Giovanni
Battista Ramusio
NAVIGAZIONI
E VIAGGI
Volume
Sesto
Di Fernando Cortese la seconda relazione della Nuova Spagna, perchè la prima da lui fatta, benchè da noi diligentemente ricercata, non abbiamo potuto insino a oggi ritrovare.
Al serenissimo e invitissimo imperatore Carlo Quinto.
Come nella Nuova Spagna vi sono assaissime cose notabili. Della città di Vera Croce. Scusa del Cortese al re catolico di non poterli dar minutissima informazione delle cose ivi per lui ritrovate.
Con quella nave che ho spedito alli 16 di luglio del 1519 da questa Nuova Spagna di Vostra Maestà, mandai all'Altezza Vostra piena e particolare informazione di tutte quelle cose le quali dopo la venuta mia sono state fatte e sono avvenute in questi luoghi, la quale informazione diedi ad Alfonso Fernando Porto Carrero e Francesco da Monteio, procuratori della città della Vera Croce, che io da' fondamenti ho fatta fabricare a nome di Vostra Maestà. E dipoi, perchè non ho avuto occasione sí per mancamento di navilii, sí anco perchè mi sono trovato sommamente travagliato e occupato in acquistare e farci benevole queste contrade e provincie, e perchè della predetta nave e procuratori non avevo io inteso cosa alcuna, non diedi piú avanti aviso a Vostra Maestà di quelle cose che si trovano in questa patria e che sono state fatte, le quali sono tante e tali che, sí come altre volte nelle prime informazioni mandate a Vostra Maestà ho dimostrato, meritamente ella puote essere chiamata imperadore d'un nuovo mondo: e forse che questo titolo non è di esser riputato minore di quello d'Alemagna, il quale per lo aiuto de Iddio ottimo massimo e per le sue chiare virtú al presente è posseduto dalla Vostra catolica Maestà. E se io cominciassi a narrar particolarmente tutte quelle cose che in queste parti si trovano, non ne verrei mai a fine, e perciò, se per avventura, sí come l'Altezza Vostra desidera e io son tenuto di fare, non le darò piena notizia, ella benignamente degnerà di concedermi perdono, essendo io non molto atto a questo carico dello scrivere e non avendo commodità del tempo. Nondimeno con tutte le forze del mio ingegno mi affaticherò di narrar la verità della cosa, e oltra di ciò ancora tutto quello che conoscerò che a Vostra Maestà faccia bisogno di sapere. E supplico che Vostra Altezza mi perdoni se io appunto non le racconterò come e quando le cose siano state fatte, e se tralascierò alcuni nomi di città, di ville e de' loro signori, i quali, udito il nome di Vostra Maestà, spontaneamente s'offeriscono al servizio di quella e se le diedero per sudditi e per vassalli, perciochè per una grave disavventura la quale nuovamente ci è intravenuta, sí come nel processo della nostra narrazione alla Vostra Altezza sarà piú pienamente manifesto, e gli scritti e l'istorie tutte che con gli abitatori di questi paesi io avea insieme raccolte con altre varie cose le ho perdute.
Del potente signor Montezuma. Della partita del Cortese da Cimpual; della guardia per lui posta alla città di Vera Croce, e cura di fabricarvi una fortezza; la fideltà degli uomini di Cimpual verso l'imperatore. De' fanciulli sacrificati agl'idoli. De' soldati ch'avevano deliberato ribellarsi al Cortese, e gli congiurati, quai furono puniti, e come il Cortese fece tirar le navi in terra.
Nella prima relazione, invitissimo e serenissimo Imperatore, io aveva detto delle città e delle ville che al servizio di Vostra Maestà si erano offerte, e di quelle che io tenea acquistate da me. Oltra di ciò le dava aviso che mi era stato referto d'un certo potente signor nominato Montezuma, il quale gli abitatori di questa provincia secondo il lor conto stimavano che fosse lontano dal lito del mare e del porto, dove io era arrivato, per ispazio di 90 o 100 leghe. Confidandomi nell'aiuto d'Iddio e nella fama dell'onorato nome di Vostra Altezza, aveva determinato di passare a tutti que' luoghi che sono soggetti a lui. Oltra di questo mi ricordo, in quanto all'acquisto di cosí gran signore, essermi offerto a far sopra le mie forze, perciochè io aveva ingenuamente promesso all'Altezza Vostra che l'averei o fatto prigione o ucciso o del tutto fatto suddito alla vostra real corona. E con questa opinione dalla città di Cimpual, la quale mi è piaciuto chiamar la Siviglia, mi parti' alli 16 d'agosto con quindeci cavalli leggieri e cinquecento fanti de' meglio apparecchiati e piú atti al combattere che io potei trovare, e alla guardia della Vera Croce lasciai centocinquanta fanti e due cavalli leggieri, i quali avessero cura in tutti i modi di fabricar quivi una fortezza, o vogliamo dire una rocca, la quale è già quasi finita. E lasciai pacifica e quieta quella provincia di Cimpual e le montagne vicine alla detta città, ne' quali luoghi stimo che vi siano da cinquantamila uomini da guerra e cinquanta ville e castella fedeli e sinceramente soggetti alla Maestà Vostra, sí come per fin ora sono state e anco sono al presente; imperochè alla venuta mia erano soggette al signor Montezuma e, sí come essi mi raccontavano, non erano stati soggetti a lui per molto tempo, e subito che udirono la fama della grandissima e real potenzia della Maestà Vostra, gridarono di volere esser sudditi di quella e desiderar l'amicizia mia, pregandomi oltra di questo che io gli difendessi dal predetto Montezuma, il quale gli aveva tenuti soggetti per forza e con tirannia, e che pigliava i loro figliuoli per sacrificargli agli suoi idoli. E certamente sono sudditi fedeli alla Vostra Altezza, e tengo che perseveraranno in fede, e per esser liberati dalla tirannia del sopradetto signore, e anco perchè fin ora sono stati ben trattati da me e ho fatto loro grandissimi favori. E per maggior sicurezza di coloro che rimanevano nella città, menai meco alcuni de' principali con alcuni altri, i quali nel viaggio mi furono di non picciolo giovamento.
E perciochè, sí come penso, io aveva nella prima relazione dato avviso alla Maestà Vostra, alcuni che con esso meco erano venuti a questo viaggio, allievi, famigliari e amici di Diego Vellazquez, avevano dispiacere che io con animo valoroso e felicemente mandassi ad effetto cotal cose ad onore di Vostra Maestà e accrescimento dello stato suo, certi di costoro volsero ribellarsi da me e partirsi di questa patria, e massimamente quattro Spagnuoli, i nomi de' quali sono Giovanni Scutifero, Diego Armeno, Consalvo Dumbria, nocchieri o vogliamo dire pedoti, e Alfonso Pennato. I quali, come essi volontariamente hanno confessato, avevano fatto deliberazione di robbare un bergantino, il quale stava in porto fornito di pane e di carne salata, e ucciso il nocchiero col predetto bergantino andarsene all'isola Fernandina, per dare aviso a Diego Velazquez che io mandava una nave a Vostra Maestà, e farlo anco avvertito di tutte quelle cose di che ella era carica e donde aveva da passare acciochè il detto Diego Velazquez ponesse le sue navi in aguato per prenderla; come egli poi mostrò con effetto, perciochè, subito che ebbe notizia che la mia nave era passata, comandò ad una sua caravella che la dovesse seguitare per prenderla: il che non poté mandare ad esecuzione, imperochè la nostra nave era troppo avanti trapassata. Oltra di ciò, confessarono esser degli altri della medesima opinione di fare avisato Diego Velazquez della predetta nave. Veduta la confessione de' predetti malfattori, gli ho puniti secondo che ricercava la giustizia, la necessità del tempo e il servizio di Vostra Maestà, perciochè, oltra i famigliari e allievi e amici di Diego Velazquez, altri ancora desideravano sommamente d'uscire della provincia, che, vedendo il detto paese tanto grande e pieno di tante genti, e il poco numero di Spagnuoli, avevano la medesima opinione. Io, giudicando che, se le navi fossero rimase quivi, coloro che desideravano di ribellarsi e di uscir della provincia facilissimamente con quelle l'averiano potuto fare, e io sarei quasi rimasto solo, onde potriano esser impedite quelle cose che io aveva operato in queste parti nel servizio d'Iddio ottimo massimo e della Maestà Vostra, finsi che quelle navi non erano atte a navigare e procurai di farle tirare in terra. Per la qual cosa abbandonarono ogni speranza di partirsi da que' luoghi, e io piú sicuramente e senza timore feci il mio viaggio, perciochè, partito ch'io fussi dalla città, la gente postavi da me alla guardia non mi poteva mancare in modo alcuno.
Della venuta delle navi di Francesco de Garai. Dell'ambasciata de' nunzii al Cortese, e la risposta e offerte per lui fatteli, e l'astuzia ch'egli usò per conoscer l'intenzione del detto Francesco, e della partita e ritorno delle sue navi. E come Panuco signore manda un ambasciatore con presenti al Cortese.
Passati 10 dí poichè ebbi fatto tirar le navi in terra e mi fui partito dalla città della Vera Croce, e giunto alla città di Cimpual, che è lontana quattro leghe dalla città della Vera Croce, per seguitare il mio incominciato viaggio (e una lega è 4 miglia italiane), gli abitatori della città della Vera Croce mi diedero aviso che per quelle riviere andavano vagabonde quattro navi, e che 'l capitano che io avea lasciato nella città della Vera Croce, essendo montato in un battello, era andato a trovarle, al quale dissero come erano navi di Francesco de Garai, luogotenente e capitano nell'isola di Iamaica, e venivano a discoprir nuove provincie; e che 'l medesimo mio capitano a que' delle dette navi fece palese come io in nome di Vostra Maestà avea preso ad abitar quella provincia, ed edificatovi una città lontana per una lega da quel luogo dove le navi s'erano ferme, e che ivi se ne potevano andar seco, e che esso piglieria cura d'avisar me della loro venuta e, se avessero bisogno di cosa alcuna, quivi si potriano provedere e ristorarsi. Soggiunse il medesimo capitano che egli col suo battello andaria avanti di loro per guidargli in porto, e accennando con mano lo mostrò loro: e quei che erano nelle navi risposero di aver veduto il predetto porto, perciochè erano passati avanti d'esso, e che seguirebbono il suo consiglio. E avendo il capitano col suo battello preso il cammino verso il porto, le navi nol seguitarono, né andarono al porto ch'era loro stato mostrato, ma andavano tuttavia piú oltre vagando per quella costa.
Io subito mi parti' per andare a quel villaggio dove aveva inteso le navi star surte, il quale era lontano circa tre leghe sotto la città della Vera Croce, e, non essendo alcuno de' predetti Spagnuoli dismontati in terra, me n'andai per la medesima costa per saper la lor volontà e intenzione. E già io era lontano una lega dalle sopradette navi, quando d'esse mi vennero incontra tre compagni: il primo come publico notaio, e due altri come testimoni, erano venuti per farmi una monitoria per nome del lor capitano, la quale avevano portata in scrittura, dove si conteneva che egli mi certificava per mezo loro che esso era arrivato primo in quella contrada e che in quella aveva deliberato di abitare, e perciò mi faceva avisato ch'io dovessi metter i termini tra me e il predetto capitano, perciochè esso voleva poner la sua città e nuova abitazione cinque leghe sotto la villa di Nautel, lontana dodeci leghe dalla città la quale al presente è chiamata Almeria. Dapoi che ebbi intesa la loro imbasciata, risposi che dovessero dire al loro capitano che dovesse venir da me personalmente, arrivando con le sue navi al porto della Vera Croce, dove parlaremo, e allora conoscerei qual fusse la sua intenzione e, se per avventura le sue navi overamente i suoi soldati si ritrovassero in qualche necessità, procurerei in tutti modi di dar loro aiuto, massimamente poichè erano al servizio di Vostra Maestà, e io niun'altra cosa piú desiderava che aver occasione di poter far cosa grata all'Altezza Vostra: la quale occasione pensava che fusse venuta se io dava aiuto al suo capitano e ai suoi soldati, che si trovavano seco in servizii di Vostra Maestà. Essi mi risposero che a nessun modo il loro capitano o alcuni de' comiti voleva smontare in terra, o ridursi dove io fussi.
Io, dubitando che avesser fatto qualche danno al luogo dove si erano ferme, venuta la notte secretamente mi posi nel lito del mare all'incontro del luogo dove le navi erano surte, e quivi stetti in aguato insino alle dodeci ore del giorno seguente, pensandomi che 'l Capitano o alcuno de' patroni di nave dovesse pigliar terra, per poter intender da loro che cosa volessero fare e che paesi avessero cercati, e, se avessero fatto danno alcuno in quei luoghi, io ne potessi render certa la Maestà Vostra. Nondimeno, né egli mai né alcuno de' comiti discese in terra. E poichè niuno smontava, comandai a quei tre che erano venuti da me con la predetta monitoria che si spogliassero le lor vesti, e di quelle feci vestire tre de' miei soldati, i quali, andati subito al lito, fecero segno e chiamarono quei che eran nelle navi: e subito che furono veduti, vennero a riva con un battello dodeci uomini che erano nelle navi, armati di balestre e di schioppetti. Li Spagnuoli che gli avevano chiamati si discostarono dal lito, e, non altrimenti che se avessero bisogno di stare all'ombra, maliziosamente si ridussero quivi ad un boschetto vicino. E cosí quattro saltarono fuori del battello, due armati con balestre e gli altri di schioppetti, i quali, circondati da' miei soldati che io aveva posti in aguato nel lito, furono tutti presi: e un di questi prigioni, che era nocchiero, avrebbe ucciso il capitano che io aveva posto al governo della città della Vera Croce, con lo schioppo, se 'l fuoco non fusse mancato alla corda. Coloro che erano rimasti nel battello andarono alla volta delle navi, le quali, prima che a loro giugnesse il battello, avevan fatto vela senza aspettar di intender cosa alcuna da essi.
Dai medesimi quattro rimasi prigioni appresso di me, intesi come erano arrivati ad un certo fiume da basso circa trenta leghe sotto Almeria, e gli abitatori gli avevano volentieri e benignamente ricevuti, e per li lor danari gli avevano dato ogni cosa necessaria; e avevano visto anco dell'oro che gli abitatori avevano loro portato, ma in poca quantità, perciochè solamente avevano ricevuto circa tre pesi d'oro in cambio d'altre cose; e non erano arrivati al lito, ma da presso avevano veduto alcune terre poste nella ripa del fiume, essendo tanto vicine che facilissimamente si potevano vedere dalle navi: non vi era edificio alcuno di pietra, ma tutte le case erano di paglia, e hanno le porte fabricate molto alte. Le qual cose tutte dipoi piú chiara e ampiamente intesi da quel gran signor Montezuma e da certi altri della detta patria i quali egli teneva seco, e da un Indiano il quale era nelle medesime navi, abitatore d'un luogo del detto fiume: e io l'aveva ritenuto prigione appresso di me, e lo mandai insieme con gli ambasciadori del predetto gran signore Montezuma al signor di quel fiume, nominato Panuco, acciochè gli parlassero e lo tirassero al servizio e divozione di Vostra Maestà. Il qual Panuco mi mandò ambasciadore uno de' suoi baroni e, come dicono, signore d'una città, il quale da parte sua mi donò alcune veste, ornamenti di ricami e varie penne, dicendomi oltra di ciò che quel signore con tutto il suo paese desiderava grandemente d'esser suddito di Vostra Maestà e di aver l'amicizia mia. Io all'incontro gli feci parte di quelle cose ch'io aveva portate di Spagna, delle quali prese grandissimo piacere, e tanto che quando le navi di Francesco de Garai, delle quali ho di sopra fatto menzione, ritornarono a quei luoghi, subitamente procurò di farmi avisato le dette navi esser lontane dal predetto fiume per ispazio di cinque giornate, e che io gli dovessi dare aviso se le genti che erano nelle navi fussero della mia patria, perciochè egli darebbe loro ogni cosa necessaria, e già aveva fatto portare alle navi alcune femine e galline.
Della provincia chiamata Sienchimalen. Di un monte alto e difficile da salire. Come quelli Indiani danno al Cortese le cose al viaggio necessarie. Del monte del Nome d'Iddio, cosí chiamato, e del castello Teyxnacan.
Tre giorni continui, serenissimo e potentissimo Signore, ho camminato per la provincia di Cimpual, in tutti i luoghi benignamente ricevuto. Il quarto giorno entrai in un'altra provincia, chiamata Sienchimalen, nella quale è una terra fortissima posta in luogo sicuro e alto, perciochè è al lato d'uno monte asprissimo e non vi si può andare se non per un luogo a simiglianza di scala, dove possono salire solamente i fanti a piedi, ed essi difficilmente, se gli abitatori vogliono difendere il luogo. Nel piano sono assaissime ville e borghi, che fanno insino a cinquecento, trecento, ducento e cento fuochi, e questi luoghi tutti sono sottoposti al signor Montezuma. Fui ricevuto gratissimamente da loro e mi diedero le cose necessarie a seguitare il mio viaggio, e mostrarono che molto ben sapevano che noi andavamo a vedere il lor signor Montezuma, e avessi per certo quello essermi sinceramente amico, e che esso aveva comandato loro che mi ricevessero gratissimamente. Io satisfeci loro di tutto quel che ci avevano dato, e gli ringraziai infinitamente del loro animo grato verso di noi e de' benefici che ci avevano fatti; e oltra di ciò dissi che la fama di quel signore era pervenuta all'orecchie di Vostra Maestà, e perciò ella mi aveva veramente imposto che a nome di lei dovessi visitarlo, e che io andava solamente per visitar lui. E cosí passai la cima del monte, che è nel fine di questa provincia, e la chiamammo la cima del monte del Nome d'Iddio, essendo stata la prima che avemo passata in queste parti; ed è tanto alta e difficile che non mi penso che in Spagna, in quanto alla difficoltà del passare, se ne ritrovi una pari a questa, nondimeno la passai sicuramente. E nel discendere di detto monte si trovano altre ville, soggette ad un certo castello nominato Teyxnacan, gli abitatori delle quali ne ricevettero non meno benignamente di quei di Sienchimalen, e ci dichiarorno il buon animo del lor signor Montezuma verso di noi, e molte altre cose delle quali gli altri di sopra ci avevano avisati: e io parimente a ciascuno del tutto satisfeci.
Come alcuni Indiani morirono per il gran freddo. Della cima d'un monte nella cui sommità v'è una torre con idoli. Della valle chiamata Cartenai e case di quella ottimamente fabricate. Di un signore che negò al Cortese di dargli oro.
Quindi partiti, per ispazio di tre giorni camminammo per luoghi inculti e disabitati, per essere sterili, e per mancamento d'acqua e per li gran freddi. Iddio, conoscitore de' cuori, è testimonio quali e quante cose abbiamo patite, massimamente per sete e per fame, e per la grandissima tempesta di grandine e d'acqua, la qual ci colse in quel paese disabitato e per la qual pensai molti de' nostri dover morir di freddo; nondimeno morirono piú Indiani, i quali con esso noi avevamo menati dall'isola Fernandina molto ben vestiti. Dopo que' giorni che stemmo nel deserto, passammo un'altra gran cima di monte, non tanto difficile come era stata la prima, nella sommità della quale era una torre di mezana grandezza, quasi simile a colonne di pietra nelle quali appresso di noi nelli crociali delle vie e altri luoghi si mettono le sacrosante e venerande imagini, nella qual torre avevano posti i loro idoli; ed era circondata di molte legne tagliate e messe in catasta, forse oltra mille carri, e da cotale effetto la chiamammo la sommità della legna. Nella discesa della quale era una valle molto abitata, posta tra due monti asprissimi, e, sí come potemmo comprendere, gli abitatori erano assai poveri.
E avendo camminato circa due leghe per luoghi sempre abitati, giunsi in un paese piú piano, nel quale ci parve che dovesse far residenza il signor di quella provincia, essendo le case quivi meglio fabricate che in altro luogo dove siamo stati: erano tutte di pietre quadrate e nuovamente fatte, perciochè in esse erano molto belle, grandi e magnifiche sale e stanzie ottimamente fatte e bene ordinate. Questa valle con le sue terre si chiamano Cartenai, il signor delle quali e gli abitatori similmente ne ricevettero con molta allegrezza e n'albergarono commodamente. Poichè gli ebbi parlato a nome di Vostra Maestà ed espostogli le cagioni della venuta mia in questi paesi, gli dimandai se era sottoposto al signor Montezuma overo se fusse d'altra fazione; al quale la mia dimanda fu di grandissima maraviglia, e rispondendo disse: "Chi non è suddito e soggetto al signor Montezuma?", accennando che egli signoreggiasse quasi tutto il giro della terra. Allora io gli raccontai copiosamente le forze, la potenzia, e anco le varie genti e nazioni e i larghissimi imperii di Vostra Maestà, e assaissimi signori piú potenti del Montezuma ubbidire alla Vostra Altezza, il che gli fu molto grato udire; e similmente bisognava che facesse il signor Montezuma e gli altri abitatori di quelle provincie. E subito lo ricercai che si desse per vassallo di Vostra Maestà, aggiugnendo che, se egli si dava per vassallo di Vostra Altezza, ne conseguirebbe grandissimo favore e onore; e acciochè Vostra Maestà degnasse di riceverlo benignamente, gli dimandai in segno di ubbidienza qualche quantità d'oro da mandare a Vostra Maestà. E replicò che egli aveva dell'oro, ma negò di volermene punto dare se 'l suo signor Montezuma non glielo commetteva: e se quel signore glielo comandasse, era apparecchiato di spendere la propria vita, l'oro e ciò che possedeva, e che io non lo molestassi né astringessi a lasciar la sua impresa e opinione. Io il meglio che potei di tutto feci vista di non curare, e gli risposi che tosto il signor Montezuma gli avrebbe comandato che ci dovesse far parte e dell'oro e dell'altre cose che egli possedeva e che ci poteva dar commodamente.
Come altri signori andarono a visitar il Cortese, e doni per loro fatteli. Di una rocca fortissima della provincia Tascaltecal, e come quei popoli sono nemici del signor Montezuma. D'una muraglia mirabilmente fabricata dagl'Indiani. Della guerra continua tra la provincia Tascheltecal e 'l signor Montezuma. Consiglio dato al Cortese dagli uomini di Cimpual. L'entrata de' Spagnuoli nella provincia di Tascaltecal.
Vennero quivi due altri signori per visitarmi, i quali tenevano signoria nella medesima valle, l'uno per ispazio di quattro leghe nel descendere, l'altro di due nell'ascesa di detta valle. Mi donarono certe catene d'oro, nondimeno di poco valore e momento, e otto schiavi. Stemmo quivi cinque giorni, e lasciandoli sodisfatti venimmo ad un luogo dove era la residenza d'uno de' sopradetti signori, lontan due leghe nella salita della valle Yztalmastitam. Il suo dominio e città era di spesse case ed edificii insiememente congiunti e vicini, continuata per ispacio di quattro leghe nella ripa d'un certo fiume, che discorreva per quella valle. Nel colle vicino fa residenzia il signore in una secura e buonissima rocca, tal che non si potrebbe trovar simile nel mezzo della Spagna: la rocca è circondata di mura e di antimura molto forti e di profondissimi fossi. Nella cima del colle è una terra quasi di cinquemila alberghi, e sono le case molto ben fabricate; quivi gli uomini si vedevano alquanto piú ricchi che que' piú da basso. In questo luogo stessimo bene, e il signor d'esso faceva professione d'esser vassallo del signor Montezuma.
Quivi dimorai tre giorni, parte per ristorare i soldati dalle fatiche che avevano sostenuto nel passar la sopradetta provincia disabitata, parte per aspettare quattro uomini del paese di Cimpual i quali venivano meco, e già da Catamian gli aveva mandati ambasciadori in quella gran provincia che la chiamano Tascaltecal, la quale affermavano non esser molto lontana: il che dipoi si vidde chiaramente. E mi dissero che gli abitatori di detta provincia erano molto loro amici e nemici mortalissimi del signor Montezuma, e tutta quella provincia confinava col paese del detto signore, e di continuo quelle due provincie tenevano guerra l'una contra l'altra; e pensavano che essi sommamente si allegrarebbono della mia andata, e che erano per farmi ogni possibile favore, se 'l signor Montezuma volesse trattar cosa alcuna contra di me overo impedirmi e contrapormisi. Nondimeno in que' dí i quali stemmo nella predetta valle, che furono otto, i detti nunzii non tornarono mai. Allora io da' principali di Cimpual che si trovavano presenti dimandai per qual cagione i detti nunzii non fossero ritornati; essi mi risposero che, essendo per aventura quella provincia molto lontana, e in sí breve tempo non potevano tornare.
Io, vedendo il loro ritorno prolongarsi, e que' di Cimpual proponermi in ogni modo e con ogni sicurezza l'amistà della detta provincia, mi partii per andarvi. E nell'uscita della valle era fabricato un muro di pietra lavorata, e di altezza era quanto saria la statura d'un uomo e mezzo, il qual cominciava dall'uno de' monti e si stendeva insino all'altro, ed era venti piedi di larghezza, nella sommità del qual muro avevano fatto un grado circa un piede e mezzo, nel qual potessero fermarsi a gettar sassi quando facesse bisogno di combattere; e la sua entrata non era piú larga di dieci passi, e a questa entrata era raddoppiato il muro a guisa di antimuraglia, e l'entrata era non diritta, ma torta. Io dimandai a che fine fosse stato fatto quel muro; mi risposero che era stato fabricato per esser ne' confini della provincia di Tascaltecal, la quale contrastava col signor Montezuma e gli era nemica, e gli abitatori della detta valle facevano loro continua guerra. Mi confortarono, poichè io andava a visitare il signor Montezuma, che a nessun modo toccassi il paese de' suoi nemici, perciochè erano pessimi e forse potrebbono far qualche dispiacere a me e ai miei, e che essi piglieriano carico di sempre guidarmi per il paese del signor Montezuma, e in quello sempre sarei ottimamente ricevuto e commodamente albergato. Ma que' di Cimpual mi fecero avertito che per nissun modo io obedissi a' loro consigli, ma che dovesse seguitar il camino per la provincia di Tascaltecal, perciochè tutto ciò che essi mi ricordavano lo facevano con animo di separarmi dall'amicizia di quella provincia, e che tutti quelli di Montezuma erano malvagi e traditori, e, se io dessi credenza alle lor parole, mi condurrebbono in luogo donde poi non sarei potuto uscire. E perchè io prestava piú fede agli uomini di Cimpual che a que' di Montezuma, mi accostai al lor consiglio, seguitando il cominciato viaggio per il territorio di Tascaltecal. Conduceva i miei soldati con quella maggior cura e diligenza che si poté fare, e per aventura io andava inanzi quasi una mezza lega accompagnato da sette cavalli, pensando meco stesso d'andar vedendo il paese, acciochè, si avenisse caso alcuno, come poi intervenne, io potesse aver tempo di ragunare e mettere in ordinanza i soldati e combattere.
Battaglia tra gli Spagnuoli e Indiani di Tascaltecal. Come gl'Indiani mandano ambasciatori al Cortese e la risposta per lui fattali, e come un'altra volta in grandissimo numero vengono a battaglia con Spagnuoli. Della uscita d'essi Spagnuoli degli alloggiamenti a' danni de' nemici, e come centocinquantamila Indiani combatterono detti alloggiamenti.
Poichè io fui andato per ispazio di quattro leghe, nel salir d'un picciol colle due de' miei viddero venire alcuni Indiani che portavan penne in testa, le quali sogliono per ornamento usare andando alla guerra; erano armati di spade e di piccole rotelle, i quali, subito che viddero i nostri cavalli, si diedero a fuggire. Allora corsi verso loro e comandai che fussero chiamati adietro, avisandogli che non dovessero punto aver paura: e a questo modo n'andammo a loro. Erano quindeci, i quali subito si strinsero insieme per combatter con noi e cominciarono a gridare ad alta voce, accennando che quegli che erano ascosi in una certa valle verriano in loro soccorso; e combatterono contra di noi tanto valorosamente, che n'uccisero due cavalli e ne ferirono tre e due uomini. In questo mezo usciron fuori da cinquemila, e in tanto erano giunti otto de' nostri a cavallo. Entrammo a combattere, e alle volte gli sforzammo ritirarsi, finchè venissero gli Spagnuoli, ai quali aveva mandato a dire per uno de' miei cavalieri che s'affrettassero. E in quella battaglia facemmo loro qualche danno, avendone di loro uccisi circa sessanta senza alcuna perdita o incommodità de' nostri, benchè da valent'uomini e arditamente combattessero; nondimeno, essendo noi a cavallo, potevamo andar loro adosso con furia e urtargli e sicuramente ritirarci. Intesa la venuta de' nostri si partirono, perciochè erano pochi.
Doppo la lor partita vennero da noi ambasciadori che dicevan esser mandati dai signori di quelle provincie, e con esso loro erano due di quegli ambasciadori i quali ho detto ch'io mandai alla provincia di Tascaltecal, affermando che i signori delle provincie erano del tutto innocenti delle cose che erano successe, perciochè erano communità, e ciò era stato fatto senza lor consiglio e se ne dolevano grandemente, offerendosi a pagare i cavalli uccisi, e che sommamente desideravano la mia amicizia, e ch'io andassi da loro senza paura d'inganno alcuno, che mi riceverebbono con lieto e grato animo. Risposi che io gli ringraziava infinitamente e voleva sodisfare a lor desiderio. In quella notte io e i compagni fummo astretti alloggiare in campagna, per ispazio d'una lega lontano dal luogo dove era intervenuto il fatto, appresso un certo torrente, sí perchè l'ora era tarda, sí ancora perchè i soldati erano stanchi per la fatica del viaggio. Quivi, poste le guardie e le sentinelle de' fanti a piè e de' cavalli, stemmo fino al giorno, e de lí poi in ordinanza, con l'antiguarda e retroguarda e con alcuni che scorrevano avanti per riconoscere il paese, mi partii. E al levar del sole, essendo giunto ad un picciolo castello, gli altri due sopradetti ambasciadori di Tascaltecal piangendo mi vennero incontra, e dissero che quelle genti gli avevano fatti prigioni per ucciderli ed essi quella notte ascosamente se n'erano fuggiti.
Per ispazio non compiuto di due tiri di sasso con mano si scoprí una moltitudine d'Indiani bene armati, e alzati i gridi cominciarono a combatter con noi, aventando freccie e dardi. Io, chiamati gl'interpreti che menava meco, in presenza del notaio cominciai ammonirgli e dir che desiderava aver pace con esso loro: e quanto piú gli ammoniva, tanto piú fortemente ci venivano adosso con l'arme. Veduto che le buone parole non giovavano, cominciammo a difender noi e offender loro quanto potevano le nostre forze, e cosí combattendo ci trovammo tra quasi centomila armati guerrieri, i quali ne avevano circondato d'ogni banda. Combattemmo in quel giorno aspramente sino all'ora avanti il tramontar del sole, perciochè a quel tempo gli nemici si ritirarono; e con sei bombarde, sei schioppi, quaranta balestre, tredici uomini a cavallo che erano rimasi, e co' sopradetti fanti a piedi, feci gran danno e messi grande spavento agli nimici senza danno e perdita de' miei, salvo la fatica del combattere, la sete e la fame. E veramente si può dire che Iddio ottimo massimo combattesse per noi contra i nostri nimici, conciosiachè in tanta moltitudine d'uomini, mossa con animo tanto acceso e con tanta destrezza alla guerra, e fornita di tante sorti d'armi, rimanessimo liberi senza offesa alcuna. Quella notte ponemmo gli alloggiamenti appresso una certa picciola torre posta nella cima d'un colle vicino, la quale era consecrata ai loro idoli.
Venuto il giorno, perciochè io moveva guerra loro, lasciai negli alloggiamenti l'artegliarie con duecento uomini, e con tredici cavalieri e cento Spagnuoli e quattrocento Indiani che aveva menati meco dalla provincia di Cimpual me n'andai a danneggiar gli nimici; e prima che avessero tempo di ragunarsi, abbruciai sei villaggi, che ciascuno d'essi era quasi di cento case, e avendo fatto prigioni forse trecento persone tra maschi e femine, rimenai salvi i miei soldati negli alloggiamenti, insino a' quali ne seguitarono combattendo con esso noi. La mattina seguente a buon'ora forse centocinquantamila uomini assalirono i nostri alloggiamenti, e tanta era la moltitudine de' nimici che n'era coperta tutta la campagna, e con tanto ardire e tanto valorosamente ci assalivano che alcuni d'essi v'entrarono dentro, dove combattevano co' Spagnuoli. Andammo loro adosso e, dandoci aiuto il sommo Iddio, gli uccidemmo, e in ispazio di quattro ore fortificammo i nostri alloggiamenti di maniera che, standovi noi, in niun modo ci potevano far danno, benchè spesse volte ci dessero l'assalto. E cosí ci tennero combattendo insino a notte, la quale essendo venuta, si ritirarono.
Gli Spagnuoli escono un'altra volta a danno de' nimici. I signori di quelle provincie gli mandano ambasciadori dimandando pace. Come a cinquanta Indiani ch'erano andati per ispiar detti alloggiamenti il Cortese fece tagliar le mani, e la prudenzia ch'egli usò prima che gl'Indiani gli assaltassero, e come di nuovo usciti solamente con cavalli gli sconfisse.
Il secondo giorno dopo che io posi gli alloggiamenti appresso la detta torre, innanzi dí, con sí gran silenzio di tutti che niuno de' nimici sentí, io usci' fuori con li cavalli, con cento fanti e con li miei amici indiani, e scorrendo abbruciai da dieci terre, una delle quali arrivava a tremila case: e con gli abitatori di questa avemmo da combattere, che eccetto essi nessuno ci dava molestia, perciochè gli altri erano absenti. E perchè si portavano avanti l'insegne della santa croce, e combattevamo per la fede cattolica e per servizio della Vostra reale Altezza, Iddio omnipotente felicemente ne prestava tante forze che uccidemmo senza nostro incommodo molti di loro, e innanzi mezzogiorno, sopragiugnendo infinita moltitudine di nemici, ottenuta già la vittoria ci eravamo ritirati negli alloggiamenti. Il terzo dí dai medesimi signori delle dette provincie i nemici vennero a noi ambasciatori, dicendone di voler essere soggetti a Vostra Maestà e amici a me, pregando oltra di questo ch'io perdonassi loro i commessi falli; e ne portarono vettovaglie e altre cose lavorate di piume e di penne che essi usano, le quali appresso di loro sono in grandissimo prezzo. Io diedi loro benigna risposta, mostrando che non avevano fatto bene, nondimeno gli riceveva per amici e perdonava a tutti ciò che avevano fatto contra di me.
Il quarto giorno entrarono nei nostri alloggiamenti cinquanta Indiani, e per quanto potei ritrarre erano tra tutti i paesani di grandissima auttorità, i quali fingevano d'essere venuti per portar vettovaglie, e diligentemente guardavano l'entrata e l'uscita de' nostri alloggiamenti e certe tende che noi abitavamo. Ma quei di Cimpual secretamente mi fecero a sapere che io avessi buona cura, perciochè coloro erano di cattivo animo, e per niun'altra cagione erano venuti ne' nostri alloggiamenti che per ispiare in che modo ci potessero offendere, e che tenessi per certo non esser venuti per altro effetto. Io procurai che secretamente fusse preso uno d'essi, e tanto secretamente che niuno de' compagni se n'avidde, e, chiamati gli interpreti, lo minacciai che mi dovesse dire il vero di quelle cose ch'io gli dimandarei: il quale mi confessò che Sintegal, gran capitano di quella provincia, conducendo gran numero di gente stava ascoso dopo un colle all'incontro de' nostri alloggiamenti, per assaltarci alla sprovista la notte seguente, perciochè diceva che già tre giorni aveva fatto prova di combatter con noi e non aveva potuto fare alcun buono effetto, e che desiderava grandemente di notte venire alle man con esso noi, acciochè i nostri cavalli, l'artegliarie e le spade non mettessero spavento ai suoi soldati; e che esso gli aveva mandati per vedere i nostri alloggiamenti, e i luoghi onde facilmente potessero entrare, e in che modo abbrucciar quelle tende. Subito ordinai che fusse pigliato un altro di quei cinquanta, e ancora il secondo raccontò l'istesse cose ch'io aveva intese dal primo, e con le medesime parole. E poichè questi due erano conformi, diedi commissione che ne fussero presi altri cinque, e finalmente tutti i cinquanta, e feci lor tagliar le mani e mandogli via, acciochè dicessero al lor signore che di giorno e di notte e ogni volta che venisse provarebbe quali noi fussimo per dover essere.
Facemmo i nostri alloggiamenti piú sicuri e allogai i soldati ne' luoghi necessari, e di questa maniera stemmo finchè sopravenisse la notte, la qual venuta gli inimici già cominciavano discendere il colle da due valli, alle quali pensavano di venir secretamente per circondarne e venirne appresso, per mandare ad esecuzione quel che si avevan proposto nell'animo. Ed essendo già provisto e apparecchiato ad ogni cosa, mi parve, se io gli lasciava avicinare ai nostri alloggiamenti, che facillissimamente ci saria potuto avenir qualche danno, e perciochè di notte, non vedendo i soldati che fussero meco, senza paura alcuna ci assalirebbono, e ancora perchè i nostri soldati spagnuoli non vedendo averiano piú paura; oltra di ciò avendo sospetto che in qualche modo non gettassero il fuoco nelle nostre tende, il che se fusse avenuto, ne saria stato di tanto danno che niun di noi saria potuto scampare, deliberai co' cavalli d'assalir gli nemici per ispaventargli e disordinargli. La qual cosa ne successe secondo il nostro disegno, conciosiachè, subito che ebbero sentito noi arditamente andar contra di loro co' cavalli senza temere e senza gridare, lasciate l'armi si gettarono giú per li monti, e tanta fu la moltitudine di coloro che vi si gettavano, che n'erano pieni d'ogn'intorno tutti i luoghi vicini. Lasciarono anco le vettovaglie che con esso loro avevano portate, per rinfrescarsi quando in quella notte ci avessero vinti ed estinti del tutto: e a questo modo rimanemmo sicuri. Fatto questo, ce ne stessimo dentro gli alloggiamenti per alquanti giorni e non ne uscimmo, se non quivi attorno, per difender che non v'entrassero certi Indiani che con grandissimi gridi scaramucciando ci assalivano. E stemmo alquanto di tempo negli alloggiamenti, non senza maninconia.
Come il Cortese la terza volta esce degli alloggiamenti di notte a' danni de' nemici, onde gli Indiani gli dimandarono pace. E come gli Spagnuoli furono da gran paura soprapresi, e, confortati dal Cortese, conclusero voler seguitarlo.
Dapoi una notte con cento fanti, con tutti li cavalli e amici miei indiani, dopo l'ore della prima guardia me n'usci' degli alloggiamenti, dai quali essendo lontano per spazio d'una lega, cinque cavalieri con le cavalle che cavalcavano cascarono, di modo che non poterono andar piú avanti. Io gli rimandai agli alloggiamenti, esortandomi li compagni che ancor io dovessi ritornar con loro, attribuendo cotal accidente a cattivo augurio. Ma io, rivolgendomi nell'animo Iddio esser sopra la natura, seguitai il cominciato viaggio, e prima che venisse giorno assaltai due terre, nelle quali furono uccisi molti; ma non comportai che fussero abbrucciate, acciochè l'altre che erano vicine, vedendo il fuoco, non si pensassero ch'io fussi appresso. Ed essendo venuto il giorno diedi l'assalto ad un'altra, tanto grande che, avendo poi fatta diligente investigazione, conobbi che in quella erano ventimila case. Essi, sprovisti e non apparecchiati a tal cose, uscivano fuori delle case disarmati, e si vedevano per tutte le contrade femine nude co' fanciulli, e già aveva cominciato a far loro del danno. E vedendo che a nessun modo potevano resistere, alcuni de' principali di detta terra umilmente vennero a me, pregandomi che io non lasciassi far loro piú danno, perciochè volevano farsi soggetti alla Maestà Vostra ed esser miei amici, e che molto ben conoscevano essi medesimi essere stati cagione del lor danno, per non aver dato fede alle mie parole, ma che d'allora innanzi chiaramente conoscerei che essi ubbidiriano ai miei comandamenti e sariano fedeli e veramente sudditi alla Maestà Vostra. E, poste giú l'arme, vennero alla mia presenza da quattromila uomini, e appresso un certo fonte ne portarono ottime vettovaglie. E cosí, lasciandogli in pace, me ne ritornai agli alloggiamenti, dove trovai tutti stare in grandissima paura, sospettando che non ci fusse intervenuto qualche male per la caduta de' sopradetti cavalieri, che con le lor cavalle erano tornati negli alloggiamenti: i quali, intesa la vittoria che la clemenzia d'Iddio n'aveva conceduto, e che le predette terre erano congiunte in amistà con esso noi, ebbero grandissima allegrezza.
E sappia la Maestà Vostra che niuno de' nostri era che non avesse grandissima paura, vedendoci esser penetrati tanto avanti nella provincia di costoro, e fra tanta e tal moltitudine d'uomini e senza alcuna speranza di soccorso, di maniera che con le proprie orecchie ho udito che dicevano nei loro ragionamenti privati, e in pubblico Pietro Carbonero, che io gli aveva condotti in luogo donde non n'uscirebbono mai; e di piú, parlando insieme i soldati in una certa tenda e non vedendo me ebbero ardimento di dire che, se io era poco prudente e volessi condurgli in luogo donde non potessero uscire, non dovessero seguitarmi ma ritornare alle navi, e se io voleva andar con loro io poteva farlo, e quando che no mi dovessero quivi lasciare: e piú volte cercarono con diligenza di farmi acconsentire alla loro opinione. Io gli confortava a star di buon animo e a ricordarsi esser sudditi di Vostra Maestà, e che gli Spagnuoli non avevano mai in altro luogo mancato d'animo, ed eravamo in tal felicità che potremmo acquistare alla Maestà Vostra maggior regni e imperii che si trovino in tutto il circuito della terra; e tali bisognava che ci dimostrassimo essere quali convien che siano i buoni cristiani combattendo contra gl'infedeli, e che nell'altro mondo acquisterebbono la somma felicità, e in questo otterremmo maggior onore e gloria che abbia conseguito insin ora nazione alcuna; e considerassero che Iddio ottimo massimo, al quale niuna cosa è impossibile, ci era favorevole, il che piú chiaro che la luce potevano vedere dalle vittorie che per suo aiuto avevano ottenute, nelle quali erano morti tanti nemici e de' nostri non pur uno. Oltra di ciò dissi molte cose in questo tenore, e certamente per lo real favore di Vostra Maestà cominciarono grandemente a ripigliare ardimento, e tirai loro nella mia opinione e me gli feci ubbidienti, e gli disposi ad essere apparecchiati a metter fine alla nostra cominciata impresa.
Come Sicutengal, capitano della provincia di Tascaltecal, venne al Cortese dimandandoli pace. E come Tascaltecal per avanti sempre era stata libera, e da qual provincie sia circondata, e come in quella non si usa sale, né vesti di seta. Con la risposta fatta al detto capitano dal Cortese.
Il giorno seguente a dieci ore venne a trovarmi Sicutengal, capitano e prefetto di tutta quella provincia, con cinquanta de' lor principali e magiscacin, che è la prima dignità di tutta quella provincia, e, per nome d'altri assaissimi prencipi e signori che sono in essa, mi pregarono ch'io gli ricevessi nel real servizio di Vostra Altezza e nella mia amicizia e perdonassi ai loro passati errori, perciochè essi per avanti non avevano avuto notizia né pratica alcuna di noi, né chi noi fussimo avevano conosciuto. Nondimeno in tutti i modi e di notte e di giorno avevano fatto prova di non esser sottoposti ad alcuno, non essendo mai detta provincia in nessun tempo stata serva, né aveva avuto né aveva altro forestiero per signore, ma, dapoi che vi è ricordanza di uomini, sempre erano vivuti liberi e sempre si erano difesi da quel potente signor Montezuma e da suo padre e avolo: e benchè quella provincia fusse tutta soggetta a lui, nondimeno non gli aveva mai potuti far suggetti loro, se ben erano da ogni banda circondati e non avessero uscita alcuna dalla patria. E non usavano punto di sale, non se ne facendo nella lor provincia, né permettendo che si vada fuori della provincia a comprarne; e non usavano vesti di seta, non nascendo in quel luogo per i gran freddi i vermi che la fanno, e mancavano d'altre assaissime cose necessarie all'uso umano, perciochè erano serrati d'ogni lato: le qual cose tutte senza noia e di buon animo comportavano per non farsi soggetti ad alcuno, e meco fare il medesimo avevano tentato con tutte le lor forze. Ma vedevano apertamente che né tutte quelle cose che avevano provate né anco le forze avevano lor potuto giovare, e volevano piú tosto esser sottoposti alla Maestà Vostra che esser crudelmente uccisi, e le lor case ruinate e distrutte, e menate via le mogliere e i figliuoli.
Io risposi che potevano conoscere come essi medesimi erano stati cagione de' lor danni, e io pensava di venire nella lor provincia come amico, benigno e favorevole, sí come quelli di Cimpual molte volte ci avevano raccontato che ella era e che desiderava d'essere; e perciò io avanti aveva mandato loro li miei ambasciadori, che li facessero certi della mia venuta e mostrassero l'amichevole animo mio verso di loro, ed essi ne avevano gran contento, sí come aveva inteso da quei di Cimpual; e che, andando io senza alcuna risposta e senza alcuna paura, mi avevano assaltato e ucciso due de' miei cavalli e gli altri feriti; e poichè avevano combattuto meco, mi avevano mandati i loro ambasciadori, facendomi sapere e affermare tutte quelle cose essere state fatte senza lor saputa, e che non erano procedute da lor volontà o consiglio, e che certe communità senza farne motto a loro si erano mosse, e che essi già l'avevano riprese e desideravano la mia amistà. E io aveva creduto tal parole esser venute da buon animo: aveva lor risposto che mi piacevano le cose proposte da loro, e liberamente il vegnente giorno andai ad alloggiar con loro come con amici, e che il dí seguente nel viaggio mi combatterono finchè sopravenne la notte. E raccontava tutte l'altre cose che li medesimi avevano fatte e commesse contra di me, le quali, per non offender le sacre orecchie di Vostra Maestà, lascierò di dire. In somma sono rimasi sudditi di Vostra Maestà, e le hanno offerto e se stessi e le lor facoltà, e tali gli ho trovati insin ora e per l'avenire spero di trovargli, sí come nel procedere avanti piú chiaramente sarà manifesto a Vostra Maestà.
Come i signori di Tascaltecal pregorono il Cortese ch'entrasse nella città, e come v'entrò con gli Spagnuoli. Del bel sito e piazza maravigliosa e abbondanzia di detta città, e come si governa a republica. Di una dignità loro detta magiscacin, del modo che osservano in punir i ladri; e della provincia chiamata Gnasincango.
Appresso quella torre ne' medesimi alloggiamenti me ne stetti sei giorni, non mi fidando ancora di loro, né mi volsi partire, benchè piú volte con grande instanzia di prieghi mi richiedessero che io andassi ad una certa gran città, dove tutti i baroni e signori di quella provincia facevano residenza, insin che tutti quei signori vennero ne' miei alloggiamenti a pregarmi ch'io entrassi nella città, che in essa meglio che nel campo ci fornirebbono delle cose necessarie; e dicevano aver gran dispiacere che, poichè io era diventato lor amico, avessi cosí tristo albergo. Onde vinto dai lor prieghi entrai nella città, la quale era lontana sei leghe dal detto nostro campo e torre dove era alloggiato.
La città è tanto grande e maravigliosa che, benchè molte cose io lasci che potrei raccontare, nondimeno questo parerà ancora incredibile, perciochè giudico che di circuito sia maggior della città di Granata, e piú forte, e d'edificii tanto belli e forse piú ricchi, e piú piena di popolo che non era Granata in quel tempo che i nostri la tolsero delle mani de' Mori, e molto piú abbondante di quelle cose che sono nella nostra patria, come di pane, d'uccelli, di pesci sí di fiumi come di laghi, similmente di cacciagioni, e d'altre cose che usano, ottime secondo il lor vivere. In questa città è una piazza nella quale ogni giorno si veggono piú di trentamila persone vendere e comprare, oltra l'altre piazze picciole che sono nella città. In questa piazza vi si trovano da vendere tutte le sorti di vestimenti che essi usano; quivi son luoghi ordinati per vendere oro, argento, gioie e altre sorti d'ornamenti e di penne, tanto bene acconcie che in niun altro mercato o piazza di tutto 'l mondo si potriano ritrovar le piú belle. Son quivi luoghi tanto atti alla caccia che non debbono cedere ai migliori di Spagna. Vi si vendono erbe e da mangiare e medicinali, e legne e carboni in buona quantità; vi sono anche bagni, e finalmente tra di loro apparisce una vista d'ogni buon ordine e regola. Ed è gente molto ragionevole, e talmente che la miglior che sia in Africa non è con questa d'esser posta in comparazione. Questa provincia ha valli e pianure acconcie, lavorate e seminate, sí che niente v'è che non sia coltivato.
Secondo che ha potuto comprendere, questa gente seguita il governo de' Veneziani, de' Genovesi e de' Pisani, perciochè non hanno signore particolare, ma sono molti signori, che tutti dimorano nella medesima città. Gli abitatori del paese sono lavoratori, e sono sudditi a questi signori, ciascuno de' quali ha le sue proprie città, ma uno ne ha piú dell'altro; e secondo le facende e guerre che nascono, si ragunano tutti insieme e deliberano e proveggono alle lor cose. Pensiamo anco i medesimi nell'amministrar giustizia e nel castigare i tristi tener qualche ordine, perciochè un certo de' loro abitatori aveva rubbato non so che oro ad uno de' nostri: lo denunziai al loro magiscacin, che è la lor maggior degnità; usarono ogni diligenza e procurarono di farlo seguitare insino ad una certa città nominata Churultecal, vicina a quella provincia, e lo rimenarono e lo diedero nelle mie mani insieme con l'oro, e mi dissero ch'io lo punissi. Io gli ringraziai che avessero usata cotal diligenza, e risposi che, poichè essi erano nella lor provincia, lo castigassero secondo il lor costume, e trovandomi nel lor paese non voleva impacciarmi di punire i loro uomini. Essi lo ripigliarono, e mandando avanti un pubblico trombetta che ad alta voce raccontava il suo delitto, ed era costretto andare attorno la predetta gran piazza; e cosí fatto comandarono che fusse fermo appresso un certo grande edificio fatto a guisa di teatro, che stava nel mezzo della detta piazza, e di nuovo ad alta voce publicava il delitto e sceleratezza di colui, e con un legno fatto ritondo nella sommità a guisa d'un martello gli percossero la testa, finchè alla presenza del popolo uscisse di vita. Vedemmo oltra di ciò assaissimi tenuti in prigione, e dicevano esser ritenuti e per furti e per altre loro commesse sceleraggini. In questa provincia, secondo il conto ch'io feci far diligentemente, sono piú di centocinquantamila case, insieme con un'altra picciola provincia a lei vicina chiamata Gnasincango, che vive con le medesime leggi e costumi, senza signore: e sono non meno sudditi alla real corona di Vostra Maestà che siano quelli della provincia di Tascaltecal.
Ambasciatori e presenti mandati dal signor Montezuma al Cortese; come quei di Tascaltecal confortano il Cortese a non fidarsi del detto signore; e della città Rultecal.
Essendo io in campo, serenissimo e potentissimo Signore, e facendo guerra con le genti di questa patria Tascaltecal, quattro dei piú potenti vassalli del signor Montezuma vennero a trovarmi con ducento suoi famigliari, e dissero che venivano per farmi ambasciata come il lor signore desiderava esser suddito di Vostra Maestà e far amicizia meco, e quel che io voleva constituire che egli dovesse pagare ogn'anno di tributo a Vostra Maestà, tanto in oro, argento, veste di seta, quanto in altre cose delle quali la provincia avesse abbondanza, che di tutte ne faria parte, pur che io non entrassi nella sua provincia: e questo desiderava solamente perchè ella era sterile e non aveva copia di vettovaglie, e che averia dispiacere che io insieme co' miei soldati patissi qualche incommodo e carestia. E per li medesimi mi mandò a donare quasi mille pesi di oro e altrettante vesti di seta, le quali essi sogliono molto usare. Costoro stettero meco nella maggior parte di quella guerra, e molto ben poterono vedere di quanto valor siano gli Spagnuoli, e si trovarono presenti quando facemmo pace e convenzione con quei signori di Tascaltecal, e a quei servizii di Vostra Maestà s'erano offerti i signori e tutti i paesani. E pareva che essi n'avessero gran dispiacere, perciochè in varii modi tentarono di menarmi seco, affermando quelle promissioni e offerte che avevano fatte quei signori e sudditi non dover essere con animo buono, né aver fatto amicizia sinceramente, ma questo fingevano a fine ch'io liberamente mi fidassi di loro, per poter poi usar insidie contra di me, standomene sicuro ed isprovisto. Ma quei di Tascaltecal piú volte mi avevano avvertito che in nessun modo mi fidassi dei sudditi del signor Montezuma, perciochè erano veramente traditori e ogni cosa facevano con fraude, e il lor signore aveva soggiogata tutta quella provincia con inganni: e me ne avevano voluto fare avvertito come sono tenuti di fare i veri amici, e che hanno per lungo tempo conosciuto il Montezuma. Vista la dissensione e gli odii d'ambedue le parti, ebbi non picciolo piacere, perciochè io conosceva ciò esser molto utile alle cose mie, che averei facilissima strada a soggiogarli, secondo quel comune proverbio che dice: "Dal monte nasce quel che 'l monte abbruccia". Mi rivolgeva anco per la mente quel detto del sacro Evangelio: "Ogni regno che in se stesso è diviso sarà mandato in ruina". Nondimeno ora io parlava di secreto con questi, ora con quelli, e rendeva grazie a ciascuno del lor ottimo animo, consiglio e ammonizione, e mostrava d'amar piú coloro che mi erano presenti e co' quali io parlava, che coloro che erano absenti e de' quali dicevano male.
Dimorammo in questa famosa città venti giorni, e gli ambasciatori del signor Montezuma, i quali di sopra ho detto che erano appresso di me, mi confortarono che io dovessi andare alla città di Churultecal, che era lontana circa sei leghe, e i cittadini e abitatori di quella erano collegati di strettissima amistà col lor signor Montezuma, e quivi piú facilmente potrei comprendere il suo animo, se egli desiderasse ch'io andassi nella sua provincia, e che alcuno di quella potrebbe andare a parlare al lor signore Montezuma per dirgli quelle cose ch'io comandassi e ritornar con risposta: e tenevano per certo che in quella mi aspettavano altri ambasciatori per parlar con loro. Risposi che mi piaceva andarvi, ma che ci partissimo un certo giorno che io determinai.
Come i signori di Tascaltecal parlano al Cortese circa l'andar al signor Montezuma e gli manifestano il tradimento. Venuta degli ambasciatori di Churultecal al Cortese, e la risposta e minaccie che ei gli fece; e come poi vennero gli signori istessi, e il Cortese delibera d'andar a detta città.
Poichè li signori di Tascaltecal riseppero le cose ch'io aveva trattate con li predetti ambasciatori, e che aveva deliberato di andare a quella città, pieni di maninconia mi vennero a trovare, pregandomi che a niun modo io dovessi andarvi, perciochè già mi aveano poste insidie per uccidermi insieme co' miei soldati: e a questo effetto esso Montezuma dalla provincia vicina alla detta città aveva mandati da cinquantamila uomini, e si erano fermi presso a due leghe lunge dalla sopradetta città; e avevano prese le strade usate onde io doveva passare e n'avevano fatto una nuova, piena di alte fosse nelle quali avevano fitti pali aguzzi, e coperte con la terra, acciochè vi precipitassero i cavalli e a questo modo si ferissero; e a posta avevano serrate molte contrade, e nell'alte e discoperte terrazze delle case avevano per tutto ragunato de' sassi, a fine di poterci prendere, entrati che fussimo nella città, e far di noi ogni lor piacere. E per conoscer questa verità, io usassi questa ragione, che li signori di quella città non erano mai venuti né a vedermi né a parlarmi, essendo già molto tempo che erano venuti quei di Gnasancigo, i quali erano piú lontani di loro; e ch'io mandassi a chiamargli, e vedrei se venissero.
Io gli ringraziai infinitamente, e dimandai che mi dessero alcuni che a mio nome gli andassero a pregare che dovessero venire a trovarmi, perciochè io aveva alcune cose da communicar con loro pertinenti al commodo di Vostra Maestà; e a' medesimi nunzii esposi a cagione della mia venuta, che gliela dicessero. I quali andati esposero la mia ambasciata ai signori di quella città, e con loro vennero tre persone di non molta stima e riferirono esser venute da parte dei signori di quella città, e che essi non erano potuti venire per esser ammalati, e ch'io esponessi loro la mia intenzione, che la riferirebbono a quei signori. Ma quei di Tascaltecal mi avisarono quelle persone tra i lor cittadini esser di niuna auttorità, e pareva che li predetti cittadini mi beffassero, e che non prestassi lor fede se personalmente i signori della città non venissero a trovarmi. Io ascoltai li detti ambasciatori e risposi che l'ambasciata di sí alto e possente prencipe, quale è la Maestà Vostra, non è convenevole di palesarla a persone basse, e non solamente ad essi ambasciatori, ma appena i lor signori erano di tanta dignità che io dovessi esponer la detta ambasciata: e perciò comandava che in spazio di tre giorni comparissero avanti di me per dare ubbidienza a Vostra Maestà e a lei darsi per sudditi, protestando prima che, se non comparissero nel termine assegnato, anderei con le mie genti contra di loro come contra ribelli di Vostra Maestà e ricusanti esser soggetti al suo imperio. E per questa cagione mandai un comandamento di mano propria, sottoscritto dal notaio, con larga commissione di Vostra Maestà, nel medesimo commemorando la cagione della mia venuta, e che queste provincie e molte altre erano soggette alla Maestà Vostra, e quegli che di buona volontà volessero esser soggetti a lei sariano ben trattati da me, e faria loro grandissimi onori e favori, e il contrario farei ai ribelli.
Il giorno seguente vennero a me quasi tutti i signori della detta città iscusandosi che, se non erano venuti prima, affermavano ciò esser avenuto perchè quegli della provincia dove io dimorava erano lor nemici, e non avevano avuto ardimento di andarvi, pensando di non dover esser sicuri. Ed istimavano che essi dovevano avergli rapportato qualche cosa contra di loro, ma che io non dovessi crederla, come detta da nemici del lor nome, e che non era cosí; e s'andassimo con esso loro alla città, quivi conoscerei le cose dette dai lor nemici esser false, e vere quelle che essi proponevano; e da ora innanzi si rendevano soggetti a Vostra Maestà e avevano animo di perseverare, e che ubbidiriano, apparecchiandosi a contribuire tutte quelle cose che a nome di Vostra Maestà io avessi imposte loro: e di tutto ciò per via d'interpreti fu fatta scrittura dal notaio. Allora io deliberai d'andarvi, parte per non parer d'esser mancato d'animo, parte perchè io sperava di poter quivi piú felicemente trattar le cose che aveva da far col signor Montezuma, perciochè, sí come mi fu riferito, quella città è vicina a quella provincia, conciosiachè i sudditi del Montezuma vi vadano sicuramente, e cosí all'incontro, non essendo al loro andare impedimento alcuno.
Come quei di Tascaltecal disconfortarono il Cortese dell'andar a Churultecal, e l'accompagnarono con centomila uomini fuori della città, e seimila andarono con lui. Come entrò in Churultecal e trovò quei segni che gli dissero quelli di Tascaltecal.
Il che avendo inteso, li signori di Tascaltecal si dolsero grandissimamente e molte volte mi dissero che io faceva grande errore, e, poichè s'erano dati alla Maestà Vostra e avevano presa l'amicizia mia, volevano venir meco e in ogni cosa che avenisse darmi aiuto, non curando ch'io molto ricusassi e con prieghi contendessi che non venissero, non facendo in modo alcuno di bisogno; nondimeno mi seguitarono da centomila uomini da combattere, e mi fecero compagnia per spazio di due leghe lontano dalla città, dal qual luogo con miei grandissimi prieghi, eccetto seimila uomini, se ne ritornarono adietro. In quella notte posi gli alloggiamenti presso ad un certo fiume, due leghe discosto dalla detta città, parte per licenziare gli uomini di Tascaltecal che erano venuti meco, acciochè tanta moltitudine non apportasse qualche scandalo alla città, parte perchè s'avicinava la notte e a quell'ora io non voleva entrar nella città. Il giorno seguente tutti i cittadini mi vennero incontra con trombe e tamburi per ricevermi, con molte altre persone che appresso di loro sono religiose, vestite con le lor solite vesti, cantando e salmeggiando come sogliono fare nelle loro moschee, che essi tengono per chiese; e con quella solennità ci condussero infino all'entrata della città, e ne misero in una ottima casa, dove io insieme con tutti i miei compagni fui albergato commodamente e secondo il nostro desiderio, e ne portarono vettovaglie, ma leggieri però. E mentre caminavamo per andare alla città, c'incontrammo in molti di quei segni che n'avevano palesato quei di Tascaltecal, perciochè trovammo la solita via serrata e un'altra fatta di nuovo, e fosse alte nelle quali cascavano gli uomini, e nella città alcune strade chiuse e sassi ragunati nelle terrazze scoperte delle case: le quai cose ne fecero star piú apparecchiati e piú vigilanti.
Come alcuni ambasciatori del signor Montezuma si partono dal Cortese; e come, scoperto il tradimento, li signori di Churultecal furono presi e legati, e il Cortese s'impatronisce della città di Churultecal, e quelli signori si scusano con lui e promettono di riducere il popolo nella città. E descrizione della città di Churulthecal.
Quivi trovai alcuni nunzii mandati dal Montezuma acciochè parlassero con quegli ambasciatori che erano appresso di me; nondimeno dissero di non aver cosa alcuna da trattar meco, ma solamente esser venuti per intender dagli ambasciatori quel che avessero fatto e deliberato meco, acciò lo potessero riferire al lor signore: e avendomi cosí parlato si partirono, e uno de' principali ambasciadori del Montezuma, che era meco, se n'andò con esso loro. E in quei tre giorni che dimorai quivi mi diedero pochissima vettovaglia, e ogni dí s'andava peggiorando, e rade volte i signori e principali della città venivano a visitarmi o a parlarmi. E mentre per questo eravamo in qualche sospetto e paura, al mio interprete ordinario, che è una femina di quelle indiane, la quale presi a Putuncha, fiume di Grizalva, della quale feci menzione nella prima relazione mandata a Vostra Maestà, fu fatto palese da uno abitante di Tascaltecal come non molto lontano si era insieme ragunata una grandissima moltitudine di uomini, sudditi del signor Montezuma, e che tutti gli abitatori della città avevano menato fuori le moglieri, i figlioli e le facultà, e desideravano d'assaltarne e ucciderne tutti; e che, se ella voleva andar con esso lui, la salvarebbe. Le qual tutte cose raccontò a quel Ieronimo Agillari che io ebbi in Iucatan, e del quale altre volte ho fatto menzione alla Maestà Vostra, ed egli poi le rapportò a me: e procurai che subito fosse preso quell'uomo di Tascaltecal, il quale, avendolo posto in luogo secreto, l'esaminai diligentemente, e mi palesò quelle cose che aveva dette a quella femina di Churultecal mia interprete. E perciò dagl'indicii precedenti, che prima nel viaggio avevamo visti, deliberai che fusse meglio d'assalir loro che essi assalissero me. Procurai di ragunar tutti i signori della città con scusa di voler parlar con loro, i quali poichè si furono ragunati, gli misi in una certa gran sala; e in questo mezzo comandai a' soldati che stessero in arme, e apparecchiati ad ogni cosa subito assaltassero quel numero degl'Indiani che erano nel mio albergo e nel luogo piú vicino. E cosí avenne, perciochè, poi che i signori si furono ragunati, quivi gli lasciai legati; montato a cavallo ed iscaricato uno schioppo, facemmo talmente che in spazio di due ore uccidemmo da tremila uomini. E appresso sappia la Maestà Vostra anco il modo che si erano apparecchiati contra di noi. Prima che io uscissi del mio albergo, avevano serrate quasi tutte le contrade e tutti stavano in ordine; e nondimeno, perchè gli assaltammo alla sprovista, fu facil cosa mettergli in rotta, massimamente mancando i lor capitani, i quali io teneva legati nella sala. Comandai che fusse messo fuoco in certe torri e case fortificate nelle quali si difendevano, e combattendo io andai per tutta la città, avendo nondimeno lasciato ottima guardia nell'albergo: e a questo modo per spazio di cinque ore sforzai tutto il popolo uscir della città, con l'aiuto di quattromila uomini di Tascaltecal e di quattrocento di Cimpual.
Dopo il mio ritorno all'albergo parlai con quei signori della città che tenevo prigioni, e dimandavo loro per qual cagione avessero procacciato d'uccidermi cosí a tradimento. Mi risposero la cagione non esser proceduta da loro, ma dagli abitatori di Culua, sudditi del signor Montezuma, i quali con lor lusinghe gli avevano sospinti a commetter simile sceleratezza; e che 'l signor Montezuma, lontano da quella città per spazio d'una lega e meza (come essi potevano pensare), aveva poste in ordine da cinquantamila persone per mandar la cosa ad effetto, ma che già conoscevano essere stati ingannati. E mi pregavano ch'io volessi lasciare uno o due di loro, che promettevano di riducere il popolo ch'io aveva discacciato, e le donne e li figliuoli e le robbe che avevano tratte fuori; e umilmente mi pregavano ch'io perdonassi loro, promettendo che per l'avenire da niuno mai piú si lascieriano ingannare, e volevano esser veri e fedeli sudditi di Vostra Maestà. E poichè io ebbi biasimati e ripresi grandemente i loro errori e sceleraggini, lasciai andar due di loro. Il giorno seguente la città pareva abitata e piena di donne e di fanciulli, e il popolo pacifico, non altramente che se non fusse avenuto cosa alcuna; e liberai tutti gli altri signori della città, avendo promesso d'esser perpetuamente servitori di Vostra Maestà. E in quei venti giorni ch'io dimorai quivi fu la città molto pacifica, e non altramente pareva che se niuno fusse stato ucciso o mancasse, e andavano alle piazze ed esercitavano le lor mercanzie per la città, come prima solevano fare. E feci che quei di Churultecal e Tascaltecal facessero insieme lega e amicizia e di nemici diventassero amici, che da pochi anni il Montezuma gli aveva fatti benevoli a sé e nemici a quei di Tascaltecal.
