior della materia ed è come il lino, l'altro è piú grosso ed è come un lucignolo di canapa, e a comparazion dell'altro è piú imperfetto. Il color è come biondo, trovasene ancora del bianco. Con l'henequen, che è il piú sottil filo, tagliano gl'Indiani un paio di ceppi di ferro, o un baston di ferro, in questo modo. Muovono il filo del henequen di sopra il ferro qual voglion tagliare, come uno che sega, tirando e mollando da una mano verso l'altra, buttando arena molto minuta sopra il filo, o nel luogo o parte dove vanno fregando il detto fil con il ferro, e se il filo si consuma lo mutano e mettono del fil che sia intero e saldo, e a questo modo segano un ferro, per grosso che sia, e lo tagliano, come se fusse una cosa tenera e facile a tagliare.
Similmente mi vien a memoria una cosa che ho guardato molte volte in questi Indiani, che è che hanno l'osso della testa piú grosso quattro volte che li cristiani, e cosí, quando si fa con lor guerra e si vien alle mani, bisogna ben aver cura di non gli dar coltellate sopra la testa, perchè s'è visto rompere molte spade per la causa sopradetta, e per esser piú grosso il detto osso e piú forte. Similmente ho notato che gl'Indiani, quando conoscono che gli soprabonda il sangue, se lo cavano delli ventrini delle gambe e delle braccia, cioè delli gomiti verso le mani, e in quello che è piú largo nella commissura della mano, con una pietra viva molto aguzza, la quale loro tengono per questo, e alcuna volta con un dente d'una vipera molto sottile, overo con una cannetta.
Tutti gl'Indiani communemente sono senza barba, e per maraviglia o rarissimo è quel che abbia lanugine o pelo nella barba o in alcuna parte della persona, tanto gli uomini quanto le donne, ancora che io viddi il cacique della provincia di Catarapa che n'aveva, e similmente nell'altre parti della persona dove gli uomini qui gli hanno, e similmente sua mogliere n'aveva nelli luoghi e parti che le donne sogliono averne; li quali peli alcuni altri in quella provincia hanno, ma pochi, secondo che il medesimo cacique mi disse. E diceva che lui l'aveva per conto del suo parentado. Il qual cacique aveva gran parte della persona dipinta, e queste dipinture sono nere e perpetue, secondo quelle che li mori in Barberia sogliono portare per gentilezza, e massime le more nel viso e nella gola e in altre parti. E cosí tra gl'Indiani principali s'usano queste dipinture nelle braccia e nel petto; il viso non si dipingono, perchè quello è segno d'esser schiavo.
Quando vanno alla battaglia gl'Indiani in alcune provincie, massime li Caribbi arcieri, portano certi caragoli grandi, con li quali a modo di corni suonano forte, e similmente tamburi e pennacchi molto belli, e certe armadure d'oro, e massime alcuni pezzi tondi e grandi nel petto, e braccialetti e altri pezzi per mettersi in testa e in alcune parti della persona, e di nessuna cosa fanno tanto conto quanto di parer galanti uomini nella guerra, e d'andar meglio ad ordine che possono di gioie, d'oro e di penne. E di quelli caragoli fanno certi paternostri piccoli, bianchi, di molte sorti, altri colorati e altri neri, altri paonazzi. E fanno braccialetti mescolati con segnaletti d'oro, li quali si mettono principiando dal gomito fino alla giuntura della mano, rivoltati intorno, e il simil fanno dalli ginocchi fino alle cavicchie delli piedi, per gentilezza; e massime le donne onorate e principali portano queste cose nelli luoghi sopradetti, alla gola, e chiamano tal filze e cose simili chaquira. Oltra di questo portano cerchietti d'oro nelle orecchie e nel naso, bucandolo da tutte due le bande, quali pendono sopra il labro.
Alcuni Indiani si tosano, benchè communemente gli uomini e le donne apprezzano il portar capelli, e le donne gli portano lunghi fino a mezzo le spalle e tagliati egualmente, e massime sopra le ciglia, li quali tagliano con certe pietre durissime molto giustamente.
Le donne principali, quando gli cascano le tette, le levano con bastoni fatti d'oro d'un palmo e mezzo di lunghezza e ben lavorati, e pesano alcuni d'essi piú di dugento castigliani; il qual baston è forato nelli capi, e in quelli sono attaccati certi cordoni di cottone: uno di questi cordoni va sopra le spalle e l'altro va sotto le braccia, dove gli legano insieme, e questo fanno da tutte due le parti del bastone, e con questo sustentano le tette. E alcune di queste donne principali vanno alla battaglia con li suoi mariti, overo, quando loro medesime sono signore del paese, comandano e fanno l'ufficio di capitano sopra la sua gente, e si fanno portar per il cammino nel modo che io dirò.
Sempre il cacique principal tiene dodeci Indiani delli piú forti deputati per portarlo per cammino, sedendo in un letto posto sopra un legno lungo, qual di sua natura è leggiero; li quali Indiani vanno correndo o mezzo trottando, con lui posto sopra le spalle, e quando sono stracchi duoi che lo portano, senza turbar punto, entrano duoi altri sotto e continovano il cammino, e in un giorno, se camminano per pianura, anderanno in questo modo da quindeci in venti leghe. Gl'Indiani che a questo ufficio sono deputati sono la maggior parte schiavi o naboria. Naboria è una sorte d'Indiani che non sono schiavi, pur sono obligati a servir, ancora che non voglino.
E ancor che io non abbi cosí largamente e sufficientemente detto quello che fin al presente è scritto di quelle cose e di molte altre, le quali ho piú copiosamente notato nella mia general istoria dell'Indie, pur voglio passar alle altre parti e altre cose delle quali nel proemio ho fatto menzione, e primamente dirò d'alcuni animali terrestri, e spezialmente di quelli delli quali la mia memoria sarà piú certa.
Degli animali, e primamente del tigre.
Cap. XI
Il tigre è animale il qual, secondo che scrissero gli antichi, è il piú veloce di tutti gli altri animali terrestri. E per la velocità al fiume Tigris fu dato il medesimo nome. Li primi Spagnuoli che viddero questi tigri in terra ferma gli chiamorono cosí; li quali sono della sorte di quello che in questa città di Toledo diede a vostra maestà l'admirante don Diego Colombo, che gli era stato mandato dalla Nuova Spagna. Ha la fattezza della testa come il leone o lonza, ma grossa essa testa, e tutto il corpo e le gambe ha dipinte di macchie nere e attaccate l'una all'altra, profilate di color rosso, che fanno un bel lavoro e una corrispondente pittura; nelle groppe ha queste macchie maggiori, le quali si vanno diminuendo verso il ventre e le gambe e la testa. Quello che fu portato qui era picciolo e giovane, e a mio giudicio poteva esser di tre anni; ma molto maggiori si trovano in terra ferma, e io l'ho visto piú alto di tre palmi, e di lunghezza piú di cinque. Sono animali molto doppi e forti di gambe, e ben armati di que' denti che si chiamano canini, e unghie, e sono fieri di tal sorte che a mio parer non è alcun leon reale, delli molto grandi, che sia né tanto forte né tanto fiero. Di questi animali molti si trovano in terra ferma, li quali mangiano assai Indiani e fanno molto danno; pur non mi determino io d'affermare che siano tigri, vedendo quello che si scrive della leggierezza del tigre, e quel che si vede della pigrezza di questi, che si chiamano tigri in India.
Vero è che, secondo le maraviglie del mondo e le differenzie che le cose create hanno piú in un paese che nell'altro, secondo le diversità delle provincie e constellazioni dalle quali sono create, vediamo che le piante che sono nocive in un paese sono sane e utili in altri, e gli uccelli che in una provincia sono di buon sapore in altra non si mangiano, e gli uomini che in alcuna parte sono neri in altre provincie sono bianchi, e questi e quelli sono uomini. Cosí potria medesimamente essere che li tigri fussero in alcuna region leggieri come si scrivono, e che in India di vostra maestà, della qual qui si parla, fussero pigri e gravi. Gli uomini in alcuni regni sono animosi e di molto ardimento, e in altri naturalmente timidi e vili.
Tutte queste cose e altre molte che si potriano dire a questo proposito sono facili a provare, e molto degne d'esser credute da questi che hanno letto o sono andati per il mondo, alli quali la propria vista averà insegnato l'esperienzia di quel ch'io dico. Cosa manifesta è che la iuca, della qual si fa pane nell'isola Spagnuola, ha forza d'ammazzare con il succo suo e che non s'ardisce mangiar verde: pure in terra ferma non ha tal proprietà, perchè io n'ho mangiato molte volte ed è molto buon frutto. Le nottole over pipistrelli, in Spagna, ancor che becchino, non ammazzano né sono venenosi, ma in terra ferma moriron molti uomini de' morsi loro (come nel suo luogo si dirà). E cosí di questa forma si potriano dir tante cose che non ne bastaria il tempo di leggerle, ma il fin mio è dir che questo animale potria esser tigre, e non essere però della leggierezza de' tigri delli quali parla Plinio e altri autori.
Questi di terra ferma facilmente sono ammazzati molte volte dalli balestrieri a questo modo. Subito che il balestriero ha conoscimento e sa dove va alcun di quelli tigri, lo va a cercar con la sua balestra e con un cane piccolo seugio, e non con levrier: perchè subito ammazza il cane che s'attacca con lui, perchè è animale molto armato e di grandissima forza. Il seugio, sí come lo truova, va a torno abbaiando, morsecchiando e fuggendo, e tanto lo molesta che lo fa montar su 'l primo arbore che in quel luogo si truovi; e il detto tigre, per molestia che gli dà il detto cane, monta ad alto e si ferma, e il cane al piè dell'arbore abbaiandogli, e il tigre digrignando e mostrando li denti; arriva il balestriero, e dodici o quindici passi lontano gli tira con la balestra, e gli dà nel petto e si mette a fuggire; e il detto tigre resta co 'l suo travaglio e ferita, mordendo la terra e arbori; e dapoi, in spazio di due o tre ore o altro dí, torna il cacciatore lí, e con il can subito lo trova dove è morto.
Nell'anno 1522 io e altri reggitori delle città di S. Maria dell'Antiqua del Darien facemmo nel nostro capitolo e congregazione uno ordine, nel qual promettendo quattro o cinque pesi d'oro a quel che ammazzasse qual si voglia tigre di questi. E per questo premio furono ammazzati molti di loro in breve tempo, nel modo detto di sopra e con lacci medesimamente.
Per mia openione né tengo né lascio di tener per tigri questi tali animali, o per pantera o altro di quelli delli quali s'è scritto esser nel numero di quelli che hanno il pelo maculoso, o per aventura altro nuovo animale che medesimamente è maculato, e non è nel numero di quelli delli quali è stato scritto, perchè di molti animali che sono in quelle parti, e tra quelli di questi delli quali parlerò, o del piú di loro, nessun scrittor antiquo seppe cosa alcuna, per esser in parte e terra che fin alli nostri tempi era incognita, e della qual non faceva menzion alcuna la cosmografia di Tolomeo né altra, fino che l'admirante don Cristoforo Colombo ce la insegnò, cosa per certo piú degna e senza comparazion maggiore che non fu che Ercole desse intrata al mar Mediterraneo nell'Oceano, poi che li Greci fino a lui mai non l'avean saputo. E di qui viene quella favola che dice che li monti Calpe e Abila, che son quelli che nello stretto di Gibilterra, l'un in Spagna l'altro in Africa, son oppositi, l'un all'altro eran congiunti, e che Ercole gli aperse e diede per quel luogo l'entrata al mar Meditteraneo, e messe le sue colonne, le quali vostra maestà porta per impresa, con quelle sue parole che dice: "Plus ultra". Parole in vero degne di sí grande e universal imperadore, e non convenienti ad alcun altro prencipe, dapoi che in parti tanto strane, e tante migliara di leghe piú innanzi che dove Ercole e tutti li prencipi dell'universo mai hanno arrivato, le ha poste vostra sacra catolica maestà. E per certo, signor, ancora che a Colombo si fusse fatto una statua d'oro, non averiano pensato gli antiqui d'averlo pagato, se fusse stato alli loro tempi.
Tornando alla materia cominciata, dico che del modo e fazion di questo animale, dapoi che vostra maestà l'ha visto e al presente è vivo in questa città di Toledo, non è bisogno si dica piú di quello è detto; pur il guardian de' leoni di vostra maestà, che ha pigliato carico di dimesticarlo, potria metter la fatica sua in altra cosa che gli fusse piú utile per la sua vita, perchè questo tigre è giovane, e ogni giorno sarà piú forte e fiero e se gli radoppiarà la malizia. Questo animale chiamano gl'Indiani ochi, e spezialmente in terra ferma, nella provincia che il catolico re don Ferdinando comandò si chiamasse Castiglia dell'Oro. Dapoi scritto questo molti dí, successe che questo tigre, del quale abbiamo fatto menzione di sopra, volse ammazzar quello che lo governava, il quale già l'avea cavato della gabbia e l'aveva fatto molto domestico, e lo teneva legato con una corda molto sottile, e avevalo tanto famigliare che mi maravigliava di vederlo; ma non senza certa fede che questa amistà aveva a durar poco, in fin che un dí fu per ammazzar quello che ne teneva la cura, e de lí a poco tempo morí il detto tigre, overo l'aiutarono a morir, perchè in verità questi animali non sono da star fra gente, essendo feroci e di sua propria natura indomabili.
Del beori.
Cap. XII.
Li cristiani che vanno in terra ferma chiamano danta un animale che gl'Indiani nominano beori, perchè le pelli di questi animali son molto grosse, ma non son danta, e cosí hanno dato questo nome di danta al beori, tanto impropriamente quanto all'ochi quello del tigre. Questi animali beori è della grandezza d'una mula mediocre, e il pelo è berettino molto scuro, e piú folto di quello del bufalo, e non ha corni, ancora che alcuni lo chiamano vacca. È molto buona carne, benchè sia alquanto piú moliccia che quella del bue di Spagna. Li piedi di questo animale sono buoni da mangiare e molto saporosi, salvo che è necessario che bollino ventiquatro ore; li quali, cotti con questo tempo, sono una vivanda da dar a ciascuno che si diletti di mangiar cose di buon sapore e buona digestione.
Si ammazzano questi beori con cani, e dapoi che sono attaccati bisogna che 'l cacciator con molta diligenza ferisca questo animale avanti ch'entri nell'acqua, se per aventura ne è lí intorno, perchè, dapoi che è entrato in quella, si difende dalli cani e gli ammazza con grandi morsicature; e accade spesso che leva via un piede con la spalla ad un levriero, e ad un altro porta via un palmo e due della pelle cosí come si scorticassero: e io l'ho visto e l'uno e l'altro. Il che non fanno tanto con sua sicurtà fuora dell'acqua. Fin ad ora le pelli di questo animale non si son sapute conciare, né di loro si vagliono li cristiani, perchè non le sanno governare. Ma però sono cosí grosse o piú di quelle de' bufali.
Del gatto cerviero.
Cap. XIII.
Il gatto cerviero è molto fiero animale: è di maniera, fattezza e colore come li gatti berettini domestichi che tenghiamo in casa, ma sono grandi o maggiori che li tigri, delli quali di sopra è fatta menzione. Ed è il piú feroce animale che sia in quelle parti, e del quale li cristiani piú temono; è molto piú veloce di tutti gli altri che fin ad ora in quelle parti si siano veduti.
De' leoni reali.
Cap. XIIII.
In terra ferma sono leoni reali, non piú né manco di quelli che sono in Barbaria; sono un poco minori, e non cosí arditi, anzi sono di poco animo e fuggono; ma questo è commun difetto alli leoni, che non fanno male se non a quelli che gli seguitano e assaltano.
De' leopardi.
Cap. XV.
Si trovano similmente leopardi in terra ferma, e sono della medesima forma che in queste parti si sono visti o che siano in Barbaria, e sono veloci e fieri. Pure né questi né leoni reali fin a ora hanno fatto male alcuno a' cristiani, né mangiano gl'Indiani, come i tigri.
Della volpe.
Cap. XVI.
Sonvi volpi che sono né piú né meno di quelle di Spagna nella fazione, ma non nel colore, perchè sono tanto e piú nere d'un velluto molto nero. Sono molto leggieri, e alquanto minori di quelle di qui.
De' cervi.
Ap. XVII.
Cervi si trovano in terra ferma assai, né piú né manco di quelli che sono in Spagna di colore e grandezza, e nel vero però non sono cosí leggieri; e di questo io ne posso far fede, che gli ho cacciati e morti con cani in quelle parti alcune volte, e medesimamente ne ho ammazzati con la balestra.
De' daini.
Cap. XVIII.
Daini vi sono similmente e molti, e massime nella provincia di Santa Maria, e sono della forma e grandezza di quelli di Spagna, e nel sapore, cosí li daini come li cervi, sono cosí buoni e migliori che quelli di Spagna.
Delli porci.
Cap. XIX.
Li porci cinghiali sono moltiplicati nell'isole che sono state abitate da' cristiani, come è in San Domenico, Cuba, San Giovanni e Iamayca, di quelli che di Spagna furono condotti. Pure, ancora che delli porci che sono stati menati alla terra ferma alcuni siano andati al bosco, non vivono, perchè gli animali come tigri e gatti cervieri e leoni gli ammazzano subito. Ma delli naturali di terra ferma molti ne sono di salvatichi, delli quali molte volte si vedono quantità insieme, e come vanno molti uniti gli altri animali non hanno animo d'affrontargli, ancora che non tengono li denti canini lunghi come quelli di Spagna; pur mordono molto stranamente, e ammazzano li cani con li loro morsi.
Questi porci sono alquanto minori de' nostri, e di piú pelo e coperti di lana, e hanno l'umbilico in mezzo la schiena, e le unghie delli piedi non hanno partite in due parti, ma tutte unite; in tutto il resto sono come li nostri. Gl'Indiani gli ammazzano con lacci e con dardetti tirati. Chiamano il porco chuchie. Quando li cristiani scontrano una mandria di questi porci, procurano di montar in cima di qualche pietra o tronco d'arbore, ancora che non sia piú alto di tre o quattro piedi, e de lí, come passano loro, sempre con un lancione ferisce qualcuno di loro o piú, o quelli che può, e soccorrendo li cani restano presi alcuni di loro in questa maniera. Pur sono molto pericolosi quando si truovano cosí in compagnia, se non vi è luogo dal qual il cacciator possa ferire come è detto. Alcune volte, quando le porche si separano per partorire, si truovano e si pigliano alcuni porcelletti di loro, li quali hanno buon sapore, e se ne truova gran quantità.
Dell'orso formigaro.
Cap. XX.
L'orso formigaro è quasi di maniera d'orso nel pelo, e non ha coda. È minor degli orsi di Spagna, è quasi di quelle fattezze, eccetto che ha il muso molto piú lungo, ed è di molto poca vista. Molte volte si pigliano a bastonate, e non sono nocivi, e facilmente si pigliano con cani; e bisogna che siano soccorsi con diligenzia prima che li cani gli ammazzino, perchè non si sanno difendere, ancora che mordano alquanto. E truovansi quasi sempre, o il piú delle volte, intorno e vicino alle motte dove sono li formicari, nelle quali si genera una certa sorte di formiche molto minute, e nelle campagne e piani che non hanno arbori, dove per instinto naturale esse formiche si separano a generare fuora delli boschi, per paura di questo animale; il qual, perchè è vile e disarmato, sempre va tra luoghi pieni e spessi d'arbori, fin che la fame e necessità, o il desiderio di pascersi di queste formiche, lo fa uscir a questi luoghi a cacciarle.
Queste formiche fanno una motta di terra alta come un uomo, o poco piú, e alcune volte meno, e grossa come uno forziere e alcune volte come una botte, e durissima come pietra. E paiono queste motte termini di pietra tra confini. E dentro di quella terra durissima della qual sono fabricate, sono innumerabili e quasi infinite formiche molto piccole, le quali si potriano ricorre a staia, chi rompesse la detta motta; la quale alcune volte, bagnandosi con la pioggia, e sopravenendo dapoi l'acqua il caldo del sole, si rompe e si fanno in lei alcune fessure, ma sottilissime e di tanta sottilezza che un fil di coltello non può esser piú sottile. E par che la natura dia intendimento e saper a queste formiche per trovar tal materia di terra, con la qual possino far quella motta che di sopra è detta, tanto dura che par un forte battuto di calcina. E io ne ho fatto pruova, e n'ho fatto romper, e non vedendo non aver potuto credere la durezza che hanno, perchè con picchi di ferro sono molto difficili da disfarsi. E per intendere meglio questo secreto in mia presenzia l'ho fatta rovinare; e questo, come ho detto, fanno le dette formiche per guardarsi da questo suo adversario orso formigaro, che è quel che principalmente si sustenta di queste, o che gli è dato per suo emulo, a fin che si compia quel proverbio commune che dice: "Non è alcuna persona sí libera a chi manchi il suo bargello".
Questo emulo che la natura ha dato a sí piccolo animale tien questa forma per usar il suo ufficio contra le formiche nascose, per dargli la morte, che se ne va al formigaro che è detto, e per una sfenditura o rottura, sottile come è uno fil di spada, comincia a metter la lingua, e leccando fa umida quella sfenditura, per sottil che sia; e sono di tal proprietà le sue bave, e tanto continua la sua perseveranzia nel leccar, che a poco a poco fa luogo e allarga di sorte quella sfenditura, che senza fatica e largamente mette e cava la lingua a suo piacer nel formigaro, la qual ha lunghissima e disproporzionata secondo il corpo, e molto sottile. E dapoi che ha l'entrata e uscita a suo proposito, mette la lingua quanto può per quel buco che ha fatto, e stassi cosí quieto gran spazio: e come le formiche son molte e amiche della umidità, gran quantità di loro si caricano sopra la lingua, e tante che si potriano raccoglier a pugni; e quando gli par averne assai, cava presto la lingua ritirandola nella sua bocca e mangiasele, e torna poi per altre. E in questa forma mangia tutte quelle che esso vuole e che se gli mettono sopra la lingua. La carne di questo animale è sporca e di mal sapore. Ma perchè le disgrazie e necessità de' cristiani furono in quelle parti nelli principii molte ed estreme, non si lasciò di far la prova di mangiarne, ma sí presto venne in odio, come presto si provò per alcuni cristiani. Questi formigari, hanno di sotto a par del suolo l'entrata loro, e tanto picciola che con molta difficoltà si troveria, se non fusse vedendo entrar e uscir alcune formiche. Ma per tal luogo non gli potria a loro far danno l'orso, né tanto a suo proposito offenderle, come per lo alto in quelle sfenditurette, come abbiamo detto.
Delli conigli e lepri.
Cap. XXI.
Sono in terra ferma conigli e lepri, e gli chiamo cosí perchè le groppe hanno in quanto al colore simili al lepre. Il resto è bianco come è la pancia, e li fianchi e le gambe sono alquanto berrettine. Ma in verità, a quello che ho potuto comprendere, hanno piú conformità con lepri che con conigli, e sono minori che li conigli di Spagna. Prendonsi il piú delle volte quando s'abbruciano li boschi, e alcune volte con lacci, per mano d'Indiani.
Delli bardati.
Cap. XXII.
Li bardati sono animali molto maravigliosi a vedere, e molto nuovi alla vista de' cristiani, e molto differenti da tutti quelli che si è detto, o s'hanno visti in Spagna o in altre parti. Questi animali sono di quattro piedi, e la coda e tutto esso è di pelle. La pelle è come coperta o scorza del lagarto, del qual si dirà di sotto, ma è tra bianco e berrettino, ritirando piú al bianco; ed è della foggia e forma come un cavallo bardato, con le sue barde e fiancaletti in tutto e per tutto; e di sotto di quello che mostrano le barde e coperte esce la coda e li piedi in suo luogo, e il collo e l'orecchie nelle sue parti. Finalmente sono della medesima sorte che è un corsier con barde, e sono di grandezza d'un cagnuolo di questi communi; non fanno male e sono vili, e hanno la sua abitazione in motte di terra, e cavando con li piedi fanno profonde le sue cave e buche, della sorte come li conigli sogliono fare.
Sono eccellenti da mangiare e si pigliano con reti, e alcuni ne ammazzano li balestrieri; e il piú delle volte si prendono quando s'abbrucciano le stoppie ne' tempi per seminare o per rinovare gli erbaggi per le vacche e altri bestiami. Io ne ho mangiato alcune volte, e sono di miglior sapore che li capretti, ed è mangiar molto sano. Se questi animali si fussero visti nelle parti dove li primi cavalli bardati ebbero origine, non si potria se non giudicare che della vista di questi animali si fusse imparata la forma delle coperte per li cavalli di guerra.
Del cagnuolo leggiero.
Cap. XXIII.
Il cagnuol leggiero è un animale il piú pigro che si possi veder al mondo, e tanto grave e tardo nel muoversi che, volendo andar il cammino di cinquanta passi, tarda un giorno intiero. Li primi cristiani che viddero questo animale, ricordandosi che in Spagna solevano chiamar il nero Giovan bianco, perchè s'intenda l'opposito, cosí ancora, come trovorono tal animale, gli posero nome al contrario dell'esser suo, che essendo tanto tardo lo chiamorono leggiero.
Questo è un animale degli strani a veder che sia in terra ferma, per la disproporzione che ha con tutti gli altri animali. È lungo duoi palmi, quando è cresciuto tutto quello che debbe crescere, over poco piú di questa grandezza. Di minori se ne trovano molti, che sono giovani; sono poco manco grossi che lunghi. Hanno quattro piedi sottili, e in ciascun piè quattro unghie come d'uccello e giunte insieme; nondimeno né l'unghie, né li piedi sono di sorte che 'l possi sostener sopra di quelli, e per tal causa, e per la sottigliezza delle gambe e la gravezza del corpo, mena il ventre quasi strascinando per terra. Il collo del detto è alto e diritto e tutto eguale, come un pestello da mortaro che sia tutto eguale fin al capo, senza far della testa proporzione o differenzia, eccetto nella coppa; e in cima di quel collo ha la faccia molto rotonda, simile molto a quella dell'allocco, e ha un profilo del pelo proprio in modo d'un cerchio, che gli fa il volto alquanto piú lungo che largo. Ha gli occhi piccoli e rotondi, le nari come d'un gatto mammone, la bocca piccola, e muove il collo ad una parte e all'altra, come attonito. Il suo desiderio, o quel che par che piú procuri e appetisca, è attaccarsi ad arbori, o a cosa che 'l possi montar in alto; e cosí, il piú delle volte che si trovano tali animali, si trovano sopra gli arbori, per li quali attaccandosi lentamente montano, fermandosi sempre con l'unghie lunghe. Il pelo è tra berettino e bianco, e quasi del proprio colore del pelo della donnola, e non ha coda.
La sua voce è molto differente da quella degli altri animali, perchè di notte solamente canta, e tutta quella in continovato canto di tempo in tempo cantando sei voci, una piú alta dell'altra, sempre abbassando, talchè la piú alta voce è la prima, e da quella va diminuendo la voce o sbassandola, come s'un dicesse: "la sol fa mi re ut". Cosí questo animal dice: "ha ha ha ha ha ha". Senza dubio mi par, sí come ho detto nel capitolo delli bardati, che simil animali potriano esser stati l'origine o documento per imbardar li cavalli, cosí udendo questo animal, il primo inventor della musica averia potuto piú presto da esso fondarsi, per dar principio alla musica, che d'altra causa del mondo, perchè il detto cagnuol leggiero insegna per queste sei voci il medesimo che per la sol fa mi re ut. Or tornando all'istoria, dico che, dapoi che questo animal ha cantato, di lí a poco intervallo o spazio di tempo, torna a cantar il medesimo. Questo fa la notte, il giorno mai si sente cantare, e per tal causa, come anche per la poca vista, parmi che sia animal noturno e amico d'oscurità e tenebre.
Alcune volte li cristiani prendono questo animale e lo portano a casa. Va per quella con la natural sua tardità, né per minacci o per punture si muove piú o con maggior prestezza di quello che senza dargli è solito a muoversi. E se trova arbori subito se ne va a quelli, e monta nella cima delli piú alti rami e sta in quelli otto o dieci o venti giorni, né si può saper quel che mangi. Io ne ho tenuto in casa, e per quel che ho potuto comprendere di questo animale debbe vivere d'aere; e di questa opinion mia ho trovato molti in quel paese, perchè mai s'è visto mangiar cosa alcuna, ma voltar sempre la testa e bocca verso le parte dove tira il vento piú spesso che in alcun'altra parte, per il che si conosce che l'aere gli è molto grato. Non morde, né può, avendo picciolissima bocca, né è venenoso, né ho visto fin a ora animale sí brutto, né che paia tanto inutile come questo.
Delli martorelli.
Cap. XXIII.
Trovansi alcuni animali piccoli come piccoli cagnuoli, di color berettino, la metà delle gambe nere, e quasi della grandezza e forma delli martorelli di Spagna; e non sono manco maliciosi di quelli, e mordono molto. Ve ne sono ancora de' domestici, sono molto buffoni e giocano come fanno li gatti mammoni; e il principal cibo, e che piú volentiera mangiano, sono granchi, de' quali si crede che principalmente si nutrichino detti animali. Io ho avuto uno di questi animali, che una caravella mia mi portò dalla costa di Cartagenia, che gl'Indiani arcieri gli dettero a baratto di due ami da pescare, e lo tenni molto tempo attaccato ad una catenella. Sono animali molto piacevoli, e non tanto sporchi come li gatti mammoni.
Delli gatti mammoni.
Cap. XXV.
In quella terra ferma si trovano gatti di tante foggie e maniere, che non si potria dir in poca scrittura, volendo narrare le loro differenti forme e innumerabili diversità sue; perchè ogni giorno di tutte queste sorti ne sono portati in Spagna, non mi affaticherò in dir di loro se non alcune poche cose. Alcuni di questi gatti sono tanto astuti, che molte cose che veggon far agli uomini loro l'imitano e le fanno similmente, e massime quando veggono schiacciare una mandola over un pignuolo con un sasso, loro anche lo fanno, e rompono tutto quel che gli è dato, essendogli posta avanti una pietra con la qual la possa rompere; né piú né manco tirano una pietra della grandezza e peso che alla sua forza convenga, tanto come un uomo. E di piú di questo, quando li nostri cristiani vanno per il paese a guereggiarre in alcuna parte di terra ferma, e passano per boschi ove siano di questi gatti, d'una sorte che sono molto grandi e neri, non fanno altro che romper tronchi e rami dagli arbori, e fannogli cader sopra gli uomini per rompergli la testa; di modo che convien si cuoprino bene con le sue rotelle, e che vadino guardandosi acciò non ricevino danno e siano feriti.
Accade che, se si tiran pietre alli detti gatti, e che quelle restino sopra qualche tronco d'arbori, li gatti subito vanno a lanciarle contra gli uomini: in questo modo un gatto diede una sassata ad un Francesco di Villa Castin, rilevo del governator Pedrarias d'Avilla, che gli cavò di bocca quatro o cinque denti. Il qual Francesco io lo conosco, e lo viddi avanti che 'l gatto gli desse la sassata con gli suoi denti, e dapoi molte fiate lo viddi ancora senza essi, perchè gli perse come è detto. E quando gli tirano alcuna freccia e feriscono alcun gatto, loro se la cavano, e alcune volte la ritornano a tirare a basso, e alcune volte, come se la cavano, la mettono loro medesimi di sua mano sopra la parte alta, delli rami, di modo che non possa cadere piú a basso, acciochè non gli tornin a ferir con quella; e alcuni le scavezzano e fannone molti pezzi. Finalmente sarebbe tanto da dir delle sue astuzie e differenti foggie di tal gatti, che chi non gli vedesse non lo potria mai credere. Trovansene alcuni tanto piccoli quanto è la man d'un uomo, e minori, e altri tanto grandi come un can mastino mezzano. E fra questi duoi estremi ne sono di molte maniere e di diversi colori e figure, e molti varii e differenti l'uno dall'altro.
Delli cani.
Cap. XXVI.
In terra ferma, nel paese degl'Indiani caribbi arcieri, sono alcuni cagnuoli piccoli che si tengono in casa, di tutti li colori di pelo che sono in Spagna: alcuni pelosi, alcuni rasi; e sono muti, perchè mai abbaiano né gridano, né fanno segno di gridare né gemere, ancora che gli ammazzino con le bastonate; e somigliano li luppati, e pure sono cani. E io ne ho visto ammazzare e non si lamentar né gemere, e gli ho visti nel paese del Darien, portati dalla costa di Cartagenia del paese de' Caribbi, comperati a baratto di ami, dove gli battono né mai abbaiano, né fanno altro che mangiare e bere. E sono un poco manco domestici che li nostri, eccetto che con quelli con chi stanno, dove mostran amor a quelli che gli danno da mangiar, menando la coda e saltando, mostrando di voler compiacer loro, e mostrar che quelli tengono per signori.
Della chiurcha.
Cap. XXVII.
La chiurca è un animal piccolo, della grandezza d'un piccol coniglio, e di color leonato, e ha il pelo molto sottile e il ceffo molto acuto, e li denti canini e altri denti similmente acuti, e la coda lunga è sí come il sorzo, e gli orecchi a quello simili. Queste chiurche in terra ferma (come in Castiglia le foine) vengono la notte alle case a mangiar le galline, overo strangolare e suciargli il sangue; per il che sono piú dannose, perchè se ne ammazzassero una e di quella si saziassero minor danno fariano; onde accade che ne strangolano quindeci o venti e molto piú, fin che sono soccorse.
Però la novità e admirazion che si puole notar da questi animali è che, se al tempo che vanno ammazzar le galline nutriscon gli figliuoli, gli portan seco nel seno in questo modo: nel mezzo della pancia per lo lungo apre un seno che fa della sua medesima pelle, in modo che si faria addoppiando il panno d'una cappa e facendone una scarsella, la bocca della quale, dove una piega casca adosso l'altra, detto animal serra tanto che nessuno de' figliuoli, avendovegli dentro, può cascare, ancor che corresse; e quando vuole, apre quella scarsella e lascia andar li figliuoli, li quali vanno ancora loro aiutando la madre a succiar il sangue delle galline che essa ammazza; e come lei s'accorge d'esser stata sentita, e alcuno va con il lume per veder per che causa le galline stramazzano, allora la detta chiurcha mette in quella scarsella overo seno li figliuoli, e fugge, se truova luogo dove fuggire, e se gli è serrato il passo monta in alto sopra il luogo delle galline per ascondersi; le quali alcune volte prese, o vive o morte, hanno mostro chiaramente quel che di sopra è detto esser vero, perchè se gli son trovati li figliuoli messi in quella scarsella, dentro la quale tiene ancora le tette, e cosí li figliuoli posson tettare. Io ho veduto alcune di queste chiurche e quanto è detto, e anche m'han morte delle galline in casa nel modo detto. Questa chiurcha è animal che puzza; il pelo, la coda e l'orecchie ha come il sorzo, e nondimeno è molto maggiore
Degli uccelli.
Cap. XXVIII.
Poi che abbiam detto d'alcuni animali terrestri particolarmente voglio ancora narrar a vostra maestà quello che mi ricordo d'alcuni uccelli che ho visto e sono in quelle parti, li quali son molti e molto varii; e primamente dirò di quelli che hanno simiglianza con questi di queste nostre parti over sono come questi; dipoi proseguiremo particolarmente, narrando quello che mi occorrerà alla memoria degli altri, che sono differenti da questi delli quali qui abbiamo notizia, o si conoscono.
Degli uccelli noti e simili a quelli che sono in Spagna.
Cap. XXIX.
Sono nell'Indie aquile reali e delle nere, e aquile piccole e di color biondo, sonvi sparavieri, terzuoli, falconi villani e pellegrini, ma sono piú neri di qui. Si trovano nibbi che prendono li polli, e hanno la piuma e similitudine di questi nostri. Sonvi molti altri uccelli maggiori che grandi grifalchi, e di gran presa; e hanno gli occhi colorati in molti modi, e la piuma molto bella e dipinta a modo d'astori mudati molto galanti, e vanno accompagnati a due a due. Io ne buttai uno a terra, d'un arbore molto alto, con una freccia con la quale gli dette nel petto, il quale cascato a basso era quasi come un'aquila reale, ed era tanto armato di presa e becco ch'era cosa bella a vedersi. E vivette tutto quel giorno. Io non gli seppi dar nome, né alcuno di quanti Spagnuoli lo viddero; nondimeno questo uccello s'assimiglia piú agli astori molto grandi che ad alcun altro uccello, ed è maggiore di quelli; e cosí li Cristiani chiamano questi astori.
Sonvi colombi salvatichi, tordi, rondine, quaglie, garze, garzotti, flamencos, salvo che il color del pelo del petto è piú vivo e di piú bella piuma. Sonvi corvi marini, anitre, oche salvatiche, le quali son nere, come di sopra si è detto. Tutti questi uccelli sono di passaggio, né si veggono tutto il tempo dell'anno, ma solo ad un certo tempo. Sonvi similmente allocchi e coccali.
D'altri uccelli differenti dalli sopradetti.
Cap. XXX.
Trovansi in queste parti molti pappagalli, e di tante e diverse sorti che saria gran cosa a narrargli, e cosa piú appartenente al dipintore a dargli ad intendere, che alla lingua ad esprimergli: per tanto, perchè di tutte le sorti che vi si trovano si portano in Spagna, non è da perder tempo parlando di quelli.
Solo dirò che, pochi giorni avanti che 'l catolico re don Ferdinando passasse di questa vita, io gli portai nella città di Placentia di Spagna sei Indiani caribi arcieri, che mangiavano carne umana, e sei Indiane giovani, molto ben disposte della persona gli uomini e le femine. E gli portai la mostra del zuccaro che si cominciava a fare in quel tempo nell'isola Spagnuola, e certe canne di cassia, delle prime che in quelle parti per industria delli cristiani si cominciorono a raccogliere; e portai similmente a sua altezza trenta e piú pappagalli, li quali eran di dieci o dodici sorti; la maggior parte di loro parlavano molto bene. Questi pappagalli, ancora che dalle bande di qui paiono pigri, sono tutti molto gran volatori, e sempre vanno accompagnati a duoi a duoi, maschio e femina, e fanno gran danno al pane e alle cose che si seminano per il viver degl'Indiani.
Coda inforcata.
Caèp. XXXI.
Si trovano alcuni uccelli grandi, e volano molto, e il piú delle volte vanno molto alti; sono neri, e quasi come uccelli di rapina fanno molto lunghi e presti voli. È la punta delle ale davanti molto aguzza, e la coda larga come quella del nibbio; sono maggiori delli nibbii, e hanno tanta sicurtà nel suo volare che molte volte le navi che vanno in quelle parti gli veggono venti e trenta leghe e piú dentro del mare, volando molto alti.
Coda di giunco.
Cap. XXXII.
Questi sono uccelli bianchi e gran volatori, e sono maggiori che colombi salvatichi; e hanno la coda lunga e molto sottile, per la qual se gli dette il nome che è sopra detto di coda di giunco. E vedesi molte volte molto dentro dal mare, essendo però uccello che abita in terra.
Passere sempie.
Cap. XXXIII.
Vi sono ancora uccelli che si chiamano passere sempie, e sono minori che coccali, e hanno li piedi come anatre grandi, e stanno nell'acqua alcune volte; e quando le navi vanno a vela lí intorno alle isole, a cinquanta o cento leghe lontano da quelle, questi uccelli riguardano se li navilii vengono a loro, e stracchi dal volar, si buttano sopra le antenne, arbori o gabbia della nave, e sono tanto sempie e aspettano tanto che facilmente si lasciano prender con la mano: e per questa causa li naviganti le chiamano passare sempie. Sono neri, e sopra neri hanno il capo e le spalle d'una piuma berrettina scura, e non sono buoni da mangiare. Hanno un grande invoglio di piuma, rispetto alla poca carne che hanno; nondimeno li marinari alcuna volta se li mangiano.
Delli anitrini.
Cap. XXXIIII.
Si trovano altre passare minori che tordi, e sono molto fieri, e credo che siano li piú veloci uccelli del mondo nel suo volare, tanta velocità hanno. Vanno a pelo dell'acqua, o alte o basse che vadino l'onde del mare, e tanto destri nell'alzar e bassar il volo, nel medesimo modo che 'l mar va, quasi appiccati all'acqua, che non si potria creder chi non lo vedesse. Questi si fermano quando gli par nell'acqua, e quasi per la maggior parte di tutto il cammino dell'Indie gli vedemmo nel gran mar Oceano. Hanno li piedi come l'oche o anitre, e per questo si chiamano anitrini.
Passere notturne.
Cap. XXXV.
In terra ferma sono alcuni uccelli, che li cristiani chiamano passere notturne, che escono al tempo che 'l sol va a monte, quando escono le nottole; hanno grande inimicizia le dette passere con le nottole, perchè subito vanno volando e perseguitando le dette nottole e dandogli colpi, la qual cosa a chi la guarda è di grandissimo piacere. Di questi uccelli ne sono molti nel Darien, e sono un poco maggiori delli rondoni, e hanno quella maniera d'ale e tanta o maggior leggierezza nel volare; e per il mezzo di ciascuna ala al traverso hanno una banda di penne bianche, e tutto il resto delle sue penne è berrettina e quasi nera; li quali uccelli tutta la notte mai si fermano, e quando si schiarisce il giorno tornano a nascondersi, e non appaiono fin che il sole non è a monte, che subito tornano al suo consueto combatter contrastando con le dette nottole.
Delle nottole.
Cap. XXXVI.
Dapoi che nel capitolo di sopra s'è detto della contenzion delle passere notturne e delle nottole, voglio concludere con le dette nottole. E dico che in terra ferma sono molte d'esse, che furono molto pericolose alli cristiani nelli principii che in quelle parti passorono con il capitano Vasco Nunez di Valboa, e con il bacilier Enciso, che acquistò il Darien. Perchè, per non sapersi allora il facile e sicuro rimedio che si ha contra il morso della nottola, alcuni cristiani morirono allora, e altri stettero in pericolo di morire, fino che dagl'Indiani si seppe il modo nel quale s'aveva a medicar quel che fusse morso dalle dette nottole. Queste nottole sono né piú né manco come quelle che sono in queste parti; e sogliono mordere la notte, e per la maggior parte beccano la punta del naso, o la cima della testa, o delle dita della mano o delli piedi, e cavano tanto sangue del morso che non si potria creder chi non lo vedesse. Tengono un'altra proprietà, che è che, se fra cento persone beccano un uomo una notte, la seguente notte, o un'altra, non becca detta nottola se non quel medesimo morso, ancor che sia fra le cento persone.
Il rimedio del morso è di prender un poco di cenere, calda quanto si possa soffrire, e metterla sul morso. Ha ancora questo morso un altro rimedio, che è tor acqua calda quanto si possa soffrire il caldo di quella, e lavare il luogo morso, e subito cessa il sangue e il pericolo, e guarisce molto presto la piaga, la qual è picciola, perchè la nottola fa un morso picciolo tondo e leva via poca carne. Io questo testifico, perchè son stato morso e son guarito con l'acqua come ho detto. Altre nottole sono nell'isola di San Giovanni, le quali si mangiano, e sono molto grasse, e in acqua molto calda si scorticano facilmente, e restano della sorte delle passere che pigliano a canna col vischio, molto bianchi e molto grassi e di buon sapore, secondo che dicono gl'Indiani, e ancora alcuni cristiani che le mangiano similmente, e specialmente quelli che vogliono provar quello che veggono far ad altri.
De' pavoni.
Cap. XXXVII.
Sono in quelle parti pavoni di color biondo, altri neri, e hanno la coda della fatezza delle pavonesse di Spagna, nella penna e colore. Alcuni son tutti biondi, e la pancia con un poco del petto bianco, altri ne sono tutti neri, e cosí la pancia e parte del petto bianchi; e l'uno e l'altro tengono sopra la testa una bella cresta o pennacchio, di penne rosse quel ch'è rosso e nere quel ch'è nero. Sono megliori al gusto che quelli di Spagna; alcuni di questi pavoni sono salvatichi, e alcuni sono domestici quando gli allevano in casa da piccioli. I balestrieri n'ammazzano molti, per esserne in gran quantità.
Alcuni dicono che 'l pavone è rosso e la pavonessa nera, e alcuni hanno altra opinione e dicono che 'l pavon è quel ch'è nero, e la pavonessa bionda. Alcuni dicono che sono di due spezie, cioè bianco e nero, e che di tutte due le spezie è il maschio e la femina, e che quelli che sono di diversi colori sono di diverse spezie. Se 'l balestriero non gli dà nella testa o in luogo che 'l caggia morto subito, se per aventura gli desse in una ala, over in altra parte, corrono molto per terra: ed essendo il paese molto spesso d'arbori, bisogna che 'l balestriero abbi un buono cane e che sia presto, acciochè 'l cacciator non perda la sua fatica, e la caccia. Vale un pavone di questi un ducato, e alcuna volta un castigliano o un peso d'oro, il quale in quelli paesi si stima tanto quanto a spendere un reale in Spagna.
Altri pavoni maggiori, e megliori da mangiare e piú belli si son trovati nella provincia detta la Nuova Spagna; de' quali molti sono stati portati nell'isole e nella provincia di Castiglia dell'Oro, e s'allevano domestici in casa de' cristiani. Di questi le femine sono brutte e li maschi belli, e molto spesso fanno la ruota, benchè non abbino cosí gran coda né tanto bella come quei di Spagna, ma in tutto il resto della piuma sono bellissimi. Hanno il collo e la testa coperta d'una carnosità senza piuma, la quale mutano di diversi colori quando gli vien la fantasia, e spezialmente quando fanno la ruota, la fanno diventar molto rossa, e come la lasciano giú la tornano gialla e d'altri colori, e poi come nero verso il berrettino, e alcune volte bianca. Ha nella fronte, sopra il becco, a modo d'un picciolo corno d'una poppa, il qual quando fa la ruota slarga e cresce piú d'un palmo. A mezzo il petto gli nasce un fiocco di peli grosso come un dito, li quali peli sono né piú né manco che quelli della coda d'un cavallo, di color neri, e lunghi piú d'un palmo. La carne di questi pavoni è molto buona, e senza comparazione megliore e piú tenera che quella de' pavoni di Spagna.
Alcatrax.
Cap. XXXVIII.
Trovansi uccelli in quelle parti che si chiamano alcatraz. E sono molto maggiori che l'oche, e la maggior parte della piuma è berrettina e in parte gialla; il becco de' quali è di due palmi longo, poco piú o manco, molto largo appresso la testa, e si va diminuendo verso la ponta. Hanno un grosso e gran gosso; e sono questi della fazione e maniera d'un uccello che lo viddi in Fiandra, a Bruselles, nel palazzo di v. maestà, che i Fiamenghi chiamavano haina; e mi ricordo che, disnando un giorno v. maestà nella gran sala, fu portato in presenzia di v. maestà una caldiera di acqua con certi pesci vivi, i quali il detto uccello gli mangiò cosí interi. Il qual uccello io tengo che sia de' marini, perchè ha i piedi come gli uccelli dell'acqua o come l'oche sogliono avere, e cosí gli hanno gli alcatrazi, i quali similmente sono uccelli marini, e di tanta grandezza ch'io viddi metter ad un d'essi un saio intero d'un uomo nel gosso, in Panama, nell'anno 1521.
E perchè in quella spiaggia e costa del Panama passa volando moltitudine di questi alcatrazi, sendo cosa notabile, io la voglio narrare, e massime che non solo io, ma sono al presente in corte di v. maestà molte persone che l'hanno veduto assai volte. Sappia v. maestà che 'n quel luogo, come per avanti s'è detto, cresce e cala il mar del Sur due leghe e piú, di sei ore in sei ore, e quando cresce l'acqua del mare arriva cosí appresso alle case del Panama, come in Barzellona o in Napoli fa il mar Mediterraneo. E quando vien la detta crescente, vengon con lei tante sardelle ch'è cosa maravigliosa e da non creder l'abondanzia di quelle, chi non le vedesse. E il cacique di quella terra, nel tempo ch'io vi abitavo, ogni giorno era obligato, e gli era stato comandato dal governatore di v. maestà, che menasse ordinariamente tre canoe o barche piene delle dette sardelle e le scaricasse in piazza, e cosí si faceva continuamente, e un rettore di quella città le partiva fra i cristiani, senza che costasse loro cosa alcuna; e se 'l popolo fosse stato maggiore di quel ch'era ancor che fosse quanto al presente si trova in Toleto o maggiore, e che altra cosa non avessero avuto per vivere, si saria potuto sostentare delle dette sardelle; e ancora sariano avanzate.
Ma tornando agli alcatrazi, cosí come viene la marea, e le sardelle con quella, loro similmente vengono con la marea volando sopra di quella, e sono in tanta moltitudine che par che coprino l'aria, e continuamente non fanno altro che buttarsi dall'aere in acqua, e prender quelle sardelle che possono, e subito tornarsi volando in aria, e mangiandole molto presto, e subito tornano in acqua e di nuovo si levano similmente senza mai cessare; e cosí quando il mar cala vanno seguitando gli alcatrazi la sua pescheria, com'è detto. In compagnia vanno con questi uccelli un che si chiama coda inforcata, de' quali per avanti s'è fatto menzione, e cosí come l'alcatrazo si leva con la preda che fa delle sardelle, il detto coda inforcata gli dà tanti colpi, e lo persequita tanto, che gli fa buttar le sardelle che ha inghiottite, e cosí come quello le butta, avanti che le tocchino o arrivino all'acqua, il coda inforcata le piglia; ed è gran piacere a vedergli tutto il giorno a questo combattere.
Il numero di questi alcatrazi è tale che li cristiani mandano a certe isole e scogli che sono appresso il Panama, con barche e canoe, per pigliare alcatrazi, quando sono tanto piccioli che non possono volare, e con legni n'ammazzano quanti vogliono, fin che caricano le barche o canoe di quelli: e sono sí grassi e ben pasciuti che al tutto non si possono mangiare, né li prendono per altro che per far del grasso per servirsene da ardere la notte nelle lucerne, il qual grasso è molto buono a questo ufficio, e fa bella luce e facilmente arde. In questa maniera e per questo effetto se n'ammazza una quantità innumerabile, e sempre par che cresca il numero di quelli che vanno a pescar le sardelle, come è detto.
Delli corvi marini.
Cap. XXXIX.
Per avanti si disse che si trovavano corvi marini, della medesima forma che sono quelli di queste bande, delli quali non torneria a parlare se non fosse per dire la estrema moltitudine di quelli che si trovano nel mar del Sur, nella costa di Panama; delli quali vostra maestà sappia che alcune volte ne vengono tanti insieme e a frotta a pescar le sardelle, che nel capitolo passato si disse, che buttati nell'acqua cuoprono gran parte del mare, ed è la moltitudine di questi tanto grande, che par la campagna la quale è appresso alla città di Toledo; e queste squadre e moltitudine di questi corvi in molte parti e molto continuamente ogni giorno si veggono nella detta costa del mar del Sur, dove ho detto. Né par altro quello che cuopre l'acqua, che un velluto o panno molto nero, senza esservi intervallo, tanto stanno stretti l'un con l'altro, li quali fanno il simile che fanno gli alcatrazi, che vanno e vengono con le maree, seguitando il pescar delle sardelle, le quali ad alcuni piacciono al gusto, ma a me non paiono buone, perchè sono molto dolci; e la terza volta che di quelle mangiai mi vennero a fastidio, né è pesce alcuno, né in quelle bande né in queste, che io abbi veduto, che cosí contra mia voglia io mangiasse; pure ad altre persone paiono al gusto molto buone.
Delle galline odorate.
Cap. XL.
Delle galline ve ne sono assai di quelle di Spagna, e ogni giorno si vanno aumentando molto, perchè gli abitatori non lasciano di metter in covo quante ova possono coprire con l'ale, e hanno avuto principio da quelle che di qui furon portate in quelle parti; sonvi oltra di queste ancora galline salvatiche, che sono cosí grandi come pavoni, e sono nere, e la testa e parte del collo alquanto berrettina, o non cosí nera come è tutto il resto del corpo; e quel berrettino non è piuma, ma è la pelle che sta sopra il collo. Sono di molto mala carne e peggior sapore, e molto golose: mangiano molte sporcizie, e Indiani e animali morti, e hanno un odore come musco, e questo fin che sono vive, perchè come sono morte perdono quell'odore, e a nissuna cosa sono buone, salvo le sue penne, per impennar le freccie e verrettoni. E sopportano molto gran colpi, e vuol ben essere gagliarda la balestra che l'ammazza, se non sono ferite nella testa o che non gli sia rotta alcuna delle ale. E sono molto importune e desiderose di star in luoghi abitati o intorno di quelli, per mangiare le immundizie.
Delle pernici.
Cap. XLI.
In terra ferma sono pernici molto buone, e di sí buon sapore come quelle di Spagna, e sono cosí grandi come le galline di Castiglia; hanno le polpe doppie, una sopra l'altra, di modo che hanno di due sorti carne, e tanta che vuol ben essere un buon mangiatore quello che ad un pasto in una volta ne mangierà una. Le penne sono berrettine, e cosí nel petto come nelle ale e collo, e tutto il resto sono del medesimo colore e penne che hanno le pernici di qui sopra le spalle, e nessuna penna tengono d'altro colore. Le ova che queste pernici fanno, sono quasi cosí grandi come li grandi di queste galline communi di Spagna, e sono quasi tonde, e non lunghe come sono quelle delle galline, e sono azurre, del medesimo colore d'una finissima turchese.
Prendono gl'Indiani queste pernici allettandole con subbi o fischi, avendogli tesi lacci. Il modo dell'allettarle è questo, che l'Indiano piglia un groppetto de' suoi capelli, in cima della fronte, quasi nella sommità del capo, e tira e allenta quelli capelli giuocando con la testa, e con la bocca fa un certo suono, che è quasi un subbio, della maniera che le pernici cantano; le quali vengono a questo suono o allettamento, e caggiono nelli lacci che gli sono stati tesi, del fil di henequen, del qual fil si disse largamente nel capitolo decimo; e cosí le prendono, e sono molto eccellente a mangiar arrostite, pilottandole prima. Cosí in questo come in altro modo cotte che si mangiano, e assimigliansi molto al sapore delle pernici di Spagna, e la carne di quelle è cosí salda, e sono migliori da mangiar il secondo dí che sono ammazzate, perchè sono piú frole e piú tenere.
Sono ancora altre pernici, ma minori delle sopradette, che sono come starne o pernici di quelle di qui. Si chiamano pernici perchè sono assai buone, le quali, ancorchè nel sapore s'agguaglino a quelle di qui, non v'arrivano però a gran pezza come fanno le grandi; e queste piccole hanno la piuma similmente berrettina, pur tirano qualche poco al biondo quelle penne che sono piú che berrettine, e prendonsi molto piú spesso che le grandi, e sono migliori per gli ammalati, per non esser cosí dure da patire.
Delli fagiani.
Cap. XLII.
Li fagiani di terra ferma non hanno le penne come li fagiani di Spagna, né sono cosí belli nel vedere, ma sono molto buoni ed eccellenti nel sapore, e sono molto simili nel gusto alle pernici grandi, delle quali si trattò nel capitolo precedente. Le penne di questi uccelli sono berrettine, cosí come le pernici, ma non tanto grandi; sono ben piú alte nelli piedi, hanno la coda lunga e larga. Se n'ammazzano molti con balestre, e fanno certi canti a modo di fischi, molto differenti dal canto delle pernici, e molto piú alto, perchè ben da lontano s'odono, e stanno ad aspettar assai, e cosí li balestrieri n'ammazzano in gran numero.
Delli picuti.
Cap. XLIII.
Un uccello è in terra ferma che li cristiani chiamano picuto, perchè ha il becco molto grande a rispetto della piccolezza del corpo, il qual becco pesa molto, e piú che tutto il corpo. Questo passere non è maggiore d'una quaglia o poco piú, ma ha l'invoglio delle penne molto maggiore, perchè ha molto piú piuma che carne; le sue penne sono molto belle e di molti colori, il suo becco è lungo una quarta o piú, storto verso terra, e a principio e appresso la testa largo tre deta, la lingua che esso tiene è una penna, e dà gran fischi, e fa buchi negli arbori con il becco, donde entra, e fa gli suoi nidi lí dentro. E certo è uccello molto maraviglioso a vederlo, perchè è molto differente da tutti gli uccelli che io ho veduti, cosí per la lingua, che è, come ho detto, una penna, come per la sua vista e disproporzione del gran becco rispetto al restante del corpo.