Questa città di Churultecal è posta in un luogo piano, e dentro delle mura ha ventimila case e altrettante nei borghi. Sono signori da per sé e hanno i confini separati, e non ubbidiscono ad alcuno, né alcuno riconoscono per signore o superiore, e hanno il governo simile agli abitatori di Tascaltecal. Questa gente usa migliori ornamenti che non fanno quei di Tascaltecal. Tutti, dopo questa rotta, e sono stati fedeli sudditi alla real Maestà Vostra, e spero che anco nell'avenire persevereranno. Questa provincia è fertilissima, perciochè ha il paese e i confini molto larghi, e per la maggior parte luoghi che si possono inacquare. La città è bellissima da veder di fuori, perciochè è molto piena di case e ha assaissime torri: e dico il vero a Vostra Maestà che io, guardando da un'alta torre di certa moschea, numerai quattrocento torri di moschee nella detta città. E di tutte le provincie che insin ora io ho vedute in questi paesi, questa è piú accommodata all'abitar di Spagnuoli, perciochè vi sono pascoli e acque buone per nutrir animali, che gli altri luoghi per li quali fin ora siamo passati non l'hanno; perciochè nell'altre provincie è tanta copia di persone che niuna parte di quelli paesi, ancora che minima, si lascia che non sia coltivata, e nondimeno in molti patiscono carestia di pane; vi sono anche molti poveri, e vanno mendicando alle case e alle lor moschee, sí come soglion fare in Spagna e in altri luoghi.
Lamento del Cortese agli ambasciatori del signor Montezuma, e la risposta a lui data per essi ambasciatori Doni mandati dal detto signor al Cortese. Panicacap, che sorte di bevanda sia. Delle provincie Acanzigo e Izuchan. Come detti ambasciatori pregano il Cortese che non entri nella provincia del signor sopradetto, e la risposta per lui fattali.
Parlai agli ambasciatori del Montezuma intorno al tradimento che avevano apparecchiato di farmi i signori di Churultecal, e qualmente i predetti signori affermavano esser avenuto e aver avuto principio dalla persuasione di Montezuma, e che simil tradimento non mi pareva degno di tanto uomo quale era il lor signore, che da una banda mi mandava onorati ambasciatori offerendomi la sua amicizia, e dall'altra cercava a tradimento insidiarmi con l'altrui forze, per poter coprire il delitto ed iscusarsi quando le cose non succedessero secondo il suo desiderio; e che, poichè egli aveva rotta la promessa fede né attesa la promessa, io ancora mi era mutato d'opinione e, se prima io desiderava d'andar nella sua provincia solamente per cagione di visitarlo e di parlar seco e per pigliar sua amicizia e pratica, ora io m'affrettava d'entrarvi come nemico, desiderando di fargli tutti quei danni e incommodi che un nemico può fare; la qual cosa mi dispiaceva sommamente, perciochè mi saria stato molto caro averlo amico e seco consigliarmi di tutte quelle cose ch'io ero per fare in quelle parti, ed esequire il consiglio datomi da lui. Gli ambasciatori mi risposero che erano stati appresso di me lungo tempo e che di simil tradimento a loro non era pervenuta notizia alcuna, e che a niun modo si potevano persuadere che le cose che erano state fatte fussero state esequite di ordine e consiglio del signor Montezuma; e mi ricercavano che, prima che deliberassi di rifiutar la sua amicizia e prender guerra contra di lui, sí come io diceva, dovessi prima molto bene intendere ogni cosa e far ogni prova per trovar la verità, e che io dessi licenzia ad un di loro, che andarebbe a parlare al suo signore e ritornarebbe tosto. Sono da questa città al luogo dove fa residenza il Montezuma venti leghe. Risposi che mi piaceva e licenziai alcuni di loro.
Ed essi, insieme con un altro che prima si era partito, ritornarono dopo sei giorni e mi portarono a donare dieci piatti d'oro fino e millecinquecento vesti, e vettovaglie di galline e panicacap, che è una sorte di bevanda che usano. E riferirono il lor signore Montezuma aver avuto a dispiacere che quei di Churultecal mi avessero fatte insidie, e che certamente io non credessi che esso avesse prestato consiglio e favore in simil negozio, perciochè egli mi dava la sua fede la cosa non esser cosí, e quella gente esser sua ed essersi ragunata dove si è detto di sopra, nondimeno di propria volontà, non di suo comandamento, a persuasione di quei di Churultecal; perchè erano di due provincie, l'una delle quali è chiamata Accancigo, l'altra Izuchan, che sono vicine al paese di Tascaltecal, e per la vicinità aver fatto una certa confederazione tra di loro di aiutarsi l'una l'altra, e per questa cagione s'erano ragunati insieme, ma non per suo comandamento; e per l'avenire vederei dalle sue opere se quelle cose ch'io gli aveva mandate a dire sarebbono vere o no. E di nuovo mi pregava con grande instanzia ch'io non dovessi andare alla sua provincia, perchè, essendo sterile, potrei patir di molte cose; ma dovunque io fussi mandassi a chiamarlo, che in ogni cosa adempirebbe il voler mio. Risposi che 'l mio viaggio per la sua provincia non si poteva schifare, perciochè io era tenuto a dar particolarmente aviso a Vostra Maestà e d'esso Montezuma e di tutta la sua provincia; e fingeva di credere quelle cose che mi avevano riferito gli ambasciatori. E perchè non si poteva ciò fare se io non andava a visitarlo, che non l'avesse a dispiacere; e se pensasse di fare altramente gliene potrebbe avenire male, e mi dispiacerebbe che gli fusse fatto danno o incommodo alcuno.
Egli, poichè conobbe che io aveva determinato d'andare a vederlo, rispose ch'io andassi con buona ventura, e che mi aspettarebbe in quella città dove al presente si ritrovava, e mi mandò molti de' suoi che là mi accompagnassero, perciochè già io era entrato nella sua provincia. Desideravano di condurmi per quei luoghi e vie nelle quali pensai che mi avessero posto insidie per trattarci malamente, come si comprese per le cose che dipoi avennero; perciochè molti Spagnuoli, i quali aveva mandati per quella provincia a diversi negozii, avevano veduti piú ponti e vie strette, per le quali se fussimo andati, facilissimamente averiano potuto mandare ad effetto la loro intenzione. Ma Iddio ottimo massimo, il quale ha difeso insin dai teneri anni la Maestà Vostra, vedendo noi essere intenti al servizio di quella, ne mostrò altro viaggio, e benchè fusse piú aspro, nondimeno non era sottoposto a tanti pericoli come era quello per il quale si sforzavano di condurci. Il quale ci fu mostrato in questa maniera.
Di due monti freddissimi e d'una palla di fumo che esce dalla cima d'uno di quelli,
e come il Cortese vi mandò uomini per investigar tal secreto, e quello che riportarono.
Della provincia detta Chalco.
Discosto da questa città di Churultecal sono due monti altissimi e freddissimi, e nel fine del mese d'agosto vi sono tanto gran nevi, che nelle lor cime non si vede altro che neve. E da uno di quelli, il quale è piú alto, molte volte, tanto di giorno quanto di notte, esce una gran palla di fumo a guisa d'una gran casa, e sopra la cima di quello si lieva insin alle nuvole, tanto dirittamente e con tanta velocità che una saetta non lo vincerebbe di prestezza; e benchè nella sommità di quei monti regnino grandissimi e fortissimi venti, nondimeno non han forza né di rompere né di piegare quella palla di fumo. Ma perchè sempre ho desiderato di tutte quelle cose che sono in questi luoghi riferire a Vostra Maestà particolarmente la verità, parendomi nel veder tal cosa vedere un miracolo, a fine d'investigar tal secreto vi mandai con alcuni di quel paese dieci de' miei soldati spagnuoli, di quegli ch'io giudicava esser atti a tale investigazione, e da dovero comandai loro che in ogni modo salissero sul detto monte e investigassero il secreto di detto fumo e donde e come uscisse. E quanto a lor fu possibile s'affaticarono di salirvi, nondimeno non poterono mai farlo, essendo impediti dalli spessi rivolgimenti di venti con le ceneri che escono dal detto monte, e dalle gran nevi ed estremi freddi che vi sono. Nondimeno si avicinarono alla cima, di modo che, mentre erano quivi, cominciò a uscir fuori quella palla di fumo, con tanto impeto e strepito che pareva che 'l monte ruinasse; e senza far altro se ne ritornarono, portando molta neve e ghiaccio, perciochè pareva loro che, essendo in queste parti cosí calde, avessimo da veder cosa nuova, secondo l'opinione de' nocchieri, che affermano questa provincia esser posta nel ventesimo grado, che è nel parallelo dell'isola Spagnuola, dove continuamente sono grandissimi caldi. E mentre andavano per cercar questo secreto trovarono una certa strada, e dimandando dagli uomini del paese che aveva mandati con esso loro dove s'andasse per quella via, dissero che de lí s'andava a Culua, e per andarvi quella era la buona strada, e non quella per la quale gli uomini di Culua ci volevano guidare. E gli Spagnuoli camminarono per quella insino al fine de' monti, perciochè la strada è nel mezzo d'essi; finalmente cominciò a vedersi la pianura di Culua e la gran città di Temistitan e i laghi che sono in quella provincia, i quali di sotto racconterò all'Altezza Vostra.
E quegli Spagnuoli ch'io aveva mandati ad investigare il secreto co' compagni se ne ritornarono tutti allegri, avendo trovato la buona strada; ed essendo da loro e da quei della provincia stato fatto certo della nuova buona via ritrovata, parlai agli ambasciatori del Montezuma, ammonendogli che mi dovesser conducere a quella provincia per la via ritrovata, e non per quella che essi avevano disegnato. Risposero che ella era piú piana e piú breve, e la cagione perchè non mi guidavano per quella dissero che era per aver noi a passare per la provincia Guasacingo, li cui abitatori erano nemici del lor signor Montezuma, e in quella non potevamo trovar vettovaglie né cose necessarie come nei luoghi del lor signore; ma poichè io aveva deliberato di passar per quella via, essi procureriano di portar la vettovaglia d'altronde. E passammo con gran sospetto, temendo che non volessero perseverar nella lor malignità e di nuovo insidiarci; e perchè già era venuto a notizia di tutti che io voleva passar di là, non pareva a proposito di tornare adietro, acciò non ne fusse attribuito a paura e viltà.
In quel giorno che ci partimmo da Churultecal, avendo camminato quattro leghe, arrivammo a certi villaggi sottoposti alla città di Guasacingo. Quivi fui ben visto dagli abitatori, e mi donarono certi schiavi e vesti e alcuni piccioli pezzetti d'oro, le qual cose tutte erano di pochissimo momento, perciochè non ne hanno nella lor provincia. Seguitano la fazione di quei di Tascaltecal, e d'ogni lato sono chiusi dal paese del signor Montezuma, tal che non hanno commerzio alcuno se non con gli abitatori della propria patria, e perciò vivono miseramente. Il seguente giorno salimmo su la foce posta tra li due monti che ho detto a Vostra Maestà, e nel discender di quella, poichè agli occhi nostri si mostrò la provincia del signor Montezuma, venimmo per una certa provincia che è chiamata Chalco. Per spazio di due leghe avanti che venissimo a' luoghi abitati, trovammo un ottimo albergo, nuovamente fabricato di travi e di paglia. In quello alloggiai commodamente insieme con tutti i miei compagni e con tutti gl'Indiani che aveva condotti meco, che erano da quattromila uomini di queste provincie, cioè di Tascaltecal, di Guasacingo, di Churultecal e di Simpual. Ne diedero le cose necessarie al vivere, e avemmo in tutte le abitazioni fuochi fatti con legne abbondantemente, perciochè vi erano grandissimi freddi, essendo circondati da due monti altissimi, ne' quali era grandissima copia di neve.
Dono di quattromila pesi d'oro fatto al Cortese in nome del signor Montezuma, con pregarlo che non andasse alla sua città, e la risposta ch'ei gli fece.
In questo luogo mi vennero a trovare alcuni in nome del Montezuma, i quali mi parevano baroni, e tra loro dicevano esser venuto il fratello del Montezuma, e mi portarono quattromila pesi d'oro da parte del lor signore Montezuma, pregandomi ch'io mi levassi dell'animo di proceder piú innanzi per andare a quella città, perciochè la sua provincia pativa carestia di vettovaglie, ed era difficile la strada d'andarvi, essendo tutta circondata d'acque, né vi poteva esser condotto se non con le canoe (canoa è una barca d'un legno solo incavato), che usano per traghettare; gli abitatori le chiamano accaler. Fingevano molte altre cose difficili nel viaggio, dicendomi che gli facessi sapere ciò che io dimandava da lui, che volentieri, ovunque io mi trovassi, egli procureria senza dubbio di mandarmi, e insino al mare e dove mi piacesse, in segno di tributo, tutte quelle cose che gli chiedessi. Io con benignità e amichevolmente gli ricevetti, e donai loro alcune cose ch'io aveva portate di Spagna, le quali appresso di loro erano tenute in grandissima stima, e massimamente appresso di colui che dicevano esser fratello del Montezuma. All'ambasciata fatta per nome del signor loro risposi con queste parole: "Io, se fusse in mia potestà il partirmi di questa provincia, per compiacere al vostro magnanimo signore piú volentieri lo farei ch'egli non lo desidera. Ma perchè i commandamenti della sacra cattolica Maestà del mio signore e re non mi concedono poterlo fare, di ordine suo io son venuto in questo paese; e tra l'altre cose che la catolica Maestà e il grande imperatore mi ha dato in commissione, fu principalmente ch'io dessi aviso a sua Maestà del magnanimo vostro signore Montezuma e della città sua tanto famosa, la cui fama già fa molto tempo è pervenuta alle sacre orechie di sua Maestà. E di questo vi voglio pregare, che da parte mia diciate al vostro signore che riceva la mia venuta a lui con buono e lieto animo, perciochè né a lui né alla sua provincia puote arrecar danno o incommodo alcuno, ma piú tosto molta utilità, onore e accrescimento. E poichè averò parlato al vostro signore, se non vorrà tenir mia pratica me ne tornerò subito adietro, che mi sarà a bastanza il parlar con esso lui, per determinar tra noi con che modi si possino in queste parti indirizzar i negozii del mio sacratissimo e potentissimo re; il che non si potrebbe determinare per via di persone mezane, benchè idonee e alle quali si dovesse prestar grandissima fede". E avuta questa risposta si partirono.
In questo albergo del quale ho fatto menzione di sopra, sí come per indicii e apparecchi potette comprendere, avevano pensato d'offenderci in quella notte e farci qualche danno: il che avendo io compreso, vi trovai rimedio. E perciò, poichè conobbero ch'io aveva mutata opinione, di nascoso commandarono a quelle genti che erano ne' monti ascose dovessero andare al predetto albergo, e vedute dalle mie guardie e sentinelle si partirono.
Della terra detta Amaqueruca, e il dono di mille pesi d'oro e schiavi fatto al Cortese per il signor di quella. In che luogo quelli del signor Montezuma s'apparecchiorono ad offender gli Spagnuoli. Come le spie furono uccise e vennero dodeci de' primarii del detto signore, e le parole che usorono al Cortese e la risposta fattali. D'una città posta nel lago e una via con molto artificio fabricata, e delle città Izapalapa e Cannalcan.
Il giorno seguente camminando giunsi ad una certa terra, che la chiamano Amaqueruca, che è sottoposta alla provincia di Chalco, la quale fra la principal terra e fra le ville per due leghe d'intorno ha piú di tremila case: e in questa terra fummo alloggiati molto bene in una bella casa del signore. Vennero molti a vedermi, che mi parevano de' primarii, affermando d'essere stati mandati dal lor signore per aspettarmi quivi e provedere per me e per le mie genti di tutto ciò che facesse di bisogno. Il signore di questa provincia mi donò mille pesi d'oro e quaranta schiavi, e quivi stemmo due giorni commodamente, e abbondantemente ci fornirono di tutte le cose che ne bisognavano.
Il seguente giorno, essendo venuti a me alcuni de' principali, mi certificarono che 'l signor Montezuma m'aspettava. Mi partii, e in quella notte giugnemmo ad una certa picciola terra, lontana de lí forse quattro leghe, appresso un grandissimo lago: e quasi la metà d'essa si sporge in acqua, e verso terra ferma ha un asprissimo monte di ripe e sassi grandissimi. E quivi con tutti li modi s'apparecchiavano d'offenderci, ma la cosa avenne altramente di quel che cercavano. Avevano deliberato di assalirci la notte alla sprovista, ma, essendo io notte e giorno diligente e vigilantissimo, feci tornar vani i lor pensieri. In quella notte posi per tutto le guardie, talmente che le loro spie, e quelle che venivano per acqua con le canoe e quelle che scendevano dal monte, poterono conoscere se avessero possuto mandare ad effetto la loro intenzione. La mattina furono trovate circa venti spie uccise dai nostri, di modo che poche ne ritornarono ai signori che l'avevano mandate; e vedendo che noi eravamo apparecchiati e pronti ad ogni cosa, deliberarono di mutare opinione e condurne come amici.
Il dí seguente, la mattina a buon'ora, avendo determinato di partire, mi vennero innanzi dodeci uomini de' primarii, come dipoi compresi, tra i quali di maggior dignità era un giovane di venticinque anni, che principalmente tutti lo riverivano di maniera che, quando discendeva della lettica nella quale era portato, gli altri tutti andavano innanzi levando li sassi e le paglie del mezo della strada donde aveva da passare. Ed essendo venuti a trovarmi, dissero esser venuti da parte del lor signor Montezuma per accompagnarmi nel viaggio, e che io dovessi perdonare al lor signore se esso non mi era venuto incontra sino a quel luogo, perciochè si trovava ammalato, e che la sua nobil città non era molto lontana; e poichè io aveva deliberato di andare a trovarlo, averemmo potuto parlare a bocca e conoscere di che animo fussero verso di Vostra Maestà. Nondimeno con grandissimi prieghi mi chiedeva che non vi andassi, imperochè averei patito molta fatica e carestia, e molto minacciava che egli quivi non averia potuto procurare che mi fusse stato proveduto delle cose necessarie nel modo che aveva in animo: e in questo perseveravano e s'affaticavano grandemente i predetti ambasciadori, sí che altro non restava se non che dicessero apertamente che se io seguitava di volervi andare, che volevano farmi resistenza.
Ma io risposi loro benignamente e con parole piú umili che mi fu possibile, affermando che di questa mia andata non gliene poteva succedere incommodo alcuno, ma ben molta utilità. E avendo donate loro alcune di quelle cose che avevo arrecate meco di Spagna, gli licenziai, e subito mi partii accompagnato da molta gente, perciochè m'accompagnavano uomini i quali, sí come poi si vidde, erano di grandissima auttorità. E sempre camminavamo vicino della ripa di quel gran lago.
E andato appena una lega lontano dalla casa nella quale era stato alloggiato, viddi nel detto lago una picciola città, che era tanto lontana da noi quanto sariano due tiri di balestra: è posta nel detto lago e ha insino a duemila case, e non si vedeva strada alcuna d'andarvi per terra e, per quanto potevamo scorgere, aveva molte torri. Camminato che ebbi una lega, entrai in una via fatta a mano e artificiosamente fabricata nel detto lago, larga quanto è lunga una lancia spagnuola da uomo d'arme, per la quale avendo camminato quasi una lega arrivammo ad una città, della quale insin ora non abbiamo veduta la piú bella, benchè non fusse di gran circuito. In questa picciola città erano bellissime case, e non tanto ci maravigliavamo delle case cosí ben fabricate quanto dei fondamenti di esse, i quali con maraviglioso artificio erano posti in acqua, che, sí come è detto, la città è situata nel lago. In questa, che ha quasi duemila case, stemmo commodissimamente e molto sontuosamente ne ricevettero; e i primarii e il signore della città desideravano grandemente che quella notte io riposassi quivi, ma gli ambasciatori del signor Montezuma mi dissero che io non dovessi star quivi, ma per spazio di tre leghe andare ad una città nominata Iztapalapa, la quale è suddita ad un de' fratelli del signor Montezuma. L'uscita di questa città dove noi desinammo, il cui nome ora non mi sovviene, è per un'altra simile strada fatta a mano, la quale conduce sino in terra ferma per spazio d'una lega. E avicinandomi alla città, il signore di quella, insieme con un gran signore d'un'altra che è lontana da quella tre leghe, che la chiamano Canaalcan, e molti altri baroni e signori che quivi m'aspettavano, mi vennero incontra e mi portarono quattromila pesi d'oro e certe vesti di seta, e mi ricevettero umanissimamente.
Sito della città Iztapalapa, e de' bellissimi palazzi e giardini e d'un maraviglioso belveder di quella. Delle città di Temistitan, Mesicaloingo, Hyciaca e Huchilohuhico, e come vi si faccia il sale. Il numero de' baroni che vennero a visitar il Cortese e le cerimonie che usarono.
Iztapalapa, la quale è al lato d'un gran lago d'acqua salsa, ha per fino a quindecimila case, e la maggior parte sono in acqua e altre sono in terra ferma. Il signore ha certi palazzi alti che ancora non sono finiti, e sono sí grandi e sí belli come si possino trovare in tutta la Spagna, dico de' grandi e ben fabricati, tanto di pietre quanto di travi e di pavimento e d'ogn'altra cosa necessaria in fabricar palazzi e d'altri ornamenti di casa, eccetto che di lavori di legname e di figure e d'altre cose ricche, di pareti e di palchi usati appresso di noi, i quali quivi nelle abitazioni di sopra non sogliono usare. Da basso hanno giardini dilettevoli pieni d'arbori e di fiori odoriferi, e oltra di ciò peschiere o vero vivai molto ben fabricati, con le scale di pietra da sommo insino a basso. Appresso il detto palazzo ha un gran giardino, nel quale è un belvedere con varie e belle sale e loggie. E nel giardino è un lago d'acqua dolce tirato in forma quadrangolare, fatto di pietre concie, e intorno al lago è una larga loggia con un bellissimo pavimento fatto di mattoni, e tanto larga che quattro uomini di pari facilissimamente senza incommodarsi vi potrebbono passeggiare, e ciascuna parte di essa è quattrocento passi e tutto 'l circuito è mille e seicento. La parte della loggia vicina al giardino è fatta di canne, dopo le quali sono degli arbori e di varie erbe odorifere. Nel lago si veggono nuotare assaissimi pesci d'ogni sorte e uccelli, come sono anetre, foliche e altri assai, di modo che alle volte cuoprono il lago.
Il giorno seguente, partendomi da questa città, avendo camminato mezza lega entrai in un'altra strada mattonata che divideva il lago per mezo, per la qual in spazio di tre leghe si perviene a quella famosa città di Temistitan, posta nel mezo del lago. Questa strada è tanto larga quanto sariano lunghe due lancie spagnuole di uomini d'arme congiunte insieme, per la quale otto uomini a cavallo di pari insieme commodamente potriano passare. Dall'uno e dall'altro lato di detta strada sono tre città, una delle quali è chiamata Mesicaloingo, che per la maggior parte è posta in detto lago, e l'altre due, cioè Hyciaca e Huchilohuhico, che cosí sono dette, sono situate appresso il lago; e molte case delle predette città sono bagnate dall'acqua. Dicono che la prima arriva a tremila case, la seconda a seimila, l'ultima a cinquemila; in ciascuna delle quali sono ottime case e torri, massimamente quelle dove abitano i signori, e le lor chiese, che le chiamano meschite, o vogliamo dir moschee, dove fanno loro orazioni e metton i loro idoli. Qui si fa gran mercanzia di sale, che lo soglion fare dell'acqua del detto lago e del fior della terra dal lago inondata, che, come ella è bollita, la riducano in masse in forma di pane, e lo vendono cosí a' paesani come a' forestieri.
Per spazio di mezza lega prima che si venga a quella famosa città di Temistitan, dove un'altra via fatta in simile maniera sottentra alla prima che viene da terra ferma, è un muro fortissimo con due torri circondate di muro di larghezza di due stature d'uomo, con un antimuro e con torrioni per tutto il circuito, il qual muro riceve ambedue le predette strade. La città di Temistitan ha solamente due porte: una per la quale entrano, l'altra per la quale escono. Vennero qua ad incontrarmi da mille baroni della città, con abito d'una istessa livrea, secondo il lor costume e usanza. E mentre s'appressavano ciascuno di loro usava la ceremonia della patria, che è tale: ciascuno, secondo che si trovava nell'ordine, quando veniva a salutarmi toccava la terra con mano e dipoi se la basciava, per segno di grandissima riverenza. E quivi consumammo un'ora, prima che ciascuno finisse la ceremonia. Non lunge dalla città era un ponte di legno di larghezza di dieci passi: qui è interrotta la detta strada, e questo ponte è per il crescimento e mancamento dell'acque (perciochè l'acque di questa palude crescono e scemano come quelle del mare), e anco per sicurezza e difesa della città, conciosiachè quelle travi lunghe delle quali è fatto il ponte le mettino e lievino come a lor piace. E a simiglianza di questo ne sono molti altri per tutta quella famosa città, sí come dirò piú largamente nel processo della mia relazione.
Con quanta pompa venne il signor Montezuma a parlar al Cortese,
e il parlamento ch'ebbero insieme.
Poichè ebbi passato il detto ponte, mi venne incontra quel potente signor Montezuma per ricevermi, e con esso lui ducento signori co' piedi nudi e con altro piú ricco abito di livrea che li primi; e andavano a due a due in modo di processione e s'accostavano molto ai muri delle case, ancora che la strada fusse agevole, larga e dilettevole, essendo quasi per una lega tutta diritta, e tanto diritta che potevamo veder dal principio insino all'ultimo di detta via; e da ambidue i lati d'essa sono case ottime e grandi, parte per uso di moschee e parte per abitare. Il signor Montezuma andava in mezzo di due gran baroni, l'uno de' quali era quel gran signore di cui feci menzione di sopra, che mi venne a parlare portato in lettica, e l'altro era il fratello del signor Montezuma, che signoreggiava la città dalla quale quel giorno istesso mi era partito: e questi tre vestiti d'una medesima livrea, salvo che il signor Montezuma portava le scarpe e gli altri andavano co' piè nudi, benchè tutti gli abitatori usino scarpe; uno dalla destra e l'altro dalla sinistra sostenevano le braccia al signor Montezuma. E appressatomi smontai da cavallo per andare ad abbracciarlo, ma due di quei signori con le mani m'accennarono che ciò io non dovessi fare, né anco toccarlo. E primamente il signor Montezuma, e dipoi quei due signori, fecero la predetta ceremonia della lor patria, la qual finita comandò al fratello che prima accompagnava lui d'allora innanzi dovesse far compagnia a me, ed egli accompagnato dall'altro signore se n'andava un poco avanti. E dove mi aveva parlato vennero anco gli altri ducento signori che ho detto di sopra a salutarmi ordinatamente, e, fatta la cerimonia, ciascuno ritornava al luogo donde si era partito. E quando parlai al signor Montezuma, mi cavai una collana ch'io portava al collo, di gioie e di diamanti di vetro, e la gettai al collo al signor Montezuma; e avendo camminato alquanto, venne un suo famigliare portando due collane lavorate a modo di piccioli gambari marini, involte in un panno ricamato di porcellette rosse, le quali essi stimano grandemente, e da ciascuna collana pendevano otto gambari d'oro di maravigliosa perfezione, di larghezza d'un palmo: e subito me le gettò al collo. E seguitando il cammino di donde s'era partito, andò con l'ordine e abito detti di sopra, finchè giugnemmo ad un grande e bel palazzo apparecchiato per nostro alloggiamento. E subito, pigliatomi per le mani, mi condusse in una gran sala, che era avanti il cortile dove eravamo entrati, e mi pose a sedere in una ricca e ornata sedia, la quale egli aveva ordinato che fusse apparecchiata per me, e dissemi che quivi io dovessi aspettarlo.
E poco dopo, avendo avuto i miei ottimi alloggiamenti, se ne tornò a me con varie e diverse cose, e ornamenti d'oro e d'argento, e cose lavorate di penne e di piume molto vagamente, e con cinquemila vesti di seta in varii modi e preziosamente lavorate e ricamate. Delle qual tutte cose poichè m'ebbe fatto parte, si pose a sedere in un'altra sedia non molto distante dalla mia, che egli si aveva fatta apparecchiare, e parlò in questo tenore: "È gran tempo che, per l'istorie e scritture de' nostri antichi, abbiamo per certo che io e tutti quegli che abitiamo in questa provincia non siamo discesi di qui, ma siamo forestieri, e venimmo qua da lontani paesi del mondo; e sappiamo che noi arrivammo in questa provincia condotti da un gran signore e capitano, del quale eravamo sudditi.
E lasciando qui noi, se ne tornò a riveder la patria, e non molto tempo dopo se ne ritornò a noi, e ne trovò tutti aver tolte per moglie le native di questo paese, e aver preso ad abitar le terre, e oltra di ciò aver generati figliuoli. Egli tentava con ogni sforzo di levarci di questa provincia, il che noi ricusammo di fare, né piú lo volemmo ricever per signore e capitano; onde egli si partí, e insin ora avemmo creduto di certo che i suoi successori dovessero venire a soggiogare e queste provincie e noi, come proprii e veri sudditi suoi. E considerando il luogo onde voi dite di esser venuti, e le cose che predicate del grande e potente signore e re il quale vi ha mandato qua, credemo veramente che egli sia il nostro vero signore, e tanto piú che voi dite che egli sa noi aver per longo tempo abitati questi luoghi. Per la qual cosa proponetevi che noi siamo per ubbidirvi del tutto e ricever voi per signore, in luogo e nome di colui il quale affermate avervi mandato qua, e in questo non vi mancheremo, né vi useremo inganno. E potete comandare a vostro piacere a tutta la provincia che è sottoposta all'imperio mio, perciochè tutti vi saranno ubbidienti, e potete come vi piace servirvi di tutto ciò che noi possediamo, essendo voi nella vostra propria casa e provincia. State di buon animo e riposatevi, che so di certo che avete patito diverse fatiche, sí per il viaggio, sí per le spesse battaglie che insin ora vi è accaduto di fare. So molto bene le cose che da Pannachanaca fin qua vi sono intervenute. Né dubito punto che quei di Churultecal e di Cimpual vi aranno detto male di me. Vi prego che non crediate piú di quel che per pruova e co' proprii occhi vedete, massimamente essendo cose dette da miei nemici, de' quali alcuni erano miei sudditi e per la vostra venuta mi si sono ribellati, e per ottener favore e grazia da voi dicono simili cose. Io so certamente che essi v'hanno affermato ch'io aveva le case con le mura d'oro, e d'oro la sedia e tutte le masserizie d'oro, e parimenti ch'io era Iddio e per Dio mi riputavano, e altre simil cose. Le case vedete voi stessi esser di pietre di calcina e di terra". E cosí detto s'alzò le vesti mostrando il corpo e dicendo: "Non vedete voi ch'io son fatto di carne e d'ossa, mortale e palpabile? Vedete che già essi hanno mentito. Io certamente ho alcune masserizie che i miei antiqui mi lasciarono: tutte quelle che averò siano vostre, e di quelle disponete a vostro piacere. Io me n'anderò in altre case dove soglio abitare, e averò cura che vi sia proveduto d'ogni cosa conveniente a voi e ai vostri compagni. E non pigliate dispiacere alcuno, anzi rallegratevi, che sete in casa vostra e nella vostra patria".
Io risposi con poche parole, e toccai principalmente quelle cose che mi parevano a proposito del fatto nostro, e spezialmente di metter loro in animo che la Maestà Vostra fusse veramente quel signore che pensavano dover venire. Finito che ebbi di parlare si partí, e dopo la sua partita ci portarono pane, galline, varii frutti e altre cose pertinenti all'uso di casa e dell'albergo. Stemmo quivi sei giorni, molto ben trattati, e spesse volte i signori di quella provincia mi venivano a vedere e parlare.
L'inganno che usò il signor della città di Almeria contra il governator della Vera Croce, e come gli Spagnuoli presero per forza la detta città di Almeria.
Già nel principio di questa mia narrazione esposi a Vostra Maestà ch'io, quando mi partii dalla città della Vera Croce per intender diligentemente di questo potente signor Montezuma, quivi avea lasciati centocinquanta Spagnuoli per finir la fortezza incominciata da me, e anco avevo lasciate molte ville e castelli vicini alla detta città della Vera Croce, sudditi alla sacra Maestà Vostra, e gli abitatori veramente fedeli. Ma, essendo io nella città di Churultecal, mi furono portate lettere del governatore ch'io aveva posto quivi in mio luogo, per le quali mi dava aviso che Qualpopoca, signore della città chiamata Almeria, per li suoi ambasciatori aveva fatto intendere al detto governatore che desiderava esser vassallo di Vostra Maestà, e se insino a quell'ora non gli aveva prestata quella ubbidienza che era tenuto di fare, e se non era venuto con tutta la sua provincia ad offerirsegli, era restato perchè gli bisognava passare per una provincia che gli era nemica e, temendo di ricever offesa nel passare, non aveva potuto mettere in esecuzione quanto desiderava: e perciò lo richiedeva che degnasse mandargli quattro Spagnuoli, i quali andassero seco per le provincie de' nemici, che, essendo guidato da Spagnuoli, aveva fidanza di andar sicuramente al detto governatore e a questo modo gli potrebbe render la debita ubbidienza. Il qual governatore, prestando fede alle parole che gli erano riferite in nome del detto Qualpopoca, e che verrebbe a rendergli ubbidienza come avevano fatto ancora gli altri, gli mandò quattro de' suoi Spagnuoli, i quali, poi che furono in casa del detto Qualpopoca, fingendo di non esser lui cagion della morte, procurò che fussero uccisi: e n'avevano uccisi due, e gli altri feriti erano scampati per li monti. Il detto governatore, avendo ciò inteso, con cinquanta fanti spagnuoli e duoi a cavallo e diecimila Indiani amici nostri era da nemico andato contra la città d'Almeria, e, venuti a combatter co' nemici, furono uccisi sette Spagnuoli; ma alla fine avevano preso per forza la detta città d'Almeria, e avevano uccisi molti cittadini e gli altri mandati fuori, e abbruciata e distrutta la città: ed essendo gli Indiani che aveva menati seco cotali nemici degli Almeriani, avevano in ciò usato ogni diligenza. Ma che Qualpopoca e gli altri suoi confederati e quegli che in questo gli avevano prestato favore fuggendo si erano salvati, e che da certi fatti prigioni aveva dimandato chi fussero stati coloro i quali avevano dato aiuto alla città e a Qualpopoca, e perchè avevano commesso tal delitto, e che cosa gli avessero spinti a uccidere gli Spagnuoli che egli aveva mandati al detto Qualpopoca. Essi risposero quel delitto essere stato commesso per comandamento del signor Montezuma, e che gli altri signori che avevano dato aiuto alla città erano venuti quivi di commissione del Montezuma, acciochè, dapoi che io fussi partito dalla città della Vera Croce, andassero contra coloro che ivi erano rimasi e contra coloro che a lui si erano ribellati e venuti alla divozione di Vostra Maestà, e che usassero ogni diligenza che fusse possibile di uccidere gli Spagnuoli quivi lasciati, acciochè non si potessero l'un l'altro dar favore né aiuto: e che perciò erano cotal cose avenute.
Con che buon modo il Cortese ritenesse il signor Montezuma.
Passati li sei giorni dopo la mia entrata nella famosa città di Temistitan, e poichè ebbi vedute alcune cose di quella, benchè minime rispetto alle molte che si possono vedere, considerate le cose che si hanno nella provincia, giudicai grandemente appartenere all'utile e accrescimento dello stato di Vostra Maestà e alla nostra difesa e fortezza se il detto signore Montezuma venisse nelle mie mani e che del tutto non avesse la sua libertà, acciò non gli occorresse di mutar l'animo inclinato a servir Vostra Maestà; e tanto maggiormente che noi Spagnuoli siamo alquanto fastidiosi e importuni, e se loro si sdegnassero contra di noi, ci potrebbono far qualche incommodo e danno, e tanto che niuno di noi rimarrebbe vivo da riportar nuova di tanto male; parte perchè sono grandissime potenzie e parte perchè, se io lo riteneva appresso di me, l'altre provincie che erano suddite a lui piú facilmente si sariano date a Vostra Maestà, come dipoi avenne. Deliberai di ritenerlo in quella casa dove io abitavo, riputando che ella fusse assai forte e sicura, e pensando io che, mentre cerco di farlo prigione, non ne nascesse qualche scandalo o tumulto, mi venne nell'animo il delitto commesso nella città d'Almeria, del quale per lettere mi aveva fatto intendere il governatore ch'io aveva lasciato nella città della Vera Croce, sí come ho narrato nel precedente capitolo, e come io aveva certezza tutte le cose ivi fatte esser seguite di ordine e comandamento del detto signor Montezuma. E poste le guardie nelle vie strette, me n'andai al palazzo del signor Montezuma, come altre volte io soleva fare, e per alcuno spazio cianciai con esso lui e parlammo di cose piacevoli. E poichè ebbe dato a me alcuni presenti d'oro e sua figliuola, e le figliuole degli altri signori a certi miei soldati, gli esposi per ordine quel che era avenuto nella città di Nautecal over di Almeria, e che avevano ucciso gli Spagnuoli. Oltra di ciò soggiunsi che Qualpopoca e gli altri avevano con inganni ordinate cotal cose di suo comandamento: affermavano non l'aver fatte di loro libera volontà, e non avevano avuto ardimento di non ubbidire al lor signore; che in modo alcuno io non poteva credere tal cose essere state fatte di suo consiglio e commissione, come Qualpopoca e gli altri affermavano; che mandasse a chiamare il detto Qualpopoca con li signori che con lui erano confederati, acciochè apparisse la verità e i malfattori patissero le meritate pene, e la Maestà Vostra conoscerebbe il buon animo di lui verso di lei; e che per questo la Maestà Vostra, in cambio del ringraziamento che ella dovesse commettere che gli fusse fatto, allo incontro non fusse astretto a dar commissione che gli fusse fatto qualche danno e dispiacere, poichè la verità nasceva da quel che dicevano Qualpopoca e i suoi confederati.
Egli subito comandò che certi de' suoi venissero a lui, a' quali diede il sigillo, che era di gioie e lo portava al braccio, e comandò loro che andassero alla città di Almeria, la quale è distante dalla famosa città di Temistitan settanta leghe, e menassero il detto Qualpopoca con gli altri che avevano ucciso gli Spagnuoli; e se non volessero venire spontaneamente gli menassero legati per forza, e se facessero loro resistenza chiamassero in aiuto certe communità, le quali mostrò, che erano vicine alla detta città d'Almeria, e procurassero che fussero presi per forza, e a niun modo tornassero a lui senza i predetti: e per ubbidire al suo comandamento si partirono. I quali essendo già messi in viaggio, resi grazie al signor Montezuma dell'accurata diligenza usata da lui in provedere che li sopranominati fussero presi, perciochè io ero astretto render conto a Vostra Maestà di tutti gli Spagnuoli che meco avevano passato il mare; e acciochè io potessi render vera ragione a Vostra Maestà, era necessario ch'egli venisse e dimorasse nel mio albergo insin che la verità venisse in luce, e sin a tanto che si mostrasse esso non aver di ciò colpa alcuna. E gli chiedevo che non l'avesse a male e non ne prendesse dispiacere alcuno, perciochè in casa mia non era per esser prigione, ma in ogni parte libero; e che io avevo fatto ferma deliberazione non m'intramettere in modo alcuno nelle sue ubbidienze e governo, ed era in suo arbitrio di elegger qual parte voleva del palazzo nel quale io dimoravo allora; e gli promettevo la fede mia che di questa retenzione non gliene poteva avenire fastidio né molestia alcuna, e oltra il servizio de' suoi vi si aggiugnerebbe ancora quel de' miei, e a tutti senza dubbio potrebbe comandare come gli piacesse. Intorno a questo per molto spazio stemmo a contendere, e ciò che fu detto dall'una e dall'altra parte sarebbe lungo a raccontare. Finalmente acconsentí di venir meco a casa mia, e comandò che gli fusse apparecchiato e guarnito un luogo nel mio palazzo; il quale apparecchiato, s'appresentarono molti gran signori e, cavatesi le vesti e alzate le braccia, co' piè nudi conducevano la sua lettica non molto ornata, e con grandissimo silenzio piangendo lo posero in lettica, e andammo al nostro palazzo senza tumulto alcuno, benchè poi il popolo cominciasse a tumultuare. Nondimeno, subito che ciò venne all'orechie di Montezuma, tosto comandò che tutti si dovessero acquietare: e cosí tutto il popolo in quel giorno e sempre, mentre il signor Montezuma stette appresso di me ritenuto, visse pacificamente, perchè era ottimamente albergato e riteneva il medesimo servizio che prima in casa sua, il che fu gran cosa e degna di ammirazione, sí come racconterò poi. E anco i miei compagni gli facevano ogni commodità e servizio che potevano.
Come Qualpopoca e altri furon condotti prigioni e dati nelle mani del Cortese,
e come furono abbruciati publicamente in piazza, e il signor Montezuma posto in ceppi,
i quali poco dipoi gli furon cavati.
Mentre il signor Montezuma stava ritenuto da me, coloro che erano andati a menar Qualpopoca e gli altri compagni che avevano uccisi gli Spagnuoli ritornarono, menando il predetto Qualpopoca con uno de' suoi figliuoli e altri uomini, che si diceva essersi ritrovati alla morte de' detti Spagnuoli. Condussero Qualpopoca in lettica, all'usanza di gran signore, e lo diedero nelle mie mani insieme con gli altri; il quale con gli altri insieme comandai che fusse posto in prigione e legato con le manette e co' ceppi. E poichè ebbero confessato di avere uccisi gli Spagnuoli, dimandai loro se erano sudditi al signor Montezuma. Il predetto Qualpopoca rispondendo mi dimandò se si trovava altro signore a cui dovesse esser suggetto, quasi volesse dire che niun altro ne era al quale dovesse esser suggetto, e che era vassallo del signor Montezuma. Dipoi ricercai dai medesimi se quel che avevano fatto fusse stato di loro spontanea volontà o di comandamento e consiglio del lor signor Montezuma. Tutti dissero che di lor volontà, non di comandamento del lor signore, benchè dapoi, mentre si mandava ad esecuzione la sentenzia data contra di loro e dovevano essere abbruciati, gridassero tutti ad una voce aver commesso tal delitto per consiglio del lor signore, e di suo comandamento l'avevan fatto. E a questo modo furono abbruciati publicamente nella piazza, senza alcun tumulto e sedizione.
E nel giorno medesimo che furono arsi, perchè avevano confessato il signor Montezuma essere stato cagione del predetto omicidio commesso negli Spagnuoli, commandai che egli fusse posto nei ceppi: per la qual vista si sbigottí grandissimamente, benchè il giorno istesso, poichè ebbi molto parlato seco, ordinai che gli fussero levati i ceppi, il che gli ritornò lo smarrito animo e apportogli grandissima allegrezza. E poi di continuo attesi con ogni diligenzia, per quanto mi era possibile, fargli piacere in ogni cosa, e spezialmente perchè in publico in ciascun luogo io confessavo, tanto a' sudditi quanto a' signori delle provincie che mi venivano a trovare, sommamente piacere a Vostra Maestà che 'l signor Montezuma regnasse come prima soleva regnare, nondimeno con questa condizione, che riconoscesse la Maestà Vostra per superiore e per signore, come Vostra Maestà è riconosciuta da tutti gli altri, e che quei sudditi fariano cosa grata a Vostra Maestà se per l'avenire lo tenessero per signore e superiore nella maniera che avevano fatto avanti la mia venuta. E mi portai seco tanto bene e sí bene gli satisfeci che piú volte pregandolo gli commessi che se n'andasse a casa sua, nondimeno sempre mi dava risposta che egli stava bene in quella casa appresso di me, non gli mancando cosa alcuna, non altrimenti che se fusse in casa sua; perciochè, se in casa sua fusse, facilissimamente potrebbe avenire che li signori delle provincie, presa occasione, lo solleciteriano e induceriano contra il suo volere ad operar qualche cosa contra di me, che ritorneria in danno di Vostra Maestà, alla quale già egli aveva deliberato per quanto poteva di sempre servire; e fin che egli certificasse i suoi di quel che avesse in animo, era bene che stesse appresso di me, e, benchè sopra di ciò gli proponessero alcuna cosa, poteva facilissimamente rispondere che esso non era in sua potestà e a questo modo si poteva scusare. E molte volte mi dimandò di poter andare a sollazzo, e da me non gli fu mai negato di potere andar solazzandosi nell'altre case, le quali erano fabricate per andarvi a piacere; e alle volte usciva a sollazzo fuori della città per due leghe, accompagnato da quattro o cinque Spagnuoli, e ogni fiata che ritornava pareva contento e di allegro aspetto. E quando usciva donava varie gioie e vesti tanto agli Spagnuoli quanto a quegli del paese, che sempre era accompagnato da grandissima moltitudine, che almeno erano tremila uomini, e la maggior parte erano baroni e signori di quella provincia; e si dilettava di far continuamente magnifici conviti e feste e balli, i quali poi in vero dovevano esser da tutti con grandissime laudi meritamente commendati.
Come il signor Montezuma, cosí richiesto dal Cortese, manda alcuni suoi famigliari in ciascuna provincia dove si cava oro. Delle provincie Cuzzula, Tamazalapa, Malinaltebeque e Tenis, e del signor di quella detto Coatelicamat, e di molti fiumi dalli quali si cava oro, e della provincia Tuchitebeque.
Poichè io conobbi ch'egli di cuore desiderava d'esser nel real servizio di Vostra Maestà, lo pregai, acciò io potessi mandar piú piena relazione a Vostra Maestà di quelle cose che sono in questi luoghi e provincie, che procurasse che mi fussero mostrate le minere dell'oro: il che con allegro volto e parole dimostrò di piacergli. E in quell'ora egli comandò che fussero chiamati alcuni suoi famigliari, e in ciascuna provincia dove si cavava l'oro mandò due di loro, pregandomi che in lor compagnia io mandassi altrettanti Spagnuoli, i quali vedessero con che ingegno si cavava l'oro; il che facilmente gli concessi, e a ciascuna provincia assegnai due Spagnuoli che accompagnassero gli Indiani. E le provincie erano quattro.
Alcuni di loro vennero ad una certa provincia che la chiamano Cuzula, la quale è distante dalla famosa città del Temistitan ottanta leghe. Gli abitatori di questa provincia sono sudditi al signor Montezuma, ed essi mostrarono tre larghi fiumi, e da tutti portarono mostre d'oro purissimo, benchè poco ne portassero, perchè non avevano gli altri stromenti, ma solamente quegli co' quali gli Indiani sogliono cavarlo. E, sí come gli Spagnuoli mi hanno riferito, sono passati per tre provincie piene di molti borghi, ville ed edificii, tali che nella Spagna non se ne troveriano migliori. Sono in quelle provincie molte città e terre in gran numero, e m'affermarono aver vista una certa abitazione con una rocca, la quale è piú grande e piú forte del castello della città di Burgos di Spagna. E gli abitatori d'una di queste provincie, la qual è chiamata Tamazalapa, portano abiti piú ornati e piú ricchi dell'altre provincie che abbiamo viste insin ora, e sono di grandissima prudenzia.
Li secondi se n'andarono ad una provincia nominata Malinaltebeque, distante dalla detta gran città di Temistitan per leghe settanta, e volgesi piú alla marina, e quegli portarono le mostre dell'oro da un gran fiume che per quella trascorre. I terzi andarono in un'altra provincia, che ha diverso linguaggio dalla vicina provincia di Culua, e la chiamano Tenis, il signor della quale è chiamato Coatelicamat. E perchè ha la provincia fra monti grandissimi, non rende ubbidienza al detto signor Montezuma, e anco perchè gli suoi sudditi sono bellicosi e combattono con asta di lunghezza di venticinque e di trenta palmi. E perciochè questi non sono sudditi del signor Montezuma, gl'Indiani che erano andati co' Spagnuoli non ebbero ardimento di entrare in quella provincia, se della lor venuta non ne facevano prima avisato il signor di quella e da lui ottenessero il salvocondotto, dicendo d'esser venuti per domandargli grazia di poter vedere le sue minere dell'oro, e che in mio nome e del signor Montezuma si degnasse di mostrarle. Coatelicamat rispose che gli Spagnuoli andassero sicuri e liberamente e vedessero le minere e ciò che piaceva lor di vedere, ma quegli di Culua, che sapeva esser mandati da parte di Montezuma, faceva avisati che non entrassero nella sua provincia, perciochè gli aveva in luogo di nemici. Gli Spagnuoli stettero grandissima pezza con animo dubbioso se dovevano andar soli o no, massimamente che gl'Indiani che avevano menati seco gli confortavano a non andare, perchè introduceva lor soli a fine di potergli piú facilmente uccidere; nondimeno gli Spagnuoli d'animo invitto deliberarono di proceder piú avanti. Furono bene e cortesemente ricevuti da' paesani e dal lor signore, e furon lor mostrati sette over otto fiumi, da' quali dicevano cavar oro. Gli Spagnuoli insieme con gl'Indiani cavarono oro e portarono le mostre de' predetti fiumi; e co' medesimi Spagnuoli il detto Coatelicamat mi mandò suoi ambasciadori, per mezzo de' quali offeriva al servizio di Vostra real Maestà se stesso e la sua provincia, e mandommi per li medesimi certi fregi d'oro, e veste di quella sorte che molto usano gli abitatori di quella provincia.
Gli ultimi passarono in una provincia nominata Tuchitebeque, che nella medesima dirittura si volge al mare per dodeci leghe dalla provincia Malinaltebeque, nella quale già ho detto di sopra essere stato trovato dell'oro, e li paesani mostrarono loro due fiumi, da' quali parimente arrecarono mostre d'oro. E per quanto potete intendere dagli Spagnuoli che vi andarono, quella provincia è molto accommodata a potervi fare abitazioni e a cavar l'oro.
Come a richiesta del Cortese nella provincia Malinaltebeque furon fabricate due grandi abitazioni con una peschiera, e il signor Montezuma fece dipingere in un piano le marine e golfi di quel mare con li fiumi che sboccano in quello, e il Cortese mandò dieci Spagnuoli per cercar quei liti, se vi trovassero golfo dove potessero entrar le navi. Del porto Chalchilmera, detto Santiuan. Della provincia Quacaltalco, del signor di quella, detto Tuchintecla, e doni e offerte sue.
Ricercai dal signor Montezuma che nella provincia Malinaltebeque, perchè mi pareva piú commoda al fabricare, fusse fatta una abitazione per la Maestà Vostra: e in farla fare pose ogni possibil diligenza, e tale che per spazio di due mesi in quel luogo già avevano seminato sessanta misure, che noi Spagnuoli chiamiamo anegas, d'una certa semenza nominata da loro maiz, della quale fanno pane, e similmente dieci misure di ceci e di cacap, che è un frutto simile alla mandorla, il qual ridotto in polvere l'usano in luogo di vino; e in quella provincia è di tanta stima, che con quello in vece di danari nelle piazze e ne' mercati e in ogni luogo comprano tutte le cose necessarie. Quivi procurò che fussero edificate due grandi abitazioni, e in un'altra abitazione vi fecero una peschiera, dove avevano a posta messe cinquecento oche, le quali qui sono in grandissimo prezzo, perciochè ogn'anno le pelano e si servono delle lor penne e della piuma. Nella detta abitazione misero anco oltra mille e cinquecento galline e altre cose assaissime necessarie per l'uso di casa. E molte volte gli Spagnuoli che hanno vedute le dette abitazioni, e considerati diligentemente gli ornamenti, hanno giudicato valer da ventimila ducati castigliani.
Similmente dimandai al medesimo signor Montezuma che mi volesse dire se nella costa di quel mare fusse fiume o golfo alcuno, dove le navi che ivi arrivassero facilmente potessero entrare e sicuramente fermarsi. Il qual mi rispose che di tal cosa egli nulla sapeva, nondimeno che gli farebbe dipingere in un panno le marine e i golfi di quel mare e i fiumi che v'entrano, e che io poi averia potuto mandare i miei Spagnuoli a cercare e veder diligentemente, ed esso Montezuma eleggerebbe per lor guide i paesani di detta provincia: il che poi fece con effetto, perciochè il giorno seguente mi portarono in un panno di lino dipinte tutte le marine e golfi del mare, e i fiumi che sboccano in quello. Ivi si vedeva un certo fiume maggior degli altri, sí come da quella si poteva comprendere, il quale entrava in mare e pareva che scorresse tra due monti, che sono chiamati Sanmyn, in un certo golfo, insino al qual luogo i nocchieri pensavano che si dividesse la provincia chiamata Mazamalco. E mi disse ch'io mandassi chiunque mi piacesse, e cosí mandai dieci Spagnuoli, tra i quali alcuni ve n'erano che molto valevano nell'arte marinaresca. E andati con le guide che avea date loro Montezuma, cercarono tutte quelle marine dal porto Chalchilmera, che lo chiamano Santiuan, dove io ero arrivato con le mie navi: e tutto questo viaggio è piú di 60 leghe; e non trovarono fiume né golfo alcuno dove potessero entrar navi, benchè in detta costa ve ne siano molti e grandissimi. E portati dalle canoe, mandata al fondo la sonda, andavano tastando per tutti quei fiumi, e cosí vennero alla provincia Quacalcalco, per la quale il sopradetto fiume trascorre.
Il signor di quella provincia, nominato Tuchintecla, gli ricevette benignamente e ordinò che fossero loro date delle canoe, con le quali potessero entrare nel fiume; nella cui bocca trovarono l'acqua esser profonda quanto sariano due stature e mezza d'uomo, ed era al tempo che l'acque erano grandemente abbassate. E navigarono su per il detto fiume dodeci leghe, e la minor profondità che si truova in detto spazio è quanto sariano sei stature d'uomo, e, per quel che potevano giudicare, andava piú di trenta leghe con tal profondità. Nella ripa del fiume sono molte e gran città, e tutta quella provincia è in pianura, fertile e abbondante di tutte quelle cose che suol producer la terra. Le genti sono quasi infinite, e non sono suddite al signor Montezuma, anzi sono acerbissimi suoi nemici; e parimente, allora che gli Spagnuoli andarono a lui, volse avisargli che que' di Culua a niun modo entrassero nella sua provincia, perciochè erano suoi nemici. Quando quegli Spagnuoli ritornarono a farmi relazione di tal cose, insieme con esso loro mandò certi suoi ambasciatori per li quali mi mandò alcune cose d'oro e molte pelle di tigri, e molte cose tessute di piuma e vestimenti; e mi affermarono che il lor signore Tuchintecla molto tempo fa aveva inteso della mia fama, perciochè que' di Puchunchan, che è un fiume di Grisalva, sono grandissimi suoi amici, e gli avevano fatto sapere che io era passato di là ed ero venuto alle mani con loro, perchè mi vietavano di smontare in terra e d'andare nella città, e come anco dipoi eravamo diventati amici ed essi s'erano sottoposti all'imperio della Maestà Vostra. Ed egli ancor s'offeriva con tutta la sua provincia al real servizio di Vostra Maestà, e mi pregava ch'io lo ricevessi per amico, nondimeno con questa condizione, che gli abitatori della provincia di Culua per niun modo entrassero nel suo paese, e chiedessi di quelle cose che si truovano in quella provincia, perciochè era apparecchiato di fargli parte di tutto quel che io gli avessi dimandato.
Come il Cortese, avuta relazione dagli uomini per lui mandati della qualità della provincia,
mandò a fabricarvi una fortezza, e quanto fusse a grado al signor Tuchintecla
che gli Spagnuoli si fermassero nella sua provincia.
Poi che mi fu riferito da quegli Spagnuoli che ritornavano da veder quella provincia quella essere atta e commoda per edificarvi una nuova città, e anco aver trovato un porto, ebbi grandissima allegrezza, perciochè da quel tempo che io arrivai in questi paesi sono stato sempre in travaglio di cercar porto in queste marine, e anco poter trovare un luogo vicino a quello che fusse commodo per farvi abitazioni; nondimeno insino a quell'ora non l'avevano potuto ritrovare, dal lito over costa che comincia dal fiume di Sant'Antonio, che è vicino al fiume Grisalva, fino al fiume Panuco, che è nella costa piú bassa, dove alcuni Spagnuoli per commissione di Francesco di Garai avevano posta la lor nuova città, de' quali farò poi menzione. E per aver piú certa informazione delle cose di quella provincia e del porto sopradetto, e degli animi de' paesani verso di noi, e d'altre cose necessarie ad abitar ivi, ordinai ancora che alcuni altri de' miei soldati idonei a simili imprese, co' medesimi ambasciadori che Tuchintecla, signor di quella provincia, con presenti mi aveva mandati, andassero portando alcuni doni a quel signore. Dal quale benignamente ricevuti, di nuovo andarono a riguardare il detto porto e a tentar, come fecero gli altri, e trovarono luogo idoneo a fare abitazioni e a porre una città; e di tutto mi rapportarono il vero, e dissero esservi ogni cosa necessaria per fare una città, e che 'l signor della provincia se ne rallegrava grandemente, e che aveva gran desiderio di servire a Vostra Maestà. I quali essendo ritornati con tal relazione, subito mandai un governatore in quel luogo a fabricarvi una fortezza: e a fabricarla s'era offerto il signor della provincia, e parimente tutte le cose delle quali noi avessimo di bisogno per nostro abitare e quelle che io gl'imponessi. E subitamente, dove io aveva determinato che si fabricasse la città, egli procurò che fussero edificate sei case, e dimostrò che egli era grato che si fermassero nella sua provincia e che la prendessero ad abitare.
Della provincia Aculuacan; delle città Tescucu, Acuruma e Otumpa; e come Cacumacin, signor di dette città, si ribellò, e in che maniera fu fatto prigione e dato nelle mani del Cortese, il qual fece render ubbidienza a Cucuzcacim, fratello del detto signore.
Ne' precedenti capitoli della narrazione, potentissimo Signore, io raccontai che in quel tempo che io andavo alla famosa città di Temistitan mi era venuto incontra un certo grande e potente signore, il qual diceva d'esser stato mandato dal signor Montezuma e, come intesi poi, era suo parente; e la provincia la quale egli signoreggiava era vicina a quella di Montezuma, ed era chiamata Aculuacan. Il capo di tal provincia è una città vicina ad un lago salso, e da quella per il lago alla gran città di Temistitan con le canoe sono sei leghe solamente, ma chi andasse a piedi vi ha dieci leghe: e questa città la chiamano Tescucu e ha piú di trentamila case. Il signor di quella vi ha maravigliosi palazzi e abitazioni, moschee e luoghi da fare orazioni molto grandi e ben fatti, e signoreggia anco due altre città: una è distante dalla città di Tescucu per ispazio di tre leghe, nominata Acuruma, l'altra per spazio di quattro, che la chiamano Otumpa; ciascuna di queste ha da quattromila case. Oltra di ciò la detta provincia di Aculuacan ha borghi e ville assai; è terra fertilissima per coltivare, e tutto il paese che signoreggia da un lato confina con la provincia di Churultecal, della quale già feci menzione.
Questo signore, nominato Cacamacin, doppo la ritenzione che lo feci della persona del signor Montezuma, s'era ribellato e dalla Maestà Vostra, alla qual si era fatto suddito, e anco dal signor Montezuma; e benchè molte volte io l'ammonissi che volesse rendere ubidienza e real servizio a Vostra Maestà, nondimeno, ammonito e da me e dal signor Montezuma, non ha voluto mai ubidire, anzi superbamente rispondendo diceva che, se alcuno voleva da lui qualche cosa, andasse nella sua provincia, e quivi proverebbe quanto egli potesse e qual fusse il real servizio che era tenuto a fare. Aveva poste in ordine, come io già avevo inteso, grandissimo numero di gente molto bellicosa. E poichè io non lo potette indurre con ammonizioni, parlai col signor Montezuma e gli dimandai quel che in questo caso gli pareva che dovessimo fare, acciochè non andasse senza pena della ribellione fatta contra di noi. Mi rispose che il volerlo espugnar per forza era grandissima difficoltà, perciochè era tenuto gran signore e potente e molto ben fornito di gente da guerra, e senza grandissimo pericolo e perdita di soldati non pensava che si potesse espugnare; ma che esso Montezuma aveva nella provincia di Cacamacin molti de' principali che dimoravano appresso di lui e da lui avevano stipendio, e che aveva deliberato di parlar con loro, che essi corrompessero alcuni de' soldati del detto Cacamacin, i quali, dando noi loro la nostra fede che sariano sicuri e salvi, favorissero la nostra parte: e a questo modo facilmente lo potremmo espugnare. Sí come avvenne, perciochè il detto signor Montezuma operò di maniera con loro, che persuasero al detto Cacamacin che con loro insieme si volesse ridurre nella città di Tescucu, ed essi come principali attenderiano a provedere alle cose pertinenti al commodo del lor signore, e che averiano gran dispiacere, se egli facesse cosa alcuna onde pericolasse e potesse cadere nell'ultima ruina. E cosí insieme si ragunarono in un grande e bel palazzo del detto Cacamacin, che è nella ripa del lago, e fu di maniera fabricato che vi si può passar di sotto con le canoe e uscire nel lago. Quivi avevano messe alcune canoe apparecchiate secretamente, e in quel luogo medesimo avevano ordinati molti uomini, acciochè, se Cacamacin facesse resistenza e non si lasciasse pigliare, lo potessero prender per forza. Ed essendosi ragunati tutti li principali congiurati, presero Cacamacin prima che fusse udito da' suoi e, postolo in una canoa, lo condussero per il lago alla gran città, la quale, come dissi di sopra, è lontana sei leghe, e condotto lo misero in una lettica, come si conveniva ad un tanto signore, e me lo diedero: il quale comandai che subito fusse messo in ceppi e ben guardato. E, consigliatomi col signor Montezuma, posi al governo di quella provincia in nome di Vostra Altezza il fratello del ritenuto, che era nominato Cocuzcacim, e procurai in tutti i modi che gli fusse resa la debita ubidienza da tutte le communità e signori di detta provincia come al lor signore, finchè fusse ordinato altramente da Vostra Maestà. E cosí fu eseguito, perciochè nell'avvenire tutti l'ubidirono come signore, e nel modo che prima avevano ubidito il detto Cacamazin; ed egli volentieri e fedelissimamente eseguí tutto ciò che gli comandai in nome di Vostra Maestà.
Come il signor Montezuma fece ragunare tutti li signori delle sue provincie, e le parole che gli usò per render l'ubidienza all'imperatore, e la gran quantità d'oro e d'argento e di diversi bellissimi e molto ricchi ornamenti di casa dati al Cortese per mandarli a sua Maestà.
Alquanti giorni doppo la presa di Cacamacin il signor Montezuma comandò che tutti li signori delle sue provincie e città vicine si ragunassero, e, ragunati che furono, mi fece avisato ch'io dovessi andar là, e dapoi che fui giunto parlò di questa maniera: "Carissimi fratelli e amici, lungo tempo è che ottimamente sapete voi tutti, vostri padri e maggiori, essere stati sudditi a me e agli antecessori miei, e da me e da loro essere stati trattati ottimamente e ornati con ogni sorte d'onore; e voi ancora a me e ai miei antichi avete resa quella ubidienza che sono tenuti a render i buoni e fedeli vassalli ai lor signori. E anco penso che teniate a memoria quel che abbiamo avuto da' nostri antichi, che la nostra schiatta non piglia origine da queste provincie, ma è venuta da lontani paesi; perciochè i nostri maggiori gli condusse qua un certo signore il quale gli lasciò qui e partissi, e doppo lungo tempo ritornò e trovò che li nostri padri avevano fatte città in questi paesi, e tolte per moglie le paesane e di quelle generati figliuoli, di maniera che non volsero piú andar con lui, né riceverlo per signore. Ed egli partendosi promise o di tornare personalmente o mandar altri qua in nome suo, con tante genti, potenzia e forze che potrebbe costringerci alli suoi servizii. Sapete che insin ora di giorno in giorno l'abbiamo aspettato, e per le cose che 'l presente suo capitano ci ha racconte di quel re e potente signore il quale afferma che l'ha mandato qua, e per il luogo donde fa professione d'esser venuto, tengo per fermo, e similmente voi dovete tenere, che questo veramente è quel signore che noi aspettavamo, e massimamente che 'l suo capitano afferma che egli già lungo spazio di tempo avea avuto notizia di noi. Ma poichè i nostri antichi non fecero quel che erano tenuti di fare verso i loro signori, bisogna che lo facciamo noi, e rendiamo grazie alli nostri Iddi che quel che abbiamo aspettato sí gran tempo sia venuto a' nostri giorni. E perciò voglio pregarvi tutti, poichè quel che vi ho narrato già molto fa è a tutti voi notissimo, che, sí come insin qui avete tenuto me per signore e a me avete ubbedito, da ora innanzi rendiate obbedienzia a questo grandissimo e potentissimo re, e lui in ogni conto abbiate per signore, poichè egli è vostro signor naturale, e in luogo suo abbiate per signore, onoriate e osserviate questo suo capitano; e tutti li tributi e servigii che fin al presente siate soliti di rendere a me, rendetegli a questo suo capitano, perciochè ancor io parimente sono astretto di contribuire e ubbedire a tutti gli suoi comandamenti; e da ora innanzi esequite e fate ogni cosa che legitimamente a signore siate tenuti di fare, e in questo mi farete cosa gratissima".