Nissuno uccello si trova che quando fa li suoi figliuoli stia piú sicuro e senza paura delli gatti, sí perchè non possono entrare a torre l'ova o figliuoli per la maniera del nido, perchè, come sentono che gli gatti si approssimano, si mettono nel suo nido e tengono il becco verso la parte di fuora, e danno tal beccate che 'l gatto ha di grazia di levarsegli dinanzi.
Del passere matto.
Cap. XLIIII.
Sonvi ancora certi passeri, o celeghe, che li cristiani chiamano matti, per dargli il nome al contrario delli suoi effetti, come sogliono nominar altre cose, secondo che per avanti s'è detto, perchè per la verità nissuno uccello di quelli che in quelle parti ho veduto mostra esser piú savio e astuto, né di tanto ingegno per natura per allevar suoi figliuoli senza pericolo. Questi uccelli sono piccioli e quasi neri, e sono poco maggiori che li tordi di qui. Hanno alcune penne bianche nel collo. Hanno la sagacità delle gazzuole, chiare volte si buttano in terra.
Fanno gli suoi nidi sopra arbori separati dagli altri, perchè li gatti mammoni costumano d'andar d'arboro in arboro, e saltar d'uno nell'altro, e non dismontar in terra, per paura che hanno d'altri animali, se non quando hanno sete, che dismontano a bere in tempo che non possono esser molestati. E questi uccelli né vogliono né sogliono fare gli suoi nidi se non in arbore che sia alquanto lontano dagli altri, e fanno un nido lungo un braccio o piú, a modo d'un sachetto, e nel fondo è largo, e dalla banda di sopra dove sta attaccato si va stringendo, e fa un buco donde entra in quel sachetto, tanto grande che sia sufficiente a ricever il detto passere quando entra; e acciochè, se per caso li gatti montassero sopra quelli arbori dove si trovano questi nidi, non mangino loro li figliuoli, usano un'altra astuzia molto grande, che è che quelli rami o altro dove fanno questi nidi sono molto aspri e spinosi, e li gatti non gli possono toccare senza pungersi, e sono tanto tessuti e forti che uomo alcuno non lo saperia far di quella sorte, e se il gatto vuole metter la zampa per il buco del detto nido, per cavar fuora le ova o li figliuoli piccioli di questi uccelli, non può arrivar al fondo, perchè come è detto sono lunghi piú di tre o quattro palmi, e non può la zampa del gatto arrivare al fondo del nido. Fanno un'altra cosa, la quale è che in un arbore sono molti di questi nidi, e la causa perchè fanno molti di questi passeri gli suoi nidi in un medesimo arbore, debbe essere per una di due, o perchè di sua natura vanno in frotta e sono amiche di compagnia della sua medesima generazione, come sono gli stornelli; o perchè, se per caso li gatti montano nell'arbore dove fanno li nidi, ve ne siano diversi, acciochè stia alla ventura a quale il gatto debba dar molestia, e ve ne siano gran quantità di grandi, li quali facino la guardia per tutti, perchè quando veggono li gatti danno grandi gridi.
Delle picche, overo gazzuole.
Cap. XLV.
In terra ferma, e similmente nelle isole, sono alcune piche e gazzuole, che sono minori di quelle di Spagna, le quali vanno sempre a salti, e sono tutte nere, e hanno il becco fatto a modo di quello de' pappagalli e similmente nero; hanno la coda lunga, e sono poco maggiori de' tordi.
Degli uccelli detti pintadelli.
Cap. XLVI.
Sonvi certi passeri, che si chiamano pintadelli, che sono molto piccoli, come sono fringuelli montani o di sette colori. Questi passerini, per paura delli gatti, sempre fanno gli suoi nidi sopra la riva de' fiumi o del mare, dove le rame degli arbori arrivino con li nidi all'acqua, poco peso che sopra quelle si carichi. Fanno li detti nidi quasi nelle cime delli detti rami, e quando il gatto va sopra li rami, avanti s'abbassa e pende verso l'acqua; il gatto per paura torna in dietro, non curando piú de' nidi, per paura di cascare, perchè di tutti gli animali del mondo, non obstante che nessuno lo superi in malizia, e che naturalmente la maggior parte degli animali sappi notare, questo gatto non lo sa fare, e molto presto affoga. Questi passerini fanno gli suoi nidi in modo che, ancora che si bagnino ed empino d'acqua, subito tornano suso, e ancora che li passerini nuovi stiano sotto acqua, per piccolini che siano non s'anniegano.
Delli lusignuoli e altri passerini che cantano.
Cap. XLVII.
Sonvi molti lusignuoli, e molti altri uccellini che cantano maravigliosamente e con gran melodia e con differente modo di cantare, e sono molto diversi di colore un dall'altro: alcuni sono tutti gialli, alcuni sono colorati, d'un color tanto grande ed eccellente, che non si potria credere né veder altra cosa di maggior colore, e tanto quanto fosse un rubino; e ve ne sono degli altri di varii colori, alcuni di molti colori, altri di pochi, e altri di una sorte, e tanto belli che in lustrezza eccedeno, e superano tutti quelli che si trovano in Spagna e Italia e in altri regni e provincie che ho visto; molti delli quali si prendono con reti, vischio e trappole di molte sorti.
Del passere moschetto, molto piccolo.
Cap. XLVIII.
Trovansi alcuni passerini tanto piccoli, che tutto il corpo d'uno d'essi è minor della cima del deto grosso della mano, e pelato è la metà manco di quel che è detto. È uno uccellino che, oltra la sua picciolezza, ha tanta velocità e prestezza nel volare che, vedendolo nell'aere volare, non si vede batter l'ale, d'altra sorte di quello che si vede de' calabroni, e non è persona che gli veda volare che pensi che sia altro che calabrone. Li nidi sono secondo la proporzione e grandezza sua, e io ho veduto uno di questi passerini che, con il nido messo in una bilancia d'oro, pesò il tutto due tomini, che son ventiquattro grani, con la piuma, senza la quale averia pesato manco senza dubio. S'assomigliava, nella sottilezza de' piedi e dell'unghie, agli uccelletti che si dipingono nelli margini delli libri dell'officio che sogliono mettere gli miniatori, e la sua piuma è di molti belli colori, dorata e verde e altri colori, e il becco lungo secondo il corpo, e tanto sottile come un ago da cucire. Sono molto animosi, e quando vedono che alcun uomo monta in su l'arbore dove hanno gli suoi nidi vanno a dargli negli occhi, e con tanta prestezza va e fugge e torna, che non si può creder chi non lo vede. Certo è tanta la picciolezza di questo uccelletto, che non averia ardimento di parlarne, se non fusse che non solo io, ma altri ancora sono in questa corte testimonii di veduta. Fanno il suo nido di fiocco o pelo di cottone, del quale in questo luogo ne è abondanzia, e loro molto a proposito.
Passaggio d'uccelli.
Cap. XIL.
Io ho visto alcuni anni nel mese di marzo, in spazio di quindeci o venti giorni, e alcuni anni piú, dalla mattina fin alla notte, andar tutto il cielo coperto d'infiniti uccelli molto alti, e tanto elevati in aere che molti di loro si perdono di vista; alcuni altri vanno molto bassi a rispetto delli piú alti, nondimeno vanno molto alti a rispetto delle sommità de' monti del paese, e vanno del continuo in frotta, over un dietro l'altro; e questa via fanno dalla parte di tramontana verso mezzodí, e alcuni da parte del mar verso la terra, e cosí attraversano tutto quello che del cielo si può vedere in lunghezza, nel viaggio che fanno questi uccelli; e del largo occupano gran parte di quel che si vede del cielo. La maggior parte di questi uccelli sono al parer mio aquile nere, e altre di molte sorti e molto grandi; e altri uccelli di rapina. La differenzia e le piume delli detti non si può molto comprendere, perchè non s'abbassano tanto che si possino conoscere né discendere con la vista; nondimeno, per la maniera del volare, e per la sua grandezza e differenzia fra lor, si conosce molto bene che son di molte e diverse spezie. Il passar di questi uccelli è sopra la città e provincia di Santa Maria dell'Antiqua del Darien, in terra ferma, in quella parte che si chiama Castiglia dell'Oro.
Altre molte maniere di uccelli si trovano in terra ferma, che saria gran cosa a volerle descriver particolarmente; sí perchè di tutti quelli che si veggono, essendo infiniti, saria cosa impossibile a specificargli, come ancora perchè, di molte altre che ho scritto nella mia generale istoria, non mi occore altro alla memoria di quello che nel presente sommario ho detto.
Delle mosche, moscioni, ape, vespe e formiche e simili animali.
Cap. L.
Nell'Indie e Terra ferma sono molto poche mosche, e in comparazion di quelle che sono in questi nostri paesi d'Europa, si può dire che non ve ne siano, perchè rade volte si veggono. Moscioni, overo zenzare, ve ne sono molte, e fastidiose e di molte sorti, e spezialmente in alcune parti vicine al mare, e nondimeno in molte parti fra terra non se ne trovano. Sonvi molte vespe, e pericolose e venenose, e la sua morsicatura senza comparazion fa maggior dolore che quella delle vespe di Spagna; e hanno quasi il medesimo colore, ancora che siano maggiori, e hanno il color suo giallo inverso il bianco, e l'ali sono machiate di color nero, ma le punte dell'ale sono d'un bianco smarrito.
Sonvi molto grandi vespai, e pieni di buchi overo casette, della sorte di quelle che fanno le ape in Spagna, ma sono secchi e di color bianco sopra berrettino, e non hanno alcun liquor dentro, ma la sua generazione, overo quella materia di che nascono. Molti di questi vespaii si trovano negli albori e colmi e legni delle case.
Delle ape.
Cap. LI.
Sonovi molte ape, che si generano nelli buchi degli arbori, e sono piccole, della grandezza simili alle mosche o poco piú, e la punta delle ale è mozza al traverso, della maniera della punta delle coltelle che si fanno nella città di Vittoria; e per mezzo dell'ala hanno al traverso un segno bianco, e non mordono, né fanno male, né hanno l'ago, e fanno gran favi over cassette, e piú buchi sono in un di detti favi che 'n quattro di questi di qui, benchè le siano ape di quelle portate di Spagna; e il mele è molto buono e sano, ma è bianco e quasi come vin cotto.
Delle formiche.
Cap. LII.
La differenza delle formiche è grande, e la moltitudine di quelle è tanta, e tanto dannosa in alcune di loro, che non si potria mai credere chi non l'avesse veduto, perchè hanno fatto molto danno, cosí negli arbori come ne' zuccari, e altre cose necessarie al viver dell'uomo. Ma per non esser longo in questo parlare, dico che quelle che gli orsi formigari mangiano son d'una sorte, e sono picciole e nere, e altre son di color biondo, e altre sono che chiamano conixen, che la metà son formiche e l'altra metà un verme, qual porta attaccato una scorza bianca, strascinandola; e son molto dannose e penetrano i legnami, e alle case fanno molto danno queste formiche comixen, le quali, se montano sopra un arbore o per un pariete o dove si voglia che faccino il suo cammino, portano una cappa over coperta di terra grossa come un deto o come la metà, o piú o poco manco, e sotto di quell'artificio o cammino coperto vanno fino dove vogliono fermarsi; e dove si fermano portano molte di quelle coperte, e fanno una casa di terra coperta cosí grande come tre o quattro palmi, poco piú o manco, e cosí larga come è longa o come la vogliono fare, e lí fanno il suo nido, e quel luogo si marcisce; e rosegano il legno e similmente li parieti, fino che vi lasciano li buchi, come è ad un favo over carase. E bisogna aver aviso che, subito che cominciano a far quelle cappe over sentiero coperto, di romperle, avanti che abbino luogo da far danno nelle case, perchè questi animaletti nelle case sono come tarme ne' panni.
Vi sono ancora delle altre formiche, maggiori delle sopradette e con gran differenza; ma di tutte le piú triste sono quelle che sono nere, e sono quasi tanto grandi quanto l'ape di qui, e queste sono tante pestifere che con quelle e altre materie venenose gl'Indiani fanno il veneno che mettono in capo delle saette, il qual veneno è senza rimedio, e tutti quelli che sono feriti di quelle saette muoiono, che di cento non ne scampano quattro. Si è visto molte volte per sperienza, in molti cristiani morsi da queste formiche, che subito che sono morsi viene loro la febre grandissima, e nasce una panocchia a colui che è stato morso. Altre ne sono della grandezza di quelle di Spagna, ma sono rosse, e queste e la maggior parte delle dette di sopra, che sono in terra ferma, sono di passaggio.
De' tafani.
Cap. LIII.
In terra ferma sono molti tafani, e mordono molto, e sono di molte e differenti sorte, e tanti che sarebbe longo e noioso processo a scriverne, e non piacevole al lettore.
Delle formiche alate.
Cap. LIIII.
In quelle parti sono molte formiche alate, della medesima sorte di quelle di Spagna; e cosí si generano quando alle formiche nascono l'ale, e sono alquanto minori di quelle di qui.
Delle vipere e colubri e serpi e lacerti e rospi e altri simili animali.
Cap. LV.
In Terra ferma, in Castiglia dell'Oro, sono molte vipere, della medesima sorte di quelle di Spagna, e quelli che sono morsi da quelle muoiono molto presto, perchè pochi arrivano al quarto giorno se presto non sono aiutati; nondimeno infra quelle ne è una spezie minor dell'altre, e hanno la coda alquanto tonda, e saltano nell'aere a morder gli uomini: e per questo alcuni chiamano tiro questa sorte di vipera, e il morso di queste tali è piú venenoso, e per la maggior parte è incurabile. Una di queste morse una Indiana di quelle che mi servivano in casa, in una possessione, e gli fu fatto presto li remedii; e similmente fu salasciata e cavatogli sangue del piede dove era stata morsa, e gli fu fatto tutto quello ordinorono li chirurgici, e niente giovò, né gli poterono cavare gocciola di sangue, ma solo acqua gialla, e in tre dí morí, che non se gli trovò rimedio. E questo medesimo accade ad altre persone. Questa Indiana che ho detto che morí era d'età d'anni quattuordeci o manco, e molto latina, che parlava castigliano come se la fusse nata e allevata tutta la vita sua in Castiglia, e diceva che quella vipera che l'aveva morsa nel collo del piede era di due palmi o poco manco, e che la saltò nell'aere per morderla piú di sei passi: e con questo s'accordavano molte persone che avevano pratica di queste vipere o tiri, e che avevano veduto morire altre persone di simili morsi. Queste son le piú venenose che siano in quelle bande.
Delle biscie o serpenti.
Cap. LVI.
Io ho veduto in terra ferma una sorte di biscie sottili e longhe di sette in otto piedi, le quali sono tanto rosse che di notte paiono carboni accesi, e di giorno rosse come sangue. Queste sono assai venenose, ma non però tanto come le vipere. Ve ne sono dell'altre piú sottili e piú corte e piú nere, e queste escono delli fiumi e vanno in quelli e per terra quando vogliono, e sono similmente molto venenose. Sonvi parimenti altre biscie berrettine, e sono poco maggiori che le vipere, e sono nocive e venenose; sonvene delle altre di piú colori e molto longhe, e io ho veduto una di queste nell'anno 1515 nell'isola Spagnuola, appresso la costa del mare, a' piedi della montagna che si chiama Pedernales; e la misurai, ed era piú di venti piedi di longhezza, e il piú grosso di quella era molto piú di un pugno serrato, e doveva essere stata morta quel giorno perchè non puzzava e il sangue era fresco, e aveva tre o quattro coltellate. Queste tali bisce sono manco venenose delle soprascritte, salvo che per la grandezza sua mettono timor nel vederle.
Io mi ricordo che, essendo nel Darien in terra ferma nell'anno 1522, venne del campo molto spaventato Pietro della Calleia, montagnol nativo di Colimdres, una lega lontan da Laredo, uomo di credito e nobile, il qual disse che avea visto, in un sentier, in un campo di maizal, solamente la testa con poca parte del collo d'una biscia o serpente, e che non poté veder il resto per causa della spessezza del maiz; e che la testa era molto maggior che un ginocchio addoppiato della gamba di un uomo mezzano, e cosí giurava, e che gli occhi non gli erano parsi minori di quelli che sono d'un manzetto grande. E come la vidde, di lí alquanto slargatosi, non ebbe ardimento di passar per quel sentiero e si ritornò in dietro; la qual cosa il soprascritto narrò a molti e a me, e tutti il credemmo, per altre molte che in quelle parti aveano vedute alcuni di quelli che udirono il detto Pietro della Calleia. E pochi giorni dapoi, nel medesimo anno, fu morta una biscia da un mio servidor, che era dalla bocca fino alla punta della coda ventidoi piè, e il piú grosso di quella era piú che duoi pugni giunti della man d'un uomo mezzano, e la testa piú grossa che un pugno; e la maggior parte della gente la vidde, e quel che l'ammazzò si chiama Francesco Rao, nativo della città di Madril.
Yuana.
Cap. LVII.
Yuana è una sorte di serpente di quattro piedi, molto spaventoso a vedere e molto buon da mangiare, del qual nel capitolo sesto a dietro fu detto sufficientemente quel che si conveniva di questo animale; sonne molti d'essi nell'isole e in terra ferma.
De' lagarti o dragoni.
Cap. LVIII.
Sonvi molti lagarti, cioè lacerti o ramarri, della foggia di quelli di Spagna e non maggiori, ma non son venenosi; ve ne sono altri grandi, di dodici o quindici piedi di lunghezza e piú grossi che una cassa, e alcuni d'essi delli piú grandi sono grossi come una botte, e la testa e il resto a proporzione. Il mostaccio hanno molto lungo, e il labro di sopra bucato per mezzo delli denti che si chiamano canini, per li quali buchi escono detti denti canini, che hanno nella parte piú bassa della bocca, insieme con gli altri denti. Sono molto fieri nell'acqua e velocissimi, e in terra alquanto gravi e pigri, a rispetto della prestezza che hanno nell'acqua. Molti di questi animali vanno per le coste e spiaggie del mare, e vanno ed entrano per li fiumi e canali che descendono in mare, e sono di quattro piedi, e hanno molte dure squamme; e per mezzo del fil della schiena, tanto quanto è lunga, è pieno di punte o vero d'ossi alti, ed è tanto dura la sua pelle che niuna spada o lancia lo può offendere, se non fusse ferito sotto quella pelle durissima fra le coscie o nella pancia, nelle quali parti è la pelle piú tenera di questi lagarti o dragoni.
Li quali, quando fanno le sue ova, è nel tempo piú secco dell'anno, del mese di decembre, che li fiumi non escono del suo letto in quel tempo, mancandoli le pioggie, e per questo non gli può portar via il crescer de fiumi le uova. E fanno le sue ova a questa foggia: escono alla rena e spiaggia per la costa del mare o per le rive de' fiumi, e fanno un buco nella rena e mettono ivi dugento over trecento ova o piú, e cuopronle con la detta arena; le quali con il sole per putrefazione nascono e prendon vita, escono di sotto dell'arena e vanno al fiume che è lí vicino, non essendo maggiori d'una spanna o poco manco, e poi crescono e vengono tanto grandi come è detto.
In alcune parti sono tanti di questi che è cosa da spaventare; e il piú delle fiate stanno nelle volte e gran fondi de' fiumi, e quando escono d'essi e vanno per la terra e spiaggia, tutto quel luogo lí vicino sa di musco, ed escono molte volte a dormir nell'arena appresso l'acqua. E quando s'allarga alquanto e li cristiani gli truovano, subito fuggono all'acqua, e non sanno nel correr voltarsi d'una banda o dall'altra, ma vanno sempre a diritto; e se per aventura corressero dietro ad un uomo non lo possano arrivare, s'è avisato di quel che è detto, e che vadi torcendo il cammino o declini dalla strada; anzi molte volte per tal causa è occorso che molti sono andati dandogli bastonate e coltellate, fin che gli hanno ammazzati over fatti entrar nell'acqua. Nondimeno il meglio è tirargli con balestra e schioppi, perchè con altre armi, come sariano spade, dardi o lancie, poco danno se gli può fare, eccetto se non s'abbate a dargli nella pancia over sotto le coscie, nelli quali luoghi hanno la pelle piú sottile. E quando corrono per terra portano la coda levata sopra la schiena, inarcata come le penne della coda del gallo, e la pancia non strascinando, anzi alta da terra un palmo, poco piú o manco, a rispetto della grandezza e altezza de' piedi; e ha quattro piedi, in capo delli quali ha le dita sfesse e unghie molto lunghe. Finalmente questi lagarti sono molto spaventosi dragoni a vedere.
Alcuni vogliono dire che sono cocodrilli, però non sono, perchè il cocodrillo non ha luogo alcuno da spirare eccetto la bocca, e questi lagarti overo dragoni lo hanno, e il cocodrillo ha due mascelle, e cosí muove quella di sopra come quella di sotto, ma questi lagarti che io dico non hanno se non la mascella di sotto. Sono nell'acqua velocissimi e molto pericolosi, perchè mangiano molte volte gli uomini, li cani, li cavalli e le vacche quando che passano a guazzo; e per tal causa si debbe avere questo aviso, che quando la gente passa per qualche fiume dove sono questi animali, sempre si prende il guado dove l'acqua è piú bassa e sia piú corrente, perchè detti lagarti s'allargano dalle correnti e dove è poco fondo. Molte volte occorre che ammazzandogli gli truovano nel ventre una o due sporte di sassetti lisci, che 'l lagarto mangia per suo passa tempo, e gli patisce.
Ammazzansi molte volte, prendendogli con ami grossi incatenati e ad altre foggie, e alcune volte, ritrovandogli fuora dell'acqua, con gli schioppetti. Io tengo questi animali piú presto per bestie marine e d'acqua che terrestri, ancora che, come è detto, nascano in terra di quelle ova che sotterrano nell'arena. Le qual ova son tanto grandi o piú che quelle d'oca, e sono tanto larghi in un capo, over punta, come dall'altra banda, over capo, e se si gettano in terra non si rompono né si spandono, se ben si rompesse la prima scorza, che è come quella delle ova d'oca; e tra quella e la chiara è una tela sottile, che par simile ad un soatto, che non si rompe se non se gli dà con alcuna punta di ferro o di legno acuto; e battendo la terra con alcuni di questi ovi, salta in suso e fa un sbalzo come se fusse una palla da vento. Non hanno rosso, ma tutto è chiara, e acconci in tortelli sono buoni e di buon sapore.
Io ho mangiato alcune volte di queste ova, ma non di lagarti, ancora che molti cristiani gli mangiavano, quando gli potevano avere, massimamente li piccoli, al principio che la terra si conquistò, e dicevano che erano buoni. E quando questi lagarti lasciavano le sue ova coperte nell'arena, e alcuno cristiano gli trovava, toglieva tutto quel nido di ova e portavagli alla città del Darien, e gli vendevano cinque e sei castigliani e piú, secondo la quantità che portava, a ragion d'un real d'argento per ciascuno ovo. Io gli pagai a tal prezzo, e ne ho mangiato alcune volte nell'anno 1514; però, dapoi che si cominciò a trovar altre cose da mangiare e animali, lasciorono di cercargli, ancora che, quando gli truovano a caso, alcuni non restano di mangiarli volentieri.
Degli scorpioni.
Cap. LIX.
Vi sono in molte parti in terra ferma scorpioni venenosi, e io gli ho trovati in Santa Marta, fra terra ben tre leghe allargati dalla costa e porto del mare, dove nell'anno 1514 toccò l'armata che per comandamento del re catolico don Ferdinando passò in terra ferma. Sono neri in verso giallo, e in Panama, nella costa del mar del Sur, io gli ho veduti alcune volte.
De' ragni.
Cap. LX.
Vi sono ragni molto grandi, e io ne ho veduti di maggiori che una man distesa con le gambe e tutto il resto; ma il corpo solo di un ragno, che viddi una volta, era di grandezza d'una passera berrettina, e pieno di quel velo che fanno la sua tela, e il color era berrettin oscuro, e gli occhi maggiori che d'un passere di quelli che ho detto. Sono venenosi, ma di questi grandi ritrovansi rare volte; sono però communemente maggiori di quelli di queste bande.
De' granchi.
Cap. LXI.
Li granchi sono alcuni animali terrestri che escono di certi buchi che loro istessi fanno in terra, e la testa e il corpo è tutta una cosa tonda, e si assimiglia molto ad un cappelletto da falcone, e d'un de' lati gli escono quattro piedi e dall'altro altri quattro, e hanno due bocche come tanagliette, una maggior dell'altra, con la qual mordono; non duol però molto il suo morso, né è venenoso. La sua scorza e corpo è liscio e sottile come la scorza dell'ovo, salvo un poco piú dura. Il colore è berrettino, o bianco, o paonazzo, che tira all'azzurro, e camminano per lato e sono buoni a mangiare; e gl'Indiani si dilettan molto di questo mangiare, e similmente in terra ferma molti cristiani, perchè se ne truovano molti ed è mangiar di poca spesa, né hanno mal sapore. E quando li cristiani vanno fra terra molto, è cibo che si truova incontinente e che non dispiace, e mangiansi arrostiti in su le bracie.
Finalmente la fatezza di questi è della medesima maniera che si dipigne il segno di Cancer; e in Andalosia alla costa del mar, nel fiume Guadalchibir, dove quello entra in mare, a San Lucar e in altre parti, sono molti granchi, ma sono d'acqua, e li sopradetti sono di terra. Alcune volte sono dannosi e quelli che gli mangiano muoiono, specialmente quando detti granchi hanno mangiato qualche cosa venenosa, o di quelli pometti delli quali si fa il veneno, qual adoperano gl'Indiani Caribi arcieri nelle sue freccie, del qual si dirà poi; però per tal causa si guardano li cristiani da mangiar tal granchi, quando gli ritruovano appresso detti arbori che fanno tal pometti. E benchè si mangi molti di quelli che sono buoni, non fanno però male all'uomo, né è vivanda che sia dura da patire.
Delli rospi.
Cap. LXII.
Sono molti rospi in terra ferma, e molto noiosi per la gran quantità d'essi; non sono venenosi, ma dove piú di questi s'è visto è nella città del Darien, e molto grandi, tanto che quando muoiono, nel tempo del secco, vi rimangono tanto grandi gli ossi d'alcuni, e spezialmente le coste, che paiono di gatto o d'altro animal di tal grandezza; però, come cessano le acque, a poco a poco si consumano e finiscono, fin che l'anno seguente al tempo delle pioggie si ritorna a vederli. Nondimeno ormai non ne è tanta quantità come soleva, e la causa è che, cosí come la terra si va coltivando e abitando dalli cristiani, e tagliandosi molti arbori nelli monti, e con il fiato delle vacche, cavalle e altri bestiami, cosí pare che visibilmente e palpabilmente si vada levando via questo veneno, e ogni giorno vien piú sana e piacevole.
Questi rospi cantano di tre o quattro maniere, né alcuna d'esse è piacevole: alcuni come cantano quelli di qui, altri fischiano, e altri d'altra maniera. Ve ne sono di verdi, berrettini, e alcuni quasi neri, però di ciascuna sorte sono molto brutti, grandi e noiosi, per esserne molti; ma, come è detto, non sono venenosi, e dove si pone cura che non vi sia acqua morta, ma che corra o che si consumi subito, non sono rospi, perchè vanno a ritrovare li luoghi fangosi.
Degli arbori, piante ed erbe che sono nelle dette Indie, sí isole come terra ferma.
Poichè si è detto degli arbori che di Spagna si sono portati in quelle parti, e come tutti fanno grandissima copia di frutti, voglio ora dir degli altri nativi di quelli luoghi, e perchè tutti quelli che sono nell'isole sono ancora e in maggior copia in terra ferma. Dirò di quelli che mi verranno alla memoria, tuttavia con quella protestazione che feci nel principio, ch'è che tutto quello che dirò qui, e quel di piú che mi è uscito della memoria, è copiosamente scritto nella mia generale istoria dell'Indie. E cominciando dal mamei, dico cosí.
Del mamei.
Cap. LXIII
Le principali piante, e quello di che piú si nutriscono gl'Indiani, son iuca e maiz, delle quali fanno pane, e del maiz anco vino, come di sopra s'è detto. Sonvi altri frutti molto buoni oltra questi. Èvvi uno frutto che si chiama mamei, ch'è un arbore grande, di belle e fresche foglie, e fa uno grazioso ed eccellente frutto e di molto soave sapore, tanto grosso per la maggior parte quanto due pugni congiunti; il colore è come delle pere, con il scorzo leonato, ma piú duro alquanto e piú spesso, e l'osso è fato in tre parti, l'una appresso l'altra in mezzo del frutto a modo di semenze, e di colore e fatezza delle castagne monde, e a queste sí propriamente s'assimiglia che nissuna cosa gli mancheria ad esser le medesime castagne, se avesse quel sapore. Ma questo osso cosí diviso, o semenza, è amarissimo come fiele, ma sopra quello è una teletta molto sottile, tra la quale e la scorza è una carnosità come leonata, che ha il sapore di pesche o migliore, e ha un buonissimo odore. Ed è piú denso questo frutto e di piú soave gusto che la pesca, e questa carnosità che è dal detto osso fin alla scorza è tanto grossa quanto un deto o poco manco, e non si può migliorare né veder altro miglior frutto.
Del guanabano.
LXIIII.
Il guanabano è un arbore molto grande e bello in vista, ch'ha li rami diritti, la foglia longa e larga e molto verde, e fa un frutto che par pigna, grande quanto meloni longhi; e in cima ha certi lavori sottili che s'assimigliano a squame, ma non sono, né si aprono, anzi serrata intorno è tutta coperta d'una scorza della grossezza di quella di meloni e alquanto manco, e dentro è pieno d'una pasta come mangiar bianco, salvo che, ancorchè sia tanto spessa, è alquanto acquosa e di gentil sapore, temperato con un garbo soave e piacevole. E dentro a quella carnosità ha certe semenze, che sono maggiori che quelle della cassia e dell'istesso colore e quasi cosí dure; e ancora che un uomo mangi una di queste guanabane che pesi due o tre libre e piú, non gli fa mal né danno allo stomaco, ed è molto temperata e bella a vedere; solo si lascia di tal frutto quella scorza sottile che non si mangia e le semenze, e trovansi di quelle che sono di peso di quattro libre e piú. E se dapoi cominciata a mangiare si lasci per qualche dí, non si fa di mal sapore, se non che si va seccando e consumando in parte, distillandosi la umidità e acqua; e le formiche subito vanno a quella che è tagliata, e per questo non la cominciano mai a mangiare se non per finirla. E di queste guanabane si trovano molte e nell'isole e in terra ferma.
Del guaiaba.
Cap. LXV.
Il guaiaba è un arbore bello in vista, ch'ha la foglia quasi come di moro, se non che è minore. E quando è fiorito ha molto buon odore, e spezialmente il fior d'una certa sorte di questi guaiaba; getta certe pome piú massiccie che le pome di qui e di piú peso, ancora che fussero di egual grandezza, e hanno molte semenze, o per dir meglio son piene di granelletti molto piccioli e duri: perciò solamente son fastidiose da mangiare a quelli che di nuovo le provano, per causa di quei granelletti, ma a chi già l'ha provate pare molto gentil frutto e appetitoso. E dentro ne sono alcune colorite, altre bianche; e dove miglior le abbi trovate è nel Darien, e per quel paese dico miglior che in alcuna parte di terra ferma ch'io sia stato; ma quelle dell'isole non sono tali. E a quelli che sono usi a mangiarle lo tengono molto buon frutto, e assai migliore che le pome.
Del coco, cioè noci d'India.
Cap. LXVI.
Il coco è spezie di palma, e la grandezza e foglia dell'istessa sorte delle palme reali che fanno li dattili, eccetto che son differenti nel nascimento delle foglie, perchè quelle de' coci nascono ne' tronchi della palma, di quel modo che fanno le deta della mano quando si intertesseno l'una con l'altra, e cosí fanno dapoi ch'han piú sparte le foglie. Queste palme o coci son arbori alti, e trovasene molti nella costa del mar del Sur, nella provincia del cacique Chiman; il qual cacique ebbi certo tempo raccomandato con 200 Indiani.
Questi arbori o palme producono un frutto che si chiama coco, ch'è di questa sorte: tutto unito come sta nell'arbore ha maggior circonferenzia che una gran testa di un uomo, e dalla superficie fin a quel di mezzo, ch'è il frutto, è circondato e coperto da molte tele, della sorte di quella stoppa della qual son coperti li palmizi di terra nell'Andalosia (dico di terra, perchè non sono palmizi di palme alti); di quella stoppa e tele che in levante fanno gl'Indiani tele molto buone e sarte, e tele le fanno di tre o quattro sorti, sí per vele di navilii come per vestirsi, e le corde sottili e piú grosse e fino a sarte. Ma in queste Indie di vostra maestà non curano gl'Indiani di queste corde e tele che si possono fare della lana di questi detti coci, come fanno in Levante, perchè hanno molto cottone e bello.
Questo frutto ch'è in mezo della detta stoppa, com'è detto, è grande come un pugno serrato, e alcuni come due e piú e meno; ed è in forma di noce o altra cosa rotonda, alquanto piú longa che larga, e dura, e la scorza di quella è grossa come è un cerchio delle lettere d'un real d'argento; e di dentro è attaccato alla scorza di quella noce una carnosità di larghezza della metà della grossezza del minor dito della mano, la qual è bianca come una mandola monda, e di miglior sapor che mandorle e di molto suave gusto.
Mangiasi cosí come si mangeriano le mandorle monde, e dapoi masticate queste frutte, restano alcune fregolette come delle mandorle, ma a chi le vuol inghiottire non è dispiacevole, ancora che sia andato giú per la gola il succo avanti che queste fregole si inghiottischino; pare che quel che è masticato resti alquanto aspro, ma non molto, né di sorte che s'abbia a gettar via. Quando il coco è fresco, e che poco avanti è stato colto dall'arbore, di questa carnosità e frutto, non mangiandola, ma pestandola molto e dapoi colandola, se ne cava latte, molto migliore e piú suave che quello de' bestiami, e di molta sustanzia, la quale li cristiani di quel paese metton nelle torte che fanno di maiz o del pane fatto a modo di polenta; e per causa di questo latte de' coci son le dette torte eccellente a mangiare, e senza far mal allo stomaco, dilettano tanto al gusto e lasciano cosí satollo come se si fussino mangiati molti e molti buoni mangiari.
Ma, procedendo piú avanti, è da sapere che, in luogo dell'osso o midolla di questo frutto, è nel mezzo della detta carnosità un luogo vacuo, ma pieno d'un'acqua chiarissima ed eccellente, in tanta quantità che riempirebbe un ovo, o piú o manco, secondo la grandezza del coco: la qual bevuta è la piú sustanzial e la piú eccellente e la piú preciosa cosa che si possa pensare per bere. E par che, in quel momento che la passa il palato e che la s'inghiottisce, che dalla pianta de' piedi fin alla cima della testa nessuna cosa né parte resti nell'uomo che non senta consolazione e maraviglioso contento; certo par cosa di piú eccellenzia che tutto quel che di sopra la terra si può gustare, e in tanta eccellenzia che non lo so esprimere né dire.
Or, procedendo avanti, dico che il vaso di questo frutto, cavatone il mangiar, resta molto liscio, e lo nettano e puliscono sottilmente; e resta di fuora molto ben lustro, di colore che tira al nero, e di dentro non è di minor dilicatura. Quelli che costumano bere in questi vasi e han mal di fianco, dicono che trovano maraviglioso ed esperimentato rimedio contra tal infermità, e si rompe la pietra a quelli che l'hanno e la fanno orinare. Tutte queste qualità che ho detto sommariamente qui a vostra maestà ha il frutto di questi coci. Il nome di coco fu posto a questo frutto per questa causa, che quando si dispicca dal luogo dove è attaccato nell'arbore, vi resta un buco, e di sopra quel buco duoi altri buchi naturalmente, quali insieme rappresentano un gesto o figura d'un gatto mammone quando coca, overo grida: e perciò il detto frutto è chiamato coco. Ma in verità, come di sopra s'è detto, questo arbore è spezie di palma, e secondo Plinio e altri naturali, che scrivono che tutte le palme sono utili e giovano al mal del fianco: e di qui viene che li coci, come frutto di palma, sono utili a simile malattia.
Della palma.
Cap. LXVII.
Nel capitolo di sopra si disse che li coci sono spezie di palme, e per questo, prima che si dica degli altri arbori, sarà bene che si dica alcune cose delle palme. Di quelle che producon dattili fin ora non se ne son trovate in quelle parti, ma per industria de' cristiani ne sono molte nell'isola Spagnuola, e nella Cuba, e in S. Giovanni, e Iamayca, e in S. Domenico, sí nelle case dove s'abita come nelli loro giardini, perchè degli ossi degli dattili che si portorono di qui hanno avuto origine e principio; e nella città di S. Domenico in molte case si truovano molto belle. E in una casa che ora io abito in quella città è una palma che ogn'anno produce molti frutti, ed è molto grande e delle piú belle che sia in quel paese; ma delle palme naturali dell'isole e terra ferma son sette o otto sorti, differenti l'una dall'altra. Èvvi una sorte che ha le foglie come di palmizi del paese della Andalosia che è come una palma o mano d'un uomo con le dita aperte, e queste producono per frutto certe coccole piccole e rotonde. Èvvi un'altra sorte di palme che fanno la foglia come quella de' dattili, e queste producono un'altra forma di coccole maggiori, ma non sí dure come quelle che di sopra abbiamo detto. Un'altra sorte è della medesima maniera quanto alle foglie, e li palmetti di quelle sono molto eccellenti a mangiare e molto grandi e teneri, e medesimamente producono coccole d'un'altra sorte; ancora sono li palmetti buoni a mangiare, e sono le piante alquanto piú grosse e piú basse che le dette di sopra, e producono similmente coccole. Èvvi un'altra sorte di palme e che hanno buoni palmetti, che producono per frutto certi coci non maggiori delle olive cordovese, e son come il coco senza la stoppa, e hanno l'osso con li tre buchi che lo fan parer un gatto che coci o rida: ma questi coci son piccoli e saldi, e non sono buoni a niente. Èvvi un'altra sorte di palme alte e molto spinose, le quali sono di legno eccellentissimo e molto nero, grave e lustrante, e non può star questo sopra acqua, ma subito va al fondo: fassi di questo legno molte buone freccie e verrettoni e qual si voglia asta di lancia e picca, e dico picche perchè nella costa del mar del Sur, passato Esquegua e Uracha, portano gl'Indiani picche di queste palme molto belle e lunghe; e dove gl'Indiani combattono con aste da lanciare le fanno di questo legno, lunghe come dardi e accute le punte, le quali tirano e passano un uomo e una rotella. E medesimamente fan mazze per combattere, e qual si voglia asta o cosa che si faccia di questo legno è molto bella e molto buona, e bella per far gravicembali e liuti o qual si voglia instrumento di musica che si facci di legname, perchè, oltra che è molto dura, è nera come un'ambra nera.
Delli pini.
Cap. LXVIII.
Sono nell'isola Spagnuola molti pini naturali come quelli di Spagna, che non fanno pignuoli, e sono della medesima forma e maniera che quelli; né in altre parti delle isole o di terra ferma ho udito che ne siano, per quello che mi posso ricordar al presente.
Del ilice.
Cap. LXIX.
Nella costa del mar del Sur, a occidente partendo da Panama, nel principio della provincia di Esquegua, si sono trovati molti ilici che producono ghiande, e sono buone a mangiare: e questo intesi in terra ferma, e m'informai dalli medesimi cristiani, li quali avevano visto e mangiate delle dette ghiande.
Delle vigne e uve.
Cap. LXX.
In quelle parti in terra ferma, per li monti e boschi dove sono arbori, si trovano molte volte molto buone vigne salvatiche, e molto cariche d'uva e raspi non molto minuti, anzi piú grosse di quelle che nascono in Spagna nelle siepi, e non tanto garbe, ma molto migliori e di miglior sapore. Io ne ho mangiato molte volte e in molta quantità, donde voglio inferire che si piantarebbono e farebbono frutto le vigne e uve in quelle parti, se vi si desse opera. E tutte le uve che ho vedute e mangiate in questi luoghi erano nere. In San Domenico io ho ben mangiato molte buone uve, di quelle che sono nate di pergola, e di quelli sarmenti che sono stati portati in quelle bande di qui, bianche e di sí buon sapore come sono qui.
Delli fichi del nasturcio.
Cap. LXXI.
Nella costa di ponente, partendosi dalla villa d'Acla e passando avanti al golfo di San Biagio e al porto del Nome di Dio, la costa a basso nel paese di Beragua e nelle isole di Corobaro, sono arbori di fichi alti, che hanno le foglie tagliate e piú larghe che li fichi di Spagna; e producono certi fichi grandi come melloni piccioli, li quali nascono attaccati nel tronco principale del fico, nella sommità di quello, e molti nelli rami e in gran quantità, e hanno la scorza sottile, e tutto il resto dentro è d'una carnosità spessa come quella del mellone, e di buon sapore, e tagliansi a sonde o fette come il mellone; e nel mezzo del detto fico o frutto stanno le semenze, le quali sono minute e nere e involte in una materia e umore, della forma che sono quelle del cotogno; e sono tante insieme adunate quanto è un ovo di gallina, poco piú o manco, secondo la grandezza del fico o frutto sopradetto. E quelle semenze si mangiano e sono sane, ma del medesimo sapore, né piú né manco, che è il nasturcio, o vogliam dire agretti; e però quelli che vanno in quelle parti alli servizii di vostra maestà chiamano questo frutto il fico del nasturcio; e di questa semenza s'è piantata nel Darien, e sono nati gli arbori molto bene, e io ho mangiati molti fichi di quelli, e sono della maniera che io ho detto.
Delli cotogni.
Cap. LXXII.
Èvvi un frutto che in terra ferma li cristiani chiamano cotogno, ma non è ben di quella grandezza, rotondo e giallo, e ha la scorza verde e amara, la qual levano via facendolo in quattro parti; cavangli certe semenze che hanno amare, il resto mettono in una pignatta a bollire con la carne, o con altre cose che vogliono acconciare, ed è molto buono e di gran sustanzia, e di buon sapore e nutrimento. Gli arbori che producono questo frutto non sono grandi, e paiono piú presto piante che arbori, e se ne trovano in molta quantità; e la foglia è quasi come la foglia del cotogno di Spagna.
Delli peri.
Cap. LXXIII.
In terra ferma sono certi arbori che si chiamano peri, ma non sono peri come quelli di Spagna, ma sono d'altra sorte di non minor estimazione, anzi producono un frutto che supera di molto le pere di qui. Questi sono certi arbori grandi, e la foglia larga e alquanto simile a quella del lauro, ma è maggiore e piú verde. Produce questo arbore certe pere di peso d'una libra, e molto maggiori e alcune di manco; ma communemente sono d'una libra, poco piú o manco.
Il color e forma è di vere pere, e la scorza alquanto piú grossa ma piú tenera, e nel mezzo ha una semenza come una castagna monda, ma è amarissima, come di sopra abbiamo detto del mamei, salvo che questa è d'un pezzo e quella del mamei è di tre; ma è cosí amara e della medesima forma che quella. Ma sopra questa semenza è una teletta sottilissima, tra la quale e la prima scorza è quel che si mangia, che è molto, e d'un liquore o pasta molto simile al butiro, e di buon mangiare e di buon sapore, e tal che quelli che la possono avere l'apprezzano. E sono arbori salvatichi, cosí questi come tutti quelli delli quali abbiamo parlato, perchè il primo ortolano del mondo è Dio, né gl'Indiani durano in questi arbori fatica alcuna. Con il formaggio sono molto buone queste pere, e si raccogliono a buon'ora, prima che si maturino, e si serbano, e dapoi che sono state colte si stagionano e diventano in tutta perfezione da mangiarle; ma dapoi che sono stagionate per mangiarsele, diventano triste se si differisce il mangiarle e si lascia passar quella stagione nella qual sono buone.
Dell'arbore del fico.
Cap. LXXIV.
L'arbore del fico è un arbore mezzano, e alcuni sono grandi, secondo il paese dove nascono, e producono certe zucche rotonde, che si chiamano, fighere, delle quali fanno vasi per bere, come tazze; e in alcune parti di terra ferma le fanno tanto belle e sí ben lavorate e con tanto lustro che può bever con quelle qual si voglia prencipe, e l'ornano con gli suoi manichi d'oro; e sono molto nette, e l'acqua in quelle si gusta molto buona, e sono molto necessarie e utili per bere. E per questo gl'Indiani, per la maggior parte di terra ferma, non adoperando altri vasi.
Degli hobi.
Cap. LXXV.
Gli hobi sono arbori molto grandi e molto belli, li quali fanno molto buono aere e ombra molto sana, e di questi se ne trova gran quantità; e il frutto è molto buono e di buon sapore e odore, ed è come certe susine piccole gialle; ma l'osso è molto grande e ha poco da mangiare, e sono cattivi per li denti quando s'usano molto, per causa di certi sfilacci che sono attaccati all'osso, li quali passano per le gingive quando l'uomo vuol spiccare da quelle quel che si mangia di questo frutto. Le cime di questi arbori, messe in acqua cocendole con essa, fa quella molto buona per farsi la barba e lavar le gambe, ed è di molto buon odore. La scorza ancora, bollita in acqua, fa molto utile a lavarsene le gambe, perchè stringe e leva via la stracchezza sensibilmente, tal che è maraviglia: ed è uno eccellente e salutifero bagno, e il migliore che trovi in quelle parti. Per dormirvi sotto non causa alcuna gravezza alla testa come gli altri arbori; questo dico perchè li cristiani costumano molto in quel paese di starsene alla campagna, ed è cosa molto provata, e subito che trovano gli hobi, vi distendono sotto gli suoi stramazzi e letti per dormire.
Del legno per mal franzese, che in Spagna si chiama palo santo, e dagl'Indiani guaiacan.
Cap. LXXVI.
Cosí nell'Indie come in questi regni di Spagna, e fuori di quelli, è cosa molto nota il legno over palo santo, che gl'Indiani chiamano guaiacan, e gl'Italiani legno da guarire il mal franzese; e per questo dirò d'esso alcune cose con brevità. Questo è un arbore poco minor d'una noce, del quale se ne trova assai, e sonovi in quelle bande molti boschi, sí nell'isola Spagnuola come nell'altre isole di quelli mari; pure in terra ferma io non ho veduto né udito che siano delli detti arbori. Questo arbore ha la scorza tutta macchiata di verde, e d'alcune macchie piú verdi e alcune manco e berrettine, come suol esser un cavallo pezzato. La foglia d'esso è come d'un arbuto over corbezzolo, pure un poco minore e piú verde; produce certo frutto giallo piccolo, che pare due fave lupine congiunte insieme. Per tanto è legno fortissimo e grave, e ha la midolla quasi nera: dico quasi perchè pende in berrettino. E perchè la principal virtú di questo legno è sanare il mal franzese, ed è cosa molto nota, non mi distenderò molto in quella; solo dirò come del legno d'esso arbore prendono stellette sottili, e alcuni lo fanno limare, e quelle limature cuocono in certa quantità d'acqua, secondo il peso o parte che mettono di questo legno a cuocere; e dapoi che è scemata l'acqua nel cuocere li duoi terzi o piú, la levano dal fuoco e lascianla riposare, e dipoi la danno agli ammalati certi giorni, la mattina a digiuno, e fanno gran dieta, e fra giorno gli danno da bere altra acqua cotta con il detto guaiacan, e guariscono senza alcuna dubitazione molti di questo male.
Ma perchè io non dico cosí particolarmente il modo nel quale si piglia questo legno o acqua d'esso, ma dico come s'usa fare nelle dette Indie dove è piú fresco, colui che averà bisogno di questo rimedio non tenghi conto di quello che io scrivo qui, perchè questo è altro paese e altra temperie d'aere, ed è piú fredda regione, e bisogna che gli ammalati piú si guardino e usino altri termini, ma, cominciando la cosa esser in tanto uso, e sapendo molti come in queste bande si debba prendere, da questi tali s'informi chi ha bisogno medicarsi. Io gli sarò utile in avisarlo che, se vuole il miglior guaiacan che sia, cerchi d'averlo dell'isola detta La Beata.
Può vostra maestà tener per certo che questa infermità venne dall'Indie, ed è molto commune agl'Indiani, ma non è cosí cattiva in quelle parti come in queste nostre, anzi molto facilmente gli Indiani si sanano nell'isole con questo legno, e in terra ferma con altre erbe o cose che loro sanno, perchè sono molto grandi erbolari. La prima volta che questa infermità si vidde in Spagna, fu dapoi che don Cristoforo Colombo ebbe discoperte l'Indie e tornò a queste parti, e alcuni cristiani che vennero con lui, che si trovorono al discoprir di quelle terre, e quelli ancora che fecero il secondo viaggio, che furono molti, portorono questa malattia, e da loro s'attaccò ad altre persone.
L'anno 1495, che il gran capitan don Consalvo Ferrando di Cordoba passò in Italia con gente, in favor del re di Napoli don Ferdinando giovane, contra il re Carlo di Francia, per comandamento delli re catolici don Ferdinando e donna Isabella d'immortal memoria, avoli di vostra maestà, passò questa infermità con alcuni di quelli Spagnuoli; e fu la prima volta che in Italia si vidde; e come era nel tempo che li Francesi passoron con il detto re Carlo, chiamorono gl'Italiani questo male il mal francese, e li Francesi il mal di Napoli, perchè neanche loro l'aveano visto fino a quella guerra. Dopo la quale si sparse per tutta la cristianità e passò in Affrica, per mezzo d'alcune donne e uomini malati di questa infermità, perchè a nissun modo si attacca tanto quanto per il congiungimento dell'uomo con la donna, come si è visto molte volte; medesimamente nel mangiar nelle scodelle, e bere nelle tazze e coppe dove gl'infermi di questo mal usano, e molto piú nel dormir nelli lenzuoli e veste dove sian dormiti tali infermi; ed è tanto grave e travaglioso male che non è persona che abbi intelletto che non vegga tutto il giorno infinite persone rovinate per questo male, e che paiono peggio che gli ammalati di san Lazaro.
Il che è accaduto alli cristiani, in modo che molti di loro son morti, e pochi ne sono che non prendino questo male, se usano o si congiungono con l'Indiane: pure, come è detto, non è cosí cattivo in quelle bande come qui, sí perchè questo arbore è loro piú a proposito, e per esser fresco fa maggior operazione, sí ancora perchè la temperie dell'aere è senza freddo e aiuta piú tali infermi che non fa l'aere di qui, per il che è piú eccellente in quelle parti questo arbore per questo male; e per esperienzia fa maggior profitto quel che si porta dall'isola che si chiama La Beata, qual è appresso alla città di San Domenico dalla Spagnuola, alla banda di mezzodí.
Xagua.
Cap. LXXVII.
Tra gli altri arbori che sono nell'Indie, cosí nell'isole come in terra ferma, è una sorte di arbori che si chiamano xagua, della qual sorte ve ne sono in molta quantità. Sono molto alti, diritti e belli in vista, e si fanno di essi molte buone aste da lancie, lunghe e grosse quanto le vogliono; e sono di bel colore, tra berrettino e bianco. Questo arbore produce un frutto grande come papaveri, alli quali s'assomiglia molto, ed è buon a mangiare quando è maturo. Di questo frutto cavano acqua molto chiara, con la qual gl'Indiani si lavano le gambe e alle volte tutta la persona, quando si sentono le carne fiacche e sono stracchi. E anche per suo piacer si dipingono con questa acqua, la qual, oltra che ha virtú di restringere, fa ancora questo, che tutto quello che la detta acqua tocca a poco a poco fa nero come una fin ambra, o piú, e questo color non si può levare se non passano dodeci o quindeci dí, e quel che tocca l'unghie non si può levar fin che le non si mutano o siano tagliate a poco a poco, come crescono, se una volta si tingono con questo color nero: e questo io ho molto ben provato, che a quelli che camminano per quelle parti, li quali per li molti fiumi che passano ricevono alle gambe qualche nocumento, è molto utile le detta xagua lavandosi dalli ginocchi in giú. Soglionsi fare ancora molti giuochi alle donne, spargendole senza che si accorghino con acqua di questa xagua mescolata con altre acque odorate, perchè gli vengano piú segnali neri di quello che vorriano; e quella che non sa la causa si trova posta in grande affanno per trovar rimedio, ma tutti sono inutili, perchè detti segni si potriano piú presto abbrucciare scorticandosi la faccia che levargli via, fino a tanto che la detta tintura facci il suo corso e a poco a poco da se medesima si parta. Quando gl'Indiani vogliono andar in battaglia si dipingono con questa xagua e con bixa, che è una cosa a modo di sinopia overo imboro, ma piú rossa, e anche l'Indiane usano molto questa dipintura.
Delli pomi per il veneno.
Cap. LXXVIII.
Li pometti delli quali gl'Indiani caribbi arcieri fanno il veneno che tirano con le sue freccie, nascono in certi arbori coperti di molti rami e varie foglie spesse e molto verdi, e si caricano molto di questi mali frutti, e sono le foglie simili a quelle del pero, eccetto che sono minori e piú rotondi. Il frutto è della maniera di pere moscatelle di Sicilia o di Napoli, al parere, alla forma e grandezza, e in alcune parti sono macchiate di rosso, e sono di molto suave odore. Questi arbori per la maggior parte sempre nascono e stanno nella costa del mare e appresso l'acqua di quello, e non è uomo che gli veda che non desideri di mangiar molti di quelli peri o pometti. Di questi frutti, e delle formiche grandi che fanno enfiare col morso, delle quali a dietro si è detto, e delli marassi o vipere e altre cose venenose, fanno gl'Indiani Caribbi arcieri il veneno, con il quale e con le saette ammazzano li feriti.
Nascono come è detto questi pomi appresso al mare, e tutti li cristiani che in quelle parti servono a vostra maestà pensano che niun rimedio sia tanto utile al ferito con questo veneno quanto l'acqua del mare, e lavar molto la ferita con quella; nel qual modo sono scampati alcuni, ma molti pochi, perchè, dicendo la verità, benchè questa acqua del mare sia contra il veneno (se per ventura è), non si sa però ancora usare per rimedio, né fin a quest'ora li cristiani l'hanno compreso: di cinquanta che siano feriti, non ne guariscon tre. Ma perchè vostra maestà possa meglio considerare la forza del veneno di questi arbori, dico che un uomo, solamente gittandosi per poco spazio di ora a dormir all'ombra di uno di questi arbori, quando si leva ha la testa e gli occhi tanto infiati che se gli congiungono le ciglia con le guancie, e se per caso cade una gocciola o piú di rugiada di questi arbori negli occhi, a chi tocca gli rompe o diventa cieco. Non si potria dir la pestilenzial natura di questi arbori, delli quali è gran copia nel golfo d'Uraba, per la costa di tramontana alla banda di ponente o di levante, e tanti che sono infiniti. Le legne di quelli quando ardono fanno tanto gran puzzo, che non è alcun che 'l possa tollerare, perchè fa grandissimo dolor di testa.
Degli arbori grandi.
Cap. LXXIX.
In terra ferma sono tanto grandi arbori che, se io parlasse in luogo dove io non avessi tanti testimonii di veduta, con timore averia ardimento di dirne. Dico che, una lega lontano dal Darien o città di Santa Maria dell'Antiqua, passa un fiume molto largo e profondo che si chiama il Cuti, sopra il quale gl'Indiani tenevano un arbore grosso attraverso, che prende tutto il detto fiume per ponte a passare; e per questo son passati molte volte alcuni che in quelle parti sono stati, li quali al presente sono in questa corte, e io similmente. E perchè detto legno era molto grosso e molto lungo, e molto tempo stato in quel luogo a tal servizio, s'andava abbassando talmente che chi passava per un tratto di mano si bagnava fin al ginocchio; per la qual cosa già fa tre anni, e nell'anno 1522, essendo io ufficial di giustizia di vostra maestà in quella città, feci gettare un altro arbore, poco manco basso del sopradetto, che attraversò tutto il detto fiume e avanzò dall'altra parte piú di cinquanta piè, e molto grosso, e restò sopra l'acqua piú di duoi cubiti; e nel cadere che fece si menò dietro altri arbori e rami di quelli che gli erano da canto, e discoperse certe vigne, delle quali per avanti si fece menzione, di molto buone uve nere, delle qual mangiammo assai piú di cinquanta persone che eravamo lí. Era questo arbore nella piú grossa parte sua grosso piú di 16 palmi; nondimeno, a rispetto di molti altri che 'n quel paese si trovano, era molto sottile, imperochè gl'Indiani della costa e provincia di Cartagenia ne fanno canoe, che sono barche con le quali loro navigano, tanto grandi che in alcune vanno cento e centotrenta uomini, e sono d'un pezzo e di un arbore solo, e nel mezzo di quella sta commodamente una botte, restando da ciascun lato di quella spazio donde possano passare le genti della canoa; e alcune sono tante larghe che tengono dieci e dodeci palmi di larghezza, e le menano e navigano con due vele, cioè la maestra e trinchetto, le quali vele fanno di molto buon cottone.
Il maggiore arbore ch'io abbi veduto in quelle parti o in altre, fu nella provincia di Guaturo, il cacique della quale, essendosi ribellato dalla obedienza e servizio di vostra maestà, fu da me cerco e preso. E passando con la gente che meco veniva per una montagna molto alta e piena d'arbori, nella sommità di quella trovammo un arbore tra gli altri che teneva tre radici over parti in triangulo a modo d'un trepiedi, ed era tra ciascuno di questi tre piedi aperto per spazio di venti piedi, e tanto alto che un'alta caretta carica, della sorte che 'n questo regno di Toledo si usa al tempo che si raccoglie il grano, molto commodamente saria passata per ciascuno di questi tre lumi, overo spazii che erano fra piè e piè. E dalla terra in su era l'altezza d'una lancia da fante a piè, e dove si mettevano insieme questi tre legni o piedi si riducevano in un arbore o tronco, il qual montava molto piú alto in un pezzo solo, avanti che spargesse rami, che non è la torre di S. Roman di questa città di Toledo, e da quella altezza in suso gettava molti rami grandi. Alcuni Spagnuoli montarono sopra il detto arbore, e io fui uno di quelli: e quando fui arrivato sopra il detto, dove cominciava a gettare fuori i rami, era cosa maravigliosa a vedere il gran paese che de lí si discopriva verso la parte della provincia d'Abraime. Era molto facile il montare sopra detto arbore, perchè erano molti besuchi, de' quali è detto di sopra, intorti intorno al detto arbore, che facevano a modo di scalini sicuri. E in ciascun piè de' sopradetti ove nasceva, vi era fondato il detto arbore piú grosso di venti palmi, e dapoi che tutti tre li piedi nel piú alto si teneano insieme, quel troncon principal era piú di 45 palmi in tondo: e io posi nome a quella montagna la montagna dell'arbore di tre piedi. Questo ch'ho narrato vidde tutta la gente che meco veniva, quando come ho detto presi il cacique di Guaturo, nell'anno 1522.
Molte cose si potriano dire in questa materia, e come si trovano molti eccellenti legni e di molte maniere e differenze, sí di cedri odorati come di palme nere, e di molte altre sorti, molti de' quali sono tanto gravi che non possono stare sopra l'acqua, anzi subito vanno al fondo, altri cosí leggieri come il sughero. Solo voglio dire questo, che tutto quello che fino qui è scritto, sarebbe stato necessario di scriverlo piú diffusamente. E perchè al presente io sono sopra la materia degli arbori, avanti che passi ad altre cose, voglio dire il modo che gl'Indiani con legni accendono il fuoco, il quale è questo: prendono un legno lungo due palmi, grosso come il minor deto della mano, over come una freccia, molto ben rimondo e liscio, di una sorte di legno molto forte, che lo tengono solo per questo servizio; e dove si trovano che vogliono accendere il fuoco prendono due legni de' piú secchi e piú leggieri che trovano e legangli insieme, uno appresso all'altro come le deta congiunte, nel mezzo delli quali legni mettono la ponta di quella bacchetta dura, quale, fra le palme delle mani tenendola, la voltano forte, fregando molto continuamente la parte da basso di questa bachetta intorno intorno fra quelli due legni che stanno distesi in terra, i quali s'accendono infra poco spazio di tempo, e a questo modo fanno fuoco.
Similmente è bene ch'io dica quel che alla memoria m'occorre d'alcuni legni che sono in quella terra, e anco alcune volte si trovano in Spagna, i quali sono certi tronchi putrefatti di quelli che è molto tempo che sono caduti per terra, che sono leggierissimi e bianchi, e rilucono di notte propriamente come bracie accesa; e quando gli Spagnuoli trovano di questi legni, e vanno la notte per entrare e far guerra in qualche provincia, e gli è necessario andar alcune volte di notte per luogo che non si sappia il cammino, prende il primo cristiano che guida, e che va appresso l'Indiano che gl'insegna il cammino, una stelletta di questo legno e la mette nella berretta dietro sopra le spalle, e quello che lo segue va dietro tastandolo e vedendo quella stelletta che riluce, e il secondo porta un'altra, dietro al qual va il terzo; in questo modo tutti la portano, e cosí niuno si perde né s'allarga dal cammino che guida i primi. E perchè questo lume o splendor non si vede molto lontano, è uno aviso molto buono, perchè per esso non sono discoperti né sentiti li cristiani, non potendogli veder da lontano.
Una molto gran particolarità mi s'offerisce, della quale Plinio nella sua Naturale istoria fa espressa memoria, ed è che dice quali arbori son quelli che sempre stanno verdi e non perdono mai la foglia, com'è il lauro, il cedro, l'arancio e l'ulivo e altri, i quali in tutto nomina fino 5 o sei. A questo proposito io dico che nell'isole e terra ferma saria cosa molto difficile trovar due arbori che perdino la foglia in alcun tempo, perchè, ancorchè abbi advertito molto in tal cosa, non ho veduto alcuno che mi ricordi che la perda, né anco di quelli che abbiamo portato di Spagna, sí come aranci, limoni, cedri, palme e melagrani, e tutti gli altri di qualunque sorte esser si voglia; eccetto la cassia, che questa la perde e ha un'altra cosa maggiore, nella quale è sola, che sí come tutti gli arbori e le piante nell'Indie spargono le sue radici nel fondo della terra quanto saria l'altezza di un uomo o poco piú e piú basso non passano, per il caldo overo disposizione contraria che piú a basso di quello che è detto si trovano, la cassia non resta d'andare piú a basso fin tanto che la trovi l'acqua, né tal cosa fa alcun altro arbore over pianta in quelle parti. E questo basti quanto a quello che s'appartiene agli arbori, perchè, come è detto, di loro si potriano scriver grandissime istorie.
Delle canne.
Cap. LXXX.
Io non ho voluto mettere nel capitolo precedente quello che in questo si dirà delle canne, per non le mescolare con le piante, per essere in queste cose da notare e osservare molto particolarmente. In terra ferma sono molte sorti di canne, e in molti luoghi se ne fanno case, e copronsi con le cime d'esse, e fannosene pareti, come per avanti s'è detto. Nondimeno tra le molte sorti ne è una la quale è una grossissima, tal che ha li cannelli grossi quanto un ginocchio di uno uomo e longhi tre palmi o piú, in modo che ciascuno saria capace d'un secchio d'acqua. Trovansene delle altre di minor grossezza, minori e maggiori secondo che l'uomo vuole, delle quali alcuni ne fanno carcassi per portare le saette. Trovansene una sorte la quale è certa maravigliosa, grossa poco piú che una asta di giannetta, li cannelli delle quali sono piú longhi che due palmi, e nascon lontane una dall'altra alcuna volta venti e trenta passi, poco piú o manco, e alcune volte lontane due e tre leghe; ne nascono in tutte le provincie, ma nascono appresso di arbori molto alti alli quali si appoggiano, e si appiccano alla cima delli rami, e tornano in basso infino alla terra. Li cannelli di esse sono pieni di una chiarissima acqua senza sapore alcuno, overo di canna o di altra cosa, ma tale quale sarebbe se si pigliasse della migliore e piú fresca fontana del mondo, né mai si è trovato a chi abbi fatto male bevendola. È molte volte accaduto che, andando i cristiani per quelli paesi e in luoghi molto secchi, che per carestia d'acqua si son trovati in pericoli grandi di morir di sete, delli quali pericoli si sono liberati per aver trovate le sopradette canne, né, benchè ne abbin bevuta gran quantità, hanno però ricevuto alcuno nocumento; per questo gli uomini quando le truovano, fattone cannelli, se le portano ciascuno tante quante pensa dovergli bastare per una giornata, e tante alcuna volta ne portano che ne cavano due e tre inguistade d'acqua; e se ben le portassino molte giornate, mai si corrompe, ma si mantiene fresca e buona.
Delle piante ed erbe.
Cap. LXXXI.
Dapoi che la brevità della mia memoria ha dato fine alla narrazione di tutto quello che mi ha subministrato degli arbori, passeremo a dire delle piante ed erbe che in quelle parti si truovano, e di quelle che s'assomigliano a queste di Spagna nella figura o nel sapore, over in altra particolarità. Dirò adunque con poche parole quanto tocca alla terra ferma, perchè in quello che appartiene all'isole Spagnuola e altre che si sono acquistate e abitate, cosí degli arbori come delle piante ed erbe di quelle che si sono portate di Spagna, per avanti si è detto, delle quali tutte o la maggior parte d'esse similmente in terra ferma si truovano: come aranci forti e dolci, limoni, cedri e altre erbe d'orti; melloni molto buoni tutto l'anno; bassilico, il qual non è stato portato di Spagna ma è natural di quel paese, perchè per li monti e in molte parti si truova; similmente fragole porcellane, che sono naturali del paese, nella forma, grandezza, sapore e odore che sono in Castiglia. Oltra di questi vi è il nasturcio, cioè agretti in quantità, salvatico, che nel sapor non è né piú né meno di quel di Spagna, ma li rami sono grossi e maggiori e le foglie grandi. Similmente vi sono coriandri molto buoni, e come sono questi di qui nel sapore, ma molto differenti nella foglia, la qual è molto larga, e per quella sono alcune spine molto sottili e noiose, ma non tanto che si lasci d'adoperarlo. Èvvi similmente trifoglio, del medesimo odore di quel di Spagna, ma di molte foglie e belli rami; e ha il fior bianco e le foglie lunghe, e maggiori di quelle del lauro o di quella grandezza.
Èvvi un'altra erba, quasi della forma dell'erba fegatella, salvo che è piú sottil nelli rami e piú larga communemente la foglia, e chiamasi I, e se ne mette insieme a' monti grandi, la qual li porci mangiano molto volentieri, e s'ingrassano grandemente. Gli uomini veramente si purgano con quella, e fa ottima operazione: questa purgazione si può dar ad un fanciullo e ad una donna gravida, perchè chi la prende non va del corpo se non tre o quattro volte. Dassi in questo modo, che la pestano molto bene e il succo di quella colano, e acciochè perda quel sapore di verde lo mescolano con un poco di zuccaro, e ne beono una scodella piccola a digiuno, la qual non è amara, e ancorchè non vi si metta dentro zuccaro over mele si può bere molto bene, perciochè molte volte li cristiani non hanno il zuccaro preparato da mescolargli; e a tutti quelli che la prendono è di gran giovamento e se ne lodano, il che alcuni non dicono delle nocciuole, qual prendono per purgarsi, delle quali parlando di purgazione mi son ricordato. Non debbe esser ciascuno sicuro a prender dette nocciuole, perchè si è visto che ad alcuni che le hanno prese hanno fatto poco utile né gli hanno purgati, e ad alcuni nello stomaco hanno fatta tanta corruzione che gli hanno posti in grandissimo pericolo della vita, e alcuni ne hanno morti: e però, perchè sono molto violenti, bisogna aver gran considerazione in prenderle. Queste nascono nell'isola Spagnuola e altre isole, ma in terra ferma non ne ho visto, né in fino a questa ora ho udito dire ve ne siano. Queste son piante le quali paiono quasi arbori, e fanno certi fiocchi colorati a modo di certi mazzetti, che escono da uno gambo come fanno li grani del finocchio, e in quelli nascono le dette nocciuole; le quali nel sapore sono migliori delle nostre di Spagna, dove di queste è gran notizia, e molti ne vanno cercando e trovansele molto utili.
Sonvi ancora altre piante, le quali chiamano aies, e altre che chiamano batatas, e l'una e l'altra si pianta delli proprii rami, li quali e le foglie tengono come la fegatella overo edera distesa per terra, ma non sono cosí grosse come le foglie della edera, e sotto la terra producono certe mazzocchie come navoni, overo carote. Le aie hanno il colore pagonazzo nero e azurro, le batates l'hanno piú in verso berrettino, e l'una e l'altra arrostite sono a mangiarle molto cordiali e dellicate, ma le batates sono migliori. Truovansi similmente melloni, li quali si seminano dagl'Indiani, e vengono tanto grandi quanto è un secchio e piú e alcuni maggiori, e alcuni tanto grandi che un Indiano con gran fatica lo porta in spalla; sono massicci, e di dentro bianchi e alcuni gialli, e hanno delicate semenze, quasi della forma di quelle delle zucche, e durano gran tempo dell'anno; e tengonsi per il principal cibo, e sono molto sani, e mangiansi cotti, fatti in sonde over fette come zucche, e sono migliori di quelle. Sonvi ancora zucche e melanzane che sono state portate di Spagna, e le melanzane sono molto bene riuscite, che si sono fatte grandissime, perchè un piede d'una melanzana è cresciuto tanto grande quanto è alto un uomo e molte volte piú, e communemente li rami delle piú alte arrivano alla cintura; e un medesimo piede o gambo fa frutto tutto l'anno, e vanno cogliendo sempre le minori, dietro le quali ne nascono dell'altre, e proseguendo danno di continuo frutto. Il medesimo fanno in quelli paesi gli aranci e fichi.
Sonvi frutti che si chiamano pigne, le quali nascono d'una pianta come cardi overo aloe, con molte foglie acute, piú sottili di quelle dell'aloe, maggiori e spinose; in mezzo del cespuglio nasce un rampollo tanto alto quanto la metà dell'altezza d'un uomo, poco piú o manco, e grosso come due deta, e in cima di quello nasce una pigna grossa poco manco della testa d'un fanciullo alcune, ma la maggior parte minori, e piena di squame di sopra, ma piú alta una che l'altra, come son quelle de' pignuoli; ma non si dividono né aprono, ma stansi intere queste squame sopra una scorza della grossezza di quella del mellone, e quando sono gialle, dopo ad un anno che si sono seminate, sono mature e da mangiare, e alcune sono mature avanti. E nel troncon di quelle alcune volte nascono a queste pigne uno o due rampolli, e continuamente uno nell'estremità della detta pigna, il quale rampollo, subito che si mette sotto terra, s'appicca, e in spazio d'un altro anno nasce di quel rampollo un'altra pigna, come è detto; e quel cardo nel qual la pigna nasce, dapoi ch'è stata colta, non è d'alcuna utilità né dà piú frutto. Gl'Indiani e li cristiani pongon queste pigne, quando le piantano, a filo come se fussero viti; e dà odore questo frutto piú che le cotogne, e una o due di queste rendono grato odor per tutta la casa dove sono poste. Ed è tanto soave frutto che credo che sia un de' migliori del mondo, ed è di delicato sapore, e paiano al gusto cotogne, e sono piú carnose che non sono le pesche, e hanno alcuni filetti come il cardo, ma piú sottili, e molto cattivo per i denti quando si continua a mangiarne; e sono molto sugosi, e in alcuna parte gl'Indiani fanno vino d'essi, quale è molto buono. Sono tanto sani che si danno agli ammalati, perchè eccitano l'appetito a quei che l'hanno perso.
Altri arbori sono nell'isola Spagnuola spinosi, che al veder niuno arbore né pianta si può veder piú salvatica né piú brutta, e dalla forma di quelli non saperia determinare se sono arbori o piante. Fanno alcune rame piene di foglie larghe e deforme e di molta brutta vista, le quali rame furno a principio foglie come l'altre, e di dette foglie fatti rami e allongatisi ne nascono altre foglie. Finalmente è tanto difficile a scrivere la sua forma che, a doverla dar ad intendere, saria bisogno dipingerla, acciochè col mezo della vista si potesse piú facilmente comprendere quello che la lingua manca in questa parte. Questo arbore o pianta è di gran virtú perchè, pestando le dette foglie molto, e distese a modo di uno impiastro sopra un panno, e legato sopra una gamba o braccio, ancorchè ella sia rotta in molti pezzi, in spazio di quindeci giorni la salda e congiunge come se mai non fosse stata rotta; infino che fa la sua operazione sta tanto attaccata questa medicina con la carne che è molto difficile a levarla via, ma subito ch'è guarito il male, e fatta la sua operazione, per se stessa si spicca dal loco dove fu posta, del qual effetto e rimedio se ne sono viste molte esperienzie per molti che l'hanno provato.
Sonvi ancora alcune piante che li cristiani chiamano platani, i quali sono alti come arbori e diventano grossi nel tronco come uno grosso ginocchio d'un uomo, overamente anco qualche cosa piú, e dal piede alla cima getta certe foglie longhissime e molto larghe, tanto che tre palmi o piú sono larghe e piú di dieci o dodeci palmi longhe, le quali foglie, quando sono rotte dal vento, resta intera la schiena del mezzo. Nel mezzo di questa pianta, nella parte piú alta, nasce un raspo con quaranta o cinquanta platani in circa, e ciascuno platano è tanto lungo quanto un palmo e mezzo e di grossezza del braccio appresso la mano, piú o manco secondo la bontà della terra che lo produce, perchè in alcune parti sono minori; e hanno una scorza non molto grossa e facile a rompere, e di dentro tutto è midolla, e levatane la scorza s'assimiglia alla midolla d'un osso di bue. E hassi a levar questo raspo dalla pianta quando uno delli platani comincia a parer giallo, e s'appicca in casa, dove si matura tutto il raspo con li suoi platani, ed è molto buon frutto: e quando s'aprono e levasi la scorza paiano fichi passi molto buoni, e sendo arrostiti nel forno sopra una teggia o altra simil cosa sono molto buoni e saporiti frutti, e par una conserva di mele, e d'eccellente gusto. Portansi per mare e durano qualche giorno, ma bisogna coglierli alquanto verdi; e nel tempo che durano, che sono quindici giorni o piú, paiono molto migliori nel mare che in terra, non già perchè nel navicar se gli accresca la bontà, ma perchè nel mar mancano l'altre cose che in terra avanzano, e ciascun frutto è lí piú in pregio e di miglior gusto.
Questo tronco over rampollo il quale ha fatto il detto raspo, tarda un anno a crescere e far frutto, nel qual tempo ha buttato intorno di sé dieci o dodici rampolli, e tali ne sono grossi come il principale, il qual multiplica non altrimenti che il principale in far li raspi con li frutti al tempo come in produrre altri e tanti rampolli, come di sopra è detto; dalli quali rampolli, subito che è levato il raspo del frutto, si comincia seccare la pianta, la qual secca levano di terra, perchè non fanno altro che occuparla in vano e senza alcuno profitto. E sono tanti e tanto multiplicano che è cosa incredibile; sono umidissimi, e quando alcuna volta gli sbarbano dal luogo donde gli hanno levati esce gran quantità d'acqua, sí della pianta come del luogo donde è uscita, in modo che par che tutta la umidità della terra si fusse adunata appresso il tronco e ceppo di tal pianta; del frutto della quale le formiche sono molto amiche, tanto che se ne vede intorno e sopra li rami gran moltitudine, di sorte che alcuna volta è intervenuto in alcune parti che, per la moltitudine delle formiche, sono stati forzati gli uomini a levar via li detti platani dalle loro possessioni, per non potergli difendere dalle dette formiche. Li frutti si truovano tutto l'anno.
Èvvi ancora un'altra pianta salvatica che nasce per li campi, la quale io non ho vista se non nell'isola Spagnuola, ancora che se ne truovi in altre isole e parti dell'Indie: e il nome loro è tunas. Nascono d'un cardo molto spinoso, il quale fa il frutto cosí chiamato, che pare fior di fichi overo fichi grossi. Hanno la corona come le nespole, e dentro sono molto colorite; hanno grani nel modo che hanno li fichi e la scorza come quella del fico, e sono di buon sapore, e truovansene li campi pieni in molte parti, e fanno questo effetto a chi gli mangia, che mangiandone due o tre o piú lo fa orinare orina di colore di vero sangue. Il che intervenne una volta a me, che avendone mangiato e andando ad orinare, alla qual cosa questo frutto molto incita, come viddi il color dell'orina entrai in tanto sospetto della vita che restai come attonito e spaventato, pensando che questo accidente mi fusse intervenuto per altra causa. E senza dubbio la imaginazione mi poteva causar gran male, se non che quelli che eran meco subito mi confortorono dicendomi la causa, perchè erano persone esperimentate e antichi di quel luogo.
Nascevi ancora uno rampollo, il quale gli uomini del paese chiamano bihaos, che getta alcuni rametti diritti e foglie molto larghe, delle quali gl'Indiani molto si servono in questo modo. Delle foglie cuoprono alcune volte le case, ed è molto buona materia per simile ufficio, e alcune volte quando piove se la mettono sopra la testa e difendonsi dall'acqua; fannone similmente certe ceste, le quali loro chiamano havas, per suo uso, molto ben tessute, e fra esse intertessono questi bihaos, la qual tessitura è tale che, benchè sopra queste ceste piova o caschino in qualche fiume, non però si bagna quello che vi è stato messo dentro. Le dette ceste fanno delli rami di detti bihaos, delli quali con le foglie ne fanno per servirsene per il sale e altre cose piú sottili, e sono molto ben fatte. Servonsi oltra di questo di questi bihaos in questo modo, che trovandosi in campagna e avendo carestia di vettovaglia, cavano le radici di questa pianta, pur che sia giovane, o mangiano la pianta medesima in quella parte che è piú tenera, la quale ha da piè sotto terra una parte tenera e bianca come il giunco.
Dapoi che siamo venuti al fine di questa relazione, mi occorre far menzione d'un'altra cosa che non è fuor di proposito, la quale è che gl'Indiani adoperano per tignere li panni di cottone, o altro che loro vogliono tignere di varii colori, quali sono nero, leonato, verde, azurro, giallo e rosso, le scorze e foglie di certi arbori, li quali loro conoscono esser buoni a questo essercizio, e fanno li colori in tanta perfezione ed eccellenzia che non si potria dir piú; e in una caldiera medesima, poi che hanno fatto bollire queste scorze e foglie, senza far altra mutazione fanno tutti li colori che vogliono; e questo credo che nasca dalla disposizione del colore che prima hanno dato a quello che vogliono tignere, o sia filo o sia tela tessuta quello che vogliono tignere in detti colori.
Diverse particolarità di cose.
Cap. LXXXII.
Molte cose si potrian dire, e molto differenti da quelle che sono state dette; e alcune altre che mi vengono a memoria, perchè non cosí interamente come sono e come si doverian dire mi sovengono, lascio di scriverle qui. Dirò adunque di quelle le quali piú a punto posso narrare, e prima d'alcuni piccioli animali fastidiosi, i quali per molestia degli uomini sono prodotti dalla natura, per mostrargli e fargli intendere quanto picciola e vil cosa basti a offenderlo e inquietarlo, acciochè non si scordi del suo fine principale per il quale fu creato, ch'è il conoscere il suo Fattore e procacciare di salvarsi, poichè cosí aperta e piana via ha il cristiano a farlo, e tutti gli altri che vogliono aprire gli occhi dell'intelletto. E se ben alcune di queste cose che diremo saranno vili, e non cosí nette e condecenti ad udirle come quelle che fino a ora sono state scritte, non sono però men degne da notare e avertire, per intendere le differenzie e varie operazioni della natura; e dico cosí.
In molte parti di terra ferma, per le quali passano li cristiani o Indiani, per esservi molte acque da passare, portano le brache sempre dislegate, donde nasce che dall'erbe si appicca a loro alle gambe certi animaletti, i quali chiamano garapates, che sono come zecche, talmente minute che il sale ben pesto non è piú; e tanto forte si appiccano che per modo alcun non se gli possono spiccare, se non con l'ungersi con olio, e doppo che alquanto stanno unte le gambe, overo le parti dove queste zecchette si son appiccate, se le radono con un coltello e cosí le levano; ma gl'Indiani che non hanno olio l'affumano e arrostiscono con il fuoco, e nel levarsele patiscono e sopportano gran pena.
D'altri animali piccioli che molestano gli uomini che nascono nella testa e per il corpo, dico che li cristiani che vanno a quelle parti rare volte ne hanno se non uno o due, e questo è anco rarissimo, perchè passato per la linea del diametro, dove il bossolo fa la differenza dell'andar per greco e per maestro, che è nel pareggio dell'isole degli Azori, pochissimo camino si fa seguendo il nostro viaggio per ponente, e tutti li pidocchi che li cristiani portano seco, overo generano per il capo e restante del corpo, si moiono, e nettansi di modo che non si veggono né appariscono, e si consumano a poco a poco; e nell'India non ne generano se non alcuni putti piccioli, di quelli che nascono in quelle parti figliuoli de' cristiani; e communemente tutti gl'Indiani naturali, se hanno simil cose, tutti gli hanno in capo e anco in altre parti, e massime quelli della provincia di Cueva, che è paese longo piú di cento leghe, e abbraccia l'una e l'altra costa del mar di Tramontana e d'ostro. Gl'Indiani si spulciano l'un l'altro, e quelli massime che fanno questo essercizio sono le femmine, e tutto quel che pigliano in questa sua caccia si mangiano, e sono tanto avezzi a questo che con difficoltà grande possiamo noi cristiani far che gl'Indiani che ci servono in casa non faccino il medesimo (parlo di quelli che sono della detta provincia di Cueva).
Qui è da saper una cosa grande, che sí come li cristiani di là sono netti di questa sporcheria dell'Indie, cosí in capo come nel resto del corpo, che quando voltiamo per venir in Europa e cominciamo ad arrivare in quel luogo nel mar Oceano, dove di sopra dicemmo che cessorono questi pidocchi, subito nel ripassar (come se in quel luogo ne fossero stati ad aspettare) non si possono per alquanti giorni fuggire, se ben l'uomo si mutasse di camicia due e tre volte il giorno: e sono minuti e piccioli come lendini, e se ben a poco a poco si partono, alla fine l'uomo torna ad averne alcuni, sí come prima in Spagna soleva avere, overo secondo che l'uno piú che l'altro è diligente a tenersi netto di tal bruttura, talchè si rimane né piú né meno come prima era. Questo ho io molto ben provato, avendo fino ad ora quattro volte passato il mare Oceano e fatto questo viaggio.
Fra gl'Indiani in molte parti di loro è molto cosa commune il peccato nefando contra natura, e quelli che sono signori e principali usano questa cosa publicamente, e tengono giovani con chi usano questo maladetto peccato, i quali giovani, sí come si danno a questo mestiero, subito si vestono di alcuni panni che si chiamano naquas, come fanno le femine, che è una mantellina corta di cottone che usano le donne dalla cintura fino al ginocchio; e di piú portano questi giovani maniglie fatte a modo di pater nostri, e tutte l'altre cose appartenenti alle femine, né piú se essercitano nelle cose dell'armi, e in fine non fanno piú mestiero alcuno che si convenga ad uomini, ma subito si danno alle cose famigliari di casa, come è spazzare, nettare, e simili novelle appartenenti a donne. Questi tali sono estremamente odiati dalle femine, ma essendo loro soggette molto alli loro mariti, non ardiscono parlar di loro se non qualche volta, overamente con li cristiani. Chiamano in suo linguaggio di Cueva questi tali pazienti camayoa, e quando fra loro Indiani si ingiuriano overo si vituperano, che sono effeminati e da poco, chiamano camayoa.
Gl'Indiani in alcune parti, sí come loro affermano, barattano e permutano le loro mogli, e sempre pare che colui faccia miglior guadagno nella permutazione che ne ha una piú vecchia, perchè le vecchie gli servono meglio che non sapriano le giovani.
Sono questi Indiani eccellenti nel far del sale d'acqua marina, e in ciò non cedono a quelli che nel ducato di Zilanda, propinquo alla terra di Mediolburgo, lo fanno, perchè quello degli Indiani è cosí bianco e ancora piú, ma è poi molto piú forte e di piú operazione e non si liquefa cosí presto. Io ho veduto l'uno e l'altro benissimo, e l'ho veduto fare all'uno e l'altro.
Ed è opinione di molti che in quelle parti vi debbino essere pietre preziose assai, non dico già della Spagna Nuova, perchè già se ne sono vedute lí alcune, e son state portate in Spagna e in Vagliadolit: l'anno passato, che fu 1524, stando lí vostra maestà, viddi uno smeraldo portato da Iucatan overo Nuova Spagna, che vi era intagliato di rilievo una faccia rotonda a foggia di luna, il quale fu venduto piú di quattrocento ducati d'oro. Però in terra ferma, cioè in Santa Marta, al tempo che vi giunse l'armata la quale il catolico re don Ferdinando inviò per Castiglia dell'Oro, io smontai in terra con alcuni altri, e si prese mille e piú pesi d'oro, e certi mantelli e altre cose d'Indiani, nelle quali si viddero smeraldi, corniole, iaspidi, calcedonie, zafiri bianchi. Tutte queste cose trovammo dove ho detto, e credesi che debbano venire da paesi infra terra, per contrattazione e commerzio che debbe avere altra gente con quelli di quel paese: perchè naturalmente gl'Indiani piú che altra nazione del mondo sono inclinati a contrattare e al barattare, e cosí da un paese vanno all'altro in barche, e dove è abondanzia di sale lo levano e conduconlo dove n'è carestia, e lo barattano con oro o veste o cottone filato, o con schiavi o con pesci o con altra cosa.
E nel Cenu, che è una provincia d'Indiani arcieri detti caribbi, che confina con la provincia di Cartagenia, ed è fra la detta provincia e la punta di Caribana, certa gente che vi mandò una fiata Pedrarias d'Avilla, governator di Castiglia dell'Oro per nome di vostra maestà, furono rotti, e ammazzarono il capitan Diego di Bustamante e altri cristiani: e questi trovorono lí molti cestoni della grandezza di quelli che vengono dalla montagna di Biscaia con pesci besugi, li quali erano pieni di cicale e grilli e cavallette; e dissono gl'Indiani che furono presi che gli teniano per portargli in altro paese di terra ferma, lontano dalla costa di mare, dove non hanno pesci, e hanno questi animali in gran prezzo per mangiargli; e diceano che per prezzo di queste cose aveano altre cose in cambio, delle quali questi alle marine hanno bisogno, e le stimavano molto, e quelli di là aveano gran quantità di cose che davano in cambio, over le contavano per prezzo delle dette cicale e grilli.
Delle minere dell'oro.
Cap. LXXXIII.
Questa particolarità di minere è molto cosa da notare, e posso parlarne io d'esse molto meglio che alcun altro, perchè già fan dodici anni che io servo per riveditore in terra ferma delle fucine da fondere l'oro, e governatore delle minere del catolico re don Ferdinando, il qual ora si gode nel cielo, e dopo lui per nome anche di vostra maestà; sí che per questa cagione ho veduto molto bene come si cava l'oro e si lavorano le minere, e so molto bene come è ricchissima quella terra, avendo fatto io cavar per mio conto l'oro alli miei Indiani e schiavi, e ciò posso affermare come testimonio di veduta.
Io so che in nessuna parte di Castiglia dell'Oro, che è in terra ferma, nessuno mi dimanderà di minera d'oro che io non m'obligassi a darle discoperte in spazio di dieci leghe di paese dove mi fussero addimandate, e le trovaria molto ricche, pur che pagato mi fusse il costo del cercarle, perchè, se ben per tutto si truova oro, non si debbe però cavare in ogni luogo. Questo è perchè in alcuna parte ne è meno che nell'altra, e la minera o vena che si debbe seguire debbe essere in luogo che si possi star alla spesa delle genti e altre cose necessarie, tal che se ne cavi per cercarle la spesa con guadagno, perchè del trovar oro nel piú delli luoghi, o poco o molto, non è dubbio alcuno; e l'oro che si cava in Castiglia dell'Oro è molto buono, ed è di ventiduoi caratti, e de lí in su anche ne è di miglior sorte. E oltra quel che è detto che delle minere si cava, che è gran quantità, s'è acquistato e di giorno in giorno s'acquistano molti tesori d'oro lavorato che erano in potere degli Indiani che abbiamo soggiogati, o che da sua posta ci si son dati, e da quelli che, o per taglia di prigioni overo come amici di cristiani, volontariamente ce l'han dato; di questa sorte ve ne è molto buono, ma la maggior parte di questo oro lavorato che hanno gl'Indiani è basso e tiene di rame. Si servono di questo per loro uso in molte cose, come è legarvi gioie e altre cose simili, le quali e gli uomini e le femine portano sopra le lor persone, ed è quel che ancor loro communemente apprezzano piú che cosa del mondo.
Il modo come si cava l'oro è questo, che o lo truovano in zavana, cioè in fiumi: zavana chiamano la pianura e campagne, e che sono senza arbori e la terra è rasa con erbe o senza. Truovasene nondimeno qualche volta in terra, fuora de' fiumi, in luoghi dove sono arbori, tal che bisogna, a chi ne vuol cavare, tagliargli, e cavar molti e grandi arbori. Ma in qualunque di questi duoi modi si truovi, o in fiume o in rottura d'acqua o pure in terra, dirò di tutte e due le maniere quel che accade e che per trovarlo si fa. Quando alcuna fiata si scuopre la minera o vena dell'oro, questo è cercando e provando nelli luoghi che a quegli uomini minerali ed esperti in tal mestiero pare che le possino trovare. E se lo truovano seguono la mina e lavoranla, o sia in fiume overo in zavana, come è detto; e se è in zavana, prima nettano benissimo quel luogo dove vogliono cavare, e poi cavano otto o dieci piè per lungo e altre tanto per largo, ma sotto non van piú che un palmo o duoi, sí come al maestro della minera pare, ed egualmente cavando lavano tutta quella terra che han tratto dello spazio detto.
E se in quella trovano oro seguono, e se non, allora affondano un altro palmo e lavano la terra al modo medesimo che di sopra fecero, e se parimente non ne truovano vanno affondando e lavando la terra fin che aggiungono al sasso vivo; e se fin lí non trovano oro non curano piú di seguire né cercarlo piú in quel luogo, ma vanno ad un'altra parte.
È da sapere che quando lo truovano vanno cavando a quella misura e livello senza fondar piú che lo hanno trovato, finchè forniscano tutta la minera, la qual possiede quello che la truova, se gli pare che la sia ricca. Questa minera debbe essere di certi e piè o passi per il lungo e per il largo, secondo certi ordini li quali son già stati determinati, e in questo spazio di terreno niuno altro può cavare oro; e dove finisce la minera di quel che prima trovò l'oro, immediate a canto di quelli può ciascuno altro che vogli segnare con bastoni o pali, per mostrare che la mina seguente sia sua.
Queste minere di zavana, over trovate in terra, si debbono sempre cercar propinque ad un fiume o torrente, overo ruscel d'acqua o laghetto o fonte, acciochè si possi lavar l'oro, perchè si menano alcuni Indiani a cavar la terra, il che chiamano loro scopetare, e cavata che l'hanno empiono bateas di terreno; e altri Indiani hanno poi l'impresa di portar le dette batee di terra fino all'acqua dove si debbe lavarla, la quale non lavano quelli che portano, ma tornano a pigliarne dell'altra, e quella che han portato lasciano in altre batee, che quelli che lavano tengono in mano; e questi lavatori per il piú son femine indiane, perchè è mestiero d'assai minor fatica che gli altri. Queste femine si stanno a sedere alla riva dell'acqua, e tengono li piedi nell'acqua quasi fin alle ginocchia o poco meno, secondo il luogo dove s'acconciano, e tengono con le mani la detta batea per li manichi, e movendola, quasi crivellando e mettendovi dentro acqua, e con gran destrezza facendo in tal modo che non entri nelle batee piú acqua di quello che hanno bisogno, e con la medesima destrezza la getta fuori, la qual, uscendo a poco a poco, seco anche ne porta la terra della detta batea, e l'oro resta in fondo d'essa. La qual batea è concava, e della grandezza d'un bacino da barbiere e di tanta profondità. E dapoi che tutta la terra è gettata fuora e l'oro adunato nel fondo della batea, lo pongono da parte e tornano a pigliar dell'altra terra e lavanla come è detto, e cosí lavorando ciascuno che lava e fa questo mestiero cava ogni giorno quel che Iddio gli dà che si cavi, e secondo che piace a sua maestà che sia la ventura del padrone degl'Indiani e altri che fanno questo esercizio. Ed è da notare che per ogni duoi Indiani che lavan bisogna che duoi gli servino per portar la terra, e duoi altri che cavino e rompino ed empino le dette batee da servizio, perchè cosí si chiamano le batee nelle quali portano la terra fin a quelli che la lavano; e oltra di questo è di bisogno che vi sia altra gente nelli luoghi dove gl'Indiani abitano e vansi a riposar la notte, la qual gente fa il pane e altre vettovaglie, delle quali e loro e quelli che lavorano abbino a mangiare, sí che a una batea almeno per l'ordinario sono in tutto cinque persone.
L'altra foggia di lavorar la minera in fiume over torrente d'acqua si fa altrimenti, ed è che, gettando l'acqua fuora del suo corso, dapoi che è secco il letto del fiume e hanno xamurato, che in lingua delli minerali vuol dire votato, perchè xamurare è proprio cavar fuori fino all'ultimo, truovano l'oro tra li rottami delle pietre o fessure, e tra tutto quello che è in fondo del canale e dove naturalmente corre il fiume, tal che accade alcune volte, quando il letto del fiume è buono e ricco, che si truovano gran quantità d'oro in esso; per il che vostra maestà debbe sapere per una massima, e cosí in fatto appare, che tutto l'oro nasce nelle cime e nel piú alto delli monti, e le pioggie a poco a poco con lunghezza di tempo lo portano seco al basso, per li rivi e torrenti che nascono dalli monti, non obstante che molte volte se ne truova nelle campagne e pianure lontane assai da' monti. Ma quando accade che se ne truovi gran quantità, per la maggior parte però si vede essere fra monticelli e nelli fiumi overo rami d'acqua, piú che per altri luoghi del piano. Cosí adunque a questi duoi modi si cava oro.
In confirmazione che l'oro nasce nell'alto e venghi al basso, se n'ha un grande indicio che ce lo fa credere per certo, ed è questo. Il carbone mai si putrefa né si corrompe sotto terra, quando è di legno forte, onde accade che, lavorandosi la terra per le falde de' monti, overo intorno o d'altra banda, e rompendo una minera in terra, dove piú sia rotto, e avendo affondato una o due o tre pertiche di misura o piú, vi si truovano alcuni carboni di legne sotto nel livello che truovano l'oro, e avanti ancor che truovino il livello, dico nella terra che si tiene per terra vergine, cioè che piú non sia stata lavorata per minera, e che si voglia rompere e cavare. Li quali carboni non vi possono né entrare né nascere naturalmente, ma quando la superficie della terra era al livello e al segno al quale si truovano li carboni, ed essendo stati menati dall'acqua dalli luoghi alti, si fermarono lí, e per le pioggie spesse, per spazio di tempo, come si debbe credere, furono coperti di terra, fin tanto che per transcorso d'anni è cresciuta la terra sopra li carboni fin a quella misura o quantità che al presente si lavorano le minere, che è della superficie della terra, fin là dove si trovano li detti carboni e l'oro insieme.
Oltra di ciò dico che, quanto piú si truova scorso l'oro dal suo nascimento infino al luogo che si truova, tanto piú è purificato e netto e di miglior caratto, e quanto piú si truova vicino alla minera o vena dove è nato, tanto piú si truova brutto e basso e crudo, e di piú bassa lega e caratto, e tanto piú si diminuisce nel fonderlo e resta piú crudo. Alcune volte si truovano grani grandi d'oro e di molto peso sopra la terra, e tal volta anche sotto terra. Il maggior di tutti quelli che fino a oggi in queste Indie s'è trovato, fu quello che si perse nel mare intorno all'isola della Beata, che pesava tremila e dugento castigliani d'oro, che vagliono quattromila e centotrentaotto ducati d'oro in oro, che pesano una arrova e sette libbre, o veramente libbre trentadue d'onze sedici l'una, che sono sessantaquattro marche d'oro; ma altri molti si sono trovati, benchè non di tanto gran peso. Io viddi nell'anno 1515 in man di Michel Passamonte, tesoriero di vostra maestà, duoi grani, delli quali l'uno pesava sette libbre, che sono quattordici marche, che vagliono circa ducati sessantacinque d'oro la marca; e l'altro di dieci marche, che sono cinque libbre di simile valore, e di molto buon oro di ventiduoi caratti o piú.
E poi che qui parliamo dell'oro, mi pare che prima che si vada piú avanti e che si parli d'altre cose diciamo come gl'Indiani san tanto ben dorare li vasi di rame e oro molto basso che loro fanno, e li san dare tanto bel colore e acceso che pare che tutta quella massa che dorano sia di ventidue caratti e piú; il qual colore dan con certa erba tale che, se fusse dagli orefici di Spagna o d'Italia o d'altro luogo nel quale piú esperti se ne trovano, si potria tener per molto ricco quando sapesse questo secreto o maniera del dorare. E poichè delle minere abbiamo detto assai minutamente la verità e particolarità del cavar dell'oro, in quel che appartiene al rame dico che in molte parti delle dette isole e terra ferma di queste Indie s'è trovato e ogni giorno si trova gran quantità di rame, che tiene alquanto dell'oro; pur non curano di rame molto né lo cavano, e avenga che 'n altri luoghi saria grande il tesoro e utilità che del rame si potria avere, ma avendo oro non si curan di rame né d'altro metallo, né lo cavano. Ma l'argento è molto buono, e molto se ne trova nella Spagna Nuova. Per tanto, come al principio di questo trattato dissi, io non parlo in cosa alcuna di quella provincia, per ora, perchè il tutto è narrato e scritto per me nella General istoria dell'Indie.
Delli pesci e del modo del pescare.
Cap. LXXXIIII.
In terra ferma i pesci che vi sono e che ho visti sono molti, e anco molto differenti, e perchè di tutti non saria possibile a narrare, dirò almeno d'alcuni; e primamente dirò che vi si trovan alcune sardelle larghe, con la coda vermiglia, delicatissimo pesce e de' migliori che si trovano, moxarre, diahace, arbori pesci, dahaos, raze, salmoni: tutti questi, e altri molti de' quali non mi ricordo, si pigliano ne' fiumi in grande quantità, e parimente pigliansi gamberi buonissimi. Ancora similmente nel mare si trovano alcuni de' sopranominati, e palamite e sfoglie e suri e lizze e polpi e orate, e chieppe molto grandi, e locuste e xaybas, ostreghe e testudini grandissime, e tiburoni molto grandi, manaties e murene, e molti altri pesci, di tanta diversità e quantità d'essi che non si potria esprimere senza molta scrittura e tempo. Però solo in particolar dirò qui, e dirò alquanto diffusamente, quel che aspetta a tre sorti di pesci di sopra nominati: la prima è testudine, la seconda tiburon, il terzo è manatie.
E incominciando dal primo, dico che nell'isola di Cuba si trovano cosí grandi testudini che dieci o quindeci uomini bisogna a cavarne una d'esse fuori dell'acqua: questo ho udito io dire nella medesima isola a tante persone degne di fede, ch'io la tengo per cosa certissima. Ma di questo ch'io di veduta posso testificare, è che in terra ferma si pigliano e ammazzansi di queste nella villa d'Acla tanto grandi che sei uomini con gran fatica levavano una di queste, e communemente le minori son per una grossa carica di due uomini. Quella che viddi levar a sei uomini avea la sua coperta o scorza per il longo sei palmi di braccio, e per il traverso piú di cinque. Li modi del pigliarle son questi: alcuna volta accade che si trovano nelle gran reti, che si chiamano da tratta, alcune testudini, ma delle communi però in grande quantità, e questo aviene quando escono fuori del mare e partoriscono le ova, e insieme van pascendosi per le spiaggie a marina. E subito che i cristiani overo Indiani s'abbattono alle sue pedate trovate nell'arena, la seguono, e se la trovano quella subito fugge verso il mare. Ma perchè la testudine è grave, subito l'aggiungono con poco fatica, e mettono un palo sotto le zampe e voltanla con la schiena in giú sí come vanno correndo, e la testudine si sta in modo che non può tornare a dirizzarsi, e lascianla star cosí, seguendo le pedate di qualche altra, e se la trovano fanno il medesimo: e a questo modo ne pigliano molte, al tempo, come s'è detto, quando escono del mare. È veramente eccellente pesce, sano e di molto buon sapore.
Il secondo pesce che di sopra s'è detto delli tre, è il tiburon. Questo pesce è molto grande e molto leggiero in acqua, e molto gran beccaio crudele, e pigliansene assai cosí andando le navi alla vela per l'Oceano come stando surte sull'ancore overo altro modo, e massime li piccioli. Li maggiori si pigliano quando fanno le navi cammino, a questo modo: quando il tiburone vede le navi, le segue notando e vagli dietro, e mettesi tra loro per mangiar tutte le cose sporche che sono gettate nel mare dalli marinari; e vadino a vela pur con quanto gagliardo vento possono, e con quanta velocità possono desiderare, sempre questo pesce gli va a pari, e sta sul volteggiare molte volte intorno alle navi, e seguele alcuna volta cento e cinquanta leghe e piú, e cosí potria seguitar quello che volesse. E quando lo vogliono pigliare, gettano per poppa della nave un amo di ferro come uno deto grosso, incatenato e longo tre palmi, torto come sono gli ami; e gli suoi uncini ha a proporzione della grossezza, e in capo del manico ha attaccato quattro o cinque anelli di ferro grossi, legati poi ad una fune grossa due o tre volte ad esso amo, al quale appiccano per esca un pezzo di qualche pesce o carne di porco, overo carne di qualche altra sorte, overo budelli e interiori di tiburone, se per sorte ne hanno presi (che può agilmente essere, perchè n'ho veduti prendere in un dí ben nove, e se n'avessero voluti pigliare piú ancora, piú ne averiano presi). Ora il detto tiburone, per gran viaggio che la nave faccia, lui la segue gagliardamente e inghiotte lo amo, e per lo sbatter suo volendo fuggire, e per la gran furia che mena la nave, lo amo gli attraversa e passa ed esce fuori con la ponta per una delle mascelle; e preso che è, è tanto grande che bisogna dodeci o quindeci uomini a tirarlo dell'acqua e tirarlo alla nave; e tirato che l'hanno uno de' marinai gli dà molti colpi con un martello in su la testa, e lo finisce d'uccidere. La longhezza loro è alcuna volta di dieci o dodeci piedi, e per il largo, dove sono piú grossi, sono cinque e sei e sette palmi. Hanno la bocca molto grande, a proporzione del restante del corpo, con due ordini di denti separati l'uno dall'altro alquanto, molto spessi e fieri. E fornito che l'hanno d'ammazzare, lo taglion in pezzi sottili e lo pongono a seccare per duoi e tre giorni e piú, attaccato alle sarte della nave al vento, e dapoi lo mangiano. Certo è buon pesce, e di grande utilità per le navi per molti giorni per sue vettovaglie, per esser grande. Li minori però son piú sani e piú teneri. È pesce con la pelle, ma simile alle squatine, alle quali il detto tiburone s'assimiglia e par molto simile vivo: e questo dico perchè Plinio non pose alcuno di questi tre nel numero de' pesci, nella sua istoria naturale, che si vegga. Questi tiburoni escono del mare ed entrano nelli fiumi, e in essi non sono men pericolosi che li lacerti grandi, delli quali a dietro largamente s'è narrato, perchè né piú né meno li tiburoni mangiano gli uomini e le vacche e li cavalli, e sono molto pericolosi nelli luoghi dove li fiumi si guazzano e dove altra volta abbino mangiato.
Altri pesci molti e molto grandi e piccoli e di molte sorti si veggono dietro a navi che vanno a vela, delli quali dirò dopo che averò scritto del manati, che è il terzo delli tre che di sopra promessi dire. Il manati è un pesce di mare delli grandi, e molto maggiore che il tiburone nel lungo e nel traverso, ed è brutto molto, talchè pare un otro grande, di quelli che si porta il mosto in Medina del Campo, overo Arevalo. La testa di questo animale è come d'un bue, con gli occhi parimente simili, e ha come duoi zocchi grossi in luogo di bracci, con li quali nuota; è animale molto mansueto, e vien sopra l'acqua fin propinquo al lito, e se in quello può arrivare a qualche erba che sia nella costa in terra, se la mangia. Li balestrieri ne uccidono assai, e parimente ancora molti altri buoni pesci, con sua balestra andando in una barca overo canoa. E questo perchè li detti pesci vanno notando quasi sopra dell'acqua, talchè quando lo veggono gli tirano con un passatoio, con un uncino legato ad una fune assai sottile ma alquanto forte; il pesce se ne va fuggendo, e il balestriero li prolunga la fune a poco a poco, talchè ne lascia molte braccia, e nel fine della fune è legato un sughero o palo; e dopo che è andato un pezzo tingendo del suo sangue il mare, e che si sente mancare e vicinare a sé il fin di sua vita, s'appropinqua alla spiaggia overo costa. Il balestriero va raccogliendo la fune, e dapoi che gli è restato distante sette o otto braccia, poco piú o meno, va tirandolo in verso terra, e cosí il pesce s'avicina tanto che giunge a terra, e l'onde del mare l'aiutano ad appressarsi piú; e allora il detto balestriero, con altri che l'aiutano, forniscono di condurlo in terra, e per levarlo di là e condurlo alla città o vero dove lo vogliono partir bisogna una carretta con un buon paio di buoi, e alle volte non bastano, che ne bisognano piú, secondo che son grandi piú l'un che l'altro. Questo pesce alcune fiate, senza tirarlo nel lito, se lo levano nella barca, perchè subito che è finito di morire se ne viene sopra acqua. E credo che sia delli migliori pesci al gusto del mondo, e che piú s'assomigli alla carne: e in tanto al vederlo s'assomiglia al bue, che chi non l'ha veduto intero, vedendolo quando è tagliato in pezzi, non saprà che credere, cioè se è bue o vitello, e di certo ogniun crederà che sia carne, e in questo s'ingannariano tutti gli uomini del mondo. E parimente il sapor suo è di buonissimo vitello, e la salata sua è eccellente e dura gran tempo; né a modo alcuno è simile a questo il varolo di queste parti. Questo manati ha una certa pietra o vero osso nella testa, dentro al cervello, la quale è molto appropriata al mal della pietra, la quale s'abbrucia e macina sottilmente in polvere, e si piglia questa polvere quando la doglia si sente la mattina a digiuno, tanto quanto potria star sopra un quattrino, con un fiato di buon vino bianco; e toltola tre o quattro mattine s'acquieta la doglia, secondo alcuni che l'hanno provato e me l'han detto. E io, come buon testimonio di veduta, affermo aver veduto cercare questa pietra con gran diligenzia molti, per l'effetto che è detto.
Altri pesci vi sono poi, cosí grandi come questi manati, che chiamano pesce vihuella, che porta nella cima del corpo una spada che d'ogni banda è piena di denti molto acuti, la qual spada è d'una certa cosa natural sua molto dura e forte, ed è lunga quattro o cinque palmi, e a questa proporzione è la sua grossezza. Chiamasi questo pesce pesce spada, e truovasene delli piccoli quanto una sardella, e di grandi tanto che dua paia di buoi arebbero fatica a tirarlo sopra una caretta. Ma poi che mi son obligato di sopra a dir degli altri pesci che si pigliano per il mare andando alla vela, non voglio scordarmi della tonnina, la qual è un grande e buon pesce, e uccidonsi con foscine e uncini gettati in acqua quando passano intorno alli navili; e similmente pigliansi molte orate, che è un pesce delli buoni di tutto il mare.
È da notare che nel grande Oceano una cosa è, la quale affermeran tutti quelli che sono stati all'Indie, ed è che, sí come in terra sono provincie, alcune fertili, alcune sterili, il simile accade nel mare, tal che alcune fiate li navili corrono e cinquanta e cento e dugento leghe e piú senza poter pigliar un pesce o vederlo, e poi in altra parte del medesimo mare Oceano si vede tutta l'acqua buligare di pesci, e pigliansi di loro assaissimi. Soccorremi di dire d'un volare di pesci che è cosa bella a vedere, ed è cosí: quando li navili vanno per il gran mare Oceano seguendo suo viaggio, si sollevano dall'una e l'altra banda molte compagnie d'alcuni pesci, delli quali il maggiore è come una sardella, e da quella in giú si van minuendo, tal che ve ne sono di molti piccoli; e questi si chiamano pesci volatori. Levansi a schiere, e in tanta moltitudine che è un stupore a vedergli; alcune volte levansi pochi, e (come aviene) con un volo vanno a buttarsi cento passi lontano, e tal volta piú o manco, e tal ora caggiono nelli navili. Mi ricordo io che, stando una sera la gente tutta nella nave inginoccioni cantando la Salve Regina, nella piú alta parte del castello da poppa passò una certa banda di questi pesci volatori, e noi andavamo con vento buono scorrendo, e molti di questi pesci caddero nella nave: tra gli altri duoi o tre dettero in nave appresso me e gli presi vivi nelle mani, tal che molto ben gli potei vedere. Erano grandi come sardelle e di quella grossezza, e dalle guancie usciano due ale overo due penne, simili a quelle con che nuotano tutti li pesci di queste bande per li fiumi, lunghe come era tutto il pesce; e queste son le sue ale, e fin tanto che queste ale non s'asciugano nell'aere, dopo che son saliti dall'acqua, sempre possono sostenersi in alto; però, subito che son asciutte, che al piú è nello spazio overo tratto che ho detto, cascano in mare, e poi tornano a levarsi e fanno il medesimo, overo si fermano.
Nell'anno 1515, quando la prima volta venni a informare vostra maestà delle cose dell'Indie, e subito l'anno seguente che fui in Fiandra, nel tempo della sua ben fortunata successione in questi suoi regni d'Aragona e di Castiglia, e in quel viaggio veleggiando io con la nave sopra l'isola Bermuda, che altrimenti si chiama la Garza, la quale è la piú lontana di tutte l'isole che oggi si sappia nel mondo, e arrivai lí, tanto che stavamo in otto braccia d'acqua e lontani un trarre d'artiglieria, fui deliberato mandar in terra alcun della nave per saper quel che era lí, e insieme per far lasciar in quella isola alcuni porci vivi, di quelli che io portavo nella nave per viaggio, afin che multiplicassero. Ma il tempo saltò subito contrario e fece che non potemmo toccare la detta isola, la qual può essere di lunghezza di dodici leghe e di larghezza sei, e volge di circuito trenta leghe, ed è in trentatre gradi dalla banda di settentrione. Stando lí appresso viddi un contrasto di questi pesci volatori e delle orate e degli uccelli coccali e folighe, che in verità mi pareva cosa del maggior sollazzo che potessi avere: le orate andavano a pelo d'acqua, e alcune volte mostrandogli le spalle, e facevano levare questi pesci volatori fuora d'acqua per mangiarsegli, e questi fuggivano a volo, e le orate seguivano dietro loro notando dove cascavano; dall'altro canto li coccali e folighe nell'aria pigliavano molti di quelli pesci volatori, di modo che né nell'aere né nell'acqua stavano sicuri.
Questo medesimo pericolo tengono gli uomini nelle cose di questa vita mortale, che nessuno sta sicuro, né in alto stato né in umile: e questo solo doveria bastare a far che gli uomini si ricordassero di quello sicuro riposo che tiene apparecchiato Iddio per quelli che l'amano, il quale acqueta li travagli e fatiche del mondo, nel quale cosí pronti e apparecchiati stan li pericoli, e li ripone alla vita perpetua, nella quale si truova eterna sicurtà. Tornando alla mia istoria, questi uccelli che ho detto erano dell'isola Bermuda, e lí intorno viddi questo volare di pesci, perchè questi uccelli non s'allargano molto da terra, né potriano essere d'alcuna altra terra.
Del pescar delle perle.
Cap. LXXXV.
Dapoi che abbiam detto d'alcune cose che non son di tanto valore o prezzo come sono le perle, ragione mi pare che ora si dica come le dette si pescano, ed è cosí. Nella costa di settentrione, in Cubagua e Cumana, che sono luoghi dove costoro per il piú s'essercitano, sí come a pieno io fui informato dagl'Indiani e da' cristiani, dicono che partono di quella isola di Cubagua molti Indiani, che abitano in case di signori particolari, abitatori di San Domenico e San Giovanni; e in una canoa over barca se ne vanno la mattina, quattro o cinque o sei o piú, e dove gli pare o sanno che vi sia quantità di perle, e lí si fermano nell'acqua e si tuffono in acqua di sotto a nuoto, finchè giungono in fondo; e resta uno nella barca, il qual la tiene ferma quanto può, aspettando che venghino di sopra quelli che sono entrati nell'acqua. E cosí, doppo che l'Indiano è stato un buon spazio di tempo in fondo, vien di sopra e notando viene alla sua barca, entrandovi dentro e ponendovi tutte l'ostreghe che ha prese e seco portate, perchè nell'ostreghe si truovano le dette perle; e lí si riposa alquanto e alquanto mangia, e doppo ritorna nell'acqua e vi sta fin che vi può durare, e ritorna di sopra con quel che ha pescato, riponendolo nella barca come prima; e in questo modo fanno il medesimo tutti gli altri, che son notatori bonissimi a questo mestiero. E quando sopraviene la notte, e che gli par tempo da riposare, se ne ritornano all'isola a casa sua e consegnano l'ostreghe tutte al maestro di casa del suo signore, che tiene carico di detti Indiani; e costui gli fa dar mangiare, e ripone in salvo le dette ostreghe. E quando ne ha quantità, fa che loro le aprano, e in ciascuna d'esse truovano le perle, o grande o picciole, due o tre o quattro, e tal volta cinque e sei e molti piú grani, sí come la natura ve li ha posti. E le perle grandi e minute che truovano salvano, e l'ostreghe, se vogliono, o le mangiano overo le gettano via, avendone tante che quasi le aborriscano; e quel che avanza di dette ostreghe tutto gli viene a fastidio, tanto piú che l'ostreghe sono molto piú dure, e non cosí buone a mangiare come quelle di Spagna.