Tutte queste parole disse spargendo molte lacrime, e traendo dal profondo cuore maggior sospiri che alcuno potesse mai dire. Gli altri signori tutti accompagnavano le lacrime di Montezuma con lacrime tanto spesse, che stettero assai buono spazio prima che potessero rispondere. E certamente, serenissimo Signore, niuno degli Spagnuoli si trovò presente che non gli avesse grandissima compassione. Finalmente, asciugate le lacrime, risposero che essi gli si erano dati per sudditi e lo riputavano e tenevano per signore, e perciò promettevano di dovere esequire tutte le cose che egli ordinasse; e per questa cagione e per le ragioni addutte da lui volevano mandare ad esecuzione con lieto animo gli suoi comandamenti, e da quell'ora si davano in perpetuo sudditi a Vostra Maestà e offerivanseli per vassalli. E quivi ciascun di loro promise di far quanto in nome di Vostra Maestà gli fusse imposto, e dar tutti li tributi e servizii che erano soliti rendere al detto signor Montezuma, e tutte l'altre cose che loro fussero comandate per nome della Vostra real Maestà: le qual cose tutte furono scritte per alcuni publici notarii e fattone publico instrumento, la copia del quale vi mandai, essendo presenti molti Spagnuoli.
Poichè tutti gli predetti signori si erano dati per sudditi a Vostra Maestà, parlai al signor Montezuma e gli narrai che Vostra Maestà aveva di bisogno di qualche quantità di oro per finire certe sue imprese, e lo pregavo che egli alcuni de' suoi, e io similmente alcuni de' miei, mandassimo per le provincie e abitazioni di quegli signori che in quel giorno si erano offerti, confortandogli che di quella quantità d'oro e d'argento che avevano oltra il lor bisogno ne servissero Vostra Maestà: e a questo modo si mostrerebbe ch'essi già avessero cominciato a far servizio, e la Maestà Vostra conoscerebbe il lor nobile animo in servirla; e similmente il signor Montezuma di quel che egli avea mi faria parte, perciochè avea deliberato mandar tutte quelle cose a Vostra Maestà per li primi nunzii ch'io era per mandar con altre cose a Vostra Altezza. E in quel punto mi dimandò che io gli assignassi due Spagnuoli, i quali mandò ad esequir la cosa in diverse provincie, i nomi delle quali, perciochè ho perdute tutte le mie scritture, non mi vengono in mente, essendo assaissime e diverse: alcune di quelle della detta città di Temistitan sono lontane ottanta e alcune cento leghe. Insieme con li predetti Spagnuoli ordinò che v'andassero alcuni de' suoi, a' quali comandò che andassero a' signori delle dette provincie e dicessero che a ciascuno io imponeva che desse una certa somma d'oro che esso aveva ordinato. E cosí fu mandato ad esecuzione, perciochè tutti que' signori a quali andarono dettero la comandata somma e di ornamenti, e d'oro in masse e in foglie, e d'altre cose che essi possedevano. E avendo fuso quello che poteva fondere, della quinta porzione delle cose che è dovuta a Vostra Maestà furono trentaduemila e quattrocento pesi d'oro, senza le masserizie d'oro e d'argento, e gli lavori fatti di penne, le rotelle e le gioie e molte altre cose di grandissimo valore: le qual tutte ho consegnate e poste da banda per Vostra Maestà, che ascendono al valore di centomila ducati. Erano oltra di ciò tali e tanto maravigliose che per la lor varietà e novità erano inestimabili, né giudico s'abbia da pensare che appresso tutti gli prencipi, tanto cristiani quanto infedeli, de' quali al presente s'abbia notizia, si possano trovar simil cose.
E certamente elle non debbono a Vostra Maestà parer troppo grandi, poichè la verità sta cosí, che di quelle cose che si possono trovar in mare e in terra, e di quelle che esso aveva qualche cognizione, ne aveva l'imagini secondo la vera forma e d'oro e d'argento e di gioie e di penne, in tale eccellenzia e perfezione che a chiunque le vedeva parevano vive; delle quali mi fece non picciola parte per la Maestà Vostra, senza l'altre che io gli diedi dipinte, che tutte le fece far d'oro, come sono l'imagini del Salvator crocifisso, li ricami, le collane, le medaglie e molte altre cose delle nostre, simili alle quali egli se ne fece fare. S'aggiunse anco alla porzione di Vostra Maestà dell'argento ricevuto, oltra cento marche, quello che ho distribuito in far varii piatti, sí piccioli come grandi, e scodelle e tazze e cucchiari. E oltra queste cose il detto Montezuma mi donò molti ornamenti de' suoi, che erano tali che riguardando che erano in tutto di seta e senza seta, in tutto 'l mondo non se ne potria fare né tessere di simili, né di tanti diversi e fini colori e lavori, e tra quegli erano alcune sorti di veste da donne e da uomini maravigliose. Oltra di ciò v'erano fornimenti da camere, a' quali quegli che sono fatti di seta non si possono agguagliare; v'erano altri fornimenti, i quali si potriano usare nelle chiese e nelle sale; v'erano coperte da letti e di penne e di seta di varii e maravigliosi colori, e infinite altre cose che, essendo tali e tante, non le so esprimere a Vostra Maestà. Mi offerse anco dodeci cerbottane: cerbottana è un legno longo concavo, col quale andiamo uccellando ai piccioli uccelletti, da quello mandando fuori col fiato alcune picciole palle, come fave, che sono fatte di creta; la bellezza di queste cerbottane io non posso esprimere, perciochè elle erano fatte con pitture e colori perfettissimi, ed era nel mezzo e nelle estremità oro di altezza d'un palmo lavorato con arte maravigliosa; e una scarsella tessuta di fila d'oro, e le palle sopradette da mettervi, che mi promise darmele d'oro, e per farle mi diede la forma, che era medesimamente di oro, e altre cose di numero infinito.
Siti e della provincia dove è posta la città di Temistitan e d'essa città. Delle varie e molte sorti d'ogni maniera di mercanzie che si vendono nelle piazze, e ciascuna sorte di mercanzia ha la sua ruga propria, senza mescolamento d'altre merci. D'un palazzo dove si rende ragione, e la diligenza che usano nel ricercare quel che si vende e le misure.
Per render certa la Maestà Vostra, potentissimo Signore, delle varie e maravigliose cose di questa città di Temistitan, del dominio che ha questo signore e della ubbidienza che gli è resa, dell'usanza e costume che hanno i paesani, dell'ordine e governo sí di questa città come dell'altre sottoposte al detto signor Montezuma, bisognerebbe starvi lungo tempo e aver molti in tal cosa esercitati che le sapessero raccontare. Io non ne potrei raccontare delle mille parti l'una, ma il meglio ch'io potrò di quelle che io ho veduto ne dirò alcune, e, se ben le dirò rozzamente, nondimeno saranno di tanta maraviglia che con difficultà potranno esser credute, perciochè noi, essendo presenti e vedendole co' proprii occhi, appena le possiamo comprender con l'intelletto. Nondimeno sappia la Maestà Vostra che, se io mancherò in parte alcuna nella relazione delle predette, piú tosto peccherò nel diminuire che nell'accrescere, tanto in queste quanto in altre cose che racconterò alla Vostra Altezza, parendomi che sia giusto che, dovendo riferir queste cose al mio re e signore, le venga a raccontare avendo sempre innanzi la verità, senza accrescere o diminuire o interporre alcuna cosa.
Ma, prima ch'io cominci a narrar le cose di questa famosa città di Temistitan e l'altre che ho dette nel precedente capitolo, mi pare, acciochè meglio il tutto si possa intendere, esplicare il sito della provincia di Messico, dove è posta la detta gran città e dove è la sedia e corte del signor Montezuma. Questa provincia è circondata di altissimi e asprissimi monti, e, in quella è una pianura che di circuito è settanta leghe; nella qual pianura sono due laghi che quasi l'occupano tutta, perciochè ambidue tengono lo spazio di cinquanta leghe: e uno de' laghi è d'acqua dolce, l'altro, che è maggiore, è d'acqua salsa. Ma quella pianura da un lato è divisa da certe picciole colline che sono nel mezzo della pianura, e i detti laghi nel fine si coniungono in una certa stretta pianura che è tra le dette colline e gli alti monti, nella quale lo stretto si stende per un tratto di balestra, e per quella l'un lago entra nell'altro, e gli uomini senza toccar terra con le canoe passano alle città e terre che sono in detti laghi. Ma perchè quello che è d'acqua salsa è grande, ha il crescimento e mancamento dell'acqua a similitudine del mare: ogni volta che 'l detto lago cresce, l'acqua salsa entra nel lago d'acqua dolce, e tanto violentemente quanto se vi entrasse un grande e rapidissimo fiume; e per il contrario, quando cresce l'altro lago, entra in quello dell'acqua salsa. E la ricca città di Temistitan è fondata in quel gran lago salso, e da terra ferma, dalla quale insino alla detta città è il cammino di due leghe, ha quattro entrate per vie fatte a mano, larghe quanto saria lunga un'asta spagnuola d'uomo d'arme. La città è grande quanto Siviglia o Cordova. Le principali contrade di quella sono larghissime, e veggonsi esser poste con diritto ordine, e anco tutte l'altre: e la metà d'alcune è in acqua e l'altre in terra, per le quali si passa con le canoe, e tutte le contrade hanno le loro uscite, acciochè dall'una all'altra possa trapassar l'acqua. Tutte queste uscite, delle quali alcune sono larghissime, hanno travi grandi ottimamente ripuliti, e tali che in alcuni luoghi per esse potriano passare dieci uomini a cavallo giunti insieme. E considerando che se 'l popolo volesse far congiura contra di me lo potrebbe far commodamente, essendo la città posta in quel golfo, come ho detto di sopra, e levando via i ponti che sono entrata e uscita della detta città facilissimamente ci averiano potuto far morir di fame, prima che potessimo arrivare in terra ferma, subito entrato feci far quattro bregantini: e furono fatti sí tosto e tali che con essi potevo mettere in terra ducento uomini coi cavalli ogni volta che mi piacesse.
Ha questa illustre città assaissime piazze, dove continuamente fanno i lor mercati e traffichi per vendere e comprare. È nella medesima città una piazza il doppio maggiore di quella di Salamanca, che ha portici d'intorno intorno, dove ogni dí si veggono piú di sessantamila uomini vendere e comprare, dove si trovano tutte le sorti di mercanzie che si possono trovare in quelle provincie, e per mangiare e per vestire. Vi si vendono cose d'oro, d'argento, di piombo, di rame, d'ottone, di gioie, d'ossi, di cocchiglie, di coralli, e lavori fatti di penne. Vi si vende calcina, pietre lavorate e non lavorate, mattoni crudi e cotti, legni puliti in varii modi e non puliti. Evvi una contrada nella qual si vendono tutte le sorti di uccelli che uccellando si pigliano, come galline, pernici, coturnici, anatre, tordi, foliche, tortore, colombe e passare, tenendole col collo stretto nelle canne, e pappagalli e nibbi piccioli, ascioni, tinunculi, sparvieri, falconi, aquile, e certi di questi uccelli che vivono di rapina, con le piume, col capo, becco e unghie. Vi vendono conigli, lepri, cervi, cani castrati piccioli, i quali allievano per mangiare. Vi sono contrade da vendere erbe, e sonvi tutte l'erbe e radici medicinali che nascono in tutta la provincia. Vi sono luoghi da vender medicine, sí di quelle da prender per bocca, come d'unguenti e d'empiastri. Vi sono barberie, dove gli uomini si fanno lavare la testa e si fanno radere. Vi sono anco abitazioni dove con pagamento si riducono a mangiare e a bevere. Vi sono assaissimi bastagi, come in Spagna, i quali a prezzo portano carichi da casa di coloro che hanno venduto a casa de compratori.
Vi sono molte legne, carboni, fornimenti da fuoco, stuore di varie sorti per far letti, altre piú sottili per ornar le panche e le camere e le sale. Vi è ogni sorte di erbaggi e massimamente cipolle, porri, agli, agretto, tanto terrestre quanto aquatico, cauli, acetosa e cardi. Vi sono varii frutti, tra' quali sono le ciriegie, le susine, che sono similissime a quelle di Spagna; vi sono pomi, uva e altri frutti assaissimi, che quella provincia produce molto eccellenti. Vendono mele d'api, cera e mele di canne di maiz, le quai canne hanno tanto mele e sono cosí dolce come quelle delle quali si fa il zuccaro. Vendono mele di certi arbori che nell'altre isole sono chiamati magney, ed è piú dolce del mosto cotto, e vendono anco il vino che si fa di questo mele. Vendono varie sorti di filo in matasse di varii colori, ed è simile alla ruga dove in Granata si vendono le cose di seta, ma in maggior quantità. Vi si vendono colori per pittori d'ogni sorte, come in Spagna, e tanto belli e fini che migliori non si potrebbon fare. Vi si vendono pelli di cervo ottimamente concie, col pelo e senza, bianche e tinte di varii colori. Vi si vendono molti vasi di terra e molto ben vetriati; vi si vendono zare grandi e picciole, fiaschi, pignatte e altre infinite sorti di vasellami, e per la maggior parte vetriati. Vendono assai maiz, e crudo in semenza e cotto fattone pane, e di questo maiz ne fanno gran mercanzia, e in semenza e in pane, che ritiene il medesimo sapore che suole avere nell'altre isole. Vendono pasticci fatti d'uccelli e di pesci freschi e salati, crudi e cotti. Vendono ova di galline, di oche e d'uccelli in grandissima copia; vendono focaccie d'ova; e finalmente in dette piazze vendono ciò che nasce e cresce in quelle provincie. Le quai cose, oltre quelle che ho detto, sono tali e sí diverse che per la lunghezza e perchè non mi ricordo de' lor nomi non le racconterò. E ciascuna sorte di mercanzia ha la sua propria ruga, senza mescolamento di altre merci, e in questo tengono ottimo ordine; e tutte le cose si vendono ben contate over ben misurate, e per fin ora non si è visto che vendano cosa alcuna a peso.
In questa gran piazza è un'ampia casa a modo di luogo da tener ragione, dove sempre dimorano 10 o 12 persone che giudicano e determinano d'ogni cosa che interviene in detta piazza e delle differenze che vi nascono, e comandano che li malvagi e delinquenti siano castigati. Praticano in dette piazze altre persone che di continuo diligentemente vanno ricercando quel che si vende, e guardano le misure con le quali vendono.
Delle moschee della città di Temistitan, e de' religiosi, e abiti e costumi suoi. Del vestir de' figliuoli di quelli primarii. Come il Cortese fece levar via tutti gl'idoli d'una grandissima e bellissima moschea e porvi l'imagini della gloriosa Vergine e altri santi, e con che forma di parole gli fece rimover dal culto e sacrificio degl'idoli. Del costume di quelle genti nel far l'imagini de' loro idoli e del sacrificarli.
In questa città sono assaissimi edificii e parrochie e contrade loro, e nelle piú onorate stanno gli uomini che secondo la loro usanza sono tenuti per religiosi, e continuamente vi fanno residenza, per li quali, oltra i luoghi dove pongono i loro idoli, si trovano ottime abitazioni. Tutti quei lor religiosi usano vesti nere, e non si tagliano i capelli né si pettinano dal giorno che entrano nella religione insino che n'escono. Quasi tutti i figliuoli de' primarii della città e de' signori della provincia vanno con quell'abito dalli sei e sette anni fin che i padri averanno deliberato di maritargli, e questo aviene ne' primigeniti e in quegli che succedono nelle eredità piú spesso che negli altri. Mentre dimorano in quei luoghi non possono andare a donne, né a donne è lecito andare in quei luoghi; s'astengono da alcuni cibi, ma piú in un tempo che in un altro.
Tra le moschee ve n'è una principale, la cui grandezza e le parti e le cose che vi sono non potrebbe esprimer lingua umana, perciochè la sua grandezza si estende tanto che dentro d'essa, che è circondata di muro altissimo e fortissimo, si potria mettere una città di cinquecento case. Vi sono dentro nel circuito intorno intorno bellissime abitazioni, nelle quali sono gran sale e loggie, nelle quali stanno i religiosi quivi messi. Sono in quel circuito quaranta torre altissime e ben fabricate, alla parte di dentro delle quali si va per cinquanta gradi: e la minor di esse è di tanta altezza di quanta è la torre della chiesa catedrale di Siviglia. E sono sí ben fabricate, e di pietre concie e di travi, che non si potriano far piú polite di quelle o fabricare in alcun luogo, perciochè tutte le pietre lavorate delle capelle dove mettono i loro idoli sono scolpite di varie imagini, e i soppalchi e le travi tutte che ivi si veggono sono ornate e lavorate di varie pitture e fregi. E tutte le sopradette torri sono sepolture de' signori di questa provincia, e le capelle che in quelle sono fatte, ciascuna è dedicata al suo idolo a cui hanno piú divozione. In questa cosí gran moschea sono tre grandissime sale, nelle quali sono assaissimi idoli di maravigliosa grandezza e altezza, con varie figure e arti scolpite e nelle pietre e ne' soppalchi. E nelle dette sale sono altre piccole cappelle con le porte molto strette, e le cappelle non hanno lume alcuno dal cielo, e non v'entrano se non religiosi, e i religiosi non tutti; in quelle sono imagini e statue d'idoli, benchè ancora di fuori ve ne mettano, come ho detto di sopra.
Le piú degne statue de' detti idoli, e di quei a' quali hanno piú devozione, feci levar dalle loro sedie e gettare a terra, e le cappelle dove erano state commessi che fussero mondate e lavate, essendo tutte lorde del sangue degli uomini uccisi in sacrificio, e quivi posi le imagini della gloriosa nostra advocata santa Maria e degli altri santi. Delle qual cose tutte il signor Montezuma e il popolo ebbe grandissimo dispiacere, e da principio m'avisarono che io non dovessi far tal cose, che, se ciò si divulgasse nell'altre communità e luoghi, facilissimamente mi si potriano ribellare; perciochè e' si pensavano tutti i beni temporali esser dati loro e conceduti dai predetti idoli, e, se i popoli comportassero che fussero loro fatte tali ingiurie, si sdegnarebbono e non dariano loro piú cosa alcuna, e i frutti della terra si seccarebbono, onde le genti sariano astrette a morir di fame. Io di continuo per via degl'interpreti gli amoniva, dicendo che s'ingannavano grandissimamente a por la loro speranza in quegl'idoli, i quali essi con le proprie mani d'immondizie gli avevano fatti, e che bisogna che sappiano un solo Iddio essere universal signore di tutti, il quale aveva creato il cielo e la terra e tutte l'altre cose visibili e invisibili, e parimente aver creati loro e tutti noi altri; e Iddio esser senza principio e immortale, e che doveano a lui solo credere e lui solo adorare, e non alcun'altra creatura o cosa. E altre cose dissi loro che in tal occasione seppi dire per rimuovergli dalla loro idolatria e ridurgli alla cognizione del vero, sommo e omnipotente Iddio. Tutti, e spezialmente Montezuma, risposero che essi già avevano detto di non avere origine da questa provincia, e già è grandissimo spazio di tempo che i loro padri antichi vennero in queste provincie, e ben poteva accadere che essi fussero caduti in qualche errore circa le cose che adoravano, essendo già sí gran tempo che erano usciti della lor patria; e come io, che ultimamente era venuto, doveva meglio ricordarmi di quel che essi avevano da credere e d'adorare, e che dovessi farne lor parte e ammaestrargli; e si offerivano apparecchiati a far quelle cose che io proponessi loro come migliori. E il detto Montezuma e molti altri de' primi erano presenti quando gettava a terra gl'idoli delle cappelle e mentre le faceva far nette e vi poneva nuove imagini, e, per quanto potetti comprendere, tutti ne mostravano allegrezza. E da dovero comandai loro che per l'avenire non sacrificassero piú gli fanciulli agl'idoli, perciochè simil cosa molto dispiaceva a Iddio, e Vostra Maestà nelle sue sacre leggi ordinava che ciascuno che uccide sia ucciso. Subito si rimossero da quella usanza di sacrificare, e in tutto quel tempo che io dimorai in quella città non fu mai visto fanciulli esser uccisi o sacrificati agl'idoli.
L'imagini le quali costoro adorano sono di maggior altezza che non è la statura di qualunque grandissimo uomo. Le fanno di tutte le semenze e legumi che essi usano, pesti e mescolati insieme, e l'incorporano col sangue de' cuori di coloro che sono stati uccisi per sacrificio: e i detti cuori gli cavano fuori del petto di coloro che sacrificano mentre sono ancora vivi, e del sangue uscito dai cuori n'impastano farina in tanta quantità che può bastare a far quelle statue cosí grandi; e finite che l'hanno e poste nelle cappelle, offeriscono molti cuori d'uomini e gli sacrificano, e del sangue che n'esce ne ungono loro la faccia. E per ciascuna necessità che può avenire all'uomo hanno gli proprii idoli, secondo il costume antico de' gentili, che ne' tempi passati adoravano i loro idoli, sí che per ottener buona fortuna nella guerra hanno un idolo, per la coltivazione delle lor biade un altro; dipoi, per ciascuna cosa che cercano o desiderano che abbia felice successo, hanno un particolare idolo, il quale adorano.
Delle case della città; di due acquedutti; come conducono l'acque dolce e quella vendono per tutta la terra. Del modo che tengono nella ubbidienza, nel vivere e nelle constituzioni loro.
In questa famosa città sono molte grandi e ottime case, e vi sono tanti be' palazzi, perciochè tutti i principali signori di quelle provincie e vassalli del signor Montezuma vi hanno le loro abitazioni, e vi abitano ad un certo tempo dell'anno; oltra di ciò gli primi della città sono ricchissimi; e similmente bellissime case, oltra le quali hanno di vaghi giardini pieni di varii fiori, tanto nelle abitazioni di sopra quanto in quelle di sotto. Per una delle quattro vie mattonate per le quali s'entra nella città s'estendono due acquedutti la larghezza de' quali è circa due passi e la altezza quanta saria la statura d'un uomo; e per uno di quelli si conduce acqua dolce d'ottimo sapore, per canali di grossezza quasi d'un corpo umano, la qual passa per mezzo la città, e ne bevono e l'usano per altre cose necessarie. L'altro acquedutto è voto, e mentre da uno di loro vogliono mandar fuori l'immondizie, conducono l'acque per l'altro, finchè sia netto. E perciochè passa per i ponti, per rispetto degli ispazii per li quali entra ed esce l'acqua salsa, conducono le predette acque dolci per certi canali di grossezza d'un gran bue, i quali s'estendono quanto le travi di detti ponti, e quella è comune a tutti gli abitanti. Conducono acqua da vendere per tutto con le canoe, e la pigliano da' canali in questo modo: mettono le canoe sotto i ponti, ne' quali stanno gli uomini, ed empiono le canoe d'acqua, e pagano coloro che l'empiono, e similmente in tutte l'entrate della città e dove scaricano le canoe. Il luogo dove la maggior parte delle vettovaglie che sono portate entrano nella città sono picciole casette, nelle quali stanno guardiani che, per ciascuna cosa che entra overo è portata nella città, piglia un certo che di dazio; ma non so se pervenga al signor Montezuma over particolarmente alla città, non avendo insin ora cercato d'intenderlo; nondimeno credo che sia del signore, perciochè nelle fiere dell'altre provincie quel dazio si vede esser riscosso per utile de' signori delle provincie. In tutte le publiche piazze di questa città ogni giorno si trovano assaissimi lavoranti e maestri di ciascun'arte, aspettando chi gli conduca a lavorare.
Gli abitatori di questa città hanno miglior modo e sono piú sottili circa il vivere e altre cose domestiche che non sono quegli dell'altre provincie e città, perciochè, dimorando sempre in quella il signor Montezuma e venendovi spesso tutti i vassalli delle provincie di quel signore, avevano in tutte le cose miglior ordine e governo. E per non esser piú lungo nel raccontar le cose di questa gran città, non me ne potendo tosto spedire, non seguirò piú oltre se non questo, che nelle ubbidienze e vivere tengono il modo servato nella Spagna, e similmente nelle loro ordinazioni e constituzioni. E benchè queste genti siano barbare, e tanto lontane dalla cognizione del sommo Iddio e dalla pratica dell'altre nazioni, è gran maraviglia vedere il modo che osservano in ogni lor cosa.
Della magnificenzia, ricchezza e gran dominio del signor Montezuma. Del fiume Putunchan, detto Grisalva. Della città Cumatan. Di molti gran palazzi, tra' quali n'è uno con dieci peschiere magnifiche e con gran numero d'uccelli aquatici, al nutrir de' quali sono deputati trecento uomini; un altro dove sono animali, tanto volatili quanto da quattro piedi, alla guardia de' quali stanno trecento uomini; e un altro con gran copia d'uomini e donne monstruose.
Ma bisogna scriver qualche particella circa i servizii domestici d'esso signor Montezuma e le cose maravigliose che egli aveva per magnificenza del suo stato: e prometto ingenuamente che non so donde incominciare né come possa impor fine, sí che ne possa dir una minima parte, perciochè, come ho riferito altre volte a Vostra Maestà, qual potenza o ricchezza d'un barbaro signore come questo potrebbe esser maggiore, che nel suo stato potesse possedere imagini d'oro e d'argento e di penne e di gioie e d'ogni sorte che siano sotto il cielo? E l'imagini d'oro e d'argento tanto bene scolpite che niuno scultore le potrebbe far meglio; quelle che sono fatte di gioie, umano giudizio non potrebbe indovinare con che istrumento tanto perfettamente siano fatte; quelle che sono di penne erano tali che né in cera, né in cose ricamate di seta si potrebbono far piú maravigliose.
Non ho potuto intendere quanto s'estenda lo stato del detto signor Montezuma. Egli veramente dalla sua gran città per tutto manda nunzii con suoi comandamenti per ispazio di ducento leghe, a' quali ognuno ubbidisce, benchè avesse certe provincie circondate dalle sue con le quali faceva guerra. E, sí come potei comprendere, il suo regno è tanto grande quanto è tutta la Spagna, perciochè da sessanta leghe oltra il Putunchan, che è il fiume Grisalva, mandò i suoi nunzii ad una città chiamata Cumatan, acciochè venisse a rendere ubbidienza alla Maestà Vostra, che è lontana dalla gran città ducento e venti leghe; ma insino alle centocinquanta comandai alli nostri Spagnuoli che essi andassero a vedere. Quasi tutti li signori di queste provincie, e massimamente gli circonvicini, fanno residenza per la maggior parte dell'anno in questa città, come ho detto di sopra, e per lo piú li detti signori tengono i loro figliuoli primogeniti al servizio del signor Montezuma. E ciascuno di quei signori ha ne' suoi luoghi castelli, e in essi tiene i suoi soldati e li riscuotitori e governatori dell'entrate e de' servizii che a loro pervengono di tutte le provincie, e hanno il conto di tutte le cose che ciascuna provincia è obligata a contribuire. Hanno certi caratteri e figure in carta che fanno, le quali essi intendono. Ciascuna provincia ha il suo servizio e tributo separato, secondo la qualità della servitú, di modo che venivano alle mani del signor Montezuma ogni sorte di cose che si potevano trovare in dette provincie, e da presso e da lontano lo temevano tanto che non credo signor alcuno in terra sia piú temuto.
Ha dentro della città e di fuori molti palazzi per andare a piacere, meglio fabricati che dir si possa, e che veramente sono degni di gran prencipe e signore. Ha nella città per suo uso palazzi sí grandi e maravigliosi che mi pare impossibile raccontar la grandezza, la magnificenza e la bontà di quelli: e perciò non mi metterò a dirne cosa alcuna, ma quest'una sola dirò, che in Spagna non ve ne sono simili. Ha un altro palazzo, quasi non men bello di quello, nel quale era un bellissimo giardino, con certe loggie sopra, e i marmi e gli altri ornamenti erano di diaspro egregiamente lavorato. In quel palazzo erano stanze da poter albergar due gran prencipi con le loro corti; in questo erano dieci peschiere, dove tenevano ogni sorte d'uccelli acquatici di queste provincie, li quali erano molti e varii, e di tutti gli animaletti da ingrassare. Per gli uccelli che si nutriscono in mare erano peschiere d'acqua salsa, per quegli che usano ne' fiumi erano d'acqua dolce: le quali acque ad un certo tempo determinato le cavavano fuori per mondar le peschiere, dipoi co' lor canali le riempievano. E ad ogni sorte d'uccelli compartivano il cibo che era lor proprio, di maniera che a quegli che si nutriscono di pesce davano pesci, a quei che di vermi vermi, a quei di maiz maiz, a quei che di minute semenze semenze minute davano. E racconto cose certe a Vostra Maestà, che agli uccelli che mangiano pesce davano ducento e cinquanta libre ogni giorno di quei pesci che si pigliavano in detto lago; a nutrir questi uccelli attendevano trecento uomini, che di niun'altra facenda aveano cura, e oltra di questi vi erano altri uomini posti a dar medicamenti agli uccelli. In ciascuna peschiera erano loggie e caminate belle e magnifiche, dove il detto signor Montezuma soleva andare a solazzo. In una picciola parte di questo palazzo teneva uomini, donne e fanciulli dal nascimento bianchi di faccia, di corpo, di capelli, di sopracigli e di palpebre.
Avea un'altra casa larghissima e fortissima, nella quale era un largo chiostro con colonne, che avea il pavimento di pezzi di marmi eccellenti lavorato a modo di tavole da scacchi, e le stanze erano profonde quasi la statura di un uomo e mezzo e per quadro di grandezza di sei passi. E nel mezzo di ciascuna di queste stanze si vedevano uccelli che vivono di rapina, cominciando dal tinnuncolo insino all'aquila, e di quante sorti se ne trovano in Spagna e di molte che in Spagna non furono mai vedute, e di ciascuna sorte gran copia. E in ciascuna di queste stanze era una stanga, sopra la quale si posano gli uccelli, e un'altra di fuori sotto una rete: e in una si posavano gli uccelli di notte, quando il tempo era piovoso, nell'altra potevano stare uscendo al sole e all'aria, mentre hanno qualche male. A tutti questi uccelli per lor cibo compartiscono galline e non altro. In questo medesimo palazzo piú a basso sono certe gran sale piene di gabbie grandi, di legni grandi fatte e congiunte insieme: e per lo piú in quelle tenevano leoni, tigri, lupi, volpi e gatti varii. E di tutti questi animali, tanto de' volatili quanto di quattro piedi, ve ne era grandissima copia, a' quali davano a mangiar galline finchè si saziavano: e alla guardia di questi animali erano trecento uomini. Avea un altro palazzo dove tenea gran copia d'uomini e di donne mostruose, nani, gobbi, contrafatti e altri uomini di grandissima bruttezza, e ogni sorte di mostro avea le sue stanze separate, ed erano uomini eletti ad aver cura delle loro infermità. Lascio andar gli altri palazzi nella detta città fatti per pigliar solazzo, che ve ne sono molti e diversi.
Del modo del vivere e vestir del signor Montezuma, l'ordine che teneva nell'uscir del palazzo,
e con quante cerimonie era servito.
L'ordine del suo servizio era tale. La mattina a giorno andavano al suo palazzo cinquecento o seicento uomini de' primarii, parte de' quali sedeva, parte passeggiava per le sale e per le loggie che erano nel palazzo, e quivi dimoravano, ma non entravano dentro al signore; i loro servidori e coloro che l'accompagnavano occupavano due o tre cortili del palazzo e una gran contrada; e questi dimoravano quivi tutto 'l giorno e non si partivano se non venuta la notte. E nell'ora medesima che 'l signor Montezuma si poneva a tavola per mangiare, vi si mettevano ancora essi, e avanti a loro erano posti cibi non meno delicati che dinanzi al signore, e ne facevano parte a' loro famigliari; e le dispense e le cantine erano aperte a tutti che venivano, e a tutti che avevano fame e sete davano da mangiare e da bere. Nel portar da mangiare al signore si servava quest'ordine: trecento o piú giovani portano gran numero di vivande, sí a desinare come a cena, d'ogni sorte di cose da mangiare e di carne e di pesce le quali si possono aver in quel paese; e per il freddo che vi è ciascun piatto e scodella avea sotto uno scaldavivande con carboni accesi, acciò le vivande per il freddo non diventassero cattive; e le ponevano tutte insieme in una gran sala dove era solito mangiare, e quasi tutta la sala, ornata di stuore e netta, era ripiena di vivande. Il signore sedeva in un picciolo cussino di cuoio eccellentemente lavorato. Nel tempo che esso mangiava, discosto da lui mangiavano cinque o sei vecchi, a' quali egli porgeva delle vivande poste dinanzi a sé. Eravi uno de' servidori che poneva e levava le vivande, e dagli altri che erano di fuori domandava i cibi che piú piacevano al signore. Egli si lavava le mani nel principio e fine del desinare e della cena; di quello sciugatoio col quale una volta s'asciugava le mani non si serviva piú. Similmente era vietato metter piú le vivande in quei piatti e scodelle nelle quali erano state portate una volta, se non si facevano di nuovo, e il medesimo modo si servava negli scaldavivande. Si vestiva quattro volte il giorno, e non usava mai la medesima veste.
Ciascuno che entrava nel palazzo bisognava che v'entrasse co' piedi nudi, e quando chiamati s'appresentavano a lui andavano con a testa e con gli occhi bassi, con la testa inclinata e col corpo inclinato, e parlandogli non gli guardavano la faccia, il che era segno d'onore e di riverenza: e conobbi che lo facevano per tal cagione perciochè alcuni signori di quella provincia riprendevano gli Spagnuoli che, quando mi parlavano, tenendo la testa alzata mi guardavano, il che attribuivano a poco rispetto e riverenza. Quando il signor Montezuma usciva di palazzo, la qual cosa rade volte aveniva, tutti coloro che lo accompagnavano e che in lui si incontravano si schifavano di guardarlo, volgendosi con la faccia in altro lato, e in modo alcuno non lo guardavano, e tutti, finchè egli passava, stavano fermi senza punto muoversi. Di continuo gli andava innanzi uno de' suoi portando tre verghe sottili e diritte, il che pensai che si facesse per significare che il signore veniva; e mentre scendeva della lettica egli portava in mano una di queste verghe, e la teneva fin che era giunto al luogo determinato. Erano tante e sí diverse le cerimonie e modi che questo signore voleva che si servassero nel servirlo, che averei di bisogno di piú ozio che io non mi ritrovo al presente e di piú salda memoria per potermi ricordare di tutte. In vero io non penso che niuno de' soldani o de' signori infedeli de' quali abbiamo cognizione serva tante e tali cerimonie ne' suoi servizii.
Fui in questa famosa città per provedere alle cose che appartenevano al servizio di Vostra Altezza, e per acquietar la provincia e per tirar a devozion di Vostra Maestà i paesi e luoghi abitati, con molte e grandissime città, ville e castelli, e per investigar le minere d'oro e intender li secreti delle provincie, tanto di esso signor Montezuma quanto degli altri che gli erano vicini e co' quali ha intendimento. Le cose sono tali e sí maravigliose che mi par che debbano parere incredibili. E queste cose erano fatte da me con suo consentimento e de' paesani, non altrimenti che se da principio avessero conosciuto Vostra Altezza per loro vero re e proprio signore; né men volentieri facevano ciò che da me era lor commandato in nome di Vostra real Altezza. E stetti quivi occupato in certe cose utili al servizio di Vostra Maestà dagli otto di novembre 1519 insino all'entrata del mese di maggio dell'anno presente 1520, nel quale io me ne stavo nella predetta famosa città quieto e tranquillamente, e avevo compartito molti Spagnuoli per tener quieti varii e diversi paesi e per fabricar nuove città in queste provincie. Ero in grandissimo desiderio e aspettavo una nave, con la risposta della relazione la quale da questi paesi avevo da principio mandato a Vostra Maestà, per poterla far partecipe di ciò che ora le mando e di tutte quelle cose d'oro e di tarsie ch'io avevo avute qui per la Maestà Vostra.
Come il Cortese, avisato del giunger di diciotto navi, spedí diversi nunzii per intender chi fussero, e in che forma scrivesse al capitano di quelle. Inteso poi ch'erano venute per ordine di Didaco Velazquez con mal animo contra di lui, in che modo rescrivesse a Pamfilo Narvaez, capitano predetto. E come il dottor Roderico di Figueroa, giudice della presidenzia di Villa Nuova, mandò ad amonire e comandare a Didaco sopradetto che non andasse a quella impresa.
Vennero a me alcuni abitatori di questa provincia, vassalli del signor Montezuma, di quegli che sono vicini al mare, annunciandomi che appresso gli monti di San Martino, i quali sono nel lito avanti il porto overo stazio di S. Giovanni, erano arrivate diciotto navi; e chi fussero dicevano di non saperlo, perciochè subito che l'ebbero viste vennero in fretta ad avisarmene. E doppo questi giunse un altro dell'isola Fernandina e mi portò lettere di uno Spagnuolo ch'io aveva lasciato nella costa di detto mare, affinchè, se quivi giungessero navi, procurasse di dar loro notizia e di me e di quella città ch'io aveva tolta ad abitare appresso al porto, acciochè non andassero vagando, non sapendo in che luogo mi trovasse. Mi portò, dico, lettere, qualmente un giorno era stata vista una sola nave avanti il porto di San Giovanni, e quanto egli avea potuto stendere la vista diligentemente aveva guardato per la costa del mare e niun'altra n'aveva veduta, e pensava che fusse quella nave che aveva mandata a Vostra Maestà, avicinandosi già il tempo del suo ritorno; e per certificarsi aspettava finchè la detta nave arrivasse o entrasse nel porto, per aver informazione da quella e subito venirsene correndo ad avisarmi d'ogni cosa. Lette queste lettere spedii due Spagnuoli, che uno andasse per una via e l'altro per un'altra, acciò non avenisse che coloro i quali per aventura fussero mandati dalla detta nave non s'incontrassero in essi, e comandai loro che non si fermassero mai finchè arrivassero al detto porto, e intendessero quante navi erano venute e di che patria fussero e quel che portassero, e ritornassero a dirmelo. Un altro ne mandai alla città della Vera Croce per dare aviso di quelle cose ch'io aveva inteso delle predette navi, e ordinava che essi ancora investigassero e riferissero quel che avessero trovato. L'altro mandai a quel governatore al quale, come di sopra ho dichiarato a Vostra Maestà, avevo ordinato che andasse a fondare una nuova città nella provincia e porto di Quacucalco, al quale comandai per mie lettere che, in qualunque luogo il nunzio lo trovasse, si fermasse quivi né piú oltre andasse finchè avesse da me altra commissione, perciochè io diceva essermi stato avisato certe navi essere arrivate in porto: il quale, sí come poi si vidde, già aveva inteso della lor venuta prima che gli fussero rese le mie lettere.
E doppo la lor partita, stemmo quindeci giorni continui che del tutto non intendemmo cosa alcuna, né d'alcuno di loro ebbi risposta: di che pigliai non picciola maraviglia. I quali giorni essendo passati, vennero altri Indiani, vassalli anco del detto signor Montezuma, i quali mi certificarono le dette navi essere surte in porto, e che gli uomini erano discesi delle navi: e ne portavano seco il numero loro, che erano ottanta cavalli e ottocento fanti e dieci o dodeci pezzi d'arteglieria; e tutte queste cose si vedevano dipinte in una carta fatta in quel paese per mostrarla al detto signor Montezuma; e mi avisarono che quello Spagnuolo il quale aveva lasciato sopra il lito e gli altri nunzii che io aveva mandati erano appresso gli uomini che erano smontati di nave, e avevano ordinato a' detti Indiani che mi riferissero che 'l loro capitano non gli aveva lasciati ritornare. Inteso questo deliberai di mandare un prete, il quale avevo menato meco, e con mie lettere e con quelle de' giudici e reggenti della città della Vera Croce, i quali erano meco nella predetta città; le qual lettere erano indrizzate al capitano e uomini che erano giunti in porto, facendo loro noto tutte quelle cose che m'erano avenute in queste parti, e che io aveva soggiogate e acquistate molte città, ville e castella, e quelle riteneva pacificamente suddite al real servizio di Vostra Maestà, e che teneva prigione il principal signore di queste provincie, e che io dimorava in quella famosa città, e della qualità di essa, e dell'oro e delle tarsie che io teneva per la Maestà Vostra, e che già a lei aveva mandato la relazione di queste provincie. E gli pregava che mi dessero aviso chi essi fussero, e se erano de' regni e stati di Vostra Altezza, e scrivessero se erano venuti a queste provincie di suo real comandamento, o per fondare nuove città e dimorare in quelle, overo s'erano per andar piú oltre, overo volevano tornare adietro, e se avevano necessità di cosa alcuna, che farei ogni opera che fussero sovvenuti; e se non fussero de' regni di Vostra Altezza, similmente mi facessero avisato se erano oppressi da cosa alcuna, che mi offerivo, potendo, di dar loro rimedio; e quando che no, io per nome di Vostra Altezza comandavo loro che si partissero dalle nostre provincie né dismontassero in quelle: e s'altramente avessero fatto, con tutte le mie forze e degli Spagnuoli e de' paesani gli assalterei e userei ogni diligenza che fussero uccisi o presi, come forestieri che abbiano avuto ardire di impacciarsi de' regni e stati del nostro re e signore.
E dopo la partita del detto prete con le sopradette lettere a loro indirizzate, il quinto giorno vennero a me, essendo nella città di Temistitan, venti Spagnuoli di quegli ch'io avevo lasciato alla città della Vera Croce, menando il prete e i due secolari trovati nella detta città della Veracroce. Da' quali conobbi l'armata e gli uomini che al detto porto erano giunti, ed erano venuti per commissione di Didaco Velazquez, il quale è governatore dell'isola Fernandina, e il luogotenente e duce e capitano di quell'armata era un certo Pamfilo di Narvaez, abitatore della detta isola; e aveva menati seco ottanta cavalli e molte artegliarie e ottocento fanti, tra' quali dicevano esservene ottanta che portavano schiopetti e centoventi con balestre. E veniva capitano generale e luogotenente e governatore di tutte queste provincie in vece e nome del predetto Didaco Velazquez, e quello aver commissione da Vostra Maestà; e che lo Spagnuolo ch'io avevo lasciato al lito e i nunzii mandati da me erano appresso il predetto Narvaez, il quale non gli lasciava partire. E aveva inteso da loro che io in quella provincia avevo posta nuova città lontana dal detto porto dodeci leghe, e le genti che erano in quella, e parimente che uomini io avevo mandati nella provincia di Quacucalco, e che erano distanti trenta leghe nella provincia chiamata Tuchitebeque, e tutte le cose ch'io avevo fatte in questi paesi a servizio di Vostra Altezza, e le ville e le città che gli avevo acquistato e rendute pacifiche, e la famosa città di Temistitan, e l'oro e le tarsie che avevamo avute in dette provincie; e volse esser certificato da me di tutto ciò che insino allora mi era intravenuto. E il detto Narvaez gli aveva mandati alla città della Veracroce, acciochè vedessero di poter parlare con loro che in essa dimoravano e gli persuadessero a seguitar lui e a pigliar l'armi contra di me; e portarono seco forse cento lettere, che erano mandate dal detto Narvaez ai suoi compagni che dimoravano nella detta città, nelle quali si conteneva che dovessero prestar ferma fede a tutto ciò che 'l predetto prete e altri suoi compagni dicessero, promettendo di trattar bene coloro che ciò facessero, e minacciava di castigare chi non ubbidisse, e molte altre cose che erano contenute in dette lettere.
Questo espose il predetto prete e quegli che erano venuti seco, e quasi nel medesimo punto sopravenne un altro Spagnuolo, di quegli ch'io avevo mandato nella provincia di Quacucalco, e mi portò lettere di Giovanni Velazquez da Leone, lor capitano: e per quelle mi avisava che quella gente la quale era arrivata in porto era Pamfilo di Narvaez, il quale veniva qua con commissione del detto Didaco Velazquez, con soldati che menava seco. E le lettere che 'l detto Narvaez aveva date ad un certo Indiano, indirizzate a quel capitano come parente del detto Didaco Velazquez e cognato del detto Narvaez, procurò che mi fussero per il medesimo mandate; nelle quali era scritto che egli da' miei nunzii aveva inteso il detto mio capitano essersi quivi fermato con quei soldati, e gli persuadeva che egli subito co' soldati se n'andasse al medesimo Narvaez, il che se ei seguisse farebbe quel che doveva ed era tenuto di fare; e che molto ben sapeva che egli stava per forza appresso di me. Il qual capitano, come uomo obligato al servizio di Vostra Maestà, non solamente rifiutò di far ciò che gli era proposto nelle lettere dal detto Narvaez; avendo scritto a me, subito per unirsi meco si partí con tutti i soldati, avendo avuta ottima informazione dal detto prete e dalli suoi due compagni di molte cose, e di ciò che avevano pensato il detto Didaco Velazquez e Narvaez, e qualmente con quell'armata e uomini s'era mosso contra di me per avere io mandato la relazione e le cose di questa provincia alla catolica Maestà Vostra, e come con cattivo animo venivano per far morir me insieme con molti ch'io avevo meco, i quali già avevano banditi.
Oltra di ciò avevo io inteso il dottor Roderico di Figueroa, giudice della presidenzia dell'Isola Nuova, i giudici e gli altri ufficiali di Vostra Altezza che in quell'isola fanno residenza, subito che venne loro all'orecchie il detto Didaco Velazquez apparecchiar quell'armata, veduto con che animo egli la mandava, essendo loro palese e manifesto l'incommodo e il danno che di tal successo ne potrebbe resultare a Vostra Maestà, aver mandato il dottor Luca Vasquez Alion, uno dei predetti giudici, con procura ad ammonire e comandare al detto Didaco Velazquez che in niun modo mandasse la detta armata. Il quale, andato là, trovò il detto Didaco Velazquez con l'armata e con gli uomini nell'entrata di detta isola Fernandina che s'apparecchiava di far vela, e ammoní lui e tutti coloro che andavano con detta armata che non dovessero venire, perciochè di questo la Maestà Vostra era per patirne incommodo e danno, e oltra di questo v'aggiunse la pena: le qual cose non lo ritenendo, né tutte quelle che per il detto dottore gli erano state comandate, né anco l'ammonizione, aveva comandato che l'armata si partisse. E affermava che 'l dottore era nel detto porto, e che esso era venuto con l'armata con intenzione di poter rimuover il danno che di tal viaggio risulterebbe, essendo ottimamente noto a lui e a tutti con che animo e mente la detta armata avesse fatto vela.
Già mandai il sopradetto prete con mie lettere, per le quali gli significavo ch'io avevo inteso dal prete e da quegli che erano venuti seco che esso aveva il carico di governar quelle genti le quali erano condotte con quella nave, di che me ne rallegrava grandemente, perciochè pensava altramente, non ritornando i nunzii che io avevo mandati; e che io mi maravigliavo che, poichè egli aveva inteso che io mi trovavo in queste provincie per servizii di Vostra Maestà, non m'avesse mandato né lettere né nunzio per avisarmi della sua venuta, sapendo egli di certo che, avendone aviso, me ne saria sommamente rallegrato, parte perciochè per lo passato avevamo tenuta stretta amicizia insieme, parte perchè stimava anco loro esser venuti qua per servir la Maestà Vostra, di che niuna cosa mi poteva accader piú grata. Ma all'incontro avevo grandissimo dispiacere che egli mandava seduttori, come facea, e lettere persuasive a' miei soldati, che sono al servizio di Vostra Maestà, che pigliassero l'armi contra di me e se ne fuggissero a lui, non altrimenti che se alcuni di noi fussero cristiani e alcuni infideli, overo altri fussero di Vostra Maestà e altri no; e lo pregavo che per l'avenire non usasse piú cotal via, ma dovesse palesarmi le cagioni della sua venuta. E che coloro m'avevano detto che si chiamava general capitano, luogotenente e governatore per Didaco Velazquez, e che publicamente avea comandato in tutta quella provincia esser chiamato con tal nome, e che già aveva constituiti giudici e reggenti e avea amministrato giustizia: il che era contra il servizio di Vostra Maestà, essendo a lei sottoposte queste provincie e da' suoi sudditi abitate; ed essendo ordinati chi rendesse ragione e li reggenti, non dovea usar que' titoli, non essendo stato ricevuto d'alcuno, benchè avesse avuto commissione da Vostra Maestà d'esercitar tal cose. E io gli dimandava ed esortava che la mostrasse a me e al reggimento della città della Vera Croce, alla quale e io e gli reggenti eravamo apparecchiati d'ubbidire come a' comandamenti del nostro re e vero signore, e con effetto si faria quanto fusse utile al real servizio di Vostra Maestà; perciochè io ero in quella città, dove io tenea prigione il signore, e in quella avevo ragunato grandissima quantità d'oro, e per la Vostra Altezza e per coloro che erano meco e per me stesso, il quale non avevo ardir di lasciare, temendo che dopo il partir mio di quella città gli abitatori non mi si ribellassero, e tal città e quantità d'oro e copia di tarsie si perdesse: la qual città perduta che fusse, tutte quelle provincie si ribellariano. E similmente diedi lettere al detto prete drizzate al detto dottore Ailon, il quale, come poi riseppi, quando il prete arrivò quivi, il detto Narvaez l'aveva preso e rimandatolo indietro prigione con due navi.
L'aviso ch'ebbe il Cortese delle provincie che s'erano ribellate e datesi a Narvaez, e massime Cimpual, per il che deliberò andarsene al detto Narvaez. Le lettere che per il viaggio gli furono presentate e quello contenevano. I mezzi che tenne detto Narvaez per corrompere il signor Montezuma. Il patto ch'ei facea al Cortese, volendo egli partirsi, e la risposta. Come l'un l'altro fecero i salvicondotti per abboccarsi, e l'insidie che pose Narvaez per uccider il Cortese nel parlamento, onde il Cortese procurò di pigliar Narvaez.
Nel giorno medesimo che 'l detto prete si partí, mi venne un nunzio di quelli che erano nella città della Vera Croce, per il quale mi significavano tutti gli abitatori di quelle provincie essersi ribellati e datisi al detto Narvaez, e massimamente quegli di Cimpual e gli confederati con loro, e niuno degli abitanti di dette provincie voler piú andare alla detta città a far servizii, sí nella rocca come nell'altre cose che prima erano soliti fare; perciochè affermavano Narvaez aver detto loro ch'io era un cattivo uomo, e che egli era venuto per prender me e tutti i miei soldati e menarcene prigioni, e lasciarebbe la provincia libera; e che aveva menato seco molte genti e le mie erano in poco numero, e che aveva menati molti cavalli e piú artegliarie che non erano le mie, ed essi volevano seguitar le parti del vincitore. E dicevano di piú che avea avuto notizia dalli medesimi Indiani che 'l detto Narvaez doveva venire ad alloggiare nella città di Cimpual, che sapevano molto bene quanto era lontana dalla città della Vera Croce, e pensavano, considerato il mal animo del detto Narvaez verso di tutti, da quel luogo dover muover le genti contra di loro, e massimamente tenendosi per amici gl'Indiani di quella città; e perciò avisavano che erano per abbandonarla e salire il monte per andare ad un certo signore vassallo di Vostra Altezza e nostro amico, e quivi stariano finchè io avisassi quel che dovessero fare.
Considerato il gran danno che soprastava, essendo cominciate a ribellarsi le dette provincie per la persuasione del detto Narvaez, mi parea che, se me n'andava là dove egli fusse, molto raffrenarei gli paesani, vedendomi presente, né averiano ardire di pigliar l'armi contra di me; e anco pensavo trovare il modo di poter dar rimedio al male incominciato. Il medesimo giorno mi parti' de lí, lasciando la fortezza piena di maiz, con centoquaranta uomini, acqua e alcuni pezzi di artiglierie; e con gli altri che io avevo quivi, che erano sessanta, seguitai il mio viaggio, accompagnandomi alcuni baroni del signore Montezuma, al quale prima che io partissi parlai longamente, proponendogli che considerasse d'essere vassallo di Vostra Altezza, la quale ora gli aveva da rendere grazie di tutti quei servizii che egli le aveva fatti. Quegli Spagnuoli che rimanevano glieli raccommandavo grandemente, con l'oro e con le tarsie che egli m'aveva donato per l'Altezza Vostra e comandato che anco gli altri mi dessero, perciochè io volevo andare a veder chi fussero coloro che erano arrivati al nostro porto, che in fin allora io non sapevo chi fussero; nondimeno giudicavo quegli esser uomini malvagi e non punto sudditi di Vostra Altezza. Egli promise che a coloro ch'io lasciavo si sarebbe provisto di tutte le cose a lor necessarie, e che terrebbe guardate le cose lasciate da me, appartenendo ciò a Vostra Maestà; e quegli che verrebbono meco mi condurriano per camino tale che io non uscirei delle sue provincie, e attenderiano che mi fusse proveduto d'ogni cosa. E mi pregava con grande instanzia che, se io trovavo coloro esser uomini scelerati, subito gliene dessi aviso, che in un momento ragunarebbe grandissimo numero di genti, le quali anderiano a combattergli e a cacciargli della provincia. Io lo ringraziai d'ogni cosa e liberamente gli affermai che Vostra Maestà per questo gli userebbe qualche gratitudine, e donai di molte gioie e vesti ad uno de' suoi figliuoli e a molti altri signori che si trovavano appresso di lui.
Nella città di Churultecal mi venne incontra Giovanni Velazquez, il quale altre volte ho detto che era partito e l'avevo mandato a Quacucalco, che veniva a trovarmi con tutti i soldati, se non alcuni che erano infermi, i quali ordinai che andassero nella città. Io con lui insieme e con quegli altri seguitai il cominciato viaggio, e quindeci leghe di là della città di Churultecal trovai il prete, che era uno de' miei compagni che avevo mandato a cercare chi fussero coloro che erano entrati nel porto con l'armata, e mi presentò le lettere del detto Narvaez, nelle quali si conteneva che egli aveva alcune commissioni che gli fussero consegnate dette provincie a nome di Didaco Velazquez, e che subito andassi da lui per ubbidire a quelle, e che egli già aveva edificato una città, e ordinati giudici e reggenti. E intesi dal detto prete come aveva fatto prigione il detto dottore Aylon e il suo cancelliere ed esecutore, e posti sopra due navi gli aveva mandati via, e con doni aveva richiesto lui che volesse confortare alcuni de' nostri compagni che volessero fuggirsene al detto Narvaez; e che aveva fatto la mostra di certi Indiani che erano venuti seco, tanto de' cavalli quanto de' fanti, e aveva fatto trarre tutta l'artegliaria, sí quella che era nelle navi come quella che era nel lito, per metter loro spavento, dicendo: "Considerate in che modo vi potrete difender da noi, se voi non ci darete ubbidienza". Raccontò anco aver veduto appresso il detto Narvaez uno de' signori di questa provincia, vassallo del signor Montezuma, al quale aveva dato carico di tutte le sue provincie da' monti insino alla marina; e seppi che egli parlò a Narvaez in nome del detto signor Montezuma, e che gli aveva donato alcuni ornamenti d'oro, e all'incontro Narvaez aveva dati a lui varii doni. E similmente sapeva che egli da quel luogo aveva mandati alcuni nunzii al signor Montezuma, promettendo di liberarlo, e che era venuto in questi paesi per prender me co' miei soldati e subito partirsi e lasciare star le provincie, né desiderava oro, ma solamente preso me co' miei soldati ritornarsene, donando la libertà alle provincie e agli abitatori di quelle.
Ultimamente, avendo compreso la sua opinione essere di mettersi in questi luoghi per propria auttorità, non essendo ricevuto da alcuno, e, non volendo né io né i miei soldati riceverlo per capitano e per giudice, assaltarci e combattendo vincerne, e a questo effetto essersi collegato con gli abitatori delle provincie, e principalmente col detto signor Montezuma per via de' suoi nunzii; e vedendo manifestamente l'incommodo e 'l danno che dalle predette cose potria nascere a Vostra Maestà, benchè mi riferissero che veniva con grandissima forza e che aveva commissione dal detto Didaco Velazquez che me e alcuni de' miei, i quali già aveva banditi, se venivamo nelle sue mani subito ne facesse impiccare, non recusai d'andar piú avanti, e, pensando di mostrargli in qualche modo il grandissimo incommodo e danno che faceva a Vostra Maestà, e di poterlo rimuovere dal cattivo animo e pensiero, seguitai l'incominciato viaggio. E per quindeci leghe avanti ch'io arrivassi alla città di Cimpual, nella qual dimorava il detto Narvaez, ritornò a me quel prete, il qual dissi che li soldati della città della Veracroce m'avevano mandato, e al quale io avevo date lettere indirizzate a Narvaez e al dottor Aylon, in compagnia d'un altro prete e d'un certo Andrea de Duero, abitante dell'isola Fernandina, che era venuto quivi col detto Narvaez. I quali, in cambio e luogo di risposta alle mie lettere, m'imposero da parte di Narvaez che del tutto dovessi andare a rendergli ubbidienza e averlo per capitano e a lui lasciar la provincia, altramente me ne potrebbe avenir grandissimo danno, affermando il detto Narvaez aver grandissimo potere e noi piccolissimo e quasi niuno, e oltra gli Spagnuoli che aveva menati seco ancora li paesani lo favorivano. E se io deliberassi di consegnargli le provincie, mi promettevano a mio piacere le navi e la vettovaglia, e che io potevo partirmi senza impedimento alcuno, con tutti coloro che desideravano venir meco e con tutto ciò che volessimo portare. E l'altro prete mi disse cosí essere stato ordinato da Didaco Velazquez che facessero questo patto meco, e a tal fine aveva data la procura al detto Narvaez e insiememente a quegli due preti, e intorno a questo erano apparecchiati a pattuir meco in qualunque modo mi piacesse. Risposi ch'io voleva vedere la commissione di Vostra Maestà ch'io dovessi dare le dette provincie, e se alcuna n'avevano la mostrassero a me e alli reggenti della città della Veracroce, come è l'ordine e l'usanza nella Spagna, perciochè era per ubbidirgli e per mandargli ad effetto; e per fin che io non la vedevo m'avevo proposto a niun modo acconsentire a ciò che avevano detto, ma io e i miei soldati tutti eravamo apparecchiati a metter la vita per difesa delle provincie, poichè l'avevamo e le tenevamo pacifiche e sicure per la Maestà Vostra, che mostrarci traditori e infideli al nostro re. Oltra di ciò mi proposero piú condizioni per tirarmi nella loro opinione; nondimeno io non volsi acconsentire ad alcuna di quelle, se prima non vedevo la commissione di Vostra Altezza, la quale non volsero mai mostrare.
Finalmente quegli due preti, Andrea de Duero e io fummo d'accordo che 'l detto Narvaez, accompagnato da dieci uomini, e io da altretanti, mandandoci i salvicondotti l'un l'altro parlassimo insieme, e quivi se avesse commissione alcuna la mostrasse, e io gli dovessi rispondere. Io gli mandai il salvocondotto sottoscritto ed egli similmente mi mandò il suo, sottoscritto di sua propria mano. Il quale Narvaez, come poi si vidde, m'aveva poste insidie per uccidermi in quel parlamento, e a questo negozio avea eletto due di que' dieci che aveva determinato di menar seco, e gli altri combattessero con quegli che io dovevo menar meco, perciochè diceva che, morto che io fussi, averebbe posto fine al negozio. Come veramente saria stato, se il sommo Iddio, che in simil cose suol dar soccorso, non vi avesse trovato rimedio, imperochè ne fui fatto certo nel medesimo tempo che quegli che avevano congiurato contra di me mi portarono il salvocondotto. Il che inteso, subito per mie lettere feci sapere al detto Narvaez che io avevo conosciuto il suo mal animo verso di me, e che io non volevo andar là dove ci eravamo convenuti di trovarci insieme. E in quell'ora ordinai che in mio nome gli fusse fatta una monitoria e comandamento, col quale ammoniva il detto Narvaez che, se egli aveva commissione alcuna da Vostra Maestà, me la dovesse presentare, e insino a tanto non si usurpasse il nome di capitano né di giudice, né, sotto la pena impostagli, s'impacciasse in cosa alcuna pertinente a' detti officii. E nel detto commandamento commandavo a tutti coloro che erano venuti con Narvaez che per niun modo lo tenessero per capitano o veramente l'obbedissero come capitano o giudice, anzi fra un certo termine assegnato nel commandamento dovessero comparire avanti di me per intendere ciò che avevano da fare in servizio di Vostra Altezza, protestando che, se facessero altramente, procederei contra di loro come contra di ribelli e traditori e perfidi e malvagi sudditi, che si ribellano al lor re e usurpano le provincie e gli stati di quello, e desiderano darne il possesso a coloro che non v'hanno né ragione né azione alcuna. E se per vigore di tal commandamento non comparissero e non esequissero ciò che si conteneva in esso, procederei contra di loro secondo la forma della giustizia.
E la risposta che mi diede fu che mise in prigione il notaio e colui che con la mia procura era andato a mostrare il mio commandamento, e certi Indiani che avevano con esso loro, i quali furono ritenuti finchè sopragiunse un altro mio nunzio, ch'io avevo mandato per saper dove si trovassero: in presenza de' quali di nuovo fecero la mostra di tutti i soldati, e minacciarono loro e me se non gli consegnammo le provincie. E conoscendo non poter schifar tanto male e scandalo, e vedendo che gli abitatori delle provincie già avevano cominciato a tumultuare e ogni dí piú se ne levavano contra, raccommandandomi a Iddio e ponendo giú la paura del danno che ne poteva seguire, deliberando meco istesso morir per servizio del nostro re e per difesa delle sue provincie, e se io non le lasciassi usurpare ne poteva nascere a me e a' miei soldati grandissima gloria, ordinai a Consalvo di Sandoval, mio maggiore esecutore, che procurasse di pigliare Narvaez e tutti coloro che volevano esser chiamati giudici e reggenti, e gli diedi ottanta de' miei soldati, a' quali comandai che dovessero seguitarlo e pigliassero coloro. Io con gli altri centosettanta, che in tutto erano ducentocinquanta, senza artegliaria né cavalleria, ma solo co' fanti a piè, andai dopo il detto mio maggiore esecutore, per dargli soccorso se 'l detto Narvaez e gli altri non si lasciassero pigliare.
Come Cortese andò a Cimpoal, e in qual modo combattendo fece prigion Narvaez.
Il giorno medesimo che 'l detto maggiore esecutore e io insieme arrivammo alla città di Cimpoal, dove Narvaez s'era fermo co' suoi soldati, subito che egli intese la nostra venuta, con ottanta cavalli e cinquecento fanti, oltra quegli che aveva lasciati nell'albergo, uscí fuori della città. Era il suo albergo una moschea, la maggior che fusse in quella città, la quale era molto ben fortificata. Egli, accompagnato da questa cavalleria e fanteria, venne due leghe vicino al luogo dove io ero. E se egli avea presentita la mia venuta, l'avea intesa per relazione degl'Indiani, e non mi avendo trovato, pensandosi che l'avessero beffato, se ne ritornò al suo albergo, nondimeno sempre tenendo in ordine gli suoi soldati; e lontano quasi una lega dalla città avea lasciato due sentinelle. E perchè io desideravo grandemente schifar gli scandoli, mi parve che piú commodo e minore scandalo fusse andarvi la notte, s'era possibile, che sarei entrato sí tacitamente che non m'ariano sentito e saremmo andati diritto all'albergo di Narvaez, il quale ben sapeva io e i miei solati, per pigliarlo. Il qual preso, stimavo che non avria piú altro scandalo, perciochè giudicavano gli altri dover esser ubbedienti alla giustizia, e massimamente che la maggior parte di loro v'era venuta astretta, e per forza che aveva fatto loro Didaco Velazquez, e per paura che il detto non togliesse loro gli schiavi che avevano nell'isola Fernandina.
E cosí avvenne, imperochè il giorno della Pentecoste, poco dopo mezzanotte, assaltai il detto albergo; nondimeno trovai prima le sentinelle che 'l detto Narvaez aveva poste nella strada, e coloro ch'io avevo mandato avanti ne presero una, e l'altra fuggí, dalla qual compresi che ordine tenessero; e acciochè la sentinella che era fuggita non giugnesse là prima di me, m'affrettai quanto potette, ma non potei tanto affrettarmi che egli non arrivasse prima per ispazio di mezza ora. E quando arrivai Narvaez e tutti li compagni s'avevano messe l'armi e apparecchiati i lor cavalli, e molto bene apparecchiati per ciascun de' quattro cantoni dell'albergo stavano vegghiando ducento uomini. E arrivammo quivi tanto quietamente che, mentre intesero noi esser giunti e che fu gridato all'arme, già io ero entrato nel cortile del suo albergo, nel quale tutti albergavano e insieme ragunati dimoravano, e avevano preso tre o quattro torri che erano in quello e l'altre stanze fortificate. Nelle scale d'una delle dette torri, dove abitava Narvaez, erano posti 19 pezzi d'artegliaria di bronzo; ma fummo tanto presti nel salire che non poterono dar fuoco all'artegliarie, salvo che ad un pezzo, il quale per volontà d'Iddio non mandò fuori la palla e non fece danno ad alcuno. E cosí salimmo nella predetta torre fin che arrivammo alla stanza di Narvaez, la quale egli in compagnia di cinquanta soldati difendeva valorosamente, combattendo col maggior esecutore e co' suoi compagni. Benchè molte volte li confortasse a rendersi prigioni alla Maestà Vostra, nondimeno non volsero acconsentire, fin che non fu posto fuoco alla torre, e stringendoli il fuoco si renderono. Mentre il detto maggiore esecutore faceva ogni sforzo di prendere Narvaez, io, insieme con gli altri che erano rimasi meco, difendeva l'ascender la torre contra coloro che gli davano soccorso. E feci pigliar tutte l'artegliarie e con esse mi fortificai, di maniera che senza uccisione d'uomini, salvo che di due che morirono di colpo d'artegliaria, per spazio d'una ora tutti quegli ch'io voleva prendere vennero in poter mio e gli altri tutti, date l'arme, promisero ubbidire a me e alla giustizia e alla Maestà Vostra, affermando essere stati ingannati, perciochè insin a quell'ora egli aveva detto loro aver commissione da Vostra Altezza, e che io insieme con la provincia m'avevo ribellato ed era traditore di Vostra Maestà, e molte altre cose che avevano detto loro. E avendo conosciuta la verità, e il cattivo animo e intenzione per la quale Didaco Velazquez e Narvaez s'erano mossi, ebbero grandissimo piacere che Iddio avesse permesso che cosí fusse avenuto.