Questa isola di Cubagua ove si usa questo modo di pescare, è nella costa di tramontana, e non è maggior isola di Zilanda, ma è quasi a punto cosí grande. Molte volte che il mar cresce assai, e piú di quello che li pescatori delle perle vorriano, e anche perchè naturalmente, quando l'uomo sta sotto acqua ove sia molto fondo (sí come io l'ho molto ben provato), li piedi se li levano all'insú, tal che mal agevolmente possono stare in terra nel fondo dell'acqua per lungo spazio, a questo vi proveggono gl'Indiani benissimo con l'assettarsi alla schiena duoi sassi, un per canto, legati con una fune; e l'uomo sta nel mezzo, e con questi si lascia gir al fondo, ed essendo li sassi assai gravi, lo fan stare nel basso fermo. Quando gli pare e vuole tornar di sopra, con poca fatica può dislegar le pietre e uscirsene a suo piacere. Questo che ho detto non è però quello che debbe far maravigliare la gente della agilità che hanno gli Indiani nel fare questo esercizio, ma questo è che molti di loro stanno nel fondo d'acqua un'ora, e alcuni piú e alcuni meno, secondo che uno è piú atto a questa cosa che l'altro.
Un'altra cosa mi occorre che è grande, ed è che, dimandando io molte volte ad alcuno di quelli signori indiani che vanno ancora loro a pescare che, essendo il luogo ove si pigliano queste perle assai piccolo, si doverebbe in breve consumar tutte l'ostreghe, pigliandosene tante, tutti mi risposero che, se ben si consumava in una parte, che s'andava a pescare in un'altra, all'altra costa dell'isola overo all'altro vento contrario; e che fin tanto anche che quel si finiva, tornavano poi al primo luogo, overo ad alcuna di quelle parti ove prima era stato pescato, e lasciate per esser state vote di perle, che le trovavano cosí ben piene come se mai vi fusse stata pescata cosa alcuna. Dal che si può comprendere e giudicare che queste ostreghe o si muovono d'un luogo ad un altro come gli altri pesci, overo che nascono e si augumentano e si producono in luogo ordinario. Questa isola di Cumana e Cubagua, ove si pescano queste perle che ho detto, è in dodici gradi dalla parte della detta costa che guarda alla tramontana.
Parimente si trovano e pigliansi perle nel mar del Sur assai grosse, ma molto piú grosse nell'isola delle Perle, la quale gl'Indiani chiamano Terarequi, ed è nel golfo di San Michele; e sonvisi già prese perle maggiori assai e di maggior prezzo che in quest'altra costa di qua del mar del Nort, in Cumana o in alcuna sua parte. Dico questo come vero testimonio di veduta, per essere stato io in quelli mari meridionali, e per essermi minutissimamente informato di tutto quel che appartiene al pescar delle perle. Da questa isola di Terarequi è venuta una perla di trentaun caratto di peso, la qual ebbe Pedrarias fra mille e tanti pesi d'altre perle, la qual s'ebbe quando il capitano Gasparo di Morales (prima che 'l detto Pedrarias) passò alla detta isola dell'anno 1515, la qual perla fu di grandissimo prezzo.
Nella medesima isola venne ancora una perla rotondissima che io portai da quelli mari, grande come una pallotta piccola d'arco, e di peso di ventisei caratti: e la comperai nella città di Panama nel mar del Sur per secento e cinquanta pesi di buon oro, e tennila tre anni in mio potere; e dapoi la tornata mia in Spagna l'ho venduta al conte di Nansao, marchese de Zenete, gran camarlingo di vostra maestà, il qual la donò alla marchesana di Zenete, la signora Menzia di Mendozza, sua consorte. Questa perla credo io per cosa certa che sia delle maggiori, o per dir meglio la maggior, di tutte quelle che in queste parti si son vedute, e piú rotonda che sia, perchè debbe sapere vostra maestà che nella costa del mar del Sur piú presto si trovano cento perle grandi di forma di pera che una rotonda e grande.
Questa detta isola di Terarequi, che li cristiani chiamano isola delle Perle, e altri la chiamano isola di Fiori, si truova in otto gradi alla banda australe di terra ferma, nella provincia di Castiglia dell'Oro. In queste due parti che si è detto, dell'una e l'altra costa di terra ferma, sono li luoghi ove fin a ora si pescan le perle. Ho saputo ancora però che nella provincia e isole di Cartagenia son perle. E poichè vostra maestà mi comanda che io vade lí a servirla per suo governatore e capitano, io ho pensato di farle cercare, e non mi maraviglio punto che vi se ne truovino similmente, perchè quelli che questo mi han detto non parlano se non per udita dalli medesimi Indiani di quel paese, li quali l'hanno mostre alli cristiani nel porto e terra del cacique Carex; il quale è il primo della isola di Codego, che è alla bocca del porto di Cartagenia, che in lingua indiana si chiama Coro, la qual isola e porto è alla banda del nort, alla costa di terra ferma in dieci gradi.
Dello stretto e cammino che si fa dal mare del Nort, cioè tramontana, a quello del Sur, cioè mezzodí.
Cap. LXXXVI.
È stata opinione tra li cosmografi e pilotti moderni e persone che hanno pratica delle cose di mare, che sia uno stretto d'acqua dal mar austral, over del Sur, al mar di Tramontana in terra ferma, qual però non si è trovato né visto fin a ora. E lo stretto che vi è, noi che siamo stati in quelle parti piú presto crediamo che sia di terra che d'acqua, perchè la terra ferma in alcune parti è molto stretta; e in tanto che gl'Indiani dicono che dalle montagne della provincia d'Esquegua overo Urraca, che sono fra un mare e l'altro, andandovi uno uomo in cima e guardando alla parte di tramontana, vede l'acqua e mar di Tramontana della provincia di Beragua, e voltandosi all'opposito alla parte di mezzodí, si vede il mar e costa del Sur, e provincie che confinano con quello, che è di quelli duoi caciqui o signori delle dette provincie d'Urraca ed Esquegua.
Ben credo io che, se questo è cosí come dicono gl'Indiani, che di quello che fin al presente si sa questo sia il piú stretto di terra ferma, e secondo che alcuni dicono è adoppiato di montagne aspere. Ma io non l'ho per miglior cammino, né cosí breve come è quello che si fa dal porto nominato Nome di Dio, qual è nel mar di Tramontana, fino alla nuova città di Panama, che è nella costa e sopra la riva del mar del Sur; il qual cammino similmente è molto aspro, e pien di molte montagne e molto alte, con molte valli e fiumi e con monti asperrimi, pieni di boschi foltissimi e molto difficili a passargli, che senza gran travaglio non si posson passare.
Alcuni mettono per il cammino di questa parte da mar a mar diciotto leghe, e io lo fo piú di venti buone, non perchè il cammino possi essere piú di quello che è detto, ma perchè è molto cattivo, come è di sopra detto. E questo viaggio l'ho fatto io ben due volte a piè, e fo dal porto o villa detta del Nome di Dio fino al cacique di Ivanaga, che ancora si chiama di Capira, otto leghe, e di qui fino al fiume Chagre altre otto, ancora che sia maggior camino quello di questa seconda giornata, tal che fin a questo fiume fo sedeci leghe, e qui si finisce l'asperità del camino. Di qua poi fino al ponte Ammirabile son due leghe, e doppo il detto ponte sono due altre leghe fin al porto di Panama, talchè in tutto son venti al mio giudicio. Si che, essendo io andato tanto e tanto peregrinato per il mondo, e avendo tanto veduto d'esso come ho, non è maraviglia che io affermi la mia opinione di questo cosí breve camino come quel che io ho detto che è dal mar di Tramontana a quello di Mezzodí.
Se si troverrà (sí come speriamo in Dio) la navigazion delle speziarie, e che si conducano al detto porto di Panama, come è assai possibile (volendo Dio), di là poi agevolmente si può passare a questo mare di Tramontana, non obstante le difficultà del camino di queste venti leghe di sopra dette. E ciò affermo come uomo che molto ben ha veduto quel paese, e che ben due volte con li suoi piedi vi è passato, dell'anno 1521.
È da sapere che è una facilità maravigliosa a condur le specierie nel modo che ora dirò: da Panama fin al fiume Chagre son quattro leghe di molto buono e acconcio camino, per il quale a piacere a piacere vi possono andare le carette cariche, perchè, se ben vi è qualche montata, è però piccola, e la maggior parte di queste quattro leghe è pianura netta d'arbori. Arrivate che sono le carette al detto fiume, lí si potrian le specierie caricare in barche e spinazze; il qual fiume entra nel mar di Tramontana 5 o 6 leghe piú a basso del porto del Nome di Dio, e sbocca vicino ad una isola chiamata del Bastimento, dove è buonissimo e sicurissimo porto. Guardi vostra maestà che maravigliosa cosa e che gran commodità è per fare quanto si è di sopra detto, perchè questo fiume Chagre, nascendo sol due leghe lontan dal mar d'austro, viene però a metter capo nell'altro mare, detto di Tramontana. Questo fiume corre molto, ed è molto grosso e abbondante d'acqua, e tanto appropriato a quel che abbiam detto che piú non si potria dire né pensare, né anco desiderare che tanto fusse a proposito dell'effetto disegnato come questo. Il ponte Ammirabile o naturale, che è due leghe di là dal detto fiume e altre due di qua dal porto di Panama, al mezzo del camin sta in questo modo, che nissun che passa per questo viaggio vede detto ponte, per non pensare che in tal luogo sia alcun edificio, infino a tanto che non è in cima d'esso andando verso Panama; ma subito che arriva al ponte, guardando a man destra, vede ciascuno sotto di sé un fiumicello, il quale ha il letto suo lontan dalli piedi che passa due lancie di fante a piè o piú. L'acqua è piccola, perchè arriveria al piú infino al ginocchio d'un uomo; la larghezza è da 30 in 40 passi. Questo mette testa nel sopradetto fiume di Chagre. Da man sinistra, stando sopra detto ponte, non si vede altro che arbori; la larghezza sua è di passi 15, e la lunghezza da 70 in 80. L'arco è fatto dalla natura d'una durissima pietra, cosa da far maravigliare qualunque lo vedesse, essendo fatto dal supremo Fattore dell'universo.
Si che, tornando a proposito delle dette specierie, dico che, quando piacci a Iddio N. Sig. che per ventura di v. maestà si trovi la navigazion per quella parte, e si conduchino le specierie fin alla detta costa e porto di Panama, e che di là si conduchino come abbiamo detto per terra con carri fin al detto fiume Chagre, e di là fin in questo altro nostro mare di Tramontana, dal qual poi si venga in Spagna, dico che s'avanzarà di camino piú di settemila leghe, e con assai meno pericolo di quel che ora si fa andando per la via del comandator fra' Grazia dell'Aisa, capitan di vostra maestà, il quale questo anno presente s'è partito per andare al luogo di dette specierie. E di tre parti del tempo se ne abbreviarà una, e piú di due s'avanzerebbe per questo camino; e s'alcuni di quelli li quali l'averian potuto benissimo fare, per via del detto mare del Sur, si fussino affaticati a cercar le speziarie, ho ferma opinione che già molti giorni si sariano trovate; e si troveranno senza alcun dubio, volendole cercar per quella parte o vero mare, secondo la ragion della cosmografia.
Cap. LXXXVII.
Due cose notabili si possono raccorrer di questo imperio occidentale dell'Indie di vostra maestà, oltre l'altre particolarità dette e di tutto quello che si possa dire, che sono di grandissima importanzia ciascuna d'esse. L'una è la brevità del camino e ordine che si è messo nel mar del Sur, cioè australe, per andar a trovar l'isole dove nascono le specierie, e delle innumerabili ricchezze delli regni e signorie che confinano con il detto mare, dove sono persone di diverse lingue e nazion strane. L'altra cosa è considerar quanti innumerabili tesori sono entrati in Castiglia per causa di queste Indie, e quello che ogni dí entra e quello che si aspetta che sia per entrare, cosí d'oro e perle come di altre cose e mercanzie che da quelle parti continuamente si traggono e vengono nelli vostri regni, avanti che da alcuna altra generazion straniera siano stati trattati o visti, eccetto che dalli vassalli di vostra maestà spagnuoli. Il che non solamente fa ricchissimi questi regni e ogni giorno gli farà piú, ma ancora agli paesi vicini redonda tanto profitto e utilità, che non si potria dar ad intendere se non con gran lunghezza di parlare e piú ozio, il che io non ho al presente. E testimoni ne son questi ducati doppioni che vostra maestà fa battere e si spargono per il mondo, li quali, poi che di questi regni escono, mai piú tornano, perchè, essendo la miglior moneta che al presente per il mondo corra, come l'entra in man de' forestieri mai piú se ne può cavare. E se la torna in Spagna viene vestita in altro abito, perchè torna diminuita di bontà d'oro e mutate le reali insegne di vostra maestà, che, se la non avesse questo pericolo d'esser disfatta in altri regni per la causa detta, non si trovaria d'alcun prencipe del mondo tanta quantità d'oro in moneta battuta come di vostra maestà. E la causa di tutto questo sono l'Indie, delle quali brevemente ho detto quel che mi son ricordato.
Gonzalo Ferdinando d'Oviedo
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate
Libro primo
Che è il proemio drizzato alla cesarea e catolica maestà dell'imperatore Carlo Quinto.
Si legge appresso i buoni cosmografi antichi, e l'esperienzia ce 'l fa oggi chiaro, che l'India è posta molto verso oriente, fra il fiume Indo e 'l Gange, oltra il Gange anco piú verso oriente, e è piú di cinquecento leghe di là dal mar Rosso e dal mare di Persia; onde si sono ingannati alcuni che hanno detto che gli Etiopi son presso al fiume Indo, perciochè l'Etiopia, dove andò Mosè a combattere in favore degli Egizii, è posta sul mezzogiorno, e di qua dal mare Rosso. E questi Etiopi furono convertiti alla fede da quello eunuco, maggiordomo della regina Candace, che fu da san Filippo apostolo battezzato e nella fede instrutto. Quello che io voglio qui inferire si è che io non tratto qui di questa India che ho detto, ma dell'Indie che sono isole e terra ferma nel mare Oceano occidentale, e che ora sono sotto l'imperio della corona reale di Castiglia: e vi si comprendono infiniti gran regni e provincie, con tante ricchezze quanto nel processo di questa istoria si dirà.
Per tanto supplico la Vostra Maestà cesarea che faccia queste mie vigilie degne d'essere da lei vedute e lette, poichè naturalmente ogni uomo desia di sapere, e l'intelletto ragionevole è quello che ci fa piú che altro animali eccellenti, anzi che ci fa simili al grande Iddio, il quale disse nella creazione di questo intelletto: "Facciamo l'uomo ad imagine e similitudine nostra". Sí che per questa cagione non si contenta né si sodisfa il nostro animo con intendere e speculare poche cose, né con vedere l'ordinarie o vicine alla patria nostra; che anzi chiunque questo cosí bel desiderio ha, posponendo molti pericoli ne va per lontane e varie contrade pellegrinando, per investigare e nella terra e nel mare le tante maravigliose opere che ha fatte il grande Iddio, per sodisfare a questo bel desiderio della pellegrinazione nostra, e per farci conoscere che chi ha potuto far quello che noi vediamo nel mondo, è stato bastante a fare anco tutto quello che noi non possiamo con tutto il nostro ingegno intendere: cosí per la sua grandezza, come per la negligenzia nostra, e per la debolezza umana della quale tutti vestiti siamo, e medesimamente per altri inconvenienti, che possono impedire questo lodevole desiderio di vedere con gli occhi del corpo quello che vedere si può della tondezza e varietà di questo, che hanno i latini chiamato mondo. Del quale vogliono alcuni cosmografi che assai meno della quinta parte abitata ne sia: ma io sono molto da questa opinione lontano, come colui che, di piú di quello che Tolomeo ne scrisse, so che in questo imperio dell'Indie, che Vostra cesarea Maestà possiede, sono cosí gran regni e provincie, e di cosí strane e diverse genti e costumi, che assai breve è la vita dell'uomo per poter vederlo né fornire d'intenderlo.
Perciochè quale ingegno mortale potrà comprendere tanta diversità di lingue, di abiti, di costumi, che nelle genti di queste Indie si veggono? Chi potrà esplicare la tanta varietà d'animali, cosí domestici come salvatichi? La tanta copia d'alberi con tanta diversità di frutti, e altri anco sterili, cosí di quelli che gl'Indiani istessi coltivano, come di quelli che naturalmente senza l'aiuto umano si generano? Chi numererà le tante piante ed erbe utili agli uomini e all'uso della vita commune, senza l'altre tante che non sono conosciute? Ivi si veggono infinite differenzie di rose e d'altri varii fiori, con incredibile soavità; una diversità grande d'uccelli di rapina e d'altri di varie specie; un immenso numero d'altissime montagne e fertili, e d'altre aspre e silvose; campagne amplissime e ottime per l'agricoltura, con bellissime e vaghissime riviere. Vi si veggono monti piú maravigliosi e spaventevoli che non è Mongibello o Volcano o Stromboli in Italia: e sono e questi e quelli all'Altezza Vostra soggetti. Certo che non sarebbono, dagli istorici e dai poeti antichi, tanto questi maravigliosi monti della Sicilia celebrati, se fossero stati conosciuti Massaia e Maribio e Guassocingo, e gli altri che appresso in questa istoria si toccheranno.
In queste Indie si veggono tante valli e foreste e dilettevoli pianure; tante costiere di mare con tante e cosí lunghe piaggie, e con cosí securi e bei porti; tanti gran fiumi e navigabili; tanti gran laghi; tanti fonti e freddi e caldi, e vicini l'uno all'altro, e molti con bitume e altre varie materie e liquori; tante sorti di pesci di quelli che in Spagna si veggono e conoscono, e altre che né vi si conoscono né vi si veggono; tante minere d'oro, d'argento e di rame; tanta copia di perle e di unioni che ogni dí vi si ritrovano. In qual contrada si udí mai o si sa che in cosí breve tempo, e in terre cosí dalla nostra Europa remote, si producessero tanti animali d'armenti e di greggi e tante biade, come con gli occhi nostri in queste Indie vediamo che si producono, essendovi per tanta distanzia di mare condotti? E mi pare che questa terra non come madregna, ma come vera madre ricevuti gli abbia, poichè in maggior quantità e migliori alcuni di loro vi si generano che nella Spagna non fanno; dico cosí degli animali che per servigio dell'uomo sono, come del grano istesso e dell'altre biade, di legumi, delle frutte, del zuccaro e cannafistola, delle quali cose a' dí miei uscí la semente di Spagna e fu qui condotta; e fra poco tempo sono in tanta quantità moltiplicate tutte queste cose, che di qua se ne ritornano le navi in Europa cariche di zuccaro, di cannafistola e di cuoi di vacche. E il medesimo potrebbono fare d'altre cose, alle quali qui non molto s'attende, e che prima che gli Spagnuoli vi venissero queste Indie da se stesse producevano e producono, come sono cottone, o bambagio che vogliam dire, allume e altre mercanzie, che in molti regni del mondo sono desiderate, e se ne caverebbe grande utilità: ma i nostri mercadanti non se ne fanno conto, per non occupare i loro navili se non con oro, con argento, con perle e con altri simili cose.
E poi che quello che si potrebbe scrivere di questo nuovo e grandissimo imperio è tanto e cosí maraviglioso, questa istessa grandezza mi iscusi appo Vostra Maestà cesarea se non ne dirò cosí copiosamente come si richiederebbe. Basti che, come persona che tanti anni miro e veggo queste cose, abbia d'occupare tutto il restante della vita mia in notare e dedicare alla memoria de' posteri questa piacevole, soave, generale e naturale istoria dell'Indie, cosí di quello che fin qua ho veduto o mi è venuto a notizia, come di quello che, fin che questa vita mi durerà, e si discoprirà e ritroverà; poi che la Vostra Maestà cesarea, come a suo creato e servitore, mi impone e comanda che io la scriva e la mandi al suo consiglio reale dell'Indie, perchè, come queste cose s'aumentano e si fanno, cosí si pongano di mano in mano nella gloriosa cronica di Spagna. E in questo, oltra che la Maestà Vostra ne fa servigio a Dio nostro Signore, che si publichi e si sappia per lo restante del mondo quello che sotto lo scettro vostro reale di Castiglia posto si trova, ne fa anco segnalata mercé a tutti i regni di cristiani, in dar loro con questo trattato occasione di rendere infinite grazie a Dio per l'aumento della sua santa fede catolica, che ogni dí col vostro cristianissimo zelo in queste Indie s'aumenta. Il che sarà un glorioso colmo della immortalità della vostra rara e perpetua fama, perchè non solamente i fedeli cristiani si sentiranno a Vostra Maestà cesarea obligati, che con tanta benignità faccia lor questa nuova e vera istoria comunicare, ma gli infedeli anco, che fuori di queste parti per tutto il mondo si troveranno, udendo queste maraviglie gli resteranno medesimamente obligati, lodando il Fattore del tutto, che cosí strane cose create abbia in luoghi cosí incogniti e separati dall'emisferio e orizonte loro.
Questa è certo, potentissimo signore, una materia che, per la grandezza dell'obietto e delle sue circostanzie, né l'età né la diligenzia mia basteranno a terminarla perfettamente, per l'insufficienzia del mio stile e per la brevità de' miei giorni. Sarà nondimeno, quello che io scriverò, istoria vera, e del tutto lontana dalle favole che altri scrittori ne hanno detto, senza averne veduta cosa alcuna: ma, stando in Spagna a piede asciutto, hanno avuto ardire di scrivere con elegante parlare, e volgare e latino, queste cose, solamente per informazione di molti di differenti giudicii, e ne hanno formate l'istorie, che si sono piú appressate al buon stile che alla verità delle cose che scrivono, perchè né il cieco sa determinare de' colori, né l'absente può cosí far fede di queste cose come colui che le vede. Io voglio che la Maestà Vostra sia certa che questi miei scritti anderanno ignudi d'eleganzia di parole, per potere con l'artificio invitare i lettori a leggerli, ma saranno assai ben copiosi di verità e senza contradizione alcuna, pur che la vostra soprana clemenzia ordini che siano poi limati e politi; pure che chi questa impresa prenderà, di dire questa mia istoria in miglior stile, non si parta punto dall'intenzione e dalla sentenzia che qui vedrà, sí perchè non se ne offenda questo mio buon desio, come perchè non mi si nieghi la lode del travaglio, che in tanto tempo e con tanti pericoli ho sofferto, investigando per tutte le vie possibili la certezza di queste materie, da che nel 1513 il catolico re don Fernando di gloriosa memoria vostro avolo mi inviò, perchè io fossi sopra al fondere dell'oro che qui in terra ferma si faceva. Onde io mi occupai cosí in quello officio, quando lo richiedeva il bisogno, come nella conquista e pacificamento d'alcuni luoghi di questo imperio con l'arme in mano servendo a Dio e alle Maestà Vostre (come lor capitano e vassallo) in quelli asperi principii che si popolarono alcune città e terre che ora sono di cristiani, e con molta gloria dello scetro reale di Spagna vi si continua il culto divino della vera religione cristiana.
Nella quale conquista, quelli che in quel tempo passammo con Pedraria d'Avila, luogotenente e capitan generale del re catolico e poi delle Maestà Vostre, fummo da duemila uomini, e in quelle contrade ritrovammo altri cinquecento cristiani, sotto il capitan Vasco Nugnez di Balbua, nella città del Darien, che si chiamò prima La Guardia e poi Santa Maria dell'Antiqua, e fu la principale città del vescovado di Castiglia dell'Oro; e ora si ritrova disabitata, non senza gran colpa di chi ne è stato cagione, perchè stava in parte attissima per la conquista degli Indiani arcieri di quelle contrade. E di questi duomila e cinquecento uomini che ho detto, non se ne ritrovano al presente in tutte l'Indie né fuori a pena quaranta, secondo che io credo, perchè per servire a Iddio e alle Maestà Vostre, e perchè vivessero securi i cristiani che poi in quelle provincie passarono, fu bisogno che cosí avenisse; e la salvatichezza della terra e il suo aere, con la spessezza degli erbaggi e alberi de' campi, e insieme il pericolo dei fiumi, de' gran lacertoni e tigri, e il fare esperienza dell'acque e delle cose da mangiare, sono tutte queste cose state con costo delle vite nostre, in utilità de' mercatanti e degli altri che sono qui poi passati a vivere, che con le mani lavate si godono ora delli molti sudori d'altrui.
E perchè, stando la Vostra Maestà cesarea in Toledo nel 1525, scrissi io una sommaria relazione d'una parte di quello che qui si contiene, e fu il suo titolo Oviedo, nella naturale istoria dell'Indie, come questo libro ora si chiamerà La generale e naturale istoria dell'Indie, tutto quello che in quel sommario si conteneva si ritroverà ora in questo libro, e nell'altre due parti che appresso poi seguiranno, assai meglio e piú copiosamente detto: sí perchè quel sommario in Spagna si scrisse, avendo io lasciati i miei memoriali e libri in questa città di San Dominico dell'isola Spagnola, dove io tengo mia casa; come anco perchè di queste materie io ne ho assai piú veduto di quello che fino allora ne sapeva, nelli dieci anni che sono corsi da che quello scrissi fino a questa, ora facendo con maggiore attenzione isperienzia di quello che a questo effetto si conveniva, e piú particolarmente intendendo e vedendo le cose. Vi è questo anco, che ciò che quel sommario si conteneva, in questo libro e nelle sue parti è aumentato, e vi sono molte altre gran cose e nuove aggiunte, delle quali non poteva io in quel sommario fare relazione alcuna, per non averle ancora né vedute né intese. Sí che, potente signore, per le cause dette di sopra è giusto che queste istorie si manifestino per tutte le republiche del mondo, perchè per tutto si sappia la grandezza e ampiezza di questi stati, che il grande Iddio serbava alla vostra corona reale di Castiglia, per la buona fortuna e meriti della Vostra Maestà cesarea, sotto il cui favore e scudo io la presente opera offrisco; e la supplico umilmente che, in ristoro del tempo che io ho in ciò travagliato, e dell'antica servitú che io ho con la vostra casa reale di Castiglia (chè sono piú di quaranta anni che io sono nel numero de' suoi creati), si degni d'accettare questi miei libri, i quali, se non sono con molta industria e artificio scritti, né con molto ornamento di parole, sono nondimeno scritti di materie che con non poca fatica e travagli ritrovate e intese si sono, e sono per dare piacere e contentamento all'animo, intendendovisi tanti secreti di natura.
Se vi si ritroveranno alcune voci straniere e barbare, ne è cagione la novità della materia che vi si tratta: né s'attribuiscono alla mia lingua, perchè io in Madril nacqui, nella casa real mi creai, ho con persone nobili conversato e letto anco alquanto. Sí che se in questo libro serà cosa alcuna che con la lingua castigliana, che è tenuta la migliore di quante ne ha la Spagna, non consuoni, è solo perchè ho voluto con le proprie e stesse voci fare intendere le cose che presso gl'Indiani significano.
La Maestà Vostra nel tutto ricompensi col mio buon desio il difetto della penna, poichè Plinio, nel proemio della sua naturale istoria, dice che è assai difficile cosa fare le cose vecchie nuove, e alle nuove dare auttorità; e a quelle che escono dell'ordinario è consueto dare splendore, e alle oscure luce, e alle noievoli grazia, e alle dubbiose fede. Basti che io ho desiato e desio servire la Vostra Maestà cesarea e sodisfare chi questa mia opera vedrà: che se io non ho saputo farlo, si dee nondimeno la mia buona intenzione commendare, e si dee il lettore contentare che quello che io ho veduto e isperimentato con molti pericoli esso ne gode e 'l sa con tanta securtà, perchè può leggerlo senza soffrire fame né sete, né caldo né freddo, né altri infiniti travagli che vi si provano e sentono, e senza partirsi altramente dalla patria sua, ponendosi in aventura della tempesta del mare, né delle disgrazie che qui poi in terra s'incorrono. Onde pare che per suo passatempo e riposo io sia nato, e peregrinando abbia visto queste opere della natura, o per meglio dire del Maestro della natura, le quali io ho scritte nelli 20 libri che in questo primo volume si contengono, e negli altri della seconda e terza parte, che tratteranno delle cose di terra ferma, e ne' quali mi ritrovo ora occupato. Egli è il vero che l'ultimo libro di questi vinti si porrà poi nel fine della terza parte, perchè è di qualità che a tutte serve, e chiamasi Delle disgrazie e naufragii de' casi avvenuti ne' mari di queste Indie.
Tutti questi libri sono divisi secondo la maniera e qualità delle materie che vi si discorrono, e le quali non ho io cavate da duomila migliaia di volumi che io letti abbia, come diceva Plinio avere esso fatto. Onde pare che egli scrisse quello che avea letto, benchè egli dicesse anco alcune cose che non avevano gli antichi intese, o che dopo la lor vita si ritrovarono. Non dico io qui adunque cose che abbi lette in molti libri, ma vi scrivo quelle solamente che con duo miglioni di travagli, di necessità, di pericoli, ho in piú di ventiduoi anni vedute e isperimentate con la mia stessa persona, servendo a Dio e al mio re in queste Indie, e con avere otto volte passato il gran mare Oceano.
Ma perchè io a qualche modo intendo di imitare Plinio, non nel dire quello che egli disse (benchè qui talora le sue auttorità s'alleghino), ma nel distinguere i miei libri, come egli fece, secondo la varietà delle materie, confessarò quello che egli nella sua introduzione approva, quando dice che è cosa d'animo vizioso e d'ingegno infelice volere piú tosto essere preso col furto che restituire quello che gli fu imprestato, massimamente facendosi capitale dell'usura. Per non incorrere io adunque in simil fallo, e non negare quello che è da Plinio, quanto all'invenzione e titolo del libro io il seguo; ma nella mia opera sarà una cosa aliena dallo stile di Plinio, e sarà il referire in parte la conquista di queste Indie, e il dar conto come fossero primieramente discoverte e trovate, e altre simili cose che, se ben fuori della naturale istoria sono, vi saranno nondimeno assai necessarie, per potersi sapere il principio e 'l fondamento del tutto; e medesimamente perchè meglio s'intenda come i re catolici don Ferdinando e donna Isabella, avoli della Vostra Maestà cesarea, si movessero a mandare a cercare di queste terre, o per dire meglio come il Signore Iddio gli movesse, che già altri non fu. Tutto questo verrà distintamente tocco, secondo le particolari relazioni che se ne sono avute, con espresse proteste che quanto qui scriverò stia sotto la correzione ed emenda della nostra santa madre chiesa apostolica di Roma, di cui io sono minimo servo, e nella cui obedienza protesto di dovere vivere e morire.
Ma perchè tutti quelli che hanno zelo dell'onore e della vergogna propria temono la mormorazione de' detrattori, come fu Plinio e tanti famosi autori, e con loro anco il buon profeta David, quando pregava Iddio che dalla lingua dolosa il liberasse, ben debb'io anche giustamente temere il somigliante, e con maggior ragione, poi che i morti e gli absenti non possono per sé rispondere né difensarsi (e come il medesimo Plinio diceva, che i morti non contendono se non con l'ombre e fantasme notturne). Sichè io voglio per questo dire a quelli che in fin d'Europa o d'Asia o d'Affrica mi reprenderanno, che avertiscano che io in niuna di queste tre parti del mondo sto, come si può congietturare da quello che s'è veduto e scoperto nel mare di mezzogiorno, dove si gira tutta la terra intorno. E poi che i lettori hanno d'ascoltarmi cosí di lontano, non vogliano giudicarmi senza vedere questa terra dove io sto e della quale tratto. E basti loro ch'io qui scriva in tempo d'infiniti testimonii e di vista, e che questi miei libri siano drizzati a Vostra Maestà cesarea, di cui è questo imperio, e che per suo ordine si scrivano, e che io ne abbia il mangiare, come suo cronista in queste materie; e che non ho da essere di cosí poco intelletto che davanti a cosí gran prencipe abbi a dire altro che la pura verità, per non perdere la grazia sua e l'onor mio; e di piú di tutto questo, che le cose che qui si trattano non sono per acquistarne ambiziosamente onore né per esserne rimunerato da persone particolari, alle quali con finte parole si drizzi il libro. Anzi, conformandomi con quella vera sentenzia del savio, che dice che la bocca che mentisce ammazza l'anima, spero in Dio che guarderà da tal pericolo la mia, e ch'io come fidele scrittore ne sarò rimunerato, per l'infinita cortesia, dalla clemenzia divina e dalla real mano di Vostra Maestà cesarea; la cui gloriosa persona nostro Signore lungo tempo favorisca e lasci godere della monarchia del mondo, come il vostro alto cuore desia e i vostri leali subditi sperano e tutta la republica cristiana ha bisogno, poi che fra tutti li prencipi cristiani la Vostra Maestà solamente sostiene al presente la religione catolica e la chiesa di Dio e la difensa dalla malvagia setta e gran potenzia di maomettani, ponendo in rotta il lor principal capo e Gran Turco, con tanto spargimento del sangue turchesco, e con vittorie cosí segnalate, e in mare e in terra, come si sono vedute negli anni passati del 32 e del 33, standosi tutti gli altri re cristiani a vedere e aspettando il fine de' successi vostri. Ma il giusto Iddio, per la sua pietà, cosí bel fine riuscire ne fece che, mentre che 'l mondo sarà, con gloriosa memoria si celebrerà in terra, e sarà talmente nella vita celeste accetto che la Maestà Vostra ne sarà rimunerato e glorificato, con li felici re Ricaredo, primo di questo nome, e col suo fratello santo Emergildo martire, dalli quali la vostra real prosapia e corona di Spagna dependono e traggono origine; e de' quali parlando, il Burgense dice che, entrando nella Spagna 60 mila Francesi, in fin da Toledo mandò il re Ricaredo Claudio, suo capitan generale, contra di loro, e li vinse e pose a filo di spada, facendone la maggior parte prigioni. Onde disse quello istorico che mai nella Spagna si vidde simile vittoria. Il medesimo scrive l'arcivescovo don Rodrigo, che in questo il Burgense seguí. E assai meglio averebbero potuto delle vittorie di Spagna dire, se avessero veduto quello che i vostri capitani e vassalli oprarono nel 1525 contra il re di Francia e sua cavalleria, quando vi fu questo re nell'assedio di Pavia fatto prigione, con la maggior parte de' principali del suo regno che seco si ritrovavano; o se veduto avessero quello che si spera che debbia il grande Iddio oprare nella vostra buona fortuna e invitto nome.
Ma tutto questo si lascia a' vostri eleganti cronisti, che costà sono e si rallegrano di vedere tutte le cose già dette e le scrivono anco, perchè noi, che ci ritroviamo in questi cosí lontani regni, ancora che non vediamo quel che s'è detto di cosí gran vittorie, riceviamo nondimeno tanta parte del piacere quanta hanno d'averne quelli che il loro prencipe amano, come leali subditi e cristiani. Perchè in effetto non credo che possono chiamarsi tali quelli che non ringraziano del continovo il Signor Dio per l'aumento della Vostra cesarea persona e vita, poichè in essa le nostre consistono con tutto il bene della religione cristiana.
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate.
Libro secondo
Proemio
Perchè piú ordinatamente proceda e s'intenda questa generale e naturale istoria dell'Indie, bisogna fare distinzione de' miei libri: e perciò, nel proemio o principio di ciascun di loro, intendo di fare una sommaria relazione delle materie che s'hanno da scrivere e trattare in ciascuno, o almanco di quello che vi è piú sostanzievole. E a questo modo dico che in questo secondo libro si seguirà l'istoria continovandosi col precedente libro o proemio, e toccaremo il motivo della mia intenzione, e come, per compire a quello che per la Vostra Maestà cesarea m'è stato comandato, mi sono a questa impresa posto; e insieme dirò a che modo io voglio o desidero imitare Plinio, toccando brevemente le opinioni che sono sopra, a chi drizzò egli la sua naturale istoria. E dirò l'opinione che io ho, se gli antichi conobbero o no queste isole, e se sono quelle ch'essi chiamaron l'Esperidi. Mostrerò chi fosse don Cristoforo Colombo, che primieramente queste isole scoperse, e per che via e forma vi si mosse, e a che tempo le ritrovò, e di quello che gli accadette nel primo e nel secondo viaggio che egli vi fece, e quanto in ciascuno viaggio vi discoperse, e della donazione che il sommo pontefice fece di queste Indie alli re catolici don Fernando e donna Isabella e lor successori nel regno di Castiglia e di Leone (non ostante che, secondo l'opinion mia, antiquissimamente furono di Spagna). Dirò anco chi furono alcuni cavalieri e nobili che primieramente si ritrovarono nella conquista e pacificamento di questa isola Spagnuola, e che travagli vi passarono i cristiani mentre che l'admirante Colombo passò a discoprire l'isola di Iamarca; e toccherò l'origine del morbo delle bughe, e quattro cose assai segnalate che accadettero nell'anno 1492, quando queste Indie si discopersero; e l'ordine del viaggio e della navigazione che si fa di Spagna a queste parti, e il crescere e mancare del mare col suo flusso e reflusso, e il nordestrare e norvestrare delle aguglie da navigare; con altre particolarità convenienti al discorso dell'istoria, come piú distesamente ne' seguenti capitoli si vedrà. E perchè nel primo libro ho detto che ho passato otto volte il mare Oceano, le sette furono innanzi che io in questa ottava venissi a presentare questo libro al nostro gran Cesare, come già fatto ho: e piacendo a nostro Signore, la nona volta sarà ritornandomi a casa mia a servire Sua Maestà cesarea, e a scrivere di lungo la seconda e terza parte di queste istorie.
Delle opinioni a chi drizzò Plinio il suo libro della naturale istoria, con una relazione sommaria delle materie che in questo secondo libro si trattano.
Cap. I.
Scrisse Plinio trentasette libri della sua naturale istoria, e io in questa prima parte della mia opera ne scrivo venti, ne' quali (come ho già detto) per quanto potrò intendo d'imitarlo.
Il primo libro di Plinio fu il proemio drizzato con tutto il libro all'imperator Tito, benchè altri vogliano che a Domiziano il drizzasse, né mancano di quelli che dicono a Vespasiano: ma questo poco m'importa, poichè io non scrivo seguendo l'auttorità d'istorico alcuno o di poeta, ma come testimonio di vista nella maggior parte di quanto qui tratterò. E quello che non avrò io stesso veduto, il dirò per relazioni degne di fede, non dando in cosa alcuna credito a un solo testimonio, in quelle che non abbia io personalmente isperimentate, ma a molti sí bene; e le dirò nella maniera che io intese l'ho e da chi, perchè ho ordini e carte della Maestà cesarea che tutti i suoi governatori e ufficiali in tutte l'Indie mi diano aviso e vera relazione di quanto serà degno d'istoria, per testimoni autentici, con le ferme de' lor nomi e con segni di scrittori publici, di modo che facciano indubitata fede; perchè, come prencipi zelanti e amici della verità, vogliono che questa naturale istoria dell'Indie si scriva interamente e senza niuno fuco.
Perciochè, come Plinio dice, ancorchè paia chiaro il cammino da potersi intendere la verità, è nondimeno difficile, perchè gli uomini diligenti si stancano o stomacano d'investigare il certo, e per non parere ignoranti non si vergognano di mentire; onde è molto pericoloso il creder molto, quando che è autore del falso e persona grave e di auttorità. Certo che io veggo cose, scritte in Spagna, di queste Indie che mi maraviglio come abbiano tanto ardimento avuto gli auttori di dirle, isviandosi tanto dalla verità quanto il ciel dalla terra; e si fidano a' loro eleganti stili, e par loro di iscolparsi dicendo: "Cosí l'ho io udito, e se ben non l'ho veduto, l'ho però inteso da persone che veduto l'hanno e me l'hanno dato ad intendere", di modo che su questa fidanza hanno ardire di scriverlo al papa e alli re e prencipi stranieri. Io quello che qui dirò non ho da narrarlo a chi non mi conosce, né a quelli che fuori di Spagna vivono; onde io col profeta canto: "Dico ego opera mea regi", come colui che al suo proprio re e a cosí alto principe le referisce.
Pose Plinio il suo proemio per primo libro: a questo modo sia la precedente introduzione per principio de' miei, e questo chiamiamo secondo. Ho detto che Plinio drizzò la sua naturale istoria all'imperator Tito, e potrà dire alcuno che io contradico a me stesso, perchè in quel sommario delle cose dell'Indie che io scrissi in Toledo nel 1525, dissi che quello che Plinio di simili materie scriveva, a Domiziano imperatore il drizzava: e di questa opinione sono io. Per sodisfare adunque a coloro che volessero di questa inavertenza incolparmi (chè al parer mio non erro), dico che io udii già sopra la medesima questione disputare il Pontano in Napoli nel 1500, che era tenuto in quel tempo uno de' migliori litterati d'Italia: e teneva egli che Plinio scrivesse a Domiziano e non a Tito il fratello, e ne rendeva sofficienti ragioni. Non mancano però altri diversi pareri di scrittori, come è Antonio di Fiorenza, che vuol che Plinio a Vespasiano scrivesse: e secondo questa opinione al padre, e non ad alcuno de' figliuoli, averebbe Plinio drizzati i suoi libri.
Ma lasciamo questo, che non fa molto al caso, e ritorniamo al nostro principale intento. Io dico che Plinio nel secondo suo libro tratta degli elementi, delle stelle, de' pianeti, degli eclissi, del giorno, della notte, della geometria del mondo e delle misure e distanzie sue, e insieme anco de' venti, de' tuoni, de' lampi, e delli quattro tempi dell'anno, e de' prodigii e portenti, e dove e come si congela la neve e il grandine, e della natura della terra e della sua forma, e qual parte di lei sia abitata (benchè in quello che dice, che la zona torrida o linea equinoziale sia inabitabile, egli s'ingannò, come gli altri che lo scrissero medesimamente, perchè elle pienamente si abita, per quello che ne vediamo oggi nella terra ferma di queste Indie; e Avicenna lo scrisse e ne diede ragione, e come filosofo naturale non vi ebbe cosa che gli contradisse, e certo che egli scrisse e disse meglio in questa parte di niuno degli altri che ne scrivessero). Fece anco nel suo secondo libro Plinio menzione de' terremoti, e in qual terra non piove, e dove del continuo trema la terra, e come cresce e manca il mare, e referisce alcuni miracoli del fuoco. Di questa e altre molte cose che egli dice, quelle che averanno somiglianza con quelle che in questa istoria delle Indie si diranno, si toccaranno nelle provincie o terre, dove sarà da notare qualche cosa di simili materie.
E per questo non mi stenderò altramente a ragionarne in questo secondo, nel quale mostrerò la persona e l'essere di don Cristoforo Colombo, primo inventore e admirante di queste Indie, e dirò della sua origine e del primo, secondo, terzo e quarto viaggio che esso in queste parti fece. E perchè, avendo rispetto a' suoi gran servigi, i catolici re don Ferdinando e donna Isabella, che conquistarono li regni di Granata e di Napoli, gli fecero grazia dello stato e titolo di admirante perpetuo delle loro Indie, e non a lui solamente ma a tutti i suoi successori; e gli furono date l'insegne e arme reali di Castiglia e di Leone, e altre con queste e con quelle che egli aveva di casa sua, in certa forma, come appresso il suo luogo si dirà, e fu fatto nobile, con titolo di don per lui e tutti i suoi descendenti. Si dirà anco come egli si portò nel discoprire che egli fece d'una parte di terra ferma, la quale io credo che non sia minore che si siano tutte tre insieme l'Asia, l'Africa e l'Europa, per quello che la moderna cosmografia ne insegna: perciochè in quello che di questa nuova terra ferma si sa, vi è di terra continovata dallo stretto che discoprí il capitan Fernando di Magallanes, che sta dall'altra parte della linea equinoziale, dalla banda del Polo Antartico, fino all'ultimo della terra che si sa che è verso il nostro Polo Artico, vi è, dico costeggiando, piú di cinquemila leghe di terra continovata. Il che parrà al lettore cosa impossibile, avendo rispetto a quello che volge a torno o che ha di circonferenzia tutto l'orbe: ma non se ne dee maravigliare chi vede la figura che questa terra ferma ha, perchè ella sia inarcata a guisa d'una coronetta da cacciatore o d'un ferro da cavallo. E chi considera in che forma si ritrova situata questa altra metà del mondo, per mediocre cosmografo che sia, assai bene intenderà che è possibile essere tanto grande quanto s'è detto.
In alcune cose di quelle che io in questa prima parte scrivo non sarò molto lungo, per essere molto note. Vi dirò bene alcune opinioni che vanno oggi a torno sopra il primo discoprimento di questo nuovo mondo, e come n'ebbe notizia colui che fu il primo a scoprirle, essendo cosí incognite tutte queste terre e a Tolomeo e agli altri cosmografi antichi. Ma io non darò già in questo caso credito alcuno a quello che alcune genti volgari dicono, che ostinatamente contendono che altri fosse che primieramente questi mari e terre discoprissino, perchè in effetto, ancorchè si potesse congietturare qualche cosa in contrario, per impedire la lode di don Cristoforo Colombo, non si dee dire né credere. E tutta questa gloria è del Colombo, e al Colombo solo, doppo d'Iddio, ne sono debitori li re di Spagna passati e i presenti e i futuri, e non solamente tutta la nazione che a questi prencipi obedisce, ma li re stranieri anco, per l'utilità grande che è risultata in tutto il mondo per queste Indie, con tanti tesori che se ne sono cavati e che se ne cavano ogni giorno, e se ne caveranno mentre che sarà il mondo.
Dell'origine e persona del primo admirante delle Indie, chiamato Cristoforo Colombo, e per che via si mosse a discoprirle, secondo l'opinione del volgo.
Cap. II.
Dicono alcuni che questa nuova terra si seppe gran tempo fa, e che stava ben scritto e notata dove ella fosse e in che paralleli, ma che era già nella memoria degli uomini perduta la navigazione e cosmografia di queste parti, e che Cristoforo Colombo, come persona dotta in questa scienzia e che aveva letto, s'aventurò a discoprire queste isole: né io sto ancora fuori di questa suspezione, né resto di crederlo, per quello che nel seguente capitolo si dirà. Ma perchè è bene che persona a chi tanto si dee si ponga da noi per principio e come fondatore di cosí gran cosa come questa, dico che Cristoforo Colombo, per quello che io n'ho inteso da uomini della sua nazione, fu della provincia della Liguria dove è Genova capo. Alcuni dicono di Savona, altri d'un picciolo villaggio chiamato Nervi, che è due leghe lungi da Genova nella riviera di levante; ma per piú certo si tiene che egli fosse di Cugurco, luogo pur presso alla città di Genova. Egli nacque d'onesti parenti; fu di buona vita e statura e d'ingenuo aspetto; fu piú alto che mediocre, e di gagliardi membri; ebbe gli occhi vivi, e l'altre parti del viso ben proporzionate; ebbe i capelli assai rubicondi, e il viso alquanto acceso e impetiginoso. Fu persona assai ragionevole, cauta e di grande ingegno, buon letterato e dottissimo cosmografo, grazioso quando voleva e iracondo quando si sdegnava.
L'origine de' suoi passati venne dalla città di Piacenza in Lombardia, che è posta su la riva del Po, dall'antico e nobil sangue di Pelestrello. Vivendo Domenico Colombo suo padre, essendo egli giovanetto e ben dottrinato e già uscito dalla adolescenzia, si partí dalla patria sua e passò in ponente, e navigò la maggior parte del mare Mediterraneo, dove imparò con l'isperienzia l'essercizio del navigare. E avendo in queste parti fatti alcuni viaggi, perchè aveva animo di navigare per piú spaziosi mari, volse vedere il gran mare Oceano, e cosí se n'andò in Portogallo, dove visse qualche tempo nella città di Lisbona: dalla quale, e da ogni altro luogo dove si ritrovò, sempre da buon figlio soccorse il suo vecchio padre con qualche parte di quello che con suoi sudori guadagnava, e viveva in una vita assai limitata, e non con tanti beni di fortuna che avesse potuto senza molta necessità passarla.
Dicono alcuni che una caravella che passava di Spagna in Inghilterra, carica di mercanzie e di vettovaglie e di vino, e di altre cose che si sogliono in quella isola portare, perchè non ve ne sono, fu da cosí forzati e contrarii tempi assalita, che fu necessitata a correre verso ponente tanti giorni che riconobbe una o piú isole di queste parti dell'Indie, e che, smontandovi in terra, vi viddero gente ignuda del modo che qui ne sono; e che, mancando il vento che ve gli aveva contra lor voglia spenti, tolsero acqua e legne per ritornarsi al primo loro viaggio. Dicono di piú che la maggior parte di quello di che era questa caravella carica erano vettovaglie e cose da mangiare e vino, onde per questa via ebbero con che sostentarsi in cosí lungo viaggio e travaglio; e che, avendo poi il tempo al proposito, diedero la volta, e cosí prospero il vento ebbero che si ricondussero in Europa in Portogallo. Ma perchè il viaggio era stato cosí lungo e travagliato, e con tanto pericolo e paura, per presto che di questa navigazione ritornassero, durò quattro o cinque mesi o per aventura piú, fin che si ricondussero dove s'è detto; e in questo tempo si morí quasi tutta la gente del navilio, e non giunsero vivi in Portogallo se non il pilotto con tre o quattro marinai, e tutti cosí infermi che, fra pochi giorni doppo che furono giunti in Europa, morirono.
Dicono anco che questo pilotto [fu] intimo amico di Cristoforo Colombo, e che s'intendeva alquanto della altura di quella terra che ritrovata aveva nel modo che s'è detto, e che molto in secreto diede di ciò parte al Colombo, il quale il pregò che gli facesse una carta, e ve li ponesse quella terra che veduta aveva. Dicono che il Colombo lo raccolse in casa sua come amico e che lo fece curare, perchè anco il pilotto era venuto infermo: ma egli, non molto tempo poi, morí come gli altri compagni, e per questa via restò informato il Colombo della terra e navigazione di queste parti, e in lui solo restò questo secreto. Alcuni dicono che questo pilotto era d'Andaluz, alcuni altri lo fanno portogese, altri boscaino. Altri dicono che in questo tempo il Colombo si ritrovava nell'isola della Madera, e chi dice nell'isola di Capo Verde, e che ivi giunse la caravella che s'è detto, e per questa via fu informato il Colombo ed ebbe di questa terra notizia. Che questo passasse a questo modo o no, non è niuno che possa con verità affermarlo: pure quest'è novella per questa maniera che s'è detto, e va per lo mondo fra le genti volgari. Io per me lo tengo falso e, come dice Augustino, "Meglio è dubitare in quello che non sappiamo, che ostinatamente contendere quello che determinato non si truova".
Dell'opinione che l'autore di questa istoria ha sopra l'essersi saputo e scritto dagli antichi dove fossero queste Indie, e come e per chi si pruova.
Cap. III.
S'è nel precedente capitolo detta l'opinione che ha il volgo come queste Indie si discoprissero; ora voglio dire quello che io ne credo, e come al parer mio il Colombo si mosse come persona savia, dotta e ardita ad imprender una cosí fatta cosa, con la quale ne lasciò a' presenti e a' futuri tanta memoria, perchè egli conobbe (come era in effetto) che queste terre, che egli ben ritrovava scritte, erano del tutto uscite dalla memoria degli uomini. E io per me non dubito che si sapessero e possedessero anticamente dalli re di Spagna, e voglio qui dire quello che Aristotele in questo caso ne scrisse.
Egli dice che i mercadanti cartaginesi, usciti per lo stretto di Gibalterra verso il mare Atlantico, ritrovarono una grande isola, che non era stata ancora mai discoverta né abitata da persona umana, se non solamente da fiere e da animali selvaggi, onde era tutta boscareccia e piena di grand'alberi e di maravigliosi fiumi e atti a navigarsi, ma assai fertile e copiosa di tutte le cose che si possono piantare e seminare, che 'n grande abondanzia e ubertà vi cresceano. E dice ch'era assai lontana e remota dalla terra ferma dell'Africa, e per molti dí di navigazione. Ora, essendo qui questi mercatanti cartaginesi giunti, mossi per aventura dalla fertilità del luogo e dalla bontà e temperamento dell'aere, cominciarono ad abitarvi e a farvi stanze e terre. I Cartaginesi e il senato loro, inteso questo, fecero andar un bando, pena la vita, che niuno d'allora innanzi avesse ardire di navigare in que' luoghi, e che quelli che navigato v'avevano come nemici loro fossero morti, tosto che lor si desse occasione di poter farlo. E quello perchè si movessero a far questo, si era ch'era tanta la fama di quell'isola e terra ritrovata, che pensavano che, se altre potenti nazioni ne avessero avuto notizia e le avessero soggiogate, avrebbono per questa via potuto loro gran danni fare, e loro grandi inconvenienti nascerne.
Tutto questo pone nel suo repertorio f. Teofilo de Ferrariis cremonese, dell'ordine de' predicatori, seguendo quello che Aristotele ne scrisse "in admirandis in natura auditis". Questa è una gentile auttorità per congietturare che l'isola che pone Aristotele potesse essere una di queste che nelle nostre Indie sono, com'è quest'isola Spagnuola o quella della Cuba, o per aventura una parte della terra ferma. Questo che s'è detto non è cosí antico come quello ch'ora dirò, perchè, secondo che numera Eusebio, Alessandro Magno e Aristotele furono 351 anni innanzi alla venuta del Salvator nostro, e questo ch'io dire intendo fu molto innanzi. E in effetto, per quel che l'istorie ci accennano, e ci danno materia di fare congiettura sopra quest'isole, io tengo che queste Indie siano quelle antiche e famose isole Esperide, cosí dette da Espero XII re di Spagna.
E perchè questo s'intenda e provi con bastevoli auttorità, si dee sapere che 'l costume che serbarono gli antichi, in dare i titoli o i nomi a' regni e alle provincie, nacque doppo la divisione delle lingue fatta nella fondazione della torre di Babilonia, perchè allora tutte le genti viveano insieme, e qui furono divise e s'appartarono con differenti lingue e capitani, e per tutto il mondo si sparsero, come la scrittura sacra dice. Scrive Isidoro che gli Assirii tolsero il nome d'Assur, i Lidii da Lido, gli Ebrei da Eber, gli Ismaeliti da Ismael; da Moab descesero i Moabiti, da Amon gli Ammoniti, da Canaam i Cananei, da Saba i Sabei, da Sidon i Sidonii, da Iebus i Iebusei, da Gomer i Galati, cioè i Galli, da Tiras i Traci, dal re Perseo i Persi, da Caseth, figliuol di Nachor, che fu fratello d'Abraam, i Caldei, da Fenice, fratel di Cadmo, i Fenici; e cosí gli Egizii da Egitto loro re, gli Armeni da Armeno, che fu un de' compagni di Iasone, i Troiani da Troe, i Sicionii da Sicione, gli Arcadi da Arcade, figliuol di Giove, gli Argivi da Argo, i Macedoni da Emathion loro re, quelli d'Epiro da Pirro, figliuol d'Achille, i Lacedemonii da Lacedemone, figliuol di Giove, gli Alessandrini da Alessandro Magno, che edificò la lor città, i Romani da Romolo, che edificò Roma. E a questo modo si potrebbe dire di molti altri, che Isidoro similmente dice. Questo costume adunque restò da quei primi capitani o capi che, come s'è detto, s'appartarono doppo la torre di Babilonia in diverse parti del mondo. Conforme a questo dice Beroso che Ibero, secondo re di Spagna, figliuol di Tubal, diede il nome al fiume Ibero, donde le genti di quella contrada furono chiamate Ibere; e, come il medesimo Beroso dice, da Brigo quarto re di Spagna tolsero il nome i Brigi: e si crede che, corrompendosi questa voce, di Brigi fossero poi chiamati Frigii quelli del regno di Frigia, che poi da Troe loro re furono chiamati Troiani. Dal che si cava che i Troiani ebbero la lor prima origine da' Brigi ispani, perchè scrive Plinio che sono autori che dicono che d'Europa furono i Brigi, dai quali tolsero i Frigii il nome.
Ma, ritornando al proposito nostro, secondo il medesimo Beroso dico che Ispalo, che fu nono re di Spagna, diede il nome al fiume Ispali, o a Siviglia, che gli antichi Ispali chiamarono; e gli abitatori di questa contrada furono chiamati Ispali, che furono gente che dalla Scizia menò qui Ercole seco, come l'arcivescovo don Rodrigo dice. E si crede che 'l sopradetto Ispalo fosse figliuolo di questo Ercole libio (non già di quel forte tebano, che fu piú di 700 anni poi). A questo Ispalo succedette Ispano, dal quale fu cosí detta la Spagna, e il quale fu nepote del sopradetto Ercole libio, che, come vuol Beroso, fu 223 anni prima che s'edificasse Troia e 1710 prima che 'l Salvator nostro prendesse questa nostra carne nel mondo. E come da costui tolse la Spagna il nome, cosí si crede che ella fosse anco chiamata dal nome degli altri nove re passati, perchè questi vi fu il X re. Scrive l'arcivescovo don Rodrigo che il sopradetto Ercole condusse seco Atlante, che fu presso al tempo di Mosè, il quale Atlante dice Beroso che non fu moro ma Italiano, e ch'ebbe un fratello chiamato Espero, come Iginio scrive: e questi restò successore ed erede ad Ercole in Spagna e vi regnò dieci anni, perchè Atlante poi lo scacciò dal regno e lo fece ritornare in Italia, onde e la Spagna e l'Italia furono da lui chiamate Esperie; e non dalla stella Espero, come vogliono i Greci. Questo re Espero vuol Beroso che cominciasse dopo Ercole a regnare in Spagna, 171 anni prima che fosse edificata Troia, e 603 prima che Roma, e 1658 anni innanzi all'incarnazione di nostro Signore.
Adunque, per quello che s'è detto, resta provato che anticamente le provincie e i regni tolsero il nome da' prencipi che le fondarono o conquistarono o popolarono o le ereditarono. E come da Ispano tolse il nome Ispagna, e poi, mutandosi il nome, da Espero fu chiamata Esperia, cosí la maggior parte dell'altre terre e contrade furono chiamate del nome di coloro che le possedettero. Scrive l'Abulensi sopra Eusebio che furono tre Atlanti, e che un ne fu di Mauritania, e fu fratello d'Espero: e che amendue questi passarono in Africa dalla parte d'occidente, nella contrada di Marocco, dove un di loro si fermò; ed Espero passò nell'isole vicine, chiamate Fortunate, e che da Espero le chiamano i poeti Esperidi. Ma io credo che questo auttore s'inganni in pensare che i poeti chiamino Esperidi l'isole Fortunate, o le Canarie, che oggi diciamo, perchè Solino scrive, nell'ultimo capo del suo libro, che oltre l'isole Gorgone sono l'Esperidi, lungi (come Seboso vuole) quaranta giornate di navigazione, e poste negli intimi seni del mare. Queste Gorgone, secondo Tolomeo e gli altri veri cosmografi, sono quelle che chiamiamo ora generalmente di Capo Verde, e in particolare hanno questi nomi moderni: l'isola di Maio, l'isola di Bona Vista, l'isola del Sale, l'isola del Fuoco, l'isola Brava, e cosí dell'altre. Se dalle Gorgoni adunque sono 40 dí di navigazione lontane le Esperidi, non possono queste a niun conto essere altre che queste nostre dell'Indie, perchè al dritto delle Gorgoni verso ponente non vi sono altre isole, e nel detto tempo da questo luogo vi si naviga (come diceva Seboso); e in tanto tempo vi giunse il Colombo la seconda volta che vi navigò, e riconobbe l'isola Desiata e Marigalante, e l'altre che a quel diritto stanno, come se ne farà al suo luogo particolar menzione. E se ora vi si naviga in men delli quaranta giorni che Seboso dice, nasce dall'essere migliori vasselli, e le genti piú esperte e destre ora nel navigare che non erano forse in quel tempo.
L'isola Desiata che detta abbiamo, sta per dritto nell'occidente, posta verso Capo Verde e l'isole Gorgoni, come Solino diceva. E dall'isola di San Giacobo, che è una delle piú occidentali di Capo Verde, o delle Gorgoni, fino all'isola Desiata, sono seicento leghe, poco piú o meno. Vi è anco questo, che, avendo Solino parlato dell'isole Gorgoni e delle Esperidi, segue poi separatamente delle Fortunate, e le pone al suo luogo dove elle sono, e fra l'altre che vi nomina non tace la Canaria, onde ora tolgono il nome. Ora, questo che Solino dice, viene con l'auttorità di Plinio approbato, il quale dice che Stazio Seboso, dalle Gorgoni alle Esperidi, pone la navigazione di quaranta giorni. Dal che si cava che l'Abulensi inconsideratamente disse che i poeti chiamano Esperidi l'isole Fortunate: che, se i poeti in questa opinione erano, s'ingannarono medesimamente come in molte altre cose fecero, perciochè dalle Gorgoni alle Fortunate non sono piú che ducento leghe, e meno anco: il che non sarebbe navigazione di quaranta giorni, come i sopradetti auttori dicevano. In tanto che i poeti per l'Esperidi non intesero altro che queste isole dell'Indie nostre, tanto piú che Isidoro dice che l'isole Esperidi, cosí dette dalla città Esperide, posta negli ultimi termini della Mauritania, sono oltre le Gorgoni negli intimi seni del mare. Non discorda questa sentenzia da quella di Beroso, perchè Espero, che diede alla Spagna e all'Italia il nome, chiamò anco da sé quella città Esperide, dalla quale l'isole Esperidi poterono avere il nome, come gliele puote anche egli dare. E si concorda bene in quello che fa al proposito nostro, che l'isole Esperidi siano queste sole che noi nell'Indie della Spagna abitiamo, poi che ne accenna, come Solino e Plinio, il luogo.
Or, come la Spagna e l'Italia tolsero il nome da Espero XII re di Spagna, cosí anco da questo istesso lo tolsero queste isole Esperidi che noi diciamo, onde senza alcun dubio si dee tenere che in quel tempo queste isole sotto la signoria della Spagna stessero, e sotto un medesimo re, che fu (come Beroso dice) 1658 anni prima che il nostro Salvatore nascesse. E perchè al presente siamo nel 1535 della salute nostra, ne segue che siano ora tremila e 193 anni che la Spagna e 'l suo re Espero signoreggiavano queste Indie o isole Esperidi. E con sí antica ragione e per la via che s'è detta, o per quella che si dirà appresso ne' viaggi dell'admirante don Cristoforo Colombo, ritornò il Signore Iddio questa signoria alla Spagna in capo di tanti secoli. E come cosa sua pare che abbia la divina giustizia voluto ritornargliele, perchè perpetuamente la possegga per la buona fortuna delli duo felici e catolici re don Fernando e donna Isabella, che conquistarono Granata e Napoli, e nel cui tempo e per cui ordine andò l'admirante don Cristoforo Colombo a discoprire questo nuovo mondo, o parte cosí grande di lui incognita per tanti secoli, e che a tempo della maestà cesarea dell'imperator nostro s'è piú ampiamente discoverta e intesa, per maggiore ampiezza della sua monarchia. In tanto che, fondando la intenzione mia con gli auttori che allegati ho, dico che presso gli antichi queste nostre Indie si sapevano, e perciò ne toccarono quello che s'è detto. E per questo io credo che, o per l'auttorità sopradette o per aventura per altre anco che di piú il Colombo potea sapere, si movesse egli a dovere cercare quello che poi ritrovò, come animoso isperimentatore di cosí certi pericoli e d'un cosí lungo viaggio. O che sia questa o pur altra la verità del suo motivo, egli fece una impresa cosí grande e generosa che mai niuno innanzi a lui fece in questi mari, se l'auttorità già dette di sopra non avessero luogo.
Come Cristoforo Colombo fu colui che insegnò agli Spagnuoli di navigare per l'altura del sole e della Tramontana, e come in Portogallo e in molti altri luoghi cercò chi l'aiutasse a questa impresa, e come poi finalmente per ordine delli re catolici fece questo viaggio.
Cap. IIII
È opinione di molti, e la ragione ci inchina a crederlo, che Cristoforo Colombo fosse il primo che in Spagna insegnasse di navigare l'amplissimo mare Oceano per l'altezza de' gradi del sole e della Tramontana, e lo ponesse in opera, perchè fino a lui, ancorchè per le scuole si leggesse tale arte, pochi (o per meglio dire niuno) s'arrischiavano d'esperimentarlo nel mare; perchè questa è una scienzia che non si può interamente esercitare, per saperla per isperienzia e con effetto, se non si usa in golfi grandissimi e molto dalla terra lontani; e i marinai e pilotti fino a quel tempo, secondo un lor giudicio arbitrario, navigavano e non con l'arte né con la ragione che in questi mari oggi s'usa, ma nel modo che fanno nel mare Mediterraneo e nelle costiere di Spagna e di Fiandra e per tutta Europa e Africa, dove non molto dalla terra si scostano. Per navigare adunque in provincie cosí remote da terra ferma, come sono queste Indie, bisogna che il pilotto della ragione del quadrante si serva, e al contrario, per poter del quadrante servirsi, vi si richiedono mari di molta longhezza e ampiezza, come sono da questa parte fino in Europa, o pure di qua verso la terra ferma di queste Indie che abbiamo da ponente.
Ora, mosso il Colombo con questo desiderio, come colui che sapeva il secreto e l'arte di questa navigazione (quanto al saper navigarvi), e che si sentia certificato della cosa, o per l'aviso del pilotto, che abbiamo di sopra detto che gli diede di questa incognita terra notizia (se cosí fu), o per le auttorità tocche nel precedente capitolo, o in qualunque modo si fosse che il suo desiderio ve lo spingesse, egli travagliò molto, per mezzo di Bartolomeo Colombo suo fratello, col re Enrigo VII d'Inghilterra, padre d'Enrigo VIII che oggi vi regna, perchè il favorisse e l'aiutasse a potere andare a discoprire questi mari d'occidente, offerendosi di dover dargli molti tesori per aumento di sua corona e nuovi stati di gran signorie e regni. Ma il re, informato dai suoi consiglieri e da persone alle quali fu la essamina di questa cosa commessa, si fece beffe di quanto il Colombo diceva, e tenne tutte per vane le sue parole. Egli, che vidde non essere udito, non si sconfidò già per questo, ma cominciò a trattare di nuovo questo negozio col re don Giovanni, II di questo nome, in Portogallo; ma né anco qui ebbero effetto alcuno le sue parole, benchè fosse egli maritato in questo regno, e si fosse per questo maritaggio fatto vassallo di questo re.
Veggendosi egli anco da ogni aiuto e favore del re di Portogallo escluso, determinò d'andarsene in Castiglia, per ivi negoziarlo di nuovo, e giunto a Siviglia ebbe le sue intelligenzie con l'illustre e valoroso don Enrigo di Guzman, duca di Medina Sidonia: e né anco con costui ritrovò effetto alcuno di quello che cercava. Onde piú largamente esseguí il negozio con l'illustre don Luigi Della Cerda, primo duca di Medina Celi, il quale medesimamente tenne per favolose e vane le parole e l'offerte del Colombo, benchè dicono alcuni che il duca di Medina Celi volle andare ad armare il Colombo nella sua terra del porto di Santa Maria, e che il re catolico e la reina non volsero dargli licenzia.
Ora, perchè cosí gran stato non doveva essere se non di chi ora è, se ne andò il Colombo nella corte delli serenissimi e catolici re don Fernando e donna Isabella, dove stette un tempo con molto bisogno e povertà, senza essere inteso da coloro che l'ascoltavano: ed esso procurava d'essere da quelli felici re favorito, perchè gli armassero qualche caravella, per potere a lor nome andare a discoprire questo nuovo mondo, o parte del mondo in quel tempo incognito. E perchè questa impresa era cosa della quale quelli che l'ascoltavano non avevano il concetto, né il gusto, né la speranza, che il Colombo solo ne aveva, non solamente poco conto ne facevano, ma non ne gli avevano né anco credito alcuno, e tenevano quanto egli diceva per una vanità. E questi importunamenti del Colombo durarono quasi sette anni: che esso sempre faceva molte offerte di gran ricchezze e stati per la corona reale di Castiglia, ma, perchè egli portava la cappa spellata e povera, era tenuto per un cianciatore, e favoloso di quanto diceva, sí perchè non era conosciuto, come persona straniera, e non aveva chi lo favorisse, come anco perchè le cose che esso prometteva di condurre a fine erano cose grandi e non piú mai udite.
Ora vedete se il grande Iddio ebbe pensiero di dare queste Indie a colui di cui sono, poi che, essendone stato pregato Inghilterra e Portogallo, con gli altri duchi che si sono detti, non permesse che alcuno di quelli re cosí potenti o di quelli duchi cosí ricchi volessero aventurare cosí poca cosa come era quella che il Colombo chiedeva, acciò che egli, partito discontento da quelli prencipi, venisse a cercare quello che poi ritrovò in questi altri, che in quel tempo cosí occupati si ritrovavano nella santa impresa contra i mori del regno di Granata. E non si dee niuno maravigliare se questi re e reina cosí catolici, occupati tutti a cercare la salute delle anime, piú che i tesori e che i nuovi stati del mondo, deliberarono di favorire questa impresa del Colombo, poi che vedevano che anco qui (se la cosa riuscita fosse) era per farsi un gran servigio a Cristo. E tengasi di certo che non poteva questa gloriosa impresa negarsi alla buona fortuna di questi re catolici, poi che né occhio vidde mai, né orecchia udí, né in cuore d'uomo ascese quello che il benigno Iddio apparecchia per gli suoi servi che l'amano. Onde questa e altre molte buone fortune a questi nostri catolici re s'appresentarono e offerirono, per essere cosí veri servi del Salvatore nostro, e cosí desiderosi d'accrescere la sua santa religione e fede. E questo fu solo perchè la volontà divina, che tutte le cose vede e di tutte ha cura, desse a questi prencipi notizia di Cristoforo Colombo.
Il perchè, quando fu giunta l'ora che si dovesse questo cosí gran negozio concludere, per questi mezzi fu in quel tempo che, come dicevano, il Colombo nella corte dimorava, praticava spesso in casa d'Alonso di Quintaniglia, persona molto notata e contatore maggiore del re catolico, e desideroso del bene e del servigio del suo re. Costui faceva dare da mangiare e altre cose necessarie al Colombo, movendosi a compassione della sua povertà, onde in costui ritrovò il Colombo piú cortesia e accoglienze che in altro uomo di tutta Spagna; e per rispetto e intercessione di costui fu conosciuto dal reverendissimo don Pietro Gonzales di Mendoza, cardinale di Spagna e arcivescovo di Toledo, il quale cominciò a dargli audienzia, e s'accorse che egli era savio e intendente, e dava conto di quello che diceva, onde ne 'l riputò per uomo d'ingegno e molto abile, e per questa buona riputazione che gli ebbe volse favorirlo.
Per mezzo adunque di questo cardinale e d'Alonso di Quintaniglia fu il Colombo ascoltato dal re e dalla reina, e si cominciò a dare qualche credito a' suoi memoriali. Finalmente si venne a concludere questo negozio, stando i re catolici all'assedio della famosa città di Granata, nel 1492. E da quel campo questi felici prencipi diedero spacciamento al Colombo in quella terra, che nel mezzo degli esserciti loro fondarono chiamandola Santa Fé, nella quale, o per dir meglio nella medesima santa fede che in quei cuori reali si ritrovava, ebbe principio il discoprimento di queste Indie: perchè quelli santi prencipi non si contentavano di quella impresa e conquista santa che fra le mani avevano, e con la quale imposero fine ai regni de' Mori della Spagna, che l'avevano posseduta dal 720 anni della salute nostra fino a questo tempo, che volsero anco mandare a cercare di questo nuovo mondo, per piantarvi la santa fede e non lasciarne andare ora vacua del servigio d'Iddio.
Ora con questo santo proposito fecero ispedire il Colombo, dandogli le sue provisioni e cedule regie, perchè in Andaluzia gli fossero date tre caravelle della portata e della maniera che esso le chiedeva, e con quelle genti e vettovaglie che bisognavano in cosí lungo viaggio, e del quale niuna maggior certezza s'aveva che il buon zelo e santo fine di cosí cristianissimi prencipi, nella cui fortuna e per cui ordine cosí gran cosa s'imprendeva. E perchè per cagione della guerra non aveva la corte danari per questo bisogno del Colombo, per fare questa prima armata ne li imprestò lo scrivano di razione Luigi di Sant'Angelo. Questa prima capitulazione che il re e la reina col Colombo fecero, fu nella terra di Santa Fede, nel campo di Granata, a' 17 d'aprile del 1492, e fu passata per mezzo del secretario Giovan di Coloma, e fu confirmata, per un real privilegio che gli fu fatto, in capo di tredici giorni nella città di Granata. E cosí partí il Colombo dalla corte e andossene in Palo di Moguer, dove si pose in ordine per quel viaggio.
Del primo viaggio dell'Indie fatto per Cristoforo Colombo, che le discoverse, onde ne fu degnamente fatto admirante perpetuo di questi mari.
Cap. V.
S'è detto a che modo e con quante giravolte venne ad essere conosciuto Cristoforo Colombo dalli re catolici, stando con l'esercito sopra la città di Granata, e come, essendo stato spedito, se n'andò a Palo di Moguer, per porsi in punto per questo suo viaggio. Egli andò in questo primo viaggio con tre sole caravelle, fornite e armate di quanto facea di bisogno; e secondo la capitulazione che fatta s'era, doveva il Colombo avere il decimo dell'entrate e diritti che al re toccavano di quanto egli discopriva. E cosí gli si pagò poi tutto il tempo mentre egli visse, doppo che queste isole discoverse; e fu anco cosí pagato al secondo admirante don Diego Colombo, suo figlio, e cosí ora anco ne gode don Luigi Colombo suo nepote, terzo admirante.
Prima che Cristoforo Colombo si ponesse in mare, consultò alquanti giorni di lungo questo suo viaggio con un religioso chiamato fra' Giovan Perez, dell'ordine di san Francesco, che era suo confessore e stava nel monasterio della Rabida, che è una mezza lega lungi di Palo verso il mare. Con questo fra' Giovanni solo communicò il Colombo i suoi secreti, e ne ricevette molto aiuto, perchè questo religioso era buon cosmografo. Era con costui in questo monasterio stato il Colombo qualche tempo prima, e da lui era stato spinto agire nel campo di Granata, quando vi ottenne il suo intento. Nel ritorno adunque si venne a stare nel medesimo monasterio, e ordinò co 'l padre la vita e l'anima sua, perchè come buon cristiano si confessò e communicò, e pose nelle mani del misericordioso Iddio questo suo viaggio, come negozio nel quale doveva servirlo e accrescerne la sua republica cristiana e fede catolica.
Egli finalmente di venerdí, a' tre di agosto del medesimo anno del 1492, uscí dal porto di Palo, per lo fiume di Saltes, nel mare Oceano, con le sue tre caravelle armate: la capitana, su la quale esso andava, era chiamata la Gallega; delle altre due, una se ne chiamava la Pinta, e n'era capitano Martino Alonso Pinzon, l'altra era chiamata la Ninna, e n'era capitan Francesco Martino Pinzon, e con lui andava Vincenzio Pinzon; ed erano tutti tre questi capitani fratelli e pilotti e cittadini di Palo, e la maggior parte delle genti che in questa armata andavano erano di Palo medesimamente, e potevano esser tutti da 120 uomini. Usciti nel mare voltaron le prore per l'isole di Canaria, che gli antichi chiamarono Fortunate.
Queste isole stettero gran tempo che non vi si navigò, né vi si sapea navigare, finchè a tempo poi del re don Giovanni, secondo di questo nome, stando in Castiglia fanciullo e sotto la tutela della reina donna Caterina sua madre, furono ritrovate e vi si ritornò a navigare, perchè con ordine e licenzia di questi prencipi si conquistassero, come a lungo si scrive nella cronica di questo stesso re don Giovanni. Doppo il quale molti anni Pietro di Vera, nobile cavalliero di Scerez della Frontiera, e Michel di Moscica conquistarono la Gran Canaria in nome delli re catolici don Fernando e donna Isabella; e con questa anco tutte l'altre, fuori che la Palma e Tenerife, che per ordine delli medesimi re catolici furono conquistate da Alonso di Luco, che fu fatto come governatore di Tenerife. Queste genti delle Canarie erano molto valorose, ancorchè quasi ignude andassero, ed erano cosí selvaggie che alcuni affermano che essi non conoscessero che cosa fusse il lume, fin che i cristiani conquistarono quelle isole. Le loro arme erano pietre e bastoni, con i quali molti cristiani ammazzarono, finchè furono soggiogati e posti sotto l'obedienzia di Castiglia, di cui le dette isole sono.
Le prime e piú vicine stanno 200 leghe lontane da Spagna, e l'isola di Lazarote e l'isola del Ferro ne sono lontane 240, di modo che esse si rinchiudono e comprendono tutte nello spazio di 55 o 60 leghe, e stanno poste da 27 fino a 29 gradi dalla linea equinoziale, dalla parte del nostro Polo Artico. L'ultima loro isola o la piú occidentale era verso levante, al capo del Boiador che chiamano, in Africa, e ne è sessantacinque leghe lontana. Tutte queste sono isole fertili e abondanti di tutte le cose necessarie alla vita umana, di assai temperato aere. Al presente poche genti vi sono di quelle che vi erano prima che si conquistassero, ma tutte si abitano da' cristiani.
Ora qui, come in luogo per la sua navigazione al proposito, giunse il Colombo con le tre sue caravelle, e vi tolse acqua, carne, legna, pesce e altri rinfrescamenti che per seguire il suo viaggio gli bisognavano. Egli poi a' 6 di settembre del medesimo anno del 92 partí dell'isola di Gomera, e navigò molti giorni per lo gran mare Oceano, finchè coloro che con lui andavano incominciarono a sbigottirsi, e averebbero voluto ritornarsi a dietro. E perchè di questo camino temevano, e mormoravano della scienzia del Colombo e del suo tanto ardimento, e perchè ogni ora cresceva piú in loro il timore, e mancava la speranza di potere giungere alla terra che cercavano, incominciarono le genti e li capitani ad abbottinarsi, e alla sfacciata publicamente gli dicevano che esso gli aveva inganati e che gli conduceva a perdere, e che il re e la reina avevano fatto molto male e si erano con loro assai crudelmente portati in fidarsi d'un simile uomo e dar credito ad una persona straniera, che non sapeva quello che si dicesse. E venne a tanto la cosa che lo certificarono che s'egli non si ritornava l'averebbono fatto a suo malgrado volgere a dietro, o l'averebbono gettato in mare, perchè pareva loro che esso stesse disperato, ed essi non volevano insieme con lui disperarsi, e non credevano che esso avesse mai potuto giungere al fine di questa impresa nella quale posto si era. E per questo ad una voce tutti si accordavano di non seguitarlo.
In questo tempo e in queste contenzioni ritrovarono in mare gran praterie d'erbe sopra l'onde, che praterie a ponto parevano: onde, pensando che fosse terra sotto acqua e che perciò perduti fossero, raddoppiavano le voci e gli stridi. E senza alcun dubbio a chi mai tal cosa veduta non aveva era cosa da dovere molto temerne. Ma accortisi poi che non vi era pericolo alcuno, passò quella alterazione e spavento. Queste sono certe erbe che le chiamano salgazzi, e vanno sopra la superficie dell'acqua del mare, e secondo i tempi e le correnti vanno ora verso ponente, ora verso levante, ora verso mezzogiorno, ora verso tramontana, e alle volte si ritrovano a mezzo golfo, alle volte piú lontane o piú vicine alla Spagna; e in qualche viaggio accade che i vasselli ne incontrano poco o nulla, e alle volte anco tanto che paiono (come s'è detto) gran prati verdi e gialli, perchè a questi due colori in ogni tempo dependono.
Usciti da questi pensieri e paure dell'erbe, determinarono tutti tre i capitani con quanti marinari vi erano di volgere le prore adietro, e consultarono anco fra se stessi di gittare il Colombo nel mare, credendo di essere stati da lui burlati. Ma esso, che era savio e di questi mormoramenti s'accorse, come prudente, cominciò a confortargli con molte dolci parole, pregandogli che non avessero voluto perdere quel travaglio e tempo che fino a quell'ora speso avevano. Ricordava loro quanta gloria e utile sarebbe lor seguito dallo stare costanti e perseverare nel viaggio, e prometteva che fra pochi giorni si darebbe alle lor fatiche e viaggio fine, con molta e indubitata prosperità; e concludeva loro che fra il termine di tre giorni averebbono ritrovata la terra che cercando andavano, e che per questo stessero di buono animo e proseguissero il loro viaggio, che fra il termine che detto avea averebbe lor mostro un mondo e terra nuova, con por fine a' loro travagli, e con vedere che esso aveva detto sempre il vero al re e alla reina come a loro; e che, essendo altramente che come esso diceva, facessero quello che loro paresse, perchè esso teneva per certo che diceva il vero.
Con queste parole mosse que' cuori timidi a qualche vergogna, e spezialmente i tre capitani pilotti e fratelli: onde deliberarono tutti di fare quello che il Colombo diceva e di navigare quelli tre giorni e non piú, in fino del quale tempo non veggendo terra si sarebbono ritornati in Spagna. E questo tenevano essi piú per certo, perchè non era fra loro alcuno che pensasse che in quel parallelo e camino che facevano si fosse dovuta ritrovare terra alcuna. Dissero adunque al Colombo che quelli tre giorni il seguirebbono, ma non piú una ora, perchè credevano che non dovesse essere certa cosa alcuna di quante esso diceva, onde perciò tutti ricusavano di volere passare innanzi, dicendo che non volevano andare a morire di piano patto, e che la vettovaglia e l'acqua che avevano non potea bastare loro a ritornare in Spagna senza molto pericolo, benchè e nel mangiare e nel bere si regolassero. E perchè i cuori che temono ogni cosa a suo male rivolgono, massimamente nell'esercizio del navigare, non restavano momento alcuno di mormorare e di minacciare il loro capitano e guida; né egli manco si riposava né cessava ponto di confortargli e animargli, e quanto piú conturbati gli vedeva, piú esso si mostrava nel viso allegro, per cavare loro dai cuori il timore.
E quel dí stesso che il Colombo queste parole disse, realmente conobbe che stava presso a terra, alla vista dell'aere e di que' nuvoletti che nel por del sole nell'orizonte si veggono. E ordinò ai pilotti che, se per caso le caravelle s'appartassero alquanto l'una dall'altra, corressero verso la parte che esso lor disse, per ridursi di nuovo insieme in conserva; e sopravenendo la notte fece calar le vele e correre con li trinchetti solamente bassi. Mentre che a questo modo andavano, un marinaio di quelli che andavano nella capitania, che era di Lepe, disse: "Lume, lume; terra, terra". E tosto un servitore di Colombo, chiamato Salzedo, replicò dicendo: "Questo stesso e l'ha già detto l'admirante mio signore". E il Colombo tosto soggiunse: "Poco ha che io l'ho detto, e ho veduto quel lume che è in terra". E cosí fu che un giovedí, due ore doppo mezzanotte, l'admirante chiamò un gentiluomo chiamato Escobedo, repostiero di letti del re catolico, e gli disse che vedeva lume.
La mattina seguente, sul farsi dí, all'ora che aveva il giorno avanti il Colombo detto, dalla capitania si vidde l'isola che gli Indiani chiamano Guanahani, dalla parte di tramontana. E colui che vidde primo terra quando fu giorno si chiamava Rodrigo di Triana; e fu questo dí che si scoverse terra agli undici d'ottobre del medesimo anno del 92. E perchè le parole del Colombo riuscirono vere, in vedersi terra nel tempo che esso detto aveva, si suspicò maggiormente che egli ne fosse certificato prima da quel pilotto che s'è detto di sopra, che morí in casa sua. Potrebbe bene anco essere che, veggendo esso determinati tutti di volere ritornarsi adietro, confidandosi nella bontà d'Iddio, dicesse quelle parole e vi constituisse quel termine.
Ma, ritornando all'istoria, questa isola che prima si vidde, come s'è detto, è una dell'isole che chiamano delli Lucai. Quel marinaro che ho detto che vidde il lume in terra, ritornato poi in Spagna, perchè non gli si diede il beveraggio, licenziatosi se ne passò in Africa e rinegò la fede; e come s'è detto di sopra era di Lepe, che cosí m'hanno referito Vincenzio Iannez Pinzon e Fernando Perez Matheos, che in questo primo viaggio si ritrovarono.
Or, quando l'admirante vidde terra, inginocchiatosi e con le lagrime sugli occhi per soverchio piacere, cominciò a dire con Ambrogio e con Augustino: "Te Deum laudamus, te dominum confitemur, etc.". E cosí ringraziando nostro Signore, con tutti gli altri che seco andavano incredibile festa l'un l'altro facevano, e chi abbracciava il Colombo, chi gli baciava la mano, chi gli dimandava perdono della poca constanzia che mostro avevano, e altri gli domandavano grazie e gli s'offerivano per suoi. In effetto era cosí grande il piacere e la festa che si facevano, abbracciandosi l'uno con l'altro, che non si potrebbe di leggiero dire: e io lo credo bene e lo so, perchè se ora che il viaggio è securo e certo, tanto nel venir qui in queste isole come nel ritornare poi in Spagna, si sente incredibile piacere veggendosi terra, quanto si dee pensare che ne sentissero costoro, che cosí dubbio e incerto cammino facevano, quando si viddero certificati e securi del lor riposo? Ma si dee sapere che alcuni dicono il contrario di quello che qui s'è detto della constanzia del Colombo, perciochè affermano che egli di sua volontà si sarebbe ritornato a dietro e non sarebbe giunto al fin del viaggio, se que' fratelli Pinzoni non l'avessero fatto navigare oltre; onde dicono che per cagione di costoro si fece questo discoprimento dell'Indie, perchè il Colombo non aveva animo di passare piú oltre. Ma sarà meglio a rimettere questo a un lungo processo che s'è fatto fra l'admirante e il fiscal regio, dove s'allegano molte cose pro e contra: si che io in ciò non m'intrometto, per essere cose di giustizia e che per via di giustizia s'hanno a terminare. Basti che io abbia amendue l'opinioni dette: tolga il lettore quella che gli parrà piú vera secondo il giudicio suo. Tardò il Colombo in questa navigazione dall'isole di Canaria finchè vidde la prima terra che ho detto trentatre giorni, e giunse a vista di queste prime isole del mese d'ottobre del 1492.
Come l'admirante discoprí questa isola Spagnola e vi lasciò trentaotto cristiani, mentre che esso ritornava in Spagna a dar nuova di questo primo discoprimento.
Cap. VI.
Nell'isola di Guanahani che s'è detta, ebbe l'admirante con gli altri suoi vista di genti indiane ignude; e qui ebbero notizia dell'isola di Cuba, e scoversero tosto molte isolette che si veggono intorno a Guanahani, e le chiamarono i cristiani isole Bianche, perchè bianche paiono per la molta arena che v'è; ma l'admirante le chiamò Le Principesse, perchè furono il principio della vista di queste Indie. Giunse fra queste isole il Colombo, e specialmente fra questa di Guanahani e un'altra chiamata Caicos, ma non prese terra in niuna di queste isole, come dice Fernando Perez Matheos pilotto, che al presente si ritrova in questa città di San Domenico, e dice che vi si ritrovò. Ma io ho udito dire da molti altri che l'admirante smontò in terra nell'isola di Guanahani e la chiamò San Salvatore, e che qui tolse la possessione: e questo è piú certo, e che si dee piú tosto credere. E da questa isola ne venne poi a Baracoa, porto dell'isola di Cuba dalla banda di tramontana, il qual porto è dodici leghe piú verso ponente che non è la punta che chiamano Maici. Ora, qui ritrovò gente cosí dell'isola propria di Cuba, come delle altre che le stanno poste da tramontana, che sono la già detta isola di Guanahani e altre molte che ivi sono, e si chiamano l'isole delli Lucai, benchè abbiano ciascuna il suo proprio nome: come è Guanahani, Caicos, Giumeto, Iabache, Maiaguana, Samana, Guanima, Iuma, Curateo, Ciguateo, Bahama (che è la maggior di tutte), Iucaio, Nequa, Habacoa e altre molte isolette picciole che ivi sono.
Or, ritornando all'istoria, giunto l'admirante all'isola di Cuba, dove s'è detto, saltò in terra con alquanti cristiani, e dimandava a quelle genti dell'isola di Cipango; coloro per segni gli rispondevano, e gli segnalavano che era in questa isola di Haiti, che ora chiamiamo l'isola Spagnola. Credendo gl'Indiani che l'admirante non accertasse il nome che egli diceva, gli dicevano "Cibao, Cibao", pensando che per voler egli dire Cibao dicesse Cipango, perchè Cibao è quel luogo in questa isola Spagnuola dove sono le piú ricche minere e di piú fino oro. E cosí l'admirante con le tre caravelle, guidato d'alcuni Indiani che di lor volontà con lui s'imbarcarono, se ne venne da quel porto di Baracoa da Cuba in questa isola d'Haiti, che chiamiamo ora Spagnuola, e dalla banda di tramontana sorse in un buon porto, che il chiamò porto Reale. Ma nell'entrarvi toccò terra la capitana, chiamata la Gallega, e s'aperse: ma non vi perí uomo alcuno, e molti pensarono che il Colombo avesse ciò fatto studiosamente, per lasciar quivi parte della gente in terra, come poi lasciò.
Ora qui smontò con tutte le sue genti il Colombo, e tosto vennero a parlare e conversare con cristiani pacificamente molti Indiani di quella contrada, della quale era signore il re Guacanagari; che chiamano caciche in lor lingua, quello che noi diciamo re. Con costui si contrattò tosto pace e amistà, perchè egli vi venne assai volentieri, e l'admirante con gli altri suoi conversò domesticamente e spesso con lui, e gli donarono alcune cose di poco valore appresso i cristiani, ma molto dagli Indiani stimate, come sono sonagli, spilletti, aghi, e certi pater nostri di vetro di diversi colori, le quali cose il caciche e li suoi Indiani con molta maraviglia contemplando mostravano di stimar molto, e facevano molta festa quando si dava loro alcuna di queste cose; ed essi all'incontro portavano a' cristiani de' loro cibi e altre lor cose.
Veggendo l'admirante che queste genti erano cosí domestiche, gli parve di potere sicuramente lasciare quivi alcuni cristiani, perchè, mentre che esso ritornava in Spagna, apprendessero la lingua e i costumi di quelli luoghi; onde fece fare un castello quadro a modo d'uno steccato con li legni della caravella che s'era aperta in quel porto, e con fascine e terreno, il meglio che si puote, in quella costiera appresso del porto; e diede l'ordine a trentaotto uomini, che volle che quivi restassero, di quello che dovevano fare, mentre che esso portava cosí buone novelle alli re catolici e ritornasse con molte grazie per tutti; anzi di piú offeriva gran premii a quelli che quivi restavano. E a questi nominò e lasciò per capitano un gentiluomo di Cordova chiamato Roderigo d'Arane, comandando a tutti che l'ubbidissero come alla persona sua propria; e se costui fusse per disgrazia morto mentre che esso tardava a ritornare, nominò loro un altro per capitano, e per la morte di questo secondo nominò anco un terzo, e lasciò con loro un maestro, Giovanni Chirurgico, buona persona. A tutti ricordò che non dovessero entrare dentro terra né discompagnarsi dal capo loro né dividersi, né prendere donne né dare gravezza né noia alcuna agl'Indiani per niuna via, quanto lor fusse possibile.
E perchè s'era perduta la capitana, l'admirante se ne passò nella caravella chiamata la Ninna, dove andavano Francesco Martino e Vicenzo Iannez Pinzon. Ma perchè al padrone dell'altra caravella Pinta, chiamato Martino Alonso Pinzon, non piaceva che queste genti restassero, quanto egli puote vi contradisse, dicendo che era mal fatto che quelli cristiani restassero (essendo cosí pochi) tanto lontani da Spagna, perchè vi si sarebbono potuto facilmente perdere, non potendo provedersi delle cose necessarie né sostentarsi. E con queste disse molte altre parole a questo proposito, di che l'admirante si risentí molto e si crucciò. Martino Alonso, dubitando che il Colombo no 'l facesse prendere, si pose con la sua caravella in mare e se n'andò nel porto che fu poi chiamato della Grazia, venti leghe lontano dal porto Reale, verso levante. E mentre che l'admirante fu in quello edificio del castelletto occupato, s'intese d'alcuni Indiani dove Martino Alonso con la sua caravella stava.
Allora i duo fratelli Pinzoni che erano con l'admirante cercarono di ridurre il fratello nella grazia del Colombo, il quale facilmente per molti rispetti gli perdonò, e specialmente perchè la maggior parte delle genti marinaresche che seco aveva erano parenti e amici di questi fratelli Pinzoni e d'una medesima terra, e questi tre erano i piú principali, che si tiravano tutti gl'altri appresso. E gli scrisse adunque una lettera assai graziosa e come a quel proposito si conveniva, e la mandò a quel porto, che per ciò volle che si chiamasse il porto della Grazia, come fino a questa ora si chiama. E gli Indiani che la lettera portarono ritornarono con la risposta di Martino Alonso, che riputava in grazia il perdono. E cosí appontarono che in un certo dí si dovessero amendue le caravelle ritrovare insieme alla Isabella, che era un luogo per la medesima costiera, lungi da disdotto leghe da porto Reale verso oriente. Qui saltarono tutti in terra d'accordo e pacifici. Non poco si maravigliavano gl'Indiani veggendo come per mezzo di quelle lettere i cristiani s'intendessero, e però quei messi le portavano poste in certe bacchette, perchè con timore e rispetto le miravano, e credevano che qualche spirito avessero, e come gli altri uomini per qualche deità e non per arte umana parlassero.
Quando l'admirante vidde le due caravelle unite, avendo lasciati li trentaotto uomini dove s'è detto, prese acqua e legne e quel piú che poterono di vettovaglie del paese, acciochè piú lor durasse quel che di Castiglia portato avevano, e uscí di Isabella, che questo nome pose egli a quella provincia e porto, in memoria della reina donna Isabella. Indi amendue le caravelle se n'andarono al porto della Plata, che questo nome l'admirante gli pose, e poi passarono al porto di Samana, che cosí gl'Indiani lo chiamavano. E di Samana, che è pure nell'isola Spagnuola, dalla parte di tramontana, fecero le due caravelle vela alla volta di Castiglia con molto piacere, raccomandandosi tutti a Dio e alla buona fortuna delli re catolici, che aspettavano cosí gran nuove, non confidando tanto nella scienzia del Colombo quanto nella misericordia di Dio.
E in questo ritorno menò seco l'admirante in Spagna nove o dieci Indiani, perchè come testimonii della sua buona fortuna baciassero la mano al re e alla reina, e vedessero le terre de' cristiani e apprendessero la lingua, perchè poi nel ritorno nelle Indie fussero interpreti, insieme con gli altri cristiani che erano in quel castello restati, raccomandati a Goacanagari: e per questa via si potessero conversare e conquistare poi quelle genti. E come era al Signore Iddio piaciuto di fare la navigazione prospera in questo primo viaggio, perchè si ritrovassero e discoprissero questi luoghi, cosí permesse anco che fusse prospero il ritorno e a salvamento in Spagna.
E avendo prima riconosciute l'isole d'Azori, a' quattro di marzo del 1493 giunse l'admirante in Lisbona, donde poi si partí e giunse al porto di Palos, dove s'era già per questo viaggio imbarcato: e non stette piú che cinquanta dí da che partí da questa isola Spagnuola fin che prese terra in Castiglia. Ma prima che vi prendesse terra, stando già presso Europa, si separarono per tempesta le due caravelle l'una dall'altra, e l'admirante corse a Lisbona, e Martino Alonso a Baiona di Galizia, e poi tolsero amendue il cammino verso il fiume di Saltes, e casualmente v'entrarono amendue in un medesimo giorno, l'admirante la mattina e l'altra caravella la sera al tardi. E perchè Martino Alonso sospettava che per le cose passate nol facesse l'admirante prendere, montò sopra una barca della caravella e se n'andò dove gli parve secretamente. E perchè l'admirante si partí tosto alla volta della corte, con la gran nuova del discoprimento che fatto avea, Martino Alonso, tosto ch'egli l'intese, se n'andò a Palos a casa sua, dove fra pochi giorni morí, perchè molto infermo vi giunse. Stette l'admirante a riconoscere la prima terra di queste Indie nell'isole delli Lucai, come s'è detto, da che partí di Spagna quasi tre mesi, e altri tre n'andarono fra lo stare qui e 'l ritornarsi a dietro, di modo che in tutto questo viaggio fra l'andare e il venire consumò sei mesi e dieci dí, poco piú o meno.
Ma, ritornando all'istoria, il Colombo smontò in terra a Palos, con gl'Indiani che menava seco, de' quali n'era morto uno in mare: e due o tre ch'erano infermi gli lasciò in Palos, gli altri sei, che stavano sani, condusse seco alla corte delli re catolici, alli quali sperava dare cosí buona nuova in aumento de' lor regni di Castiglia. La qual nuova in cosí breve tempo non si sperava, perchè in effetto fu cosa di maraviglia quello, che s'è veduto poi, altre navi e caravelle andare e venire prima che questa navigazione fusse bene intesa; anzi fino ad oggi, che si sa e intende, avrebbon che fare due navi a fare in cosí breve tempo quello stesso viaggio; e pure allora andarono a tentoni, e sempre col piombo alla mano e abbassando le vele di notte e sempre dubbiosi, come sogliono fare i savi e prudenti pilotti quando vanno per discoprire e navigano mari che essi non sanno e che non hanno prima navigati.
Non piacerà per aventura o non sarà cosí dilettevole questa parte dell'opera mia a coloro che sogliono vivere in terra e non hanno navigato il mare. Ma abbiano rispetto che io scrivo e a questi e a quelli: tolgasi ciascuno quello che fa piú a suo proposito e gusto, e lasci l'altro per colui di cui è, che ben veggo che le genti di mare m'incolperebbono s'io non toccassi anco quello che fa per loro; e i cavallieri e le genti di terra, che non intendono alcuni termini della navigazione che io qui tocco, passino innanzi, che già questo non gli impedisce a potere proseguire commodamente il resto.
Di quattro cose notabili che avvennero nel millequattrocentonovantaduoi, e come il Colombo venne alla corte delli re catolici con la nuova delle nuove Indie, e delle grazie che gli furon fatte.
Cap. VII.
Con meno auttorità insegna chi parla le cose che ha udite che colui che dice quelle che ha vedute. Questo lo dice san Gregorio sopra Iob, e io nol reco qui a consequenzia solamente per quelli che hanno in Spagna scritte le cose dell'Indie per udita, ma lo dico perchè parlerò io qui nell'Indie di quelle di Spagna, e parrà strano ad alcuno. Ma io, se ben che qui vivo, nondimeno viddi anco con gli occhi quello che in Spagna accadette. Sí che, perchè non è fuori del proposito mio, dico che fu molto notabile in Spagna l'anno del 1492, perchè a' due di gennaio li re catolici don Fernando e donna Isabella presero la famosa città di Granata; e nella fine di luglio cacciarono dai regni loro i giudei; e a' sette di decembre, in venerdí, un villano di Remensa, terra di Catalogna, chiamato Giovanni di Cagnamares, dette in Barzellona una coltellata al re catolico nel collo, cosí pericolosa che egli fu per morirne. E di quel traditore fu fatta signalata giustizia, ancorchè, per quello che si vidde, egli fosse un matto, perchè sempre disse che se l'avesse morto sarebbe stato esso re.
Ora, in quel medesimo anno, discoperse il Colombo queste Indie, e giunse a Barzellona nell'anno seguente del novantatre, del mese d'aprile, e ritrovò il re assai debole, ma fuori di pericolo di quella ferita che avuta avea. Queste cose notabili ho voluto io recare a memoria, per mostrare il tempo nel quale giunse il Colombo alla corte: e io di ciò parlo come testimonio di vista, perchè mi ritrovai paggio e garzonetto nell'assedio di Granata e viddi fondare la terra di Santa Fede in quello esercito, e poi viddi entrare nella città di Granata il re catolico e la regina, quando i granatini s'arresero; e viddi cacciare i giudei di Castiglia; e mi ritrovai in Barzellona quando vi fu il re ferito, come s'è detto; e vi viddi poi venire l'admirante don Cristoforo Colombo, con li primi Indiani che di queste parti andassero in Spagna. Sí che non ragiono io per udita niuna di queste quattro cose, ma sí ben di vista, ancorchè le scriva di qua, dove ho i memoriali miei scritti in quel medesimo tempo.
Ma ritorniamo all'istoria nostra. Giunto il Colombo in Barzellona, con li sei Indiani che menò seco, e con alcune mostre d'oro, e con molti pappagalli e altre cose che queste genti quivi usavano, fu assai benignamente e graziosamente ricevuto dal re e dalla regina; e doppo che egli ebbe data longa relazione e particolare di quanto in questo suo viaggio passato aveva, gli fecero questi cortesi re molte grazie e lo cominciorono a trattare come persona generosa e di stato, tanto piú che l'essere di sua propria persona lo meritava assai bene. Ma al parer mio, sotto la protesta fatta da me nel primo libro, dico che si dee tenere che in queste nostre Indie fu la verità evangelica predicata, perciochè san Iacopo apostolo e poi san Paolo (come s. Gregorio ne' suoi Morali scrive) la predicarono prima nella nostra Spagna, donde poi nell'Indie la transferirono; ma l'avevano già queste genti selvaggie indiane posta del tutto in oblio, e adoravano i loro tanti idoli con le tante lor vane superstizioni; e ora sono ritornate a riconoscere questa verità santa, che tutta via non si resta di predicarvisi e d'ampliarvisi. Il che non è di poco merito appresso Iddio alla nostra nazione, che è in queste provincie cosí rimote penetrata, e posto per la via della salute tanti regni di genti idolatre e perse, mercé del primo admirante don Cristoforo Colombo, che a cosí bella impresa si mosse.
Ma lasciamo questa materia a' teologi, perchè se ne potrebbe tanto dire che se ne stancherebbono molte penne, massimamente nelle lodi de' re catolici don Fernando e donna Isabella e de' loro successori, che hanno perseverato in questo santo zelo della conversione di queste genti; perchè in effetto, per loro volontà ed espressi ordini, s'è sempre proveduto e a questo rimedio dell'anime di questi popoli rozzi, e a fare che ben trattati fussero. E se in ciò s'è punto mancato, ne sono stati i ministri solamente cagione, che venuti in queste parti per governatori o per prelati hanno poco pensiero avuto di quello che fare dovevano, benchè queste negligenzie tanto durano quanto tardano a venire a notizia o dell'imperatore o del suo consiglio reale dell'Indie, perchè tosto vi si provede con quella attenzione e amenda che si conviene. Ma io, nel vero, non voglio la cagione principale di questi inconvenienti attribuire agli officiali o ministri di cosí pia opera come è l'addottrinare queste genti indiane, ma a queste genti selvaggie stesse piú tosto, che per la loro incapacità e mala inclinazione ritornano facilmente al vomito; e rarissimi sono fra loro quelli che nella fede perseverano, perchè cosí ne saltano agevolmente a dietro, come fa il grandine che nella punta d'una lancia percuota. E bisogna che Iddio ponga in ciò la sua divina mano, perchè tanto quelli che insegnano quanto quelli che imparano abbiano a fare piú frutto di quello che fin qua fatto s'abbiano.
Ma, ritornando al nostro ordine, li sei Indiani che col Colombo in Barzellona giunsero, di lor propria volontà o pur che vi fossero consigliati, chiedettero il battesimo: e li re catolici per lor clemenzia gli fecero battezzare. E ambidue, insieme col prencipe don Giovanni, lor primogenito ed erede, furono i padrini, e chiamarono uno de' battezzati, che era il piú principale degli altri, don Fernando d'Aragona: ed era costui nativo dell'isola Spagnuola, e parente del caciche Goacanagari. Un altro ne chiamorono don Giovan di Castiglia, e agli altri altri nomi, come essi stessi chiesero o a lor padrini piacque. Ma quel secondo chiamato don Giovan di Castiglia lo volse il prencipe per sé, e lo fece in casa sua restare, e cosí ben trattare e mirare come se fusse figliuolo di qualche cavaliero principale che esso molto amasse, e lo fece addottrinare nelle cose della nostra fede, e ne diede al suo maiordomo il carico. E questo Indiano viddi io poi in stato che parlava benissimo la lingua castigliana; ma indi a duo anni morí. Tutti gli altri Indiani se ne tornarono in questa isola Spagnuola, nel secondo viaggio che fece l'admirante. Ma quelli grati e catolici prencipi fecero al Colombo segnalate grazie, e specialmente gli confirmarono il suo privilegio in Barzellona, a' 28 di maggio del 93. E fra l'altre molte cose lo fecero nobile, diedero a lui e a tutti i suoi descendenti titolo di admirante perpetuo di queste Indie, e che tutti i suoi posteri e i suoi fratelli anco si chiamassero donni, e gli diedero l'arme reali di Castiglia e di Leone mischiate e compartite con altre che di nuovo gli concedettero, approbando e confirmando le altre arme antiche del suo lignaggio: e cosí dell'une e delle altre formarono un nuovo e bello scudo, con le sue arme e divise, nella forma che qui si vede.
Questo è uno scudo con uno castello di oro in campo vermiglio, con le porte e sue fenestre azurre, e con un leone purpureo in campo d'argento, con una corona di oro in testa e con la lingua fuori, come li re di Castiglia che di Leone gli fanno; e questo castello e leone hanno da stare sopra la testa dello scudo, il castello da mano diritta e il leone da mano manca. Il resto poi di sotto ha da stare compartito in due parti: nell'una da mano diritta ha da stare un mare, in memoria del grande Oceano; l'acque hanno da essere dal naturale, azurre e bianche, che vi ha da stare posta la terra ferma dell'Indie, che occupi quasi tutta la circonferenzia di questo quarto, lasciando solamente la parte di sopra aperta e col mare, di modo che le ponte di questa terra ferma mostrino di occupare la parte di mezzodí e di tramontana. E la parte inferiore, che significa l'occidente, è la terra che con queste due punte va continuandosi; e in questo mare hanno a stare molte isole grandi e picciole di varie forme. La quale terra ferma e isole dell'Indie hanno a stare verdi, e con molti alberi che mai perdono la fronda; e si hanno a mostrare in questa terra ferma molti granelli d'oro, in memoria delle tante e cosí ricche miniere d'oro che in queste parti sono. Nell'altro quarto dello scudo, da mano manca, poi hanno da essere quattro ancore di oro in campo azurro, come insegna propriamente appropriata all'ufficio e titolo di admirante che scoperse quelle Indie. Nella parte inferiore dello scudo sono poi l'arme del lignaggio del Colombo, cioè una testa; e di qua in giú una benda overo lista azurra in campo di oro. Sopra lo scudo è poi una baviera di grandezza al naturale, con otto lumi o viste, con un torchio e dependenzie azurre e d'oro. E sopra alla baviera per cimera un mondo tondo con una croce sulla cima; e nel mondo vi ha dipinta la terra ferma e le isole, della maniera che si sono dette di sopra. E per fuori dello scudo uno scritto in uno rotolo bianco, che a questo modo dice: "Per Castiglia e per Leon, nuovo mondo trovò Colon".
Per rispetto dell'admirante, fecero medesimamente i re catolici Bartolomeo Colombo, suo fratello, adelantado di questa isola Spagnuola, la quale dignità d'adelantado è la principale e la piú degna che sia nel regno, ed è uno ufficio del regno di soprema auttorità. Gli fecero ancora molte altre segnalate grazie, che qui per evitare la prolissità si tacciono: ma ampiamente nel suo privilegio si veggono che questi prencipi gli concedettero, e che ciò ho molte volte veduto.
Del secondo viaggio che Cristoforo Colombo fece a questa isola Spagnuola, e della concessione che papa Alessandro sesto fece di queste isole alli re catolici e suoi successori; e come furono discoperte l'isole degl'Indiani chiamati Caribi, con altre cose notabili.
Cap. VIII,
Chi non sa che il Signore Iddio ci diede le cose terrene per nostro uso, e che creò l'anime degli uomini per l'uso suo, come san Gregorio sopra Iob dice? Ora a questo effetto i felici re don Fernando e donna Isabella, desiderosi della salute dell'anime di questi Indiani, fecero ritornare l'admirante don Cristoforo Colombo a questa isola Spagnuola con una buona armata, nella quale andorono alcuni cavalieri e nobili della corte del re, con altri gentiluomini desiderosi di vedere questa nuova terra e le sue cose. Ma prima che questa armata partisse, ebbero quei santi prencipi dal sommo pontefice la grazia e la concessione di queste Indie, acciochè con piú giusto titolo il santo proposito loro s'affettuasse, che era d'ampliare la religion cristiana; perchè ancor senza licenzia del pontefice potevano questa impresa esequire, per essere questi mari e imperio della conquista e corona di Castiglia, e per essersi solamente i re catolici don Fernando e donna Isabella occupati in questa santa e degna impresa, tanto piú che, come s'è detto di sopra, già molti secoli prima fu questa signoria delli re di Spagna.
Il pontefice adunque diede al re e alla regina, e a' lor successori nelli regni di Castiglia e di Leone, queste Indie con quanto è con loro annesso, tirando una linea da polo a polo per diametro, da cento leghe in là dell'isole degli Astori e di quelle di Capo Verde; sí che quanto si ritrova discorrendo da quella linea verso ponente, che non si possedesse attualmente da qualche prencipe cristiano, tutto per li re catolici si conquistava. E dopo di questo fu fra Castiglia e Portogallo di buono accordo concluso e fatto che dalle sopradette isole 370 leghe verso ponente si tirasse una linea da polo a polo, e quello che fra questa linea e l'altra detta di sopra si ritrovasse fosse di Portogallo. Onde perciò i Portoghesi interpretano che lor resta libera tutta la parte dell'oriente: ma essi in ciò s'ingannano, perchè, conforme alla bolla e donazione apostolica fatta alli re di Castiglia, si comprendono tutte l'isole delle Speciarie e di Maluco e Brunei, dove si coglie la cannella con tutte l'altre spezierie, e tutto quel piú del mondo che è fin che si ritorna per l'oriente alla prima linea che s'è detta di sopra, tirata da polo a polo cento leghe dall'isole degli Astori e di Capo Verde: e tutto questo, come s'è detto, cade nella parte concessa alli re catolici e alla corona di Castiglia.
Ma perchè tutte queste cose stanno approbate dal romano pontifice, non bisogna dirvi altro se non che io ho veduto un transunto autenticato e sigillato della bolla apostolica, fatta a' 4 di maggio del 1493. Ora, secondo che il papa nella sua bolla e donazione apostolica ordinava, sopra la cura che doveva aversi nel convertire alla santa fede le genti dell'Indie, andorono col Colombo nel secondo viaggio persone religiose e di santa e approbata vita e letteratura, fra li quali fu a questo effetto eletto fra Buil di Catalogna, dell'ordine di san Benedetto. E a costui il pontifice diede pienissima potestà per lo governo della Chiesa in queste parti dell'Indie, perchè vi fosse capo degli altri clerici e religiosi che allora vi passarono, per servire al culto divino e alla conversione di questi Indiani. E vi portarono costoro paramenti, croci, calici, imagini, e tutto quello che era necessario per le chiese che fare vi dovevano. E nella sopradetta bolla apostolica il papa comandò in virtú di santa obedienzia al re e alla regina che avessero dovuto a questo effetto mandare in queste Indie persone da bene e tementi Iddio, e dotti ed esperti, per instruire e insegnare a questi nuovi popoli la santa fede e i buoni costumi con ogni diligenzia debita.