E rendo certa la Maestà Vostra che, se Iddio per la sua solita misericordia e pietà non avesse posta la mano in questo negozio, e che 'l detto Narvaez avesse ottenuto vittoria, ne saria seguito maggior incommodo e danno che già per molto tempo a comparazione sia seguito tra Spagnuoli, perciochè averia ubbidito al comandamento di Didaco Velazquez d'appiccarmi insieme con molti miei compagni, acciochè niuno ve ne restasse che de' lor fatti dessi notizia alcuna. Imperochè, sí come poi intesi dagl'Indiani, se per aventura il detto Narvaez avesse preso me, come egli aveva lor manifestato, non si potendo far senza danno suo e de' suoi, e che molti de' suoi e de' miei soldati non perissero, avevano determinato che fra questo mezzo quelli uccidessero coloro ch'io avevo lasciati nella città, come anco avevano cominciato, e dipoi tutti insieme ragunandosi assaltar coloro che qui fussero rimasi, di maniera che tutte le loro provincie rimanessero libere e non vi restasse ricordanza di Spagnuoli. E la Maestà Vostra non ha da dubitar punto che se cosí avessero fatto e avessero eseguito la loro intenzione, che per le provincie ora soggiogate e quietate non si vincerebbono e non si quietarebbono per spazio di venti anni.
Come il Cortese, mancando la città di vettovaglie, ispedí in due luoghi due capitani con trecento uomini per ciascuno, e ducento ne mandò alla città di Veracroce. Poi, inteso che in Temistitan gl'Indiani combattevano la fortezza e avevano abbrucciati i quattro brigantini che avea fatto fare, gli fece tornar adietro.
Tre giorni doppo la presa di Narvaez, non si potendo nutrir tanta moltitudine nella città ed essendo già quasi distrutta, perchè Narvaez co' suoi compagni l'avevano saccheggiata, non vi essendo gli abitanti, ma solamente le case, ispedi' due capitani e a ciascuno di loro diedi trecento uomini: uno ne mandai alla nuovamente cominciata città nel porto, della quale ho già fatto menzione a Vostra Maestà; l'altro inviai a quel fiume nel quale dicevano aver vedute le navi di Francesco de Garay, perciochè io quel luogo fermamente lo tenevo per mio. E dugento ne mandai con gli altri soldati alla città della Veracroce, dove tutte le navi che aveva menato il detto Narvaez io avevo inteso che stavano surte, e quivi provederei a quelle cose che io stimassi appartenere al commodo di Vostra Maestà; e mandai un nunzio alla città di Temistitan, per il quale davo nuova di tutte quelle cose che mi erano avenute agli Spagnuoli ch'io avevo quivi lasciati. Il quale per spazio di dodeci giorni ritornò e portommi lettere del mio capitano e da' soldati, che mi certificavano che gl'Indiani con grande sforzo avevano combattuto la fortezza e in molti luoghi avevano messo fuoco e fatte alcune mine, e che erano stati in grandissima fatica e pericolo, e sariano stati uccisi se il signor Montezuma non avesse comandato loro che si levassero da detta impresa; e nondimeno affermavano che erano ancora assediati, benchè non fussero combattuti, e per due passi fuori della fortezza gl'Indiani non lasciavano uscire nessuno di loro, e avevano tolto una grandissima parte della vettovaglia ch'io avevo lasciata, e avevano abbrucciati li quattro brigantini che io avevo fatti fare nella detta città di Temistitan, e si trovavano in grandissima carestia d'ogni cosa, pregandomi che sollecitasse di dar loro aiuto. Io, veduta la loro necessità, e considerato che oltra gli Spagnuoli uccisi si perderebbe tutto l'oro e l'argento e le gioie che s'erano avute dalle provincie, e si perderia la migliore e piú nobile città che sia in tutto il mondo nuovamente ritrovata; la qual perduta che fusse, si perdevano tutte le cose che insin ora io avevo acquistate in queste provincie, essendo ella la principale, alla qual tutte l'altre rendevano ubbidienza; subito commandai che li nunzii seguitassero i capitani che erano andati co' sopradetti soldati, raccontando loro tutto ciò che i soldati spagnuoli m'aveano scritto da quella città, e che subito, ovunque gli trovassero, gli facessero tornare adietro per la piú breve strada che si potesse fare alla città di Tascaltecal, per congiungermi con loro insieme co' soldati che erano meco e con tutte l'artigliarie ch'io potetti e con settanta a cavallo. E poi che furono giunti là, io feci far la mostra di tutti i soldati, che erano settanta a cavallo e cinquecento a piè, e con questa compagnia, con la maggior prestezza ch'io potessi, me n'andai verso Temistitan.
In quel viaggio nessuno de' sudditi del signor Montezuma mi venne incontra, sí come prima erano soliti di fare, e tutte quelle provincie erano in tumulto, e le case quasi tutte disabitate. Per questa cosa io ero in grandissima sospizione che gli Spagnuoli ch'io avevo lasciati nella detta città di Temistitan già fussero stati uccisi, e che tutti i popoli delle provincie si fussero ragunati e mi aspettassero in qualche luogo difficile o in qualche strettezza, dove piú facilmente mi potessero nuocere: e per questo sospetto tenni i miei piú apparecchiati che possibile mi fusse, finchè giunsi alla città di Tesnacan, la quale, come ho detto di sopra, è nella ripa del lago, e dimandai certi paesani quel che fusse avenuto degli Spagnuoli che avevo lasciati in Temistitan. Mi risposero che erano vivi. Comandai loro che mi menassero una canoa, perciochè con quella voleva mandare uno Spagnuolo a veder Temistitan, e che, mentre egli andava là, bisognava che uno degli abitanti dimorasse appresso di me. Uno degli abitatori della detta città, il quale mi pareva de' principali, perchè gli altri co' quali io avevo pratica non apparivano, procurò che fusse condotta una canoa, e allo Spagnuolo ch'io mandavo diede per compagnia certi Indiani, ed egli rimase meco. E mentre il detto Spagnuolo montava nella canoa per andare alla città di Temistitan, vidde andarvi anco un'altra canoa e l'aspettò, acciochè gli andasse piú appresso. In quella vi era uno Spagnuolo di quegli che io avevo lasciati in detta città, e da lui intesi che tutti gli Spagnuoli erano vivi, se non quattro o sei che erano stati uccisi dagli Indiani, e gli altri erano assediati e non gli lasciavano uscir della fortezza, e non era loro dato alcuna cosa se non con molti danari, benchè, avendo udito la mia venuta, gli Indiani gli avevano cominciati a trattar meglio; e che Montezuma non desiderava altro che la mia venuta, per poter aver libertà d'andare a solazzo per la città come prima era solito di fare, e che bene egli considerava che io già avevo risaputo le cose le quali erano successe nella città, e per ciò essere sdegnato e andar là con animo di far qualche danno; e con molti prieghi mi pregava ch'io diponessi lo sdegno, imperochè egli n'aveva ricevuto non minor dispiacere di me, e che niuna cosa era stata fatta di suo consentimento o volontà. E diede commissione che mi fussero esposte molte altre cose, per rimuovermi dallo sdegno che s'imaginava ch'io avessi conceputo per le cose commesse, e che andasse alla città tale quale io era stato prima, perciochè al presente mandariano ad esecuzione i miei comandamenti non meno di prima e a quelli ubbidiriano. Risposi che io non avevo conceputo sdegno alcuno contra di lui, conoscendo il suo buon animo e stimando di certo esser tale.
Come il Cortese giunse a Temistitan ed entrò nella fortezza, e come gli Indiani con infinita moltitudine di gente vennero ad assaltargli; e il Cortese andò ad affrontargli, e combatterono gagliardamente. Come i nemici posero fuoco nella fortezza e come fu estinto.
Il giorno seguente, la vigilia di san Giovan Battista, mi parti' e alloggiai tre leghe lontano da Temistitan, e l'altro giorno, dapoi che ebbi udita la messa, seguitai il mio viaggio e quasi avanti mezogiorno entrai nella città, e vi viddi non molti uomini e alcune porte nei crociali delle vie esser state levate; il che non mi piacque punto, nondimeno pensai che l'avessero fatto per timore delle cose che avevano commesse, e acciochè giunto quivi gli facessi sicuri. Ma io me n'andai diritto alla fortezza, nella quale, e nella moschea maggiore a canto alla fortezza, alloggiarono tutti coloro che erano venuti meco. Quelli Spagnuoli che erano assediati nella fortezza ne ricevettero con quella allegrezza che se avessimo data loro la vita, overo donata di nuovo, pensandosi già d'averla perduta. Quel giorno passammo con gran letizia e festa, sperando d'aver quiete.
L'altro dí, dopo la messa, mandai un nunzio alla città della Vera Croce a dar buone nuove che gli cristiani ancora erano vivi, e ch'io era entrato nella città e in quella me ne stava sicuro; il qual nunzio fra lo spazio di due ore ritornò con molte ferite, gridando che tutti gli Indiani della città atti a portar arme ne venivano ad assaltarci, e aver levati via i ponti della città. E dopo lui seguendo una infinita moltitudine di gente da ogni banda n'assaltarono, di maniera che nelle contrade, nelle terrazze, nelle strade per il gran numero delle genti si vedevano, che ne venivano co' maggiori urli e con li piú terribili gridi che si potessero imaginare; e tanti erano li sassi che con le fionde gettavano nella fortezza che pareva che 'l cielo piovesse sassi, ed era tanto il numero delle freccie e de' dardi che tutte le mura e li cortili n'erano pieni, sí che non vi si poteva andare. Io uscito di casa andai ad affrontarli, e combatterono contra di noi gagliardamente; e da una banda era uscito della fortezza uno de' miei capitani con ducento uomini, e prima che potessi ritirarsi furono uccisi quattro de' suoi, e ferirono il capitano con molti altri. Ma noi potevamo uccider pochi di loro, perciochè si ritiravano di là da' ponti, e co' sassi n'offendevano grandemente dalle terrazze, delle quali n'espugnammo e abbrucciammo alcune; nondimeno erano tanto spesse e tanto fortificate, e piene di tanti uomini e di sassi e d'altre varie sorti d'armi, che non eravamo potenti a combatterle tutte e a difenderci, che non ci potessero offender come piaceva loro. Combatterono tanto fortemente la nostra fortezza che in varii luoghi vi posero il fuoco, e in uno se n'abbrucciò la maggior parte prima che gli potessimo dar soccorso, finchè lo schifammo col tagliar li pareti, e col violento gettare a terra de' pareti il fuoco fu estinto. E se quivi non avessi posto grandissima guardia, cioè uomini con balestre, con schioppetti e altre artegliarie, certamente col lor subito assalto, non potendo noi far resistenza, sariano entrati nella fortezza. Consumammo tutto quel giorno insino alla notte scura; nondimeno, essendo venuta, non fummo sicuri dai loro gridi e romori finchè sopragiunse il giorno. Tutta quella notte attesi a rifar tutto ciò che essi avevano ruinato, e ad apparecchiar molte altre cose che la fortezza mi pareva che avesse di bisogno; e accommodai alcuni forti, e in quello allogai gli soldati che gli difendessero e nel giorno seguente avessero da combattere. Furono medicati i soldati feriti, che erano piú d'ottanta.
Come i nemici diedero un altro terribile assalto alla fortezza, e uscito il Cortese uccise assai di loro e abbrucciò certe case: furono feriti cinquanta Spagnuoli. Delle macchine che gli Spagnuoli fabricarono. Come il signor Montezuma fu crudelmente percosso con un sasso e morí.
Venuto il dí, gli nemici ne combatterono piú gagliardamente che non fecero il giorno avanti, e vi era concorsa tanta moltitudine e ai bombardieri non faceva di bisogno usare diligenza in pigliar a mira con arte, ma solamente, veduta la moltitudine degli Indiani, dar fuoco all'artegliarie. E benchè con quelle facessero loro gran danno, perciochè oltra gli schioppi e le balestre adoperavamo contra gli nemici quattordeci pezzi d'artegliarie, nondimeno tutti quegli facevano sí leggier danno a tanta moltitudine che ci pareva di non offendergli punto, perciochè, tirato un pezzo d'artegliaria, a dieci o dodeci che ne venivano uccisi ne sottentravano degli altri. Avendo lasciato nella fortezza conveniente guardia e quella che ci si poteva lasciare, usci' subito fuori e presi alcuni ponti, e abbrucciai certe case, e uccidemmo assai di loro che si sforzavano di difenderle. Ed era tanta la moltitudine che, benchè avessimo fatta grandissima uccisione, nondimeno pareva che poco si diminuissero le lor forze, conciosiachè noi fussimo astretti a combattere tutto 'l giorno intero ed essi per spazio di poche ore, avendo modo da potersi cambiare: e tuttavia crescevano, e in un medesimo dí ferirono cinquanta o sessanta Spagnuoli, ancora che non ne morisse alcuno. Combattemmo insino a notte, e stanchi ritornammo alla fortezza.
Considerato il grandissimo danno fattoci da' nemici, e che essi stando in luogo sicuro ne ferivano e uccidevano, e il danno che noi facevamo loro non si vedeva, essendo la moltitudine infinita, quella notte e il giorno seguente consumammo in fabricar tre macchine di legno, in ciascuna delle quali potevano star dentro venti soldati, che non potevano esser offesi da' sassi che gli Indiani gettavano dalle terrazze. E di quegli che vi erano dentro alcuni portavano schioppi o balestre, e altri martelli aguzzi di ferro e vanghe e zappe, per cavare e rompere le case e guastar li ripari che avevano fatti per le contrade. Quando noi attendevamo diligentemente a far le macchine, gli nemici però non mancavano di combatterci, di maniera che, mentre noi non uscivamo della fortezza, essi facevano ogni sforzo d'entrarvi: a' quali, acciochè non vi entrassero, con grandissima difficoltà e fatica potevamo resistere. Ma il detto Montezuma, il quale sempre insieme col figliuolo e con molti baroni ritenuti da principio era dimorato appresso di noi, disse che lo conducessimo nella terrazza della fortezza, che aveva deliberato di parlare ai capitani di quel popolo, e sperava di fare che si rimarriano da tale assedio. Comandai che fusse cavato fuori, e, affacciatosi ad una volta per parlar con loro di quivi, i suoi gli percossero la testa con un sasso, e gli fecero sí crudel ferita che per spazio di tre giorni se ne morí. Comandai a due Indiani ch'io teneva prigioni che lo cavassero fuori della fortezza: essi lo portarono al popolo, nondimeno quel che avenisse non lo so; ma per questo non cessò il combattimento, anzi ogni giorno s'accresceva e diventava piú gagliardo e maggiore.
Come gli Indiani chiamano il Cortese a parlamento, e quello gli dissero e la risposta fattali. Come i Spagnuoli uscirono con le macchine e combatterono longamente. I nemici prendono una gran moschea e fanno gran danni ai Spagnuoli. Il Cortese, uscito della fortezza, prende una torre e la moschea e v'appiccò il fuoco.
In quel medesimo dí, a quell'istesso luogo dove avevano ferito il signor Montezuma, chiamarono me con dirmi ch'io andassi là, che alcuni de' lor capitani desideravano parlar meco: e cosí feci. Parlammo di molte cose, e dimandai perchè m'assediassero, non avendo cagione alcuna, e che guardassero quanto bene avevano avuto da me e quanto mi fussi portato bene con esso loro. Rispondevano che s'io mi partiva della provincia subito cessarebbe l'assedio, altramente io tenesse di certo che volevano o tutti morire o del tutto mandar noi in ruina; i quali, sí come poi si vidde, dicevano cosí in fin che io uscissi della fortezza, e nell'uscir della città a lor piacere ritenermi tra i ponti. Risposi che non dovevano pensare ch'io dimandasse la pace perch'io temesse di cosa alcuna, ma per dispiacermi e aver dolore del danno fatto loro, e d'esser costretto a distruggere sí famosa città come era quella. Mi davano la medesima risposta, che non lasciariano il predetto assedio se non uscisse della città.
Fornite le machine, subito usci' fuori per combattere alcune terrazze e ponti, mandando avanti gl'Indiani, e dopo loro quattro pezzi d'artegliaria, e molti altri con balestre e rotelle, e piú di tremila Indiani che erano venuti meco delle provincie di Tascaltecal e servivano gli Spagnuoli. Poichè fummo arrivati al ponte, accostammo le machine alle mura di certe terrazze, e le scale che avevamo portate per salirvi; ma tanta moltitudine d'uomini difendeva il ponte e le terrazze, e tanto spessi e grossi erano i sassi che essi a forza gettavano, che fracassarono le nostre machine, e uccisero uno Spagnuolo e molti ne ferirono: e benchè gagliardamente si fusse combattuto, nondimeno non potemmo avere uscita alcuna. Combattemmo dalla mattina a buon'ora insin a mezzogiorno, e con grandissimo nostro dispiacere ne ritornammo alla fortezza, onde gli nemici presero tant'animo che ardivano di scorrere fino alle porte della fortezza, e presero quella gran moschea. E forse cinquecento uomini de' primi salirono in una delle piú alte e gran torri di quella, e vi portarono di molta vettovaglia, come pane e acqua e altri cibi, e grandissima copia di sassi, e la maggior parte di loro aveva le aste con le punte di pietra larghe piú delle nostre e non meno aguzze, e da quella torre offendevano grandemente i nostri che erano nella fortezza congiunta con quella.
A questa torre gli Spagnuoli diedero l'assalto invano due o tre volte, e per salirvi fecero arditamente ogni sforzo: ed essendo alta e difficile da salire, che era piú di cento gradi, e coloro che stavano di sopra essendo forniti di sassi e di molte altre sorti d'arme, e avendo preso maggiore ardire per non aver noi potuto occupare alcuna delle terrazze, non cominciò mai a salirvi alcuno degli Spagnuoli che scendendo non ne cadesse, e ne ferivano molti. Coloro che vedevano far queste cose prendevano tanto animo, che senza paura davano l'assalto alla fortezza. Io, vedendo che, se essi tenevano longamente quella torre, oltra i danni ogni giorno fattici crescerebbono d'ardire per offenderci, uscii della fortezza, benchè poco mi potesse prevaler della man sinistra per una ferita datami da loro il primo giorno. Legatami la rotella al braccio, con certi Spagnuoli che mi seguitarono m'appressai alla torre e procurai che diligentemente il piè di quella fosse circondato, e coloro che la circondavano non riposavano, anzi da ogni lato combattevano co' nemici, e per dar soccorso a quegli che stavano nella torre corsero molti. Noi cominciammo a montar su le scale, e benchè con ogni sforzo difendessero il salirvi, tre solamente o quattro Spagnuoli gettarono giú dalle scale. Vi salimmo finalmente, con l'aiuto del Salvator nostro e della beatissima sua madre Maria, e combattemmo tanto gagliardamente nella parte di sopra della torre, che gli sforzammo dalla detta torre saltare in una loggia che circondava la torre, di larghezza d'una statura d'un uomo. Ed erano d'intorno alla torre tre simili a quella, distanti quasi quanto sariano tre stature d'uomini. Alcuni di loro cadettero dalla cima al piè della torre, i quali, oltra che pativano per la caduta, quivi erano uccisi dagli Spagnuoli; ma quegli che erano fermi nelle dette loggie combatterono tanto gagliardamente con noi che consumammo tre ore prima che gli potessimo uccidere, de' quali niuno scampò, ma tutti furono uccisi. E Vostra sacra Maestà presti fede alle mie parole, che fu cosa tanto difficile l'espugnar questa torre che, se Iddio non avesse tolto loro le forze e l'animo, venti di loro facilissimamente averiano potuto vietare il salirvi a mille spagnuoli, benchè fortemente avessero combattuto insino alla morte. Procurai di metter fuoco a quella torre e a tutte le cose che erano nella detta moschea, dalle quali già avevano levate tutte l'imagini che noi vi avevamo poste.
Come gl'Indiani avevano al tutto deliberato d'uccider gli Spagnuoli. Come gli Spagnuoli uscirono e abbrucciorono assaissime case, terrazze e torri e presero quattro ponti, e come gli riempierono, e molti Spagnuoli furono feriti.
Espugnata che fu questa torre, perdettero alquanto l'ardire, e talmente che in molti luoghi si ritirarono. Io allora ritornai a quella terrazza e chiamai quei capitani che prima m'avevano parlato, i quali parevano alquanto avere abbassato l'ardire per le cose che avevano viste, e subito s'avicinarono; e dimostrai loro che ormai non mi potevano resistere, e che noi ogni dí facevamo loro grandissimo danno e assaissimi n'erano uccisi, e abbrucciavamo e distruggevamo la lor famosa città, né cesseremmo finchè di lei e di loro vi fusse vestigio alcuno. Risposero che ben vedevano il gran danno che ricevevano da noi e che molti ne morivano, nondimeno che essi avevano del tutto deliberato d'ucciderne; e mi dicevano ch'io guardassi le contrade, le piazze e le terrazze tutte piene d'uomini, perchè affermavano aver fatto conto che se di loro ne morissero ventimila e de' nostri uno, che tosto ne ridurrebbono a niente, dicendo noi esser pochi e che erano essi senza numero, e ne certificavano tutte le strade mattonate per le quali s'andava in terra ferma esser state guaste, come con effetto erano, salvo una, e da niuna parte ci era aperta la via se non per acqua; e ben dovevamo sapere che non avevamo abbondanza di vettovaglie né d'acqua, e non poter resister molto, che moriremmo di fame, ancora che essi non n'uccidessero. E certamente dicevano il vero, che, se non avessimo avuto altro combattimento che la fame e la carestia delle vettovaglie, era a bastanza a farne morire. Contendemmo assai, e ciascuno difendeva la sua causa.
Venuta la notte uscii in compagnia d'alcuni Spagnuoli e, trovando gli Indiani alla sprovista, per forza prendemmo una contrada e in quella abbrucciammo piú di trecento case; e mentre vi concorreva la moltitudine me ne ritornai per un'altra, e a questo modo abbrucciammo piú case di quella contrada, e massimamente certe terrazze vicine alla nostra fortezza, dalle quali n'offendevano grandemente. Per le cose fatte in quella notte mettemmo loro qualche spavento, e nella medesima notte attesi a rifar quelle machine di legno che l'altro giorno ci avevano fracassate, per attendere alla vettoria che l'onnipotente Iddio ci donava. Andai alla medesima contrada dove il giorno avanti ci avevano guaste le machine, e quivi non men gagliardamente che con valoroso animo ne fecero resistenza. Nondimeno, trattandosi della vita e dell'onore, essendo quell'una sola strada rimasa intera di quelle che conducevano in terra ferma, benchè prima che avessimo potuto giugnere a quella vi fussero di mezzo due grandissimi e alti ponti e tutta la contrada fusse fortificata di pareti altissimi, di case e di torri, ci venne lume di tanto vigore e ardimento e combattemmo di maniera che, prestandoci Iddio e favore e aiuto, pigliammo in quel giorno quattro ponti, e furono abbrucciate tutte quelle terrazze e case e torri insino all'ultima; benchè la notte avanti avevano fatti molti ripari di mattoni crudi e di creta ne' detti ponti, per le cose avenute la precedente notte, di modo che l'arteglierie e le balestre non potevano lor nuocere; i quali quattro ponti riempiemmo di terra e di mattoni crudi, e di molti sassi e di travi delle case abbrucciate. Nondimeno non si poté far tanto che non fossero feriti molti Spagnuoli. Usai gran diligenzia quella notte in guardar quei ponti, acciochè di nuovo non ce gli ritogliessero.
Come gli Spagnuoli pigliano gli altri ponti; i nemici fanno patto dell'accordo; i detti ponti piú volte per l'una e l'altra parte si pigliano e ripigliano. Del ponte che fece fabricar il Cortese, e come a compiacenzia de' suoi soldati uscí della città, consegnato l'oro e le gioie della sacra Maestà alli giudici e reggenti. Come nel passar combatterono fortemente e gli Spagnuoli perdettero l'oro, le gioie, le vesti e l'artegliarie ch'avevano cavate, e andorno a Catacuba città, sempre combattendo.
Il giorno seguente, la mattina a buon'ora uscii e Iddio onnipotente mi concedette buon successo, perciochè, avegna che fusse infinita la moltitudine che difendeva gli altri ponti, e v'erano di mezzo e fossi e argini grandissimi, noi gli pigliammo ed empiemmo, e alcuni a cavallo perseguitarono gl'Indiani sino in terra ferma seguitando la vettoria. Mentre io faceva acconciar li ponti e riempierli, vennero a chiamarmi con gran prestezza, dicendo che gl'Indiani che avevano combattuto la fortezza desideravano la concordia e la pace, e che aspettavano certi lor signori e capitani. Quivi lasciati tutti i miei soldati e certi pezzi d'artegliaria, con tutta la cavalleria andai a vedere quel che volessero quei baroni, i quali affermarono che, se io prestassi lor fede e perdonassi loro i commissi falli, non combatterebbono piú contra di me, e di nuovo procureriano di far rifar i ponti e le strade ruinate, e sariano al servizio di Vostra Maestà come avevano fatto prima; e che io facessi menar quivi un certo de' lor religiosi prigione appresso di me, il quale essi onorano come generale della lor religione. Venuto che fu, parlò loro, e tra loro e me confermò il patto. E subito si vidde, come egli affermava, che avevano comandato a' soldati, i quali stavano ne' forti, che subito si rimanessero del combattere la detta fortezza e da ogn'altra offensione: e con questo patto ci partimmo.
Entrato nella fortezza, avevo cominciato a desinare quando mi fu nunziato che gl'Indiani di nuovo avevano pigliati i ponti, i quali in quel giorno noi gli avevamo guadagnati loro, e avevano uccisi alcuni Spagnuoli; per la qual nuova Dio sa quanto dispiacere mi s'aggiugnesse, perciochè m'aveva pensato che, presi li ponti, avendo l'uscita libera in terra ferma, non mi restasse gran difficoltà. Con la maggior prestezza ch'io potei cavalcai là, e quanto piú tosto potei, con alquanti a cavallo che mi seguitarono, camminai tutto quello spazio e senza fermarmi in luogo alcuno di nuovo corsi in mezzo degl'Indiani, e ripresi li detti ponti e perseguitai loro sin in terra ferma, che, essendo i miei fanti a piè stanchi per la fatica e feriti e impauriti, e vedendo il presente pericolo, niuno di loro seguitò. Onde avenne che, volendo io poi ritirarmi, trovai li ponti già presi dagl'Indiani, e avevano già tolta via gran parte di quella materia dai ponti della quale io gli aveva fatti riempiere, e nella città si vedeva ogni cosa piena di moltitudine, e per terra e per il luogo nelle canoe; la qual moltitudine aventava tanto spesso da ogni banda e dardi e sassi sopra di noi che, se l'onnipotente Iddio miracolosamente non ci avesse liberati da quel pericolo, era impossibile scampare: e già publicamente, tra' Spagnuoli che erano rimasi nella città, s'era sparsa la fama ch'io ero morto. Ed essendo giunto all'ultimo ponte vicino alla città, trovai tutti li cavalieri i quali erano venuti meco esser in quello caduti, e un cavallo sopra 'l quale non era alcuno, e non lo potei passare, e io solo fui astretto ad assalire gli nemici: e a questo modo i cavalieri ebbero spazio di poter passare il ponte, il quale trovai esser vacuo e passai con gran pericolo, perciochè dall'una e dall'altra parte, per tanto spazio quanto saria la statura d'un uomo, bisognava saltar col cavallo. E mentre io usciva del ponte, percotevano me e 'l cavallo con bastoni; nondimeno, essendo bene armati, altro male non ci fecero piú che 'l dolore che pativamo per la percossa, onde rimanemo vincitori, avendo presi quattro ponti. Agli altri quattro avendo lasciato buona guardia, me n'andai alla fortezza, e feci fabricare un ponte di legno, che commodamente lo potevano portar quaranta uomini.
Considerato il gran pericolo nel quale eravamo e il grandissimo danno che ogni giorno ci facevano gli Indiani, e temendo che non guastassero, come aveano fatto l'altre, anco quella via mattonata che vi era sola rimasa, la quale essendo guasta saremmo astretti a morire; e anco perchè molte volte fui pregato da' miei soldati che ci partissimo della città, che la maggior parte di loro erano feriti, e sí malamente che non potrebbono piú combatter co' nemici; quella notte deliberai di compiacer loro e, pigliato l'oro della Maestà Vostra e le gioie che si potevano cavare, in quella sala in picciole some le consegnai agli ufficiali di Vostra Maestà, i quali io avevo ordinati per nome di lei, e ai reggenti e ai giudici e altri che si trovavano esser presenti, e gli pregai e confortai che dessero favore e aiuto a cavarle fuori. E a questo effetto diedi loro una mia cavalla, sopra la quale ne posero quella parte ch'ella poteva portare, e ordinai che certi Spagnuoli e miei famigliari e d'altri andassero accompagnare detta cavalla, e il resto del detto oro gli ufficiali, i giudici e i reggenti e io lo demmo e compartimmo tra Spagnuoli, che lo cavassero fuori. E lasciata la fortezza con gran richezze e della Altezza Vostra e de' Spagnuoli e mie, per lo piú secreto modo che potemmo uscimmo, e menammo con noi uno de' figliuoli e le figliuole del detto Montezuma, e Cacamacin, signore in Aculuacan, e suo fratello, che io avevo fatto signore in luogo suo, e i signori d'altre provincie e città, i quali io tenevo prigioni. Ed essendo giunto ai ponti occupati dagli Indiani, nel primo gettammo il ponte che avevo fatto portar con esso noi senza molta fatica, perciochè niuno ci faceva resistenza, eccetto alcune guardie che stavano nel ponte, le quali si misero a gridare. E prima che io arrivassi al secondo ponte, si ragunò infinita moltitudine de' nemici, e da ogni banda, e per acqua e per terra, si studiava d'offenderci. Io subito passai con cinque a cavallo e forse cento fanti, co' quali nuotando passammo tutti i ponti, e gli avevo occupati tutti sino in terra ferma; e lasciati a fronte i fanti, ritornai al secondo ponte a coloro che erano nell'ultima squadra, dove trovai che si combatteva sí fortemente che non si può estimare il danno che gli Indiani facevano, e agli spagnuoli e agli Indiani di Churultecal che erano venuti con esso noi, i quali gli avevano quasi tutti uccisi, e anco avevano uccise molte donne che servivano agli Spagnuoli, insieme con gli Spagnuoli e cavalli. E già avevano perduto l'oro e le gioie e le vesti, e molte altre cose che noi cavamo fuori, e tutte l'arteglierie. Ragunai quegli che erano rimasti vivi e comandai che essi andassero avanti, e io, accompagnato da forse cinque a cavallo e settanta fanti, che avevano avuto ardire di restar meco, rimasi dopo loro, sempre combattendo co' nemici, finchè arrivammo ad una certa città nominata Catacuba, la quale è posta fuori oltra tutta la strada mattonata. Dove Iddio mi è testimonio quanta fatica e pericolo io sostenessi, perciochè, ogni volta che andavo addosso a' nemici, ne ritornavo pieno di freccie e percosso da ogni banda da' bastoni e da' sassi, conciosiachè dall'uno e l'altro lato vi fusse il lago, e coloro che erano nelle canoe sicuramente ne potevano ferire, e quegli che pigliavano terra, subito che andavo loro adosso, si gettavano in acqua e a quel modo pativano poco danno, se non alcuni che, essendo la moltitudine grandissima e l'uno urtando l'altro, cadevano e s'uccidevano. Con tal fatica e travaglio gli condusse tutti alla detta città, che non ferirono se non uno a cavallo che veniva dopo me. E combattevasi con grande sforzo per fronte e per fianchi, ma con maggior impeto alla coda, perciochè la moltitudine che era nella città sempre sottentrava a combattere piú fresca.
Il contrasto ch'ebbe il Cortese partendosi di Catacuba, e fortificatisi in un colle furono longamente combattuti. Il numero degli Spagnuoli e suoi Indiani e Indiane che si trovarono mancare. Il figliuolo e figliuole del Montezuma furono uccisi. Come, posti i soldati in ordinanza, e caminarono tutto il giorno combattendo, e arrivati ad uno ottimo albergo si fortificarono.
Ed essendo giunto alla detta città di Catacuba, già essendo giorno, trovai i nostri soldati in una delle piazze della città che s'erano ristretti insieme, dicendo di non saper dove s'andare, a' quali comandai che s'affrettassero d'uscir della città, prima che il numero degli nemici crescesse e occupasse le terrazze, che da quelle ci potevano offendere grandemente. Quegli che erano posti alla fronte dissero di non saper dove andare; io gli misi alla coda, e io andai alla testa finchè uscissimo della città. Gli aspettai in certi campi lavorati, e quivi essendo giunti quegli ch'erano rimasi alle spalle, intesi che avevano ricevuto grandissimo danno, e che erano stati uccisi alcuni Spagnuoli e Indiani, e rimaso nel viaggio molto oro, il quale gli nemici andavano raccogliendo. Quivi combattei con gli Indiani finchè i miei passassero avanti: gli sostenni finchè i nostri occuparono un colle, nel quale era una torre e un albergo assai forte, e l'occuparono senza nostro danno, perciochè non mi partii de lí, né lasciai passar gli nemici, finchè i nostri non presero il colle. Dove sa Iddio che fatica abbiamo sopportata, conciosiachè già niuno de' cavalli, che n'erano rimasi ventiquattro, poteva correre, né cavalieri che potessero alzar le braccia, né alcuno de' fanti non infermo che si potesse mover piú. Ed entrati in quello albergo, in esso ci fortificammo, e quivi fummo combattuti insino a notte, di maniera che non potevamo riposar un'ora. Di questo travaglio, fatta la rassegna, trovammo che erano morti degli Spagnuoli centocinquanta, e tra cavalle e cavalli quarantasei, e piú di duomila tra Indiani e Indiane che servivano a' Spagnuoli: tra' quali uccisero il figliuolo e le figliuole di Montezuma e gli altri che menavamo prigioni.
A mezzanotte, pensando di non esser uditi da alcuno, tacitamente ne partimmo dall'albergo, lasciandovi dentro molti fuochi: e niuno era tra noi che sapesse dove fussimo o dove dovessimo andare, se non uno del paese di Tascaltecal, che affermava di volerci guidare nella sua provincia, se 'l viaggio non ci fusse impedito. Appresso il detto albergo erano state poste molte sentinelle, che, subito che ci sentirono, gridando chiamarono in aiuto le città vicine, e da quelle fu mandata fuori gran moltitudine d'Indiani, la quale ne seguitò insino al giorno. E cinque a cavallo, che andavano avanti per discoprire, andarono adosso ad una squadra d'Indiani che nel viaggio s'era fatta loro incontra, e n'uccisero alcuni di essa, i quali, non servando l'ordine, si erano sparsi, che si pensavano che seguitassero piú cavalli e fanti. E perciochè d'ogn'intorno crescevano gli nemici, di tutti i soldati che erano tra noi feci scelta de' piú sani e gli misi in ordinanza, ponendogli alla fronte, alle spalle e a' fianchi, e ordinai che li feriti stessero in mezzo, e compartii gli uomini a cavallo: e con quell'ordine camminammo tutto 'l giorno combattendo d'ogni banda, di maniera che in quella notte e in tutto 'l giorno non andammo piú di tre leghe. E per grazia d'Iddio, venendo già la notte, vedemmo una certa torre e un ottimo albergo dove ci fortificammo; e quella notte si rimasero di combatterci, benchè quasi all'alba avessimo qualche tumulto, avegna che non sapessimo che altro aver piú da temere che la moltitudine la qual ne perseguitava.
Come il Cortese, quindi partendosi, fu perseguitato di giorno in giorno sempre combattendo, e ogni dí piú acrescendo la moltitudine di quelle genti. Come trovò un aguato e combattette con loro e fu ferito da due colpi di sassi, e il seguente giorno gli Spagnuoli furono assaltati da un'altra molto maggior moltitudine, e gli misero in rotta e sconfissero, e morti assaissimi de' lor principali e ucciso il capo loro.
Il giorno seguente alla prima ora del giorno col medesimo ordine mi partii menando i soldati e alla coda e alla testa apparecchiati; nondimeno dall'uno e l'altro lato gli nemici ne perseguitavano, gridando e chiamando per tutta quella provincia, la quale era molto abitata. E benchè fussimo pochi a cavallo, pur gli assaltavamo; nondimeno poco danno facemmo loro, che, essendo quel colle aspro, in quello si ritiravano. E cosí in quel giorno camminammo a lato a certi laghi, finchè arrivammo ad una certa città, dove pensavamo aver qualche contrasto con gli abitatori di quella: e subito che giugnemmo, abbandonate le case, se n'andarono ad altre città vicine. E quivi dimorammo quel giorno e l'altro, perciochè e li sani e gl'infermi erano stanchi per la fatica e per la fame e arsi per la gran sete, e i cavalli non si potevano piú sostenere in piè; e quivi trovammo del maiz, del quale mangiammo, e lesso e arrostito ne portammo con noi in viaggio. Il giorno seguente mi partii, essendo sempre seguitato da' nemici, i quali e di dietro e davanti di continuo ci assalivano con altissimi gridi. Seguitammo il cammino, per il quale ne conduceva uno di Tascaltecal, dove patimmo varie fatiche e travagli, perchè molte volte eravamo astretti ad uscire e traviare dal dritto cammino. E avicinandosi la sera venimmo ad una certa pianura, nella quale erano alcune picciole abitazioni, e quella notte alloggiammo incommodamente e con carestia di vettovaglie.
L'altro giorno, la mattina a buon'ora, cominciammo indirizzarci al viaggio, nel quale non eravamo ancora entrati quando gli nemici ne cominciarono a seguitare, e con loro scaramucciando arrivammo ad una gran terra, al cui sinistro lato, in cima d'un picciolo colle, erano alcuni Indiani. Noi pensando di potergli prendere, essendo vicini al nostro cammino, e per certificarne se fussero piú di quelli che si vedevano, me n'andai là accompagnato da cinque cavalli e dodeci fanti, circondando il colle; dopo il quale era una grandissima moltitudine d'uomini posti in aguato, co' quali combattemmo tanto che, essendo il luogo dove si erano fermi alquanto aspro e sassoso, e la gente infinita e noi pochi, fu necessario ritirarsi verso la terra dove erano i nostri, e de lí mi partii malamente ferito da due colpi di sassi. Poichè m'ebbi legate le ferite, ordinai agli Spagnuoli che si partissero della terra, perciochè non mi pareva che l'alloggiamento fusse sicuro, e procedendo di questa maniera, seguitati dagl'Indiani, andammo ad un'altra terra che dalla sopradetta era distante due leghe: e quivi nel viaggio un numero infinito d'Indiani ci assaltò, e combatterono con noi talmente che ferirono quattro o cinque Spagnuoli e altrettanti cavalli, e un cavallo uccisero. E benchè il mancamento di quello ci fusse di grandissimo incommodo e ci gravasse molto la sua morte, che dopo Iddio non avevamo difesa alcuna se non li cavalli, nondimeno ci ristorò grandemente, e mangiammo la sua carne e la sua pelle, di modo che nulla vi rimase, tanto eravamo stretti dalla fame; perciochè, dopo la nostra partita dalla gran città, non avevamo mangiato cosa alcuna se non maiz lesso e arrostito, ma di maniera che mai non ne restavamo satolli, e similmente erbe che coglievamo ne' campi.
E considerato che ogni giorno crescevano le genti de' nemici e noi ogni giorno scemavamo, quella notte, medicati li feriti e gl'infermi che menavamo, ordinai che alcuni fussero posti a cavallo, ad alcuni feci metter le crocciole sotto le braccia, e feci fabricare altre sorti di sostegni e aiuti per far viaggio, acciochè gli Spagnuoli che erano senza infermità o ferite fussero liberi al combattere. E penso che Iddio mi concedesse tal providenza, sí come per prova si vidde il giorno seguente, perciochè, essendomi quella mattina partito dal detto albergo, ci assaltò una grande e infinita moltitudine d'Indiani e tanta di dietro, dinanzi e da' fianchi che niente appariva di vacuo della campagna che mi era posta davanti; e attaccarono con noi d'ogni banda sí aspra battaglia che noi non ci potevamo conoscere l'un l'altro, tanto camminavamo stretti e mescolati insieme. E certamente credemmo quello esser l'ultimo giorno della vita di tutti noi, considerando la moltitudine de' nemici e la debolezza che trovarono in noi da resister loro, essendo tutti quasi feriti e mezzi morti; nondimeno l'onnipotente Iddio si degnò mostrar la sua misericordia, perciochè con la nostra stanchezza rompemmo la ferocità e superbia loro, e de' loro principali furono morti assaissimi, essendo tanta la moltitudine che combattendo s'impedivano l'un l'altro. Camminammo con questa fatica la maggior parte del giorno, finchè l'onnipotente Iddio ne fece grazia che fusse ucciso colui che era il capo tra' nemici, il qual tolto via cessò ogni combattimento: e a quel modo stemmo alquanto spazio quieti, benchè ne seguitassero andandone sempre toccando insino ad una certa picciola casa che era nella pianura, dove quella notte alloggiammo al sereno, donde vedevamo certi monti della provincia di Tascaltecal. Della qual cosa presi non picciolo piacere, conoscendo la provincia e verso qual luogo dovevamo andare, ancora che non tenessimo per certo gli abitatori di quella provincia esserci fedeli amici, perciochè credevamo, vedendoci cosí debili, dovessero esser quelli che ponessero fine alla nostra vita per conseguir la pristina libertà: il qual sospetto ci arrecò tanta afflizione quanta n'avevamo quando combattevamo co' nemici.
Come il Cortese arrivò nella provincia di Tascaltecal alla città di Gualipan, dove fu benignamente ricevuto e visitato da tutti i signori di quelle provincie; e, fattoli molte offerte, l'accompagnarono ad una città poco distante, acciò si riposasse e ristorassesi, dove intese che un suo famigliare, che li portava oro e altre cose al valor di trentamila pesi d'oro, fu ucciso dagli Indiani di Culua, e che gli Spagnuoli che erano rimasi nella città di Veracroce erano salvi.
Il giorno seguente, la mattina all'alba, cominciammo ad entrare in una via piana per la quale a diritto s'andava alla provincia di Tascaltecal, e per la quale pochi de' nemici ne seguitarono, benchè quivi fussero vicine assaissime e grandissime città; nondimeno da quelle picciole colline alcuni da lontano ne gridavano dietro. E cosí in quel giorno, che fu di domenica, agli otto di luglio 1520, uscimmo di tutta la provincia di Culua e arrivammo ai luoghi della detta provincia di Tascaltecal, alla città di Gualipan, che ha quasi quattromila case; dove fummo dagli abitatori ricevuti benignamente, e ci ristorammo alquanto dalla fame e dalla stanchezza che pativamo, benchè molte cose da viver che ne davano ne le davano per danari, e alcuni non volevano se non oro, ed eravamo a forza costretti a darlo per la necessità che pativamo. Qui stemmo tre giorni, dove mi vennero a vedere il magiscacin di Secutengal e tutti i signori di quelle provincie, e si sforzarono di consolarmi circa le cose che m'erano intervenute, dicendo che spesso mi avevano avisato che quegli di Culua erano traditori, e che mi dovessi guardar da loro, nondimeno che io non avevo voluto mai prestar lor fede. Ma, poi che io avevo scampata la vita, dovessi rallegrarmi, che erano per darmi aiuto finchè avessero lo spirito, per ristorarmi del danno che quei di Culua mi avevano fatto, perchè, oltra l'obligo che erano sudditi dell'Altezza Vostra, si dolevano e attristavano della morte di molti lor fratelli e figliuoli che nella mia compagnia erano stati uccisi, e d'altre varie ingiurie fatte da quegli a loro ne' tempi passati. E che io tenesse per certo che mi sariano fedeli e veri amici, e perchè io e gli altri miei compagni tutti eravamo feriti, dovessimo andare ad una città che era distante quattro leghe da quella terra, e quivi ci riposaressimo, e che provederiano che fussimo medicati e ristorati delle nostre fatiche e stanchezza. Gli ringraziai e acconsentii alla lor richiesta, e feci lor parte d'alcune tarsie di quelle che avevamo portate, benchè poche, delle quali ebbero gran piacere. Andai con loro alla città e avemmo buono albergo, e 'l magiscacin providde che mi fusse portato un letto composto di legni con alcuni ornamenti che essi usano, dove io dormi', che non ne avevamo portato alcuno con esso noi; e ci fece parte d'ogni cosa che aveva e poteva per nostro ristoro.
In questa città alcuni miei famigliari e altri della mia compagnia, quando passai andando alla città di Temistitan, lasciarono alcune cose (cioè argento, vesti e altri ornamenti di casa, e alcune cose da vivere, che le facevo condur meco) acciò fussimo piú ispediti nel viaggio, se cosa alcuna c'intervenisse, che non fussemo impediti d'alcun altro peso che delle proprie vesti e arme. E intesi che uno altro mio famigliare venuto dalla città della Veracroce mi portava vettovaglie e altre cose, e con lui esser cinque a cavallo e quarantacinque fanti oppressi da malatia, i quali similmente avevano portate certe cose ivi rimase, e già erano risanati, e tutto l'argento e altre cose e mie e de' miei compagni, e settemila pesi d'oro colato (contiene il peso dell'oro il valor quasi di due fiorini), i quali io avevo lasciati ivi in due casse, e altri fregi e ornamenti, oltra gli altri quattordecimila castigliani in pezzi d'oro che aveva avuti nella provincia di Teuchitibeque quel capitano ch'io mandavo a fabricar nuova città in Quacucalco, ed egli quivi gli avea lasciati, e molti altri, al valor di piú di trentamila pesi d'oro. E li predetti Indiani di Culua l'avevano ucciso nel viaggio insieme co' detti Spagnuoli, e gli avevano tolto ogni cosa che portavano, e alcune scritture che io avevo raccolte insieme con gli abitatori di queste provincie. Similmente intesi che avevano uccisi piú Spagnuoli nel viaggio, che andavano alla città di Temistitan, pensandosi che io quivi me ne vivesse pacificamente, e che le strade fussero sicure come solevano esser prima. Per la qual cosa (io dico il vero alla Maestà Vostra) tutti sí fortemente ci attristavamo e dolevamo che nulla piú ci potevamo dolere né attristare, perciochè, oltra la perdita de' detti Spagnuoli e dell'altre cose, che erano molte, vi fu il ritornarci alla mente la morte degli Spagnuoli uccisi nella gran città e ne' ponti e ciò che poi n'intervenne nel viaggio, e massimamente che mi avevano messo in sospetto che avessero assaliti ancora quegli che erano rimasi nella città della Veracroce, e coloro che erano amici nostri, udita la nostra rotta, si fussero ribellati. E subito ispedi' alcuni nunzii con certi Indiani che gli guidassero, a' quali ordinai che non andassero insino a quella città per le strade comuni, e che tosto mi avisassero di ciò che ivi si faceva. Piacque all'altissimo Iddio che fussero trovati salvi gli Spagnuoli, e tutti li paesani che avevamo per confederati star pacifici e quieti: la qual nuova apportò grandissimo alleviamento alla nostra perdita e maninconia, e all'incontro essi presero dispiacere della nostra rotta.
Stetti in questa provincia di Tascaltecal venti giorni attendendo a far medicar le mie ferite, le quali erano cresciute e per la longhezza del viaggio e per non averle medicate, e massimamente quelle della testa; il simile facendo delle ferite de' miei compagni, de' quali alcuni morirono in parte per le ferite e in parte per le patite fatiche, e alcuni rimasero storpiati o zoppi per le ferite, e pochi medicamenti e ripari si trovavano per rimedio, e io rimasi storpiato di due deta della mano sinistra.
Come il Cortese, esortato da' Spagnuoli d'andar alla città di Veracroce, non volse acconsentirli, ma se n'andò alla provincia Tepeaca, dove gli si fecero incontro assaissime genti con arme, i quali, venuti alle mani, furono in gran parte uccisi; e il Cortese in venti giorni soggiogò molte città e terre, scrisse per ischiavi alcuni degli abitatori, e perchè. Del giunger di Francesco di Garai al porto di Veracroce, mal in punto, uccisi e feriti molti de' suoi.
Li miei compagni, vedendo già molti esser morti e quegli che erano rimasi vivi esser deboli e pieni di ferite, divenuti piú timidi per li pericoli e per le fatiche nelle quali si erano ritrovati, temendo delle cose future, mi richiesero ch'io dovessi andare alla città della Veracroce, e quivi ci fortificaremmo prima che gli abitatori delle provincie amici nostri, sapendo la nostra rotta e le picciole forze, facessero lega co' nostri nemici e occupassero gli stretti e li passi per i quali dovevamo andare, e ne assalirebbono da un lato, e dall'altro quei della città della Veracroce; ed essendo noi uniti, e anco essendo quivi le navi, saremmo piú sicuri e meglio ne potremmo difendere se ne volessero assalire, finchè mandassimo all'isole per dimandar soccorso. E vedendo che, se io mostrasse a' paesani e massimamente agli amici paura alcuna, potrebbe esser cagione che piú tosto n'abbandoneriano e si leveriano contra di noi, e tenendo a memoria che sempre la fortuna aiuta gli audaci, e che noi eravamo cristiani, e confidatomi nella divina bontà e misericordia, che del tutto non moriremmo, e si perderebbono tante e sí nobili provincie che sí pacificamente possedevo per la Maestà Vostra, e in tale stato che le pacificaremmo; né si lasciarebbe tal servizio continuando la guerra che si faceva, per via della quale doveva seguir la quiete di tutte quelle provincie, come era stato prima; perciò deliberai per niun modo passar li monti verso 'l mare, ponendo da banda tutte le fatiche e disagi che potessimo patire, e dissi ch'io non volevo rimanermi da questa guerra, perciochè, oltra il biasimo e la vergogna che ne risultava alla mia persona e miei compagni, era cosa di molto pericolo a Vostra Maestà, e pareva che noi facessimo congiura contra di lei. Anzi, io avevo determinato in tutti i modi a me possibile ritornar contra gli nemici e offendergli in tutto ciò che io potevo. E cosí, essendo dimorato venti giorni in questa provincia, non guarito ancora delle ferite, co' compagni deboli, andai ad un'altra provincia nominata Tepeaca, che era confederata con quegli di Culua nostri nemici, nella quale io avevo inteso che erano stati uccisi dieci Spagnuoli che venivano dalla città della Veracroce alla gran città di Temistitan, perciochè per quella provincia era il dritto viaggio a Temistitan. La provincia di Tepeaca confina con Tascaltecal, la quale è grandissima provincia. E nell'entrar della provincia di Tepeaca ci si fecero incontra con l'arme assaissime genti, e ne vietarono l'entrata con ogni loro sforzo, ponendosi ne' luoghi difficili e forti. E per non andar raccontando particolarmente ogni cosa che ne occorse in quella guerra, perciochè sarei molto lungo e molto accrescerei il libro, fatta l'ammonizione che dovessero venire a dar ubbidienza a' comandamenti fatti loro circa la pace per nome di Vostra Maestà, e non gli volendo essi seguire, facemmo lor guerra, e spesse volte vennero alle mani con esso noi. Nondimeno, per divino aiuto e per la real fortuna di Vostra Maestà, facemmo loro gran danno e molti n'uccidemmo, ed essi in quella guerra non ferirono né uccisero Spagnuolo alcuno. E benchè questa provincia sia larghissima, nondimeno per spazio di venti giorni soggiogai molte città e terre di quella e pacifica e quietamente, e li signori e baroni di quelle vennero ad offerirsi per vassalli a Vostra Maestà, e da tutte quelle ne cacciammo via molti di Culua, che erano venuti in quella provincia per infiammar gli animi degli abitatori di quelle a far guerra, e impedire che né per forza né liberamente pigliassero nostra amicizia: di maniera che insin ora sono stato sempre occupato in questa guerra, la quale non è ancora finita, che ci rimangono ancora certe ville e terre da pacificare, le quali spero in breve col favor d'Iddio di metterle sotto la real signoria di Vostra Maestà.
In una parte di questa provincia, dove uccisero quei dieci Spagnuoli, ho scritto per schiavi alcuni degli abitatori, de' quali la quinta parte è stata consegnata agli ufficiali di Vostra Maestà, perciochè in quella gli abitatori sono sempre stati bellicosi e molto ribelli, e furono presi per forza d'arme; e oltra il delitto commesso d'aver uccisi gli Spagnuoli e di ribellarsi alla Maestà Vostra, tutti mangiano carne umana, e perciochè questo è publicamente manifesto, non mando cosa alcuna a Vostra Maestà. E anco mi son mosso a scrivergli per schiavi per metter qualche paura agli abitatori di Culua: e ne sono in quella provincia molti non dissimili a questi, e se per aventura non fussero severamente castigati, non si partirebbono mai dal mal fare. In questa guerra ci hanno dato aiuto gli abitanti di Tascaltecal, di Churultecal e di Guasucingo, che hanno con noi confermata l'amicizia, e crediamo che sempre serviranno come fedeli vassalli della Maestà Vostra.
Quando stavamo in questa provincia di Tepeaca impacciati in questa guerra, mi furono portate lettere della città di Veracroce, per le quali mi era dato aviso che due nave di Francesco di Garai erano arrivate al porto della Veracroce tutte battute: e, come già si vede, il detto Francesco di Garai di nuovo aveva mandato a quel fiume del quale già di sopra feci menzione a Vostra Maestà, e gli abitatori di quella provincia avevano combattuto con esso loro, e di loro n'avevano uccisi sedici o diecisette e molti feriti, e uccisi anco sette cavalli; e coloro che erano scampati nuotando erano entrati nelle navi e fuggendo si erano salvati. Il capitano ed essi erano gravemente battuti e feriti, e il luogotenente ch'io avevo quivi lasciato al governo gli aveva ricevuti benignamente e fatti medicare, e acciò meglio si risanassero aveva mandato una parte de' predetti Spagnuoli ad un certo signor di quella provincia, vicino alla detta città e nostro amico, dove egli ben provedeva loro di tutto. La qual cosa non fu di non minor dispiacere che li nostri patiti disagi. E forse che non gli sariano intervenute cotal cose se altre volte fusse venuto da me, come di sopra ho raccontato a Vostra Maestà, perciochè, conoscendo tutte le cose che sono in queste provincie, ne poteva esser certificato da me e non gli sariano intervenute le cose che gli erano accadute, conciosiachè 'l signore di quel fiume e della provincia, il qual si chiamava Panuco, si fusse dato per suddito a Vostra Maestà, e per segno d'ubbidienza mi aveva mandati suoi ambasciatori con certi presenti alla città di Temistitan, come dissi di sopra alla Maestà Vostra. Scrissi che, se quel capitano di Francesco di Garai si volesse partire, gli facesse ogni favore e gli desse ogni aiuto, acciò si potesse ispedire con le sue navi.
Come il Cortese, fatto consiglio con gli ufficiali, per molte ragioni deliberò di edificar una città nella provincia di Tepeaca qual si chiamasse Securezza de' Confini; e ordinò giudici, reggenti e altri ufficiali, e dove la città fu cominciata procurò di fabricarvi una rocca.
Poichè ebbi racquietata una parte di questa provincia, la quale fin ora sta pacifica e soggetta al real servizio della Vostra Altezza, io insieme co' suoi ufficiali facemmo consiglio che ordine si doveva tenere per conservazione di quella provincia. E vedendo che gli abitatori di quella, poichè si erano fatti sudditi di Vostra Altezza, se gli erano ribellati e avevano uccisi li detti Spagnuoli, e anco essendo per quella provincia il viaggio e il passo di tutte le mercatanzie dai porti maritimi all'altre provincie in terra ferma, e se la detta provincia rimanesse sola, come prima, gli abitatori della provincia e lo stato di Culua che confina con loro di nuovo gli induceriano e persuaderiano che di nuovo si levassero contra di noi e si ribellassero alla Maestà Vostra; onde nasceria impedimento e danno incredibile e alla difesa di queste provincie e al servizio di Vostra Altezza, e cessariano le mercatanzie, e massimamente che in tutta quella marina non vi erano se non due porti, e quegli molti aspri e difficili, che sono vicini a quella provincia, e gli abitatori d'essa facilmente possono andare a quelli: e per queste e per molte altre ragioni che fanno al proposito ne parve, per ischifar le sopradette cose, che in luogo piú accomodato di questa provincia Tepeaca si dovesse edificare una città, dove concorressero le qualità e cose necessarie per gli abitatori. E per mandar la cosa ad effetto ponemmo nome alla città Securezza de' Confini, e ordinai li giudici, li reggenti e gli altri ufficiali, sí come è costume di fare; e per maggior fortezza degli abitatori di questa città, in quel luogo dove ella fu cominciata, procurai che fussero portate le cose necessarie per fabricare una rocca, perciochè in questa provincia si trovano cose ottime, e in questa userò quella maggior diligenza che mi sarà possibile.
Delle provincie Guacabula e Messico, e come quelli signori vennero a darsi al Cortese e fargli intendere come erano in arme da trentamila uomini di Culua. Gli Spagnuoli che accompagnavano i detti signori, avertiti di certo inganno, gli fecero prigioni e mandarongli al Cortese; e come furono relassati, e il Cortese s'inviò alla volta di Culua per ispedir quella guerra.
Mentre io scrivevo questa relazione, mi vennero a trovare gli ambasciatori d'un signore d'una certa città, la qual si dice che è lontana quindeci leghe da questa provincia, che è chiamata Guacachula, ed è nella foce d'un monte, per la qual si passa nella provincia nominata Messico. E per suo nome mi esposero che da pochi giorni in qua erano venuti per render la dovuta ubbidienza alla sacra Maestà Vostra e se gli erano dati per sudditi e vassalli, e non gli riprendessi pensandosi che fusse di suo consentimento, perchè mi facevano certo che in quella città erano albergati molti capitani de' soldati di Culua, e in quella e per due leghe intorno erano in arme da vinticinque in trentamila uomini, stando a guardare la foce e il passo acciò non potessimo passar di là, e anco per vietar gli abitatori della detta città e dell'altre provincie confederati con quella, acciò non facessero servizio all'Altezza Vostra né pigliassero amicizia meco: e alcuni già sariano venuti al servizio di Vostra Maestà, se coloro non gli avessero impediti. E mi confortavano a dar rimedio a questa cosa, perciochè, oltra l'impedimento fatto loro, che erano di buon animo, gli abitatori della detta città e tutti i circonvicini pativano grandissimo danno, essendo infinita moltitudine di gente atta alla guerra, e n'erano sommamente gravati e trattati da loro malamente, e che toglievano le lor robbe e moglieri e altre cose: che guardasse io quel che voleva che essi facessero. Soggiunsero che, se io prestava lor favore, eseguirebbono i miei comandamenti. Poichè gli ebbi ringraziati del loro aviso e offerta, assegnai loro tredici a cavallo e ducento fanti e trentamila Indiani amici nostri, e promisero di condurgli per luogo che gli nemici non ne potrebbono aver notizia, e, giunti che fussero appresso la città, il signore e gli abitanti di quella, li vassalli e li confederati seco sariano apparecchiati e circondariano gli alberghi dove erano alloggiati li predetti capitani, e gli arebbono o presi overo uccisi prima che le lor genti potessero soccorrerli e aiutarli: e mentre la moltitudine delle genti compariria, gli Spagnuoli sariano già entrati nella città e combatteriano con loro, e a quel modo gli vincerebbono.
Essi partendosi passarono per la città di Churultecal e per qualche parte della provincia di Guasucingo, che confina con la provincia di questa città Guacachula. Lontano quattro leghe da quella, e in una certa terra della detta provincia di Guasucingo, dicono essere stati avertiti gli Spagnuoli che gli abitatori della detta provincia erano confederati con quegli di Guacachula e con quei di Culua, e con questa scusa menavano gli Spagnuoli a questa città, per assalir tutti gli Spagnuoli insieme e uccidergli. E rinovandosi la paura che ne misero quegli di Culua nella lor provincia e città, e questo aviso apportò gran timore alli Spagnuoli, i quali andarono investigando ed esaminando, e, poichè ebbero intesa la cosa, fecero prigioni tutti li signori di Guasucingo che andavano con esso loro, e similmente gli ambasciatori della città di Guacachula. E avendogli fatti prigioni, se ne ritornarono alla città di Churultecal, che era lontana quattro leghe da quel luogo, e de lí mi mandarono tutti li prigioni accompagnati da alcuni cavalli e fanti, con l'informazione avuta; e li capitani scrivevano che li nostri soldati erano diventati molto timidi, e pareva loro quella guerra pericolosa. Poichè furono venuti, ogni giorno parlava loro per interpreti e, usata ogni diligenza per trovar la verità, mi parve che gli Spagnuoli non avevano ben compreso; e subito comandai che fussero liberati e feci loro molte carezze, affermando che io del detto veramente credeva loro esser fedeli vassalli della Maestà Vostra, e che io voleva andare a combatter con quei di Culua. E per non mostrar viltà e paura agli abitanti delle provincie, sí amici come nemici, mi parve, poichè avevo cominciato a far lor guerra, di non rimanermene; e similmente per levar la paura che era entrata agli Spagnuoli, deliberai di lasciar li negozii e l'espedizioni alle quali attendevo per la Maestà Vostra, e subito piú tosto ch'io potesse mi partii. E in quel giorno andai alla città di Churultecal, che da quella città è lontana otto leghe: quivi trovai gli Spagnuoli, i quali ancora affermavano che essi tenevano per certo il tradimento. Nel medesimo giorno albergai in una terra suddita alla provincia di Guasucingo, dove quei signori erano stati fatti prigioni.
Come, avicinandosi il Cortese a Guacachula, quegli abitatori combatterono gli alloggiamenti dove erano i capitani di Culua, uccidendo quelli che erano alloggiati per la città; e come, venendo da trentamila uomini benissimo in ordine per aiutar li loro, cominciando a metter fuoco in quella banda ch'entravano nella città, furono assaltati dal Cortese con la cavalleria e aiuto d'Indiani, e ritiratisi sopra un monte furono per la maggior parte uccisi, e i loro alberghi, ch'erano grandissimi, furono dati a sacco e a fuoco: e con questa vittoria discacciò gli nemici.
Il giorno seguente, posto l'ordine con gli ambasciatori di Guacachula donde e in che modo dovessimo entrare nella detta città, mi partii de lí un'ora avanti giorno, e quasi a dieci ore di giorno arrivammo a quella dove andavamo. E due leghe lontano mi vennero incontra per ricevermi alcuni ambasciatori della detta città, e mi avisarono che già tutta era apparecchiata all'impresa e che gli nemici non avevano intesa la mia venuta, perciochè le spie e le vedette che avevano poste nella strada, le quali erano degli abitatori della città, le avevano fatte prigioni, e similmente l'altre tutte che li capitani di Culua avevano ordinato che salissero sopra le mura e torri, donde potessero guardar la pianura: e perciò tutta la gente nemica stava sprovista e in ozio, confidandosi nelle guardie che avevano poste, e che io mi potevo appressare senza loro saputa. E mi affrettai per arrivar là prima che intendessero la nostra andata, perciochè noi camminavamo per la pianura e facilmente ne potevano vedere dalla città. E con effetto si conobbe che noi fummo visti dagli abitatori della città, che, vedendoci esser vicini, subito circondarono gli alloggiamenti ne' quali erano i capitani di Culua, e cominciarono a combattere con gli altri che erano alloggiati per la città; ed essendo io lontano da quella quasi un tiro di balestra, mi vennero incontra menandomi quaranta prigioni. Nondimeno sempre sollecitavo d'entrar nella città, nella quale si sentivano grandissimi gridi di coloro che combattevano co' nemici per tutte le contrade. Guidato da uno della città, giunsi all'albergo dove stavano li capitani, il quale era circondato da tremila uomini che combattevano per entrarvi e occupavano tutti li luoghi alti e le terrazze. E li capitani e coloro che si ritrovavano seco combattevano gagliardamente e con molto ardire, sí che non vi potevano entrare, benchè fussero di poco numero, perciochè, oltra che combattevano forte e valorosamente, il loro alloggiamento era fortificato. Nondimeno subito arrivati entrammo, e seguitò dopo noi tanta gente della città che per niun modo potemmo riparare che non uccidessero alcuni di quei di Culua: e io desiderava di pigliarne vivo qualcuno, per certificarmi dello stato della gran città e intendere chi ne fusse rimasto signore dopo il signor Montezuma, e desideravo di sapere molte altre cose. Non ne potetti aver se non uno quasi mezzo morto, dal quale fui certificato come dirò di sotto.
Nella città furono uccisi molti di quegli che v'erano albergati, e coloro che erano rimasti vivi, quando io entrai nella città, intesa la mia venuta, se ne fuggirono dove era l'esercito di quei di Culua, e seguitandogli n'uccidemmo molti. E tanto tosto fu udito il romore da coloro che stavano per dar soccorso, trovandosi esser in luogo alto ed eminente che d'ogn'intorno soprastava alla città e alla pianura, e quasi tanto presto vennero alla città per aiutare i loro, come uscirono quegli che erano dentro: e venivano in lor soccorso da trentamila uomini, la qual gente era piú in ordine che alcun'altra che fin ora abbiamo veduto. Portavano molti ornamenti e fregi d'oro, d'argento e di penne. Ed essendo la città grande, cominciarono a metter fuoco in quel luogo dove entravano, il che mi fu riferito dalli terrazzani; e perciò subito, essendo li fanti a piè per la fatica stanchi, me n'andai là co' cavalli e assaltammo gli nemici, li quali si ritirarono ad un passo difficile. Nondimeno lo pigliammo e gli seguitammo nella salita, ferendone molti con le lance, salendo nell'alto monte: e tanto alto che, mentre giugnemmo alla cima, né noi ne alcuno de' nemici si poteva muovere, e molti di loro oppressi al gran caldo morivano senza esser feriti in parte alcuna, e due de' nostri cavalli si arrestarono, de' quali uno morí. Ci diedero soccorso molti Indiani amici nostri, e con l'aiuto loro facemmo grandissimo danno agli nemici, perciochè, essendo loro oppressi dalla stanchezza e i nostri freschi dal riposo, facevano poca resistenza, di modo che 'l campo, il qual prima si vedeva pieno di vivi, n'era voto ed era ripieno di morti. Venimmo alle lor casette e alberghi, fatti da loro nuovamente in tre luoghi, ciascuno de' quali occupava lo spazio d'una gran città; e oltra li soldati avevano gran numero di servidori, e avevano quivi fatti molti apparecchi per il campo, perciochè tra loro erano molti baroni: e lo misero a sacco e a fuoco gl'Indiani amici nostri, de' quali (dico la verità alla Maestà Vostra) ve n'erano venuti piú di centomila. E con questa vittoria discacciammo tutti gli nemici dalla provincia, insino a certi passi di ponti e uscite difficili che essi tenevano. Noi ritornammo nella città, dove da' cittadini fummo benignamente ricevuti, e quivi ci riposammo per tre giorni, che invero ne avevamo bisogno di riposo.
Come alcuni cittadini d'Ocupatuio, i quali ad instanzia del lor signore avean seguito la fazion di quelli di Culua, vennero ad offerirsi al Cortese, pregandolo che volesse perdonargli e che 'l fratel del signore tenesse lo stato, e la risposta a loro fatta. E sito della città di Guacachula.
Fra questo mezzo vennero a trovarmi i cittadini d'una gran città, offerendosi al servizio della Maestà Vostra; la qual città è situata nella cima di quei monti, lontana dal sopradetto campo de' nemici per due leghe, e anco dal piede del monte, dal quale già ho detto che usciva quella palla di fumo: questa città è nominata Ocupatuio. E mi fecero a sapere che 'l signore che prima gli governava aveva seguitati quegli di Culua, nel tempo che noi fummo per quei luoghi, pensandosi che noi non ci dovessimo fermare finchè venissimo alla sua città; e già molti giorni avevano cercato di pigliar la mia amicizia, e sariano venuti a render ubbidienza a Vostra Maestà, ma il lor signor non aveva voluto né l'aveva comportato, benchè molte fiate l'avessero richiesto. Ora essi volevano sottoporsi al servizio di Vostra Altezza; e che ivi era rimasto il fratello del detto lor signore, il qual era sempre stato di quella opinione e parere, e che io dovessi volentieri comportare che egli al presente tenesse lo stato, e, benchè quello ritornasse, io non acconsentissi che fusse ricevuto per signore, perciochè né anco essi lo riceverebbono. Risposi che, avegna che essi fin ora avessero seguitato la fazione di quei di Culua e si fussero ribellati dal servizio di Vostra Maestà, nondimeno io avevo deliberato di perdonare e alle persone e alle facoltà loro, essendo venuti e avendo palesato che 'l signore era stato capo e guida della lor ribellione e temerario ardire. Io per nome della Vostra Altezza perdonavo loro li passati errori e li ricevevo al suo real servizio, e volevo che, se per l'avenire cadessero in simili errori, fussero da me castigati e puniti gravemente; ma se fussero fedeli vassalli di Vostra Altezza, io per nome di Vostra Maestà prestaria loro ogni favor e aiuto: e cosí promisero.
Questa città di Guacachula è situata in una pianura, da un lato accostata a monti grandi e asprissimi, e dall'altro ha attorno attorno due fiumi distanti tra loro un tiro di balestra, che circondano la pianura. Ciascuno d'essi ha profonde e altissime spelonche, di maniera che impediscono che da quel lato non vi si può andare, se non per alcune poche vie, e quelle sono difficilissime da salire e a cavallo appena vi si può andare. La città è circondata di fortissime mura fatte di pietre concie e di calcina, d'altezza di quattro stature di uomo di fuori della città; ma di dentro sono eguali alla terra, e attorno attorno le mura è alzato un muro alto quanto saria la statura di mezzo uomo, il quale è per difesa de' combattenti. Ha quattro entrate tanto larghe quanto vi può commodamente entrare uno a cavallo, e ciascuna entrata ha tre o quattro rivolgimenti nelle mura, dove una parte del muro entra nell'altra. Nelle mura vi è sempre grandissima copia di sassi, li quali usano per combattere. La città contiene piú di cinque o seimila case, e altrettante nelli borghi a lei sottoposti; è di grandissimo circuito, perciochè vi sono di molti giardini con varii frutti.
Dell'acquisto della città Izzuacan, e come le città circonvicine vennero ad offerirsi al Cortese. Che, essendo contesa circa la successione dello stato di Izzuacan, fu data l'ubbedienza ad un nepote del signor naturale; e il sito d'essa città.
Poichè noi fummo riposati in questa città per spazio di tre giorni, n'andammo ad un'altra nominata Izzuacan, la quale è distante da Guacachula quattro leghe, perciochè avevo inteso che in quella vi erano alla guardia molti de' nostri nemici di Culua e gli abitatori di detta città e degli altri luoghi circonvicini sudditi favorivano grandemente quelli di Culua, avendo il loro signore origine da Culua ed essendo parente del signor Montezuma. Venivano meco tanti paesani di quelle provincie vassalli di Vostra Maestà, che quasi coprivano gli campi i quali noi potevamo vedere, e in verità vi erano concorsi piú di centoventimila uomini. Arrivammo alla detta città Izzuacan quasi a dieci ore: era vota di donne e di fanciulli, e vi stavano dentro cinque o seimila soldati molto ben in ordine; ed essendo gli Spagnuoli alquanto andati innanzi, cominciarono a difender la città, nondimeno tosto l'abbandonarono. E perchè quel luogo per il quale fummo guidati per entrarvi era debile e facile, gli seguitammo per tutta la città, e gli sforzammo gettarsi giú dalle mura nel fiume che dall'altro lato circonda tutta la città, i ponti del qual fiume essi gli avevano tutti rotti e gettati a basso, onde mettemmo alquanto d'indugio in passarlo; e gli seguitammo piú d'una lega e mezza, e di quegli che fuggendo non si salvarono pochi stimo che ne rimanessero vivi.
Ritornato nella città, mandai due cittadini che io tenevo prigioni acciochè parlassero ai principali della città (perciochè il lor signore aveva seguito que' di Culua, che vi erano stati posti alla guardia), che gli confortassero a tornar dentro: e io, per nome di Vostra Maestà, promettevo loro che se per l'avenire erano per esser fedeli vassalli di Vostra Maestà, che sariano ben trattati da me. Tre giorni dopo la lor partita mi vennero innanzi alcuni dei principali, dimandandomi perdono dei loro falli, iscusandosi non aver potuto fare altramente, avendo avuto necessità di esequire gli commandamenti del lor signore; e poichè egli se ne era partito e gli aveva lasciati, promettevano da quell'ora innanzi bene e fedelmente voler servire a Vostra Maestà. Io promisi loro la mia fede, e commisi che sicuramente ritornassero a casa e conducessero le loro moglieri e figliuoli, che erano in altri luoghi e ville della medesima fazione. Ordinai ancora che parlassero con gli abitatori di quella provincia, che venissero da me, che perdonarei loro i commessi errori, e non aspettassero che io gli andassi ad assalire, perciochè ne patirebbono grandissimo danno e io n'avrei dispiacere. E cosí avenne, conciosiachè dopo due giorni li cittadini se ne ritornarono in Izzuacan, e tutte le città circonvicine vennero ad offerir servizio a Vostra Maestà e se stessi per vassalli, e quella provincia rimase in grandissima amicizia e stretta confederazione con quelli di Guacachula.
Fu ben discordia intorno al determinare a cui appartenesse lo stato di quella provincia, in absenzia del signore, che si era partito e andato a Messico. E benchè fussero alcune contese e fazioni tra un certo figliuolo bastardo del signor naturale di detta provincia, che era stato ucciso dal signor Montezuma, e vi aveva messo colui che ora signoreggiava e gli aveva data una sua nipote per moglie, e tra 'l nipote del detto natural signore, che era figliuolo d'una figliuola legitima che era maritata nel signore di Guacachula e aveva generato quel figliuolo, nepote del signor naturale di Izzuacan finalmente si accordavano tra loro che quel figliuolo del signor di Guacachula avesse la eredità, che discendeva da legitima linea del vero signore di quello stato: e benchè quell'altro fusse figliuolo, essendo bastardo non dovea succedere nello stato. E in presenza mia resero ubbidienza al detto nepote, fanciullo di età di dieci anni; e perchè non era di età che fusse atta a regnare, ordinarono che quel suo zio bastardo e tre altri primarii, uno della città di Guacachula e due d'Izzuacan, fussero governatori della provincia e tenessero il fanciullo in potestà loro finchè fusse di età atta al governare.
Questa città d'Izzuacan ha da mille e cinquecento abitazioni, ed è molto vagamente fabricata nelle sue contrade; aveva cento case appresso le moschee e luoghi da far orazione ai loro idoli, fortissime, con le torri, le quali tutte furono abbrucciate. Ella è posta in una pianura a piè d'un mezzano colle, dove da una parte è una fortezza molto ben fornita, e dall'altra verso la pianura è circondata da uno profondo fiume che passa al lato delle mura; e il fiume è circondato da una spelonca la quale è di grandissima profondità, e sopra la spelonca è un picciolo muro d'altezza quanto saria mezza statura di uomo, nel quale erano raunati molti sassi. Ha una valle rotonda e abbondantissima di frutti e di vermi da seta, perciochè ne monti sopradetti non ne nascono per li gran freddi: e quivi è il paese piú caldo, il che aviene per esser circondato da' monti. Tutta questa valle è bagnata da assaissimi rivi ben fatti e ordinati.
Come i signori di Guagucingo e d'un'altra città dieci leghe lontana vennero ad offerirsi,
e altre otto città delle provincie Caastraca, Cucula e Tamacula,
e come gli abitatori di quelle città parimente si offerirono.
In questa città dimorai finchè ritornarono ad abitarla come prima, dove vennero ad offerirsi per vassalli di Vostra Maestà il signor una città chiamata Guagucingo e gli signori d'un'altra, che sono lontane da questa città di Izzuacan dieci leghe e confinano con la provincia di Messico. Ne vennero anco da otto città di quella provincia Caastraca, che è una di quelle provincie delle quali ne' precedenti capitoli ho fatto menzione, che l'avevano vista gli Spagnuoli che io avevo mandati a raccorre dell'oro alla provincia Cucula; nella quale, e in quella di Tamacula, che gli è vicina, dissi esser grandissime città e ben fabricate, e di migliori pietre concie che insin ora abbiamo viste in alcuna di queste parti. La qual provincia Castraoceaca è lontana quaranta leghe dalla città di Izzuacan. Gli abitatori delle dette città similmente si offerirono per vassalli di Vostra Altezza, e affermarono che anco erano quattro città nella detta provincia le quali tosto verriano, dicendomi che io perdonassi loro se non erano venuti prima, perciochè non avevano avuto ardir di venire temendo quegli di Culua, e che essi non avevano mai prese le armi contra di me, né si erano trovati alla morte d'alcun Spagnuolo: e dopo che avevano resa ubbidienza, erano sempre stati di buon animo e fedeli vassalli di Vostra Maestà, nondimeno non avevano avuto ardire di mostrarlo per tema di que' di Culua, come prima avevano detto. Di modo che prometto alla sacra cesarea e catolica Maestà Vostra che, se piacerà al sommo Iddio e alla fortuna di Vostra Altezza, in breve racquisteremo ciò che abbiamo perduto o parte di quello, perciochè ogni giorno vengono molte provincie e città ad offerirsi al servizio di Vostra Altezza, le quali già erano soggette allo stato del signor Montezuma, e coloro che fanno questo sono ricevuti e trattati da me benignamente, e quelli che ricusano di giorno in giorno sono distrutti.
Come il fratello di Montezuma ottenne lo stato di suo fratello.
Le provisioni che 'l Cortese faceva per la guerra.
Da coloro che erano stati presi nella città di Guacachula, e massimamente da colui che io dissi aver preso pieno di ferite, particolarmente intesi le cose di Temistitan, e seppi che dopo la morte del signor Montezuma suo fratello, che era signor della città d'Iztapalapa, aveva ottenuto lo stato: ed era nominato Cuetrauacin, del qual già ho fatto menzione. E successe egli nel principato perchè ne' ponti appresso la città di Temistitan era mancato un figliuolo primogenito del detto Montezuma, e due altri che vivevano non erano atti a signoreggiare, essendo (come dicevano) l'uno pazzo e l'altro paralitico; e per questo si diceva che suo fratello aveva conseguito la signoria, e anco perchè era stimato di gran valore, feroce nella guerra e parimente savio. E intesi che essi fortificavano cosí la gran città come gli altri luoghi del suo stato, e in molte parti facevano nuove mura e fossi, e apparecchiavano varie sorti d'arme, e massimamente lance lunghe, che chiamiamo picche, contra li cavalli: delle quali ne vedemmo alcune, che furono trovate in questa provincia Tepeaca, di coloro che combattevano contra di noi in quelle grandi abitazioni dove alloggiavano in Guacachula, e similmente ne trovammo alcune ne' detti alloggiamenti. E intesi assai altre cose, ch'io lascio per non esser tedioso all'Altezza Vostra.
Mando quattro navi all'isola Spagnuola, affine che imbarchino soldati e cavalli e subito ritornino in soccorso nostro, e altre quattro che nella detta isola comprino cavalli, arme, balestre e polvere d'artegliaria, perciochè in queste parti n'abbiamo piú di bisogno, perchè li fanti urtati da tanta moltitudine poco vagliano a far resistenza con picciole rotelle, e in queste parti si trovano fortificate molte e grandi e nobili città e fortezze. Oltre di ciò scrivo al dottor Rodorico de Figueroa e agli ufficiali di Vostra Altezza che fanno residenza nella detta isola Spagnuola, che prestino ogni possibil favore e aiuto a questa impresa, essendo ciò appartenente al servizio di Vostra Maestà, e alla conservazione dell'acquisto fatto in queste parti, e alla difesa e sicurezza delle nostre persone; perciochè, poichè sarà giunto il detto soccorso, ho animo di ritornare a quella gran città di Temistitan, e spero nel divino aiuto che in breve la ridurrò in poter mio, come l'avevo prima, e racquisteremo le cose perdute. In questo mezzo sollecito che siano fabricati dodeci brigantini e altre imfrate navi per passare il lago, e ora ci affatichiamo intorno a' chiodi, alle tavole e agli altri legni, le qual cose tutte provederemo che siano portate per terra, per poterle subito mettere insieme: e a questo sono apparecchiate le vele, la stoppa, la pece, li remi e ogn'altra cosa necessaria. E rendo certa la Maestà Vostra che, in fin che non adempio questo mio desiderio, non penso di potere aver riposto né rimanermi di cercare tutte le vie a me possibili, non recusando pericolo alcuno né spesa che si possa fare.
Venuta d'una nave picciola di Francesco di Garai nel porto della Vera Croce, qual il Cortese mandò a ricercar le due navi nel fiume Panuco, temendo non patissero qualche danno. Apparecchio del signor di Temistitan contra gli Spagnuoli.
Necessità che aveva il Cortese per dar aiuto agli amici.
Già sono due giorni che mi furono portate lettere del mio luogotenente nella città della Vera Croce, per le quali intesi una picciola nave esser arrivata in porto con trenta uomini, computando gli marinai e gli soldati, e si diceva esser venuta a cercar coloro che Francesco de Garai aveva mandati in queste provincie, de' quali altre volte ho detto a Vostra Maestà; e affermavano aver patito grandissima carestia di vettovaglie, e tale che, se quivi non era dato lor aiuto, sarebbono tutti morti di fame. E intesi che erano arrivati a porto Panuco, e in quello avendo indugiato quaranta giorni, e nel fiume e nella provincia non aver veduto mai alcuno, e perciò dalle cose che successero stimavano che quella provincia fusse rimasta disabitata; e parimente li medesimi avevano detto che subito dopo loro dovevano venire due navi del detto Francesco di Garai con soldati e cavalli, e credevano che già fussero passati alla costa da basso. E però mi è paruto appartenere al servizio di Vostra Altezza che quella nave e quegli che erano in essa non si perdessero, avendolo prima avisato delle cose fatte nella provincia, perciochè gli abitatori di quella potrebbono fargli piú danno. Comandai che la detta nave dovesse andare a cercare l'altre e le certificasse delle cose che erano successe, e venissero al porto della detta città della Vera Croce, dove il capitano che prima il detto Francesco di Garai aveva mandato gli aspettava. Piaccia a Iddio ottimo massimo che li ritrovino avanti che smontino in terra, perciochè gli abitatori della provincia hanno avertito a questo, ma non già gli Spagnuoli: temo che non caschino in qualche gran ruina, il che saria contra il servizio dell'onnipotente Iddio e dell'Altezza Vostra, e questo saria uno accrescer l'audacia delli detti cani di assalire gli altri che per l'avenire fussero per dovere andare in que' luoghi.
Nel precedente capitolo narrai che io avevo inteso dopo la morte del signor Montezuma essere stato fatto signore un suo fratello nominato Coretacuacin, il quale metteva insieme varie sorti di arme e fortificava la gran città e tutte le altre vicine al lago. Ora da pochi giorni in qua sono stato avisato che Coretacuacin aveva mandato gli suoi nunzii a tutte le provincie e città a lui suddite, a far noto a' suoi vassalli che esso per grazia rimetteva loro tutti li tributi e servizii che erano tenuti a fargli, che non gli diano o paghino cosa alcuna, pur che in tutti li modi che potessero facessero guerra a' cristiani, finchè o gli uccidessero o cacciassero fuori della provincia, e similmente facessero guerra a tutti gli abitatori di queste provincie che tengono amistà o confederazione con esso noi. Nondimeno confido in Dio ottimo massimo che niente succederà secondo i lor desiderii; pur mi trovo in grandissima necessità, per dare aiuto agl'Indiani amici nostri, concorrendone ogni giorno da molte città e terre a dimandar soccorso contra li paesani di Culua e loro e nostri nemici, i quali con ogni sforzo facevano lor guerra, per aver essi amicizia e confederazione con esso noi. Io veramente non posso, come vorrei, dar soccorso a tutti i luoghi; nondimeno, sí come ho detto, a Iddio onnipotente piacerà di supplire alle nostre picciole forze e mandarci il suo aiuto, e quello che ho mandato a chiedere dall'isola Spagnuola.
Il Cortese, per la similitudine del luogo, chiama le terre per lui scoperte Nuova Spagna
del mare Oceano; supplica l'imperatore che mandi un uomo
a cui per nome di sua Maestà si presti piena fede.
Per le cose ch'io ho vedute e ho potuto comprendere circa la similitudine che hanno tutte queste provincie con la Spagna, sí nella fertilità come nella grandezza e ne' freddi che vi sono, e in molte altre cose nelle quali a quella si possono aguagliare, mi è paruto non potersi metter loro nome piú conveniente che Nuova Spagna del mare Oceano, il qual nome fu posto per nome della sacra e catolica Maestà Vostra, la qual supplico si degni acconsentire al detto nome e cosí dia commissione ch'ella sia nominata.
Ho scritto alla Maestà Vostra, benchè rozzamente, la verità di tutte le cose avenute in queste parti, e quelle massimamente che piú fa di bisogno che ella sappia; e mando con le altre mie alligata una supplicazione, che sia mandato qua un uomo, al quale per nome di Vostra Maestà si abbia da prestar piena fede, che prenda informazione d'ogni cosa.
Altissimo e potentissimo Principe, Iddio ottimo massimo conservi la vita e la real persona e il potentissimo stato di Vostra catolica Maestà, e l'accresca per lunghi tempi con accrescimento di maggior regni e signorie, come il suo real cuore desidera.
Della città della Securezza de' Confini della Nuova Spagna del mare Oceano, alli 30 d'ottobre 1520.
Di Fernando Cortese la terza relazione della Nuova Spagna.
Come il Cortese, avuto aviso che le provincie Cecatami e Xalacingo s'erano ribellate, mandò a quella ispedizione un capitano. Quello che operò nella città detta Chucula a satisfazione di quegli abitatori. Come, giunto in Tascaltecal, trovato morto il magiscacin, primo tra quelli signori, investí di quello stato un suo figliuolo.
Per Alfonso Mendoza da Medelino, il quale alli 5 di marzo dell'anno passato 1521 lo ispedi' da questa Nuova Spagna, e mandai alla Maestà Vostra la relazione di tutte le cose che erano avenute in questa provincia, la qual relazione io l'aveva finita alli 30 d'ottobre l'anno 1520. E perchè il tempo non era buono e le navi ch'io avevo, tre avevano patito naufragio, una per mandare alla Maestà Vostra la detta relazione, l'altre per mandare a condurre il soccorso dall'isola Spagnuola, perciò si è prolungata assai la partita del predetto Alfonso Mendoza, sí come per il medesimo piú a pieno ne ho dato aviso alla Maestà Vostra. E nel fine di detta relazione io le facevo a sapere che, dapoi che gl'Indiani abitatori della famosa città di Temistitan ci aveano di quella cacciati fuori per forza, avevano mosso guerra alla provincia di Tepeaca, la quale era loro suddita, e ribellatasi a Vostra Maestà. Io, con quegli Spagnuoli che erano rimasi vivi, insieme con gl'Indiani amici nostri, avevo mosso lor guerra e ridutteli al servizio della Maestà Vostra. E tenendo ancora fisso nella memoria il passato tradimento, il grandissimo danno e la tanto fresca uccisione degli Spagnuoli, avevo deliberato d'assaltar quegli della predetta città che erano stati cagione di tanta ruina, e a questo effetto cominciavo ad apparecchiare tredici brigantini per danneggiar la detta città quanto mi fusse possibile per la via del lago, quando essi perseverassero nel lor cattivo proposito. Scrissi alla Maestà Vostra che, mentre si fabricavano li predetti brigantini, e ch'io e gl'Indiani amici nostri apparecchiavamo d'assaltargli, io mandavo all'isola Spagnuola per far condurre in nostro aiuto uomini, cavalli, artegliarie e armi: e per questo io scrivevo agli ufficiali di Vostra Maestà che in quella isola fanno residenza, e mandavo danari per ogni spesa; e anco feci a sapere a Vostra Maestà ch'io non pensavo di riposarmi né volevo cessare finchè conseguivo la vittoria de' nemici, e in ciò ero per metter ogni possibil diligenza, non curando né spesa né fatica né pericolo alcuno che me ne potesse avenire, e con quest'animo apparecchiavo di partirmi dalla provincia di Tepeaca.
Similmente diedi aviso alla Maestà Vostra come nel porto della città della Veracroce era giunta una nave di Francesco di Garai, luogotenente e governatore dell'isola Iamaica, con grandissima carestia d'ogni cosa; nella qual nave erano forse da trenta uomini, e riferivano che due altre navi aveano fatto vela per andare al fiume Panuco, dove era stato rotto un certo capitano di Francesco de Garai: e temevamo, se andavano là, che ricevessero qualche danno dagli abitanti appresso il detto fiume. Feci ancora sapere a Vostra Maestà come subito ordinai che una nave la dovesse seguitare e farle avisate del tutto. E poichè ebbi scritto, piacque a Iddio che alla città della Veracroce arrivò una delle dette navi, nelle quali erano forse centovinti uomini, e fui fatto certo che quel capitano di Francesco de Garai che era venuto da prima era stato rotto, e avevano parlato col medesimo capitano, che si era trovato presente alla rotta: e lo feci avvertito che, s'andavano là, non poteva essere senza suo gran danno e ruina. E mentre stavano in porto con ferma opinione di andare al detto fiume, si levò una fortuna con gagliardissimo vento accompagnata, e rotte le funi sforzò la nave ad uscir fuori, e prese porto nella costa di sopra, lontano dodeci leghe dalla città della Veracroce, nel porto di Santo Iuan; ed essendo smontati di nave con otto cavalli e altretante cavalle che menavano seco, tirarono la nave in terra, perciochè ella pigliava troppa acqua. Subito ch'io l'intesi, scrissi al lor capitano, certificandolo che mi erano di grandissimo dispiacere i mali che gli erano intervenuti, e come avevo dato commessione al mio luogotenente, ch'io avevo lasciato nella città della Veracroce, che ricevesse benignamente lui e gli uomini che menava seco, e facesse lor parte di tutte le cose necessarie, e vedesse quel che voleva deliberare e, se tutti o alcuni di loro volessero ritornare alle navi che erano quivi, assicurandogli con la scorta gli lasciasse andare e desse loro ogni aiuto. Il detto capitano e coloro che erano seco avevano deliberato di rimanere, e vennero a trovarmi; dell'altra nave insin ora non abbiamo inteso cosa alcuna, ed essendo ciò stato già molto tempo, molto dubitiamo della sua salute. Piaccia a Iddio che ella sia salva.
Avendo deliberato di partirmi dalla provincia di Tepeaca, mi venne novella che due provincie chiamate Cecatami e Xalacingo, le quali sono sottoposte al signor di Temistitan, si erano ribellate; e perchè dalla città della Veracroce si può passare a quelle parti, avevano in quella uccisi alcuni Spagnuoli, e gli abitatori si erano ribellati e avevano pessima intenzione. E acciochè la strada fusse sicura, e per dar loro qualche castigo, se non volessero vivere pacificamente, ispedi' un capitano con venti uomini a cavallo e ducento fanti a piè con gli Indiani amici nostri, al qual feci espresso comandamento che dovesse ammonire gli abitatori delle dette provincie che concordevolmente si dessero per vassalli di Vostra Maestà, come avevano fatto dell'altre volte, e in questo usasse ogni possibil diligenza: e se non lo volessero ricever pacificamente facesse lor guerra, la qual finita che egli avesse, e prese anco le due provincie, con tutti gli soldati se ne ritornasse alla città di Tascaltecal, dove io l'aspettarei. E cosí nel principio di decembre, l'anno 1520, egli andò seguendo il suo viaggio alle già dette provincie, le quali da quel luogo sono lontane venti leghe.
Finite queste cose, al mezzo del mese di decembre del detto anno, io mi parti' dalla città della Securezza de' Confini, che è nella provincia di Tepeaca, nella quale io lasciai un capitano con sessanta soldati, essendone stato con grande instanza di prieghi richiesto dagli abitatori di quella. Ordinai che tutti li fanti andassero alla città di Tascaltecal, dove si fabricavano li bregantini, la quale è lontana dalla provincia di Tepeaca nove o dieci leghe, e io quella notte andai a dormire ad una città nominata Chulula, perciochè gli abitatori di quella desideravano grandemente la mia andata, per esser molti signori di quella morti del mal di variole: la quale infermità suol prender spesso gli abitatori di queste provincie, sí come fa ancora quegli dell'isole. Essi desideravano che, per loro e mio consiglio, in luogo de' signori morti ne fussino rimessi degli altri. Ed essendo giunti là, fummo ricevuti molto commodamente, e fatto ciò che ho detto di sopra, e avendo satisfatto al lor desiderio, feci lor a sapere che 'l mio viaggio era per andar a far guerra alle provincie di Messico e di Temistitan. Io gli pregai che, essendo vassalli di Vostra Maestà, dovessero procurare in tutti i modi di mantener l'amicizia con esso noi, e a noi si conveniva fare il medesimo insino che avessimo la vita; e gli richiesi che, in tutto quel tempo ch'io era per tener guerra contra le sopradette provincie, mi dovessero dare aiuto di gente, e con quegli Spagnuoli ch'io mandassi nella lor provincia, overo in quella abitassero, si portassero come son tenuti di fare gli amici con gli amici. E avuta la promissione da loro di cosí dover fare, dopo due o tre giorni mi partii andando verso Tascaltecal, che è distante per spazio di sei leghe, ed essendo arrivato là trovai che vi erano tutti gli Spagnuoli, insieme con gli abitatori della città, i quali grandemente si rallegrarono della mia venuta. Il giorno seguente tutti li signori della predetta città e provincia vennero a parlarmi, e mi fecero a sapere che 'l magiscacin, il quale è tenuto il primo tra gli altri signori della detta provincia, era morto del male di variole, e molto ben sapevano che la sua morte mi saria dispiaciuta, avendo egli avuto meco sí stretta amicizia; nondimeno aveva lasciato un figliuolo di età di dodeci anni, al quale dicevano appartenersi la signoria che tenne il padre, e sopra modo mi pregavano ch'io volessi investirlo dello stato come legitimo erede: satisfeci al lor desiderio, onde ne presero grandissimo piacere.
Come, trovati li maestri solleciti a finir i brigantini, fece provisione dell'altre cose necessarie. Dello acquisto delle provincie Cecatami e Xalacingo, e come il Cortese perdonò ad alcuni signori che s'erano ribellati.
Essendo giunto in questa città, trovai i legnaiuoli e maestri de' bregantini molto sollecitar di finir di lavorare il legname e le tavole per fargli, e aver fatto ciò che in detta opera era di bisogno; e subito procurai che dalla città della Veracroce fusse portato e ferro e chiodi che io avevo quivi, e vele e sarte e altre cose necessarie per finirgli. E perchè non avevo pece, ordinai che certi Spagnuoli andassero a raccoglierla in un alto monte che ivi era assai vicino, acciochè tutti gli apparecchi per finir li detti bregantini potessero esser in ordine, onde poi con l'aiuto d'Iddio, mentre io fussi nelle provincie di Messico e di Temistitan, potesse proveder di fargli condurre, perciochè le dette provincie sono lontane dieci o dodeci leghe dalla città di Tascaltecal. In tutti quei quindeci giorni che dimorai quivi, non attesi ad altro che a sollecitar diligentemente li maestri de' detti bregantini, e cercar d'apparecchiar l'armi, e a metter ordine per fare il nostro viaggio.
Due giorni avanti la festa del Natale di nostro Signore, ritornò il capitano coi fanti e coi cavalli che erano andati alla provincia di Cecatami e di Xalacingo, e intesi che una parte degli abitatori aveva combattuto con loro, e l'altra alla fine in parte volontariamente e in parte a forza esser venuta alla pace; e mi condussero alcuni signori di quelle provincie, alli quali, avenga che fussero degni di grandissimo castigo per la lor ribellione e per aver uccisi li cristiani, avendomi promesso da ora innanzi dover essere ottimi e fedeli vassalli di Vostra Maestà, io in nome di lei gli ho perdonato, e ho dato lor licenza di ritornarsene nella patria. E cosí concludemmo in quel giorno, il che risultò in grandissimo servizio di Vostra Maestà, sí per la quiete degli abitatori delle dette provincie, sí ancora per la sicurezza degli Spagnuoli, ai quali per andare e tornare dalla città della Veracroce era necessario passar per le dette provincie.
Come il Cortese fece la rassegna de' suoi soldati e le parole che gli usò, per le quali essi ripigliorono le forze e l'ardire. Le grandi offerte che li fecero gli signori di Tascaltecal di darli aiuto con tutte le forze delle lor provincie. Come si partí e arrivò alla terra detta Tezmoluca.
Il secondo giorno di Natale nella detta città di Tascaltecal feci la rassegna di tutti i soldati, e trovai aver quaranta uomini a cavallo e cinquecentocinquanta fanti a piè, de' quali ottanta adoperavano balestre e schioppetti; e avemmo otto over nove pezzi d'artegliaria da campo e un poco di polvere. Divisa la cavalleria in quattro squadre, ciascuna delle quali n'aveva dieci, alli fanti preposi nove capi, e a ciascuno di loro assegnai sessanta fanti. E parlai a tutti insieme, rammentando loro come io ed essi tutti avevamo preso ad abitar queste provincie per servire alla Maestà Vostra, e che tutti gli abitatori d'esse s'erano dati per vassalli di Vostra Maestà, e per qualche tempo avevano perseverato d'esser vassalli, tra noi facendo scambievolmente di buone opere; e similmente que' di Culua, che abitano la famosa città di Temistitan, e tutti gli abitatori dell'altre provincie suddite a quella, senza cagione alcuna non pur s'erano ribellati alla Maestà Vostra, ma avevano uccisi molti nostri amici e parenti e ne avevano discacciati di tutta la lor provincia. E oltra di ciò si ricordassero quanti pericoli e fatiche avevamo patite, e guardassero quanto importasse alle cose della nostra religione e della Maestà Vostra se di nuovo ricoverassimo ciò che avevamo perduto, massimamente movendoci a far questo per giusta cagione, perciochè facevamo guerra per accrescer la nostra sacrosanta fede e contra genti barbare, e per commodo di Vostra Maestà e per sicurezza delle nostre persone, e alla fine per esser noi favoriti e aiutati a questa impresa da molti nostri amici abitatori delle dette provincie, i quali a far ciò dovevano render gli animi nostri molto piú arditi. Per la qual cosa io gli pregava che, posta giú la paura, ripigliassero le forze e l'ardire; e avendo io fatti alcuni ordini per nome di Vostra Maestà appartenenti alla guerra che si aveva da fare, procurai che fussero publicati, e gli pregava che dovessero osservargli, essendo per servizio dell'onnipotente Iddio e di Vostra Maestà. E di comune consentimento promisero di cosí voler fare e di mettergli ad esecuzione, e volentieri esporsi alla morte per servizio della nostra sacrosanta fede e di Vostra Maestà, e racquistare le cose perdute, e far vendetta del tradimento degli abitatori di Temistitan e de' loro confederati fatto contra di noi. Io per nome di Vostra Maestà gli ringraziai infinitamente, e cosí con grandissima allegrezza ce ne ritornammo ne' nostri alberghi.
Il giorno seguente, che fu il dí di s. Giovanni Evangelista, comandai che tutti gli signori della provincia di Tascaltecal dovessero ridursi insieme e, ridutti che furono, dissi loro come già potevano ben comprendere ch'io era per muovere il mio esercito contra gli nemici e per entrare nella lor provincia, e molto ben potevano vedere che la città di Temistitan non poteva espugnarsi senza que' brigantini ch'io faceva fabricare, e perciò gli ricercava che dovessero far partecipi gli legnaiuoli e gli Spagnuoli ch'io lasciavo quivi di tutte le cose necessarie, e con loro si portassero di quella maniera che insin allora si erano portati con esso noi, e stessero apparecchiati (se l'onnipotente Iddio ne facesse grazia di ottenere auttorità) quando dalla città di Tessaico io mandassi per le travi, tavole e altri apparecchi per gli detti brigantini. Ed essi promisero di cosí fare, e similmente dissero di voler mandar soldati meco, e quando si condurriano li brigantini essi medesimi signori volevano venire in campo contra gli nemici con tutte le forze delle loro provincie, e morire quando facesse di bisogno, o veramente vendicarsi contra que' di Culua, nemici mortalissimi. L'altro giorno, alli 28 di decembre, che fu il dí degl'Innocenti, mi partii con le genti in ordinanza e andai ad alloggiare sei leghe lontano dalla città di Tascaltecal, ad una certa terra nominata Tezmoluca, sottoposta alla provincia di Guasacingo, gli abitatori della quale hanno tenuto e tengono la medesima amicizia e confederazione con esso noi che hanno quegli di Tascaltecal; e quivi ci riposammo quella notte.
Partita del Cortese di Tezmoluca, e il grande impedimento che trovarono per il camino. Come assalirono alcune squadre d'Indiani che se gli contraposero, ferendo e uccidendo alcuni di loro, e come alloggiarono in Coatabeque.
Nell'altra relazione diedi aviso alla Maestà Vostra che gli abitatori di Messico e di Temistitan apparecchiavano molte armi, e in tutte le lor provincie facevano cavare infinite fosse e far argini e altre sorti di difese, per poterci fare e resistenza e danno, perciochè essi già avevano inteso che io era per muover guerra contra di loro. E avendo io ciò risaputo, e conoscendo quanto fussero ingegnosi e arditi nelle cose da guerra, spesse volte mi andavo rivolgendo per la mente per la qual provincia potessimo entrare per trovargli e offendergli in qualche parte alla sprovista; ed essi molto ben sapevano che noi avevamo buona notizia di tre vie e passi, per li quali potevo entrare nella lor provincia. Deliberai di assalirgli per questa via di Tezmoluca, perciochè, essendo ella passo piú aspro e piú pieno di sassi che non sono gli altri, io pensavo che meno per questa via venissero a farci resistenza e non tanto attendessero a guardarla. Il seguente giorno dopo la messa ci partimmo dalla detta terra di Tezmoluca, e io stavo all'avantiguarda con dieci a cavallo e sessanta fanti destri e atti al combattere, e seguimmo l'incominciato viaggio, salendo il monte vicino con ogni ordine e apparecchio a noi possibile. E la sera andammo ad alloggiare lontano quattro leghe dalla detta terra nella cima del monte, dove sono gli confini di Culua; e benchè fussero grandissimi freddi, facendo fuoco con molte legne, delle quali ivi è grandissima copia, quella notte ci difendemmo dal freddo.
Il dí vegnente, la domenica mattina, cominciammo a seguitare il nostro viaggio per la pianura della foce, e ordinai che quattro a cavallo e tre o quattro fanti a piè andassero avanti a riconoscer la provincia. Noi seguitando il nostro cammino cominciammo a descender dal monte, e comandai che la cavalleria andasse innanzi, e dopo lei senza intervallo alcuno seguitassero gli schioppettieri e i balestrieri e gli altri secondo il lor ordine, acciò piú facilmente potessimo alla sprovista offender gli nemici; nondimeno io stimavo che essi dovessero assalirci, tenendo per certo che ci avessero posto qualche aguato e fussero per usar qualche astuzia per poterci offendere. Mentre li quattro a cavallo e li quattro fanti a piè procedevano piú avanti, trovarono il cammino impedito e serrato con arbori e con rami, e tagliati molti e gran pini e cipressi e in quello attraversati, li quali parevano allora allora tagliati; e pensandosi che 'l resto del viaggio non dovesse esser impedito, seguitarono di andare avanti, e quanto piú andavano, tanto piú trovavano il cammino impacciato di pini e di rami. Ed essendo tutta la cima del monte piena di spessi arbori e di grandissime siepi, andavano innanzi con gran difficoltà, e vedendo cotale strada entrarono in gran paura, pensandosi che dopo ciascuno arbore stessero nascosti gli nemici, e anco perchè non potevano maneggiar li cavalli per l'impedimento degli arbori tagliati: e quanto piú avanti andavano, tanto piú cresceva la paura. Ed essendo per alquanto spazio andati di questa maniera, un di loro parlando agli altri disse: "Fratelli, se vi par giusto e onesto, non procediamo piú innanzi, ma ritorniamo adietro e diamo nuova al nostro capitano dell'impedimento che abbiamo trovato e nel pericolo che noi entriamo, non potendo adoperar li cavalli; e quando cosí non vi paia, andiamo pure, che la mia vita è sottoposta alla morte come quella di tutti gli altri, finchè ponghiamo fine a questa cominciata impresa". Gli altri risposero che 'l suo consiglio era ottimo, ma a loro non pareva ben fatto ritornar prima che vedessero alcuno dei nemici, o sapessero fin dove arrivava quella strada. E ricominciarono a seguitare il cammino, e, vedendo che tuttavia si estendeva piú avanti, si fermarono e mandarono un fante a piedi a farmi intendere ciò che avevano trovato. Ed essendomi posto nella fronte dell'ordinanza co' cavalli, ci raccomandammo all'onnipotente Iddio e camminammo piú avanti per quel cattivo sentiero, e ordinai che fussero fatti avisati coloro che seguitavano nell'ultima schiera che s'affrettassero, che tosto arrivariano nella pianura; e subito ch'io trovai li quattro a cavallo, cominciammo a procedere innanzi, nondimeno con grande impedimento e difficoltà, per ispazio di mezza lega. Piacque al sommo Iddio che scendessimo nella pianura, e quivi mi fermai per aspettar gli altri, a' quali arrivati che furono, feci intendere che dovessero render grazie all'onnipotente Iddio che n'avesse conceduto di giugner salvi insino a quel luogo, onde cominciammo a vedere tutta la provincia di Messico e di Temistitan, che sono e dentro ne' laghi e all'intorno di essi. E benchè con grandissima allegrezza le riguardassimo, nondimeno, considerando il passato danno che in quel giorno avevamo patito, ci apportò qualche dispiacere, e tutti d'un animo congiurammo di non ci partir mai di quella provincia senza vittoria, overamente lasciarvi la vita. E con questo proponimento camminavamo allegri, non altramente che se dovessimo andare a far cosa che fusse d'infinito piacere.
Subito che gli nemici l'intesero, cominciarono a far grandissimi fumi per tutta la provincia, e io di nuovo pregai gli Spagnuoli che per l'avenire si portassero come per il passato avevano fatto, e io speravo che dovessero fare, e niuno uscisse dell'ordinanza, che ogni cosa procederia con ottimo ordine nel viaggio. E già gl'Indiani cominciavano a chiamare da alcune abitazioni e picciole ville, facendo segno agli abitatori che si ragunassero insieme per offenderci in alcuni ponti e vie strette che vi erano; nondimeno noi tanto sollecitammo che, prima che si ragunassero, eravamo giunti alla pianura, e uscendo in quella ci si contraposero alcune squadre d'Indiani. Io comandai a quindeci cavalieri che andassero ad urtarle, e veramente gli assalirono senza essere offesi, ferendone e uccidendone alcuni di loro. E seguitammo l'incominciato viaggio verso la città di Tessaico, che è delle maggiori e piú belle che siano in tutte queste provincie, benchè tutte l'altre siano bellissime. Ed essendo li fanti a piè alquanto stanchi per la fatica del viaggio, e avicinandosi già la notte, alloggiammo in una città chiamata Coatebeque, la qual e suddita alla città di Tessaico e da lei è lontana tre leghe. Noi quella notte la trovammo tutta vota, ed essendo questa città e quella provincia, che è chiamata Aculuacan, grandissima e piena di tanti uomini, e in vero possiamo credere che a quel tempo ve ne fussero centocinquantamilla, pensammo che ci volessero assalire. Io con dieci a cavallo feci la prima guardia, e comandai che tutti li soldati stessero in ordine.
Come gli vennero incontra quattro Indiani con una bandiera d'oro in nome del signor Guanacacin chiedendo pace, e la risposta che gli fece il Cortese. Delle terre Coatincan e Guaxuta. Come giunse in Tessaico, e il bando che fece far per il trombetta.
Il giorno seguente, che fu il lunedí, l'ultimo dí di decembre, seguitammo il nostro viaggio con l'ordine solito, e lontano quattro leghe dalla detta città di Coatebeque, andando noi dubbiosi e ragionando se ne riceverebbono pacificamente o pur combatteriano con noi, ci vennero incontra quattro Indiani de' primarii con una bandiera d'oro in una verga di peso di quattro marche d'oro, con la qual bandiera davano segno che venivano a noi per chieder pace: e Iddio ci è testimonio quanto noi la desiderassimo e quanto n'avessimo di bisogno, essendo noi in numero sí pochi e lontani da ogni soccorso e posti fra nemici. E avendo visto quei quattro Indiani, tra' quali era uno ch'io conosceva, comandai a tutti i soldati che si fermassero e me n'andai a loro. E salutatici l'un l'altro, mi riferirono esser venuti in nome del signore di quella città e provincia, nominato Guanacacin, e da sua parte umilmente mi pregavano ch'io non facesse né comportasse che fusse fatto danno alcuno nella sua provincia, perciochè de' danni che noi avevamo patiti se ne doveva dar la colpa a quei di Temistitan e non a loro, ed essi desideravano di esser vassalli di Vostra Maestà e stringersi in amicizia con noi e sempre osservarla per l'avenire, e che entrassimo nella città e dalle loro opere conosceremmo l'animo loro. Io per interpreti risposi che la lor venuta mi era stata molto grata e pigliavo grandissimo piacere della loro pace e amicizia. E poi che ebbero fatta la scusa circa l'assedio e combattimento fatto contra di me nella città di Temistitan, dissi che essi molto ben sapevano che lontano sei leghe da quel luogo e dalla città di Tessaico, in certe terre a quella soggette, altre volte mi avevano uccisi cinque cavalli e quaranta o cinquanta fanti spagnuoli e trecento Indiani di Tascaltecal, i quali erano tutti carichi e n'avevano tolto molto argento, oro, vesti e altre cose. E poichè non se ne potevano scusare ne fussero puniti con la pena di renderci le nostre cose, e a questo modo, benchè fussero degni di morte per aver uccisi tanti Cristiani, averei fatto pace con loro, poichè essi la dimandavano; altramente io procederei contra di loro con tutta quella crudeltà ch'io potessi. Risposero che tutto ciò che quivi n'era stato tolto li signori e primarii di Temistitan se l'avevano portato; nondimeno che essi fariano cercare, e tutte quelle cose che si trovassero delle nostre ce le restituerebbono. E mi dimandarono se quella notte anderei alla città overo se alloggerei in una di quelle terre, che sono come borghi della città, nominate Coatincan e Guaxuta, che sono distanti per una lega e mezza dalla detta città, e le abitazioni sono tuttavia continuate: il che essi desideravano grandemente, secondo che si poté comprendere dalle cose che dipoi successero. Risposi non mi voler posare fin che non giugnessi alla detta città di Tessaico. Mi dissero ch'io andassi in buon'ora, e che volevano andare avanti per apparecchiar gli alloggiamenti per gli Spagnuoli e per me, e cosí si partirono. Ed essendo giunti alle dette terre, ci vennero incontra alcuni de' primarii di quelle, e ne ricevettero benignamente e ne dettero le cose necessarie al vivere.
A mezzogiorno giugnemmo alla città e andammo alla casa dove avevamo d'albergare, spaziosa e larghissima, la quale era stata del padre di Guanacacin, signore della città. E prima che entrassimo nell'albergo, essendo ancora tutti insieme, comandai al trombetta che facesse un bando che, sotto pena della testa, niuno senza mia saputa si partisse dall'albergo né dalla detta casa; la quale è tanto larga che in essa tutti noi Spagnuoli commodamente potevamo alloggiare, ancora che fussimo stati piú d'altritanti. E questo ordinai acciochè gli abitatori della detta città si fidassero e stessero in casa, perciochè mi pareva di non vedere la terza parte della moltitudine che soleva essere nella detta città, e non si vedevano né donne né fanciulli, il che era segno che pensavano di non esser sicuri.
Come gli abitatori di Thessaico insieme col signore abbandonarono la città. Li signori di Coatican e Guaxuta e Autengo vengono a parlare e offerirsi al Cortese, e la risposta loro fatta. Quelli di Tessaico, udita l'imbasciata de' signori de Messico e Temistitan, presero gli nunzii e menarongli al Cortese: quel che dissero e ciò che gli fu risposto, e come furono sciolti e per qual cagione.
Quel giorno che entrammo in questa città, nell'ora di vespero dell'anno nuovo, attendemmo ad accommodarci, e vedendo il poco numero degli abitatori, e quegli essere inquieti, ci maravigliammo e credemmo veramente che, sbigottiti, non avessero ardir di comparire né camminare per la città: e per questa cagione ce ne stavamo alquanto disprovisti. Ed essendo venuta la sera, alcuni Spagnuoli salirono sopra certe terrazze, dalle quali potevano veder tutta la città, e s'accorsero che tutti si partivano, e portando via le lor robbe con le lor canoe, che essi chiamano acaler, si mettevano nel lago, e alcuni se n'andavano ai monti. E benchè io avessi dato commissione che fusse impedito loro il viaggio, nondimeno, essendo l'ora tarda e venuta la notte, ed essi affrettandosi molto, niente giovò. E cosí il signor della detta città, il quale insieme co' primarii d'essa io desiderava per nostra salvezza aver nelle mani, se n'andò alla città di Temistitan, che da quel luogo per il lago è lontana sei leghe, e se ne portarono via le lor robbe. E per mandare ad effetto la cosa che s'avevano pensata secondo il lor desiderio, ci vennero incontra quei quattro dei quali ho detto di sopra, per disturbarmi, ch'io non facessi loro alcun danno, e in quella notte abbandonarono e noi e la lor città.
Avendo noi dimorato in questa città per spazio di tre giorni, senza esserci fatto contrasto alcuno dagli Indiani (perciochè essi allora non ardivano d'assaltar noi, e noi non cercavamo d'assaltar loro da lontano, avendo io sempre avuto opinione, quando avessero voluto portarsi meco benignamente, di volergli ricevere in pace e cercar pace da loro in ogni tempo), mi vennero a parlare i signori di Coatincan, Guaxuta e Autengo, le quali sono terre grandissime e, come ho detto, sono vicine e molto appresso della detta città, e mi pregarono ch'io perdonasse loro il fallo dell'essersi fuggiti dalle lor terre, e che certamente essi non avevano combattuto contra di noi di propria volontà, e avevano deliberato di sottomettersi a tutto ciò che io comandassi loro per nome di Vostra Maestà. Io per via di interpreti risposi che essi molto ben sapevano ch'io gli avevo molto cortesemente trattati, e dell'avere abbandonata la lor patria e d'altre cose essi medesimi se n'avevano dato cagione; ma, poichè promettevano d'esser nostri amici, se ne stessero in casa loro e riconducessero le mogliere e i figliuoli, che da me sariano trattati secondo l'opere loro. E, sí come potemmo comprendere, si partirono non molto contenti.
Subito che li signori di Messico e di Temistitan e tutti gli altri signori di Culua (sotto questo nome di Culua s'intendono tutte le provincie di questi paesi suddite al dominio della città di Temistitan) intesero li signori di quelle terre essersi offerti per vassalli e sudditi a Vostra Maestà, mandarono nunzii facendo loro sapere che non avevano fatto bene, perciochè, se l'avevano fatto mossi da paura, dovevano ben sapere che essi erano di numero infinito e di grandissimo potere, sí che tosto erano per uccider tutti noi Spagnuoli insieme con gli abitatori di Tascaltecal; e se avevano fatto ciò per non abbandonar la patria, l'abbandonassero e se n'andassero alla città di Temistitan, perciochè essi concederiano loro terre maggiori e migliori, nelle quali potrebbono e vivere e abitare. Questi signori di Coatincan e Guaxuta presero gli nunzii e fecero condurgli legati dinanzi a me, e subito in mia presenza confessarono quelle cose che erano venuti a dire per nome de' signori di Temistitan; nondimeno dissero d'esser venuti per andar là per poter esser mezzani, poichè erano diventati nostri amici, di componer le cose pacificamente tra me e li signori di Culua. Ma quei di Guaxuta e Coatincan affermavano il fatto non andar cosí, e che quei di Messico e di Temistitan ad ogni modo avevano deliberato di far guerra; nondimeno, benchè cosí stesse la verità, finsi di credere alli nunzii, perciochè io desideravo di tirar li signori della famosa città a pigliar l'amicizia nostra, conciosiachè da questo pendesse la pace e la guerra di tutte l'altre provincie che s'erano ribellate dalla Maestà Vostra. Comandai che fussero sciolti e feci lor sapere che non temessero, ch'io volevo che tornassero alla città di Temistitan, e li pregavo che dicessero alli signori della città ch'io non desideravo guerra con esso loro, benchè n'avessi giusta cagione, e che saremmo amici come solevamo esser prima. E per poterli meglio indurre al servizio di Vostra Maestà, mandai a dir loro ch'io molto ben sapevo esser già morti coloro i quali erano stati cagione della guerra fatta contra di me, e che lasciassino andar le cose passate, e non volessero dare occasione che le lor provincie e città fussero distrutte, che io n'avevo dispiacere. Sciolti che furono, si partirono, promettendo di tornare a darmi risposta. Li signori di Coatincan e di Guaxuta e io per cosí buona opera rimanemmo amici e confederati, e io in nome di Vostra Maestà perdonai loro li passati errori, ed essi n'ebbero grandissima allegrezza.
Come il Cortese andò alla città Iztapalapa, donde fu scacciato dal fratello di Montezuma. Gli Indiani se gli appresentarono, co' quali andò combattendo fin che arrivò a detta città, non ostante che nel lago dolce cominciasse ad uscir acqua con grandissimo impeto per spazio di mezza lega. Entrò insieme con gli nemici nella città e, fatto grandissimo danno e postovi dentro fuoco, uscí, ricordatosi dell'argine rotto; e trovata molto grande acqua, la passò in grandissima fretta e ritornò in Tessaico.
Noi stemmo in questa città di Tessaico sette overo otto giorni senza battaglia alcuna o contrasto, fortificando il nostro albergo e ponendo ordine alle cose necessarie e opportune alla nostra difesa e a poter offendere li nostri nemici. Vedendo che non si movevano contra di noi, uscii della città con ducento Spagnuoli, tra i quali n'erano diciotto a cavallo, trenta con balestre e dieci con gli schioppi, e tre o quattromila Indiani amici nostri, e me n'andai alla riva del lago insino ad una certa città nominata Iztapalapa, che è lontana due leghe dalla famosa città di Temistitan e sei da Tessaico, la qual città contiene diecimila case, e la metà d'essa e forse delle tre parti le due sono poste in acqua. Il signore, che era fratello di Montezuma, il quale gli Indiani dopo la morte del detto Montezuma l'avevano fatto signore, fu il primo che ne facesse guerra e ne cacciasse della città, sí che per questo, e anco perchè avevo conosciuto che gli abitatori della detta città erano di cattivo animo verso di noi, deliberai d'andar là. E avendo essi presentito la mia venuta, per spazio di due leghe prima che io arrivassi là, in un subito mi s'appresentarono gli soldati indiani, alcuni nella pianura e alcuni nel lago portati dalle canoe, e cosí tutto quello spazio di due leghe andammo insieme mescolati, combattendo e contra quegli che erano in terra ferma e contra quegli che uscivano del lago, insin che arrivammo alla detta città. E prima quasi per due terzi d'una lega aprivano una strada mattonata, che è tra il lago dell'acqua dolce, e 'l lago dell'acqua salsa a guisa di riparo o d'argine, sí come per la figura della città di Temistitan che mandai alla Maestà Vostra si può vedere; la quale strada o riparo essendo rotto, dal lago salso nel lago dolce cominciò ad uscir l'acqua con grandissimo impeto, benchè siano distanti per spazio di piú di mezza lega. E non ci accorgendo noi di cotale inganno, per il desiderio della vittoria che ottenevamo, passammo via e gli seguitammo tanto che, mescolati insieme co' nemici, entrammo nella detta città. E perchè già erano avisati, tutte le case che erano situate in terra ferma erano vote, e le persone tutte con le lor robbe erano andate nelle case poste nel lago, e quivi si fermarono coloro che fuggivano e aspramente combatterono contra di noi. Nondimeno l'onnipotente Iddio si degnò di prestarci tanto di forze che entrammo insin dove entravano nell'acqua, alle volte insino al petto e tal volta nuotando, e pigliammo assai case di quelle che erano poste in acqua, e appresso piú di seimila tra uomini, donne e fanciulli, perciochè gl'Indiani amici nostri, veduta la vittoria che n'aveva conceduta l'onnipotente Iddio, non avevano altra cura che attendere a fare uccisione da ogni lato. Ed essendo già venuta la notte, raccolsi li soldati e attaccai fuoco in alcune case; e mentre s'abbrucciavano, parve che Iddio allora movesse lo spirito mio e mi ritornasse a memoria la via mattonata over l'argine rotto ch'io avevo visto nel viaggio, sovvenendomi il grandissimo danno che da quello poteva venire, onde in fretta co' miei soldati posti in ordinanza uscii della città.
Essendo già la notte scura, e giunto a quell'acqua che poteva già esser nove ore di notte, e ne era uscita tanta e con sí grande impeto che ci fu forza di passarla con grandissima fretta, e s'affogarono degl'Indiani amici nostri, e perdetti tutta la preda ch'io avevo tolta della detta città. E senza dubbio racconto il vero alla Maestà Vostra, che, se noi non fussimo passati quella notte overo avessimo indugiato tre ore di piú, niuno di noi scampava, perciochè eravamo circondati dall'acque, senza aver passo alcuno donde potessimo uscire. Ed essendo venuto il giorno chiaro, vedemmo l'un lago esser pieno come l'altro, e l'acqua non correva piú, e tutto il lago dell'acqua salsa era pieno di canoe, nelle quali erano portati uomini da combattere, che si pensarono di poterci prendere in quel luogo. Io quel giorno istesso me ne tornai alla città di Tessaico combattendo alle volte con quegli che uscivano del lago, benchè poco danno potessimo far loro, perciochè subito si ritiravano nelle lor canoe. Ed essendo giunto alla città di Tessaico, trovai li soldati che furono lasciati quivi ben sicuri, né avevano patito travaglio alcuno, e ricevettono grandissimo piacere per la nostra tornata e per la ottenuta vittoria. Il giorno seguente, poichè fummo arrivati, morí quello Spagnuolo il quale era venuto ferito, e fu il primo che gl'Indiani uccisero insino a quell'ora.
Gli ambasciadori della città d'Otumba e di quattro altre città vicine vengono al Cortese ad offerirsi, chiedendo perdono de' passati errori; e come si scusorono, e quello ch'ei gli rispose.
Il dí seguente mi vennero a trovare certi ambasciadori della città d'Otumba e di quattro altre città a quella vicine, le quali sono distanti quattro, cinque o sei leghe da Tessaico, e umilmente mi pregarono ch'io perdonassi loro li passati errori commessi nella passata guerra, perciochè quivi in Otumba si ragunarono tutte le forze di Messico e di Temistitan, quando ci partimmo da quella e rotti e messi in fuga, pensandosi di poterci del tutto mandare in ruina. E ben conoscevano gli abitatori d'Otumba che non si potevano scusare, benchè si scusassero con dire che cosí era stato loro commesso, e per muovermi e tirarmi piú facilmente nella loro amicizia, dissero che li signori di Temistitan avevano loro mandati ambasciadori per tirarli a seguitar la lor parte, e a confortargli a non pigliare in modo alcuno l'amicizia nostra, altramente fariano lor guerra e gli distruggerebbono: ma essi avevano eletto d'esser vassalli della Maestà Vostra e d'eseguir li miei comandamenti. Risposi che molto ben sapevano di qual castigo fussero degni circa le cose passate, e se volevano ch'io perdonassi loro e credessi che le cose dettemi venissero da sincero animo, mi menassero prima prigioni quegli ambasciadori che avevano detto esser venuti a loro, e tutti quegli di Messico e di Temistitan che si trovassero nella lor provincia, altramente io non perdonarei loro; e che se ne ritornassero a casa, e si portassero di modo che dalle loro opere potesse conoscere esser fedeli sudditi di Vostra Maestà. E benchè adducessero molte altre ragioni, nondimeno da me non poterono ottenere altro, e se ne ritornarono nella lor provincia promettendo di volere eseguir li miei comandamenti, e cosí dipoi sempre sono stati e sono fedeli sudditi di Vostra Maestà.
Come Ispasuchil altrimenti detto Cucascacin, già signor di Tessaico, fuggí di prigione, e come fu ucciso. Il Cortese manda Consalvo, esecutor maggiore, per accompagnar i suoi nunzii e per assicurar la provincia d'Aculuacan e altri effetti. Come, assaliti da' nemici e tolta loro la preda, il capitano quivi arrivato co' cavalli urtarono aspramente i nemici e, uccisi molti, li misero in fuga. Come, andando alla provincia detta Calco, ruppero le squadre dalle quali furono assaliti; e come quelli di Calco vennero a trovar il Cortese, e il presente che gli fecero e le parole che insieme usorono.
Nell'altra relazione, fortunatissimo ed eccellentissimo Signore, significai alla Maestà Vostra che, in quel tempo che mi misero in fuga e discacciarono dalla città di Temistitan, io menavo meco un figliuolo e due figliuole del signor Montezuma, e anco il signor di Tessaico, che era nominato Cacamacin, e due suoi fratelli e molti altri signori ch'io tenevo prigioni; e come tutti erano stati uccisi dagli nemici, benchè fussero della lor nazione, e alcuni anco de' lor signori, eccetto due fratelli carnali del detto Cacamacin, che per buona ventura appena poterono scampare, l'uno de' quali era chiamato Ispasuchil, e anco in un altro modo Cucascacin: il quale già a nome di Vostra Maestà, consigliatomi col signor Montezuma, l'avevo fatto signore della detta città di Tessaico e della provincia d'Aculuacan. Tenendolo io prigione nella città di Tascaltecal, ed essendosi sciolto, se ne fuggí e se ne tornò alla detta città di Tessaico, e già avevano creato un altro signore suo fratello, nominato Guanacacin, del quale di sopra ho fatto menzione. Dicono che egli commise che 'l detto suo fratello Cucascacin fusse ucciso, e la cosa passò in questo modo: subito che Cucascacin entrò nella provincia di Tessaico, i guardiani lo fecero prigione e ne fecero avisato Guanacacin lor signore, ed esso lo fece sapere al signor di Temistitan, il quale, inteso che ebbe il detto Cucascacin essere arrivato, pensandosi che egli non avesse potuto romper la prigione ed esser fuggito, ma esser andato a nostra istanzia acciochè ne potesse dar qualche aviso, subito comandò al detto Guanacacin che uccidesse Cucascacin suo fratello, ed egli senza indugio eseguí il comandamento. L'altro lor fratello, che era minor di loro, il quale rimase appresso di noi, essendo fanciullo apprese li nostri costumi e diventò cristiano, e gli ponemmo nome don Fernando. E mentre mi partii della provincia di Tascaltecal alla volta delle provincie di Messico e di Temistitan, lo lasciai quivi con alcuni Spagnuoli, del quale e di quel che di lui avvenne a pieno narrerò poi alla Maestà Vostra.
Il giorno seguente, dapoi che fui tornato dalla città di Iztapalapa alla città di Tessaico, deliberai di mandare Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore di Vostra Maestà, capitano con venti a cavallo e dugento fanti armati con balestre, schioppi e rotelle, per due necessarii effetti. L'uno era per accompagnare alcuni nunzii fuori della detta provincia, ch'io mandavo alla città di Tascaltecal, per sapere a che termine fussero quei tredici brigantini i quali s'apparecchiavano quivi, e apparecchiare altre cose opportune sí per coloro che erano rimasi nella città della Veracroce, sí anco per quegli che erano meco.
L'altro era per far sicura una parte della provincia, sí che gli Spagnuoli potessero sicuramente andare e tornare, perciochè a quel tempo non potevamo uscir della provincia d'Aculuacan, se non passavamo per li luoghi de' nemici, e gli Spagnuoli che dimoravano nella città della Veracroce e altrove non potevano venirci a trovare senza grandissimo pericolo. E commisi al detto esecutor maggiore che, dopo che gli avesse condotto gli nunzii in luoghi siuri, arrivasse fino a una certa provincia nominata Calco, la qual confina con questa provincia di Culuacan, perciochè io tenevo per cosa certa che gli abitatori d'essa, benchè fussero della fazione di quelli di Culua, volevano farsi sudditi di Vostra Maestà, e non avevano ardir di farlo per paura d'una certa guardia che vi tenevano quei di Culua. Il detto capitano si partí, e fu accompagnato da tutti quegl'Indiani di Tescaltecal i quali avevano condotte quivi le nostre some, e d'alcuni altri che erano venuti per darci soccorso e avevano fatto qualche preda nella guerra. Subito che cominciarono ad inviarsi, il capitano giudicò che nel marchiare gli nemici non averiano ardir di assaltargli, se gli Spagnuoli stessero per retroguarda; ma gli nemici, che erano nella terra del lago e su per la riva, assaltarono la schiera delle genti di Tascaltecal e tolsero loro la preda e n'uccisero alcuni. Ed essendo quivi arrivato il capitano co' cavalli, urtarono gli nemici aspramente e ne ferirono e uccisero molti; quegli che rimasero si misero in fuga, e si ritirarono all'acqua e alle terre che sono su la riva del lago. E gl'Indiani di Tascaltecal se n'andarono nella patria con le cose che erano avanzate loro, e similmente gli nunzii ch'io mandavo a Tascaltecal; i quali poichè furono giunti in luogo sicuro e fuor d'ogni paura, il detto Consalvo di Sandoval dirizzò il suo cammino alla detta provincia di Calco, che era vicina. E il giorno seguente, la mattina a buon'ora, molti de' nemici si misero insieme per riceverlo con l'arme, ed essendo l'una e l'altra parte in campagna, li nostri assalirono gli nemici e co' cavalli ruppero due squadre, di maniera che in breve spazio ottennero la vittoria e andarono abbrucciandogli e uccidendogli.
Il che fatto e assicurato quella strada, gli uomini di Calco uscirono e benignamente ricevettero gli Spagnuoli, e l'una e l'altra parte ebbe grandissima allegrezza. E i lor baroni mi fecero a sapere che volevano venire a parlarmi, e partendosi vennero ad alloggiare nella città di Tessaico. E giunti quivi con due figliuoli del signor della detta provincia di Calco mi vennero a trovare, e mi donarono trecento pesi d'oro in pezzi, e mi dissero che 'l lor padre era morto e che morendo egli aveva detto loro che niun maggior dispiacere sentiva che morir prima che m'avesse veduto, e che m'aveva aspettato lungo tempo, e aveva comandato loro che, subito ch'io giugnessi a quella provincia, venissero a farmi riverenza e a parlare e mi tenessero in luogo di padre; e che, avendo intesa la mia venuta alla città di Tessaico, subito desiderarono di venire a trovarmi, nondimeno non ardirono di farlo per paura di quei di Culua, e che né anco allora averiano avuto ardimento di venire, se quel capitano ch'io avevo mandato non fusse giunto nella lor provincia; e similmente, acciò potessero ritornar sicuri, bisognava ch'io gli facessi accompagnare da altrettanti Spagnuoli. Oltra di ciò mi dissero ch'io molto ben sapevo che essi non m'erano stati mai nemici, né in guerra né fuor di guerra, e anco sapevo che, mentre gli abitatori di Culua assediavano la fortezza e la casa nella città di Temistitan, e gli Spagnuoli che io avevo lasciati quivi mentre andai a Cimpoal a parlare a Narbaez, e anco due Spagnuoli che erano nella lor provincia per guardia di certa quantità di maiz che io avevo mandato a ricogliere nella detta provincia, gli avevano cavati fuori di quella insino alla provincia di Guasucingo, perciochè conoscevano gli abitatori di quella esser nostri amici, acciò quelli di Culua non gli uccidessero, sí come avevano uccisi tutti quegli che avevano trovati fuori della fortezza nella città di Temistitan. E con le lagrime sugli occhi mi dissero queste e molte altre cose. Io gli ringraziai e del loro buon animo verso di noi e buoni effetti, e promisi di fare ogni cosa che essi desiderassero, e che sariano ben trattati da me. E d'allora innanzi sempre mostrarono buon animo verso di noi, e rendono ubbidienza in tutte quelle cose che io comando loro in nome di Vostra Maestà.
Come Ferdinando, fratello di Cacamacin, è creato signor della provincia Aculuacan.