E i re catolici, desiderosi di compire a questa giusta e santa volontà del papa, per tutti i regni loro cercarono di queste persone atte e sofficienti, cosí ecclesiastiche come secolari: onde l'admirante partí con una bella armata e con una fiorita e nobile compagnia. E nella città di Siviglia si adunò la gente per questa armata, e le navi e caravelle nella badia di Calis; e dato l'ordine a tutti i capitani, nocchieri e pilotti del camino che tenere dovevano, con la buona ventura in mercordí, a' 25 di settembre del 1493, fece la capitana vela, e dietro a lei tutte l'altre caravelle e navi, ch'erano in tutto 17 vele; e vi andarono mille e cinquecento uomini da far fatti, tutti bene in ordine e provisti d'arme, munizioni, vettovaglie, e d'ogni altra cosa necessaria. E tutte queste genti andorono al soldo del re. Andorono in questa armata persone religiose e cavalieri e gentiluomini onorati, quali si convenivano per dovere popolare nuove terre, e coltivarle santamente e rettamente nello spirituale e nel temporale; e vi erano molti creati della corte del re. E io viddi e conobbi tutti i principali di questa armata, e ne sono fino ad oggi alcuni vivi in queste Indie e in Spagna, benchè assai pochi siano.
Ritornando all'istoria, l'admirante, come destro in questa navigazione per l'isperienzia del primo viaggio, tenne in questo secondo piú dritto e piú giusto il pennello, onde la prima terra che ritrovò e riconobbe fu una isola, che egli, tosto che la vidde, la chiamò Desiata, per lo desio ch'esso e tutti gli altri della sua armata aveano di veder terra. Poco appresso vidde medesimamente un'altra isola, e la chiamò Marigalante, perchè cosí si chiamava la capitana su la quale il medesimo admirante andava. Egli pose anco il nome a tutte l'altre isole che sono in quel pareggio da polo a polo. Dalla banda di tramontana la prima e piú vicina isola è Guadaluppe, e cosí poi l'altre di mano in mano, la Barbata, la Aguglia, il Sombrero e molte altre; e verso ponente molte isolette chiamate le Vergini; e piú oltre è l'isola di Borichene, che ora la chiamano di San Giovanni, ed è una assai ricca isola e delle piú notabili, come si dirà appresso al suo luogo. Dalla parte poi di mezzogiorno, alla già detta isola Desiata quella che le è piú vicina è l'isola Domenica, che questo nome l'admirante le pose perchè di domenica la vidde. Tutti li Santi è un'altra isola, e piú verso mezzodí sta Matinino, che alcuni scrittori han detto che stesse popolata d'amazoni, con altre lor cose favolose che scrivono: perchè s'è poi ben ritrovata la verità, veggendosi questa con l'altre isole che le sono a pari, che né a questi tempi né ad altri che si sappia furono mai da donne abitate. Vi sono anco qui altre isole, come è S. Lucia, San Cristoforo, li Barbati, e altre che non fanno al proposito, perchè sono molte e picciole. Ma quando si dirà del discoprimento di terra ferma, diremo d'alcune altre che sono fra queste che si sono dette e tra terra ferma, come è Cibucheira, che noi cristiani chiamiamo Santa Croce; e Pietro Martire nella sua prima deca la chiama Ai Ai.
E quelle che sono al pari di questa, tutte o la maggior parte si abitavano da Indiani arcieri chiamati Caribi, che nella lingua indiana non vogliono altro dire che bravi e arditi. Questi tirano le lor frezze con una erba cosí pestifera e velenosa che non vi ha rimedio alcuno, e quelli che ne vengono feriti muoiono arrabbiati, e fanno molti motivi e si mordono le loro proprie mani e carni per lo dolore immenso che sentono. E quando ne scampa alcuno è solo per soprema deità e diligenzia d'alcune medicine appropriate contra il veleno, benchè fino a questa ora poche qui se ne veggano che vi giovino; e pare che questo sia piú vero, che quando alcuno ne guarisce e perchè l'erba è fatta di molti tempi innanzi, o perchè vi manca qualche uno de' materiali venenosi de' quali si compone, come si dirà appresso, perchè in diverse parti diversa maniera tengono gl'Indiani nel comporre questa erba.
Questi Caribi mangiano tutti carne umana, fuori che quelli dell'isola di Borichene: benchè di piú di questi dell'isole la mangiano anco in molte parti di terra ferma, come al suo luogo si dirà. Scrive Plinio che questo medesimo fanno nella Scizia gli antropofagi, anzi, di piú del mangiar carne umane, dice che bevono con le cocche delle teste degli uomini morti, delli cui denti e capelli si fanno collane, e le portano poi appese al collo per ornamento: e io di queste cosí fatte collane ne ho veduta alcuna qui in terra ferma dell'Indie. Ma di questi e altri strani costumi di queste genti si dirà appresso.
Ora, ritornando all'istoria, dico che, avendo l'admirante con la sua armata riconosciuta l'isola Desiata, con l'altre che si sono dette, seguendo il suo viaggio fra queste isole, doppo che ebbe presa acqua in una di loro, passando innanzi riconobbe l'isola del Borichene, che ora di San Giovanni diciamo, e che è la principale dell'altre che le son presso (e al suo luogo se ne ragionerà particolarmente). Né creda alcuno, come hanno alcuni scritto, che l'admirante in questo secondo viaggio discoprisse tutte l'isole che si sono dette, perchè, se bene esso ritrovò la Desiata, e l'altre che con veder questa bisognava anco vedersi, per essere cosí vicine l'una all'altra, col tempo poi nondimeno si ritrovarono e conquistarono da diversi capitani, continovandosi la navigazione di questi mari. Ritornando al proposito dico che, passando questa armata per l'isola di San Giovanni, ne venne a questa che chiamiamo Spagnuola, e vi prese porto nel mese di decembre del 93, nel porto d'Argento, che è dalla banda di tramontana. E indi poi navigando verso occidente giunse all'Isabella, e indi poi a Monte Cristo, dove signoreggiava il re Goacanagari, che è dove ora si chiama porto Reale.
Era questa contrada posseduta da un fratello di questo re, e qui erano restati li trentaotto uomini che l'admirante nel suo primo viaggio vi lasciò, e che erano stati tutti morti dagl'Indiani, i quali non avevano potuto sofferire i loro eccessi, perchè toglievano le mogli e se ne servivano a lor volontà, e facevano loro anco altre violenzie e oltraggi, come gente disordinata e senza capo. E s'erano già separati ad uno ad uno, a due a due e al piú a tre e a quattro insieme, e s'erano isviati per diverse parti dell'isola a dentro, sempre il loro disordine continovando, intanto che gli Indiani, quando a questo modo gli viddero divisi, perchè anco credevano che né l'admirante né cristiani vi fussero dovuti ritornare giamai, deliberarono d'ammazzargli, e cosí fecero. Fu anco di ciò cagione l'essere naturalmente le genti di queste contrade di poca o nulla prudenzia, perchè non hanno rispetto alcuno alle cose future.
Or l'admirante dagl'Indiani istessi intese la morte de' suoi che lasciati avea, e per questo tosto se ne ritornò in Isabella, e vi fece una terra che pure Isabella chiamò, in memoria della serenissima e catolica reina donna Isabella, e la popolò delle mille e cinquecento uomini che conduceva. E questa fu la seconda popolazione de' cristiani che in queste isole si fece, e particolarmente in questa Spagnuola: e fino al 1498 durò quella republica della città Isabella, che poi fu del tutto transferita a questa città di San Domenico, come appresso si dirà.
Ma acciochè non participiamo anche noi altri della colpa degli antichi, che seppero queste isole (se sono le Esperidi, come io credo che siano per quel che s'è detto) e non ci lasciarono il modo di questa navigazione scritto, prima che ad altro passiamo sarà bene che di ciò ragioniamo alquanto, perchè non si possa in tempo alcuno perdere mai piú questo camino, il qual si fa della maniera che nel seguente capitolo si dirà, secondo l'altezza del sole e della Tramontana e la regola delle carti moderne e l'isperimentata cosmografia.
Del viaggio che si fa di Spagna a queste Indie, e del modo che in questa navigazion si tiene; e dell'albero maraviglioso dell'isola del Ferro, che è una di quelle che chiamiamo ora le Canarie.
Cap. IX.
Nella città di Siviglia tiene l'imperatore e re nostro signore la sua casa reale de' contrattamenti per queste Indie, con gli suoi ufficiali, davanti a' quali si registrano le navi, le caravelle e le mercanzie, con tutto quello che a queste parti viene; e con lor licenzia s'imbarcano le genti, con li capitani e nocchieri, nel porto della terra di San Lucar di Barrameda, dove si scarica nel mare Oceano il fiume di Guadalchibir, chiamato dagli antichi Betis, da Beto, sesto re di Spagna, come vuol Beroso. E da questo luogo seguono poi il lor viaggio per l'isole di Canaria, dette dai cosmografi Fortunate, che sono queste: Lanzarotte, Forteventura, Grancanaria, Tenerife, La Palma, La Gomera, l'isola del Ferro; delle quali fa menzione Solino e piú copiosamente Plinio, ancorchè non ne scriva cosí particolarmente come oggi ne sappiamo, massimamente del miracolo dell'isola del Ferro, che egli Ombrio chiamò. E perchè è cosa molto notevole, dirò quello che ne ho inteso da persone degne di fede, senza che la cosa è assai nota e chiara.
Non ha l'isola del Ferro acqua alcuna dolce, né di fiume, né di fonte, né di lago, né di pozzo, e nondimeno si abita, perchè il Signore Iddio d'ogni tempo la provede di acqua celeste, senza altramente piovere. E a questo modo: ogni dí dell'anno, una o due ore prima che sia dí chiaro, finchè il sole monta su, suda uno albero che ivi è, e dal troncone e dai rami e dalle fronde cade molta acqua; e in quel tempo sempre si vede stare sopra questo albero una picciola nuvola o nebbia, finchè a due ore di sole o poco meno si disfa e sparisce, e l'acqua manca di gocciolare. E in questo tempo, che può esser da quattro ore, si raduna tanta acqua in una laguna fatta a mano, a piè di quello albero, che basta per tutte le genti dell'isola e per tutti li lor bestiami e greggi; e questa acqua che a questo modo cade è ottima e sana.
Questa isola e quella della Gomera sono del conte don Guillen Perazza, vassallo di sua maestà; tutte l'altre cinque sono della corona reale di Castiglia, eccetto che quella di Lanzarotte, che è d'un cavalliero di Siviglia, chiamato Fernando Arias di Saiavedra. Questa del Ferro è piccola, e io la ho già veduta tre volte venendo a queste Indie; corre levante e ponente con il picciol mare, che chiamano in Affrica, ed è posta 27 gradi e mezzo dall'equinoziale, dalla banda del nostro Polo Artico.
Ma, ritornando al nostro viaggio di queste Indie, dico che in una di queste sette isole, e spezialmente nella Gran Canaria o nella Gomera o nella Palma (perchè stanno piú al diritto e piú al proposito, e sono fertili e copiose di quanto bisogna per questo viaggio provedersi), prendono le navi rinfrescamento d'acqua e di legna, di pan fresco, di galline, di castrati, di capretti, di vacche vive e di carne salata e cacio, e di pesce salato, cioè tonina e pagri, e d'altre simili cose, che bisogna sopplire a quel che di Spagna si porta. Quello spazio e golfo di mare che è da Castiglia a queste isole si chiama il golfo delle Cavalle, per le tante che state gettate vi sono, perchè, essendo questo mare assai piú tempestoso e piú pericoloso che non è quello che segue poi fino all'Indie, nel principio che si cominciorono ad abitare da' cristiani queste contrade avenne che, conducendosi gli animali e le cavalle spezialmente di Spagna nell'Indie, la maggior parte di loro per tempesta in quel golfo restarono, o perchè nel viaggio si morirono e vi furon gettate; onde per questa difficultà del passarle incominciorono i marinari a chiamarlo il golfo delle Cavalle, e con questo nome si restò poi, perchè quelle cavalle che giungevano alle isole di Canaria vive, si tenevano già per navigare e poste in salvo. Avrebbono potuto anco chiamarlo il golfo delle Vacche, perchè per la medesima via non men vacche che cavalle vi perirono.
Tardano le navi a venire di Spagna fino a queste isole otto o dieci dí, poco piú o meno ordinariamente, e quando sono qui, cioè fino all'isola del Ferro, hanno navigato 250 leghe, perchè dal dritto di questa isola si toglie pareggio al diritto, per venire a queste Indie. E a vista di questa isola si segue il camino per giungere all'isola Desiata, o ad alcune delle altre che in quel pareggio sono; e si tarda a fare questo camino da quella del Ferro alla Desiata, o a Tutti i Santi, o ad altre delle convicine, 25 dí, poco piú o meno, secondo che si ha il tempo o secondo la prudenzia del pilotto in saper ben guidare il suo legno; benchè sia alcuna volta accaduto a passare innanzi le navi di notte, o forzate dal tempo o per star l'aere nubiloso, senza vedere niuna di queste isole, fino all'isola di S. Giovanni o a questa Spagnuola o a quella di Iamaica, che ora di S. Giacobo chiamano, o per aventura anco fino a quella di Cuba, che è posta piú verso ponente dell'altre che si sono dette; e qualche volta anco, per disgrazia o colpa de' pilotti e de' marinari, qualche vassello senza toccare né vedere alcuna di queste isole se n'è passato di lungo fino a terra ferma: ma pochi sono di costoro che si salvano. Quando questo viaggio si fa con pilotto esperto e destro (come ve ne sono molti), quasi sempre si riconosce qualche una delle prime isole già dette.
E fin qua si navigano dall'isole di Canaria 750 leghe, benchè in alcune carte da navigare chi ne pone qualche poco piú, chi qualche poco manco, che in effetto poca è differenzia che col numero che io ho detto fanno. Dalle prime isole che si trovano fino a questa città di San Domenico dell'isola Spagnuola si navigano altre 150 leghe, di modo che da Spagna fin qua sono 1150 o 1200 leghe. E questo è secondo le carte da navigare che oggi si tengono per piú corrette e per migliori, perchè nelle altre carte passate solevano fare questo viaggio di 1300 leghe e piú anco; ma perchè ogni dí si va meglio intendendo, si tiene dalla maggior parte per piú vero il primo numero che abbiamo detto, di 1200 leghe. È il vero che, per cagione della calamita che gregolizza o maistrizza, cosí nel giudicare questo diffetto del bossolo, come per le continove mutazioni de' tempi e correnzie dell'acque, si sogliono piú leghe porre in questo viaggio di quello che s'è detto molte volte nel venire a queste parte; ma assai piú spesso nel ritorno in Spagna, perchè altra navigazione bisogna fare e altro pennello tenere nel venire in queste isole, e altro nel ritornare poi in Europa, come qui appresso diremo.
Perchè si viene comunemente di Spagna a questa città di San Domenico in 35 o 40 dí (lasciando gli estremi di quelli che assai piú tardano o che piú presto vi vengono, perchè io non dico se non quello che per le piú volte accade), e nel ritorno vanno poi di qua in Castiglia in 55 dí, poco piú o meno: benchè nel 1525, stando la maestà cesarea in Toledo, due caravelle, partendo da questa città, in 25 dí entrarono nel fiume di Siviglia. Ma non si ha da prendere questo esempio, che rade volte accade, poichè non si debbono seguire gli estremi, ma quello che ordinariamente aviene: perchè solevano anco le navi tardare a ritornare in Spagna tre e quattro mesi, mentre che si forzavano fare il cammino e tenere il pennello che nel venire in qua fatto e tenuto avevano, onde qualche volta vi pericolavano e vi ponevano doppio tempo; il che si è ora meglio inteso, e i pilotti che si sono in questa navigazione piú addestrati lasciano correre i loro legni alla volta di tramontana, e vanno a trovare l'isola Bermuda, che la Garza anco si chiama, e sta in 33 gradi, 7 e alle volte la veggono, alle volte no. Ma quando in questa altezza del polo i vasselli si trovano, lasciano il pennello che fin là tenuto hanno alla volta di tramontana, e si voltano a correre verso levante, perchè questa isola delle Garze sta levante ponente con Azamor in Affrica; e d'Azamor a San Lucar, dove entra Guadalchivir in mare, sono da 80 leghe. E questa maniera di navigare ci mostrò l'isperienzia, perchè, doppo che le navi si pongono nelli 33 gradi dell'altezza del polo, hanno ordinariamente i venti di maestro e tramontana, co' quali vanno piú presto che per l'altra via che qui vennero le navi. Io son stato un tiro d'artigliaria lontano a quella isola di Bermuda o delle Garze, correndovi con la nave su la quale io era a otto braccia di fondo.
L'isola è picciola, e si crede che sia disabitata; e io andava con determinazione di farvi smontare dieci o dodeci giovani armati, perchè vi gettassero mezza dozina di porci e scrofe, di quelli che noi per nostra munizione portavamo, acciochè fussero nell'isola moltiplicati, e avessero a qualche tempo potuto servire per far carne. Ma mentre che io stava per fare gettare il battello in mare, ci sopragiunse un tempo cosí contrario al proposito mio che ci sforzò e disviò del cammino che io fare voleva. Non è questa terra molto alta, benchè abbia una schiena piú alta che tutta l'altra terra, e vi sono molti cocali e altri uccelli di mare e pesci che volano, de' quali al suo luogo si parlerà. Ha questa isola i due nomi già detti, perchè la nave che la discoprí si chiamava la Garza, e il capitano di questo legno si chiamava Giovan Bermudez, che era di Palo.
Molti pericoli accadettero ne' primi anni che queste Indie si ritrovarono, cosí nel venirvi come nel ritornare in Castiglia, e medesimamente poi in quest'altra navigazione di terra ferma. E ogni dí a quelli che vi navigano accadono cose notabili; onde, perchè vi sono avvenute cose segnalate d'alcuni che ne sono miracolosamente scampati, nell'ultimo libro ne diremo qualche cosa, acciochè qui non s'interrompa la materia di questo cammino che si fa di Spagna, il quale tutti quelli che l'hanno piú volte fatto, e che sono di grande esperienzia nelle cose di mare, affermano che sia la piú sicura navigazione che essi sappiano che nel mare Oceano si faccia. Le navi che da questa isola Spagnuola partono, o che vi toccano per passare oltre, in sette o otto o dieci dí giungono in terra ferma, secondo dove vi vanno a dare a porto, perchè la terra ferma è grande, e perciò quelli che vi vanno varii pareggi tengono. Ma perchè non è ancor tempo di ragionarne del suo discoprimento, lo serbiamo per quando sarà tempo al suo luogo.
Questo solamente dirò qui, che chi dall'isola del Ferro si parte (che è una delle Fortunate o Canarie, cosí notabile per causa della sua acqua) per andare a terra ferma dell'Indie, e a trovar quel gran fiume che chiamano Maragnone, navigarà 600 leghe o manco, come potrà meglio intenderlo chi serà curioso per la moderna e sperimentata cosmografia di quest'Indie; poichè Tolomeo, antico e vero cosmografo, non parlò di questa terra ferma cosa alcuna, e quel che s'è detto di sopra dell'auttorità d'Aristotele, Solino, Plinio e Isidoro, fu solamente dell'isole Esperidi e non della terra ferma. Il che io dico con protesto d'emendarmi per coloro che altra cosa letta ne avessero, perchè io per me ben credo che don Cristoforo Colombo, primo admirante, non si movesse a discoprire questi luoghi a lume di paglia, ma con auttorità chiare e vera notizia di questi luoghi. E per sodisfare particolarmente a quello che a questo viaggio tocca, dico che quelli che sapranno ben misurare ritroveranno che l'isola Desiata, che è la prima che vanno a ritrovare le navi che vengono di Spagna in queste Indie, si ritrova posta a 14 gradi della linea equinoziale, dalla parte del nostro Polo Artico; e l'altre isole a questa Desiata vicine sono tutte nell'orizonte del medesimo polo, alcune alli lati della Desiata verso mezzodí, e altre alla parte settentrionale, secondo che nel quarto capitolo s'è detto. Questa isola Spagnuola, dalla parte che mira all'austro, e specialmente in questa città di San Domenico, è distante dall'equinoziale 18 gradi, e dalla parte o costa di tramontana ne è 20 gradi, e in alcuna parte poco piú, in altra assai meno, secondo che si va l'isola allargando o restringendo; sí che la maggior sua latitudine è da 18 a 20, di modo che potrà essere di 37 leghe la sua larghezza; la lunghezza poi è di 120 o di 130 leghe, poco piú o meno. Dell'altre isole e della terra ferma ne' loro proprii luoghi ragionerò piú a lungo.
Alcuni di coloro che intendono bene la cosmografia, e la disputano e insegnano compiutamente stando in terra, e non l'hanno sperimentata né la sanno per vista, diranno qui che io ho fatto un grande errore nella pratica di questo viaggio, perchè ho detto che l'isola del Ferro, onde si dà principio a questo viaggio, sta posta in 27 gradi e mezzo; e che l'isola Desiata, che è quella che le navi vanno prima a ritrovare, sta in 14 gradi; e che questa isola Spagnuola, dalla parte di mezzogiorno e dove è apunto questa città di S. Domenico, sta in 18 gradi; e che il piú largo di questa isola dalla parte di tramontana sta in 20 gradi. Di modo che pare che al manco s'abbassano 4 gradi piú di quello che si converrebbe, per prendere navigando questa isola, e ogni grado da polo a polo occupa 17 leghe e mezza, in tanto che 70 leghe si discostano navigando dal parallelo di questa isola Spagnuola e la lasciano dalla parte di tramontana. E cosí è il vero. Ma se chi toglie li diciotto gradi non s'abbassasse fino a' 14, errarebbe molto in questo, navigato che egli avesse 20 giorni con mediocre tempo, perchè senza pigliarlo andarebbe con li 18 gradi a dar nell'isole che chiamano le Vergini, o piú fuori anco, dove sono molte secche e pericolose entrate fra l'isole; e se si ritrovasse nelli 19 o nelli 20 gradi, per aventura, con ogni poco di tempo contrario e per li diffetti del bussolo (che nel cap. seguente si diranno) non toccarebbe questa isola, e per le correnti andrebbe a dare nell'isole delli Lucai o nell'isola di Cuba, come all'admirante nel suo primo viaggio avenne. Sí che, per fuggire molti inconvenienti e pericoli, e perchè è piú sicura l'entrata dell'isole ne' 14 gradi fino a 15, si debbono a questo numero attenere, forzandosi sempre che sia da 15 a basso, perchè, doppo che le navi si trovano entrate per questo parallelo fra l'isole della Desiata e dell'Antica, che chiamano, e fra l'altre che ivi sono, fanno assai presto il restante del camino, per cagione delle correnti, e prendono con gran piacere questa isola.
Questo che io ho qui detto non si può imparare in Salamanca né in Bologna né in Parigi nelle scuole, ma solamente nella catedra della gelosia, che è quel luogo dove va posto il bussolo da navigare, e col quadrante in mano, togliendo ordinariamente in mare le notti la stella e li dí il sole con l'astrolabio, perchè, come si dice in Italia: "Altro ci vuole a tavola che tovaglia bianca". Voglio dire che la navigazione vuole altro che parole, perciochè, come ancorchè i mantili siano bianchi, non però con questo solo i convitati mangieranno, cosí non perchè uno studi cosmografia e la sappia meglio che Tolomeo saprà però navigare finchè non la ponga in uso, come né anco chi legge medicina curerà ben l'infermo finchè non abbia la pratica di conoscere il polso e i termini e gli accidenti dell'infermità. A questo modo il pilotto esperto, mirando al polso del suo bussolo, che è quella calamita temperata nel ferro, conoscerà la Tramontana, e con il quadrante la sua altezza, e dall'astrolabio quella del sole, e dalla sperienza intenderà e saprà come ha da moderare le vele e da governare i suoi marinari, e dal piombo imparerà la profondità dell'acque, essendosi infin dalla sua fanciulezza allevato nel mare, di modo che li resti fisso questo essercizio nel cuore quanto la sua natura e ingegno ve l'aiutano. Perciochè, ancorchè piccoli entrino nell'arte, non riescono però tutti i pilotti, come quanti vanno a studiare non riescono tutti dottori. Si può adunque tenere per cosa certa che chi non s'allieva nel mare da fanciullino non può riuscire marinaro perfetto: e con questo s'accorda un proverbio cortegiano, che chi non fu paggio sempre puzza di mulattiero. Voglio dire che, come da fanciulli si hanno da creare in corte li paggi, perchè diventino ben creati e gentili cortegiani e non rieschino grissoni, cosí quelli che hanno da essere marinari di prova e atti pilotti bisogna che dalla fanciullezza comincino a soffrire e patire i disagi e i travagli del mare, per non isbigottirsi né invilirsi nel tempo delli pericolosi naufragii. E questo basti quanto al camino e quanto al secondo viaggio che l'admirante Colombo fece, continovando il discoprire di queste nuove terre.
Del crescere e mancare del mare Mediterraneo; e del mare Oceano, dove cresce e manca quanto il Mediterraneo, e dove assai piú.
Cap. X.
Poi che abbiamo trattato dell'esercizio del navigare e di questi mari di qua, non è giusto che si lasci a dietro quello che ora qui si dirà che io ho veduto del mare Oceano, nel flusso e reflusso che fa, nel suo mancare e crescere, perchè fino a questa ora niun cosmografo, né astrologo, né esperto nelle cose di mare, di quanti ne ho io dimandati, mi ha sodisfatto, né data conveniente ragione della vera causa che opera quello che io ho con gli occhi miei molte volte veduto. E quello che io dire voglio è questo.
È cosa segnalata quel famoso stretto di Ghibilterra, dove sono que' duo monti che le favole dicono che Ercole tebano aperse, e che sono chiamati Abila e Calpe, l'uno dalla parte dell'Affrica, l'altro dalla parte d'Europa; e per questa cosí stretta bocca si congiunge il mare Mediterraneo col mare Oceano. Or, da questa bocca andando verso levante, tutto il mare Mediterraneo, con quanta acqua salsa qui si rinchiude fra l'Affrica, l'Asia e l'Europa, non cresce né manca communemente piú di quello che in Valenzia, in Barzellona o in Italia si vede, e quando qualche poco esce dall'ordinario (che assai poco è), non è per altro che per qualche segnalata fortuna; ma tosto che quella tempesta cessa, ritorna l'acqua a' suoi termini, e come ordinariamente si vede nel tempo di primavera. Ma dallo stretto di Ghibilterra in fuori, questo mare Oceano cresce e manca molto nella costiera d'Africa e d'Europa, come l'hanno veduto e veggono ogni dí quelli che mirano il mare per la costiera d'Andalusia, di Portogallo, di Galizia, d'Asturia, di Viscaia, di Normandia, di Bertagna, d'Inghilterra, di Fiandra, di Alemagna, con tutto il resto posto sotto Tramontana: e in questi luoghi in grandissima maniera manca e cresce l'oceano.
Dico di piú, che navigando questo stesso mare Oceano da quelle parti dove ho detto che tanto manca e cresce, e venendo all'isole di Canaria, cosí in queste come nell'isole di queste Indie che ho dette di sopra, e con la sua terra ferma anco dalla parte che a tramontana riguarda, per piú di tremila leghe di costiera, a punto non vi cresce né manca l'acqua del mare piú di quello che s'è detto che si faccia in Barzellona e negli altri luoghi del mare Mediterraneo, in tanto che a questo modo né vi cresce né vi manca il mare in quest'isola Spagnuola, né in quella di Cuba, né in alcuna dell'altre che si sono dette di sopra, se non come si vede fare ne' mari d'Italia; che è pochissimo rispetto a quello che veggiamo farsi nelle marine di Fiandra, d'Inghilterra e degli altri luoghi che si sono detti. Il che si dee bene dal lettore notare, perchè meglio intenda quello che qui appresso seguirà.
Dico appresso che questo istesso mare Oceano cresce e manca incredibilmente nella costiera della terra ferma dell'Indie che a mezzogiorno riguarda, incominciando dalla città di Panama e seguendo verso levante o verso ponente, con l'isole delle Perle e di Taboga, con tutte l'altre che chiamano di San Paolo, e che sono in quel mare da mezzogiorno verso ponente, per piú di 300 leghe che io ho navigato per quelle costiere. E vi cresce e manca tanto il mare che quando si ritrae pare che si perda di vista in alcuni luoghi: però in effetto due leghe o poco piú sono che si scosta dal lito il mare in alcune parti dalla città di Panama verso la costiera di ponente, e questo l'ho io veduto molte migliaia di volte. Vi ha in questa stessa materia un'altra cosa notabile e maravigliosa piú che la prima, perciochè dal mare di Tramontana a quel di Mezzodí (che ambidue da opposite parti della terra ferma delle Indie percuotono) vi è pochissima distanzia, perchè dalla città del Nome d'Iddio, che sta da questa parte di terra ferma verso tramontana, fino alla città di Panama, che sta in questa stessa terra ferma dalla parte opposita verso mezzodí, non sono piú di 18 o 20 leghe, che se la terra fosse piana e non montuosa e aspra come ella è non sarebbono 12. E nondimeno in cosí poca distanzia, essendo e questo e quello mare Oceano, vi si vede tanta differenzia nel crescere e nel mancare dell'acque quanta s'è detta; onde questa è certo cosa da contemplarsi e specularsi da coloro che sono inclinati a dovere simili secreti intendere, e cose di tanta maraviglia.
Io ho praticate e ragionate queste cose con persone di gran litteratura, e non mi hanno sodisfatto, o perchè nol sanno, o perchè non gliele ho io saputo dare ad intendere, e non l'hanno essi come io veduto. Io per me mi quieto in questo, ricordandomi che Colui che è cagione di queste cose di tanta maraviglia, sa dell'altre anco oprare cosí incomprensibili che senza speziale grazia non si concede all'intelletto umano d'intenderle. Io ho qui posta questa questione come testimonio di vista, né fino a questa ora sono ancora stato degno d'intenderne la soluzione; e certo che gran piacere avrei vederla decisa. Ho veduto quello che ne dice Plinio nel suo secondo libro, che del crescere e mancare del mare ne sono cagione il sole e la luna, e assegna perciò alcune ragioni del corso di questi pianeti. Dice anco che il crescere del mare Oceano è maggiore di quel del Mediterraneo, e che di ciò può esser la cagione l'essere piú animoso nel tutto che nella parte, o che la sua grandezza piú sparsa piú senta la forza del pianeta, che può piú stendervisi. Dice anco appresso che in alcuni luoghi fuori di ragione cresce e manca il mare, perchè non nascono i pianeti in un tempo stesso in tutte le terre, e perciò aviene che il crescere del mare non è d'una maniera per tutto; onde dice che nel tempo e nella forma questa differenzia consiste, perchè in alcuni luoghi vi ha una spezial natura o moto, come nell'isola di Negroponte si vede, che sette volte il giorno vi va e viene il mare, e vi sta fermo tre dí del mese, che sono il settimo, l'ottavo e il nono della luna.
Questo, con l'altre cose che Plinio in questa materia tratta, sono certo molto notabili, ma a me non pare che il sole e la luna siano la cagione della cosí gran differenzia che è del crescere e mancare del mare nella città del Nome d'Iddio, e in tutta la costiera di terra ferma da tramontana, rispetto a quello che cresce e manca nella città di Panama e nella sua costiera di mezzogiorno, per essere cosí poca distanzia dall'una città all'altra. Non mi sodisfa né anco Plinio dicendo che il crescere e mancare dell'oceano sia maggiore di quello del mare Mediterraneo, poichè non condescese a particularità, ma disse generalmente in tutto l'oceano: perchè veggiamo avvenire il contrario, che essendo tutto uno oceano, in Spagna vi cresce e manca molto, e in queste isole dell'India e per tutta la costiera di terra ferma da tramontana cosí poco, e della costiera di mezzogiorno tanto quanto s'è detto. Né mi sodisfa quando dice che ne è cagione il non nascere i pianeti in un tempo istesso in ogni contrada, né lo concedo che consista nel tempo questa differenzia, ma credo piú tosto che consista nella forma e nell'avere alcuni luoghi una speziale natura o moto; non già, come egli vuole, che nell'isola di Negroponte avenga, perchè quello che esso di questa isola scrive io il tengo incomprensibile all'ingegno umano, e penso che sia necessario che sia illuminato di sopra colui che vuole a questo secreto giungere, che sette volte il dí vi cresca e manchi il mare e che vi stia fermo tre dí del mese. Questa isola di Negroponte, che è nell'arcipelago, dice Plinio che fu distaccata dalla terra ferma della Boezia, con la quale era congiunta, come dice che avenne anco alla Sicilia, che era con l'Italia unita. Ho detto che al parer mio questo nasce dalla forma e dall'avere alcune parti del mondo una speziale natura: questo non lo intendo io a quel modo che Plinio pensava, e perciò io qui dirò quello che io di questo secreto penso overo sospetto.
Dallo stretto che nella terra ferma dell'Indie discoperse il capitano Fernando di Magaglianes (di che al suo luogo si farà piú particolare menzione), da questa bocca, dico, e ponta sua chiamata l'arcipelago del capo Desiato, fino a Panama (tirandovi una linea retta) sono piú di mille leghe: che assai piú seranno quando sarà del tutto quella costiera di mezogiorno scoperta, per le ponte e capi che si spargeranno in mare. Dura in longo questo stretto cento e dieci leghe, e ha di larghezza due overo tre leghe, e in qualche parte fino a sei, di modo che in un canale cosí grande e cosí stretto, e di terre cosí alte come si dice che amendue le sue costiere sono, si dee credere che l'acque che qui entrano nel mare di Mezogiorno con suprema velocità e impeto correranno; che cosí l'ho inteso dire dal capitan Giovan Sebastiano del Cano, che per quello stretto entrò con la nave Vittoria e andò alla Speziaria correndo verso ponente, e si voltò poi per levante, sí che questa nave andò quanto il sole va per quel parallelo, come al suo luogo si dirà. Il medesimo ho udito da Fernando di Bustamento e da altri gentili uomini che con quella nave andarono e ritornarono: e questi furono i primi che si sappia che abbiano mai quel cammino fatto e aggirato il mondo. È poco fa che piú particolarmente l'intesi da un clerico sacerdote, che poi in un altro viaggio passò per lo medesimo stretto. Sta questo stretto posto in 52 gradi e mezzo dallo equinoziale dalla parte del polo antartico, e la città di Panama sta in otto gradi e mezzo dall'equinoziale dalla banda del nostro polo artico.
Dirimpetto a Panama e per quelle costiere di mezzogiorno sono poste verso ponente molte isole, alcune presso terra ferma, alcune altre alquanto piú remote. Per la forma adunque e sito, tanto di queste isole come della terra ferma, penso io che le grandi correnti si causino, e che questa disposizione e del mare e della terra sia cagione che tanto vi cresca e manchi il mare. Ma contra a questo si potrebbe dire che, quando si viene di Spagna in queste Indie, si incontrano le prime isole, come sono la Marigalante, la Desiata e l'altre molte che in quel pareggio sono, che occupano piú di cento e cinquanta leghe di longo da tramontana a mezzogiorno (anzi occupano tutto quello che è dall'isole che chiamano Vergini fino al golfo della Bocca del Drago e della costiera di terra ferma), e nondimeno qui non si causano cosí grandi correnti, né vi cresce e manca il mare come si vede che avviene nella costiera che s'è detta che è da mezzogiorno, onde ciò nasce.
Qui si può fare una bella e naturale risposta. Ed è questa, che tutte l'isole poste da questa parte nostra di terra ferma che io dico, vengono tolte di traverso dal mare Oceano, onde l'acque fra loro con meno resistenzia passano, e senza tanto contrasto nel corso loro possono meglio essalare overo respirare, là dove l'isole del mare di mezzogiorno si trovano opposte in longo, da levante a ponente, longo la costiera di Panama, e cosí resistono naturalmente alla fuga e impeto dell'acque, che debbono di necessità venire dal detto stretto di Magaglianes; e perciò fra quelle isole e la terra ferma sono al parer mio maggiori le correnti, e consequentemente cosí grande il crescere, il mancare del mare, come s'è detto di sopra. Il che non aviene per altro che per la forma e sito delle terre, e da questo a me pare che nasca la cagione di ciò particolare. Che se questa non è, diremo che il medesimo Iddio sia la cagione, e che a lui cosí piacque di ordinarlo, tanto piú che in quello che io in questo caso non so, Aristotele con la sua morte mi scusa; nel che non penso io di imitarlo investigando questi secreti, perchè di lui scrive Giovanni Vallense che, volendo presso a Negroponte investigare la causa del flusso e reflusso del mare, e non potendo pienamente caperla né giungervi, sdegnato disse verso l'acqua queste parole: "Poichè non posso comprendere io te, comprendi tu me". E con queste parole si gettò nel mare e morí. Onde san Paolo apostolo dice che la sapienzia di questo mondo è una sciocchezza appresso d'Iddio; e perciò non si dee niun savio sdegnare perciochè non possa a qualche profonda cosa con lo intelletto giungere, ma si dee contentare di prenderne quello che ad Iddio piace di comunicarcelo, e ringraziarlo, credendo che egli ogni cosa fa per lo meglio. Ma perchè s'è qui di sopra detto che alcuni tengono che Aristotele facesse quel fine, dico che alcuni altri scrivono che non fosse egli colui che si gettò nel mare, ma che fusse un altro filosofo. Chiunque si fosse errò, e cosí erreranno tutti quelli che vorranno investigare e intendere col proprio discorso loro le maravigliose cose del grande Iddio.
Del tirar che fa verso il vento di maestro e verso greco il ferro del bossolo, e delle mutazioni della stella del Norte che chiamano la Tramontana, e delle quattro stelle che chiamano il Crosero del polo antartico.
Cap. XI.
S'è detto nel quinto capitolo che la ponta del ferro del bossolo da navigare era diffettosa nel tirare verso il vento greco e anco verso quello di maestro; e perchè può questo trattato esser utile non solo a quelli ch'hanno notizia di queste cose, ma anco giovare a quelli che mai non viddero il mare, avisando quei che mai questo non udirono e dilettando quelli che desiderano d'intendere cose rare e di simil maniera, dico che i ferri de' bossoli da navigare si temperano e compongono con la virtú della quale è la pietra calamita, e della sua proprietà fanno menzione i naturali, e di varii nomi la chiamano, com'è magnete, ematite, siderite, eraclione; e in Spagna la chiamano pietra iman. Ella è di diverse spezie, e una è piú forte che un'altra, né tutte le calamite sono d'un colore, e la miglior di tutte è quella d'Etiopia, la quale si vende a peso d'argento. Le vere calamite hanno grande efficacia e virtú nella medicina in piú infermità. Ma, parlando solo di quello che fa al proposito nostro, dico che le ponte di ferri di bossoli temperate con questa pietra insegnano a' naviganti il proprio luogo del nostro polo artico o della Tramontana, che in Spagna chiamano Norte, in qual si voglia tempo, ora e momento del dí o della notte, cosí stando il ciel sereno come offuscato e nubiloso. E benchè di dí non vediamo la stella piú propinqua al polo, che volgarmente chiamano Tramontana, o la notte non paia, per ritrovarsi il cielo di nuvoletti coperto, la ponta del bossolo nondimeno, per la virtú che ritiene dalla calamita, c'insegna il polo; e con questo mezo si reggono i pilotti e tutti quei che nell'esercizio del mare si travagliano. Né creda alcun che la stella che chiaman Tramontana sia il polo sul qual si volge il mondo, perchè il polo è un'altra cosa in effetto: e lui ha rispetto e mira la calamita e ponta del ferro del bossolo con lei temperata, perchè la stella che noi vediamo è mobile e non fissa, cioè che d'intorno al vero polo si move; poichè, stando le stelle che chiamano le Guardie (dell'istessa Tramontana) su la testa, si vede la stella della qual noi parliamo sotto 'l polo tre gradi, e quando quelle stelle stanno nel piè ella sta tre gradi sopra il polo, di modo ch'ella da tramontana a mezodí si move tre gradi. E stando dalla parte di ponente la stella sta un grado e mezo sopra il polo, sí che per questa via da oriente ad occidente un grado e mezo si discosta. Stando le Guardie nella linea del greco, la stella sta sotto al polo tre gradi e mezo; stando nella linea del garbin, ella si vede tre gradi e mezo sopra il polo. E stando le Guardie nella linea del maestro, si vede sotto il polo la stella mezo grado; e mezo altro si vede sopra il polo quando le Guardie stanno nella linea del siroco. In tanto che poichè tutte queste mutazioni si fanno da questa stella, non è ella il polo né è fissa, né sarebbe certa misura per i naviganti; ma perchè ella sta piú presso al polo, si deono tutte queste mutanze avvertire, poichè il vero polo non si può vedere, e si dee attendere alla saldezza della calamita e ponta temperata, che perpetua nel polo invisibile mira. Per questa via gli uomini nella scienzia o arte del navigare esperti accertano il camin loro, mirando insieme all'altezza del polo e del sole, e paragonando l'una con l'altra, conforme alla declinazione del sole. Tutto questo è per quei che usano questo esercizio del mare, e per loro è piú piacevole lezione che non per quelli che non navigaron mai.
Or, quanto alla difficoltà ch'io dicea che patiscon il ferro del bossolo, o per dir meglio l'intelletto degl'uomini (poichè lui c'insegna quello ch'ora qui dirò), si crede che 'l diametro o linea che stendendosi da polo a polo attraversa in croce la linea equinoziale passi per l'isole degli Astori, perchè mai non si ritrovano le ponte dritte di ferri e del tutto fisse da mezo a mezo nel polo artico, se non quando le navi e caravelle si ritrovan in quel pareggio e altezza ch'io dicea. E quando di questo termine escono verso queste parti occidentali, maestrizan ben una quarta quando piú indi si scostano, e passando questo termine verso levante dalle dette isole degli Astori, gregorizano, un'altra quarta quando piú se ne allontanano: sichè questo è quello ch'io volsi dire quando toccai questa difficoltà del ferro del bossolo al proposito nostro. Io voglio qui dire un'altra cosa assai notabile, che quelli che non hanno navigato per quest'Indie non la posson avere veduta, salvo se non fussero andati verso l'equinoziale, o fossero giunti al manco presso a 23 gradi dall'equinozio. E quello ch'io voglio dire è questo, che mirando alla parte di mezodí vedranno sopra l'orizonte 4 stelle in croce, che vanno intorno al circolo delle Guardie del polo antartico, e stanno in questa forma poste.
E la maestà cesarea me le diede per aumento dell'arme mie, acciochè io e tutti i miei successori le ponessimo insieme con le nostre antiche arme di Valdes, avendo rispetto a quello ch'io ho servito in queste Indie, e prima anco nella corte real di Castiglia da che ebbi tredici anni: perchè di tale età incominciai a servire in camera al serenissimo prencipe don Giovanni mio signore, zio della maestà cesarea, e doppo la sua morte alli re catolici don Fernando e donna Isabella, e doppo di costoro alle maestà cesaree. E queste arme mie si porranno nel fin di questo libro, poichè è stato scritto in queste parti dove tanti travagli soffriscono coloro che queste stelle veggono, e dove io ho spesa la maggior parte della vita mia. Ho toccata questa particolarità di queste stelle perchè sono una segnalata figura nel cielo. Presso al polo australe si veggono anco altre infinite e nuove stelle variamente figurate, che dalla Spagna non si possono vedere, né da altra parte di tutta Europa, e né anco nella maggior parte dell'Asia né dell'Africa, se non passando alli 22 gradi presso all'equinoziale, perchè quanto piú si va verso il mezzogiorno, tanto piú s'abbassa il polo artico e s'innalza l'antartico, né si possono le dette stelle vedere in tutto il tropico di cancro.
Ritornando all'istoria, è già tempo di dirsi per che cagione gl'Indiani e le genti del re Goacanagari ammazzarono in questa isola Spagnuola i cristiani che vi lasciò nel primo viaggio l'admirante don Cristoforo Colombo, e che genti ritrovò egli poi in questa isola; acciochè con maggior ordine e attenzione si scrivono appresso gli animali, gli uccelli, gli alberi, i frutti e l'altre cose che gli Indiani avevano per sostentarsi, con l'altre cose che fanno al proposito di questa istoria nostra.
Di quello che fece il Colombo quando seppe che gl'Indiani avevano ammazzati i suoi cristiani, e come fondò la città d'Isabella e discoperse l'isola di Iamaica; e delle prime mostre d'oro che si portarono in Spagna.
Cap, XII.
Quando don Cristoforo Colombo nel suo primo viaggio lasciò in questa isola Spagnuola quelli 38 cristiani, elesse quelli che gli parevano di maggior sforzo e prudenzia, sperando che si fossero dovuti fin al suo ritorno ben comportare e reggere, e che gli Indiani (perchè li parve gente assai domestica e mansueta) non avessero dovuto loro oltraggio alcuno fare; perchè, s'avesse sospettato del contrario, non ve gli averebbe lasciati mai. Egli ebbe solamente questo intento, che apprendessero la lingua e i costumi di quelle genti; e certo che per questo effetto sarebbono bastati 10 o 12, e non ve ne doveva piú lasciare, o ve ne doveva lasciare 200, li quali esso non aveva e non potea farlo, per potersene ritornare in Spagna. In effetto meno errò l'intenzion del Colombo in lasciarli che essi in non sapersi conservare e stare bene ordinati, tanto piú che gli aveva ammoniti e dato loro l'ordine che tenere dovevano per conservarsi fra quelle genti selvagge, promettendo loro anco molte cose, lasciandogli provisti di mangiare e di vestire; e gli lasciò anco loro dell'arme, gli essortò che non se ne servissero a niun modo se non forzatissimi, e gli raccomandò quanto piú affezionatamente seppe al Signore del paese Goacanagari, al quale donò anco molte cose perchè meglio gli trattasse e favorisse. Restò un buon gentil uomo di Cordova chiamato Roderigo l'Arana, capitan di queste genti, e anco un gentil chirurgico, come s'è detto di sopra; ma perchè la maggior parte di queste genti che restarono erano marinari e gente di libertà, e poco atti a sapere essequire quello perchè il Colombo gli lasciava, vi perirono malamente.
In effetto, parlando senza pregiudicio d'alcuni marinari, che sono uomini da bene e virtuosi e cortesi, io sono d'opinione che per la maggior parte quelli che s'esercitano nell'arte di mare vagliono poco, e con le persone e con l'ingegno, nelle cose di terra; perchè, oltra che per lo piú son gente bassa e mal dottrinata, sono anco avidi di soverchio e inchinati forte alla lussuria, alla gola e alla rapina, e mal possono cosa alcuna soffrire. Sí che, perchè in coloro che lasciò quivi il Colombo non era né prudenzia né vergogna perchè dovessero a' precetti di cosí accorto capitano obedire, fu facil cosí disordinarsi e lasciarvi la pelle; perchè, tosto che gl'Indiani si avvidero che questi toglievano loro le mogli e figlie con quanto avevano, se 'l tacquero da principio, veggendogli ristretti e uniti insieme, ma quando gli viddero poi disviarsi a poco a poco e disunirsi per dentro l'isola, gli ammazzarono tutti senza lasciarne uno in vita. Vi fu anco (secondo che gl'Indiani istessi poi all'admirante raccontorono) che ognun di quelli che il Colombo lasciò, che fussero l'un doppo l'altro capitani, voleva essere capo, e perciò si divisero e disunirono; e facendo poco conto degl'Indiani si sparsero a due a due e a tre a tre per diverse parti dell'isola, facendo come piú lor piaceva varii dispiaceri e oltraggi, di modo che facilmente capitarono tutti male.
Di tutte queste cose fu particolarmente informato il Colombo da quelli Indiani e dal re Goacanagari istesso, che assai mostrava di dolersene: e gli fu interprete un di quelli Indiani che ritornarono seco di Spagna, chiamato Diego Colombo, che aveva già appresa la lingua nostra e vi parlava mediocremente. Ora l'admirante, doppo che, con gran dispiacere di questa nuova, stette qui in porto Reale qualche dí, se ne venne in un'altra provincia dell'isola e vi fondò una città, che la chiamò Isabella. Da questo luogo partí poi con due caravelle per discoprir nuove terre, lasciando in quest'isola Spagnuola suo luogotenente e governator don Diego Colombo, suo fratello, mentre che don Bartolomeo Colombo, pur suo fratello, vi giungeva, che era restato in Spagna. Lasciò anco il commendatore M. Pietro Margarito per castellano d'una fortezza che aveva fatta fare nelle minere che chiamano di Cibao, che son le piú ricche che siano in questa isola e sono presso a un fiume chiamato Giamico. E qui gli Spagnuoli raccolsero alcuni granelli d'oro, perchè gl'Indiani, se nol ritrovavano sopra la terra, non l'andavano altramente cercando. Né anco gli Spagnuoli avevano quella isperienzia che solevano già anticamente dell'esercizio delle minere avere gli austriani, i lusitani e i galleci nelle provincie loro di Spagna, donde cavarono i Romani tanti tesori. Or, questa fortezza fu la seconda che si vidde in questa isola, e fu chiamata di S. Tomaso, e ne fu il primo castellano il commendator M. Pietro Margarito, come s'è detto. La chiamarono di questo nome perchè, dubitando che vi fosse oro, volsero vederlo, toccarlo con mano e crederlo, benchè in quel principio poco oro vi si cavasse: e per una mostra delle ricche minere di Cibao lo mandò l'admirante alli re catolici per il capitan Gorvalan, che ne fu ben rimunerato; benchè alcuni altri dicano che chi portò in Spagna le prime mostre dell'oro fosse il capitan Antonio di Torres, fratello del bailo del prencipe don Giovanni di gloriosa memoria.
Ma, ritornando all'istoria, ritrovato che ebbe l'admirante questo oro, con due caravelle ben armate e proviste si partí d'Isabella con molti cavalieri; e in questo viaggio discoperse l'isola di Iamaica, che ora si chiama di San Giacomo, ed è lontana vinticinque leghe dalla parte piú occidentale di questa isola Spagnuola, che l'admirante il capo di San Michele chiamò (benchè alcuni il capo del Tiburon lo chiamino); come l'altro capo piú orientale di quest'isola il chiamò di S. Rafaele. Ora Iamaica sta posta a 17 gradi dalla linea equinoziale; è lunga 50 leghe o piú, e larga 25. Ma prima che l'admirante la discoprisse andò all'isola di Cuba, che ora in memoria del re catolico Fernandina si chiama, e vidde piú particolarmente che non aveva fatto nel primo viaggio le sue costiere. E io credo che quest'isola sia quella che il cronista Pietro Martire chiamò Alfa e Omega, e altre volte la chiama Giovana, benchè non sia luogo alcuno per tutte queste Indie di simil nome. Ma perchè appresso si ha da ragionare piú particolarmente di quest'isole, basti quello che fin qua s'è detto, per ora.
Delli travagli che passarono i cristiani nella città d'Isabella mentre l'admirante non vi fu, e di quello che al castellano di San Tomaso avvenne con certe tortore, e come fu fondata questa città di S. Domenico.
Cap. XIII.
Mentre l'admirante andava discoprendo nuove terre, molti travagli sentirono i cristiani che nella città Isabella restati erano: e in quel medesimo anno del 94 si perderono in Isabella quattro navi, fra le quali ne fu una la capitana, chiamata Marigalante. Partito che fu da questa isola l'admirante con le due caravelle, attendevano i nostri ad edificarse le stanze nella città Isabella, secondo che erano lor state dal Colombo compartite insieme col territorio, perchè qui si fosse dovuto abitare di lungo. Il che gl'Indiani veggendo, e non piacendo loro troppo d'avere i cristiani per perpetui vicini, pensando di rimediarvi fecero un atto col quale morirono piú delle due parti, o almanco la metà degli Spagnuoli, e degl'Indiani istessi un incredibile numero. E fu questo di sorte che i cristiani, che erano nuovi nel paese, non l'intesero né vi poterono rimediare. Or, tutti gl'Indiani di quella provincia deliberarono di non seminare nel tempo debito, e lo fecero; onde, quando non ebbero piú maiz (che è una certa specie di grano) si mangiarono la iuca, che è una maniera di pianta onde medesimamente vivono: e sono queste le principali cose con le quali qui si mantengono nella vita. I cristiani si mangiarono le loro provisioni e vettovaglie, e fornite che l'ebbero, volendo valersi di quelle del paese che solevano costumare gl'Indiani, s'aviddero che non ve n'era né per sé né per gli altri; onde ne aveniva che i cristiani nella lor nuova città si cadevano morti di fame, e il medesimo aveniva nella fortezza di S. Tomaso; e per tutto il paese si vedevano d'ogni parte Indiani morti, di modo che ne nacque una puzza grande e pestifera. E di piú della fame i cristiani in altre molte infermità si trovavano, che ne effettuavano il cattivo desiderio degl'Indiani, ch'era che i nostri o fuggendo per non aver da mangiare si andassero con Dio, o che volendo restare vi morissero di fame. Quelli Indiani che non morivano si ponevano bene a dentro nell'isola per trovar da mangiare, e s'appartavano dalla conversazione de' nostri per far loro maggior danno. In questa tanta calamità si mangiarono i nostri quanti cani gozzi erano nell'isola, i quali erano muti e non abbaiavano. Si mangiarono anco tutti quelli che vi avevano condotti di Spagna, e insieme anco tutte le utie che poterono avere, e tutti li chemi, e altri animali che chiamano mohui, e altri che chiaman coris: delle quali quattro maniere d'animali, ch'erano grandi quanto i conigli e si cacciavano co' cani venuti di Spagna, si ragionerà particolarmente nel libro 12 di questa istoria.
Ora, mangiato che s'ebbero queste spezie d'animali a quattro piè che nell'isola erano, si voltorno a mangiare certi serpenti che si chiamano ivana, che sono con quattro piedi, e di tal vista che danno gran spavento a chi non gli conosce. Non vi lasciarono lacerti, né lacerte, né serpi, che di molte sorte ve ne sono e di varii colori, ma non già velenosi. E tutto questo per poter vivere. Mangiavano tutte queste cose o bollite o arrostite al fuoco, per la necessità nella quale si ritrovavano, se non volevano perdere la vita. Onde, sí per questo cattivo cibo come per l'umidità grande del paese, in molte e incurabili infermità ne venivano coloro che vi restavano vivi. E perciò que' primi Spagnuoli, quando di qua se ne ritornavano in Spagna, vi portavano nel viso un color giallo di zaffarano, e tanta infermità che tosto o poco tempo appresso morivano. Vi era anco che i cibi di Spagna sono di miglior nutrimento e piú digestibili che non erano l'erbe e vivande cattive dell'Indie, e l'aere di Spagna è piú delicato e piú freddo di quello di queste parti; di modo che, ancorchè se ne ritornassero in Castiglia, vi terminavano presto la vita loro.
Soffrirono anco i primi cristiani che abitarono questa isola strani dolori e passioni per le nigue e per lo mal delle bughe, cioè francese (de' quali due morbi si ragionerà appresso), perchè nell'Indie ebbero origine, sí per le donne di questi luoghi come per la contrada istessa. E quel delle bughe, per esser contagioso, passò al parer mio in Spagna con li primi Spagnuoli che qui vennero con l'admirante Colombo, e di Spagna poi passò in Italia e in molti altri luoghi, come si dirà appresso.
Ma, ritornando all'istoria, il commendatore D. Pietro Margarito, che con fino a trenta uomini si ritrovava nella fortezza di S. Tomaso, sentiva le medesime calamità che provavano quelli che erano nella città d'Isabella, onde ve ne morivano di continuo, e cosí ogni dí si facevano piú pochi; e perciò non potevano della fortezza uscire e lasciarla sola, perchè se disconveniva alla lealtà di un cosí buon cavaliero come era il commendatore. Quelli che erano nella città d'Isabella con don Bartolomeo Colombo, che era già venuto, in tanti affanni si ritrovavano che non si potevano prevalere, e quelli Indiani che erano per la fame scampati se ne erano molto a dentro nell'isola fuggiti.
Mentre che a questi termini le cose de' cristiani si ritrovavano, se ne venne un dí un Indiano al castello di S. Tomaso, e perchè, come esso dicea, il castellano era persona da bene e non faceva violenza né usava discortesia alcuna alle genti dell'isola, gli appresentò un paio di tortore vive. Il commendatore lo ringraziò e gli donò in compensa di queste tortore certe frascherie di vetro, che 'n quel tempo gl'Indiani stimavano molto per attaccarsele al collo. Partito l'Indiano molto lieto, disse il commendatore a' suoi che gli pareva che quelle tortore fossero poca cosa per mangiare a tutti, e che a sé solo sarebbon per quel dí bastate per viverne. Tutti risposero che egli dicea bene, perchè a tutti erano poco pasto, e a lui sarebbon bastate: tanto piú ch'esso piú bisogno n'avea, stando piú infermo che niuno degli altri. Allora il castellano: "Non piaccia a Dio - disse - ch'io solo abbia a vivere, perchè, poi che voi m'avete fatto fin qua compagnia nella fame e negli affanni, cosí voglio anch'io farla a voi, perchè o viviamo o moriamo tutti, finchè al Signor Iddio piacerà di darci rimedio o con la morte o con la vita". E dicendo questo lasciò volare libere le tortore per una fenestra della torre dove stava. Restarono di questo atto in modo tutti gli altri contenti e sazii come se ognun di loro amendue quelli uccelli avuti avesse, e cosí se ne trovarono al castellano obligati, che per travaglio del mondo non avrebbono né quella fortezza né lui lasciato giamai.