I figliuoli del detto signor di Calco e quegli che erano venuti con esso loro dimorarono quivi un giorno, e, perchè desideravano di ritornar nella patria, mi pregavano che io dessi loro dei miei soldati che gli conducessero sicuri. E Consalvo di Sandoval accompagnato da alcuni cavalli e fanti se n'andò con loro, a' quali comandai che, poichè gli avessero accompagnati nella provincia, arrivassero a Tascaltecal e menassero certi Spagnuoli che dimoravano quivi, e anco don Ferdinando, fratello del detto Cacamacin, del quale di sopra ho fatto menzione. E dopo quattro o cinque dí ritornò il detto maggior esecutore con li detti Spagnuoli e menò il detto don Ferdinando. E de lí a pochi giorni intesi che, essendo egli fratello de' detti signori della detta provincia, a lui apparteneva tal dominio, benchè avesse altri fratelli, sí che per questa cagione, e anco perchè la detta provincia era senza signore (avendo Cacamacin signor di quella lasciato ogni cosa e fuggitosene alla città di Temistitan), e similmente perchè egli era molto amico de' cristiani, procurai in nome di Vostra Maestà che lo ricevessero per signore. E gli abitatori di quella città, benchè fussero pochi, lo ricevettero e gli resero poi ubbidienza, e molti che s'erano partiti e fuggiti ritornarono nella detta città e provincia d'Aculuacan e servivano al detto don Ferdinando, e cominciossi poi a riformare e abitar la detta città.
Come li signori di Coatincan e Guaxuta vennero ad avisar il Cortese dell'apparecchio de' nemici,
e quello ch'ei li rispose. Come due terre si ribellarono: il Cortese andò dove scorrevano i nemici e molti n'uccise; que' delle dette due terre vengono a chieder perdono ed è loro concesso,
e quello ordinò per poterlo soccorrere.
Dopo questo, de lí a due giorni mi vennero a trovare li signori di Coatincan e di Guaxuta, e mi dissero ch'io tenessi per certo che tutte le forze di que' di Culua si movevano contra di me e contra degli Spagnuoli, e tutto 'l paese era pieno di nemici; e ch'io dicessi loro se dovevano menar le moglie e figliuoli dove io era, overo ne' monti, perciochè essi stavano in grandissima paura. Io gli confortai a star con animo ardito, e che non temessero, e dimorassero in casa loro né si movessero, perciochè di niuna cosa pigliavo maggior piacere che di combattere contra di que' di Culua; e che stessero apparecchiati e mettessero le guardie in tutta la lor provincia, e, vedendo e sentendo gli nemici venire, subito me lo facessero a sapere. E cosí si partirono, avendo in animo di voler esequir quel che io avevo ordinato. Quella notte misi in ordine i miei soldati e posi le guardie dove conobbi che facesse di bisogno, e quella notte noi non andammo a dormire, né attendemmo ad altro; e tutta quella notte e l'altro giorno stemmo aspettando, giudicando che dovesse avenire ciò che ne avevano detto que' di Guaxuta e di Coatincan. Il giorno seguente mi fu riferito che gli nemici andavano trascorrendo per la riviera del lago con intenzione di pigliar qualcuno degl'Indiani di Tascaltecal, che andavano e tornavano per portar le cose necessarie all'esercito; e avevo inteso che avevano fatto lega con due terre suddite alla città di Tessaico, che erano vicine al lago, per farci da quella via ogni danno che potevano, e per fortificarsi facevano argini e fossi e diverse altre cose per loro difesa.
Udito questo, il giorno seguente, con dodeci cavalli e dugento fanti e due piccioli pezzi d'artegliaria da campo, me ne andai dove gli nemici andavano scorrendo, il qual luogo è lontano dalla città per spazio di una lega e mezza. Ed essendo uscito, trovai certe spie mandate da' nemici, e altri che erano posti in aguato, e andammo loro adosso e perseguitandoli ne uccidemmo alcuni; quegli che rimasero si gettarono all'acqua, e noi abbrucciammo una parte delle dette terre, e allegri per la ottenuta vittoria ritornammo alla città. Il giorno seguente tre de' principali di dette terre vennero umilmente a dimandarmi perdono, pregandomi che io non volesse piú distruggerli, e mi promettevano per l'avenire di non ricevere piú alcuno di que' di Temistitan: ed essendo costoro persone di non molta importanza, e sudditi di Ferdinando, per nome di Vostra Maestà perdonai loro. Un altro giorno vennero altri abitatori delle dette terre, feriti e mal trattati, e mi diedero nuova che quegli di Messico e di Temistitan erano di nuovo tornati alle loro terre, e, non vi essendo stati ricevuti cosí benignamente come prima erano soliti, gli avevano malamente trattati e alcuni n'avevano menati prigioni, e se io non gli difendevo gli avrebbono menati via tutti: e mi pregavano che io fussi pronto e apparecchiato a dar loro aiuto, se per aventura di nuovo vi ritornassero, che essi certamente credevano che vi dovessero tornare con maggior esercito per condurgli all'ultima ruina. E avendogli consolati, ordinai che stessero attenti e provisti di maniera che, mentre quegli di Temistitan si movessero contra di loro, io lo potesse sapere a tempo per potergli soccorrere. E avuto questa risposta se ne ritornarono nelle loro terre.
In che modo fusse avisato il Cortese del soccorso che era giunto alla Vera Croce. Come, richiesto d'aiuto da quei di Calco, non li potendo egli a quel tempo abilmente soccorrere, gli mise in lega con que' di Guasucingo e Guadacacula, e come dipoi sempre s'aiutarono l'un l'altro.
Gli uomini ch'io avevo lasciati nella città di Tascaltecal per fabricar gli brigantini avevano inteso che nel porto della città della Vera Croce era giunta una nave, nella quale oltra li marinai erano trenta o quaranta Spagnuoli, otto cavalli, alcune balestre e schioppi e polvere; e non sapendo ancora come andassero le cose in quella guerra, né confidandosi di potere venire a noi, s'attristavano grandemente. Erano in quella città certi Spagnuoli che non ardivano di venirmi a trovare, benchè grandemente desiderassero di portarmi questa buona nuova; ma subito che un mio servidore, ch'io avevo lasciato quivi, intesi che alcuni voleano tentar di venire a trovarmi, feci fare un bando con gravissima pena, che niuno si partisse di quel luogo finchè non avessero commissione da me. E il mio servitore, conoscendo che di niuna cosa io potevo aver maggior piacere che della venuta di quella nave e soccorso che ne conduceva, ancora che 'l viaggio non fusse sicuro, si partí di notte e venne alla città di Tessaico: e noi in vero ci maravigliammo grandemente come egli fusse potuto giugner là vivo, e di simil nuova ci rallegrammo sommamente, perciochè avevamo grandissimo bisogno d'aiuto.
Il dí medesimo arrivarono nella città di Tessaico certi uomini da bene nunzii de' signori di Calco, e mi fecero intendere che, per essersi dati per vassalli a Vostra Maestà, tutti quegli di Messico e di Temistitan venivano contra di loro per distruggerli e uccidergli; e per questo avevano convocati tutti e i lor convicini e ordinato che stessero provisti, e pregavano me che io gli aiutassi in tal necessità, perciochè pensavano, non gli aiutando io, di dover patir grandissimo danno. E liberamente confesso a Vostra Maestà, sí come altre volte nell'altra relazione le ho detto, che oltra le nostre fatiche e necessità il maggior mio carico e dolore era il non poter dar aiuto agli amici nostri, i quali, per essersi fatti sudditi di Vostra Maestà, erano gravissimamente molestati da' nostri nemici di Culua. E benchè io e tutti i miei soldati usassimo in ciò ogni diligenza, parendoci in niuna cosa piú compiacere alla Maestà Vostra che in dar favore e soccorso a' sudditi suoi, nondimeno, perchè 'l tempo che vennero que' di Calco a trovarmi non mi lasciavo conceder loro quel che desideravano, dissi che allora volevo mandar a condur gli brigantini, e a questo s'apparecchiavano tutti gli abitatori di Tascaltecal, donde doveano esser condotti in pezzi li detti brigantini, e a questo effetto era forzato mandare alquanti cavalli e fanti; e sapendo io che gli abitatori delle provincie di Guasucingo, di Churultecal e di Guadacacula erano vassalli di Vostra Maestà e amici nostri, ordinai che se ne andassero a loro e in mio nome, essendo lor vicini, da essi dimandassero aiuto e soccorso, acciò fra questo mezzo potessero esser sicuri finchè io stesso gli soccorressi, perciochè allora io non potevo altramente provedere. E avenga che tal cose non fussero loro cosí grate come saria stato lo aver mandato alquanti Spagnuoli, nondimeno mi ringraziarono e dimandarono ch'io dessi loro lettere di credenza, acciò fosse prestato lor fede e piú sicuramente potessero richiedergli, perciochè tra gli abitatori di Calco e l'altre due provincie, essendo di diversa fazione, sempre era stata nemicizia. E per aventura, quando io trattavo questo negozio, vennero certi ambasciadori dalle dette provincie di Guasucingo e di Guadacacula, e in presenza degli ambasciatori di Calco dissero che li signori delle dette provincie non avevano avuto nuova alcuna di me, dapoi che m'ero partito dalla città di Tascaltecal, e che tenevano le lor vedette nella cima de' monti che soprastanno a tutta la provincia di Messico e di Temistitan, acciochè, subito che vedessero fumi spesso, i quali sono indizii di battaglia, venissero co' lor sudditi e soldati per darmi aiuto: e perciochè in poco tempo avevano visti piú fumi del solito, erano venuti per intendere come io mi ritrovavo, e, bisognandomi soccorso alcuno, subito potessero fare un esercito. Io gli ringraziai e risposi che, per favor d'Iddio, tutti gli Spagnuoli e io insieme stavamo bene, e sempre avevamo avuto vittoria de' nostri nemici; e oltra il piacer ch'io pigliavo del lor buon animo e presenza, mi rallegravo infinitamente della lor venuta per mettergli in lega con que' di Calco, che erano presenti, e gli pregavo, essendo tutti vassalli di Vostra Maestà, ad esser buoni amici e aiutar l'un l'altro contra gli abitatori di Culua, che sono uomini malvagi e pessimi: e massimamente allora dovevano farlo, che quelli di Calco avevano bisogno del loro aiuto, perciochè que' di Culua volevano assalirgli. E a questo modo rimasero amici e confederati. E avendo essi dimorato quivi due giorni meco, si partirono tutti molto allegri e contenti, e d'allora innanzi l'un l'altro si diedero aiuto.
Come, andando Consalvo per condur i brigantin, fece molti prigioni d'una terra li cui abitatori avevano ucciso cinque Spagnuoli, e nondimeno, avanti che si partisse, fece ragunar detti abitatori e abitar la lor terra. Come furono condotti i detti brigantini, e con qual modo e ordinanza.
De lí a tre giorni, avendo saputo che già erano finiti tredici bregantini, e gli uomini che gli dovevano condurre essere apparecchiati, mandai Consalvo di Sandoval esecutor maggiore con quindeci cavalli e ducento fanti, acciò avessi cura di fargli condurre; al quale diedi ordine che distruggesse e del tutto rovinasse una gran terra suddita a questa città di Tessaico, che confina con la città di Tascaltecal, perciochè gli abitatori di quella avevano uccisi cinque de' nostri cavalieri che dalla città della Veracroce andavano alla famosa città di Temistitan, quando io vi stavo assediato, in niun modo pensando che ci potesse esser fatto un simil tradimento. E quando la prima volta entrammo in questa città di Tessaico, trovammo negli oratorii e moschee della detta città i cuoi delli detti cinque cavalli, co' piedi e co' ferramenti, cuciti e sí bene acconci che non potria imaginar di far meglio; e per segno di vittoria e quegli e molte robbe e varie cose di Spagnuoli avevano offerto a' loro idoli, e trovammo il sangue de' compagni e fratelli nostri sparso e sacrificato in tutte quelle torri e moschee. Questa cosa ne fu di tanto dispiacere, che ci fu forza rinovare tutte le nostre fatiche e travagli. E gli uomini di quella terra e gli altri circonvicini, allora che li detti cristiani passarono de lí, finsero, come fanno i traditori, di ricevergli benignamente, acciochè si dessero a credere d'esser sicuri, per poter essi usar verso di loro la maggior crudeltà che alcuno giamai usasse; perciochè li sudetti cristiani, scendendo da una certa piaggia e camminando per un sentiero difficile, furono astretti a montar da' cavalli e menargli per le briglie, ed essendo cosí impacciati furono rinchiusi da' nemici da ogni banda in quel luogo difficile, dove s'erano posti in aguato. Di questi cinque alcuni n'uccisero e altri tennero prigioni, per condurgli alla città di Tessaico e sacrificargli e cavar loro il cuore dinanzi a' loro idoli. Noi crediamo che cosí avenisse, conciosiachè, passando di là il detto maggiore esecutore, certi Spagnuoli che andavano seco, in una casa d'una terra che è tra la città di Tessaico e quella terra dove furono uccisi e presi li predetti cristiani, in un muro biancheggiato trovarono scritte queste parole: "Qui fu preso lo sfortunato Giovanni Iusta". Era costui un gentiluomo dei sopradetti cinque a cavallo. Il quale spettacolo senza dubbio a coloro che 'l viddero apportò grandissima maninconia e dispiacere.
Essendo arrivato là il maggiore esecutore, subito gli abitatori di quella terra conobbero il loro grande errore e sceleraggine, e fuggendo cominciarono a cercar di salvarsi; ma li nostri fanti e cavalli e gli Indiani amici nostri gli perseguitarono e n'uccisero molti, ed ebbero prigioni assaissime donne e tanti fanciulli quanti poterono avere e gli fecero schiavi; benchè, mosso a pietà, non volse che si facesse tanta uccisione né tanta ruina quanta poteva, e prima che si partisse comandò che si ragunassero e abitassero nella lor terra. E al presente v'abitano, e sono del loro errore pentiti grandemente.
Il detto maggiore esecutore andò piú avanti cinque o sei leghe, ad una certa terra della provincia di Tascaltecal che è la piú vicina alli confini di Culua, e quivi trovò gli Spagnuoli e gli uomini che conducevano li brigantini. E il giorno seguente si partí con le tavole e con le travi, che le portavano con un bell'ordine piú di ottomila uomini: ed era cosa mirabile da vedere, e cosí penso che sia maravigliosa da credere, il portar dieci brigantini per terra per spazio di diciotto leghe. E riporto il vero alla Maestà Vostra, che dalla prima all'ultima schiera vi era lo spazio di tre leghe. E quando cominciarono a camminare andavano avanti otto Spagnuoli a cavallo e cento fanti; dai fianchi vi erano a difesa piú di diecimila uomini della provincia di Tascaltecal, de' quali erano capi Iutecal e Teutipil, che sono due signori de' principali della detta provincia; alla retroguardia erano cento Spagnuoli, e oltra li fanti e otto a cavallo forse diecimila uomini da combattere, de' quali era capo Chichimecatecle, che è de' primarii di quella provincia, con altri capitani che menava seco. Quando si partirono, nella prima ordinanza conducevano le tavole e nell'ultima le travi; e come entrarono nella provincia di Culua, maestri de' brigantini comandarono che nella prima ordinanza fussero poste le travi e le tavole nell'ultima, perciochè quelle erano per esser di maggiore impedimento quando fusse avenuto accidente alcuno, e, se doveva avenire, era ragionevole che dovesse essere nella prima ordinanza. Cichimecatecle, che conduceva le tavole e insin allora con i suoi soldati aveva tenuta la prima schiera, stette ostinato e fece grandissima resistenza, e vi fu molta difficultà a far che egli andasse all'ultimo luogo, imperochè esso voleva mettersi ad ogni pericolo che ne potesse avenire; ma, conceduto che ebbe questo, non voleva patire che alcun Spagnuolo stesse nell'ultima schiera, che, essendo egli uomo di gran valore e fortezza, cercava d'aver cotale onore. Li predetti capitani menavano duemila uomini carichi di vettovaglie, e con quell'ordine e maniera seguitarono il lor viaggio, nel quale stettero tre dí. Il quarto dí entrarono in questa città con grandissima allegrezza e festa e con suoni di timpani, e io andai loro incontra per ricevergli. E, come ho detto di sopra, quella moltitudine s'estendeva tanto che, dall'ora che cominciarono ad entrar li primi, passò lo spazio di sei ore prima che gli ultimi entrassero, non si rompendo mai le file di coloro che entravano. Appressato che mi fui a loro, e ringraziati che ebbi quei signori de' beneficii che ne avevano fatti, assegnai loro gli alloggiamenti e feci provedere delle cose necessarie il meglio che si poté. E mi dissero che desideravano d'azzufarsi con quei di Culua, e vedessi io quel che mi piacesse comandar loro, e che essi, con gli altri i quali avevano menati seco, erano venuti con quell'animo, e volevano o morire insieme con gli Spagnuoli o vendicarsi. Io gli ringraziai e dissi che si riposassero, che tosto satisfarei al lor desiderio.
Come il Cortese, uscito fuori della città, trovò un squadrone de' nemici, quali mise in fuga, molti di loro uccisi. Come giunsero alla città Xaltoca e combattendo entrarono e, discacciati i nemici, n'abbrucciorono parte. Il seguente giorno, trovati i nemici, gli perseguitano, e arrivorono alla città Guantican, a Tenainca e Acapuzzalco. Appresso la città Atacuba assaltano i nemici, entrano nella città, v'appiccano il fuoco; e perchè abbrucciorono la quarta parte dell'albergo dove alloggiorono.
Poichè tutti questi di Tascaltecal si furono riposati tre o quattro giorni nella città di Tessaico, i quali certamente in comparazione degli uomini di questi paesi sono valorosissimi, comandai che si mettessero in ordine cinque cavalli, trecento fanti e cinquanta tra balestrieri e schiopettieri, e sei piccioli pezzi d'artegliaria da campo; e senza che niuno sapesse dove andassimo, a nona ci partimmo da questa città, e vennero meco li predetti capitani con forse trentamila uomini, con le loro schiere molto ben ordinate secondo la loro usanza. Lontano da questa città quattro leghe, essendo già l'ora tarda, trovammo una schiera di nemici, e noi a cavallo gli andammo adosso e gli mettemmo in fuga; quegli di Tascaltecal, essendo destri e leggieri, ne seguitarono, e uccidemmo molti nemici. Quella notte stemmo sempre in campagna e al sereno, con grandissime guardie e del tutto apparecchiati. Il dí seguente, la mattina a buon'ora, cominciammo a seguitar l'incominciato viaggio: e insin ora io non avevo palesato ad alcuno dove io volessi andare, e ciò avevo fatto guardandomi da certi di Tessaico che venivano con esso noi, acciochè non lo manifestassero a que' di Messico e di Temistitan, che ancora non mi fidavo molto di loro. Giugnemmo ad una terra nominata Xaltoca, che è situata nel mezzo del lago, e d'intorno di quella trovammo e molte e gran fosse d'acqua, e attorno attorno facevano forte la detta terra, che non ci potevano entrar i cavalli; e gli nemici mettevano grandissimi gridi, e aventavano contra di noi bastoni acuti nella cima e dardi. Li fanti, benchè con gran fatica, pur v'entrarono e gli cacciarono fuori della terra, e abbrucciarono gran parte d'essa. E quella notte andammo ad alloggiare lontano de lí una lega.
Venuto il giorno, seguitando il nostro viaggio trovammo gli nemici, li quali da lontano cominciarono a gridare, come è lor costume di fare nella battaglia: e cotai gridi sono orribili da sentire. Noi cominciammo a perseguitargli, e perseguitandogli arrivammo ad una grande e bella città nominata Guantican, e la trovammo disabitata, dove dimorammo quella notte. Il giorno seguente, essendo andati piú avanti, arrivammo ad una città nominata Tenainca, nella quale non trovammo ostaculo alcuno. Ed essendoci riposati, andammo poi anco ad una altra città, il cui nome è Acapuzalco, la quale è tutta posta nel circuito del lago, e in quella non ci fermammo troppo, desiderando io grandemente arrivare ad un'altra città detta Atacuba, che è vicina alla città di Temistitan. Ed essendo avicinati a quelle, trovammo d'intorno intorno molte fosse d'acqua, e gli nemici molto pronti e apparecchiati. E subito che noi e gl'Indiani amici nostri gli vedemmo, andammo ad assaltargli, ed entrammo nella città uccidendogli e cacciandogli fuori; ed essendo già l'ora tarda, non facemmo altro che metterci nell'albergo, il quale era tanto grande che commodamente vi potemmo stare. Venuto il giorno, gl'Indiani amici nostri cominciarono a guastare e abbrucciare la città, salvo l'albergo dove noi alloggiavamo, e in questo usammo tal diligenzia che fu abbrucciata la quarta parte del nostro albergo; e ciò fu fatto perciochè un'altra volta, quando ci partimmo dalla famosa città di Temistitan essendo stati rotti, gli abitatori di questa città, insieme con que' di Temistitan, in quella ci combatterono aspramente e uccisero molti Spagnuoli.
Come, dimorando in Atacuba, fecero molte scaramuccie, con gran danno de' nemici e senza lesion degli Spagnuoli. Parole che usarono il Cortese e Spagnuoli con li nemici, e le pronte risposte che li furon fatte. Come, ritornando a Tessaico, essendo perseguitati da' nemici, si rivolsero loro adosso e molti n'uccisero, sí che si restarono di piú oltre perseguitargli.
In quei sei giorni che stemmo in questa città d'Atacuba, niun giorno fu che non venissimo alle mani con li nemici e non facessimo scaramuccie; e li capitani di quei di Tascaltecal e i loro soldati facevano molti duelli con quegli di Tascaltecal, e combattevano tra loro e forte e valorosamente, e passavano tra loro di molte cose, e si minacciavano e dicevano villania l'uno l'altro, che senza dubbio era cosa degna da vedere. E in tutto questo tempo morirono molti dei nemici, senza morte di alcuno dei nostri, perciochè assai volte entrammo in quelle strade mattonate e nei ponti della città, benchè, avendo tanti ripari, facessero gagliarda resistenza. E spesse fiate fingevano di ritirarsi a fin che entrassimo nella città, con dire: "Entrate, entrate, acciò possiate darvi piacere". Alcune volte dicevano: "Vi pensate forsi che vi sia un altro Montezuma che satisfaccia a' vostri desiderii?" E mentre la cosa passava di questa maniera, arrivai una volta ad un certo ponte ch'io avevo espugnato, ed essendo essi de là da quel ponte, feci segno a' miei che si fermassero, e similmente essi, vedendo il mio segno, accennarono ai loro che tacessero; e dissi loro per che cagione fussero diventati sí pazzi che volessero esser distrutti, e che, se tra loro si trovava alcuno de' principali della città, dovesse venir là, ch'io desideravo di parlargli. Essi mi risposero che tutta quella moltitudine d'uomini ch'io vedevo erano signori, e perciò io dicessi lí in mezzo tutto quello ch'io volevo. E non avendo dato loro alcuna risposta, cominciarono a venire alle villanie, e certi de' nostri dissero loro che morirebbono di fame, e non gli lascieremmo uscir de lí per andare a cercar vettovaglie; risposero che non n'avevano di bisogno, e se n'avessero di bisogno mangiarebbono noi Spagnuoli e gli uomini di Tascaltecal.
E perchè l'andata mia a questa città di Tacuba era stata principalmente per venire a qualche convenzione con quei di Temistitan, e per intender che intenzione avessero, e vedendo che 'l mio dimorar quivi nulla giovava, dopo sei giorni deliberai di tornare a Tessaico per sollecitar che fussero finiti li brigantini, per poter assediargli per terra e per acqua. Il giorno che ci partimmo venimmo la sera ad alloggiare alla città di Coantincan, della quale di sopra ho fatto menzione, e gli nemici sempre ne perseguitarono, e noi co' cavalli spesse volte andammo loro adosso, e cosí alcuni rimasero nostri prigioni. Il giorno seguente cominciammo a seguitare il nostro viaggio, e gli nemici, vedendo che ci partivamo, pensandosi che lo facessimo per paura, si misero insieme molti di loro e cominciarono a seguitarne. Io, vedendo questo, comandai a' fanti che andassero innanzi, e quando si fermassero nella loro ultima schiera stessero cinque cavalli; e io rimasi con gli altri venti e comandai che sei a cavallo andassero in un certo luogo a far imboscata, e altri sei in un altro e cinque in un altro, e io con tre in un altro, e subito che gli nemici fussero passati, pensandosi tutti noi insieme essere andati avanti, quando sentissero gridar "San Giacomo" saltassero fuori e gli andassero alle spalle. Ed essendo venuto il tempo, saltammo fuori e gli cominciammo a ferir con le lanze, e per due leghe gli perseguitammo sempre in una pianura che era bella da vedere, e cosí perirono molti di loro, uccisi parte da noi e parte dagl'Indiani amici nostri, e si rimasero senza seguitarne piú oltre. Noi ci ritirammo e arrivammo i nostri, e quella notte alloggiammo in una nobil terra nominata Aculman, che è lontana due leghe dalla città di Tessaico, onde ci partimmo il giorno seguente, e a mezzodí arrivammo alla città di Tessaico. Fummo ricevuti allegramente dall'esecutor maggiore, il quale io avevo lasciato al governo, e anco da tutti gli altri, avendo grandissimo piacere della nostra ritornata, perciochè, dopo la nostra partita de lí, non avevano avuto mai novella alcuna di noi né ciò che ne fusse intervenuto, e pur grandissimamente desideravano saperlo. Il giorno dopo che noi fummo arrivati, li signori e capitani di Tascaltecal mi richiesero d'esser licenziati, e se n'andarono alla lor città molto lieti, avendo avuta qualche preda de' nemici.
Come il Cortese mandò soccorso a quei di Calco, e, andati ad una terra detta Guastepeque, fecero gran danno a quei di Culua; dipoi combatterono piú e piú volte, con danno sempre de' nemici. Poscia, andati ad una fortissima città chiamata Acapichtla, finalmente la presero per forza, con tanta uccisione de' nemici che 'l fiume che la circonda corse tutto sangue; e lasciate dette due terre pacifiche, gli Spagnuoli ritornarono in Tessaico.
Due giorni dopo che noi fummo entrati nella città di Tessaico, vennero a trovarmi alcuni Indiani, ambasciadori de' signori di Calco, e mi dissero che i lor signori gli avevano mandati per dirmi a nome loro che quegli di Messico e di Temistitan gli volevano assaltare, e assaltargli per distruggerli, e mi pregavano ch'io dovessi mandar loro soccorso, come altre volte m'avevano dimandato. Io subito procurai di mandarvi Consalvo di Sandoval con venti cavalli e trecento fanti, al quale comandai che sollecitasse l'andare e, giunto che fusse là, provedesse in tutti li modi di dare aiuto e prestare ogni possibil favore a quei vassalli di Vostra Maestà e amici nostri. Ed essendo giunto, trovò quivi essersi raunati molti delle provincie di Guassucingo e di Guacachula che stavano aspettando, e, messe le cose in ordine, si partirono per andare ad una terra nominata Guastepeque, dove erano quei di Culua, donde facevano gran danno a quei di Calco. E molti de' nostri nemici uscirono fuori d'una certa terra che era nel viaggio, e gl'Indiani amici nostri, essendo in gran numero, confidandosi ne' cavalieri spagnuoli unitamente gli assalirono e presero il lor campo. E quella notte si fermarono a quella terra vicina a Guastepeque, e il dí vegnente si partirono. Essendo giunti appresso Guastepeque, quegli di Culua cominciarono a combatter con gli Spagnuoli, nondimeno in poco spazio messi in fuga, uccisi e cacciati della terra. Li cavalieri si fermarono per dar da mangiare a' cavalli e per albergare, e, stando cosí sprovisti, gli nemici arrivarono insino alla piazza che era dinanzi all'albergo, gridando e tirando sassi, bastoni e freccie. Gli Spagnuoli, pigliate l'armi, insieme con gl'Indiani amici nostri andarono loro adosso e gli discacciarono della detta terra, e gli seguitarono per spazio d'una lega e n'uccisero molti. E quella notte, essendo molto stanchi, se ne ritornarono a Guastapeque, dove si riposarono due giorni.
Allora l'esecutor maggiore intese che in un'altra terra piú in là, nominata Acapichtla, s'era ridotta una grandissima moltitudine di nemici, e determinò di andare là per veder se volevano darsi pacificamente e aver pace. Questa terra era molto forte e situata in un luogo alto, dove non potevano esser né molestati, né offesi da' cavalli. Quivi essendo giunti gli Spagnuoli, subito gli nemici cominciarono a venire alle mani e dal luogo alto gettar sassi, e benchè col detto maggiore esecutore molti de' nostri amici, considerando la fortezza del luogo, non aveano ardire di dar l'assalto, subito che 'l detto esecutor maggiore e gli Spagnuoli viddero questo, deliberarono o di morire o di salir per forza sopra quel luogo e, raccomandatisi a san Giacomo, incominciarono a salire. E piacque a Iddio dar loro tante forze che, benchè gli nemici facessero grandissima resistenza, vi salirono pure, ma ne furono feriti molti; e dopo loro seguitarono gl'Indiani amici nostri, e gli nemici si viddero già esser vinti. E inondava tanto il sangue sí di coloro che erano uccisi per mano di Spagnuoli, sí anco di coloro che cascavano da alto, che tutti quelli che vi si trovarono presenti affermano che un picciol fiume, che circondava quella terra, corse tutto rosso di sangue de' morti; e dipoi stettero assai prima che potessero cavarne acqua buona da bevere, che, essendo gran caldo, avevano grandissimo bisogno d'acqua. Avendo il predetto esecutor maggiore posto fine a questa impresa, lasciando le due sopranominate terre quiete e punite col meritato castigo, perchè da prima rifiutarono la pace, se ne ritornò in compagnia di tutti alla città di Tessaico. E creda la Vostra sacra cattolica Maestà che questa è stata una vittoria notabile, nella quale gli Spagnuoli hanno molto ben mostrato le loro forze.
Come il Cortese mandò un'altra volta l'esecutor maggiore in soccorso a que' di Calco, e, avanti che arrivasse là, trovò che avevano fatto la giornata co' nemici e fatti molti prigioni. Come, fatta sicura la strada, quei della Vera Croce mandarono al Cortese balestre, schioppi e polvere, e gli fecero sapere che erano giunte tre navi con soldati e cavalli.
Gli abitatori di Messico e di Temistitan, avendo inteso il grandissimo danno fatto alle loro genti dagli Spagnuoli e da quelli di Calco, deliberarono di mandar contra di loro certi capitani con grandissimo esercito. Il che avendo saputo quelli di Calco, me lo fecero a sapere, pregandomi che subitamente io dovessi mandar loro soccorso: e io di subito spedi' il detto esecutor maggiore con certi fanti e cavalli. Nondimeno, quando egli arrivò là, gli nemici nostri di Culua avevano fatto giornata con gli amici nostri di Calco, e piacque a Iddio che quegli di Calco ottenessero la vittoria e uccidessero molti de' nemici; e ne fecero prigioni quaranta, tra i quali era un certo capitano di Messico e due altri de' primarii, i quali tutti furono da quelli di Calco consegnati al detto esecutor maggiore, che gli conducesse a me. Alcuni de' quali me gli mandò, gli altri ritenne appresso di sé, perciochè volse rimanere alla guardia di quelli di Calco in una certa terra ne' confini di Messico; e poichè gli parve la sua dimora non esser necessaria, ritornò a Tessaico, e menò seco gli altri prigioni che erano rimasi appresso di lui. In questo mezzo facemmo assai altre scaramuccie e zuffe con gli abitatori di Culua, le quali tutte lascio di raccontare per fuggire la lunghezza.
Essendo già sicura la strada dalla città della Vera Croce a questa, e potendo quegli della detta città andare e tornar sicuri, ogni giorno intendevano qualche cosa di noi, e noi similmente di loro, il che prima non si poteva fare. E per un certo nunzio mi mandarono certe balestre e schioppi e polvere, di che pigliammo grandissimo piacere, e de lí a due giorni, mandandomi un altro nunzio, mi fecero a sapere esser arrivate in porto tre navi, nelle quali erano stati portati molti soldati e cavalli, e che subito ce gli mandarebbono. Noi, avendo sí gran bisogno di aiuto, credemmo che ci fusse stato mandato da Iddio.
Come il Cortese mandò in Temistitan due de' primarii di detta città, che erano prigioni di quei di Calco, a pregar quei signori che si rendessero. Del soccorso mandato a quei di Calco. Come vennero ambasciadori di Tazapan, Mascalango e Neuten ad offerirsi.
Io cercava per tutti i modi possibili di tirare all'amicizia nostra gli abitatori di Temistitan, parte acciò per lor cagione non fussero distrutti, e parte per riposarci dalle fatiche delle passate guerre, e massimamente che di ciò io giudicavo venirne grandissima utilità alla Maestà Vostra: e dovunque io potevo avere alcuno di quegli della città, lo rimandavo dentro, acciochè confortasse gli altri a darsi pacificamente. E il mercordí santo dell'anno 1521 comandai che venissero alla presenza mia que' primarii di Temistitan che erano stati fatti prigioni da quei di Calco, e feci loro intendere se alcuno di essi volesse andare nella città e per mio nome parlare ai signori di quella, e pregargli che non cercassero piú di far guerra meco e si dessero per vassalli di Vostra Maestà, come avevano fatto prima, perciochè io non desideravo di ruinargli, ma di tenergli per amici. E benchè non andassero volentieri, temendo che, se portassero tale ambasciata, sariano uccisi da loro, nondimeno due d'essi deliberarono di andare e mi dimandarono lettere; e se ben non intendevano le cose che in quelle si contenevano, nondimeno sapevano esser tale usanza che, giunti che fussero là, gli cittadini prestariano lor fede. E però feci loro palesare dagl'interpreti ciò che nelle dette lettere era contenuto, cioè quel che aveva imposto a lor medesimi, e a quel modo si partirono, e comandai a cinque cavalieri che gli accompagnassero fin che giugnessero in luogo sicuro.
Il sabbato santo gli abitatori di Calco e i loro confederati e amici ebbero cura d'avisarmi che quegli di Messico si movevano contra di loro, e in un certo panno bianco mi mostrarono dipinte tutte le terre che andavano contra di loro e le vie per le quali dovevano andare, e mi supplicavano che ad ogni modo io dovessi mandar loro soccorso. Risposi che de lí a sei giorni lo manderei, e se tra questo mezzo fussero astretti da bisogno alcuno, me lo facessero sapere, che gli aiuterei. Il terzo giorno di Pasqua ritornarono a pregarmi ch'io mandassi il soccorso prestissimamente, perciochè gli nemici s'avicinavano con quella maggior prestezza che potevano. Io dissi di volere andare a soccorrerli, e feci comandare a suono di tromba che si mettessero in ordine venticinque cavalieri e trecento fanti a piedi.
Il giovedí avanti che fusse questo, vennero alla città di Tessaico, certi ambasciadori dalle provincie di Tazapan, di Mascalango e Neuten e d'altre provincie, e mi fecero sapere che erano venuti a darsi per vassalli di Vostra Maestà e per pigliare amicizia con esso noi, non avendo essi ucciso mai alcuno Spagnuolo, e né essendosi volti mai contra il servizio di Vostra Maestà. Portarono certe vesti di seta. Io gli ringraziai e promisi loro, quando fussero buoni e fedeli, di trattargli bene, e cosí se ne tornarono tutti allegri.
Come il Cortese uscí di Thessaico con trentamila uomini e alloggiò in Tamanalco; il parlar che fece a' signori di Calco; come nel viaggio s'unirono con lui da quarantamila combattenti. Dell'assalto che diede da tre bande ad un monte asprissimo e molto erto, in cima del quale era gran moltitudine di gente; come assaltò quelli ch'erano nella pianura, ferendone e uccidendone molti.
Il giorno seguente, che fu il venerdí il quinto d'aprile del detto anno 1521, mi partii da questa città di Tessaico in compagnia di trenta cavalieri e trecento fanti, a' quali diedi per capitano Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore, e meco uscirono da ventimila uomini di Tessaico. E in ordinanza andammo la sera ad alloggiare ad una terra della provincia di Calco, nominata Tamanalco, dove fummo ricevuti e albergati ottimamente: e quivi perchè è luogo fortissimo, poi che quegli di Calco diventarono amici nostri, sempre tennero la guardia, essendo ne' confini della provincia di Culua. Il giorno seguente pervenimmo a Calco ad ora di nona e non indugiammo punto, se non quanto parlammo a' signori di quel luogo, a' quali palesai l'animo mio, che era una volta circondare il lago, pensando che passato quel giorno, che era di gran momento, quei tredeci brigantini sariano finiti e apparecchiati da potergli mettere nel lago. E avendo parlato co' signori di Calco, ad ora di vespro ci partimmo e arrivammo ad una lor terra, dove s'unirono con noi da quarantamila uomini combattenti amici nostri, e quivi ci riposammo quella notte. E perchè gli abitatori di quella terra mi dissero che quei di Culua m'aspettavano in una pianura, comandai che all'alba tutte le genti fussero in arme ed espedite, e il dí seguente dopo la messa cominciammo a marchiare. Io ero nell'antiguardia con venti cavalli, e nella retroguarda ne rimasero dieci, e a questo modo passammo un'altra cima di montagna.
Dopo mezzogiorno arrivammo ad un erto e alto monte, nella cui cima era una gran moltitudine di donne e di fanciulli, e dalle bande erano uomini armati, i quali subito cominciarono a gridare e a far molti fumi, con frombe e senza, aventando contra di noi sassi, freccie, dardi e bastoni aguzzati, di modo che, mentre ne giunsero appresso, avevamo patito assai gran travaglio. E benchè avessimo visto che non avessino avuto ardir d'aspettarci nella pianura, mi parve, ancora che altrove doveva esser il nostro viaggio, che fusse segno di poco animo andar piú avanti senza far loro qualche danno, acciochè gli amici nostri non si pensassero che lasciassimo di farlo per viltà. Riguardai il monte, che di circuito era quasi una lega, e veramente era tanto forte per natura e tanto erto che pareva sciocchezza il volervi salire e prenderlo, e benchè io avesse potuto assediarli e astringergli ad arrendersi, nondimeno non potevo quivi molto soggiornare. Stando cosí in dubbio, deliberai di salirvi da tre luoghi ch'io avevo veduti, e diedi commissione a Cristoforo Coral, alfiero di sessanta fanti, il quale sempre m'accompagnava, che con la sua insegna gli andasse ad assalire, e salissero sopra del luogo piú erto, e comandai ad alcuni schioppettieri e balestrieri che arditamente lo seguitassero; e similmente ordinai che il capitano Giovanni Rodriguez da Villa Forte e a Francesco Verdugo che co' lor compagni e con certi balestrieri salissero da un altro luogo, e che 'l capitan Pietro Dircio e Andrea da Monioraz dessero l'assalto da un'altra banda con alquanti schioppettieri e balestrieri. E ordinarono tutti nel sentire il tiro d'uno schioppo di salire, o di morire overo ottener la vittoria. E avendo sentito il tiro dello schioppo, subito cominciarono a salire il monte, e tolsero a' nemici due giri del monte; e non poterono salir piú avanti, perciochè né con piedi né con mani si potevano sostenere, essendo incredibile l'asprezza e altezza del monte. E da alto gettavano di molti sassi con le mani, i quali, benchè si rompessero, facevano grandissimo danno; e tanto fu gagliarda la difesa de' nemici, che n'uccisero due Spagnuoli e ne ferirono piú di venti, e per niun modo potemmo passar di là. Io, vedendo esser impossibile di far piú di quello che avevamo fatto, e che si ragunava gran moltitudine de' nemici per soccorrer quelli ch'erano nel monte, di modo che tutta la pianura n'era piena, comandai a' capitani che si ritirassero, ed essendo discesi a basso assaltammo quegli che erano nella pianura, ferendogli e uccidendogli: e cotal battaglia durò piú d'un'ora e mezza. Ed essendo la moltitudine de' nemici quasi infinita, gli uomini a cavallo si sparsero in varie parti, ed essendosi ridotti insieme, fui certificato da loro sí come erano andati per spazio d'una lega lontani da quel luogo, e aveano visto un altro monte ripieno di molte genti; nondimeno non era tanto erto, e nella pianura d'intorno erano assaissime terre, e due cose non sariano mancate ivi che qui ne mancavano: l'una era l'acqua, e l'altra che, essendo il monte non cosí erto, non fariano tanta resistenzia. E perchè quelle genti non si potevano pigliar senza pericolo, e vedendo di non poter ottener quella vittoria, ci partimmo de lí con grandissimo dispiacere e andammo ad alloggiare ad un'altra terra appresso il detto monte, dove patimmo grandemente, perciochè quivi non potemmo trovare acqua, e tutto quel giorno né noi né gli cavalli ne toccammo goccia. E cosí stemmo tutta quella notte, sentendo timpani e corni e gridi.
Come, dato l'assalto ad un altro erto e difficil monte, quelli che v'erano sopra s'arrenderono, e parimente quelli ch'erano su l'altro monte vennero a dimandar perdono. Come serrorno i nemici in una terra detta Giluteque e molti ne uccisero, poi misero fuoco in la terra. Quelli di Iattepeque vennero a pregar il Cortese che perdonasse loro i commessi errori.
Essendo venuta l'alba, io insieme con certi capitani vedemmo un monte che non era meno erto del primo: egli aveva le rupi certamente piú alte, nondimeno non difficili a salire, dove molte genti atte a combattere stavano per vietare chiunque avesse voluto salirvi. E li capitani e io, con altri gentiluomini che si trovavano presenti, pigliate le rotelle, a piedi (perciochè aveano condotti i cavalli per dar loro da bevere lontano una lega da quel luogo) andammo insin là per vedere almeno il sito del monte e donde lo potessimo combattere, e gli altri, benchè non fusse loro commesso cosa alcuna, cominciarono a seguirne. Subito che arrivammo al monte, coloro che stavano su le rupe, pensandosi che io volessi dar l'assalto nel mezzo, lasciarono le rupi per dar soccorso ai loro. Io, subito che viddi il lor mal ordine, e pensando s'io pigliavo quelle due rupi potevo far loro di molto danno, chetamente comandai ad un capitano che co' suoi soldati salisse sopra una di quelle, e occupasse la piú erta e difficile; e io insieme con gli altri cominciai a salire il monte da quella parte dove gli nemici erano piú spessi. E piacque a Iddio ch'io prendessi un giro del monte, e ci ponemmo in luogo tanto alto che quasi agguagliavo quello dove combattevano, il qual pareva impossibile di poterlo pigliar per forza, se non con grandissimo pericolo e danno. Già uno de' capitani aveva posta la sua bandiera nella piú alta parte del detto monte, e de lí cominciò a batter gli nemici con le balestre e con schioppi. Essi, vedendo il danno che pativano e considerando ciò che poteva seguire, accennarono di volersi arrendere e posero giú le armi in terra. Ed essendo l'animo mio stato sempre di mostrar loro, benchè fussero degni di grandissima pena, che noi non gli volevamo offendere né far danno alcuno, massimamente poichè volevano esser vassalli di Vostra Maestà, ed essendo gente di tanta ragione che molto bene intende tutte queste cose, comandai che si rimanessero da offendergli. E quando vennero a parlarmi io gli ricevetti con lieto volto, ed essi, avendo veduto quanto benignamente ci portavamo con esso loro, ne diedero aviso a quelli che erano nell'altro monte; i quali, benchè fussero rimasti vincitori, nondimeno deliberarono di darsi per vassalli alla Maestà Vostra, e vennero dimandando perdono de' lor commessi errori. In quella terra appresso il monte stemmo due giorni, e de lí feci condur li soldati feriti alla città di Tessaico.
Essendoci partiti de lí, arrivammo a dieci ore di giorno alla città di Guastapeque, della quale di sopra è fatto menzione, e fummo tutti alloggiati nella casa del giardino del signore. Il qual giardino è il maggiore e il piú bello di tutti che siano stati mai visti in alcun tempo, perciochè egli è quattro leghe di circuito, per il mezzo del quale passa uno notabile fiume, e di luogo in luogo a due tiri di balestra vi sono case co' loro giardini piccioli, con varii arbori di diversi frutti e con erbe e fiori odoriferi. E certamente è cosa bella da vedere la vaghezza e grandezza di questo giardino, nel quale alloggiammo in quel giorno; e gli abitatori ne fecero ogni possibil servigio. Il giorno seguente ne partimmo, e a otto ore del giorno arrivammo ad una gran terra nominata Iattepeque, nella quale n'aspettava un gran numero di gente nemica: ed essendo noi giunti là, parve che volessero portarsi con noi pacificamente, o da paura oppressi o per ingannarci, perciochè subito senza venire a convenzione alcuna cominciarono a fuggir e abbandonar la terra. E io non mi curai punto di dimorare in essa, ma con que' trenta cavalli gli perseguitammo per spazio di due leghe insin che gli serrammo in un'altra terra, la quale è chiamata Giluteque, dove molti ne ferimmo e uccidemmo, trovando gli abitatori molto sprovisti, perciochè noi arrivammo là prima che giungessero le loro spie, e alcune di loro furono uccise. Pigliammo assai donne e fanciulli; tutti gli altri fuggendo scamparono. Io dimorai in quella terra due giorni, pensandomi che 'l signor di quella dovesse venire per rendersi suddito a Vostra Maestà; e non essendo venuto, nel partir mio ordinai che fusse dato fuoco alla terra. E prima che mi partissi de lí vennero da me certi d'un'altra terra che era piú avanti, nominata Iattepeque, e umilmente mi pregarono che io perdonassi loro i loro errori, poichè volevano esser vassalli di Vostra Maestà: e io gli ricevetti benignamente, essendo stati già castigati secondo che meritavano.
Dell'acquisto della città chiamata Coadinabaced, e come l'abbrucciorono. In che modo si scusassero i nemici perchè cosí tardi si rendessero. Come gli Spagnuoli presero la miglior parte della bellissima città detta Sichimilco e dipoi, andati adosso a' nemici che s'erano ragunati in gran numero, gli fecero voltar le spalle; e il pericolo che scorse il Cortese.
Il medesimo giorno ch'io mi partii, giunsi dinanzi ad una certa terra fortissima nominata Coadinabaced, nella quale erano molti uomini da combattere; e la terra era molto forte, essendo circondata di monticelli e di spelonche di tanta profondità quanta saria l'altezza della statura di dieci uomini insieme, e a cavallo non vi si poteva andare se non da due luoghi, i quali allora non gli sapevamo, e per poter entrar da quei luoghi era necessità d'andare attorno per spazio di una lega e mezza. Potevamo anco entrar per ponti di legno, ma gli avevano levati via, ed erano posti in sí alto luogo e sicuro che, se fussimo stati dieci volte tanti, ci averiano stimati per niente; e quando ci approssimavamo, ne aventavano molte freccie, sassi e bastoni aguzzati. Mentre combattevamo di questa maniera, un certo Indiano di Tascaltecal, non visto da' nemici, saltò oltra per un luogo molto difficile. Subito che gl'Indiani lo viddero, si pensarono che gli Spagnuoli fussero entrati de lí, e a questo modo soprapresi da maraviglia e da spavento si diedero a fuggire, e quell'Indiano e quattro miei servidori gli perseguitarono; e due capitani poi, subito che viddero l'Indiano passato, lo seguitarono e passarono anch'essi. Io co' cavalieri cominciai andare attorno quei luoghi insino al monte per poter trovare l'entrata nella terra, e gl'Indiani nemici nostri sempre tiravano contra di noi e freccie e bastoni aguzzati, perciochè tra loro e noi non v'era se non lo spazio d'una spelonca in modo d'una fossa. Ed essendo intenti alla battaglia cominciata con noi, e non avendo ancora visti quei cinque cavalieri spagnuoli, furono da loro assaliti di dietro alla sprovista e cominciati a ferire. Ed essendo stati trovati tanto sprovisti, e non si pensando di poter esser offesi di dietro, perciochè non avevano saputo che li compagni avessero abbandonato il passo donde quell'Indiano e gli Spagnuoli erano passati, stavano maravigliati e non avevano ardir di combattere, e gli Spagnuoli n'uccidevano qualcuno; ma poichè viddero la verità della cosa, cominciarono a darsi a fuggire. E già li nostri erano entrati nella terra e l'avevano cominciata ad abbrucciare, e gli nemici tutti fuggivano, e cosí fuggendo si ritirorno al monte, benchè molti di loro ne morissero, e li cavalieri spagnuoli n'uccisero molti.
Poichè avemmo trovata l'entrata nella terra circa a mezzogiorno, ci fermammo in quella in una certa casa posta in un giardino, perciochè già la terra era del tutto abbrucciata e l'ora già tarda. Il signor della terra e alcuni de' principali, vedendo che in luogo sí difficile e sicuro non s'erano potuti difendere, temendo che salissimo il monte per uccidergli, deliberarono di venire ad offerirsi per vassalli di Vostra Maestà, e io per tali gli ricevetti, e mi promisero d'esser nostri amici per l'avenire. Questi Indiani e gli altri che venivano a sottomettersi per vassalli di Vostra Maestà, dopo l'abbrucciamento delle case e il saccheggiamento delle robbe, dissero che la cagione d'aver sí tardi presa l'amicizia nostra era stata perchè credevano far la penitenza de' commessi errori, quando patissero d'esser prima danneggiati, pensandosi che, avendo essi patito danno, noi non dovessimo portar loro piú odio.
Quella notte alloggiammo in quella terra, e il giorno seguente seguitammo il nostro viaggio per provincia e ville disabitate e senza acqua, la qual provincia e anco la cima d'un monte trapassammo con grandissima fatica e stenti e senza aver da bevere, di maniera che molti degl'Indiani che erano con esso noi morirono di sete. E sei leghe lontano da quella città ci riposammo in una certa abitazione. E all'alba avendo seguitato il nostro viaggio, giungemmo in vista d'una bellissima città nominata Sichimilco, la quale è posta in un lago d'acqua dolce; e gli abitatori di quella, avendo molto prima inteso la nostra venuta, avevano fatti molti argini e fossi, e avevano levati li ponti di tutti li luoghi donde s'entrava nella detta città, che è lontana dalla famosa Temistitan tre o quattro leghe; e in essa erano molti uomini valorosi, li quali avevano determinato o di difendere la città o di morire. Quivi essendo giunto e avendo posti li soldati in ordinanza, smontai da cavallo e in compagnia d'alquanti fanti arrivai ad un certo argine che avevano fatto, doppo il quale era nascoso gran numero di gente; e quando cominciammo a combatter l'argine, perciochè li balestrieri e gli schioppettieri facevano loro grandissimo danno, l'abbandonarono, e gli Spagnuoli entrarono in acqua e, passati avanti, trovarono terra, e per spazio di mezz'ora che combattemmo con loro pigliammo la miglior parte della città. E gli nemici ritirandosi montarono nelle lor canoe e combatterono con noi fin che sopravenne la notte, e alcuni dimandavano la pace e altri per questo non lasciavano di combattere, e molte volte accennavano di voler la pace, ma non vennero mai ad effetto, onde ci trovammo beffati da loro: e questo facevano prima per trasportar fra questo mezzo le lor robbe, e poi per indugiar tanto che quegli di Messico e di Temistitan giugnessero in lor soccorso. In quel giorno uccisero due Spagnuoli, i quali per far preda s'erano separati dagli altri, e furono in tanta strettezza che non si poté mai dar loro aiuto.
La sera gli nemici cominciarono a pensar come potessero far che non potessimo uscir mai vivi dalla lor città, e raunatosi un gran numero di loro deliberarono di assalirci da quella parte donde eravamo entrati. E vedendogli venire ci maravigliammo grandemente del lor valore e prestezza, e sei cavalieri e io, che eravamo piú apparecchiati degli altri, andammo loro adosso. Essi, sbigottiti per lo strepito de' cavalli, voltarono le spalle, e cosí gli perseguitammo fuori della città uccidendone molti, benchè stessimo in grandissimo pericolo, perciochè combattevano sí vigorosamente che molti di loro ebbero ardire d'aspettar li cavalli con le loro spade e rotelle. Ed essendo noi mescolati con loro e avendogli perseguitati per molto spazio, essendo già stanco il mio cavallo cadette, e gli nemici vedendomi a piedi, alcuni di loro si mossero contra di me: io cominciai a difendermi con la lancia, e un Indiano di Tascaltecal molto conosciuto da me, vedendomi serrato in quel pericolo, corse per aiutarmi, ed esso col mio servidore che venne levarono suso il cavallo. E in quel punto sopravennero gli Spagnuoli e gli nemici se ne fuggirono, e io insieme co' cavalieri, essendo già stanchi, ritornammo nella città. E benchè s'avicinasse la notte e noi ci dovessimo riposare, nondimeno comandai che tutti i ponti alzati da' quali passava l'acqua fussero serrati, ripieni con sassi e cespugli che quivi si trovavano, acciochè i cavalli potessero entrar nella città e uscir senza fatica o pericolo; e non mi parti' de lí finchè quelle cattive strade non furono racconcie, e quella notte la passammo con grandissimo ordine di guardie.
Come i nemici deliberarono circondar Sichimilto per terra e per acqua, e in che modo il Cortese li ruppe, e dipoi rotti e messi in fuga due altri squadroni, e il Cortese, fatta abbrucciar la città, si partí.
Il giorno seguente tutti gli abitatori di Messico e di Temistitan, conoscendo che noi eravamo nella città di Sichimilco, deliberarono di circondarne in qualche modo per terra e per acqua, pensandosi che noi non potessimo scampare. Io montai sopra una torre dedicata ai loro idoli, per guardar che ordine tenessero e donde ne potessero assaltare, per dar rimedio a quanto bisognava. E avendo apparecchiato ogni cosa, venne un grandissimo numero di canoe, che arrivava a piú di duemila, nelle quali erano piú di dodecimila uomini, e per terra veniva tanta moltitudine che copriva tutta la pianura; e i lor capitani che andavano avanti portavano in mano delle nostre spade, gridando: "Messico, Messico! Temistitan, Temistitan!" e dicendone molte villanie, e minacciando di volerne uccidere con quelle spade, che ne aveano tolte nella città di Temistitan. E avendo già ordinato qual luogo dovesse tener ciascun capitano, perchè di verso terra ferma veniva infinito numero di nemici, gli assaltai con 25 a cavallo e 500 Indiani di Tascaltecal; e dividendoci in tre parti comandai che, poichè avessero combattuto, si ritirassero alle radici d'un monte, il quale era distante per spazio di mezza lega, perciochè anco molti de' nostri nemici quivi s'erano fermi. Essendo cosí divisi, ciascuna schiera da per sé assaltò gli nemici, e avendogli combattuti e feriti, e anco uccisone molti, ci ritirammo alle radici del monte, dove comandai a certi fanti miei famigliari che già m'avevano servito, i quali erano molto destri, che provassero di salire il monte da quella parte che paresse piú aspra, e io co' cavalli circonderei il monte dove il luogo era piú piano, e cosí gli torremmo in mezzo: come avvenne, perciochè, mentre viddero che li Spagnuoli salivano il monte, pensandosi di poter fuggire sicuramente, voltarono le spalle e s'incontrarono in noi, che eravamo 15 a cavallo. Insieme con quelli di Tascaltecal andammo loro adosso, di modo che in breve spazio furono uccisi piú di 500 di loro, e gli altri tutti scamparono e fuggirono a' monti. Gli altri nostri sei a cavallo per sorte erano entrati in una strada larga e piana, ferendo i nemici, e lontano una lega e mezza da Sichimilco trovarono una schiera di soldati che venivano per soccorrer gli nemici, e, avendone feriti molti, gli misero in rotta.
Noi, essendo già tutti ridotti insieme, circa a dieci ore di giorno ritornammo nella città di Sichimilco, dove ritrovai molti Spagnuoli che aspettavano il nostro ritorno per sapere quel che ne fusse avvenuto: e mi esposero che erano stati in grandissimo pericolo e avevano fatto ogni loro sforzo di cacciar via gli nemici, de' quali n'aveano ucciso grandissimo numero; e mi donarono due spade che i nostri l'avevano tolte agl'Indiani, dicendomi che li balestrieri non aveano piú saette, né gli schioppettieri piú polvere. E stando cosí, prima che smontassimo da cavallo, sopravenne un grandissimo squadrone di nemici per una strada larga mattonata, con grandissime grida. Noi subito andammo loro adosso, ed essendo il lago dalle due bande della strada, essi vi si gettarono dentro, e a quel modo gli rompemmo: e cosí, ridotti insieme li soldati, essendo noi molto stanchi, ce ne ritornammo nella città, e comandai che tutta fusse abbrucciata, salvo l'albergo dove noi alloggiavamo. Stemmo tre dí in questa città, né passammo giorno alcuno senza combattere; finalmente, lasciandola arsa e distrutta, ne partimmo. E veramente ella era bella, essendovi molte case e torri dedicate a' loro idoli, fatte di pietre quadrate; ma, per non esser piú lungo, lascio molte cose maravigliose che erano in questa città.
Come, partendosi gli Spagnuoli, gli abitatori di Sichimilco gli assalirono di dietro, e il Cortese gli affrontò e combattette, di maniera che furono sforzati saltar in acqua. Come giunse a Cuioacan città, la quale era vota di abitatori. Visto e considerato il sito della città, e andati alla riva del lago, presero uno argine con grande uccisione di nemici. Vanno alla città di Tabuca; sono presi due giovani del Cortese; assaltorno un'altra volta i nemici e ne uccidono molti.
In quel giorno che io mi partii, uscii fuori della città ad una certa piazza che è in terra ferma appresso la città, nel qual luogo gli abitatori fanno i lor mercati; e ponevo ordine che dieci a cavallo tenessero la prima schiera, e 10 altri la schiera de' fanti nel mezzo, e io con 10 altri l'ultimo squadrone. Gli abitatori di Sichimilco, vedendo che noi marciavamo, pensandosi che noi ci partissimo per paura, ci assalirono di dietro con grandissimi gridi, e io insieme con dieci a cavallo gli affrontammo, combattendo di maniera che gli sforzammo saltare in acqua, sí che non ne perseguitarono piú avanti. E a questo modo seguitammo il nostro cominciato viaggio, e a dieci ore di giorno giugnemmo alla città di Cuioacan, che è lontana due leghe da Sichimilco e dalle città di Temistitan, Culuacan, Uchilubuzco, Iztapalapa, Cuitagnaca e Mizqueque, le quali tutte sono poste in acqua, e di queste niuna è distante l'una dall'altra piú d'una lega e mezza. Noi trovammo la predetta città vota di abitatori, dove alloggiammo nel palazzo del signore della città, e quivi stemmo e quel giorno che v'entrammo e il seguente. E avendo deliberato, finiti li bregantini, d'assediar la città di Temistitan, volsi prima vedere il sito di questa città, e donde s'entrava e usciva, e in che luogo gli Spagnuoli potessero offendere ed essere offesi. Il giorno dopo ch'io fui arrivato, insieme con cinque a cavallo e dugento fanti andai alle rive del lago, che era appresso la via mattonata che entra nella città di Temistitan, e vedemo tante canoe piene di soldati, che 'l lor numero era quasi infinito. E giunti all'argine che avevano fatto in quella via mattonata, i fanti cominciarono a combatterlo, e benchè fusse gran combattimento, e facessero gran resistenza, e fussero feriti dieci Spagnuoli, nondimeno alla fine lo presero con grande uccisione de' nemici, avenga che li balestrieri e gli schioppettieri rimanessero senza polvere e senza saette. Da questo argine vedemmo la detta via mattonata a diritto cammino per acqua andare alla città di Temistitan per spazio d'una lega e mezza, la quale, insieme con quella che va alla città d'Iztapalapa, era piena d'infinito numero d'uomini. E considerato ciò che io desideravo di vedere, perciochè in quella città aveva da stare la guardia de' cavalli e de' fanti, ragunai li nostri e cosí ritornammo, abbrucciando le case e le torri de' loro idoli.
E il giorno seguente ci partimmo da questa città, andando alla città di Tacuba, che è distante due leghe; e giugnemmo là a dieci ore di giorno combattendo da ogni banda, perciochè gli nemici uscivano dell'acqua per assalir gli Indiani che portavano le nostre bagaglie, ma si trovavano ingannati, sí che ne lasciavano andare in pace. Ed essendo, come ho detto, l'opinion mia d'andare attorno tutto 'l lago, per vedere e conoscer meglio il sito della provincia e anco per dar aiuto agli Indiani amici nostri, non volsi dimorare in Tacuba. Quando gli abitatori di Temistitan, che gli è vicina (perciochè tanto si estende la città che arriva insino alla terra ferma della detta città di Tacuba), viddero che noi andavamo piú oltra, crebbe loro l'animo, e con grandissima allegrezza cominciarono ad assalire le nostre bagaglie; ed essendo noi a cavallo, e molto bene in ordinanza, e nella pianura, senza nostro disaggio facevamo gran danni a' nemici. E correndo or là or qua, io ero alle volte seguitato da certi giovani miei intrinsechi famigliari, e una volta fra l'altre due di loro non mi seguitarono, ma andarono in luogo dove furono presi da' nemici. Per la qual cosa ci pensammo che gli dovessero punire grandissimamente, come sogliono fare, e Iddio mi è testimonio quanto dolore io n'avessi, sí perchè erano cristiani, sí anco perchè erano valent'uomini, e in questa guerra avevano molto ben servito alla Maestà Vostra. Essendo noi usciti di questa città, cominciammo a seguitare il nostro viaggio per l'altre terre circonvicine, e, appressandoci alla moltitudine, ivi conobbi gli Indiani aver fatti prigioni quei miei giovani. Io per vendicar la lor morte, e perchè anco gli nemici ne perseguitavano con le maggior grida che si possano dire, con venti a cavallo andai a pormi in aguato dopo certe case. Gli Indiani, vedendo gli altri dieci a cavallo con le bagaglie e il resto delle genti andare avanti, sempre gli seguitavano per una strada che era larga e piana, senza sospettar di cosa alcuna. E avendo veduto già esserne passati alcuni, diedi il segno chiamando il nome di san Giacomo e gli assaltammo vigorosamente, e prima che ne conducessero alli fossi, che erano vicini, avevamo uccisi di loro piú di cento, e de' principali e valorosi: e non ne volsero seguitar piú oltra.
Quel giorno andammo a riposarci alla città di Coatincan, tutti stanchi e bagnati, essendo piovuto assai: e già l'ora era tarda, e trovammo la città vota d'abitatori. Il giorno seguente ricominciammo a seguitare il nostro viaggio, sempre combattendo con qualcheduno degli Indiani che gridando ne venivano ad assaltare. La sera andammo ad alloggiare ad una certa terra nominata Gilotepeque, e la trovammo tutta disabitata. E l'altro giorno a dodeci ore del dí arrivammo alla città d'Aculman, che è sottoposta al signore di Tessaico, dove ci riposammo quella notte; e fummo molto ben ricevuti dalli Spagnuoli, e si rallegrarono grandissimamente della nostra ritornata, perciochè dopo la partita mia da loro non n'avevano avuto mai nuova alcuna insino a quel giorno che noi arrivammo, ed erano stati con molti sospetti nella città, avendo i cittadini ogni giorno fatto loro intendere che quei di Messico e di Temistitan erano per far guerra contra d'essi, mentre io andavo vedendo quei luoghi. E cosí fu deliberato in quel giorno (il che fu cosa maravigliosa), nel quale la Maestà Vostra acquistò grandissima utilità, per molte ragioni che poi racconteremo.
Come gli Spagnuoli ch'erano in Tepiaca ebbero aviso e lettere dalli Spagnuoli ch'abitavano Chinanta, le qual lettere quel governatore mandò al Cortese.
In quel tempo, Signor potentissimo e invitissimo, ch'io dimoravo nella città di Temistitan, dal principio che arrivai là, come nella prima relazione ho narrato alla Maestà Vostra, in due o tre provincie assegnate a questo si facevano per nome di Vostra Maestà certe case per abitazioni de' lavoratori, e altre cose simili a quelle che si costuma di fare nella patria. Ad una di quelle, che è nominata Chinanta, mandai due Spagnuoli, la qual provincia non è sottoposta a Culua. E nell'altre che gli erano suddite, nel tempo che io ero assediato nella città di Temistitan, avevano uccisi quegli Spagnuoli che dimoravano in quei luoghi, e fecero preda di tutte le lor cose che ivi si trovavano, le quali, avendo riguardo al luogo, erano di gran momento. E delli Spagnuoli che erano rimasti a Chinanta passò un anno prima ch'io n'udissi nuova alcuna, perciochè, essendosi ribellate tutte quelle provincie, essi non potevano aver novella di noi, né noi di loro. Questi abitatori di Chinanta, essendo vassalli di Vostra Maestà e nemici di quei di Culua, fecero intendere alli predetti cristiani che per niun conto si partissero dalla lor provincia, perchè quei di Culua ne avevano combattuti grandemente, e pensavano che di noi fussero rimasti pochi o nessuno. E cosí li detti Spagnuoli si fermarono in quella provincia, e fecero capo uno di loro, che era giovane e bellicoso; e fra questo mezzo insieme con essi assaltava gli nemici, e il piú delle volte esso e gli abitatori di Chinanta avevano vittoria. Ed essendoci per l'aiuto d'Iddio alquanto rifatti, e avendo cominciato ad aver qualche vittoria de' nemici, che n'avevano battuti e cacciati della città di Temistitan, gli abitatori di Chinanta fecero a sapere a quegli Spagnuoli che essi avevano inteso gli altri Spagnuoli esser nella provincia di Tepeaca; e se essi desideravano saper la verità, mandassero due Indiani, e, avendo da passar per molte provincie de' nemici, dovessero tener cura d'andar di notte e fuori della strada ordinaria, finchè giugnessero a Tepeaca. E uno degli Spagnuoli, che era piú prudente degli altri, ne mandò lettere del seguente tenore.
Lettere degli Spagnuoli che abitavano in Chinanta agli Spagnuoli ch'erano in Tepeaca.
Nobili Signori, ho scritto alle nobiltà vostre due o tre lettere, ma non so già se vi siano state portate: io non ho avuto risposta alcuna d'esse, e parimente dubito questa non poter pervenire alle vostre mani. Faccio intendere alle nobiltà vostre che tutti gli abitatori di Culua si sono ribellati e fannoci guerra, e ne hanno assaltato piú volte; nondimeno a laude dell'onnipotente Iddio abbiamo ottenuto vittoria, e continuamente facciamo guerra con gli abitatori di Tuxtebeque e confederati di Culua. Li sudditi e vassalli della sacra Maestà, che sono sette città della provincia di Tenez, e io e Nicolò che siamo stati sempre in Chinanta, la quale è la principale, desidereriamo grandissimamente saper dove si trovi il capitano, per potergli mandar lettere e renderlo certo di tutte le cose che qui sono state fatte. E se mi darete aviso dove si trovi e mi manderete venti o trenta Spagnuoli, volentieri me ne verrò là con due abitatori di queste provincie, i quali similmente desiderano vedere il capitano e parlargli: il che saria molto a proposito, perciochè, sopravenendo già il tempo di raccogliere il cacap, quegli di Culua facendone guerra non lo permetteranno. Il Signore conservi le vostre nobili persone, come esse medesime desiderano.
Di Chinanta, non so qual dí d'aprile 1521.
Al servizio delle S.V.
Ferdinando di Aartuntos.
Subito che li detti Indiani giunsero alla provincia di Tepeaca con la sopra scritta lettera, il governatore ch'io avevo lasciato quivi con alcuni Spagnuoli sollecitò che mi fusse portata alla città di Tessaico. La qual ricevuta avemmo grandissimo piacere, imperochè, se ben io conoscevo il fedelissimo animo di quei di Chinanta, nondimeno istimavo che, se si fussero confederati con quei di Culua, ariano uccisi quegli Spagnuoli che ivi si trovavano. A' quali subito risposi, avisandogli di tutte le cose che erano avenute, e che sperassero, benchè fussero circondati d'ogn'intorno, che col favor d'Iddio tosto sariano liberi e securamente potrebbono entrare e uscire.
Come il Cortese, fatta una machina per condur i brigantini nel lago, e fatta la rassegna de' soldati, e quelli esortati a portarsi valorosamente contra nemici, mandò nunzii a Tascaltecal, Guasucingo e Churultecal, che venissero a trovarlo con quel piú numero di gente e piú fiorite che li fusse possibile: e cosí vennero, secondo l'ordine dato loro, con piú di cinquantamila combattenti.
Poichè fummo andati attorno al lago, dalla qual vista comprendemmo piú modi da potere e per acqua e per terra assediar Temistitan, dimorai nella città di Tessaico, apparecchiando il meglio che si poté e genti e arme, e usando diligenza in far fornire i brigantini e una certa machina da condurgli al lago, la quale fu cominciata a fabricare subito che arrivarono le travi e le tavole di detti brigantini, in un certo fossato che era dinanzi alle case della città e scorreva tanto che entrava nel lago. E da quel luogo dove furon fatti li brigantini e la detta machina, insino al lago vi è la distanzia quasi di mezza lega. E a quest'opera attesero ogni giorno da ottomila uomini degli abitatori d'Aculuacan e di Tessaico, perciochè quella machina era di altezza quanto saria la statura di due uomini, di modo che li brigantini potevano esser condotti al lago senza pericolo e fatica: la qual opera fu grande e degna di maraviglia. Finiti li brigantini e posti sopra la machina, alli XXVIII d'aprile del predetto anno feci la rassegna di tutte le nostre genti e trovai ottantasei cavalieri, cento e diciotto fra balestrieri e schioppettieri, e settecento e piú fanti con le spade e rottelle, e tre gran pezzi d'artegliaria di ferro, e quindeci piccioli di bronzo, e dieci centinaia di polvere. E avendo fatto la mostra, comandai a tutti gli Spagnuoli che quanto fusse possibile e servassero e adempissero gli ordini che io avevo posti tra loro per le cose della guerra, e stessero di buon animo e prendessero forze e ardire, vedendo che Iddio ci dava il modo d'aver la vittoria contra gli nemici nostri. E molto ben sapevano che noi, quando entrammo nella città di Tessaico, non avevamo piú di quaranta cavalli, e Iddio ci avea dato migliore aiuto che noi non pensavamo, e che erano venute navi piene di cavalli e d'uomini e d'arme; delle qual cose tutte essi aveano certa notizia, e principalmente conoscevano che, combattendo noi per favore e accrescimento della nostra santa fede, e per costrignere a servizio di Vostra Maestà tante città e provincie le quali si erano ribellate, essi meritamente dovevano deliberare o di vincere o di morire. Risposero e mostrarono d'esser apparecchiati a questo, e con gran desiderio. E quel giorno che fu fatta la rassegna de' soldati stemmo in grandissima allegrezza e desiderio di veder l'assedio e finir questa guerra, dalla qual dipendeva tutta la pace e ruina di queste provincie.
Il giorno appresso mandai nunzii a quei della città di Tascaltecal, di Guassucingo e Churultecal, per avisar che li brigantini erano finiti e che io con tutti li soldati ero apparecchiato per andar all'assedio di Temistitan; per la qual cosa gli pregavo che, avendogli io avisati, e avendo le lor genti apparecchiate, essi con le maggiori e piú fiorite genti venissero a trovarmi alla città di Tessaico, dove io gli aspetterei dieci giorni: e per nulla dovessero mancare, perciochè sariano di grandissimo impedimento a tutto ciò che io avevo disegnato di fare. Essendo arrivati li nunzii ed essendo le genti apparecchiate, e desiderando d'affrontarsi con quei di Culua, gli abitatori di Guassucingo e di Churultecal andarono alla città di Calco, perciochè io avevo ordinato che dovessero entrar da quella parte per assediar la città. Li capitani delle genti di Tascaltecal, accompagnati da valorosi soldati e atti alla guerra, se n'andarono alla città di Tessaico cinque o sei giorni avanti la Pasqua dello Spirito Santo, che fu il tempo a loro assegnato. E sapendo io il giorno che s'approssimavano, andai loro incontra con grandissima allegrezza; ed essi venivano tanto allegri e ordinati che non si potrebbe dir meglio, e secondo che ci fu detto da' capitani erano piú di cinquantamila combattenti, i quali furono ricevuti da noi benignamente e bene alloggiati.
L'ordinanza che fece il Cortese della fanteria e cavalleria; i capitani e le genti loro assegnate per guardia di tre città, cioè Tacuba, Culoacan e Iztapalapa; dove di passo in passo alloggiarono le genti. Come un capitano messe in rotta i nemici, tolse l'acqua che entrava nella città di Temistitan. Come fecero acconciar le strade, ponti e fossati ch'erano intorno il lago,
e ogni giorno facevano battaglie e scaramuccie co' nemici.
Il secondo giorno dopo Pasqua comandai che tutta la fanteria e cavalleria si ritrovasse nella piazza di questa città, per metterla in ordinanza e assegnare a' capitani quel numero di gente che dovevano menare alla guardia di tre città, le quali era necessario di guardare, essendo elle attorno la città di Temistitan. E d'una delle guardie feci capitano Pietro d'Alvarado, assegnandogli trenta cavalieri, diciotto tra balestrieri e schioppettieri e cinquanta fanti con le spade e rotelle, e piú di venticinquemilla uomini da combattere di quei di Tascaltecal, i quali dovevano porre il campo nella città di Tacuba. Alla seconda guardia diedi per capitano Cristoforo Dolid, al quale assegnai trentatre a cavallo, diciotto fra balestrieri e schioppettieri e centosettanta fanti armati a spada e rotella, e piú di ventimila uomini indiani amici nostri: e questi dovevano mettere il lor campo alla città di Cuioacan. Della terza guardia feci capitano Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore, e a lui assegnai ventiquattro a cavallo, quattro schioppettieri e tredici balestrieri e centocinquanta fanti con spada e rotella, tra' quali erano quei cinquanta giovani eletti ch'io avevo sempre appresso di me, e tutte le genti di Guassucingo, di Churultecal e di Calco, che arrivavano alla somma di trentamila uomini: e questi dovevano andare alla città d'Iztapalapa per distruggerla, e dipoi andar piú avanti per la via mattonata, con l'aiuto de' brigantini, e congiugnersi con la guardia posta alla città di Cuioacan, acciochè, entrato ch'io fussi ne' brigantini, il detto maggiore esecutore s'accampasse con le sue genti in luogo piú commodo e piú conveniente che fusse possibile. Per li brigantini co' quali io dovevo entrar nel lago lasciai trecento uomini, per lo piú assuefatti al mare e destri, di modo che in ciascun brigantino erano venticinque Spagnuoli, e ogni brigantino aveva il suo capitano e il suo nocchiero, e sei tra balestrieri e schioppettieri.
Dato il sopradetto ordine, due capitani che dovevano essere con le genti nella città di Tacuba e di Cuioacan, avendo avuta la instruzione di tutte le cose che avevano da fare, si partirono dalla città di Tessaico alli dieci di maggio, e la sera andarono ad alloggiare distante de lí due leghe e mezza, ad una buona terra nominata Aculman. E quel giorno intesi che tra' capitani era stato contesa circa gli alloggiamenti, e la sera subito vi posi fine pacificando ogni cosa, perciochè in quel giorno mandai uno che gli riprese. E il dí seguente si partirono e andarono ad un'altra terra nominata Gilotepeque, la qual trovarono disabitata, che già erano entrati nelle provincie de' nemici; e il dí seguente seguitarono il viaggio con le lor genti in ordinanza, e la notte si riposarono in una certa città nominata Coantican, della quale ho fatto menzione alla Maestà Vostra, e parimente la trovarono disabitata. E il medesimo giorno trapassarono due città e due terre nelle quali non era persona alcuna, e ad ora di vespro entrarono nella città di Tacuba, che similmente era disabitata, e alloggiarono nelle case del signor di quella, le quali sono e belle e grandi: e benchè fusse l'ora tarda, andarono alle strade mattonate che conducono a Temistitan e combatterono per tre ore con quei della città, ma, essendo sopravenuta la notte, se ne ritornarono senza alcun pericolo nella città di Tacuba.
Il giorno seguente, la mattina a buon'ora, quei due capitani si consigliarono in che maniera potessero volgere altrove l'acqua dolce che entrava per canali nella città di Temistitan, e uno di loro andò al nascimento del fiume, accompagnato da venti cavalli e da alquanti balestrieri e schioppettieri. Era il fiume lontano una quarta parte d'una lega, e quivi tagliò e ruppe li canali, che erano di legno e di pietre quadrate, e cominciò una crudel battaglia co' nemici che l'impedivano per acqua e per terra; finalmente gli mise in rotta e ispedí quel che egli era andato per fare, cioè per toglier l'acqua che entrava nella città: la quale impresa fu veramente d'uomo ardito e valoroso. Il medesimo giorno i capitani providdero che fussero acconcie alcune male strade e ponti e fossati che si trovavano quivi intorno al lago, acciochè li cavalli potessero scorrere qua e là. Finito questo, in che bisognò dimorar tre o quattro giorni, nei quali piú volte si venne a scaramuccie con quei di Temistitan, nelle quali alcuni Spagnuoli furono feriti e molti de' nemici uccisi, e li nostri presero assai argini e ponti, e nacquero parlamenti e duelli fra gli abitatori della città e quei di Tascaltecal (il che era cosa mirabile), subito il capitan Cristoforo Dolid, che doveva esser alla guardia nella città di Cuioacan all'assedio, la quale è distante due leghe da Tacuba, si partí co' suoi soldati; e il capitan Pietro d'Alvarado rimase all'assedio della città di Tacuba, dove ogni dí facevano qualche battaglia e scaramuccia con gli abitanti della città.
E quel giorno che Cristoforo Dolid si partí per Cuioacan, esso co' compagni giunsero a dieci ore di giorno, e fermarono d'alloggiare nel palazzo del signor della città, la qual trovarono vota d'abitatori. Il giorno seguente se n'andarono alla via mattonata per la quale si va in Temistitan, accompagnato da venti a cavallo e da alcuni balestrieri e forse da settemila Indiani di Tascaltecal, e trovarono gli nemici con grandissimo apparecchio, e la via mattonata tutta disfatta e fatti molti argini; ed entrati a battaglia con loro, i balestrieri ne ferirono e uccisero alcuni, e per spazio di sei giorni fu sempre fatta qualche battaglia e scaramuccia. Una notte tra l'altre le sentinelle de' nemici andarono a gridare appresso gli alloggiamenti de' nostri, e le sentinelle degli Spagnuoli gridando all'arme, li soldati uscirono degli alloggiamenti, ma non trovarono alcuno dei nemici, perciochè le grida erano state molto lontane dagli alloggiamenti: il che messe a' nostri qualche paura. E per trovarsi divisi in tante parti, li capitani delle due guardie desideravano la mia andata coi bregantini come lor propria salute, e con quella speranza stettero alquanti giorni, fin che io arrivai, come dirò di sotto. In questi sei gioRNi li soldati delli due campi ogni giorno si mettevano insieme, e la gente a cavallo, essendo vicini l'uno dell'altro, andava scorrendo per le provincie, ferendo e uccidendo de' nemici; e per uso del campo conducevano molto maiz, che è il pane che usano in questi paesi, ed è migliore di quello che nasce nell'isole.
Come il Cortese, mandato l'esecutor maggiore ad Iztapalapa, montò sui bregantini, e vedendo che si abbrucciava la detta città, sopra la quale stava gran moltitudine d'uomini de' quali niun scampò, se non le donne e fanciulli. Come, ridotto gran numero di canoe nel lago, gli Spagnuoli con vento prospero gli assaltarono e molti ne affogarono, e uccisero gran numero de' nemici, i quali furono altresí perseguitati dagli Indiani di Tascaltecal e dagli Spagnuoli, onde alcuni restarono morti e alcuni si gettarono in acqua.
Nelli precedenti capitoli ho racconto ch'io mi trovo nella città di Tessaico con trecento soldati spagnuoli e tredici bregantini, perciochè, quando sapessi le guardie essere in quei luoghi nei quali dovevano metter li lor campi, io sarei montato sui bregantini e per far qualche danno alle canoe e per veder la città. E benchè io desiderassi grandemente andar per terra per metter ordine nelli campi, nondimeno, essendo i capitani tali che mi potevo molto fidar di loro nelle cose ch'io avevo ordinate, ed essendo l'impresa de' bregantini di molta importanza e ricercando grandissimo ordine e ingegno, deliberai di montarvi suso, poichè maggior ventura e sorte s'aspettava per acqua, non ostante che li miei principali soldati mi facessero un protesto, secondo la forma che si richiede in farlo, ch'io andassi con le guardie, istimando essi che in questo fusse maggior pericolo.
Il giorno seguente, dopo la festa del Corpo di Cristo, all'alba comandai a Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore, che uscisse della città di Tessaico con le sue genti verso Iztapalapa: e intorno a mezzodí arrivarono là, che era lontana per spazio di sei leghe, e cominciarono ad abbrucciarla e a combatter con gli abitatori, li quali, vedendo la potenza che aveva il detto esecutore maggiore, perciochè aveva piú di quarantamila uomini indiani amici nostri, si ritirarono all'acqua e montarono su le canoe. L'esecutore maggiore, con tutte le sue genti che menava, entrò nella detta città, e quivi dimorò tutto quel giorno, aspettando il successo della mia impresa. Avendo io licenziato l'esecutor maggiore, subito montai sui bregantini e n'andammo a vele e remi; e quando egli combatteva e abbrucciava la città d'Iztapalapa, arrivammo in vista d'un colle alto e forte che è presso alla città d'Iztapalapa, ed è tutto in acqua e fortissimo, sopra 'l quale stava grandissima moltitudine d'uomini e delle terre circonvicine e degli abitatori di Temistitan, avendo essi molto ben compreso che mi sarei messo prima a combatter Iztapalapa. Eransi fermi su questo colle per difendersi da noi e per offenderci se potessero, e vedendoci arrivar là cominciarono a gridare e far fumi, acciochè tutte le città poste nel lago, vedendogli, intendessero e stessero apparecchiate. E benchè la mia opinione fusse d'andare a combatter quella parte della città d'Iztapalapa che è appresso al lago, nondimeno assalimmo quegli che erano nel detto colle, e smontai con centocinquanta uomini: e se ben era erto e alto, pur cominciammo a salirvi con gran difficoltà, e per forza pigliammo gli argini che avevano fatti per lor difesa, e cosí entrammo, di modo che niun di loro scampò, se non le donne e i fanciulli. Furono in questa battaglia feriti venti Spagnuoli, nondimeno ottenemmo la vittoria.
Avendo gli abitatori d'Iztapalapa mandati fuori li fumi da certe torri d'idoli, che erano poste in un colle alto e vicino alla lor città, quegli di Temistitan e dell'altre città poste nel lago conobbero ch'io entravo nel lago co' brigantini, e subito si ridusse insieme gran numero di canoe per assalirci e venire a tentar che cosa fussero li brigantini, e, sí come potei comprendere, erano piú di cinquecento. E vedendo che venivano alla volta nostra, io e quegli che eravamo saliti sopra il colle scendemmo de' brigantini con grandissima prestezza, e comandai a' capitani de' brigantini che per niun modo si movessero, acciochè coloro che erano nelle canoe deliberassero d'assaltarci e credessero che noi avessimo paura non avendo ardir d'assaltargli: onde cominciarono con grande impeto a dirizzar le canoe contra di noi, nondimeno a due tiri di balestra si fermarono. E rivolgendomi per l'animo come potessi nel primo assalto ottener la vittoria, e far di modo che mettessimo un grandissimo spavento agli nemici, essendo in loro posta la somma di tutta la guerra, e pensando donde essi potevano da noi e noi da loro ricevere il maggior danno per acqua, piacque a Iddio che, mentre stavamo a guardarci l'un l'altro, si levasse un vento da terra molto a noi favorevole e prospero, di modo che potevamo andar loro adosso: e subito comandai a' capitani che dessero l'assalto alle canoe, perseguitandole finchè entrassero in Temistitan. Essendo il vento prospero, benchè fuggissero quanto potevano, entrammo con impeto nel mezzo de' nemici e rompemmo di molte canoe, e uccidemmo e affogammo gran numero de' nemici, perseguitandogli quasi per spazio di tre leghe, finchè gli forzammo entrar nelle case della città. E cosí piacque all'onnipotente Iddio che ottenessimo la maggiore e piú bella vittoria, che noi medesimi non avevamo dimandata né desiderata.
Coloro che erano all'assedio della città di Cuioacan e che potevano meglio vedere di che maniera eravamo portati da' brigantini, quando viddero li tredeci brigantini in acqua andar con vento prospero, e che battevamo tutte le canoe de' nemici, sí come poi mi raccontarono, ne ricevettero grandissimo piacere. E come ho detto di sopra, ed essi e coloro che erano all'assedio della città di Tacuba desideravano grandemente la venuta mia, e ragionevolmente, perciochè l'uno e l'altro esercito era circondato da tanta moltitudine de' nemici che miracolosamente Iddio dava l'ardire a loro e lo toglieva a' nemici, che non uscissero ad assaltare il lor campo; il che se fusse avenuto, non poteva esser senza danno degli Spagnuoli, benchè stessero sempre apparecchiati e avessero deliberato o di morire o d'ottener la vittoria, come quegli che erano lontani d'ogni soccorso, salvo da quello che speravano aver da Iddio. Mentre coloro che erano all'assedio di Cuioacan viddero che noi perseguitavamo le canoe, la maggior parte della gente a cavallo e de' fanti che ivi era cominciò a inviarsi verso la città, e aspramente combatté con gl'Indiani, e prese la strada mattonata e gli argini che avevano fatto. E li fanti e i cavalli passarono molti ponti, i quali già avevano levati, e con l'aiuto de' brigantini, che andavano insino alla strada mattonata, gl'Indiani di Tascaltecal amici nostri e gli Spagnuoli perseguitavano gli nemici, de' quali alcuni restavano morti e alcuni si gettavano in acqua dall'altro lato, dove non erano i brigantini. E con questa vittoria gli seguitarono piú d'una lega, finchè giunsero al medesimo luogo dove io mi ero fermo co' brigantini, come dirò di sotto.
Il Cortese prende due torri; vengono i nemici a mezzanotte e cominciano a combattere. Di diverse battaglie che in piú volte furon fatte con gran danno de' nemici. S'abbruccia una città e molte case del borgo; al maggior esecutore è trapassato un piede.
Avendo seguitato le canoe co' brigantini per spazio di tre leghe, quelle che scamparono entrarono fra le case della città. Ed essendo già passata l'ora di vespro, comandai che i brigantini si riducessero insieme, e con essi arrivai alla strada mattonata, e quivi deliberai di smontare in terra accompagnato da trenta Spagnuoli, per espugnar due picciole torri dedicate a' loro idoli, che erano cerchiate di muro non troppo alto di pietre quadrate: e quando smontavamo, combattevano crudelmente contra di noi per difenderle. E finalmente con gran pericolo e fatica avendo pigliate le dette torri, subito feci metter su la riva due pezzi d'artegliaria di ferro che portavo ne' brigantini, perciochè il resto della via mattonata da quel luogo insino alla città (che poteva esser lo spazio di mezza lega) era piena di nemici, e da amendue li lati della detta via era lago, e ogni cosa era piena di canoe, nelle quali erano genti da combattere. Comandai che fusse dirizzato un de' predetti pezzi d'arteglieria per la detta strada, col tiro del quale fu fatto gran danno a' nemici, e per negligenza di colui che metteva a segno l'arteglieria s'abbrucciò la polvere che quivi avevamo, benchè non fusse gran quantità: ed essendo venuta la notte, mandai un brigantino a Iztapalapa, dove si era fermato l'esecutor maggiore, che poteva esser lontana da due leghe, per condur tutta la polvere che egli aveva. E se bene da principio la mia opinione era, subito ch'io fussi entrato nel lago co' brigantini, d'andare alla città di Cuioacan e proveder che ogni cosa andasse con buon ordine, facendo ai nemici il maggior danno che si potesse fare, subito che quel giorno smontai in quella strada mattonata e presi quelle due torri, deliberai di porre quivi il campo, e che li brigantini stessero appresso quelle torri, e la metà delle genti poste all'assedio della città di Cuioacan e cinquanta fanti dell'esecutor maggiore il giorno seguente andassero là. Avendo ordinato la cosa a questo modo, quella notte stemmo vigilanti, perciochè eravamo in grandissimo pericolo, concorrendo tutta la moltitudine della città là a quella strada e discorrendo per il lago; e a mezzanotte venne un grandissimo numero di gente nelle canoe e per la strada per assalire il nostro campo, e certamente ne misero grandissima paura e spavento, specialmente essendo di notte, nel qual tempo essi non sogliono mai venire alle mani co' nemici, né si è veduto mai che siano venuti a battaglia di notte, salvo che quando hanno veduto la vittoria manifesta. E trovandoci noi apparecchiati, cominciammo a combatter con loro, e contra di loro tiravamo l'artegliaria dai brigantini, essendone un picciol pezzo in ciascheduno, facendo il medesimo anco li balestrieri e gli schioppettieri, onde non ebbero ardire di passar piú oltra; ma tanto s'erano appressati che ne fecero qualche danno. E ciò fatto, senza proceder piú avanti, consumammo il rimanente della notte.
Il giorno seguente all'alba vennero al nostro campo, che era posto in quella strada mattonata dove io stavo, quindeci tra balestrieri e schioppettieri e cinquanta con spade e rotelle e sette over otto a cavallo di quegli che stavano all'assedio di Cuioacan: e quando essi arrivarono, già gli nemici e per acqua e per terra combattevano con esso noi, e tanta era la moltitudine della gente e per acqua e per terra che non vedevamo altro che gente, e con tanti rumori e gridi che pareva che rovinasse il mondo. Noi cominciammo a combatter con loro in quella strada, e pigliammo un ponte che avevano levato e un argine che avevano fatto nell'entrata del ponte, e con le arteglierie e co' cavalli facemmo tanto danno, che gli sforzammo quasi entrar nelle prime case che si trovano andando alla città. E perchè dall'altro lato della strada non si potevano condur li brigantini, vi erano molte canoe, e con saette e con bastoni aguzzati ne facevano grandissimo danno, aventandogli contra di noi che eravamo nella strada; della quale feci rompere una parte, facendo passar quattro brigantini, i quali passati forzarono le canoe ritirarsi fra le case della città, di maniera che in niun modo aveano ardir di uscir piú fuori dell'altro lato della strada. I soldati che erano negli altri otto brigantini combattevano con l'altre canoe, e le cacciarono fin alle case della città, ed essi entrarono in mezzo di quelle: e se prima non avevano avuto ardir d'entrarvi, fu per esservi molti luoghi bassi d'acqua che gli impedivano l'entrata; ma avendola trovata poi e profonda e sicura, combattevano con quegli che erano nelle canoe, e pigliarono alcuni di loro, e abbrucciarono molte case di quel borgo. E consumammo tutto quel giorno in combatter nel modo che ho detto.
Il dí seguente l'esecutor maggiore, con tutte le genti che teneva in Iztapalapa, e Spagnuoli e Indiani amici nostri, se n'andò verso Cuioacan: e de lí fino in terra ferma è una via mattonata lunga una lega e mezza. E avendo camminato per una quarta parte d'una lega, arrivò ad una certa città, che similmente è posta nel lago, e per piú luoghi di quella può entrar gente a cavallo; e gli abitatori cominciarono a combatter con loro, ma il predetto maggiore esecutore gli mise in fuga, e n'uccise molti, e distrusse e abbrucciò la città. E perchè io avevo inteso che gli Indiani avevano disfatta una gran parte della detta strada, e quella gente non poteva commodamente passare, ordinai che dovessero andar là due brigantini che nel passare dessero loro aiuto: de' quali ne fecero ponti, e passarono di là a piedi, e passati che furono andarono ad albergare nella città di Cuioacan. E il maggiore esecutore con dieci a cavallo per la via mattonata arrivò al nostro campo, dove essendo giunto ne trovò a combattere co' nemici, onde esso, insieme co' cavalieri che erano venuti seco, diedero l'assalto entrando a combattere con gli uomini che erano in quella strada, co' quali noi eravamo mescolati. E quando egli cominciò a combattere, gli nemici gli trapassarono un piede con un bastone aguzzato; e benchè quel giorno ferissero e lui e molti altri de' nostri, nondimeno con le balestre e con gli schioppi facemmo loro grandissimo danno, di modo che né coloro che erano nella strada, né quegli che erano nelle canoe, ebbero ardir d'appressarsi tanto quanto facevano prima, e mostravano aver tema e minor audacia del solito. Stemmo in questo modo sei dí, combattendo con esso loro, e gli bregantini andavano attorno la città abbrucciando tutte le case che potevano; e trovarono una entrata d'acqua alta onde potevano circondar la città e tutti li borghi e passar dentro in quella, il che ci fu di molto aiuto, avendo in quel modo impedito la venuta delle canoe, perciochè nessuno aveva ardire d'appressarsi al nostro campo per spazio d'un quarto d'una lega.
Come il Cortese, inteso per qual vie uscivano ed entravano gli abitatori di Temistitan, mandò l'esecutor maggiore a quella volta. Come circondò la città per darvi l'assalto. Le città che s'erano ribellate e aiutavano i nemici. Come presero molti argini, torri e ponti, e due volte la piazza; quanto aspramente combatterono e con quanto pericolo; come uscirono combattendo, lasciato il fuoco alle piú belle case di quella contrada.
L'altro giorno Pietro d'Alvarado, che era capitano delle genti lasciate all'assedio della città di Tacuba, mi fece intendere come dall'altro lato della città, per la via mattonata che conduce a certe terre poste in terra ferma e per un'altra picciola a quella vicina, gli abitatori di Temistitan entravano e uscivano a loro piacere, e aveva opinione che uscissero tutti da quel luogo forzatamente. E benchè io desiderassi la loro uscita piú che essi medesimi, potendo noi piú facilmente far lor danno trovandogli alla campagna che nella fortezza che avevano in acqua, nondimeno avevo caro che fussero d'ogni banda circondati, e in niuna cosa potessero aver commodità alcuna di terra ferma; e avegna che l'esecutor maggiore fusse ferito, gli ordinai che andasse con le sue genti ad una picciola terra, dove arrivava una delle vie mattonate. Egli si partí accompagnato da ventitre a cavallo, da cento fanti e diciotto tra balestrieri e schioppettieri, e mi lasciò quei cinquanta fanti ch'io solevo sempre condur meco; e il giorno seguente arrivò là, e in quel luogo dove io gli avevo comandato pose gli suoi alloggiamenti, sí che fu attorno attorno posto l'assedio alla città di Temistitan, di maniera che niuno poteva uscir per quei luoghi donde per le vie mattonate si usciva in terra ferma.
Io avevo, potentissimo Signore, nel mio campo, che era posto in quella via, dugento fanti spagnuoli, tra i quali erano venticinque tra balestrieri e schioppettieri, senza li soldati messi alla guardia de' brigantini, che erano piú di dugentocinquanta. E tenendo noi gli nemici alquanto serrati, e avendo meco molti de' nostri amici indiani, uomini atti a combattere, ordinai d'entrar nella città per la detta via mattonata quanto piú gagliardamente potevo, e che li brigantini fussero apparecchiati dall'uno e dall'altro lato, acciò potessero fare spalle a' soldati. Dipoi comandai ad alcuni a cavallo e a' fanti a piè, di quegli che dimoravano nella città di Cuioacan, che venissero al nostro campo per dar l'assalto alla città insieme con esso noi, e dieci cavalli tenessero l'entrata di quella via, facendo spalle a noi mentre combattevamo; e alcuni ne rimasero nella città di Cuioacan, perciochè gli abitatori delle città di Sichimilco, Culuacan, Iztapalapa, Chilubusco, Mechichalcingo, Guitagnaca e Mizqueque, poste nel lago e già ribellatesi, aiutavano quei di Temistitan; e volendo essi assaltarne alle spalle, eravamo sicuri, difendendoci li detti dieci o dodeci a cavallo, i quali ordinai che andassero scorrendo per quella via, e altrettanti n'erano sempre nella città di Cuioacan, oltra li diecimila Indiani amici nostri. Similmente ordinai all'esecutor maggiore e a Pietro d'Alvarado che uscissero de' loro alloggiamenti e assaltassero la città, che dal mio lato prenderei d'essa la maggior parte ch'io potessi.
E con quest'ordine la mattina a buon'ora uscimmo de' nostri alloggiamenti e a piedi n'andammo per quella via mattonata, e appresso trovammo gli nemici che stavano in quella per difenderne una parte che n'avevano ruinata, di tanta larghezza quanto è lunga una lancia spagnuola, e di tanta altezza avevano fatto un argine: e combattendo insieme con loro valorosamente, alla fine lo pigliammo, e gli seguitammo insino all'entrata della città, dove era una torre dedicata a' lor idoli e a piè di quella un gran ponte alzato, sotto 'l quale passava un'acqua alta con un altro argine molto forte. Quando noi arrivammo là, cominciarono a combatter con esso noi; nondimeno lo pigliammo senza pericolo, avendo d'ogni banda li brigantini, senza l'aiuto de' quali saria stato impossibile di prenderlo. E avendo essi cominciato ad abbandonare l'argine, coloro che erano ne' brigantini smontarono in terra e noi altri passammo l'acqua, e similmente fecero gli abitatori di Tascaltecal, di Guassucingo, Calco e Tessaico, che erano piú di ottantamila persone. E mentre empievamo quel ponte di sassi e di mattoni crudi, gli Spagnuoli presero un altro argine, che era in una contrada delle principali e piú larghe che siano in tutta la città, il quale non essendo fortificato con l'acqua, fu cosa facilissima da prenderlo. E perseguitammo gli nemici per la medesima contrada, finchè arrivammo ad un altro ponte che avevano levato, salvo la trave larga, per la quale passavano: ed entrando per quella e per l'acqua sicuramente, presto lo pigliammo. Nell'altra parte del ponte avevano fatto un altro grande argine di cespugli e di mattoni crudi, ed essendo noi giunti là, non potevamo passar se non ci gettavamo in acqua, e questo era con grandissimo nostro pericolo, massimamente combattendo gli nemici molto vigorosamente: e da l'uno e l'altro lato della detta contrada era una infinita moltitudine di nemici, che con grande ardire combattevano dalle terrazze. Ed essendo arrivati là molti balestrieri e schioppettieri, e tirati due pezzi d'artegliaria per quella contrada, facevamo loro grandissimo danno; e sapendo questo, alcuni Spagnuoli si gettarono all'acqua e passarono all'altra riva, e stemmo due ore combattendo prima che potessimo pigliar quell'argine. E gli nimici, vedendo che passavano, abbandonando l'argine e le terrazze, si diedero a fuggir per quella contrada: e cosí passò tutta la gente, e io subito feci riempiere il detto ponte e disfar l'argine.
Tra questo mezzo gli Spagnuoli con gl'Indiani amici nostri seguitarono gli nemici per quella contrada per spazio d'un tiro di balestra insino all'altro ponte, che è vicino alla piazza e al palazzo, che è tra li principali alberghi della città. Questo ponte non l'avevano levato, né fattovi argine alcuno, perciochè si avevano pensato che noi quel giorno non dovessimo pigliar punto di quel che pigliammo, né anco noi pensavamo di poterne prender la metà. E nell'entrata della detta piazza posi un pezzo d'artegliaria, che faceva gran danno agli nemici, che erano di sí gran numero che non capivano nella piazza. Gli Spagnuoli, vedendo che non vi era acqua, nella quale suol esser pericolo, deliberarono d'entrar nella piazza. Li cittadini, vedendo che la deliberazione si mandava ad effetto, e vedendo la grandissima moltitudine degl'Indiani nostri amici, benchè ne facessero poca stima senza la presenza degli Spagnuoli, nondimeno si diedero a fuggire, essendo gli Spagnuoli e dagl'Indiani amici nostri seguitati tanto che gli sforzarono entrare in una piazza dove stanno i loro idoli, la qual è circondata di muro e, come si è detto nell'altra relazione, è di sí gran circuito che si potrebbe far dentro una città di quattrocento case. Questa piazza subito fu abbandonata da loro, e gli Spagnuoli e gli Indiani amici nostri la presero e si fermarono alquanto in quelle torri. Li cittadini, vedendo che non c'erano i cavalli, andarono addosso agli Spagnuoli e per forza gli cacciarono delle torri e della piazza, per la qual cosa li nostri si viddero in grandissimo pericolo, ed essendosi ritirati si fermarono piú a basso ne' portici della detta piazza; ma, essendo gravemente battuti da' nemici, ritornarono alla piazza, della quale essendo discacciati furono costretti a tornar nella contrada, di modo che ne tolsero un pezzo d'artegliaria che vi era. Gli Spagnuoli, non potendo sostener l'impeto de' nemici, con grandissimo pericolo si ritirarono: e con effetto sariano stati in grandissimo pericolo, ma piacque a Iddio che in quell'ora sopragiunsero tre a cavallo ed entrarono nella piazza. Gli nemici, avendogli visti, pensando che fussero maggior numero, si misero in fuga, e i nostri presero il cortile e la piazza della quale di sopra ho fatto menzione. Nella piú alta torre d'essa (la quale era piú di cento gradi insino alla sommità) dieci o dodeci de' principali della città si fortificarono, e quattro o cinque Spagnuoli vi salirono: e benchè si difendessero valorosamente, nondimeno gli Spagnuoli la presero e gli uccisero tutti. Dipoi vennero cinque o sei altri a cavallo, e gli ultimi insieme co' primi si posero a far insidie ai nemici, e n'uccisero piú di trenta. Ed essendo già l'ora tarda, comandai che si sonasse a raccolta.
Mentre li soldati si ritiravano, sopraveniva tanta moltitudine di nemici che, se li cavalli non soccorrevano gli Spagnuoli, era impossibile non cadere in grandissimo danno. E perchè io avevo molto bene acconci e li luoghi stretti e le strade mattonate, dove era il pericolo nel tempo che si ritiravano, si poteva per quelle scorrere agevolmente con li cavalli, e, quando gli nemici assalivano la nostra retroguarda, li nostri cavalieri gli andavano addosso e sempre ne ferivano e uccidevano qualcuno. Ed essendo la contrada assai lunga, poterono tre o quattro volte andar loro addosso: e benchè gli nemici vedessero farsi gran danno, nondimeno come cani rabbiosi tanto fieramente ci venivano addosso, che in niun modo gli potevamo sostenere né resistere, né far che non ci seguitassero. E averemmo in simil contesa consumato tutto quel giorno, se gli nemici non avessero preso di molte terrazze che soprastavano alla detta contrada, donde ci potevano offendere di sorte che li cavalli andavano a grandissimo pericolo. E a questo modo per la medesima via mattonata ritornammo alli nostri alloggiamenti, senza perdita di alcuno Spagnuolo, avenga che molti ne fussero feriti; e lasciammo il fuoco attaccato alle maggiori e piú belle case di quella contrada, acciochè un'altra volta ritornandovi non ci potessero offendere dalle terrazze.
Il giorno medesimo l'esecutor maggiore e Pietro d'Alvarado combatterono aspramente co' nemici della città, ciascuno dalla banda de' suoi alloggiamenti, e mentre combattevamo eravamo lontani per una lega e mezza, che tanto si estendevano i luoghi abitati della città. Benchè fusse picciolo spazio, gli amici nostri, che appresso di loro erano di numero infinito, combatterono vigorosamente, e si ritirarono agli alloggiamenti senza aver in quel giorno ricevuto danno alcuno.
Del soccorso dei trentamila uomini che mandò don Fernando agli Spagnuoli, e agli altri due eserciti s'aggiunsero ventimila uomini. Gli abitatori di Sichimilco e d'Otumia vengono ad offerirsi. Come il Cortese mandò tre brigantini all'esecutor maggiore e tre a Pietro Alvarado. Come gli Spagnuoli presero gli argini e aspramente combatterono, e attaccarono il fuoco nelle maggiori e piú belle case della piazza, dove solevano alloggiare.
Tra questo mezzo don Fernando, signor della città di Tessaico e della provincia di Aculuacan, del quale di sopra io ho fatto menzione, procurava di far diventar nostri amici tutti gli abitatori della città e provincia a lui sudditi, e massimamente de' principali, perciochè insino allora non erano confermati, come ultimamente si confermarono; e ogni giorno andavano al detto don Fernando varii signori e fratelli suoi, con intenzione di favorirci e combattere con quei di Temistitan e di Messico. Ed essendo il detto don Fernando giovane e molto affezionato, e conoscendo li benefici che gli ha fatti Vostra Maestà, vedendosi avere in dono cosí gran dominio, massimamente vedendo che di ragione gli altri dovevano essere anteposti a lui, sollecitava quanto piú egli poteva di far che tutti li suoi sudditi venissero a combattere contra quei di Temistitan, ed entrassero ne' medesimi pericoli e fatiche che noi pativamo. Parlò co' suoi fratelli, che erano sei o sette e giovani e atti alla guerra, e comandò loro che con tutti li suoi sudditi venissero a darci soccorso; e fece capitano uno di loro, nominato Istrusuchil, giovane di ventiquattro anni valoroso e amato da tutti, il qual giunse al nostro esercito, che era alloggiato nella via mattonata, accompagnato da trentamila uomini da combattere molto bene in ordine secondo la loro usanza, e agli altri due eserciti s'aggiunsero ventimila uomini; e io gli ricevetti benignamente e ringraziai del lor buon animo ed effetti verso di noi. Vostra sacra catolica Maestà potrà aver ben conosciuto se l'amicizia del nostro don Fernando sia stata buona, e di che animo fussero quei di Temistitan vedendo che coloro che tenevano per sudditi, per amici, parenti e fratelli, e anco per padri e per figliuoli, andavano a combatter contra di loro.
Dopo due giorni dell'assalto detto di sopra, essendo venuti gli predetti soccorsi, gli abitatori di Sichimilco, che è situata in acqua, e certe terre d'Otumia, che sono montanari e di maggior numero di quei di Sichimilco, ed erano schiavi de' signori di Temistitan, vennero ad offerirsi per vassalli di V.M. pregandomi ch'io perdonassi alla lor tardezza: e io gli ricevetti benignamente e infinitamente mi rallegrai della loro venuta, perciochè, se gli abitatori di Cuioacan potevano ricever danno alcuno, lo potevano ricever dalli sopradetti.
Avendo noi dalla banda del nostro campo, posto nella via mattonata, con l'aiuto de' brigantini abbrucciate molte terrazze ne' borghi della città, e non avendo piú ardire di comparire alcuna delle canoe, mi parve per sicurtà del nostro campo essere a bastanza sette brigantini, e perciò deliberai mandare al campo dell'esecutor maggiore tre brigantini, e tre altri a quello di Pietro d'Alvarado; e comandai espressamente ai loro capitani che dalle bande d'ambidue gli eserciti, provedendosi gli nemici con le loro canoe e conducendo dentro acqua, varii frutti, maiz e diverse vettovaglie, dovessero andare scorrendo qua e là, e oltra di ciò dessero aiuto alle genti dell'uno e l'altro campo, ogni volta che volessero dar l'assalto e combatter la città. E per questo effetto li sei brigantini se n'andarono ai detti campi, la qual cosa fu molto utile e necessaria, facendo notte e giorno tra loro maravigliose battaglie: e pigliavano gran numero di canoe de' nemici, e anco molti di loro.
Avendo posto l'ordine sopradetto, ed essendo venute cotante genti in aiuto nostro, e pacificamente, come ho detto di sopra, io parlai loro di voler de lí a due giorni dar l'assalto alla città, e perciò dovessero allora comparir bene apparecchiati, che a questo ponto conoscerei se fossero veri amici. Essi promisero di dover cosí fare, e il giorno seguente comandai a' soldati che stessero in arme, e feci a sapere a tutti quei del campo e quei de' brigantini quel che io avevo deliberato e ciò che essi avevano da fare. Il giorno sequente, dopo la messa, e poichè ebbi data la informazione a' capitani di quello che avevano da fare, me n'uscii de' nostri alloggiamenti accompagnato dalla gente a cavallo e da trecento fanti spagnuoli e da tutti gl'Indiani amici nostri, il cui numero era infinito. E andando per la via mattonata, lontano tre tiri di balestra gli nemici già n'aspettavano con grandissimi gridi, e perchè già erano passati tre giorni che noi non avevamo combattuto con loro, aveano disfatti e voti tutti quei luoghi che noi aveamo ripieni, ed erano piú difficili da espugnare che prima non erano. Ed essendo i brigantini arrivati dall'uno e l'altro lato della via, e potendo con essi andare piú appresso con le artiglierie, con gli schioppetti e con le balestre, facevamo loro grandissimo danno. Vedendo questo, saltammo in terra e pigliammo l'argine insieme col ponte, e cominciammo andare innanzi e seguitar gli nemici; ma essi si fortificavano negli altri ponti e argini che aveano fatti, i quali prendemmo con maggior fatica e pericolo che l'altra volta, e gli cacciammo della contrada, della piazza e di quelle gran case della città. E allora comandai agli Spagnuoli che non procedessero piú avanti, perciochè io coi miei riempievo di sassi e di mattoni il passo dove scorreva l'acqua, in che era grandissima fatica, conciosiachè, se ben a tal cosa v'attendevano a lavorar diecimila Indiani amici nostri, nondimeno fu ora di vespero avanti che fusse finita. In quel mezzo gli Spagnuoli e i nostri Indiani combatterono sempre coi nemici, facendo loro insidie, onde ne uccisero molti. Io, accompagnato dalla gente a cavallo, andai per la città e per quelle contrade dove era acqua: ne ferimmo di molti, e facemmo di modo che ritornarono adietro e non ebbero ardire di andar piú in terra ferma.
Conoscendo che gli abitatori della città erano ostinati e mostravano animo o di morire o di difendersi gagliardamente, mi vennero nella mente due cose: una, che eravamo per racquistare poco o niente di quelle ricchezze che già ci avevano tolte; l'altra, che ci dariano occasione di mandargli del tutto in rovina. E quest'ultima mi pareva piú vera, il che mi dispiaceva grandemente, onde io andavo pensando il modo col quale io potesse far loro paura, sí che si rimovessero dal loro errore e conoscessero il danno ch'io potevo far loro, e tuttavia rovinavo e abbrucciavo le torri degl'idoli e delle loro case. E acciochè piú dapresso il vedessero, io feci quel giorno taccare il fuoco a quelle gran case poste nella piazza, dove l'altra volta che ci cacciarono della città io e gli Spagnuoli solevamo alloggiare, le quali erano tanto grandi che commodamente vi saria potuto albergare ogni prencipe con seicento persone al suo servizio. E benchè il far questo mi dispiacesse, conoscendo che molto piú dispiaceva a' nemici deliberai di abbruciarle, della qual cosa ne presero grandissimo dispiacere, e similmente gli altri loro confederati che erano nel lago, perciochè non si pensarono mai che le nostre forze tanto potessero, né fussimo di tanto valore che potessimo arrivare insino là: e questo dispiacque loro molto piú d'ogni altra cosa.
Come ritirandosi gli Spagnuoli combatterono co' nemici che gli vennero adosso. Fazioni de' brigantini. Come quella notte, delle tre parti d'acqua e delle strade, le due furono rifatte, e con quanta difficoltà le prendessero. La cagione perchè gli bisognasse ogni dí ripigliar li ponti e argini; il pericolo che avevano nel ritirarsi; e come gli altri due campi ebbero le cose prospere.
Attaccato il fuoco alle dette case, subitamente comandai che si sonasse a raccolta, e fece che si ragunassero tutti i soldati, e, perciochè l'ora era tarda, ritornammo a' nostri alloggiamenti. Gli nemici, vedendo che noi ci ritirammo, ci vennero adosso con una grandissima moltitudine, assaltando l'ultima schiera de' nostri: ed essendo la via acconcia ed isgombrata, e potendosi liberamente scorrere co' cavalli, andavamo loro adosso e sempre ne ferivamo qualcuno, nondimeno gridandoci dietro non restavano di seguitarci. In quel giorno mostrarono aver grandissimo dispiacere, vedendo che eravamo entrati nella città e che l'andavamo tuttavia dissolando e abbrucciando, e che contra di loro combattevano gli abitatori di Calco, di Tessaico e di Sichilmico e parimente quei d'Otumia, perseguitandogli e ciascuno gridando il nome della sua patria mentre combatteva; e dall'altro lato quei di Tascaltecal, mostrando loro i cittadini di Temistitan i quali erano stati tagliati in pezzi, e dicendo volergli serbare quella sera per cena e la mattina seguente per desinare, sí come con effetto facevano. E cosí giugnemmo a' nostri alloggiamenti e ci riposammo, perchè quel giorno avevamo portato grandissima fatica. Li sette brigantini ch'io ritenevo appresso di me quel giorno entrarono per li canali della città, della quale abbrucciarono una gran parte. Li capitani degli altri campi e sei altri brigantini quel giorno combatterono valorosamente, e delle cose che accascarono loro potrei diffusamente a Vostra Maestà narrare, le quali lascio per fuggire la longhezza, e dico solamente che ritornarono ai loro alloggiamenti senza pericolo di alcuno di loro.
Il giorno seguente, la mattina a buon'ora, col predetto ordine, dopo la messa con tutte le genti ritornai alla città, acciò gli nemici non avessero tempo di votar li ponti e di rifar gli argini. E benchè io mi fusse levato a buon'ora, nondimeno, di tre parti d'acqua e di strade che vi sono di mezzo, le due dal nostro campo insino a quelle gran case e la piazza erano rifatte come il giorno avanti: nel prendere delle quali fu difficoltà sí grande che si combatté da otto ore insino ad un'ora doppo mezzogiorno, nel qual tempo mancarono tutte le freccie e palle che avevano portate seco li balestrieri e gli schioppettieri. E Vostra sacra Maestà creda che entravamo in grandissimi pericoli ogni volta che pigliavamo li predetti ponti, essendo necessità per pigliarli di passar nuotando, onde li nostri non potevano molto adoperar le forze, che, stando gli nemici su la riva, a colpi di spade e di lancie facevano resistenza che non passassero. Nondimeno, non avendo essi da' lati le terrazze donde ne potessero offendere, e dall'altra parte lanciando noi dardi contra di loro (perciochè non eravamo distanti l'uno dall'altro piú d'un tiro di sasso con mano), cresceva tuttavia l'animo agli Spagnuoli e deliberavano di passare, sí perchè vedevano che io cosí avevo deliberato, sí perchè o cadendo o levandosi non bisognava fare altramente.
Parrà alla Maestà Vostra, andando noi a pigliare li detti ponti e argini con tanti pericoli, che fussimo negligenti in lasciargli e non tenergli, poichè gli avevamo con tanta fatica acquistati, per non trovarsi, volendogli di nuovo ripigliare, ogni giorno in simili pericoli, i quali certamente erano grandissimi. E senza dubbio alcuno cosí parrà a ciascuno che ne sia lontano; nondimeno sappia la sacra Vostra Maestà che in niun modo si poteva fare, perciochè a mandar ciò ad effetto eravamo astretti a fare l'una delle due cose, overo porre il campo in quella piazza e circuito delle torri degl'idoli, overamente metter gente a guardare di notte li ponti; ma in ciascuno erano grandissimi pericoli e le forze non ci bastavano. Se facevamo il campo dentro nella città, ogni notte e ogni ora, essendo gli nemici di numero infinito e noi molto pochi, si sarebbe gridato mille volte all'arme e averiano combattuto con noi, e le fatiche sarebbero state intollerabili; e d'ogni banda ci averebbero potuto piú facilmente assaltare, perchè il tenere di notte guardati li ponti era quasi una cosa impossibile il poterla fare, perciochè gli Spagnuoli la sera erano sí stanchi dal combattimento del giorno che in niun modo si potevano mettere a guardarli: e perciò eravamo astretti di nuovo pigliargli ogni giorno che entravamo nella città.
E avendo quel giorno medesimamente consumato il tempo in prendere e riempiere quei ponti, non avemmo agio di far altro, se non che in una contrada che va insino alla città di Tacuba furono presi duo altri ponti e ripieni, e abbrucciate molte e grandi e belle case di quella contrada. In questo mezzo sopravenendo l'ora tarda e il tempo di ritirarsi, e allora ci trovavamo in grandissimo pericolo, non minore che nel pigliar li ponti, perciochè gli nemici, vedendoci ritirare, prendevano tanto piú ardire, non altrimenti che se essi avessero avuto vittoria e che noi ci fussimo dati a fuggire, onde era necessario che i ponti fussero ben ripieni e il terreno pareggiato con la via della contrada, acciochè li cavalli potessero da ogni banda scorrere. E a questo modo ritirandoci e perseguitandoci essi cosí facilmente, alle volte fingevamo di fuggire, e noi a cavallo ritornavamo contra di loro, e sempre ne pigliavamo dodeci o tredici de' piú valenti: e a quel modo, e con alcune altre insidie che facevamo loro, venivano ad esser molto da noi offesi. Ma certamente questo era bello e degno di grandissima maraviglia, che, essendo loro notissimo il danno che noi facevamo in perseguitargli, nondimeno non restavano di seguitarci finchè ci vedevano uscire della città.
E cosí ritornammo al campo, e i capitani degli altri campi mi fecero intendere come quel giorno per la grazia d'Iddio avevano avuto ogni cosa prospera, con una grandissima uccisione de' nemici e per acqua e per terra. Pietro d'Alvarado, che stava nella città di Tacuba, mi scrisse aver presi due overo tre ponti, perciochè, trovandosi egli in una via mattonata che esce dalla piazza di Temistitan e arriva a Tacuba, avendo quelli tre brigantini ch'io gli avevo dati da un lato potuto appressarsi alla detta strada, non era stato in tanto pericolo quanto alli giorni passati. E dalla banda dove si trovava Pietro d'Alvarado erano piú ponti e piú uscite di acqua in detta strada, benchè le terrazze non fussero cosí spesse come negli altri luoghi.
Come gli abitatori della città posta nel lago, avendo lungamente combattuto, s'arrenderono e, cosí richiesti, fecero fabricar molte casette d'alloggiare gli Spagnuoli nel campo. E con che ordinanza dessero l'assalto alla famosa città, e come quel giorno e il seguente furono vittoriosi.
In tutto quel tempo che gli abitatori della città d'Iztapalapa, di Oichilubuzzo, Mechicacingo, Culuacan, Mezqueque e Cuitaguaca, le quali, come ho detto di sopra, sono poste nel lago dell'acqua dolce, non volsero mai pace meco, né in tutto quel tempo mi diedero travaglio o danno alcuno; ed essendo gli abitatori di Calco fedeli vassalli alla Maestà Vostra, e considerando essi che noi avevamo molto da fare con quei di Temistitan, fecero lega insieme con certe terre che sono sulla riva del lago, facendo a coloro che erano nel lago ogni danno che fusse possibile. Ma, conoscendo che noi sempre avevamo vittoria contra quelli di Temistitan, e considerando il danno fatto e che si poteva far loro da' nostri amici, si arrenderono e vennero nel nostro campo, umilmente chiedendo che io perdonasse loro li passati errori, e commettesse agli abitatori di Calco e a' loro vicini che non gli danneggiassero piú. Risposi che mi piaceva, e che queste cose non le riceveva se non da quelli di Temistitan. E afinchè io credesse la loro amistà essere veramente di cuore, gli pregavo, poichè io avevo deliberato di non levar mai l'assedio finchè pigliasse la città overo a patti overamente per forza, se essi avevano delle canoe con le quali mi potessero dare aiuto, che apparecchiassero tutte quelle che aveano, insieme con tutte le genti delle loro terre, per darmi nell'avenire tutto quello aiuto che potevano per acqua; e gli pregavo ancora parimente che, avendo gli Spagnuoli poche e cattive casette d'alloggiare nel campo, ed essendo i tempi piovosi, procacciassero di fare quanto prima che potevano fabricare ne' nostri campi piú numero di casette, e che menassero le loro sopradette canoe per poter condurre piú facilmente travi e mattoni delle case della città piú vicine alli campi. Dissero che le case e gli uomini da combattere erano apparecchiati qualunque giorno io volevo, e nel fabricare le casette furono molto diligenti, perciochè dall'uno e dall'altro lato di quelle due torri della via mattonata, dove io mi ero accampato, ne fabricarono tante che dalla piú vicina alla ultima vi era lo spazio di piú di tre o quattro tiri di balestra: e la Maestà Vostra consideri la larghezza della detta via, che è fondata nel piú profondo luogo del detto lago; e dall'uno e dall'altro lato della via erano poste le dette case, e vi rimaneva tanto spazio voto che le genti a cavallo e fanti potevano andare e tornare commodamente a loro piacere. E nel campo, numerando gli Spagnuoli e gl'Indiani che servivano loro, erano piú di duemila persone; il resto degl'Indiani amici nostri alloggiavano in Cuioacan, che era lontana una lega e mezza dal nostro campo. Gli abitatori delle dette terre molte volte ne davano delle vettovaglie, delle quali avevamo grandissimo bisogno, ed erano spezialmente pesci e ciregie, che ve ne sono in grandissima quantità, che basterebbero cinque e anco sei mesi continui, e se ne trovano in queste parti il doppio di piú.
Essendo per due o tre giorni continui entrati nella città dalla banda del nostro campo, eccettuando quegli altri tre o quattro dí che eravamo entrati, e sempre ottenuto vittoria de' nemici, e con l'arteglierie e schioppi e balestre ne avevamo uccisi molti, aspettavamo ogni ora che venissero a dimandar la pace, che la desideravamo come la propria salute: nondimeno niente gli giovava per indurgli a farla. E per far loro maggior danni e astringergli a venire alla pace con esso noi, deliberai di entrare nella città ogni giorno e di combatterla ogni ora con tutte le genti ch'io avevo da quattro luoghi, comandando oltra di questo che tutte le genti delle città che erano nel lago venissero con le loro canoe: e in quel giorno la mattina per tempo si trovavano nel nostro campo piú di centomila Indiani amici nostri. Ordinai che tre brigantini con la metà delle genti, che erano da mille e cinquecento, andassero da una banda, e tre altri con il restante delle canoe dall'altra, per circondare la città e abbrucciarla e fare il maggior danno che si potesse; e io me ne andai per la principale strada mattonata, e la trovai senza alcuno impedimento insino alle case grandi, e niuno ponte era levato, e cosí me ne andai insino ad una strada mattonata, donde si sale ad una contrada per la quale si va alla città di Tacuba, che vi si trovavano da sei overamente sette ponti. Quivi ordinai ad un certo capitano che andasse a pigliare un'altra contrada con sessanta o settanta fanti e sette a cavallo dietro per loro guardia, accompagnati da dieci overo dodecimila Indiani amici nostri, e similmente comandai ad un altro capitano che dovesse occupare una altra contrada; e io con i soldati che erano rimasi seguitai di andar per una contrada per la qual si va alla città di Tacuba, e pigliammo tre ponti riempiendogli, e lasciando gli altri da pigliare il giorno sequente, per essere l'ora tarda, e meglio e piú commodamente potendogli prendere il giorno seguente. E invero che io sommamente desideravo di occupare quella contrada, acciochè gli soldati di Pietro d'Alvarado si potessero unire con noi e venire dal loro campo al nostro, e il medesimo facessero anco li brigantini. Quel giorno avemmo grandissima vittoria per acqua e per terra, facendo acquisto di qualche preda degli abitatori della città, e quei del campo di Pietro di Alvarado e del maggiore esecutore ebbero medesimamente non picciola vittoria.
Il giorno sequente ritornai alla città con quell'ordine ch'io vi andai il giorno avanti, e finalmente Iddio ne diede vittoria, sí che dovunque andavo con i miei soldati non trovavo contrasto alcuno, e gli nemici si ritiravano con tanta celerità che pareva loro che noi delle quattro parti della città ne avessimo prese le tre; e dalla banda del campo di Pietro d'Alvarado gli stringevano grandemente. E senza dubbio in quel giorno e nel precedente pensavo che dovessero venire a pace con esso noi, la quale io proponevo sempre, e con la vittoria e senza: nondimeno non viddi mai in essi alcun segno di voler pace. E avegna che quel giorno ritornassimo con grandissima allegrezza ai nostri campi, pure avevamo grandissimo dispiacere che gli abitatori della città avessero del tutto deliberato di morire.
Come Pietro Alvarado prese gran parte della città e fu constretto a fuggire,
e fu presi tre o quattro Spagnuoli.
Quei giorni passati Pietro d'Alvarado aveva presi di molti ponti, e per guardargli vi teneva la notte e fanti e cavalli, e gli altri se ne tornavano al campo, che era distante quasi una lega. Ed essendo cotal fatica intollerabile, deliberò di mettere il campo nel fine della strada mattonata che va alla città, a fine di prender la piazza, la qual piazza è piú larga di quella della città di Salamanca, e ha portici d'intorno intorno; e a poter giugnere alla detta piazza non mancava altro che pigliar dua o tre ponti, che erano larghi e molto difficili da prendere, onde a quel modo se ne stette per alquanti giorni, e combattendo sempre ebbe vittoria. E quel giorno ch'io ho detto di sopra, vedendo egli che gli nemici mostravano d'esser stanchi e ch'io di continuo acerbamente gli combattevo, alzatosi per la vittoria d'aver presi li ponti e gli argini, deliberò di proceder piú avanti e di pigliar quel ponte della strada mattonata già guasta, che era di larghezza di sessanta passi e di altezza della statura di piú d'un uomo e mezzo. E avendo cominciato arditamente, quel giorno li brigantini gli furono di grandissimo aiuto, che passarono l'acqua e pigliarono il ponte e perseguitarono gli nemici; e Pietro d'Alvarado sollecitava di far riempiere quel luogo, acciò li cavalli potessero passare, e anco perchè ogni dí io l'esortava a bocca e per lettere che non pigliasse pur un palmo di luogo se non fusse sicuro, e che li cavalli potessero sicuramente entrare e uscire, perciochè co' cavalli si fa loro grandissima guerra. Li cittadini, vedendo che non erano passati se non quaranta o cinquanta Spagnuoli e alcuni Indiani amici nostri, e che i nostri cavalli non potevano passare sí tosto, si rivoltarono di modo che gli forzarono a darsi a fuggire e gettarsi in acqua, e fecero prigioni tre o quattro Spagnuoli, i quali subito menarono a farne sacrificio a' loro idoli, e uccisero alcuni de' nostri amici. E finalmente Pietro d'Alvarado se ne ritornò al suo campo.
Quel giorno, essendo io tornato al nostro campo, intesi quel che gli era avenuto, di che presi grandissimo dispiacere, essendo ciò un dare occasione a' nemici di pigliare ardire, e di credere che a niun modo per l'avenire dovessimo aver animo d'assaltargli. La ragione perchè Pietro d'Alvarado aveva deliberato d'espugnar quel luogo difficile fu perchè, come ho detto, egli si vedeva per la maggior parte aver presi i luoghi forti de' nemici, ed essi mostravano qualche paura e stanchezza; e spezialmente fu perchè coloro che erano nel suo campo facevano grande instanza che egli prendesse la detta piazza, la quale essendo presa, pareva che fusse presa quasi tutta la città. E tutto ciò avenne per il desiderio e stimolo degl'Indiani che si trovavano presenti, i quali, essendo nel detto campo e considerando li continui assalti ch'io davo alla città, pensavano che io piú tosto di loro prenderia la detta piazza: e perciò Pietro d'Alvarado era grandemente sollecitato. Il medesimo interveniva a me nel mio campo, perciochè gli Spagnuoli instantemente sollecitavano che entrassimo per una delle tre vie che arrivavano nella predetta piazza, non avendo noi impedimento alcuno; la quale si era presa, ci restava minor fatica. Io dissimulavo in tutti li modi ch'io potevo, benchè di ciò non dicessi la cagione: e questo era per li pericoli e disturbi che mi s'appresentavano, conciosiachè avanti l'entrata della piazza si trovassero molte terrazze, ponti e strade guaste, di modo che tutte le case donde dovevamo passare erano come isole nel mezzo del mare.
La sera essendo giunto agli alloggiamenti e avendo inteso la rotta di Pietro d'Alvarado, il giorno seguente a buon'ora deliberai d'andare al suo campo, per riprenderlo del passato errore e intender quel che egli aveva preso e dove fusse accampato, e per avisarlo d'ogni cosa che appartenesse alla sua difesa e all'offesa de' nemici. Giunto che fui nel suo campo, ebbi grandissima maraviglia come avessero potuto prender sí gran parte della città e tanti e sí cattivi ponti, e, avendo ciò visto, non lo riputai degno di tanta grave riprensione quanto mi pareva prima; e, posto l'ordine di ciò che si aveva da fare, il giorno istesso me ne ritornai al mio campo.
L'ordine dato dal Cortese per dar l'assalto alla città.
Dopo questo molte fiate entrai nella città per i luoghi soliti, e in due luoghi combattevano coloro che erano ne' brigantini e nelle canoe, e io nella città in quattro luoghi, avendo continuamente vittoria e morendo grandissimo numero de' nemici, perciochè ogni giorno veniva gran moltitudine di gente in nostro aiuto. Indugiavo d'andar piú oltre, prima per veder se gli nemici lasciassero la ostinazione e il mal animo che avevano, dipoi perchè la nostra entrata non poteva esser senza grandissimo pericolo, essendo essi molto uniti e allegri e avendo deliberato di morire. Gli Spagnuoli, vedendo questa cosa prolungarsi tanto, essendo già passati venti giorni che non avevano mai mancato di combattere, molto piú che si potesse credere mi erano importuni, come ho detto di sopra, che entrassimo a prender la piazza: la quale essendo pigliata, rimaneva a' nemici pochissimo spazio dove potessero mettersi a difesa, e se non si avessero voluto arrendere sariano stati astretti a morirsi di fame e di sete, non avendo da bere salvo che l'acqua salsa di quel lago. E facendo io mia scusa, il tesoriero di Vostra Maestà mi fece a sapere che tutti coloro che erano nel campo erano di parere che io dovessi pigliar la piazza, onde e a lui e ad alcuni altri uomini da bene che si trovavano presenti risposi che la loro intenzione era ottima, e che io piú che gli altri desideravo cotal cosa; nondimeno non la mandavo ad effetto solamente per la cagione che essi per la lor grande instanzia mi sforzavano dire, la quale era questa, che avegna che gli altri facessero ciò di buon animo, nondimeno, essendo in questa impresa grandissimo pericolo, che sariano molti i quali non la mandariano ad esecuzione. E finalmente per la loro importunità acconsentii di fare ogni cosa a me possibile in tal impresa, avendo prima comunicato il mio consiglio co' soldati degli altri campi.
Il dí seguente parlai con alcuni de' principali, e deliberai di far a sapere all'esecutor maggiore e a Pietro d'Alvarado che 'l giorno seguente eravamo apparecchiati d'entrar nella città e affaticarci d'arrivare alla piazza; e scrissi ciò che essi avevano da fare dalla banda della città di Tacuba, e oltra le lettere mandai là due miei famigliari che li certificassero del tutto. E l'ordine col quale doveva procedere ogni cosa era tale: che l'esecutor maggiore con dieci cavalieri cento fanti e quindeci tra balestrieri e schioppettieri andasse agli alloggiamenti di Pietro d'Alvarado, e ne' suoi rimanessero gli altri dieci cavalieri, e tra loro ponessero ordine che 'l giorno vegnente, che si doveva dar l'assalto, si mettessero in aguato dopo certe case e conducessero le lor bagaglie non altrimenti che se volessero partirsi, acciò gli abitatori della città uscissero a seguitargli e i cavalieri posti in aguato gli assalissero dietro; e il detto esecutor maggiore con tre brigantini che aveva e tre altri di Pietro d'Alvarado andasse a quel mal passo dove fu rotto il detto Pietro, e sollecitasse di riempire il predetto passo, andando e prendendo tuttavia piú avanti, né piú avanti andassero né prendessero se prima non riempivano e acconciavano i luoghi presi; e se potevano senza lor gran pericolo pigliare insino alla piazza, ne facessero ogni opera, perciochè io ero per fare il medesimo, e avertissero che se ben io gli facevo avisati di questo, che non gli obligavo però a prender pur un passo della città onde ne potessero venire in danno alcuno.
Io dissi questo conoscendo loro esser tali che averiano poste le loro persone dove io avessi comandato, benchè avessero vista la morte manifesta. Espediti che si furono da me, se n'andarono ai campi a trovar l'esecutor maggiore e Pietro d'Alvarado, a' quali palesarono ogni cosa, come avevamo ordinato nel nostro campo. E perchè essi avevano da combattere un luogo solo, comandai che mi mandassero settanta o ottanta fanti, acciochè 'l giorno seguente insieme convenissero ad entrar nella città; i quali quella notte vennero ad alloggiare nel nostro campo, sí come io avevo comandato loro.
Come il Cortese entra nella città; in che modo divise i soldati e l'avvertimento che ei gli diede quando combattevano; come gli Spagnuoli furono rotti. Il gran pericolo che scorse il Cortese e come si salvò con le genti che avea. Il numero di Spagnuoli e Indiani amici che nella battaglia furon uccisi; come restò ferito il Cortese; il sacrificio fatto d'alcuni Spagnuoli.