A queste tante calamità e infermità de' cristiani, perchè fossero i lor mali compiuti, sopragiunsero molti venti di tramontana, che in quest'isola sono molti cattivi; onde non solo i nostri, ma ne morivano anco gl'Indiani istessi. Non aspettando adunque altro soccorso che quello d'Iddio, piacque al pietoso signor di darvi rimedio, e fu con mutarsi la città d'Isabella in questa di S. Domenico, per la via e maniera ch'ora si dirà. Un giovane d'Aragona chiamato Michel Dias, facendo parole con un altro Spagnuolo, gli diede alcune ferite; e benchè non l'ammazzasse, non ebbe però ardire di restarsi qui, benchè fusse creato e servitore di D. Bartolomeo Colombo. Egli adunque s'appartò con 5 o 6 altri cristiani che l'accompagnarono, chi perchè s'era trovato a participare del delitto, chi perchè gli era amico. Fuggendo dalla città d'Isabella, se ne vennero per la costiera dell'isola verso levante, e voltorono tutta questa parte finchè vennero dalla parte di mezzodí, dove sta ora fondata questa città di S. Domenico. Qui si fermarono, perchè vi ritrovarono un popolo e una abitazione d'Indiani, e qui fece Michel Dias amistà con una Indiana, cacica o signora che vogliam dire, che poi si chiamò Caterina, e ne ebbe col tempo due figliuoli. Or, perchè questa Indiana principale di quel luogo gli volse bene, lo trattò come amico e amante caro; e per suo rispetto fece anco carezze agli altri, e gli diede notizia delle minere che sono sette leghe da questa città lontane, e lo pregò che chiamasse e facesse venire in questa contrada cosí fertile e bella, e con cosí bel fiume e porto, tutti que' cristiani suoi amici che nella città d'Isabella si ritrovavano, che essa gli manterebbe e darebbe quanto bisognato lor fosse.
Michel Dias, per compiacere a questa sua donna, o perchè gli parve che con questa buona nuova avrebbe dal don Bartolomeo Colombo ottenuto il perdono (ma principalmente fu che a Dio piaceva che cosí fusse, e che non morissero quegli altri cristiani che erano avanzati vivi), si partí co' suoi compagni, attraversando l'isola con la guida d'alcuni Indiani che quella sua amica gli diede, finchè giunsero ad Isabella, che è da 50 leghe da questa città di S. Domenico lontana. Qui tenne modo di parlare secretamente con alcuni suoi amici, e inteso che quel suo nemico stava già sano, ebbe ardire di comparire avanti al suo signore e di chiedergli perdono in pago de' suoi servigi, e della buona nuova che gli portava di quella fertile terra e delle minere dell'oro. Il Colombo lo ricevette caramente, e gli perdonò e pacificò col suo nemico. Egli, dopo ch'ebbe inteso le cose di questa provincia, deliberò d'andarvi in persona a vederle, e cosí, con quella compagnia che gli parve, vi venne, e ritrovò essere vero quanto il giovane detto aveva. Quivi, entrato in una barchetta di quelle degl'Indiani, fece tentare e vedere l'altezza di questo fiume chiamato Ozama che per questa città passa, e cosí anco l'altezza della bocca del porto, e ne restò molto contento. Volle anco andare alle minere dell'oro, ove stette due dí, e vi fu raccolto qualche poco d'oro Dopo questo se ne ritornò alla città d'Isabella, e con queste buone novelle fece senza fine lieti tutti i suoi; e fece tosto dar ordine per dover partire per questo luogo per terra, e tutte le loro robbe che ivi aveano fece portare per mare da due caravelle che ivi erano. E giunse in questo porto (come vogliono alcuni) di domenica a' 5 d'agosto, nel dí di S. Domenico del 1494, e fondò e diede principio a questa città; non già in quel luogo dove ora sta, perchè non volle dalla sua terra cacciare la signora Caterina né gli altri Indiani che vi vivevano, onde la fondò dall'altra parte di questo fiume Ozama, dirimpetto a questa nostra città. Ma, desideroso io di sapere la verità perchè questa città fosse chiamata di San Domenico, ritrovo che, di piú che di domenica e del dí di S. Domenico si cominciò ad abitare, e se le diede tal nome perchè il padre dell'admirante don Cristoforo Colombo e di questo don Bartolomeo suo fratello si chiamava Domenico, in memoria del quale suo figlio questo nome le pose.
Indi a duo mesi e mezo ritornò l'admirante, con gli altri ch'erano con lui andati a discoprir nova terra, e giunto in questa città mandò tosto a saper se 'l commendator messer Pietro Margarito era vivo, e gli scrisse che con tutti quelli ch'esso avea seco se ne venisse a ritrovarlo, e lasciasse la fortezza in poter del capitano Alonso d'Hogieda, che fu qui il secondo castellano. E cosí fu essequito, e giunti anco qui questi altri, tutti con la fertilità e ubertà della contrada si ricrearono. Ma poichè si ritrovorono qui tutti uniti, perchè l'aversario nostro non cessa mai tentar e seminar discordie fra buoni, avenne che nacquero molte contese fra l'admirante e quel reverendo padre fra Buil. Ed ebbero principio da questo, che l'admirante fece appiccar alcuni, e spezialmente un Gasparo Feriz d'Aragona, e molti altri fece frustare, mostrandosi piú severo e piú rigido del solito. E in effetto, benchè dovesse ragionevolmente essere rispettato, perchè, come ben diceva l'imperator Otone, che dove non è obedienza non è signoria, dice nondimeno anco Salomone che la carità cuopre tutti i delitti; onde mal fa chi non s'abbraccia con la misericordia, e specialmente in queste nuove terre, dove, per conservare la compagnia de' pochi, bisogna dissimularsi molte volte quello che spesse volte altrove sarebbe errore non castigarli; tanto piú che Salomone e san Paolo dicono queste parole: "Avendoti constituito capitano, non volere essaltarti ma mostrati come un di loro".
Or, l'admirante era tenuto crudele da quel padre che, essendo qui vicario del papa, ogni volta che gli pareva che nelle cose di giustizia il Colombo uscisse dal debito o nel rigore, tosto poneva interditti e faceva cessare gli ufficii divini: e l'admirante all'incontro non faceva né al frate né agli altri di casa sua dare da mangiare. Messer Pietro Margarito, e gli altri cavalieri che ivi erano, vi si traponevano e gli pacificavano; ma pochi dí questa pace durava, perchè, tosto che l'admirante faceva alcune delle cose già dette criminali, tosto il padre era con l'interditto alla mano e faceva cessare gli ufficii divini, e il Colombo all'incontro poneva a lui l'interditto al mangiare, e non voleva che fosse né a lui né agli altri clerici che lo servivan data cosa alcuna per potere vivere. Dice san Gregorio che non si può servare la concordia se non con la pazienzia solamente, perchè nelle operazioni umane nasce del continuo onde si disseparino e disunischino. Ora, a questi contrari voleri seguivano diverse opinioni, le quali, benchè non si publicassero, si scrivevano nondimeno dall'una parte e dall'altra in Spagna. Il perchè, informati diversamente, li re catolici mandarono in questa isola Giovanni Aguado lor creato, che ora vive in Siviglia.
Costui, partendo con 4 caravelle, se ne venne in queste Indie con una carta delli re catolici di credenza, fatta in Madril a' 9 d'aprile del 95, che a questo modo diceva: "Cavalieri e scudieri e voi altri tutti che per nostro ordine vi ritrovate nell'Indie, vi mandiamo Giovanni Aguado nostro repostiero, che da parte nostra vi parlerà. Noi vi comandiamo che li diate fede e credenza". Giunto questo capitan Aguado in questa isola Spagnuola, fece questa sua lettera di credenza bandire, onde quanti Spagnuoli vi erano gli s'offersero a quanto esso direbbe da parte delli re catolici. E cosí, pochi dí appresso, disse all'admirante che s'apparecchiasse per passare in Spagna: di che egli si resentí molto, e vestissi di pardo a maniera di frate e si lasciò crescere la barba.
Ritornò l'admirante in Spagna nel 96 a guisa di prigione, benchè non fusse fatto altramente prendere. Mandarono anco il re e la reina a chiamare il fra Buil e messer Pietro Margarito, i quali con la medesima armata se ne ritornarono in Spagna, e con loro il commendatore Gallego e 'l commendatore Arroio e 'l contator Bernardo da Pisa e Rodrigo Abarca e messer Girao e Pietro Navarro. Giunti in Spagna, se n'andarono tutti ciascun per la strada sua alla corte, a baciar la mano delli re catolici. Il fra Buil, benchè avesse anco dall'Indie scritto, insieme con gli altri che della sua opinione erano, informò li re catolici delle cose dell'admirante, facendole piú criminali di quello che erano. Ma quelli felici prencipi, udito che ebbero il tutto, avendo rispetto ai gran servigi dell'admirante e mossi dalla lor propria e real clemenzia, non solamente gli perdonarono, ma gli diedero anco licenzia di ritornarsi al governo di queste terre e a discoprire il restante di queste Indie, raccomandandogli molto il buon trattamento de' suoi vassalli Spagnuoli e degl'Indiani anco, e ordinandogli che fusse piú moderato e men rigoroso. Ed egli loro cosí promisse, benchè la maggior parte di quelli che erano di qua passati in Spagna parlassero assai male di lui. Di che non mi maraviglio io, benchè egli non vi avesse colpa alcuna, perchè alcuni di coloro che qui passano tosto vengono dall'aere del paese destati a suscitare novità e discordie, che è cosa propria nell'Indie; onde e per questo e per altri molti lor peccati sono gl'Indiani tanti secoli stati come dimenticati dal grande Iddio.
Furono anco in que' primi anni accresciute molto le discordie de' cristiani che qui passarono dall'essere gli animi degli Spagnuoli inchinati naturalmente piú alla guerra che all'ozio, e (come Iustino dice) quando non hanno inimici stranieri cercano fra se stessi d'averne, per la vivacità de' loro ingegni: or quanto piú, che in queste Indie passarono varie maniere di gente, perchè, se ben erano tutti vassalli delli re di Spagna, che avrebbe concordato il viscaino col catalano, che sono di cosí differenti provincie e lingue? Chi avrebbe uniti insieme quel d'Andalusia col valenziano, o quel di Perpignano col cordovese, o l'aragonese col guipuzuanno, o il gallego col castigliano (sospettando che egli sia portoghese), o l'asturiano col navarro, e cosí degli altri medesimamente? Sí che a questo modo non tutti i vassalli della corona di Spagna sono di conformi costumi né di simil lingue, massimamente che in quelli principii, se vi passava una persona nobile e di illustre sangue, ve ne venivano dieci discortesi e di basso e oscuro sangue.
Ma perchè la conquista è stata poi cosí grande, vi sono poi sempre passate persone principali e cavalieri e nobili, che hanno determinato di lasciare la patria loro di Spagna per far stanza in queste parti, e specialmente in questa città, dove si piantò e fondò principalmente la religione cristiana, come si dirà piú appresso. Ma perchè potrei essere notato per negligente, s'io lasciassi di dire due nuove infermità che i cristiani patirono in questo secondo viaggio dell'admirante, mi piace di dirle nel seguente capitolo, perchè furono di molta ammirazione e pericolose; e una di loro in questo secondo ritorno del Colombo fu trasferita in Spagna, e indi poi per tutte l'altre parti del mondo, come si crede.
Delle due infirmità notabili e pericolose che quei primi cristiani in queste Indie sentirono, e ve le sentono anche oggi alcuni, e una di loro fu transferita in Spagna, e poi per tutti gli altri luoghi del mondo.
Cap. XIV.
Poi che tanta parte dell'oro di quest'Indie è passata in Italia e in Francia, e nelle contrade di mori medesimamente, è ben giusto che provino anco tutti questi luoghi delle nostre fatiche e dolori, acciochè o per l'una via o per l'altra, cioè o del bene o del male che avuto ne hanno, si ricordino di ringraziar molto il Signor Iddio; e col male e col bene s'abbraccino con la santa pazienzia di Giob, che né con l'esser ricco fu superbo, né con l'esser povero e impiagato fu impaziente.
Mi ridea molte volte in Italia sentendo dagli Italiani nominare il mal francese, e dalli Francesi dir il male di Napoli: e in effetto, che e questi e quelli avrebbono indovinato il vero nome, se il male dell'Indie chiamato l'avessero. E che sia cosí il vero il mostrerò in questo capitolo, con la molta isperienzia che s'è già fatta del legno santo e del guaiacan, con che principalmente piú che con altra medicina si guarisce questa orrenda infermità delle bughe; perchè la clemenzia divina, dove per nostri peccati permette il male, ella per sua misericordia provede di rimedii. Ma di questi due alberi si dirà appresso, nel decimo libro. Ora diciamo come queste bughe passarono in Spagna da questa isola Spagnuola con le monstre dell'oro.
S'è nel precedente capitolo detto che nel 96 ritornò il Colombo in Spagna. Doppo il qual ritorno io viddi e parlai con alcuni di quelli che ritornarono allora in Castiglia, come fu il commendatore messer Pietro Margarito e i commendator l'Arroio e 'l Gallego, e Gabriel di Leon e Giovan della Vega e Pietro Navarro, e altri creati nella corte del re catolico, dai quali intesi molte cose che vedute e patite avevan in questo secondo viaggio; come n'aveva già intese di quelle del primo viaggio molte da Vincenzo Pinzon, che fu un di quelli primi pilotti che andarono col Colombo la prima volta, e col quale io ebbi amistà fino dal 1414[1514], che egli morí, e come ne fui anco informato dal pilotto Fernando Perez Matheos, che al presente vive in questa città, e si ritrovò nel primo e terzo viaggio che il primo admirante don Cristoforo Colombo fece a queste Indie. Ebbi anco notizia di molte cose di questa isola da due gentiluomini che nel secondo viaggio dell'admirante vi vennero, e oggi dí qui in questa città vivono, e sono Giovanni di Rogias e Alonso di Valenzia; e cosí anco da molti altri, che come testimonii di vista mi diedero particolare relazione di quanto s'è detto di questa isola, e degli affanni e travagli che vi sentirono. Ma piú che niuno degli altri che ho detti m'informò a pieno il commendator messer Pietro Margarito, uomo principale della casa reale e tenuto in buona estimazione dal re catolico; e questo cavaliero fu quello che il re e la reina per principale testimonio tolsero, e a chi maggior credito diedero delle cose che seranno qui nel secondo viaggio passate, come se n'è già ragionato di sopra.
Ora, questo cavaliero messer Pietro andava cosí infermo, e si lamentava e doleva tanto, che ben mi credo che esso sentisse i dolori che sentire sogliono quelli che sono da questa passione tocchi, ma non gli viddi però buga alcuna. Indi a pochi mesi, nel medesimo anno del 96, cominciò a sentirsi questa infermità fra alcuni cortigiani: ma in quelli principii andava questo male fra persone basse e di poca auttorità, e si credeva che si mischiasse questo morbo con accostarsi con donne publiche. Ma poi si sparse anco fra alcune persone principali, e gran maraviglia causava a quanti lo vedevano, sí perchè era il male orrendo e contagioso, come perchè se ne morivano molti. E perchè l'infermità era nuova, i medici non l'intendevano né sapevano curare né darvi consiglio.
Ora, seguí poi che fu mandato in Italia il gran capitano Gonzalo Fernandes di Cordova con una grossa e bella armata dai re catolici in favore del re Fernando secondo di Napoli, contra il re Carlo di Francia chiamato della testa grossa. E fra quelli Spagnuoli che con questa armata andarono ve ne furono alcuni ammorbati di questa infermità, onde col mezzo delle donne e col vivere mischiarono questo lor morbo agli Italiani e alli Francesi; e perchè né questi né quelli avevano giamai tale infermità sentita, cominciarono i Francesi a chiamarlo il mal di Napoli, credendo che proprio di quel regno fosse, e i Napolitani, pensando che con li Francesi fosse venuto, lo chiamarono mal francese; e cosí d'allora in poi per tutta Italia si chiama.
Ma nel vero da questa isola Spagnuola passò questo male in Europa. E qui è morbo molto ordinario agli Indiani, che se ne sanno guarire, e hanno a questo effetto eccellenti erbe e piante appropriate a questa e ad altre infermità, come è il guaiacan (che alcuni vogliono che sia l'ebeno) e 'l legno santo, come si dirà quando si ragionerà degli alberi. Si che delle due infermità pericolose che i cristiani sentirono da principio in queste Indie queste delle bughe n'è una, e fu (come s'è detto) transferita prima in Spagna e poi in tutte l'altre parti del mondo. L'altra è quella che chiamano delle nigue, la quale non è in effetto infermità, ma è un certo male a caso, perchè la nigua è una cosa viva e picciolissima, di modo che è minor che il piú piccolo pulice che si vegga; e in effetto è una specie di pulici, perchè va saltando come pulice, ma è assai piú picciolo. Questo animaletto va per la polvere, e dove l'uomo desidera che egli non vi sia, bisogna che vi scopi molto minutamente la casa. Egli se n'entra ne' piedi e in ogni altra parte della persona, e per lo piú nelle punte dei diti, senza esser sentito, finchè si sia già collocato fra la pelle e la carne; e comincia a corrodere e mangiare forte, e quanto piú vi sta piú mangia, di modo che, col raspare che l'uomo vi fa, questa nigua si dà molto fretta a moltiplicarvi molti altri animaletti della spezie sua, tal che in breve vi si fa un nido; perciochè, tosto che vi entra il primo, vi s'annida e vi fa una borsetta fra pelle e carne, grande quanto è una lenticchia, e piena di lentidini che tutti diventano nigue; e se per tempo non si cavano fuori con un ago o con una spingola, nel modo che si cavano i pedicelli, è una cattiva cosa, massimamente che, doppo che sono già create (che è quando cominciano molto corrodere), con il raspare si rompe la carne, e si spargono questi animaletti di modo che chi non vi sa ben rimediare vi avrà ben sempre che fare. In effetto, perchè i cristiani, come nel curarsi del male delle bughe cosí anco in questo erano poco diligenti, ne aveniva che molti per queste nigue perdevano i piedi o almanco i deti de' piedi, perchè, doppo che si gonfiavano e vi si faceva materia, bisognava curarle col ferro o col fuoco. Ma chi vi è presto a cavarle nel principio vi rimedia facilmente; benchè siano in alcuni neri pericolose, perchè, o per la lor mala carnatura o perchè sono bestiali e non si sanno nettare né dirlo a tempo, ne vengono a perder i piedi.
E io fra gli altri le ho avute ne' piedi miei in queste isole e in terra ferma, e non mi pare che in persone ragionevoli siano cosa da temersi, benchè sian in effetto noiose mentre che durano o che stanno dentro la carne. Ma è facil cosa cavarle da principio, e io ne ho fatto l'isperienzia, e cosí diranno anco coloro che le sanno cavare: e bisogna stare accorto quando si cavano per ammazzarle, perchè alcuna volta, tosto che l'ago rompendo la pelle del piè la scuopre, ella salta e se ne va via come un pulice, il che aviene quando è poco tempo che vi sia entrata. E per questo si crede che quella che vi entra, doppo che vi ha fatto la sua cattiva semenza, se ne salta via fuori e va a fare danno a qualche altra parte, lasciando nel piè uno isciamo di questa cosí malvagia generazione.
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate.
Libro terzo
Proemio
In questo terzo libro si tratterà della guerra che fece in nome dell'admirante don Cristoforo Colombo il capitan Alonso d'Hogieda col re Caonabo, e come vi fu questo re preso e morto, e delle vittorie che ebbe don Bartolomeo Colombo contra il re Guarionex e altri quattordeci caciqui che con costui si unirono; e come Roldan Scimenes s'appartò con alcuni cristiani dall'obedienzia dell'admirante e di suo fratello. Si dirà anco del terzo viaggio del primo admirante, quando discoprí e ritrovò parte della gran costiera di terra ferma e l'isola delle Perle chiamata Cubagua; e del governo dell'admirante, e che re e signori principali erano in questa isola; e del gran lago di Sciaragua, e d'un altro lago che è nella cima delli piú alti monti dell'isola; e come e con che arme combattevano gli Indiani, e che generazione sono i caribi e i freccieri.
Diremo medesimamente della miracolosa e devotissima croce della Vega; e della venuta del commendatore Francesco di Bovadiglia, il quale mandò in Spagna prigione con ferri l'admirante e i suoi duo fratelli don Bartolomeo e don Diego Colombo; e per che cagione si morirono molti Indiani che erano in questa isola Spagnuola; e della venuta del commendator maggior di Alcantara don fra' Nicola d'Ovando; e della partenza del commendatore Bovadiglia, che perí nel mare con molti vasselli e gente e molto oro; e del buon governo del commendatore maggiore; e come l'admirante vecchio e primo fece il quarto viaggio e venne a discoprire in queste Indie Veragua e altre provincie di terra ferma; e della sua morte che seguí poi in Spagna; e come questa città di S. Domenico si mutò e trasferí dove ora sta, e della nobiltà e particolarità di questa città e di questa isola con le sue terre; e d'altre cose appartenenti al proseguire questa naturale istoria, come piú particolarmente si vedrà ne' seguenti capitoli.
Della guerra che ebbe il capitano Alonso di Hogieda col caciche Caonabo,
e della prigione e morte di questo re.
Cap. I.
Nel secondo libro s'è detto come, dopo che il commendatore messer Pietro Margarito lasciò la fortezza di San Tomaso, l'admirante vi mandò il capitano Alonso d'Hogieda, facendone 'l castellano e dandogli cinquanta uomini che la guardassero; perchè stava in parte che importava molto, sí per le ricche minere di Cibao come per la riputazione e forza de' cristiani. Ma, come fu l'admirante partito per Spagna, gl'Indiani s'insuperbirono, e specialmente Caonabo, che era di quella provincia signore, e non si contentava di questa nuova e vicina fortezza de' cristiani: onde, insieme con freccieri indiani che tenevano la costiera di questa isola dalla parte di tramontana, deliberò di dare sopra questa fortezza e brucciarla o spianarla. Con piú di cinque o seimila uomini adunche assediò il castello, e lo tenne ben stretto un mese senza lasciarne uscire anima viva. Ma il castellano, che era savio e valoroso cavaliero, resisté, di modo che in capo di questo tempo gli inimici rallentorono, e come gente selvaggia diedero a' nostri commodità di poter lor fare molti danni. Il castellano, accorto e sollecito, maneggiò questa guerra e con l'armi e con l'arte, secondo che piú vedeva il bisogno; onde, benchè alcuni cristiani morissero, ma assai senza comparazione in maggior numero Indiani, l'Hogieda finalmente vinse il nemico e prese Caonabo con gran parte de' suoi principali: benchè si dicesse che il castellano non aveva servata la fede e la sicurtà che il caciche diceva essergli stata promessa, o pure era ch'esso inteso non l'avea. Questa presa di Caonabo fu cagion della pace, e che tutta l'isola fosse a' cristiani soggetta.
Aveva questo Caonabo un fratello molto valente e assai amato dagl'Indiani, il quale, pensando a forza d'arme riscuotere il fratello, con prendere quanti cristiani potesse e cambiarli poi con lui e con gli altri principali che prigioni si ritrovavano, raunò insieme piú di settemila uomini, la maggior parte freccieri, e fattone cinque schiere si venne a porre molto presso agli Spagnuoli del castello di S. Tomaso. Il castellano uscí con alcune genti da cavallo e con quelle da piè che puoté, lasciando guardata la fortezza, perchè don Bartolomeo Colombo gli aveva mandate alquante genti in soccorso (benchè tutti non fossero 300 uomini), e combattendo con gl'Indiani, piacque al Signore Iddio di dargli vittoria: perchè, come i ginetti nostri diedero nella prima lor schiera, gli posero in fuga, perchè molto gl'Indiani di questa novità si spaventarono, non avendo mai veduto prima questa sorte d'uomini a cavallo combattere. Fu adunche fatta di lor molta strage, e vi fu fatto prigione il fratello di Caonabo con molti altri Indiani. In questo dí fece l'Hogieda ufficio di valoroso soldato e di generoso cavaliero, e non meno di prudente capitano. Quando don Bartolomeo Colombo vidde che questo caciche e suo fratello erano prigioni, deliberò di mandargli in Spagna con alquanti altri de' principali Indiani che prigioni erano, parendogli essere molto inconveniente che 'n questa isola stesse ritenuto il detto Caonabo, e peggio essere se si lasciava in libertà, sí perchè v'era cosí principale signore, come perchè per sua cagione sempre vi sarebbe stato qualche motivo di guerra, per essere persona di molto valore e sforzo. Ordinò adunche che fossero imbarcati in due caravelle, che stavano già preste per dover partir alla volta di Spagna. Ma, avendo saputo Caonabo e 'l fratello che doveano essere mandati al re catolico, il fratello si morí fra pochi dí, ed esso imbarcato navigando indi a pochi dí morí medesimamente nel mare. E a questo modo restò pacifica a' cristiani tutta la contrada di questo Caonabo, la cui moglie, chiamata Anacoana e sorella del caciche Behecchio (ch'era signore nella parte occidentale di quest'isola), si partí dal regno di suo marito e se n'andò a vivere col fratello nella provincia che chiamano di Sciaragua, dove fu rispettata e tenuta per signora come l'istesso fratello. Di questa Anacaona si dirà appresso, perchè fu gran persona e riputata molto in quelle parti essere stata valorosa molto e di grand'animo e ingegno; e furon certo le cose di questa donna notabili, cosí in bene come 'n male, come al suo luogo si dirà.
Della battaglia e vittoria che ebbe don Bartolomeo Colombo contra il re Guarionex e altri quattordeci re, e come Roldan Scimenes si partí dalla obedienzia del Colombo.
Cap. II.
Quasi nel tempo che Caonabo teneva assediata la fortezza di S. Tomaso, come vogliono alcuni, o dopo quello assedio, come alcuni altri dicono, il caciche Guarionex convocò tutti quelli Indiani e cacichi ch'ei puoté (che furono piú di quindecimila uomini) per dar sopra a' cristiani ch'erano con don Bartolomeo Colombo; perchè, come s'è già detto, gl'Indiani mal volentieri soffrivano questa vicinanza de' cristiani, e non avrebbono per niun conto voluto che qui nell'isola restati fossero, sí perchè non fossero essi de' loro stati privi, secondo che già vi vedevano qualche principio, come perchè solevano all'aperta i cristiani biasmare le loro cerimonie e riti. E tanto piú in questo pensiero si fondarono, che vedevano l'occasione buona per loro, per li pochi cristiani ch'erano in tutta l'isola restati, essendone gran parte morti d'infermità e per i travagli che passati aveano: che già sapevano che l'admirante s'aspettava con nuove genti, nella venuta del quale, perchè i cristiani ormai sapeano i luoghi del paese, essi non avrebbono cosí potuto lor nocere. Posto adunche questo pensiero ad effetto, si mossero con grosso esercito sopra i cristiani.
Don Bartolomeo Colombo, avendo avuto di ciò aviso, non volle farsi forte in quel picciol luogo, né dare al nemico occasione d'attaccarvi di notte fuoco o d'assediarlo dentro, ma da buon cavaliero e atto capitano uscí in campo, e non s'arrestò giamai finchè presso al nemico si ritrovò; e alla seconda guardia o quasi, su la mezzanotte, con qualche 500 uomini, parte sani parte infermi, diede animosamente e con tanto impeto sopra gl'Indiani da due parti, che gli pose in rotta, ammazzandone molti e facendone la maggior parte prigioni; gli altri per l'oscurità della notte scamparono. Vi fu fatto il re stesso Guarionex prigione, con quattuordeci altri re o cacichi che nella battaglia si ritrovarono, la quale battaglia fu fatta presso dove è la terra del Benao edificata.
Fu cosí segnalata questa vittoria e cosí favorevole a' cristiani che, oltra che ne accrebbe lor il credito e la riputazione di valenti presso a quelle genti, fu anco cagione che gl'Indiani si acquietassero e ponessero a queste sue ribellioni e rivolte fine, e che cominciassero ad essere piú domestici e a conversare piú con cristiani, ponendo ogni pensiero di guerra da parte; benchè nel vero la gente di quest'isola è quella che men vale d'altre che si sia veduta in tutte quest'isole e terra ferma dell'Indie, e quella che piú quieta e pacificamente viveva, ancora che fra loro stessi qualche volta fossero discordi e guerreggiassero; ma le lor guerre non erano né cosí continove né sanguinose come in altre parti si veggono.
Ritornando all'istoria, avuta ch'ebbe don Bartolomeo Colombo questa vittoria, parendogli che gran cagione di perpetuare l'amistà e la pace fra cristiani e Indiani era il lasciare in libertà Guarionex con le migliori condizioni possibili, lo pose ad effetto e lo lasciò via libero; onde egli di allora in poi faceva carezze e trattava bene i cristiani nel suo paese quando vi andavano o ne passavano. Sono alcuni altri che dicono che questo caciche non si ritrovasse nella battaglia, ma che v'andasse capitano generale delle sue genti il caciche Maiobanex, e che questi fosse poi con gli altri lasciato libero; ma che nel processo della guerra era stata fatta prigione la moglie di Guarionex, il quale per riscuoterla era venuto a fare pace e amicizia con cristiani.
Ora, doppo di questa vittoria parve che don Bartolomeo Colombo cambiasse affatto natura, perchè si mostrò assai piú rigoroso che prima con cristiani, di modo che alcuni non lo potevano sofferire; e piú che tutti gli altri Roldan Scimenes, che era restato per alcaide maggiore dell'admirante, e al quale non usava don Bartolomeo la cortesia che esso pensava di meritare. Né acconsentiva Roldan che costui nelle cose di giustizia facesse quello che piú voleva; onde sopra di ciò ebbero male parole, e don Bartolomeo gli usò mali termini, perchè, secondo che alcuni dicono, li pose o li volse ponere le mani adosso. Di che egli in modo si sdegnò, che con settanta uomini s'appartò e se n'entrò molto nell'isola adentro, sviandosi dalla conversazione de' cristiani, predicando e dicendo ingiustizie dell'admirante e del fratello, con determinazione però di non appartarsi dal servigio delli re catolici; onde faceva le sue proteste di non volere solamente vivere sotto il governo né dell'admirante né del fratello, come in effetto poi mai non vi visse, perchè se n'andò nella provincia di Sciaragua nello stato del re Beheccio; e quivi stette finchè dopo qualche tempo venne nel governo di questa isola Spagnuola il commendatore Francesco di Bovadiglio, come appresso al suo luogo si dirà.
Del terzo viaggio che fece l'admirante in queste Indie, e come scoperse la costiera di terra ferma e l'isola di Cubagua dove si pescano le perle, e altre isole nuove che ritrovò.
Cap. III.
L'admirante Colombo stette qualche dí nella corte delli re catolici, sodisfacendo e risolvendo l'informazioni sinistre che avevano di lui date il fra Buil e gli altri: e fu con clemenzia ascoltato e assoluto, come nel precedente libro s'è detto. Poi, avuta licenzia di ritornare nel governo di queste terre e di dovere discoprire dell'altre nuove, si partí dal porto di Calis del mese di marzo del 96, benchè vogliano alcuni che fosse nel 97. E uscito nel mare Oceano, con sei caravelle ben armate e proviste di quanto per simil viaggio bisognava, se ne venne in Canaria. Qui ritenne seco tre caravelle; l'altre tre mandò in questa isola Spagnuola, con provisione di molte cose necessarie alla vita e con alcune genti. Ed esso poi si partí con le tre sue caravelle per la volta dell'isole di Capo Verde, chiamate dagli antichi Gorgone. E di qui partendo navigò verso garbin ben cento e cinquanta leghe, ed ebbe una cosí fatta tempesta che fu forzato a far tagliare gli alberi delle mezzane, e alleggerire gran parte delle robbe che portavano, onde in gran pericolo si videro; e cosí dice Fernando Perez Matheos pilotto, che oggi in questa città di San Domenico vive. Ma altramente dice don Fernando Colombo, figliuolo dell'admirante, che in quel viaggio si ritrovò, perchè dice che la tempesta fu di calma, e di tanto calore che gli s'aprivano i vasi e si putrefaceva il frumento, e fu lor necessario d'alleggiare e di scostarsi dall'equinoziale, e corsero al ponente maestro e andarono a riconoscere l'isola della Trinità; il qual nome l'admirante li pose perchè andava con pensiero di chiamare di questo nome la prima terra che vedesse, e cosí, vedendo terra ferma e questa isola con tre monti in un tempo e da presso, chiamò tosto quella isola la Trinità. E passando oltre, per quella bocca che la Bocca del Drago chiamano, vidde terra ferma e gran parte della sua costiera. Ma perchè l'isola e la costiera di terra ferma sono abitate da arcieri caribi, che tirano le freccie avelenate con un'erba alla qual non si trova rimedio, e sono gente assai fiera e selvaggia, non si puote qui avere lingua con gl'Indiani, ancorchè ne vedessero molti nelle lor pirague e canoe sulle quali navigano: delli quali vasselli e della lor forma si dirà appresso. Viddero medesimamente delle genti in terra ferma.
Sta posta questa isola della Trinità nove gradi lungi dall'equinoziale, dalla parte del nostro polo artico, dalla banda che ella verso mezzogiorno si stende, perchè dalla parte che è volta a settentrione sta in dieci gradi dall'equinoziale. È larga da 18 o 20 leghe, e lunga poco piú di 25. Quella terra che è a questa isola opposta dalla parte di mezzogiorno si chiama il Palmare, perchè gran quantità di palme si viddero. E piú verso levante lungo la costiera di terra ferma sta il fiume Salso, che cosí l'admirante il chiamò perchè, volendo torvi acqua, la ritrovò molto salsa. Da ponente in questa isola della Trinità sta la punta delle Saline, lungi dieci o dodeci leghe da terra ferma, e fra questa punta e terra ferma sta un golfo, che l'admirante il chiamò la Bocca del Drago, perchè a guisa d'una bocca aperta di drago sta la figura di questo imboccamento; e dentro questo golfo sono molte isolette. E dalla punta delle Saline, che sta in 10 gradi dall'equinoziale, discorse per la costiera l'admirante verso ponente, e riconobbe alcun'altre isole, che le chiamò i Testigos; e ad un'altra isola pose nome la Graziosa. E vidde molte altre isole che indi erano; e passando oltre scoperse la ricca isola chiamata Cubagua, che ora chiamiamo l'isola delle Perle, perchè qui è la principale peschiera delle perle in queste Indie. E vicina a questa sta un'altra isola maggiore, che l'admirante la chiamò la Margarita. L'isola di Cubagua o delle Perle sta dalla punta delle Saline già dette quasi 50 leghe verso ponente: questa isola è picciola, perchè non gira piú che tre leghe, e quattro leghe è lontana da terra ferma, della provincia che chiamano Araia. E qui discoperse i Testigos, che sono isolette, e l'isola delli Passeri e altre isole. Egli passò l'admirante con le sue tre caravelle lungi la costiera di terra ferma verso ponente, e ritrovò l'isola di Poregari, che sta 27 o 30 leghe lungi da Cubagua. E piú oltre discoperse altre isole, che si chiamano Li Rocchi e l'isola dell'Orchiglia, che si chiama anco Iaruma, dove, come si dice, ne è sí gran quantità. Questa isola è 12 leghe lontana da un'altra isola che discoprí anco l'admirante piú verso ponente, e che si chiama Corazao. Discoperse medesimamente molte altre isole e isolette, finchè giunse al capo della Vela, che questo nome gli pose perchè qui vidde una gran canoa d'Indiani che andava alla vela. Da questo capo alla punta delle Saline e Bocca del Drago sono da 180 leghe. E da questo capo della Vela attraversò l'admirante il golfo che è fra terra ferma e questa isola Spagnuola, e se ne venne in questa città, che a quel tempo stava dall'altra parte di questo fiume. Quel capo della Vela sta da polo in polo con l'isola Beata, che è una isoletta presso a questa Spagnuola, posta trentacinque leghe verso ponente lungi da questa città.
E questo fu il terzo viaggio e discoprimento che fece in queste Indie il primo admirante. Ma perchè abbiamo detto di sopra che in Cubagua ritrovò la pescheria delle perle, ed è cosa cosí segnalata e ricca, è bene che si dica a che modo seppe egli che qui si pescassero le perle, quando particolarmente tratteremo di questa isoletta.
Di quello che fece l'admirante Colombo in questa isola nel suo terzo viaggio, e delli re o signori che in questa isola Spagnuola erano.
Cap. IIII.
Mentre che l'admirante stette in Spagna, e che ritornò la terza volta a discoprire quella parte di terra ferma con l'isole che si sono pure ora dette, non venne mai vassello alcuno di Spagna in queste parti, né di qua ne passò in Spagna alcuno. E perchè quelli che erano da questa isola passati in Europa con l'admirante, e prima anco senza lui, per li travagli che passati avevano se n'erano tutti e poveri e infermi andati, e con tal colore che pareano morti, se ne infermò molto questa contrada delle Indie, e non si ritrovava niuno che vi fosse voluto venire. E io certo ne viddi molti di quelli che di qua se n'erano ritornati in Castiglia, con cosí fatti visi che, se il re m'avesse tutte queste sue Indie donate, dovendo io restare come coloro non vi sarei venuto giamai. E non era da maravigliare se alcuni a quel modo se ne ritornavano, che mi maraviglio come ne potesse scampare uomo vivo, facendo mutazione di terre cosí remote dalle patrie loro, e lasciando tante commodità e vezzi di case loro, e facendosi quasi esuli di tanti loro amici e parenti, e mancando loro le medicine e l'altre tante cose necessarie, che qui per brevità si tacciono.
Le genti adunque del continovo in questa isola mancavano, e quelli che v'erano tanto si restavano di ritornarsi in Spagna quanto che non avevano vascelli da ritornarsene, e del ritorno dell'admirante non s'aveva certezza alcuna; onde si teneva questo paese quasi per perduto e per disutile, e quelli che v'erano con gran paura vi stavano; e vi si sarebbono senza alcun dubio persi se non erano soccorsi da quelle tre caravelle che dalle isole di Canaria vi mandò l'admirante, le quali portarono piú di 300 uomini sentenziati a morte e banditi in questa isola, che furono cagione, con quelli pochi che v'erano, che questa isola non si disabitasse del tutto. E non avevano già i cristiani ardimento d'uscire dalla città, né di passare il fiume da questa altra parte. E si può dire di certo che per questo soccorso fu ristorata la vita di quelli che qui stavano, e si mantenne che non si perdesse del tutto questa isola, perchè fra queste nuove genti vennero molti valenti uomini e persone segnalate; onde perderono affatto gl'Indiani ogni speranza di dovere piú vedere senza cristiani questa isola, massimamente che indi a poco tempo vi videro anco venire l'admirante con l'altre tre caravelle e con buone genti, avendo già scoperte altre isole e parte di terra ferma, come s'è detto.
Egli, giunto in questa città, che allora stava dall'altra parte del fiume, ritrovò don Bartolomeo suo fratello con gli altri cristiani in pace, benchè alcuni stessero di malavoglia per l'absenzia di Roldan Scimenes e ne mormorassero, come è il costume di questa terra; perchè ancora v'erano alcuni affezionati e infetti delle vecchie passioni del tempo di fra' Buil. Ma tutti però ubbidirono e ricevettero l'admirante con lieto continente, come viceré e governatore che veniva in nome delli re catolici. E benchè esso esercitasse il suo ufficio e governo per il miglior modo che poteva, non mancarono però giammai di quelli che delle sue cose si lamentavano; il che bisognava che cosí fosse, perchè col favorire e aiutare uno bisognava che offendesse o mal trattasse un altro. E certo ch'ha da esser angelico piú tosto che umano quel governatore che vuol contentare tutti, perchè altri sono inchinati a' vizii, altri alle virtú, chi a travagliarsi ed esercitare le persone, e chi al riposo e all'ozio, chi a spendere chi a conservare, e chi a una cosa e chi a un'altra; di modo che non si possono tante maniere d'uomini contentare che, per avere diversi fini e intenzioni, è molto difficile il potere intenderli, e il governatore bisogna che abbia una special ventura e favore divino per essere amato; benchè non poco anco da lui dipenda, s'egli avrà queste tre cose sole, che sia retto e senza passione nelle cose della giustizia, che sia liberale e che non sia avaro.
Ma, ritornando all'istoria, l'admirante diede ordine in fondare, o per dir meglio in reformare la città della Concezione della Vega, e la terra di S. Giacomo e quella del Bonao. Queste tre terre furono in questa isola Spagnuola fondate dal primo admirante don Cristoforo Colombo, il quale prima di queste vi fondò anco Isabella, il cui popolo (come s'è detto di sopra) fu trasferito in questa città di San Domenico.
Ora, ritrovandosi in questo stato di cose, l'admirante don Cristoforo se ne ritornò in Spagna, e li re catolici, sentendosi assai ben serviti di lui, gli confermarono un'altra volta i suoi privilegii nella città di Burgos, a' 23 d'aprile del 1497. Ma perchè, per quello che si dirà appresso in questa istoria, bisogna sapersi quali re o prencipi signoreggiavano questa isola Spagnuola, dico che, secondo che io intesi e seppi da quelli che io ho allegati di sopra per testimonii, e per le memorie che io scrissi da che nel 93 viddi in Barzellona li primi Indiani col Colombo nella corte delli re catolici, erano cinque li re o cacichi, che essi chiamano, che signoreggiavano tutta l'isola; e sotto a questi erano altri cacichi di minor stato, che a qualch'uno de' cinque principali obedivano, e venivano alor chiamati o di pace o di guerra, e non mancavano a quanto loro si comandava.
Li nomi delli cinque principali erano questi: Guarionex, Behecchio, Goacanagari, Caiagoa, Caonabo. Il primo signoreggiava tutto il piano, che erano piú di settanta leghe nel mezzo dell'isola. Behecchio possedeva la parte occidentale e la provincia di Sciaragua, e nello stato di costui era quel gran lago del quale si parlerà appresso. Goacanagari signoreggiava dalla parte di tramontana, e nella signoria di costui lasciò l'admirante li trentotto cristiani, quando venne in questa isola la prima volta. Caiagoa regnava nella parte orientale di questa isola, fino a questa città e al fiume d'Aina, e fin dove il fiume Iuna scarica in mare: e questa era in effetto una delle maggiori signorie di tutta l'isola, e le genti di questo regno erano le piú animose, per la vicinanza che avevano de' Caribi; e questo re morí poco doppo che i cristiani gli mossero la guerra, e la moglie sua restò nello stato e fu dapoi cristiana, e si chiamò Anessa di Caiacoa. Il re Caonabo signoreggiava nelle montagne, ed era gran signore e di molto stato, e aveva un caciche per capitan generale in tutto lo stato suo, chiamato Usmatex, che in suo nome vi comandava: ed era questo un cosí valente uomo che ne temevano tutti gli altri cacichi e Indiani dell'isola.
Questo Caonabo s'accasò con Anacaona, sorella del cacico Behecchio; e perchè era un re principale, se ne venne come capitano aventuriero, e per lo valore di sua persona fece questo casamento, e fece sua principale stanza dove è ora la terra di S. Giovan della Maguana, e tutta quella provincia signoreggiò. Fra gl'Indiani di questa isola non erano mai guerre né differenzie, se non per una di queste tre cause: o per li termini e giurisdizioni, o per le pescherie, o quando dalle altre isole venivano Indiani caribi a farvi assalto. E quando questi stranieri vi venivano o v'erano sentiti, ancorchè i cacichi dell'isola fossero fra sé nemici e discordi, tosto si univano insieme e come amicissimi s'aiutavano l'un l'altro contra quelli che d'altre parti vi venivano.
Del lago di Sciaragua, e d'un altro lago posto nelle piú alte parti dell'isola;
e delle genti che in questa isola si trovarono, e con che arme combattevano,
e de' caribi arcieri, e della croce della Concezione della Vega.
Cap. V.
Io voglio qui dichiarare che cosa è il lago di Sciaragua e un altro lago medesimamente posto nelle piú alte montagne di questa isola; e chi sono gl'Indiani caribi, de' quali s'è fatta menzione di sopra, con altre cose assai degne da notare, come si vedrà. Il lago di Sciaragua comincia due leghe lungi dal mare, presso la terra della Iaguana; e chiamasi di Sciaragua perchè cosí chiamano gl'Indiani quella provincia dove egli è. Si stende verso oriente, e in alcune parti è largo tre leghe, il resto è di due leghe o poco piú, o meno d'una. È salso come il mare, perchè v'ha come un occhio che col mare corrisponde, benchè in alcune bocche di fiumi o di ruscelli sia dolce. Sono in questo lago tutte le sorte di pesci che sono nel mare, salvo che balene e altri simili grandi; benchè vi siano tiburoni, che sono assai grandi, con altre molte differenzie di pesci, e tartuche, che chiamano gl'Indiani hicoteas. E nel tempo che fu molto questa isola abitata, si vidde anco abitata tutta la costiera di questo lago da ogni parte. Nel 1515 lo camminai io quanto è lungo, e ritrovai molti Indiani che vivevano in certi bei luoghi posti al paro di questo lago. Si stende questo lago, dalla parte ch'è piú vicina al mare fin dove piú dentro terra se ne entra, disdotto leghe. E perchè vi sono molte peschiere era assai frequentato e abitato, perchè il pesce è quella cosa che piú ordinariamente gl'Indiani mangiano.
L'altro lago che ho detto che sia nella cima delle montagne di questa isola, è una cosa assai nuova e notabile, e benchè siano in questa isola alcuni che ne ragionano, sono pochi o rari coloro che veduto l'hanno. E in effetto io un solo n'ho visto a chi si debba piú credere, perchè è persona da bene, e oggi vive presso a questa città di San Domenico. Costui mi dice che nel tempo del governo del commendator maggiore don fra' Nicola d'Ovando, per ordine di lui andò con alcuni altri cristiani in quelle alte montagne dove nasce il fiume di Nicao, e spezialmente dove viveva il caciche Biauter, che stava a' piè d'un altissimo monte; il qual luogo è quindeci o sedeci leghe da questa città lontano. E da questa parte già detta non si può montare su nel monte, perchè vi sono le balze aspre e dritte, che è impossibile a potere montarvi suso.
Dall'altra parte opposita, adunque, costui, che ha nome Pietro di Lumbreras, montò su a vedere questo lago, e seco andò un gentil uomo chiamato Mescia, con fino a sei ben disposti Indiani. Ma quando furono presso alla cima si restarono gl'Indiani e 'l Mescia dietro, perchè cominciarono a sentire lo strepito che su si faceva. Dimandato il Mescia da Pietro perchè si restasse, rispose che era cosí stanco e morto di freddo che non potea piú passare oltre. Pietro allora, benchè egli stesse anco stanco e sentisse gran freddo, per essere quella montagna altissima, non per questo si restò di proseguire quel camino. Erano andati in su lungo un fiume chiamato Pani, che fra quelle montagne scorre, onde, perchè il fiume poi di traverso si scostava, Pietro di Lumbreras si pose a gire al diritto per la costiera rasa, che chiamano, in su; e molto stanco e attonito giunse quasi alla cima e piú alta parte del monte, dove si riposò alquanto raccomandandosi sempre a Dio, perchè sentiva gran spavento del gran strepito che su in alto si faceva. Pur tutta via volse a ogni modo giunger su, benchè con incredibile travaglio e per difficile camino; e giunto fin dove montare si poteva ritrovò quivi una lacuna, che al parer suo dice che era un tiro di balestra larga e tre tiri lunga, e stette mirando questo lago tanto spazio di tempo quanto si potrebbono dire tre Credi. Dice Pietro che lo strepito e 'l rumore che udiva era tanto che esso ne stava spaventato e attonito, e che non gli pareva quel rumore di voci umana, né sapeva discernere di che animali o fiere si fosse potuto essere; onde, perchè era solo e pien di spavento, se ne ritornò a dietro senza vedere altra cosa. Io l'ho dimandato s'egli giunse all'acqua, e s'era dolce o salsa, e m'ha risposto che non vi si accostò per dodeci o quindeci passi, e che, avendo veduto quanto s'è detto, se ne ritornò dove aveva lasciato Mescia con quelli Indiani. E questo è quanto di questo lago si sa, ancorchè per l'isola ne vadano molte novelle a torno, che io non le credo né son per scriverle finchè non se n'ha maggior certezza.
Veniamo ora a dire de' Caribi. Questi vivono nell'isole convicine, e la lor principale isola fu quella di Burichene, che ora si chiama di S. Giovanni; l'altre furono quelle di Guadalupe, la Domenica, Matitino, Cibucheira, che ora di Santa Croce si chiama, e l'altre che in quel pareggio sono. Da queste isole adunque ne venivano con archi e freccie sopra le lor canoe a fare guerra alle genti di questa isola Spagnuola. Questi Caribi arcieri sono piú disciolti e valenti che non erano quelli di questa isola, perchè in una sola parte di questa isola, dove si dice dei Ciguai, sotto la signoria del Caonabo, erano di questi arcieri, i quali non tiravano però con erba né la sapevano fare. Si crede che questi anticamente venissero d'alcuna dell'isole convicine de' Caribi, dove tanti arcieri sono, e che per l'antichità si fossero dimenticati della lingua loro e parlassero di quella di questa isola; che se questo non è, può essere per aventura che dalli loro inimici stessi, per difensarsi da loro, apprendessero l'uso di queste arme, benchè i Caribi tirano con un'erba assai cattiva e pestifera. Ma io tengo queste arme dell'arco e delle freccie assai naturali, o le piú antiche che fossero al mondo; benchè Plinio dica che Scitha figliuolo di Giove fusse il primo che ritrovò l'arco e le saette. Altri dicono che Perseo le ritrovasse, ma io tengo queste arme piú antiche di quello che dice Plinio, poi che si legge che Caim fu da Lamech morto con una saetta, la quale costui, credendo tirare a qualche fiera, la lasciò uscire dalla cocca. Questa auttorità ci fa chiaro che le saette sono le piú antiche arme che s'usassero o le piú naturali, e come tali poterono queste genti selvaggie naturalmente usarle.
Ma, ritornando al proposito nostro, dico che il colore di questi Caribi è misticcio di bianco e nero. Sono di minor statura che non è communemente la gente di Spagna, ma sono ben fatti e proporzionati, salvo che hanno la fronte ampia e i buchi del naso molto aperti, e il bianco degli occhi alquanto torbido. Ma questa maniera di fronte ampia e larga si fa da loro artificiosamente, perchè, quando nascono i putti, gli stringono le teste con mani di tal maniera, e nella fronte e nella parte opposita, che, perchè sono tenerelli, ne restano a quel modo le fronti piane e di mala grazia. Vanno tutti ignudi e non hanno barba, anzi per lo piú sono sbarbati e senza peli. Le lor donne vanno ignude, e dalla cinta in giú portano certe coverte di bambace che non giungono se non fino alla metà delle gambe; e le caciche e donne lor principali le portano che giungono fino a' calcagni; e le tette con quanto è dalla cinta in su portano discoverte. È questo l'abito delle donne accasate o che avevano conosciuto uomo, perchè le donzelle vergini andavano del tutto ignude senza altra benda. Ve ne sono alcune di buona disposizione. Hanno gli uomini e le donne buoni capelli, neri, piani e sottili, ma non hanno buoni denti. Doppo che i cristiani passarono in queste parti, con la lor conversazione, entrarono queste genti in qualche vergogna, e perciò gli uomini si posero un pezzo di panno quanto una mano appeso davanti alle lor parti vergognose: ma non già con tanta accortezza e aviso che ne coprissero di sorte queste parti che non le lasciassero vedere.
Combattono gl'Indiani di questa isola con certi bastoni la cui larghezza è di tre diti o poco piú, e sono cosí lunghi quanto è alto un uomo, e hanno duo fili o tagli aguzzi alquanto, e nel suo estremo è una manichetta, e se ne servivano come di azza a due mani. Sono queste armi di palma e d'altri alberi forti. Scrive Plinio che gli Africani furono i primi che con gli Egizii combattessero con bastoni di legno, che si chiamavano falangi, che a me a punto pare che siano queste armature d'Indiani che noi dicevamo, ancorchè i Latini chiamino falange lo squadrone di gente da piè posta in ordinanza, ed è chiamato anco di questo nome uno aragano venenoso; dicono anco i Latini falanga per palanca. E, ritornando all'ordine nostro, combattono medesimamente queste genti con bastoni da lanciare, come dardi, e alcuni ne sono piú sottili che dardi e con le punte aguzze, che sono fra gente ignuda arme assai pericolose, e fra gente anco che buon riparo non v'abbia; perchè quelli che sono di palma se cogliono di traverso si spezzano facilmente, ed è peggio cavare fuora della carne quelli pezzetti sottili che vi sogliono restare che non è a curare la piaga principale.
Or, quanto alla santa croce della Concezione della Vega, si dee sapere che nel secondo viaggio che l'admirante don Cristoforo Colombo fece a questa isola comandò ben a venti uomini de' suoi che tagliassero un albero diritto e alto e ne facessero una croce. La maggior parte di questi a chi fu imposto erano marinai, e con loro andò Alonso di Valenzia, e tagliarono un albero grosso e tondo e ne troncarono un pezzo della parte piú alta, e ve lo attraversarono facendone una croce, che fu da disdotto o venti palmi alta. Affermano molti, e per cosa publica e certa tengono, che questa croce abbia quivi poi fatti miracoli e che abbia questo legno sanati molti infermi; ed è tanta la devozione che v'hanno i cristiani che ne tagliano e furano alcuni pezzotti, per portarli come reliquie sante in Spagna e in altre parti. E in effetto ella è tenuta in molta venerazione, sí per li suoi miracoli come perchè, in tanto tempo che è stata scoverta a cielo aperto, non s'è mai putrefatta né caduta mai per tempesta di vento o d'acqua che fatta abbia; né la poterono mai gl'Indiani muovere da quel luogo, ancorchè con corde legandola s'ingegnassero gran quantità di loro di trarla fuori; onde pieni di spavento la lasciarono finalmente stare, quasi a questo modo della sua santità ammoniti. E veggendo come i cristiani hanno in molta riverenzia la croce, e che essi con tanta forza non erano bastanti a muoverla, la solevano poi con certo rispetto e riverenza mirare, e se gl'inchinavano e umiliavano veggendola.
Come il commendatore Francesco di Bovadiglia venne al governo di questa isola Spagnuola,
e mandò prigion l'admirante con li fratelli in Spagna; e di quanti Indiani furono già in questa isola,
e per che cagione morirono e se n'è quasi perduta la semenza.
Cap. VI.
Stette l'admirante in questo governo fino al 1499, che li re catolici, sdegnati della informazione che avevano del modo che don Cristoforo Colombo e 'l fratello tenevano nel governare questa isola, deliberarono di mandarvi per governatore un cavaliere antico creato della corte, persona molto onesta e religiosa, chiamato Francesco di Bovadiglia, cavaliere dell'ordine militare di Calatrava. Costui, spedito dalla corte e partito di Spagna, tosto che giunse a questa città prese l'admirante e suoi fratelli, don Bartolomeo e don Diego Colombi, e fattili imbarcare separati in tre caravelle li mandò con ferri a' piedi prigioni in Spagna, dove furono consegnati al castellano della città di Calis, fin che venisse ordine dal re e dalla reina di quello che se ne fusse dovuto fare. Dicono alcuni che 'l commendatore Bovadiglia non fu mandato perchè prendesse l'admirante, ma perchè fusse solo giudice di residenzia e perchè s'informasse della cagione perchè si fusse Roldan con compagni separato e tolto dalla obedienzia. Ma, o che li fusse stato ordinato o no egli prese e mandò prigion l'admirante e fratelli in Spagna, ed esso restò nel governo di questa isola e la tenne in molta pace e giustizia fino al 1502, che fu da questo governo rimosso ed ebbe licenzia di potere ritornarsi in Spagna, benchè non avesse tanta ventura che potesse giungere a salvamento in Castiglia.
Ora, tosto che questo cavaliero a questa isola Spagnuola giunse, gli scrisse il Roldano una lettera, e poco appresso se ne venne con tutti quegli altri che erano seco nella provincia di Sciaragua a servirlo, e a vivere sotto la debita obedienzia delli re catolici, de' quali erano vassalli. Questo commendatore Bovadiglia mandò in Spagna molte informazioni contra l'admirante e fratelli, mostrando le cagioni perchè presi gli avesse: però in effetto le piú vere cagioni si restavano occulte, perciochè sempre il re e la reina cercarono e tennero modo che questi Colombi s'emendassero piú tosto che restassero mal trattati. Io dirò qui quello che alcuni loro opponevano per colparli.
Si diceva che l'admirante aveva voluto tener secreto il discoprimento delle perle, e che non lo scrisse mai fin che intese che in Spagna si sapeva, perchè erano andati all'isola di Cubagua alcuni marinari nominati Nini: e che questo lo faceva per avere a capitulare di nuovo. Si diceva medesimamente che egli fusse assai superbo e oltraggioso, e che trattasse male i servitori e i creati della corte del re, e che troppo licenzioso si mostrasse, non obedendo alle lettere né agli ordini delli re suoi, se non quanto a lui piaceva, perchè nel resto dissimulava e ne faceva a sua volontà. Ma d'altra maniera raccontano tutto questo alcuni altri e dicono che la mostra delle prime perle che s'ebbero fu dall'admirante mandata alli re catolici per un gentiluomo chiamato Arroial, tosto che egli le discoprí e ritrovò. E quello che piú di certo s'ha, che mai non mancarono nel mondo detrattori e invidiosi, onde, perchè questo paese è lontano dal suo re, e quelli che qui vengono sono di differenti provincie e di contrarii desii e opinioni, ne nasce che le cose variamente si tolgano, perchè ad alcuni pare che l'admirante usasse la giustizia mosso da un buon zelo del servigio di Dio e del suo re, altri al contrario l'interpretano e biasimano una tanta rigorosità; si che secondo la varietà delle passioni chi la dipingeva a un modo e chi ad un altro, e chi ne scriveva una cosa e chi un'altra, di maniera che s'effettuò la prigione dell'admirante, e vi diede gran colore l'essere esso poco paziente, e l'essere mal visto e riputato crudele.
Ed essendo stato (come s'è detto) condotto in Spagna, subito che il re e la reina l'intesero mandarono a fare desligar lui e i fratelli, ordinando loro che alla corte andassero. V'andò tosto l'admirante, a baciare al re e alla reina la mano e a purgarsi con le lagrime agli occhi il meglio che poté. Udito che l'ebbero, con molta clemenza lo consolarono, e cosí fatte parole gli dissero che esso ne restò alquanto contento. E perchè i suoi servigi erano cosí segnalati, ancorchè vi fusse stato usato qualche disordine, non poterono cosí graziosi prencipi sofferire che l'admirante fusse maltrattato; e cosí subito gli fecero restituire tutte l'entrate ch'egli qui aveva, che gliele avevano tolte e ritenute tosto che egli fu prigione; ma non volsero che egli per niun conto ritornasse piú nel governo dell'Indie. Aveva già l'admirante, come savia persona, tosto che la prima volta ritornò in Spagna con le nuove del primo discoprimento di queste Indie, supplicato li re catolici che fusse lor piaciuto che il prencipe don Giovanni avesse i suoi figliuoli ricevuti per paggi. Ed erano questi suoi figli don Diego Colombo, suo legitimo e primogenito figliuolo, e l'altro era don Fernando Colombo, che anco oggi vive ed è un virtuoso cavaliere, e di piú dell'essere ben nobile e d'affabile e dolce conversazione, è anco dotto in diverse scienzie, e specialmente nella cosmografia: e la maestà cesarea ne fa meritamente conto, come di buon servitore e creato, e per li tanti servigi dell'admirante suo padre. Il prencipe don Giovanni adunque trattò questi figliuoli assai bene e gli tenne in casa sua, fin che piacque al Signore di condurlo nella sua santa gloria nella città di Salamanca nel 1497.
Ma, ritornando al proposito dell'istoria, doppo che ebbe l'admirante avuto il perdono, non fu men che prima dal re e dalla reina ben trattato, e come prudente cercò di potere per tutte le vie possibili riavere la grazia di quelli buoni prencipi, e d'avere licenzia di poter ritornar a queste Indie: ma furono tante le querele che avea avute contra che non puoté cosí presto ottenerlo. E in questo mezzo il governatore Bovadiglia governò questa isola fino a l'anno (come s'è detto) del 1502; nel qual tempo si cavò molto oro delle minere dell'isola, perchè vi erano molti Indiani che l'andavano cavando per li cristiani e per li re catolici, in nome de' quali vi si lavorava particolarmente, perchè avevano già le sue proprie minere e possessioni sotto il suo nome real; perchè tutti gl'Indiani furono ripartiti per l'admirante fra tutti gli abitatori che erano venuti a stare in queste parti, ed è opinion di molti che lo viddero, e parlano in questo come testimonii di veduta che, quando l'admirante discoprí questa isola vi ritrovò un million di persone fra Indiani e Indiane, o piú, di varie età, de' quali tutti, e di quelli anco che da poi vi nacquero, si crede che non ve ne siano al presente, che siamo nel 1535, fra piccioli e grandi, restati cinquecento che siano discesi da quelli primi che v'erano; perchè la maggior parte di quelli che oggi vi sono, vi sono stati condotti dalli cristiani per lor servigio o dalle altre isole o da terra ferma.
Perchè erano le minere assai ricche e l'avarizia degli uomini insaziabile, alcuni eccessivamente travagliarono gl'Indiani, altri non diedero lor da mangiare quanto si conveniva; e con tutto questo vi era anco che queste genti sono naturalmente oziose e viziose e di poca fatica e maninconici e codardi e vili e male rallevati e bugiardi e di poca memoria e inconstanti, onde molti di loro per non s'affaticare s'ammazzarono con veleno, altri s'impiccarono con le proprie mani, altri in cosí fatte infermità mancarono, e spezialmente d'alcune variole pestilenziali che vennero generalmente in tutta l'isola, che in breve tempo tutti gl'Indiani si finirono. Fu anco gran cagione della lor morte la mutazione de' governatori che li ripartirono, perchè, passando da signore a signore, e da un avaro ad un altro maggiore, ritrovarono quasi tanti istromenti della lor morte; ma, per qualunque cagione si morissero, che in effetto i ministri di quelle persone nobili che erano presso al re catolico e participavano di questi utili dell'Indie, con soverchio travagliarli ne furono cagione, non sarà cristiano alcuno che delle facoltà per questa via guadagnate n'abbia invidia.
Permise anco il Signore Iddio la rovina di questi Indiani e per li peccati de' cristiani discortesi e avari, che tanto del sudore di queste genti godevano senza dottrinarle e recarle al conoscimento del vero Iddio, e per li peccati anco grandi, enormi e abominevoli di queste genti selvaggie e bestiali. Perchè in effetto, come dicono tutti coloro che l'han veduto, in niuna di queste provincie dell'isole o di terra ferma che si sono scoperte non sono mai mancati né mancano sodomiti poltroni, né idolatri, né d'altri molti vizii e cosí nefandi che non si potrebbono né dire né ascoltare senza molta vergogna; senza che sono queste genti ingratissime, di poca memoria e meno capacità. E se in lor si trova qualche bene, è mentre che non giungono all'adolescenzia, perchè poi in tanti difetti s'infangano, che è una abominazione ad udirli. Tutte queste cose si sono praticate e disputate da molte religiose persone dotte e di molta conscienzia di varii ordini, perchè quivi sono di san Domenico, di san Francesco, delle Grazie, come della regola di san Pietro apostolo, e d'altri molti prelati e qui e in Spagna, per assecurarne le coscienzie delli re quanto al trattamento di questi popoli, sí perchè le loro anime si salvassero come perchè di lungo vivessero. E ne furono perciò fatti molti ordini e provisioni reali a' governatori e ufficiali loro, ma non v'ha bastato cosa alcuna a fare che questa infelice generazione non si consumassino queste isole. Né io voglio di questa colpa segnalare alcuno di quelli che qui sono stati: questo so bene io, che quello che dicevano i frati di san Domenico era contradetto da quelli di san Francesco, e quello che questi affermavano quegli altri negavano; e poi col tempo quello che tenevano prima i domenichini era reprobato dai franceschini, i quali quello che prima detto avevano essi stessi lo rifutavano, e i domenichini allora all'incontro l'approbavano; di modo che e questi e quelli ebbero una stessa opinione in diversi tempi, ma non dissero mai una cosa stessa insieme.
Or vedete come poteva bene intendere questa cosa chi l'ascoltava, o quale eleggere per la migliore per dovere accostarvisi. Le quali cose sono pericolose non solamente a quelli che vengono nuovi alla fede, ma alli cristiani antichi ancora, che in molti scrupoli entravano veggendo che questi frati non li volevano assolvere se non lasciavano via gl'Indiani, e quegli altri religiosi gli assolvevano e davano loro i sacramenti. Io scrivo quello che io ho veduto, e non voglio attribuirlo alla colpa di cosí buoni religiosi che sono stati e stanno in queste Indie, ma alla disaventura e infelicità degl'Indiani stessi: o, per dir meglio, questo secreto si lasci al grande Iddio, il quale non fa cosa ingiusta né permette che cose cosí importanti senza gran ministerio siano. Né voglio in questa materia piú stendermi, perchè mi sono ritrovato due volte in Spagna a giurare, per ordine delli signori del consiglio reale dell'Indie, quello che mi pare dell'essere e della capacità di questi Indiani e degli altri di terra ferma (quanto a que' luoghi i quali ho veduti): e una volta fu in Toledo nel 1525, l'altra volta fu in Medina del Campo nel 1532. E cosí ne giurarono anche altre persone segnalate, e credo che ognun guardassi bene alla conscienzia sua in dir la verità di quello che fu da quelli signori dimandato. E nel vero, se in quelli dí stessi quando io giurai fussi stato in articolo di morte, non avrei altro che quello stesso detto, sí che io mi rimetto a questi dotti religiosi, doppo che accordati seranno.
Fra tanto, chi avrà Indiani pensi di trattarli come prossimi, e guardi bene alla sua conscienzia: benchè in questo caso v'ha oggi poco che fare in questa isola e in quella di San Giovanni e in Cuba e in Iamaica, perchè in tutte queste è avenuto il medesimo. E ora che sono queste genti morte tutte, potranno questi padri religiosi per l'esperienzia meglio decidere quello che bisogna farsi con gli altri Indiani che s'hanno a soggiogare in quelli tanti altri regni e provincie di terra ferma; che io per me non assolvo i cristiani che si sono arricchiti con le fatiche degl'Indiani, se gli hanno maltrattati e non hanno usata ogni diligenzia perchè si salvassero. Né posso pensare che senza la lor colpa fussero gl'Indiani castigati e quasi estinti dal giusto Iddio, perchè erano viziosi e sacrificavano a' demonii, con le lor cerimonie e riti che si diranno appresso, quando sarà tempo: non già tutti, perchè sarebbe impossibile, ma una parte di loro.
Come il commendatore maggior d'Alcantara venne al governo di questa isola, e come, partendo Francesco di Bovadiglia con tutta l'armata, perí in mare con gran copia d'oro, benchè l'admirante, prevedendo questa tempesta, ne avesse il commendator maggiore avisato.
Cap. VII.
Nel tempo che il commendatore di Larez don fra' Nicola d'Ovando, dell'ordine e cavalleria militare d'Alcantara, passò in questa città di San Domenico, non era ancora commendator maggiore del suo ordine, ma, vacando in quel mezzo per la morte di don Alonso di Santigliano questa commenda, il re catolico ne fece grazia al detto commendatore di Larez, che era già qui stato qualche anno; e per questo, mentre che di lui tratterò, nol chiamerò altramente che commendator maggiore. Ora costui, per ordine delli re catolici, se ne venne a questa isola con trenta fra navi e caravelle; nella quale armata vennero molti cavalieri e nobili di diverse parti delli regni di Castiglia e di Leone. Perchè, mentre visse la reina donna Isabella, non si lasciavano passare a queste Indie se non i vassalli proprii degli stati del patrimonio della reina, benchè questi stessi furono coloro che le Indie discoprirono, e non gli aragonesi né i catalani né i valenziani né altri vassalli del patrimonio del re catolico. Solamente per speziale grazia si concedeva ad alcuno creato della corte il potere passarvi, ancorchè non fusse castigliano, perchè, essendo queste Indie della corona e conquista di Castiglia, cosí voleva la serenissima regina, che solamente i suoi vassalli passassino in queste parti e non alcun altro, se non era per farli qualche grazia segnalata. E questo vi si servò fino all'anno 1504, che ella se ne salí nella gloria del paradiso, perchè poi il re catolico, governando i regni della reina donna Giovanna, sua figlia e nostra signora, diede licenzia agli aragonesi e a tutti gli altri suoi vassalli di potere a queste Indie passare con ufficii; la qual licenzia s'ampliò poi maggiormente dalla maestà cesarea, e vi passano ora tutti quelli che vogliono pure che suoi vassalli siano.
Or, ritornando all'istoria nostra, giunse il commendatore maggiore a questa città di San Domenico a' quindeci d'aprile del 1502, stando i nostri ad abitare dall'altra parte di questo fiume Ozama. Egli fu tosto accettato per governatore, e il commendatore Bovadiglia diede ordine per doversi partire per Spagna, perchè li re catolici, sentendosi ben serviti di lui, gli diedero licenzia di potere ritornarsene. E cosí egli s'imbarcò per Castiglia nella armata con la quale era venuto il commendatore maggiore, e vi fece anco imbarcare piú di centomila pesi d'oro fuso e bollato, con alcuni granelli grossi da fondersi, perchè si vedessero in Spagna; perciochè, se bene altre volte ve n'era stato portato, e delli re catolici e di persone particolari, mai in niuno viaggio ve n'era stato portato insieme né in granelli cosí segnalati, perchè fra gli altri vi era un granello che pesava trentasei libbre, che sono pesi overo ducati 3600. E al parere d'uomini esperti nelle cose minerali non vi erano piú che tre libbre di pietra, di modo che sarebbe restato netto trentatre libbre d'oro, che sono ducati 3300; ed era questo grano grande quanto un pane grande schizzato, di quelli che si vendono in Utrera. Ma perchè nel memoriale che io scrissi in Toledo nel 1525 dissi che questo grano pesava trecentomiliadugento pesi, fu perchè io lo scrissi non avendo meco i miei memoriali, e tenendomi in molte cose al meno di quello che avrei potuto dire. Ora che sto in parte dove vivono molti testimoni che quel granello viddero, dico che pesava qualche poco piú di trentasei libbre, fra l'oro e la pietra che v'era. E fu questo granello ritrovato da una Indiana di Michel Dias, il qual, come si disse di sopra, fu cagione che questa città s'abitasse da' cristiani dall'altra parte del fiume; e perchè costui facea compagnia con Francesco di Garai, restò per amendue questo bel grano d'oro, e cavato il quinto che al re toccava fu loro pagato il resto, e restò il granello per li re catolici; ma in quella armata del Bovadiglia si perdé. Ed era questa bella gioia cosí grande che, quando quei cristiani l'ebbero in mano, tutti lieti deliberarono di mangiarvi sopra una porchetta, perchè un de' compagni disse: "Gran tempo fa che io ho avuto speranza di mangiare in piatti d'oro, e poi che di questo granello si possono molti piatti fare, io voglio tagliarvi sopra questa porchetta". E cosí fece, e sopra quel ricco piatto mangiarono: perchè era cosí grande come s'è detto, vi capeva la porchetta intera agiatamente.
Or, ritornando all'istoria, il commendator Bovadiglia con disgraziata aventura partí, e Antonio di Torres, fratello del bailo del prencipe, era capitano generale di questa armata. Ora, stando per partire, accadette che uno o duo dí prima che uscissero dal porto giunse qui l'admirante don Cristoforo Colombo, che con quattro caravelle veniva, per ordine delli re catolici, a discoprire nuove terre, e menava seco don Fernando Colombo suo figlio; e giunto una lega presso a questo porto di San Domenico, il commendatore maggiore vi mandò tosto un battello a vietarli che qui nel porto non entrasse: si crede che egli fusse stato prima di questa venuta avisato. L'admirante, udendo questo, rimandò a dire al commendatore maggiore che, poichè non voleva che esso entrasse in que' luoghi che esso avea discoverti, che l'obediva, ma che pensava che non era questo il servigio delli re catolici; solo li chiedeva di grazia che non avesse fatto uscire del porto quella armata, perchè non li pareva il tempo buono, e che esso perciò s'andava a cercare porto sicuro, poichè nol ritrovava quivi. E cosí se n'andò con le sue caravelle a porto Ascoso, che è in questa stessa isola, dieci leghe lontano da questa città di S. Domenico, dalla banda di mezzogiorno verso ponente, e quivi si stette finchè passò la tempesta che appresso diremo; e poi attraversò la volta della costiera di terra ferma, e discoprí quello che al suo luogo si dirà appresso. Alcuni altri dicono che egli se n'andasse ad Azua, e che quivi stesse finchè la tempesta cessò.
Di quello che discoprirono nella costiera di terra ferma
i capitani Alonso d'Hoggieda e Rodrigo di Bastidas.
Cap. VIII.
Mentre l'admirante don Cristoforo Colombo stette in Spagna, il capitano Alonso di Hoggieda, col favor del vescovo don Giovan Rodrigues di Fonseca, ch'era il principale che nel governo di queste Indie intendeva, andò a discoprire nella costiera di terra ferma, e tenne il suo pareggio a riconoscere sotto il fiume Maragnon nella provincia di Paria; e prese terra otto leghe sopra dove è la terra di Santa Marta, in una provincia che si chiamava Cinta, dove era uno caciche chiamato Aiaro, che restò pacifico e molto amico de' cristiani; il quale prese poi per inganno un altro capitano chiamato Cristoforo Guerra. E fu questo nell'anno 1501. Ma non furono questi soli che armarono, perchè anco il capitano Rodrigo di Bastidas corse dal capo della Vela (dove era già prima giunto l'admirante, quando discoprí la costiera di terra ferma) e passò oltre verso ponente.
Mi pare che non potrei senza esserne incolpato tacere quello che è a mia notizia venuto di quanto ha segnalatamente fatto in queste parti ciascuno. Pertanto dico che Rodrigo di Bastidas uscí di Spagna nel 1502 con due caravelle dal porto della città di Calis, a sue spese e di Giovanni di Ledsma e d'altri suoi amici, e fatta vela la prima terra che prese fu una isola che, per essere molto fresca e piena di grandi alberi, la chiamarono l'isola Verde. Sta questa isola alla parte che è dalla isola di Guadalupe verso terra ferma, e presso all'altre isole che in quel pareggio sono. Indi questi legni partirono per la costiera di terra ferma, dove, praticando con gli Indiani in diverse parti, ebbero fino a quaranta marche d'oro, e scorsero la costiera verso ponente, oltra il porto di Santa Marta dal capo della Vela, e poi oltre il fiume Grande. E piú innanzi discoprí il medesimo capitano Rodrigo il porto di Zamba e gl'Incoronati, che sono una terra dove portano tutti gl'Indiani certe corone grandi. E piú verso ponente discoprí il porto che chiamano di Cartagena e l'isole di San Bernardo e l'isole di Baru, e quelle che chiamano l'isole dell'Arene, che stanno dirimpetto e presso alla già detta Cartagena. E passando oltre discoprí l'isola Forte, che è un'isola piana, due leghe lontana dalla costiera di terra ferma, e vi si fa molto sale e buono. E piú innanzi sta l'isola della Tortuga, che è picciola e disabitata. E passando oltre discoprí il porto del Cenu, e poi oltre piú discoperse la punta di Caribana, che sta alla bocca del golfo d'Uraba, ed entrato in questo golfo vidde l'isolette che nell'altra costiera a fronte stanno presso a terra, nella provincia del Darien; e giunto qui si ritrovò avere discoperto cento e trenta leghe, che sono dal capo della Vela fin qua. E quando l'acqua è bassa nel mare, trovò la dolce in altezza di 4 braccia, dove ei poteva star sorto, e chiamò il golfo Dolce quello che si chiama d'Uraba; però non vidde il fiume di San Giovanni, che similmente chiamano il fiume Grande, ch'entra per sette bocche o sette rami nel detto golfo, il quale è causa che diventi dolce nel calare che fa l'acqua del detto mare, e in spazio di 12 leghe di longezza e d'altre 4 o 6 di larghezza, ch'è da costa a costa dentro il detto golfo d'Uraba. Ma del fiume e del golfo si ragionerà piú particolarmente, perchè io in quella contrada vi sono stato alquanti anni.
Ora in questo viaggio andava per pilotto principale Giovan della Cosa, che fu un eccellente uomo in mare. In quel golfo stettero costoro qualche giorno, e perchè i loro vasselli stavano molto abbissati e faceano molta acqua, deliberarono di dare la volta e attraversarono all'isola di Iamaica, dove tolsero rinfrescamento; e di qui poi se ne passarono all'isola Spagnuola, e se ne entrarono nel golfo di Sciaragua, dove perderono i legni, che non potevano piú sostentarsi in mare. Quando le genti furono in terra se ne andarono alla città di S. Domenico, dove ritrovarono che 'l commendatore Bovadiglia tenea già preso l'admirante. E fu anco tosto dal detto commendatore preso il capitan Rodrigo di Bastidas, perchè avesse fatti riscattar gl'Indiani della medesima isola Spagnuola; e fu nell'istesso legno nel quale andò l'admirante mandato prigione in Spagna. Ma il re e la reina fecero amendue subito liberare, e per questo servigio, che fu grande nel vero e fatto alle spese del medesimo capitano Rodrigo e d'altri suoi amici, come s'è detto, li re catolici li fecero grazia di 50 mila maravilis d'entrata sua in vita, in quella provincia del Darien.
Tutto quello che discoprí il capitan Rodrigo in questo viaggio, quale è fino alla ponta di Caribana, d'Indiani arcieri e della piú valente gente di terra ferma: e di questa sorte son tutti quelli che vi abitano, dal capo della Vela verso levante fino alla bocca delle Saline e alla bocca del Drago, che l'aveva già l'admirante prima scoperto in terra ferma. E queste genti della detta costiera e dell'isole che vi sono tirano con una certa erba velenosa e irremediabile, e se rimedio alcuno vi ha i cristiani nol sanno. Ma al suo luogo si dirà a che modo essi fanno e temprano questa venenosa erba. Ma è già tempo di ritornare all'admirante, e a quello ch'egli discoprí in quest'altro suo viaggio.
Come si perdé in mare l'armata del commendatore Bovadiglia, e dell'ultimo viaggio e discoprimento che fece in terra ferma l'admirante don Cristoforo Colombo.
Cap. IX.
Egli s'è detto di sopra come l'admirante venne di Spagna in questo suo ultimo viaggio per discoprire il resto di terra ferma, e cercare quello stretto che esso diceva dovere ritrovare per passare nel mare di Mezogiorno: nel che egli s'ingannò, perchè lo stretto ch'egli pensava che vi fosse di mare vi è di terra, come si dirà appresso. Ma il commendatore maggiore non volle che egli entrasse nel porto di questa città di S. Domenico, ed egli avisò lui che, perchè il tempo li pareva cattivo, non lasciasse navigare il commendatore Bovadiglia con l'armata, ch'era già in ponto per dover passare in Spagna. Ma, perchè non gli fu creduto, ne succedette quello di male che appresso si dirà. L'admirante, come accorto e savio nochiero, si ridusse tosto nel porto Alsoso, e passata poi la fortuna seguí il suo cammino a discoprire i luoghi di terra ferma; e perchè avea già avuto notizia che il capitano Rodrigo di Bastidas aveva discoperto fino al golfo d'Uraba, che sta in nove gradi e mezo la ponta di Caribana, ch'è alla bocca di quel golfo, passò oltre a discoprire la costiera di terra ferma piú verso ponente.
Ma prima che a dire di questo discoprimento passiamo, non voglio lasciare a dietro la morte del commendatore Bovadiglia e del capitano dell'armata Antonio di Torres, che a questo modo passò. Non volendo questi cavalieri seguire il consiglio dell'admirante, uscirono del porto di questa città di S. Domenico, ed essendo otto o dieci leghe l'armata in mare, le sopragionse tal tempo sopra che di trenta legni grossi non ne scamparono piú che quattro overo cinque. La maggior parte di quelli che si perderono andarono traversi per queste costiere; gli altri si affogarono in modo nel mare che non apparirono piú mai, e cosí si annegarono piú di cinquecento uomini, fra i quali i piú principali furono quelli che si sono già detti, con quel Roldano Scimenes che si ribellò contra l'admirante e il fratello, e con altri nobili e buona gente. E qui si perdé quel granello di oro che ho detto altre volte che pesava 3600 pesi di oro, con altri centomillia pesi di oro e altre molte cose di prezzo, di modo che questa fu una gran perdita e un cattivo viaggio.
L'admirante adunque, che questo cattivo tempo conobbe, si ritirò nel porto Ascoso, che egli cosí chiamò, e passata la tempesta attraversò la volta di terra ferma; e per quello che io ho udito dai pilotti Pietro di Umbria, Diego Martin Cabrera, e d'altri che in quel viaggio si ritrovarono, l'admirante andò a riconoscere la isola di Iamaica, e indi passò a riconoscere il capo di Higueras e l'isole delli Guanaggi (una delle quali è chiamata Guanascia), e se n'andò al porto di Honduras, e chiamò questa terra la ponta di Cascines; e poi se ne passò al capo di Grazie a Dio, e tirò la volta di levante per la costiera di terra ferma, e discoprí la provincia e fiume di Veragua; poi passò ad un altro gran fiume che sta piú tosto verso oriente, e chiamollo il fiume di Belen: e sta questo longi una lega dal fiume che gl'Indiani chiamano Iebra, che è il medesimo di Veragua, e che si crede che sia una delle piú ricche cose che siano in quanto si è discoverto. Di qua, costeggiando verso oriente, giunse ad un gran fiume e lo chiamò il fiume di Lagarti: ed è quello che ora i cristiani chiamano Chagre, e nasce presso al mare del Sur (cioè di Mezzogiorno), ancorchè venga poi a scaricare in questo di Tramontana, e passa quattro leghe lungi dalla città di Panama. E indi discorrendo giunse ad una isola che è vicina alla costiera di terra ferma, e la chiamò l'isola di Bastimientos e Porto Bello; e poi passò oltre al Nome d'Iddio (il qual nome pose poi a quel porto il capitano Diego di Nicuesa, come al suo luogo si dirà), e ne venne al fiume di Francesca e al porto del Ritretto; e indi corse fino al golfo che egli chiamò di San Biasio, e montò oltre per la costiera fino all'isole di Pocorosa, e qui chiamò l'admirante capo di Marmo. Di modo che, in questo ultimo suo viaggio, discoprí l'admirante 190 o 200 leghe della costiera di terra ferma.
E poi attraversò alla isola di Iamaica, la quale sta cento leghe lontana dal capo di Grazie a Dio la volta di greco, e ivi si perderono i due legni che conduceva, già molto stanchi e abbissati: perchè delle quattro caravelle con le quali era uscito ne aveva lasciato una persa nel fiume di Lebra, nella provincia di Veragua; l'altra l'avea lasciata nel mare, perchè non si reggea sopra l'acqua, perciochè in quella costiera di terra ferma, per li molti e gran fiumi che vi sono, vi è anco molta biscia, e se ne vengono perciò presto a perdere i vasselli. Ma prima che all'isola di Iamaica giungessero, attraversarono a riconoscere la terra di Omohaia, che è nell'isola di Cuba dalla banda di mezzogiorno, quasi nel fine dell'isola, dove sta ora edificata la terra della Trinità.
Ora, avendo navigato un mese in questo discoprimento, nell'isola di Iamaica (come s'è detto) si perderono l'altre due caravelle, nella costiera dove ora dicono Siviglia; e da questo luogo mandò l'admirante a dare notizia di sé al commendatore maggiore, che stava in questa città di San Domenico, e vi mandò, sopra una canoa guidata da alquanti Indiani, un Diego Mendez suo creato, gentiluomo molto onorato, abitator di questa città, che oggidí anco vive. Costui s'arrischiò e pose in gran pericolo, per essere la canoa assai picciola e perchè facilmente si volgono sozzopra nel mare queste canoe: e niuno che ami la vita sua s'ingolferà mai sopra cosí fatti vasselli, ma vi costeggierà solamente ben presso terra. Ma costui, animoso e da ben creato, per soccorrere in tanto bisogno il suo signore, s'arrischiò a passare tutto quel mare che è da quella isola a questa, acciochè il commendatore maggiore mandasse per l'admirante; onde per questo servigio, che fu nel vero segnalato quanto può dirsi, li portò sempre l'admirante molto amore e 'l favorí, e il re catolico, quando lo seppe, li fece anco delle grazie, e li diede per arme una canoa in segno della sua lealtà. E senza dubbio che fu cosa di grande animo e di segnalata lealtà il porsi in que' principii uno uomo in mare, in potere di nemici suoi, che erano cosí gran natatori, come son tutti, e in cosí fatta barca e in passaggio cosí pericoloso e incerto. Or, quando il commendatore maggiore vidde le lettere dell'admirante, mandò tosto una caravella a vedere se era il vero, e a che modo l'admirante stesse, non già per dovere condurlo. Il perchè Diego Mendez delli danari dell'admirante comprò un legno, e fornitolo di quanto bisognava lo mandò al suo signore, il quale sopra questo vassello se ne venne in questa isola Spagnuola. E in quel mezo il Diego se n'andò in Castiglia, a dar notizia alli re catolici di quello che avea l'admirante in quel viaggio fatta.
Ma non è ben che noi ne passiamo in silenzio quello che all'admirante in quella isola avenne doppo che mandò Diego Mendez con le sue lettere al commendatore maggiore, perchè è cosa degna di essere notata. Erano le genti che conduceva assai stanche, e una parte anco inferma, sí per li travagli passati in quel viaggio, come perchè mal mangiato avevano e peggio riposato; quelli che si ritrovavano sani s'abbottinarono, a persuasione di duo fratelli chiamati Francesco di Porras e Diego di Porras: quello era capitano d'una caravella, e questo era contatore dell'armata. Ora costoro tolsero tutte le canoe che ivi gl'Indiani avevano, e diedero voce che l'admirante non voleva ritornare in Castiglia, perchè aveva lor detto che aspettassero la risposta di Diego Mendez, che doveva lor mandare vasselli per ricondurli tutti. Non volendo adunque obedirli, s'imbarcarono in quelle canoe e si posero in mare, pensando potere passare su que' legni a questa isola Spagnuola; ma, perchè molte volte il tentassero, non poterono però mai recare ad effetto, anzi, volendo ostinatamente esequirlo, se n'annegarono alcuni, onde deliberarono di ritornarsi dove l'admirante stava, con intenzione di prenderli i vasselli che li verrebbono. Ma mentre che questi disubidienti e ribelli su questi loro disegni stavano, guarirono quelli che erano col Colombo restati, ancorchè pochi fussero. Il perchè, intesasi la malizia di coloro, l'admirante mandò don Bartolomeo, suo fratello, a resistere al loro mal proposito. Costui combattendo con que' ribelli li vinse e pose in fuga, e n'ammazzò tre o quattro e ne ferí molti altri; e questa fu la prima battaglia che si sa che si facesse fra cristiani in queste Indie, e i duoi fratelli Francesco e Diego di Porras furono prigioni.
Ma prima che questa battaglia succedesse, gl'Indiani, veggendo che i cristiani sani s'erano andati via, e lasciato l'admirante con quelli pochi e infermi, non volevano dare a costoro da mangiare né altra cosa alcuna. Il Colombo, che vidde questo, fece raunare molti Indiani insieme, e disse loro che tenessero di certo che, se non davano da mangiare a' cristiani, sarebbe presto venuta lor sopra una pestilenzia che gli avrebbe tutti tolti del mondo. E in segno che egli dicesse il vero, soggiunse che essi nel tal dí (e segnalò loro il dí) e nella tale ora vedrebbono insanguinata la luna: il che disse egli perchè, essendo buono astrologo, sapeva che doveva la luna di certo eclissare. Quando adunque gl'Indiani viddero, in quel tempo che egli detto aveva, eclissata la luna, credendo che quanto egli detto aveva fusse dovuto essere vero, molti di loro a gran voce e piangendo vennero a chiedere perdono, e a pregare l'admirante che non stesse sdegnato con loro, dandoli tutto quello che a lui e gli altri suoi facea di bisogno.
In questa vita travagliata stette l'admirante con gli altri che erano seco uno anno, dormendo e abitando nelle caravelle, che stavano traverse e fino alla coperta dentro l'acqua del mare presso terra, e dentro del porto dove ora sta Siviglia, che è la principale terra di quella isola, e ivi presso dove fu la battaglia che s'è detta; e 'l porto si chiama S. Gloria. Ora, passato tutto quel tempo, venne la caravella che Diego Mendez inviò; e quando l'admirante s'imbarcò tutti quelli Indiani piangevano perchè egli se n'andava, che già pensavano che esso e gli altri cristiani suoi fussero genti celesti. Giunto l'admirante in questa città di San Domenico, vi stette alquanti giorni riposandosi, e il commendatore maggiore il tenne in casa sua e 'l corteggiò, finchè egli poi si partí con li primi vasselli che passarono in Spagna, per dar conto al re catolico di quel che avea fatto in questo ultimo discoprimento di terra ferma. E ritornato in Castiglia, perchè era già vecchio e infermo e molto travagliato dalle gotte, morí in Valledolid di maggio nel 1506, stando il re catolico in Villa Franca di Valcazar, nel tempo che il re don Filippo e la reina donna Giovanna veniano a regnare in Castiglia. Morto l'admirante, fu portato il suo corpo in Siviglia, al monasterio che sta dall'altra parte del fiume Gualdachibir, chiamato Lasquevas, che è di certosini, e qui fu lasciato in deposito.
Piaccia a Dio di tenerlo nella sua santa gloria, perchè, oltra i servigi che alli re di Castiglia fece, gli sono tutti gli Spagnuoli obligati, perchè, se ben ne sono molti morti in queste conquiste dell'Indie, ne sono all'incontro molti altri restati ricchi; e quel che piú importa, in terre cosí remote d'Europa, e dove il demonio era tanto adorato e servito, ne l'hanno i cristiani bandito e piantatovi la santa fede catolica e la chiesa di Dio, solo per mezzo e industria dell'admirante don Cristoforo Colombo. Vi è anco di piú, che se ne sono cavati e caveranno tanti tesori d'oro, d'argento, di perle e d'altre molte ricchezze e mercanzie, che se ne è piena la Spagna; onde niuno Spagnuolo virtuoso potrà di questi tanti beneficii dimenticarsi, che alla patria loro risultano mediante Iddio e per la mano di questo primo admirante dell'Indie; al qual succedette, e nel titolo e nella casa e nello stato, l'admirante don Diego Colombo, suo figlio, il quale era stato da suo padre accasato con donna Maria di Toledo, nepote dell'illustre don Federico di Toledo duca di Alva, perchè fu figliuola di suo fratello don Fernando di Toledo, commendator maggiore di Leone nell'ordine militare di s. Giacomo. Di costei ebbe, questo secondo admirante, don Luigi Colombo, che fu poi suo erede nella casa e nello stato, come al presente vi è; e n'ebbe anco altri figliuoli.
Del governo del commendatore maggiore, e come si passò ad abitare da questa altra parte del fiume dove ora si sta; e delle chiese e prelati che ha avuti questa isola Spagnuola, con gli edificii di questa città di San Domenico e con altre cose notabili.
Cap. X.
Perchè nella seconda parte di queste istorie si seguiranno li discoprimenti fatti da' particolari in queste Indie, qui solamente dico che nel 1504 Giovan della Cosa e i compagni passarono con quattro vasselli alla costiera di terra ferma, e qui e in alcune isole vicine caricarono di verzini e di schiavi; nel qual tempo armò medesimamente un altro capitano chiamato Cristoforo Guerra, e passò pure in terra ferma a farvi tutti quelli danni che puoté. Ma del mal successo dell'uno e dell'altro si dirà al luogo suo, come anco della disgraziata morte del capitan Diego di Nicuesa, e del primo discoprimento del mar del Sur (cioè di Mezzogiorno), fatto per Vasco Nugnez di Galboa, e con che mal fine terminò egli la vita sua.
Ma perchè tutto questo, come in suo luogo conveniente, si dirà nella seconda parte della Naturale e generale istoria dell'Indie, lo lascieremo per ora, e ritorneremo a dire di questa città di San Domenico, dove a' 15 d'aprile del 1502 giunse il commendatore maggiore, abitandosi questa città dall'altra parte del fiume. E ne seguí poi (come s'è a lungo ragionato di sopra) la morte del Bovadiglia, con la perdita di tanti vasselli, e il discoprimento che nell'ultimo suo viaggio il Colombo fece; e giunto qui di Iamaica il Colombo, vi nacque una tempesta, che gl'Indiani chiamano huracane, a' 12 di settembre, che la maggior parte delle case di questa città ne mandò per terra. Ma perchè alcuni anni appresso due altre simili ma maggiori tempeste vi nacquero, ci riserbiamo per dire al suo luogo di questi uracani piú a lungo. Ed era già questa città passata da questa parte del fiume dove ora sta, per ordine del commendatore maggiore, onde da quella tempesta in poi si cominciarono ad edificare case e palazzi di sassi vivi, con altri buoni edificii.
Ma io non posso lodare che questa città fusse da quest'altra ripa del fiume passata, perchè in effetto piú salubre luogo era dall'altra parte dove prima era, e piú sano vivere; perciochè, passando il fiume d'Ozama fra questa città e 'l sole, ne aviene che le nebbie della mattina vengono dal sole tosto che nasce sopra la città riversate, e vi si causa perciò il male aere. E di piú di questo, che non è poco difetto, vi è anco che dall'altra parte del fiume è un ottimo fonte, dove si provede d'acqua la maggior parte di questo popolo: perchè tutti quelli che non vogliono bere dell'acque de' pozzi, che sono cattive, o che non si fanno di altre parti piú lontane condurre l'acqua, bisogna che del fonte già detto si servano. Onde, perchè questo fiume è molto profondo, non vi ha ponte, e perciò bisogna che la città vi tenga una barca ordinaria per passare quanti vogliono dall'una riva all'altra andare; e che ciascun vi tenga uno o piú schiavi o servitori, occupati solo in provedere la casa dell'acqua del detto fonte, si che questo è anco un grande inconveniente. Ma questa inavertenza del commendatore maggiore si causò da questo, che egli vidde che si potea a questa città condurre l'acqua da un fiume chiamato Haina, ch'è di qua tre leghe lontano, ed è di ottima acqua, e si potrebbe su la piazza e per tutte le case di questa città condurre: e certo che a questo modo questa sarebbe una delle belle città del mondo, e cesserebbe questo difetto dell'acqua. Puote anco esser questa la cagione del mutarsi questa città da un luogo ad un altro, che sempre i nuovi governatori vogliono le cose de' passati mutare, o fare di modo che se ne vadi in oblio quanto i passati fatto abbiano.
Con questi inconvenienti però ha questa città molte altre cose buone, fra le quali vi ha una bellissima chiesa catedrale, che fu fatta edificare dal re catolico e dalla reina donna Giovanna sua figlia: ed il primo suo vescovo fu d. fra' Grazia di Padiglia, dell'ordine di s. Francesco, che non passò mai a queste Indie perchè visse poco dopo ch'ebbe questa dignità. Il secondo fu maestro Alessandro Geraldino, che fu romano e buon prelato. Il terzo vescovo, che oggi vi abbiamo, è d. Bastiano Ramires di fonte Leale, che fu già presidente della regia audienzia che quinci siede, ed è vescovo medesimamente della chiesa della Concezione della Vega, che 'n questa stessa isola Spagnuola sta; e sono queste due città 30 leghe l'una dall'altra distanti.
Ma perchè meglio s'intenda l'unione di queste due chiese e vescovadi, si dee sapere che, quando fu fatto il primo vescovo di questa città, fra' Garzia, fu anco fatto il primo vescovo alla città della Concezione della Vega, don Pietro Suares di Deza. E questo fu il primo vescovo che in queste Indie passò, doppo la cui morte non provedettero altramente di vescovo a questa città della Vega; perciochè, vacando la città della Vega del suo primo vescovo don Pietro, e questa di S. Domenico del suo secondo maestro Alessandro, volle la maestà cesarea unire amendue queste chiese sotto una mitra, perchè a due prelati l'entrate erano poche e ad uno erano sufficienti; e cosí vi creò vescovo fra' Luigi di Figueroa, dell'ordine di s. Hieronimo della Meggiorada, e furono ispedite le bolle in Roma nel 1524. Ma prima che elle venissero morí questo eletto nel suo monasterio della Maggiorada, dove era priore, e cosí la maestà cesarea ne fece grazia a d. Sebastiano Ramires, ch'è il vescovo che oggi abbiamo. Ed egli, stato che fu alquanto in questa città, passò per ordine di sua maestà nella Nuova Spagna, col medesimo carico di presidente che qui aveva, per riformar quella terra. E questo basti quanto ai prelati.
Parliamo ora della chiesa stessa, nella quale, oltre ch'ha i suoi canonici e l'altre sue dignità, con quanto al servigio del culto divino appartiene, è assai bene edificata in quello che se ne vede fatto e quando sarà fornita sarà tale che alcune delle chiese catedrali di Spagna non le avranno vantaggio, perchè è fatta di belli e forti marmi vivi, de' quali nella costiera del fiume presso la città ve n'ha gran quantità; in tanto che si trova cosí bene edificata questa città che non è terra in Spagna tanto per tanto che l'avanzi, lasciando da parte la nobile città di Barzellona, perchè, di piú di questa gran commodità della pietra ch'io ho detta, non vi manca cosa alcuna che per fare una eccellente fabrica sia di bisogno; onde vi sono molte case principali e palazzi ne' quali potrebbe ogni gran prencipe stare, e ve ne sono anco alcuni tali che di gran longa non vi giungono case nelle quali, in alcune buone terre di Spagna, ho io veduto alloggiare la maestà cesarea, e quanto al bello edificio e quanto alla vista e sito loro.
Questa città di S. Domenico è tutta piana come una tavola, e passa di longo da tramontana a mezzodí il fiume di Ozuma, ch'è navigabile, profondo e ben vago, per i poderi e giardini che presso le sue ripe ha, con tanti aranci, cannafistole e altri molti arbori di varie maniere. Dalla parte di mezodí questa città è battuta dal mare, di modo che il fiume e 'l mare ne circondano la metà o piú; e da ponente e da tramontana, dove è la terra, si stende la città con le sue belle strade, larghe e ben ordinate, e da questa parte ha belle uscite e vaghissimi prati. In conclusione ella ha cosí bel sito e vista che non si potrebbe chiedere migliore, benchè non si ritrovi oggi cosí popolata come stava nel 1525, quando io ne feci a Sua Maestà relazione in quel Sommario delle cose dell'Indie. Il che s'è causato dalla varietà e instabilità che 'n questa vita si trova, perchè molti che si sono ritrovati ricchi se ne son ritornati in Spagna, altri se ne sono andati ad abitar in altre isole o in terra ferma, perchè d'allora in qua si è discoperto molto paese, e da questa città, come capo e madre di tutte l'altre parti di questo imperio, si è sempre proveduto che nuovi abitatori vi passino a farvi stanza. Vi è stato anco questo che ha fatto da questa isola uscire molte genti, che sono in diversi tempi venute gran nuove sempre d'essersi il Perú con altre nuove contrade scoperte, onde le genti, che sono amiche di novità e desiderano d'arricchire presto, vi si sono tosto da varii luoghi mosse, e da questa isola specialmente; e molti, per troppo volere, se ne sono impoveriti.
Il porto di questa città è dodeci o quindeci passi lungi da terra, dove surgono le navi dalle case che nella ripa del fiume stanno; s'accostano cosí vicine le navi e gli altri vasselli, come si veggono stare nel porto di Napoli o nel Tevere di Roma, o in Gualdachibir, in Siviglia e Triana. E con quattro braccia d'acqua surgono cosí presso, come s'è detto, navi grandi a due gabbie; e altre navi alquanto minori s'accostano tanto a terra che gettano una panca sul molo, e senza oprarvi altramente barca per questa via caricano e discaricano le botte e tonnelli. Da dove surgono le navi fino alla bocca del mare e dove incomincia il porto vi ha un tiro e mezzo di schioppo o poco piú; ed entrando nel fiume a pari del porto si trova uno assai forte castello, per difensione e guardia del porto e della città: e l'edificò il commendatore maggiore, nel tempo che fu in governo di questa isola. Ma perchè non si perda la memoria di cosí segnalata particolarità, dico che il primo che fondò in questa città casa di sassi e al modo di Spagna fu Francesco di Garai, e doppo di lui fu frate Alonso del Viso, dell'ordine e cavalleria di Calatrava. Il terzo fu poi il pilotto Roldan nelle quattro strade. Il quarto fu Giovan Fernandes delle Vare; e doppo di costoro si diede principio alla fortezza, e si fecero molti altri edificii, come se ne fanno e lavorano ogni giorno, per la gran commodità che è qui delle cose che fabricare bisognano.
Del vantaggio e differenzia che ha questa isola Spagnuola con l'isole di Sicilia e di Inghilterra,
con le ragioni che sopra ciò sono.
Cap. XI.
Ben mi aveggo che ogni comparazione serà odiosa a quelli che ascolteranno quello che non vorrebbono udire, come averrà ad alcuni Siciliani e Inglesi che questo capitolo specialmente leggeranno, perciochè, ritornando io a dire quello ch'io ho detto e scritto altre volte, dico che, se un prencipe non avesse altra signoria che questa isola sola, avrebbe in breve tanto che non avrebbe invidia allo stato dell'isole di Sicilia e d'Inghilterra, perchè quello che qui avanza farebbe altre provincie assai ricche. E perchè ho fatta la comparazione di due isole, le maggiori e migliori di cristianità, bisogna che io dica onde mi muova a fare simile comparazione.
Quello che mi ha a ciò mosso si è l'essere queste due isole e ciascuna di loro assai ricche e bei regni, e l'essere assai bene conosciute d'ogni uomo. Mi vi ha mosso l'essere questa isola Spagnuola assai ricca di copiose e continove minere d'oro, che allora mancano, quando le genti restano d'essercitarvisi. Mi vi ha mosso l'avere io veduto venirvi a tempo nostro di Spagna le prime vacche, e l'esservisi poi tanto moltiplicate che ne ritornano le navi cariche di quoi in Europa; ed è avvenuto molte volte d'ammazzarne 300 o 500, secondo che piú piace ai padroni, e di lasciarne via perdere nella campagna la carne per portarne i quoi in Spagna. E perchè meglio s'intenda questo ch'io dico essere cosí il vero, dico che qui vale l'arrelde della carne di vacca (che è un peso di 32 oncie) duo quattrini solamente. Mi vi ha mosso che abbiamo a tempo nostro medesimamente veduto passarvi d'Andalusia le prime giumente, e ora vi sono tanto e le giumente e i cavalli moltiplicati che si è venduto a quattro e a tre pezzi d'oro castigliani il cavallo, e un castigliano una vacca grossa, e un real il castrato; e non solamente l'ho io veduto questo che ho detto del prezzo di questi animali, ma gli ho anco io venduti de' miei, a questo prezzo e meno, in San Giovan della Maguana. Di questi animali vaccini, e de' porci anco, se ne sono fatti molti selvaggi; il medesimo è avenuto de' cani e delle gatte domestiche che sono qui venute di Spagna, e per le montagne di questa isola ve ne sono ora molti selvatichi.
Mi ha mosso a fare questa comparazione il vedere che qui naturalmente nasce tanta bambace, che se le genti si dessero a procurarla e a lavorarla, vi si farebbe meglio e in maggiore quantità che in parte del mondo. Mi vi ha mosso il vedervi una infinità di cannafistola e di perfetta bontà, onde se ne porta assai del continovo in Spagna, perchè qui vale il cantaro quattro ducati e manco. Mi vi ha ancora mosso perchè veggo che vi si fa tanto zuccaro, e cosí buono, che ne vanno le navi e le caravelle cariche in Spagna, e sono ora in questa isola sola 23 ingegni grandi e belli da cavare il zuccaro dalle canne, che vale una rova un ducato d'oro o manco, senza altri trapeti che con cavalli si operano. Mi vi ha mosso perchè in questa isola è tanta copia di verzini, di bambace e d'altre molte mercanzie, con uno certo eccellente colore d'azurro che vi si ritrova, migliore di quello che si suol chiamare d'aere, come per i dipintori che si servono di questo colore. Mi vi ha mosso perchè di tutte le cose che sono venute di Spagna e si sono qui seminate, la maggior parte sono moltiplicate assai e vi hanno fatto bene.
Mi vi ha mosso perchè, quanto al moltiplicare degli animali, veggo che qui molti posseggono sette e ottomila teste di vacche, e alcuni piú. Né mi stendo piú in ciò, poi che don Rodrigo di Bastidas, vescovo di Veneluvola, ha in questa isola 16 mila teste di animali vaccini, e il tesoriero Passamonte quasi altretante; e delli castrati e giumente ve ne ha tanta copia che vagliono a quel basso prezzo che s'è detto. Tanta quantità di porci se ne è andata via alli boschi che vivono ora selvatichi a gran greggi. Il medesimo è avenuto delle vacche, perchè li pascoli vi son copiosi e ordinarii, l'acque assai buone, l'aere temperato, l'estate e l'inverno di tal maniera che d'ogni tempo è poca differenzia fra il giorno e la notte e l'inverno vi è senza freddo, e l'estate vi ha un calor temperato e non soverchio. E l'isola è assai grande, che vi si possono bene gli armenti distendere, e le genti ampliarvisi con lor coltivare, perchè questa isola costeggiandosi gira intorno 350 leghe.
In questa isola si sono fatti innumerabili aranci e cedri e limoni dolci e agri, e vi son cosí buone tutte queste cose come sono in Cordova o in Siviglia, e vi son d'ogni tempo. Vi sono molti fichi e granate, e solamente arbori di frutti con l'osso in questa isola non fanno frutto. Potrebbe bene alcun dire che in questa città siano alberi d'oliva, perchè ve ne sono e di belli, ma sono però sterili e non producono altro che le frondi loro. Vi sono molte buone erbe d'orti, come sono lattuche, ravani, curiandoli, finochi, cipolle, cavoli napolitani aperti e de' cappucci, e medesimamente le melanzane; anzi è loro cosí naturale e propria questa terra come ai negri la Guinea, che vi fanno assai meglio che non in Spagna, e un piedi di melanzane durerà dui e tre anni e produrrà sempre il suo frutto. Vi fanno anco i fagioli in gran copia e in perfezione, e medesimamente rape e pastinache e citriuoli. Vi si fanno meloni di Castiglia ottimi, e vi si trovano la maggior parte dell'anno; il medesimo avien delli fichi, che quasi tutto l'anno vi sono, o pochi o molti, come i meloni, ma nel tempo loro ordinario sono maggiori e migliori.
E in conclusione tutte le cose qui dette e condotte di Spagna tanto non vi fanno qui bene e non si moltiplicano quanto le genti n'hanno poco cura, volendo spendere il tempo in piú grossi guadagni per arricchire piú presto, massimamente quelli che non hanno pensiero di fermarsi in queste parti, ma, tutti volti al guadagno delle mercanzie e delle minere, o delle pescherie delle perle o d'altre simil cose, pensano di dovere poi ritornarsi alle patrie loro. E per questo assai rari son quelli che s'occupano in seminare grano o in piantar vigne, perchè quanti qui vengono tengono questa terra per matrigna, benchè a molti sia stata assai migliore che madre. Se qui adunque talor manca il frumento o il vino, non è per difetto del terreno, ma delle genti ad altro occupate, perchè s'è qui talor provato a seminarvi il grano, e vi ha fruttato eccellentemente. Il medesimo diciamo delle uve, come si può vedere da molti pergolati di buone uve che sono in questa città; e ancorchè non ne fussero venuti di Spagna i sarmenti, sono per l'isola molte uve selvaggie che si sarebbono potute piantare e innestare, come si crede che avessero principio tutte le buone uve del mondo. Per le cose già dette e che si diranno, si può chiaramente vedere quanto questa nostra isola Spagnuola ha vantaggio alle due famose isole tocche di sopra, e quanto la comparazione che io ne ho fatta segua.
Erano in questa isola naturalmente, che non si condussero, molte buone erbe come quelle di Spagna, che qui per li campi da per loro nascevano, come potrà vedere il lettore nell'undecimo libro. Ho detto di sopra della grande abbondanzia della carne, e a quanto basso prezzo qui si vende, che certo a chi nol vede parrà una cosa impossibile, perchè la relde di vaccina vale in questa città dua maravidis. Ma perchè tutte le genti non intenderanno che peso sia relde, né che valuta sia un maravidis, se il lettore non è Spagnuolo, però dico che una relde in questa città è un peso di 32 oncie, e un maravidis vale quanto un quattrino d'Italia, poco piú. Non vi erano qui galline come quelle di Castiglia, ma doppo che ve ne son state portate di Spagna vi sono in modo moltiplicate che in parte del mondo non se ne veggono in maggior copia, ed è cosa di maraviglia quando un solo ovo fallisce di quanti se ne pongono sotto una gallina a covare.
E cosí ho io tocco nel generale le cose di questa isola, e di questa città particolarmente, e della chiesa principale che vi è, cosí ben dotata di clero e del suo prelato. Dico anco che qui sono tre monasteri, San Francesco, San Domenico e Santa Maria della Grazia, che vi furono da principio in questa città fondati di modesti edificii ma belli, benchè quel della Grazia non sia ancora fornito. In questi monasterii, non offendendone niun di quanti ne ha il mondo di questi tre ordini, vi vivono persone cosí religiose e di tanto buono esempio che basterebbono a riformare molti monasterii che per molti regni si veggono. Vi è anco un bello spedale e dotato di molta entrata per li poveri che hanno bisogno d'esservi curati e soccorsi. E ogni dí si farà questa città piú nobile, perchè vi vivono e fanno residenza l'admirante don Luigi Colombo, nepote del primo admirante, e il presidente, e vi è la corte della audienzia e cancellaria reale, sotto la cui giurisdizione stanno non solamente questa isola e l'altre che si son dette, ma una buona parte anco di terra ferma. Da questa città sono usciti e governatori e capitani, che hanno conquistato e popolato una parte di quelle contrade che sono state discoverte, come a' luoghi proprii si dirà.
Ma, ritornando al proposito della comparazione che io feci di questa isola con quelle di Sicilia e di Inghilterra (che già questi discorsi per questo effetto solo fatti si sono), dico che io non ho già fornito di dire l'altre particolarità di questa contrada, per non essere prolisso, ma ne' seguenti capitoli si vedrà; cosí quando si ragionerà degli alberi e degli animali e del grano, come d'altre particolarità di medicina e de' costumi di queste genti dell'Indie, e specialmente di questa isola della quale ora si tratta, perchè di piú di quello che se ne è detto se ne ha a dire anco molto di piú.
Del governo del commendatore maggiore don fra' Nicola di Ovando e delle sue buone parti, e delle terre ch'egli fece abitare in questa isola Spagnuola.
Cap. XII.
Chi avrà ordinatamente questa istoria letta, avrà visto che nel 1502 giunse il commendator maggiore in questa città di San Domenico, che ancora stava da quell'altra parte del fiume, e come partendosi con quella armata il commendator Bovadiglia si perse in mare. Ora diciamo un poco che persona fu questo commendator maggiore, e che modi nel suo officio e governo tenne mentre vi fu. È certo che, per quello che io ne ho inteso dire da molte persone degne di fede, e che oggidí vivono lo dicono, non venne mai in queste Indie uomo che gli avesse vantaggio, e nel buon governo specialmente, perchè egli ebbe in sé tutte quelle parti che si debbono desiderare in uno che governa. Egli fu assai devoto e buon cristiano, e molto limosiniero e pietoso con poveri, e benigno e cortese con tutti; con li discortesi servava quella prudenza e rigore che si conveniva, favoriva e aiutava gli impotenti e gli umili, con superbi e altieri si mostrava severo, castigava i trasgressori delle leggi con quella temperanzia che bisognava; onde, tenendo in santa giustizia questa isola, era da tutti amato e temuto. Favorí molto gl'Indiani e trattò come padre tutti i cristiani che in questi luoghi sotto il suo governo militavano, e insegnava a tutti il ben vivere; e come cavaliero religioso e prudente tenne in molta pace e quiete questa isola. Quando egli giunse qui ritrovò il paese pacifico, fuori che la provincia chiamata Higuei, che egli in breve tempo rassettò, castigando i ribelli. Ed essendo poi avisato che la cacica Ana Caona, già moglie del caciche Caonabo, stava in punto per ribellarsi con molti altri cacichi, che d'ammazzar i cristiani che erano