Messo il predetto ordine, il dí seguente dopo messa si mossero dal nostro campo quei sette brigantini, accompagnati da piú di tremila canoe de' nostri amici, e io accompagnato da venticinque a cavallo e dagli altri ch'io avevo nel campo, e da quei settanta che erano venuti dal campo da Tacuba, seguitammo il nostro viaggio ed entrammo nella città, nella quale poichè fui entrato, divisi li soldati in questo modo. Erano tre contrade ne' luoghi presi per le quali era aperta la strada alla piazza, che gli Indiani chiamano Tianguizco (tutto quel sito dove è posta è nominato Tlatelulco), e di queste tre contrade la migliore era quella per la quale s'andava alla detta piazza. Feci intendere al tesoriero e al contatore di Vostra Maestà che entrassero con settanta fanti e quindeci o ventimila Indiani amici nostri, e per retroguarda tenessero sette over otto a cavallo, e quanti ponti e argini pigliassero, subito gli riempissero, menando seco dieci uomini con zappe e altri Indiani amici nostri, che ci erano di grande aiuto a riempire li ponti. L'altre due contrade vanno alla piazza dalla contrada di Tacuba, e sono piú strette, di strade piú spesse e di canali pieni d'acqua: per la piú larga di quelle comandai che andassero due capitani, con ottanta fanti e con piú di diecimila Indiani amici nostri. Nella bocca della contrada di Tacuba lasciai due gran pezzi d'artegliaria, e alla guardia vi posi dieci cavalieri. Ma io con otto cavalli e con cento fanti, tra' quali erano piú di venticinque tra balestrieri e schioppettieri, e con un numero infinito d'Indiani amici nostri, seguitai il mio viaggio per entrare quanto piú avanti potevo in una altra contrada stretta; e nella bocca di quella ordinai che stessero li cavalli, e comandai che per niun conto procedessero piú oltre o mi seguitassero, se prima io nol comandassi loro. E smontato da cavallo a piedi arrivai ad un argine, che avevano fatto dinanzi ad un certo ponte, e con un picciol pezzo d'artegliaria da campo e con balestrieri e schioppettieri avendolo pigliato, procedemmo avanti per quella strada mattonata già guasta in due o tre luoghi; e oltra che in quei tre luoghi combattevamo co' cittadini, era sí grande il numero degli Indiani amici nostri che salivano sopra le terrazze, che ci pareva che non ci potesse esser fatto danno alcuno, e con essi pigliammo quei due ponti, l'argine e la contrada.
Gli Spagnuoli e i nostri Indiani gli seguitarono per la medesima contrada senza indugio alcuno, e io rimasi con forse venti Spagnuoli in una certa casa vicina posta in isola, vedendo certi nostri Indiani mescolati co' nemici, che alle volte gli sforzavano a ritirarsi, di maniera che si gettavano in acqua, e confidando nel nostro soccorso vigorosamente andavano loro adosso. Oltra di ciò guardavamo che per certe vie attraverso gli cittadini non assalissero di dietro gli Spagnuoli, che erano andati avanti in quella contrada; i quali in quel punto mandarono a dire che essi avevano occupato una gran parte della città, e non esser lontani dalla detta piazza del palazzo, e ad ogni modo avere determinato di proceder piú avanti, essendo quei del campo dell'esecutor maggiore e di Pietro d'Alvarado venuti a battaglia co' nemici. Io mandai a dir loro che in niun modo si movessero se prima li ponti non erano bene ripieni, acciochè, se per ventura fussero astretti a ritirarsi, l'acqua non gli impedisse, conoscendosi che in questo consisteva tutto il pericolo; ed essi mi mandarono a dire che tutto passava con buon ordine, e ch'io andassi là, che co' proprii occhi vederei esser cosí. Io, sospettando che non s'ingannassero e non tenessero cura di riempire i ponti, andai là e trovai che avevano passata una parte guasta d'una strada di larghezza di dieci o dodeci passi, e l'acqua montava a tanta altezza quanta saria di due stature d'uomo, e quando passarono v'avevano gettati legni e canne; e passando essi a poco a poco e con gran desiderio, il legname non era andato a fondo, ed essi, per il piacer della vittoria che ottenevano, erano tanti allegri che pensavano quei legnami dovere star fermi e durar lungo tempo. E a quell'ora ch'io arrivai al ponte, trovai gli Spagnuoli e molti altri de' nostri amici essersi messi in fuga, e gli nemici come cani rabbiosi venirgli perseguitando; e vedendogli disordinati, cominciai a gridar che si fermassero, e, avvicinatomi all'acqua, la viddi piena di Spagnuoli e d'Indiani, di modo che non pareva che ci avessero gettato pur una paglia. E gli nemici andavano addosso gli Spagnuoli con tanto impeto, che seguitandogli si gettavano in acqua per andare a uccidergli, e le canoe de nemici uscivano fuori di quei canali e facevano prigioni gli Spagnuoli: ed essendo stata la cosa cosí subita, e vedendo che uccidevano li miei soldati, deliberai di fermarmi quivi e combattendo morire. Ma il maggior aiuto che potessimo dare era il porger mano a certi meschini Spagnuoli, che uscissero dell'acqua, i quali si sommergevano: e alcuni n'uscivano feriti, e alcuni mezzi annegati e altri senza arme. E comandato loro che andassero avanti, era sopravenuta tanta moltitudine di nemici che avevano circondato e me e dodeci o quindeci che erano meco, perciochè, essendo io attento a dare aiuto a coloro che s'annegavano, non me n'avedevo, né mi ricordavo del danno che poteva seguire; e alcuni Indiani nemici mi avevano già preso e m'averiano menato via, se non fusse stato un capitano con cinquanta soldati, il quale io solevo sempre menar meco, e l'aiuto anco d'un giovane di quella compagnia, che dopo Iddio mi liberò dalla morte, e per salvar me egli valorosamente combattendo passò di questa vita.
In questo mezzo gli Spagnuoli, che rotti erano fuggiti, se n'andavano per quella via mattonata, la quale era breve e stretta ed equale all'acqua, avendo gli nemici a posta fabricata di cotal maniera. Per la medesima n'andavano anco messi in fuga ed isconfitti molti de' nostri amici indiani, onde la strada era tanto impedita ed essi erano sí lenti nell'andare, che davano tempo a' nemici di poter passar l'acqua d'ogni banda, e pigliarne e uccidere quanti pareva loro. Per la qual cosa quel capitano che era meco, nominato Antonio Evignone, disse: "Partiamoci di qui e salviamo voi, essendo certi che, se vi perderemo, niun di noi potrà scampare". E appena poté far tanto ch'io mi partissi de lí, e, vedendo egli questo, con le braccia in croce mi pregava che tornassimo adietro. E benchè io desiderassi piú di morire che di vivere, nondimeno, per esortazione del predetto capitano e degli altri soldati che vi erano, cominciammo a ritirarci, combattendo a spade e rotelle co' nemici che ne venivano a ferire. In questo tempo venne un mio servidore e aprí alquanto la strada; nondimeno subito da una terrazza assai bassa lo ferirono nella gola, di modo che fu forzato a cadere. E trovandomi in tal combattimento, aspettando che la gente passasse, acciò si riducesse in luogo sicuro, venne un mio servidore con un cavallo, afinchè io vi montassi; ma era tanto fango in quella via stretta, per la moltitudine di coloro che entravano e uscivano dell'acqua, che niuno vi si poteva fermare. Io montai a cavallo, non già per combattere, perciochè era impossibile quivi mettersi a combattere a cavallo. E se per quella strada stretta fussi potuto andare all'isola, averia trovati quegli otto cavalieri che vi avevo lasciati, che piú avanti non aveano proceduto, ma erano stati forzati tornare adietro; ed essendo la tornata molto difficile, due cavalle, sopra le quali venivano due miei famigliari, da quella via stretta caddero in acqua: e una gli nemici l'uccisero, e l'altra la difesero certi nostri fanti. Ed essendo un altro giovane mio famigliare, nominato Cristoforo de Guzman, montato sopra un cavallo che mi mandavano coloro che erano nell'isola, acciò mi potessi ritirar sicuramente, gli nemici, prima che egli potessi arrivar da me, l'uccisero insieme col cavallo; la cui morte fu di tanto dolore a tutto 'l campo, che insino a questo giorno è fresco il dolor della sua morte a tutti coloro che avevano avuto sua pratica e conoscenza.
E alla fine, con tutte le nostre fatiche, piacque all'onnipotente Iddio che arrivassimo salvi alla via e contrada per la quale si va a Tacuba, che è molto larga. Poi che si furono ridotti li soldati, io mi posi nell'ultima schiera con nove cavalli; ma gli nemici erano tanto insuperbiti per la vittoria contra di noi, che pareva che niuno potessi scampar dalle lor mani. E col miglior modo ch'io potei ritirandomi, feci sapere al tesoriero e al contatore che in ordinanza si riducessero in piazza, e il medesimo ordinai che fusse fatto intendere alli due altri capitani che erano entrati in quella via e contrada per la quale si va al palazzo; e ciascuno di loro aveva combattuto valorosamente, pigliando molti argini e ponti, li quali avevano molto ben ripieni: il che fu cagione che nel tornare adietro non patissero danno alcuno. E prima che 'l tesoriero e 'l contatore ritornassero, gli nemici da un certo argine dove si combatteva aveano gettate due o tre teste de' cristiani, benchè allora non sapessero se erano de' soldati di Pietro d'Alvarado o del nostro campo. Essendo noi giunti alla piazza, concorreva da ogni banda tanta moltitudine de' nemici, che avemmo grandissima fatica prima che gli potessimo sforzare a voltarsi per certi luoghi, dove avanti questa battaglia non aveano ardir d'aspettar tre a cavallo e dieci fanti: e subito in un'alta torre dedicata a' loro idoli, che era vicina alla piazza, posero odori e profumi d'una certa gomma la qual nasce in questi paesi, che essi offeriscono a' loro iddii per segno di vittoria. E benchè noi volessimo impedirgli, nondimeno non avemmo mai potere di farlo, perciochè li soldati con veloce passo andavano verso il nostro campo. In questa battaglia i nemici uccisero trentacinque o quaranta Spagnuoli e piú di mille Indiani amici nostri, e ferirono piú di venti cristiani, e io ebbi una ferita nella gamba; e perdessimo quel picciol pezzo d'artegliaria da campo che aveamo condotto, e piú balestre e schioppi, con molte altre sorti d'arme.
Li cittadini, subito ottenuta la vittoria, per ispaventar l'esecutor maggiore e Pietro d'Alvarado, condussero tutti gli Spagnuoli che avevano presi e vivi e morti al Catebulco, dove è il palazzo, e in certe torri altissime vicine, e quelli nudi gli sacrificarono, e aprirono i lor petti cavando loro i cuori per offerirli agl'idoli. Le qual cose tutte gli Spagnuoli del campo di Pietro d'Alvarado potevano molto ben vedere dal luogo dove combattevano, e vedendo essi li corpi bianchi, conobbero che erano cristiani, di che ebbero grandissimo dispiacere, e sbigottiti se ne tornarono al campo.
Dipoi otto dí, e quel giorno e il seguente gli nemici con corni e timpani mostravano grandissima allegrezza, di modo che pareva che rovinasse la città, e aprirono tutti li canali e li ponti, nelli quali scorreva l'acqua come da prima, e vennero a tale che ponevano i fuochi e le lor guardie lontane due tiri di balestra dai nostri campi. Ed essendo tutti rotti, feriti e disarmati, avevamo di bisogno di ricreazione e di riposo. Con questa occasione gli abitatori della città ebbero spazio di mandare ambasciadori a diverse provincie suddite loro a dar nuova dell'avuta vittoria, e d'aver uccisi molti cristiani, e d'avere speranza di tosto mandarci del tutto in rovina, e che per niun modo pigliassero amicizia con esso noi. E acciochè fusse prestato lor fede, menavano intorno due cavalli e portavano alcune teste de' cristiani, le quali mostravano in quei luoghi che a lor pareva a proposito: il che fu di grandissimo momento a far piú ostinati che prima coloro che s'erano ribellati.
Come il Cortese, cosí richiesto, diede soccorso a quei di Quernaquacar, e l'ordine che diede al capitano che vi mandò, e vittoria ch'egli ebbe. La mirabil fazione che fece il signor Chichimicatecle in uno assalto che diede alla città di Temistitan.
De lí a due giorni, dopo la rotta, la quale già era nota e n'era sparsa la fama per tutti quei luoghi circonvicini, gli abitatori d'una terra nominata Quernaquacar, che era suddita alla città di Temistitan, e s'erano fatti nostri amici, vennero nel nostro campo e mi fecero a sapere che quei della terra di Marinalco, vicini, facevano grandissimi danni e guastavano la lor provincia, e allora si volevano unire con gli abitatori della provincia di Guisco, la quale è grandissima, e avevano fatto deliberazione d'andare ad assaltargli e uccidergli, per essersi fatti sudditi di Vostra Maestà e per aver presa l'amicizia nostra. Oltra di questo dicevano che gli nemici avevano deliberato, distrutto che avessero loro, d'assaltar noi. E benchè la rotta che avevamo avuta fusse fresca, e piú tosto avessimo di bisogno d'aiuto che darlo ad altri, nondimeno, facendomene grande instanzia, deliberai di dar loro aiuto in parte, benchè in tal cosa fussero molti a contradirmi, affermando che io metterei in ruina me stesso, mandando soldati fuori del campo. Ma io con tutto questo mandai insieme con li predetti nunzii ottanta fanti e dieci cavalli, de' quali feci capo Andrea di Tapia, al quale comandai che facessi tutto ciò che vedessi tornar commodo e utile al servizio di Vostra Maestà e alla sicurezza nostra, avendo riguardo alla necessità nella quale ci ritrovavamo, e nell'andare e nel tornare non ponessi piú di dieci giorni. E partitosi con quest'ordine, giunse ad una certa picciola terra, che è posta tra Marinalco e Coadnoacad. Quivi trovò gli nemici che gli aspettavano, onde, insieme con gli abitatori di Coadnoacad e con quei soldati che menava seco, cominciò a combatter contra di loro sí vigorosamente, che gli misero in fuga e ruppero e perseguitarono tanto che gli forzarono entrar nella terra di Marinalco, che è situata in un colle sí alto che gli uomini a cavallo non vi potevano salire. Il che veduto, essi distrussero ogni cosa che era nella pianura, e ottenuta questa vittoria, nello spazio di dieci giorni assegnato loro, se ne ritornarono al nostro campo.
Uno degli signori della provincia di Tascaltecal, nominato Chichimecatecle, del quale ho fatto menzione altre volte, che condusse le tavole per far li brigantini che erano sute apparecchiate in quella provincia, dal principio della guerra sempre era stato nel campo di Pietro d'Alvarado. Questo signore dopo questa rotta, vedendo che gli Spagnuoli non andavano ad affrontar gli nemici come solevano prima fare, deliberò accompagnato da' suoi entrar nella città e combatterla, lasciando quattrocento arcieri de' suoi appresso un certo ponte levato assai pericoloso, il quale egli aveva tolto a quei della città, il che non aveniva mai senza nostro aiuto. Egli andò accompagnato da' suoi, che mettevano gridi grandissimi, nominando la lor provincia e il lor signore. Quel giorno fu aspramente combattuto, e da ogni banda ne rimasero molti feriti e uccisi. E quei della città credevano fermamente avergli chiusi in una gabbia, perciochè, essendo essi gente di tal natura che, mentre i lor nemici si ritirano, benchè non siano vittoriosi, perseguitano con animo ostinatissimo, nel passar dell'acqua, dove suol esser evidente e certo pericolo, pensarono di dover vendicar le loro ingiurie. E perciò Chichimecatecle aveva lasciati al passo dell'acqua li detti quattrocento arcieri, e venendo a ritirarsi, gli nemici andaron loro adosso con grandissimo impeto, e le genti di Tascaltecal si gettarono in acqua e con l'aiuto degli arcieri passarono. E gli nemici, vedendo che facevano resistenza, si fermarono e maravigliaronsi grandemente dell'ardire di Chichimecatecle.
Come il Cortese mandò l'esecutor maggiore in soccorso a quelli di Matalcingo, e la vittoria ch'egli ebbe. Come li signori di Matalcingo, Marinalta e Guiscon vennero ad offerirsi.
Due giorni dopo la tornata degli Spagnuoli che erano andati alla guerra di Marinalco, sí come la Maestà Vostra ha potuto intendere ne' precedenti capitoli, vennero nel nostro campo dieci Indiani d'Otumia (e gli Otumiesi erano scritti schiavi de' signori di Temistitan e, come ho detto, s'erano fatti sudditi della Maestà Vostra, e ogni dí ci davano aiuto combattendo co' nostri nemici), e mi fecero a sapere come li signori della provincia di Matalcingo, i quali confinano con essi, facendo lor guerra, e avevano abbrucciato una certa terra e menati prigioni alcuni di loro, e quanto potevano gli mettevano in rovina, con animo d'assalire i nostri campi, acciochè quei della città uscissero fuori e ne distruggessero del tutto. Noi prestammo lor fede, perciochè dopo alcuni giorni, ogni volta ch'entravamo nella città per combattere, ci minacciavano col nominar questi capitani della provincia di Matalcingo; la quale, benchè non ci fussi molto nota, nondimeno ben sapevamo che era grande, e distante per spazio di venti leghe dal nostro campo. E per il lamento che gli Ottumiesi facevano contra de' lor nemici, ci mostravano che dessimo loro soccorso. E benchè lo dimandassero in tempo molto strano, nondimeno, confidandomi nell'aiuto divino, per rompere le ale dell'audacia della città, che ogni dí ci minacciava per via di questi capitani di Matalcingo, e mostravano speranza di dover avere aiuto da loro, e soccorso d'altronde non poteva venire se non da quella banda, deliberai mandar Consalvo di Sandoval esecutor maggiore con dieciotto uomini a cavallo e cento fanti, tra i quali era un balestriere, da' quali tutti e da altri Ottumesi amici nostri accompagnato si partí. E Iddio è testimonio a che pericolo essi andavano, e in quale restavamo noi; ma, bisognando mostrar maggior fortezza d'animo che mai prima avessimo fatto e morir combattendo, dissimulavamo la debolezza delle nostre forze e con gli amici e co' nemici. Nondimeno spesse volte gli Spagnuoli l'un l'altro si confortavano a ripigliar finalmente vigore e a mostrarci vincitori contra que' della città, benchè in essa e in tutte l'altre provincie non dovessero conseguir utilità alcuna; onde si può comprendere la fortuna e la necessità nella quale eravamo posti col corpo e con l'animo.
L'esecutor maggiore quella notte andò ad alloggiare ad una certa terra degli Otumiesi che è all'incontro di Matalcingo, e il giorno seguente a buon'ora si partí e arrivò alle stanze degli Otumiesi, le quali trovò abbandonate e per la maggior parte abbrucciate. E giunto nella pianura appresso un certo fiume, trovò una grandissima moltitudine di gente, che avevano già finito d'abbrucciare una altra terra, e avendo veduti li nostri cominciarono a fuggire; e per la strada che passavano, dopo loro seguitavano molte some di maiz e di piccioli fanciullini, che per vettovaglia menavano seco, e le avevano lasciate subito che sentirono gli Spagnuoli esser arrivati. E poichè ebbero passato il fiume, che scorreva piú oltre, si cominciarono a fermar nella pianura, e l'esecutor maggiore gli assaltò con la gente a cavallo e gli ruppe; ed essendosi messi in fuga, se n'andarono a diritto alla loro terra di Matalcingo, che era lontana tre leghe, e gli seguitò di continuo finchè furono astretti ad entrar nella terra; e quivi aspettarono gli Spagnuoli e gli amici nostri, i quali andavano uccidendo coloro che le genti a cavallo avevano rinchiusi tra loro e la fanteria e lasciati adietro: e in questa fuga furono uccisi duemila de' nemici. Li fanti, essendo giunti al luogo dove s'era ferma la gente da cavallo, e i nostri amici, che erano da sessantamila uomini, cominciarono a caminar verso la terra, dove gli nemici fecero lor resistenza, finchè si conducevano le loro donne, li figliuoli e le robbe in una certa fortezza posta in un colle altissimo quivi vicino. Nondimeno, subito che gli assaltarono, gli costrinsero a ritirarsi nella rocca, che avevano in quella sommità molto erta e forte; e misero a sacco e abbrucciarono la città in brevissimo spazio, fuggendosi gli nemici alla rocca, la quale l'esecutor maggiore non volse che si combattesse, per esser già l'ora tarda e la gente molto stanca per la fatica, avendo combattuto tutto 'l dí. Gli nemici consumarono tutta quella notte in grandissimi gridi e strepiti di timpani e di corni.
Il giorno seguente a buon'ora l'esecutor maggiore cominciò a condurre li soldati, acciò salissero il colle per combattere con gli nemici ritirati nella rocca, benchè ciò facessi con qualche paura, pensando che dovessero far resistenza. Essendo giunti là suso, non trovarono alcuno de' nemici, e certi Indiani amici nostri descendendo dal colle rapportarono che non vi era alcuno, ma all'alba tutti s'erano partiti; e subito viddero nella pianura d'ogn'intorno grandissimo numero di gente, che erano gli Ottumiesi. Li nostri da cavallo, pensando che fussero nemici, andarono contra di loro e ne ferirono tre o quattro: ed essendo il linguaggio degli Ottumiesi differente da quello di Culua, non gli intendevano, se non che gettate l'armi ricorrevano agli Spagnuoli, e nondimeno ne avevano feriti tre o quattro; ma essi ben conobbero ciò esser avenuto perchè non erano stati conosciuti. E poichè gli nemici non aveano aspettato, gli Spagnuoli deliberarono di ritornare per un'altra lor terra che similmente s'era ribellata, la qual, vedendo tante genti muoversi contra di lei, gli ricevette benignamente. E l'esecutor maggiore parlò col signor della provincia, e gli fece intendere che egli ben doveva sapere che io ricevevo benignamente tutti coloro che venivano ad offerirsi per vassalli di Vostra Maestà, avegna che avessero sommamente errato, e lo pregavo che parlasse agli abitatori di Matalcingo, che venissero a trovarmi: e cosí promise di fare, e d'indurre anco gli abitatori di Marinalco a pacificarsi con esso noi.
L'esecutor maggiore, avuta questa vittoria, se ne ritornò al campo. E quel giorno che egli arrivò, alcuni Spagnuoli stavano combattendo nella città, e li cittadini fecero loro intendere che 'l nostro interprete andasse là, che volevano trattar la pace, la quale (come poi si vidde) non la volevano se non ci partivamo di tutta la provincia: e questo fecero acciochè gli lasciassimo riposare per qualche giorno, e per fornirsi d'alcune cose delle quali avevano di bisogno, benchè non gli trovassimo mai schifi del combattere. Mentre la cosa si trattava per interprete, essendo li nostri vicini agli nemici, perciochè non v'era altro di spazio che un ponte alzato, un vecchio de' loro si cavò di seno alcune cose, che egli mangiò, per mostrar che non erano astretti da necessità alcuna, avendo noi fatto loro intendere che morirebbono di fame. E gli amici nostri avisavano gli Spagnuoli che quella pace era finta e che dovessero combattere con loro; nondimeno quel giorno non si combatté, perciochè i principali della città commisero all'interprete che mi parlasse.
Circa quattro giorni dopo la tornata dell'esecutor maggiore dalla provincia di Matalcingo, i signori di quella e di Marinalco e i signori della provincia di Guiscon, che è larghissima e s'era anco ribellata, vennero al nostro campo e mi pregarono umilmente ch'io perdonassi loro i passati errori, e mi promisero di volerci servire e di mandare ad effetto le loro promesse: e continuamente insin ora ci hanno servito.
Come i nemici vennero di notte ad assaltar il campo di Pietro d'Alvarado,
e, trovato esserli fatto resistenza, ritornorono nella città. Deliberazione del Cortese
di gettar a terra quanto prendessero della città.
Mentre l'esecutor maggiore era absente nella provincia di Matalcingo, gli nemici deliberarono d'uscir la notte e assaltar il campo di Pietro d'Alvarado, e all'alba l'assaltarono; ma essendo stati sentiti dalle sentinelle e dalle guardie, fu gridato all'arme, e coloro che si trovarono presenti andarono ad affrontargli. Li nemici, uditi i cavalli, si gettarono all'acqua, e tra questo mezzo i nostri s'appresentarono, e combatterono tre ore continue. Noi, stando ne' nostri alloggiamenti, sentimmo un tiro d'un picciol pezzo d'artegliaria che s'adoprava contra gli nemici, e perchè avevamo sospetto che gli rompessero, comandai che li soldati si mettessero in arme per entrar nella città, acciochè gli nemici non ardissero di combatter contra Pietro d'Alvarado. E trovando che era loro fatto resistenza gagliarda e valorosa, deliberarono tornarsene nella città, la quale noi altri quel giorno andammo a combattere.
In quel tempo noi che dalla prima rotta eravamo scampati feriti eravamo risanati, e a Villa Ricca era giunta una nave di Giovanni Ponci da Leone, il quale era stato rotto nella provincia dell'isola Florida, e gli abitatori della città mi fecero portar certa quantità di polvere con alcune balestre, delle quali avevamo grandissimo bisogno; e già per la grazia d'Iddio d'intorno intorno non era provincia alcuna che non ci facesse grandissimo favore. E vedendo io gli abitatori della città tanto ostinati, e con maggior dimostrazione e certezza di morire che mai si sia stata nazione alcuna, non sapevo io stesso come dovessi portarmi con esso loro e in che maniera potessimo scampar da tante fatiche e pericoli, e in che modo noi dovessimo fare per non mettere in estrema rovina e loro e la città, essendo la piú egregia e la piú bella che sia in tutto l'universo mondo. Né ci poteva giovare che noi li facevamo avisati che non ci eravamo per partir di quel luogo né dal campo, e che li brigantini non cessariano di fare ogni danno, e che avevamo rovinati gli abitatori di Matalcingo e di Marinalco, e che in tutte le provincie non avevano alcuno che desse loro aiuto, né avevano donde cavar maiz, carne, frutti e acqua e finalmente niuna cosa appartenente al vivere; ma quanto piú facevamo loro note cotal cose, tanto meno pareva che mancassero d'animo, anzi nel venir a combattere e in tutte l'altre cose gli trovavamo piú animosi che mai fussero stati. Onde io, vedendo la cosa andar di questa maniera e già esser passati piú di quarantacinque giorni che tenevamo assediata la detta città, deliberai e per nostra sicurezza e per poter meglio stancar gli nemici usare un rimedio, cioè che quanto pigliassimo della città tanto gettassimo a terra da ogni banda, di maniera che non andassimo pur un passo avanti che tutto non abbattessimo, e dove era acqua facessimo terra ferma, se bene in ciò fussimo astretti a consumar gran tempo. E perciò ordinai che si ragunassero i signori e i grandi degl'Indiani amici nostri e palesai loro la mia deliberazione, richiedendogli che per questo effetto chiamassero tutti li villani con li lor coi, che sono una sorte di pali che usano in queste parti, sí come in Spagna li zappatori adoperano le zappe. Essi risposero che lo fariano volentieri e che era buona deliberazione, e n'ebbero grandissimo piacere, essendo questo un modo da gettare a terra tutta la città, il che era da tutti grandemente desiderato.
Fra questo mezzo che si deliberava di queste cose passarono tre o quattro giorni, e li cittadini si pensarono che noi trattassimo qualche gran cosa contra di loro, e noi sospettammo che ancora essi, per quel che poi si vidde, apparecchiassino ogni cosa possibile a lor difesa. E posto ordine co' nostri amici che dovessimo andare a combatter la città per acqua e per terra, il giorno seguente doppo la messa cominciammo andare verso la città, e giunti che fummo al passo dell'acqua e all'argine che è nel principio delle case grandi poste nella piazza, e volendolo noi combattere, i cittadini accennarono che ci fermassimo, dicendo di voler venire alla pace; e io comandai a' nostri che lasciassero di combattere, e feci intendere che 'l signor della città dovesse venir là a parlarmi, acciò si potesse trattar la pace. E dicendo che alcuni erano andati a chiamarlo, mi tennero a bada piú d'un'ora, non avendo essi veramente desiderio alcuno di pace: e con veri effetti lo mostrarono, che, essendoci noi posati, incontinente cominciarono a tirar freccie, bastoni aguzzati e sassi contra di noi. Noi, veduto questo, cominciammo a combatter l'argine e, avendolo preso, entrammo in piazza: e la trovammo piena di gran sassi, che ve gli avevano messi acciochè gli uomini a cavallo non potessero scorrere, de' quali temono solamente in luogo fermo e aperto; e trovammo una contrada serrata con sassi soli, e di sassi l'altra medesimamente ripiena, a fin che li cavalli non potessero scorrer per tutto. E da quel giorno innanzi riempiemmo quella via dove scorreva l'acqua e per la quale s'andava in piazza, di maniera che dipoi gl'Indiani non la poterono mai piú votare, e poscia a poco a poco cominciammo a gettare a terra le case e a riparar dall'acqua que' luoghi che pigliavamo. Ed essendo i nostri centocinquantamila uomini combattenti, in quel giorno si distrussero molte case, e poi si ritirammo al campo; e i brigantini con le canoe de' nostri amici fecero gran danno alla città, e ancor loro si ritirarono per riposarsi.
Il dí seguente entrammo nella città col medesimo ordine, e, arrivato a quel circuito e portici colonnati dove sono le torri de' loro idoli, comandai a capitani che non dovessero far altro se non riempire li canali delle contrade, nelle quali scorreva l'acqua, e acconciassero alcuni cattivi passi che avevamo presi; e che gl'Indiani amici nostri, abbrucciate le case, le gettassero a terra, e gli altri andassero a combatter contra gli nemici ne' luoghi soliti, e li cavaleri tutti tenessero guardato che non ci assaltassero di dietro. Io dipoi montai sopra una delle piú alte torri degl'idoli, che, essendo molto ben conosciuto dagl'Indiani, sapea d'apportar loro gran dispiacere con la mia salita, facendo io da quella torre animo agli amici, ordinando che ci dessero soccorso quando la necessità lo richiedeva, perciochè, combattendosi di continuo, alle volte si ritiravano gli nemici e alle volte i nostri, i quali subito erano sollevati da quattro da cavallo, che facevano lor animo che andassero adosso agli nemici. A questo modo e con quest'ordine entrammo nella città cinque o sei giorni continui, e nella ritirata comandavamo sempre che li nostri amici andassero avanti, e alle volte, ponendo in aguato alcuni Spagnuoli in certe case, i cavalieri rimanevano e noi fingevamo di ritirarci per forza per indurgli ad entrar nella piazza, e cosí, col mettere in aguato li fanti, ogni dí al tardi ne ferivamo qualcuno. E un giorno tra gli altri erano in piazza 7 over 8 cavalieri aspettando l'uscita de nemici, e non gli vedendo uscire finsero di partirsi, e gli nemici, sospettando d'esser feriti nel ritorno da que' cavalieri, come solevano fare, se ne stavano ascosi dopo li muri e ne' cortili: ed era infinito il numero de' nemici che seguitavano questi otto o nove, e avevano presa la bocca d'una strada che non li lasciava offendere; onde i nostri furono astretti a ritornarsene e gli nemici, insuperbiti per averli forzati a ritirarsi, a guisa di cani rabbiosi andavano loro adosso. Coloro, che combattevano con riguardo, si ritiravano dove non potessero patir danno; i nostri ricevevano gran danno da coloro che stavano dietro i muri, sí che furono astretti di ritirarsi e ferirono due cavalli, il che fu cagione che io ordinai d'ingannarli con insidie, come racconto alla Maestà Vostra. E quel giorno ad ora assai tarda giugnemmo al campo, lasciando sicuri i luoghi presi per esser gettati a terra: e gli abitatori della città erano molto lieti, pensandosi che noi ci fussimo partiti di paura. E quella notte mandai messaggi all'esecutor maggiore, che avanti dí con quindeci cavalli tra' suoi e quelli di Pietro d'Alvarado venisse al nostro campo.
Astuzia che usò il Cortese, per la qual furono uccisi gran quantità di nemici; e come gli Spagnuoli trovarono in una sepoltura varie cose d'oro di gran valuta.
Il giorno seguente a buon'ora l'esecutor maggiore arrivò nel campo in compagnia di quindeci cavalieri, e io n'avevo venticinque di quelli che erano alla guardia di Cuioacan, ed erano in tutto quaranta cavalieri. E comandai a dieci di loro che subito la mattina si partissero con tutti gli altri fanti, ed essi insieme con gli altri entrassero a combattere, cercando di prendere e di gettare a terra ogni cosa che potessero, perciochè, mentre fusse venuto il tempo di ritirarsi, sarei andato là con gli altri trenta uomini da cavallo; e sapendo che la maggior parte della città fusse abbattuta, seguitassero gli nemici quanto piú potessero, finchè gli forzassero ridursi in luoghi sicuri e nelle contrade che hanno canali, dove suol correre l'acqua, e quivi dimorassero insino a tanto che venisse il tempo di ritirarsi; e io insieme con quei trenta a cavallo di nascoso mi metterei in aguato in certe case grandi, che sono vicine a quelle grandi che sono nella piazza. I Spagnuoli mandarono ad effetto quanto da me era stato imposto loro, e io un'ora dopo mezzogiorno con li trenta cavalieri entrai nella città, e giunto là li misi in quelle gran case, e partito da loro montai sopra una gran torre, come era mio costume. E mentre io dimoravo quivi, alcuni Spagnuoli aprirono una sepoltura, nella quale trovarono varie cose d'oro, di valore di mille e cinquecento castigliani. Dipoi ordinai che, quando fusse l'ora di ritirarsi, cominciassero a farlo con grandissimo ordine, e che la gente da cavallo, poichè si fusse ritirata alla piazza, fingessero di volerli assaltare e poscia mostrassero di non aver ardire, e questo facessero mentre fusse gran numero di nemici in piazza. Quelli che erano posti in aguato desideravano sopra modo che venisse il tempo, e desideravano di far riuscire la cosa bene, e già era loro di molta noia il lungo tardare. Io mi misi insieme con essi, e già gli Spagnuoli cosí a cavallo come a piedi si ritiravano alla piazza, e anco gl'Indiani amici nostri, che già avevano intesa l'astuzia; gli nemici seguitavano con tante grida che pareva che avessero ottenuta una grandissima vittoria. Quei nove cavalieri fingevano d'assaltargli per la piazza e poi si ritiravano, e, avendo già due volte fatto vista d'assaltargli, li nemici avevano preso tanto ardimento che venivano a ferir fin su la groppa de' cavalli; e finalmente gli condussero in quella contrada dove erano posti gli aguati. Quando vedemmo gli Spagnuoli andare avanti e sentimmo scaricare uno schioppo, che era il segno che avevamo ordinato tra noi, conoscemmo esser venuto il tempo d'uscire e, chiamato il nome di san Giacomo, di subito gli assaltammo e gli seguitammo fino in piazza, ferendogli e gettandogli per terra e serrandone molti, i quali poi erano presi da' nostri amici che venivano doppo noi, di modo che in tutti questi aguati che facemmo furono uccisi piú di cinquecento de' nemici. E gli amici nostri quella sera godettero d'una cena sontuosa fatta di carne de' corpi de' nemici, di quegli dico che erano li primarii piú gagliardi e piú valorosi, perciochè raccolsero i corpi morti e gli portarono in pezzi per mangiarli a cena.
Sí grande fu la maraviglia che presero, quando si viddero in un subito rotti, che non parlarono né gridarono in tutta quella notte, e cominciarono a non aver ardir di comparire nelle contrade, né anco nelle terrazze, se non quando vedevano manifestamente esser sicuri. E venendo la notte e partendoci, si vidde che gli abitatori della città mandarono certi loro schiavi a veder se ci partivamo: e quando cominciarono a comparire in una contrada, dieci o dodeci cavalieri gli assaltarono, e perseguitandogli fecero di modo che niuno scampò. Gli nemici per questa nostra vittoria entrarono in tanta paura che non ebbero mai ardir, durando questa guerra, di venire nella piazza quando ci partivamo, benchè in essa non vi fussero altri che un solo a cavallo, né ebbero ardimento di perseguitar piú alcuno Indiano o fante de' nostri, pensandosi che di nuovo gli avessimo poste insidie: e in vero che li fatti di quel giorno, e medesimamente la vittoria che Iddio ne concesse, furono potentissima cagione che prendemmo la città molto piú tosto, perciochè i cittadini furono soprapresi da grandissima paura, e agli amici nostri crebbe l'ardire.
E cosí ci ritornammo al campo, con ferma opinione di sollecitar di finir questa guerra e non tralasciar giorno alcuno di entrar nella città, fin tanto che se ne venisse a fine. E quel dí non avemmo danno alcuno nel nostro campo, salvo che, uscendo noi dell'agguato, avenne che, scorrendo due cavalieri, cadde uno di loro d'una cavalla, la quale se n'andò a diritto nella schiera de' nemici, che di molti colpi di freccie la ferirono: ed ella, sentendosi ferita, se ne ritornò a noi e morí quella notte. Benchè n'avessimo gran dispiacere, essendo li cavalli e le cavalle molto a proposito per nostra salvezza, nondimeno non tanto ci dolse quanto se fusse morta appresso li nemici, come pensammo che dovesse esser con effetto, perciochè, se cosí fusse avenuto, averiano avuto maggiore allegrezza che dolore della lor gente che avevamo uccisa. Quel giorno medesimo li brigantini con le canoe de' nostri amici fecero grandissima uccisione de' nemici, senza ricever danno alcuno.
Come il Cortese entrò all'alba nella città e fece gran danno a' nemici, molti di loro uccisi e molti fatti prigioni con grandissima preda; prese del tutto la strada che va a Tacuba, abbrucciate le gran case del signor Guautimucin e piú altre, e molte gettate a terra.
Sapendo noi che li cittadini già erano sbigottiti, da due di loro di mezana condizione, li quali di notte erano usciti della città e venuti nel nostro campo cacciati dalla fame, intendemmo che la notte essi uscivano a pescar tra le case della città, e venivano in quella parte che avevamo presa, cercando legne, erbaggi e radici da mangiare; e avendo ripieni molti canali delle contrade dove scorreva l'acqua, e acconci molti cattivi passi, deliberai di entrar nella città all'alba e di far loro ogni danno che fusse possibile. Onde li brigantini avanti giorno e io con dieci o quindeci a cavallo e alcuni fanti e Indiani amici nostri entrammo dentro, avendo prima posti alcuni alla vedetta, li quali, essendo noi messi in aguato, venuto il giorno ne fecero segno: e assalimmo un numero infinito di gente, ma la maggior parte era della piú miserabile della città, e per lo piú erano donne e fanciulli, e tanto danno facemmo loro in quei luoghi onde potevamo andar per la città, che tra li morti e li prigioni furono piú di ottocento. E similmente li brigantini presero di molti nemici, insieme con le canoe con le quali essi pescavano, e fecero grandissimo danno alla città, li principali e capi della quale, vedendoci passar di là ad ora non consueta, si maravigliarono grandemente, come prima s'erano maravigliati dell'insidie che già avevamo fatte loro, e niuno d'essi ebbe ardire d'affrontarsi a battaglia con esso noi. E cosí ritornammo al nostro campo, portando grandissima preda e vettovaglia per li nostri amici.
Il giorno seguente, la mattina a buon'ora ritornammo nella città, e gli amici nostri vedendo il buon ordine che tenevamo per metterla in estrema rovina, tanta era la moltitudine che sopragiugneva ogni giorno che non si poteva numerare. E quel giorno ponemmo fine di prender la contrada onde si va a Tacuba, e anco di riempire co' mattoni li cattivi passi che in quella si trovavano, di modo che li soldati del campo di Pietro d'Alvarado potevano venire ad unirsi con esso noi nella città. Medesimamente pigliammo nella strada per la quale si va in piazza due altri ponti, riempiendogli molto bene, e abbrucciando anco le case del signore, nominato Guautimucin, giovane di dieciotto anni, ch'era il secondo signor dopo la morte di Montezuma: nelle quai case, per esser grandissime e fortificate e circondate d'acqua, gli nemici avevano poste varie monizioni. Pigliammo anco due ponti d'altre strade che sono appresso quella che si va in piazza, acconciando di molti cattivi passi, di maniera che di quattro parti della città n'avevamo prese tre: e gli nemici niente altro facevano che ritirarsi a' luoghi piú sicuri, cioè alle case che erano poste in acqua.
Il giorno appresso, che fu la festa di san Giacomo, col predetto ordine entrammo nella città e, seguitando d'andare per quella contrada onde si va alla piazza, pigliammo una strada larga nella quale era acqua, dove gli nemici si pensavano esser molto sicuri: e veramente nel pigliarla dimorassimo assai e ci trovammo in molti pericoli, né avemmo possanza in tutto quel giorno di far tanto che, per esser ella molto larga, la potessimo riempiere del tutto, sí che li cavalli potessero passare all'altra strada. Ed essendo noi tutti a piedi e gli nemici vedendo che li cavalli non erano passati, molti di loro de' piú freschi e de' piú valenti ci vennero ad assaltare, ai quali di subito facemmo resistenza; e avendo con esso noi molti balestrieri, gli nemici se ne ritornarono agli argini e ripari che avevano fatti, benchè molti ne morissero feriti di saette; e in questa battaglia tutti gli Spagnuoli adoperorno le loro aste, che in Spagna chiamamo picche, le quali io avevo fatte fare dopo la nostra rotta: il che ne fu di grandissimo aiuto. Dall'altro lato in quel giorno non attendemmo ad altra cosa che ad abbrucciare e a gettare a terra le case di quella contrada, che era cosa miserabile da vedere; e non potendo far altro, eravamo forzati a seguitar quell'ordine. Quando li cittadini sentivano e vedevano tanto fracasso e rovina, per mostrare animo dicevano agl'Indiani amici nostri che attendessero pure ad abbrucciare e a gettare a terra le case, che poi essi a forza gliele fariano rifare: conciosiachè, se essi ottenevano vittoria, sapevamo molto bene dover esser cosí come dicevano, e quando no, che essi per nostro abitare sariano astretti medesimamente a rifarle. E piacque a Iddio che nell'ultimo lor detto la cosa fusse verificata, avegna che essi medesimi le rifacciano.
Come piú volte entrorono nella città combattendo sempre. Fazione di Pietro d'Alvarado, e come arrivò nella strada ch'avea preso il Cortese, qual era piena d'acqua col suo argine. La risposta che facevano i nemici essendo loro proposta alcuna condizione di pace.
L'altro giorno, la mattina a buon'ora, con l'ordine solito entrammo nella città, e, quando arrivammo alla strada che 'l giorno precedente avevamo ripiena, la trovammo nel modo che l'avevamo lasciata. E andati piú avanti per due tiri di balestra, pigliammo due gran fossi d'acqua, che essi avevano cavati nell'istessa strada soda, e arrivammo a una picciola torre consecrata a' loro idoli, dove ritrovammo alcune teste di cristiani che avevano uccisi, di che ricevemmo grandissimo dispiacere. E da quella torre era una strada diritta insino al campo di Pietro d'Alvarado, e dal lato destro vi era una strada per la quale s'andava alla piazza, dove era già l'acqua, salvo che in una strada che essi difendevano. Quel giorno non passammo piú avanti, ma combattemmo aspramente e per molto spazio co' nemici: e concedendone l'onnipotente Iddio aver ogni giorno vittoria, sempre essi restavano inferiori. Ed essendo già l'ora tarda, ce ne ritornammo al campo.
Il dí seguente, avendo posto ordine d'entrar nella città, a nona stando noi ancora nel campo vedemmo uscir fumo di due torri della piazza, overo del Tetebulco, ma non potevamo imaginarci quel che volesse significare; e vedendo quel fumo esser maggiore che quando fanno profumi a' loro idoli, sospettammo i soldati di Pietro d'Alvarado esser venuti là: e benchè per la verità fusse cosí, nondimeno non pensavamo che potesse essere. E certamente quel giorno Pietro d'Alvarado insieme co' suoi soldati si portò valorosamente, perciochè gli restava da pigliar molti ponti e argini, e a difendergli v'andava sempre la maggior parte della gente della città; nondimeno, vedendo che dal nostro campo noi stringevamo gli nemici, con tutti li modi possibili egli si sforzò d'entrar nella piazza, essendo quivi tutto lo sforzo loro. Ma con tutto ciò non poté passar piú avanti che alla vista di quella e pigliar quelle due torri, con molte altre che erano vicine al palazzo, il quale era tanto largo quanto il circuito di molte torri della città; e gli uomini da cavallo ebbero grandissima fatica e travaglio e furono costretti a ritirarsi, e ritirandosi furono feriti tre cavalli: e cosí Pietro d'Alvarado insieme co' suoi soldati se ne ritornò nel suo campo. Noi quel giorno non volemmo pigliare un ponte e una strada onde correva acqua, la qual sola ci restava da prendere per poter arrivare in piazza, ma solamente attendemmo a riempire e acconciare certi cattivi passi; nondimeno nella ritirata ci strinsero fortemente, benchè tornasse piú tosto in danno loro.
Il giorno vegnente, la mattina a buon'ora entrammo nella città, e, non ci avanzando altro da pigliare per giugnere in piazza se non una strada piena d'acqua col suo argine, che era accosto la torre della qual parlai di sopra, cominciammo a combatterla: e in questo un banderaio e tre o quattro Spagnuoli gettati all'acqua, gli nemici subito lasciarono il luogo, e noi incontanente cominciammo a riempierlo, di modo che li cavalli potessero passare. E mentre ciò si faceva, Pietro d'Alvarado arrivò nella medesima strada, accompagnato da quattro cavalieri: e veramente l'allegrezza che ebbero li soldati d'amendue li campi fu incredibile, perciochè quella era la via e 'l modo da metter presto fine alla guerra. Pietro d'Alvarado si lasciava la guardia di dietro e dalle bande, e per difesa della sua persona e dei luoghi acquistati. Subito che fu acconcio quel passo, io, accompagnato da alcuni a cavallo, andai per vedere il palazzo, e comandai a' soldati del nostro campo che a niun modo procedessero piú avanti. E avendo passeggiato alquanto per la piazza, riguardando li portici e le loggie piene di nemici, che, essendo la piazza sí larga che vi si potevano maneggiar li cavalli, non ebbero ardir d'avicinarsi, io montai sopra quella gran torre vicina al palazzo, e in quella trovammo le teste de' cristiani che ci avevano uccisi e offerti agl'idoli; dalla qual torre viddi quanta parte della città avevamo presa, e senza dubbio delle otto parti ne avevamo pigliate le sette. E conoscendo tanta gran moltitudine di gente de' nostri nemici esser ridotta in sí stretto spazio, massimamente che quelle case dove si trovavano erano molto strette, e ciascuna da per sé posta sopra l'acqua, e principalmente avevano grandissima carestia d'ogni cosa, perciochè per le strade vedevamo che avevano cavate le radice e le scorze degli arbori, deliberai non volergli combattere per qualche giorno, ma proponer loro qualche condizione d'accordo, acciochè non fusse astretta a morir tanta moltitudine di gente: e in vero m'arrecava dolore incredibile il danno che facevamo loro. Pur io di continuo procuravo che fussero esortati a venire a pace con esso noi, ma essi rispondevano che per niun modo volevano arrendersi, e che un solo che vi rimanesse aveva da morir combattendo; e di tutte quelle cose che essi possedevano, niente n'era per venire alle nostre mani, ma erano per abbrucciarle e gettarle in acqua, dove non potessero esser viste né apparissero mai. E io, per non render mal per male, dissimulavo e non lasciavo che fussero combattuti dai nostri.
D'una machina che fecero fabricar gli Spagnuoli. Come il Cortese, confortati piú volte i nemici alla pace, vedendo le lor risposte esser finte, combattete con la città, e furono uccisi piú di dodecimila de' nemici. Quel che dicessero i primarii della città al Cortese, qual mandorno a chiamar a parlamento. Dell'idolo detto Ochilubo.
Trovandoci noi aver poca polvere d'artiglieria, quindeci giorni avanti avevamo consigliato di fare una machina, o veramente edificio che vogliamo chiamarlo; e se ben non v'erano artefici che la sapessero ben fare, nondimeno alcuni legnaiuoli s'offersero di farla, ma picciola però, e avegna ch'io pensassi che non potessero far cosa buona, nondimeno diedi lor licenza di fabricarla. Fu finita in quei giorni che noi tenevamo gli nemici serrati in cosí stretto luogo, e la condussero per metterla in certo luogo fatto a guisa di teatro, che è nel mezzo della piazza, fabricato con calcina e con pietre quadrate, alto quanto saria la statura di due uomini e mezzo, e da un angolo all'altro vi può esser lo spazio di trenta passi. Questo luogo era stato ordinato da loro per mettervi, quando si facevano feste e giuochi publici, coloro che rappresentavano li giuochi, acciochè tutte quelle persone che erano nel palazzo e da basso e ne' portici potessero vedere quel che s'appresentava. Qui essendo stata condotta la predetta machina, consumarono tre o quattro giorni prima che l'allogassero, e gl'Indiani amici nostri minacciavano i cittadini, dicendo che con quella tutti avevano da esser uccisi: e benchè ciò non fusse d'alcuno giovamento, nondimeno assai era la paura che li nostri Indiani facevano agli nemici, pensandosi che s'arrendessero. Ma non seguí però né l'uno né l'altro, perciochè i legnaiuoli non finirono la machina, e li cittadini, avegna che temessero grandemente, non mostrarono però segno alcuno di darsi a patto. E noi dissimulammo il difetto della machina, dicendo che eravamo mossi a compassione, che a fatto non fussero tutti uccisi.
Il giorno seguente, poichè fu quivi posta la machina, ritornammo nella città, ed essendo già passati tre o quattro dí che non l'avevamo combattuta, trovammo le strade donde passavamo piene di donne e di fanciulli e d'altre miserabili persone che morivano di fame, e uscivano fuori deboli e mezzi morti, il che era la piú miserabil cosa da vedere che si potesse trovare in tutto l'universo mondo. Io comandai a' nostri amici che in modo alcuno non facessero loro danno, ma niuno però veniva fuori atto a combattere, il quale meritasse d'esser offeso: ben gli vedevamo nelle loggie con le loro vesti solamente e senza arme; e tutto quel giorno sollecitai che fussero confortati alla pace, ma le lor risposte erano finte, e cosí la maggior parte del giorno ne tennero in longhezza. Io feci loro intendere d'aver deliberato d'assaltargli, e che comandassero alla lor moltitudine che si ritirasse, altramente lascierei che gl'Indiani amici nostri gli uccidessero; ed essi risposero di voler la pace. Diedi risposta loro che io non vedevo il signore, col quale ragionevolmente doveva esser trattata, e quando egli fusse venuto, arei dato loro ogni salvocondotto che avessero dimandato per venire a parlar della pace. E vedendo che era una beffa, e gli nemici tutti apparecchiati, avendogli molte volte amorevolmente confortati alla pace, io, per ridurgli in piú strettezza e condurgli all'estremo, comandai a Pietro d'Alvarado che con tutte le sue genti entrasse dalla banda d'una gran contrada, la qual tenevano gli nemici, che aveva piú di mille case, e io dall'altra banda a piedi, non potendo a cavallo far profitto alcuno, entrai accompagnato da tutte le genti del nostro campo. E noi con gli amici nostri combattemmo sí gagliardamente che pigliammo tutta quella contrada, facendo sí grande uccisione de' nemici che tra uccisi e presi quel giorno furono piú di dodecimila; e gl'Indiani amici nostri usavano tanta crudeltà che non ne lasciavano vivo alcuno, ancora che noi gli reprendessimo grandemente.
L'altro giorno appresso, ritornando noi nella città, comandai ai nostri che non combattessero, né facessero danno alcuno alli nemici; i quali, vedendo tanto numero di gente muoversi contra di loro, e conoscendo i lor vassalli e che coloro a' quali solevano comandare minacciavano d'uccidergli, e vedendosi condotti all'estremo, e non avendo dove fermarsi se non sopra li corpi morti de' lor cittadini, desiderando pur alla fine di levarsi da sí acerba miseria, gridando ne domandavano per qual cagione ormai non gli uccidevamo: e mostrando d'aver desiderio di parlarmi, con gran prestezza mi fecero chiamare. E perchè tutti gli Spagnuoli sopra modo desideravano il compimento di questa guerra, e avevano gran dispiacere di tanto danno che facevamo loro, ebbero grandissimo piacere, pensando che volessero la pace; onde mi vennero a chiamare con grandissima allegrezza, facendomi grand'instanzia ch'io andassi ad un certo argine, nel quale erano alcuni de' primarii che volevano parlar meco. E benchè io vedessi la mia andata dover esser di poco profitto, nondimeno deliberai andare a vedere come stesse la cosa, conoscendo io che l'arrendersi consisteva tutto nel signor solo e in tre o quattro altri de' principali della città, perciochè tutti gli altri già desideravano d'esser posti fuori di quel luogo o vivi o morti. Giunto che fui all'argine, mi fecero intendere, essendo io figliuol del sole, sí come essi tenevano di certo, e il sole nel breve spazio d'un giorno e d'una notte girando attorno tutta la terra, per qual cagione io anco nel medesimo spazio non gli uccidevo per cavargli fuori di tante pene, desiderando essi ormai di morire e ascendere in cielo al loro Ochilubo, che là suso gli aspettava per donar loro riposo. Ochilubo è un idolo, che gl'Indiani l'hanno in grandissima riverenza. Io risposi loro con molte parole per indurgli ad arrendersi, nondimeno nulla giovava, vedendo essi in noi, per divino aiuto vincitori, quei segni di pace che essi vinti non mostrarono mai.
Come il Cortese mandò uno de' primarii che era prigione per parlar col signore e co' principali della pace, e il signor immediate lo fece uccidere e sacrificare, e la risposta fu che combatterebbono aspramente. Come, dicendo i nemici al Cortese che 'l signore verrà a parlargli, ei gli fece apparecchiare un letto da seder basso e da mangiare; e come vennero due altre volte, ma il signore non volse venire, e per che cagione, e ciò che li rispose il Cortese.
Avendo noi condotti gli nemici all'estremo, come dalle cose precedenti si può comprendere, io per rimuovergli dal lor cattivo proponimento, essendo l'animo loro di morire, parlai con uno de' lor primarii che io avevo prigione, e prima due o tre dí l'avea anco tenuto il zio di don Ferdinando, signor di Tessaico, mentre si combatté nella detta città; e benchè egli fusse ferito, lo dimandai se voleva ritornar dentro in Temistitan. Ei mi rispose di sí, onde il giorno seguente, essendo noi entrati nella città, lo mandai con alcuni de' nemici, che l'appresentarono a' cittadini: e già io gli avevo parlato diffusamente, che col signore e co' principali della città ragionasse del venire alla pace, ed egli in ciò promise di fare ogni cosa a lui possibile. Li cittadini lo ricevettero con grandissima riverenza, come uno de' primarii, ma, subito che lo condussero alla presenza di Guautimucin e che cominciò a parlar della pace, detto signor comandò che allora allora fusse ucciso e sacrificato. E la risposta che ne diedero fu che vennero con altissimi gridi a dire che volevano morire, e cominciarono ad aventar saette, bastoni aguzzati e sassi contra di noi e a combattere aspramente, sí che n'uccisero un cavallo con un dardo, che essi aveano fatto d'una spada la qual ci aveano tolta; ma alla fine costò lor caro, perciochè furono uccisi molti di loro. E cosí ne ritornammo nel nostro campo.
Il giorno vegnente ritornammo nella città, e gli nemici erano venuti a tale, che una infinita moltitudine d'Indiani amici nostri aveano ardimento d'alloggiar la notte nella città; ed essendo noi venuti in faccia de' nemici, non volemmo combattere con loro, ma solamente andammo per la città indugiando, perciochè aspettavamo che d'ora in ora e di momento in momento dovessero venire a noi pacificamente. E per indurgli all'accordo cavalcando me n'andai ad un certo argine molto forte, e quivi chiamai alcuni de' primarii de' quali io avevo conoscenza, che stavano ascosi dopo l'argine, e dissi loro, poichè già si poteano veder rotti, e che se io volevo in un'ora potevo fargli uccider tutti, sí che non ne sarebbe rimaso vivo alcuno, per qual cagione Guautimucin lor signore non veniva a parlarmi, che in vero io gli promettevo di non gli far danno alcuno, se egli insieme con essi voleano pacificamente portarsi meco, e sariano ricevuti e trattati da me amorevolmente. E molte altre cose parlai con loro, per le quali gli mossi a compassione, e piangendo mi risposero di conoscer molto bene il lor errore e rovina, e di voler anco andar a parlare al lor signore, e che tosto ritorneriano con la risposta, richiedendomi che non mi dovesse partir de lí. Essi, essendosi partiti, non molto indugiarono a ritornare, dicendomi che per esser l'ora tarda il lor signore non era venuto; nondimeno pensavano che senza dubbio il dí seguente sul mezzodí saria venuto a parlar meco nella piazza del palazzo. E cosí ne ritornammo agli alloggiamenti. Io ordinai che in quel luogo quadro che è nel mezzo della piazza fusse apparecchiato un letto da seder basso per il signore e per li primarii della città, come essi sogliono avere, e oltra di ciò apparecchiassero anco da mangiare: e cosí fu fatto.
Il giorno seguente, entrando nella città, comandai alle nostre genti che stessero apparecchiate, acciochè se li nemici ci ponessero insidie, che non ci trovassero disprovisti; e il medesimo fece intendere a Pietro d'Alvarado, che ivi medesimamente si ritrovava. Subito che arrivammo al palazzo, ordinai che fusse fatto a sapere a Guautimucin che io l'aspettavo in piazza; il quale, sí come poi si vidde manifestamente, deliberò di non venirvi, e mandò cinque de' principali della città, i nomi de' quali, non facendo molto a proposito, non gli racconto. Giunti che furono, mi dissero che 'l lor signore mi faceva a sapere e pregare che io gli perdonassi se non era venuto, che per paura egli non ardiva di comparirmi avanti, e oltra di ciò si sentiva mal disposto; e che in vece sua erano venuti essi, e che io comandassi quel che io volevo, che lo manderiano ad esecuzione. Noi, benchè il lor signore non fusse venuto, nondimeno avemmo grandissimo piacere della venuta delli sopradetti primarii, parendoci che fusse la via da metter tosto fine all'impresa. Io gli ricevetti benignamente, ordinando che fusse dato loro da mangiare e da bere, onde mostrarono la fame che essi pativano. Poichè ebbero mangiato, dissi loro che parlassero al signore, che non temesse punto, ch'io promettevo loro la mia fede che, se veniva alla mia presenza, non lo lascierei offendere, né in modo alcuno saria ritenuto; e che in vero bisognava che egli venisse, non si potendo senza la persona sua né trattare, né concluder cosa buona. Feci poi dar loro alcune cose da mangiare, che le portassero per ristorarsi; e mi promisero in questa facenda di fare ogni cosa a lor possibile, e con questo si partirono. De lí a due ore ritornarono portandomi alcune vesti di seta che essi usano, con dirmi come Guautimucin lor signore aveva fatto deliberazione di non venire a parlar meco, e ne faceva sua scusa. Io replicai che non sapevo la cagione perchè egli temesse di comparire alla mia presenza, poichè vedeva ch'io mi portavo sí bene con quegli ch'erano stati la cagione e il nutrimento della guerra, lasciandogli andare e tornare senza offesa alcuna. Dipoi gli pregai che tornassero a parlargli e facessero ogni opera che egli venisse, poichè la sua venuta gli era per esser di tanto profitto, e io facevo tutto questo a suo commodo. Essi mi risposero che cosí fariano, e il dí vegnente ritorneriano a me con la risposta; ed essendosi partiti, noi tornammo al nostro campo.
Come il Cortese, vedendo che 'l signor non veniva a parlarli, circondati i nemici li diede l'assalto, in modo che per terra e per acqua furono tra uccisi e fatti prigioni piú di cinquantamila uomini, e per il bere dell'acqua salsa e per la fame e puzzo ne morirono piú d'altri cinquantamila. E come Garzi Hulguin capitano fece prigioni Guautimucin, signore di Temistitan, e il signor di Tacuba.
Il giorno seguente, a buon'ora li primarii della città vennero ai nostri alloggiamenti, per farmi a sapere ch'io andassi alla piazza della città dove è il palazzo, che 'l signor voleva venire a parlamento meco. Io, pensandomi che in vero cosí fusse, montai a cavallo e andai, aspettandolo quivi per tre o quattro ore; nondimeno non volse mai venire né comparirmi dinanzi. Onde vedendo che era una beffa, ed essendo già l'ora tarda, né il signore né anco gli suoi nunzii ritornando, commisi che fussero chiamati gli Indiani amici nostri che erano rimasi nell'entrata della città, quasi una lega lontani da quel luogo dove noi eravamo; ai quali avevo comandato che non venissero piú avanti, perciochè li cittadini m'aveano richiesto che nel parlamento della pace non vi si dovesse trovar presente alcuno di loro. Essi ne vennero incontanente, come anco fecero le genti di Pietro d'Alvarado. Giunti che furono, cominciammo a combattere certi argini e alcune strade con canali pieni d'acqua che erano ancora in poter de' nemici, che erano la maggior fortezza che fusse rimasa loro, e insieme con gli Indiani amici nostri andammo tanto avanti quanto ci parve. Ma quando io usci' degli alloggiamenti, ordinai a Consalvo di Sandoval che entrasse dall'altra parte delle case, dove s'erano fortificati gli nemici, di modo che gli tenessimo circondati, ma però non venisse a battaglia se prima non sapeva che noi ci fussimo affrontati con loro. Sí che, essendo cosí circondati e ristretti, non avevano via alcuna da passare, se non sopra li corpi morti e per le loggie e per li portici che ancora restavano in man di loro, e perciò non trovavano né saette, né bastoni, né sassi coi quali ci potessero offendere; e con esso noi venivano gli Indiani amici nostri armati a spade e rotelle. E quel giorno fu fatta sí grande uccisione, per acqua e per terra, che tra uccisi e presi furono piú di cinquantamila uomini; e le grida e li pianti de' fanciulli e delle donne erano tali e tanti, che niuno era che non si movesse a pietà. E noi altri in ritener gli amici nostri, che non gli uccidessero e non usassero tanta crudeltà, avevamo piú da fare che nel combatter contra gli nemici: e giudico che non si trovi, né mai si sia trovata in nazione alcuna maggior crudeltà che negli abitatori di queste provincie, aliene da ogni naturale umanità e ordine.
Gl'Indiani amici nostri quel giorno fecero grandissima preda, i quali in nessun modo potevamo ritenere, essendo noi Spagnuoli forse novecento ed essi piú di centocinquantamila: ed era impossibile aver tanta cura e diligenza da potergli impedire né ritirar dalla rapina, ancora che noi facessimo ogni cosa possibile. E una delle ragioni perch'io ricusavo di venire a battaglia con gli abitatori della città, era perciochè, se gli prendevamo per forza, essi avevano gettate in acqua tutte le lor robbe; e se non ve le gettavano, gl'Indiani amici nostri averiano messo a sacco ciò che avessero trovato, overo la maggior parte, onde consideravo che poco toccarebbe alla Maestà Vostra di tante ricchezze che erano in questa città, appresso quelle che io avevo da prima per la Maestà Vostra. Ed essendo già l'ora tarda, né potendo piú sopportare il puzzo de' corpi morti che in quelle strade erano giaciuti per terra molti giorni, che era la piú pestilente e brutta cosa che si potesse vedere, ce ne ritornammo nel nostro campo. La sera posi ordine che 'l giorno seguente dovessimo entrar nella città, e che s'apparecchiassero tre pezzi d'artiglieria grossa che avevamo per condurgli là, perciochè mi pensavo che, essendo gli nemici tanto stretti che non potevano volgersi, e volendo noi entrar senza combattere, essi averiano potuto annegar gli Spagnuoli, onde io volevo da lontano battergli con l'artiglieria per levargli dalla difesa contra di noi. Parimente ordinai all'esecutor maggiore che 'l giorno seguente fusse apparecchiato ad entrar co' brigantini per un certo lago molto grande che era fra le case, dove erano ragunate tutte le canoe de' nemici: e tenevano sí picciol numero di case dove potessero stare, che 'l signor della città con alcuni primarii se ne stava nelle canoe, non sapendo che si fare. E noi quel giorno facemmo parlamento e ferma deliberazione che dovessimo entrare nella città.
La seguente mattina per tempo comandai che tutti stessero apparecchiati, e fussero condotti que' due pezzi grossi d'arteglieria, avendo prima il giorno innanzi mandato a dire a Pietro d'Alvarado che mi aspettasse in piazza, e non combattesse co' nemici finchè io non arrivasse là. Essendo noi già ridotti insieme, e stando li brigantini apparecchiati dopo le case nelle quali erano gli nemici, comandai che, sentendo scaricare uno schioppo, entrassero da una certa parte che mancava da prendere, e quivi facessero di modo che gli nemici fussero forzati a gettarsi in acqua verso questa parte dove avevano da stare apparecchiati li brigantini, imponendo loro che mettessero ogni cura e fatica di pigliar vivo Guautimucin, perciochè, subito che egli fusse preso, la guerra sarebbe finita. Io montai sopra una loggia e, prima che entrassero a combattere, parlai con alcuni primarii della città conosciuti da me, dimandando loro per qual cagione il lor signore non volesse venire alla mia presenza, aggiungendo che, poichè si vedevano giunti all'estremo, non dessero essi medesimi occasione di morir tutti, ma che lo dovessero chiamar fuori senza temer di cosa alcuna. Parve che due de' primarii andassero a chiamarlo, e poco dopo ritornò con essi uno de' principali tra loro, nominato Ciuacoacin, che era duce e governatore di tutti loro, per consiglio del quale erano indrizzate tutte le cose della guerra. Io me gli mostrai grato e benigno, acciochè, lasciando la paura da parte, prendesse speranza e sicurtà. Egli m'annunciò che 'l signore a niun modo voleva comparir dinanzi a me, anzi piú tosto voleva morire che condursi a far questo, ed esso n'aveva gran dispiacere, sí che facessi io quel che mi pareva. Avendo compreso l'animo suo, dissi che se ne ritornasse a' suoi, ed egli con loro insieme s'apparecchiasse, ch'io volevo entrar a combattere con loro e ucciderli tutti.
E avendo noi consumato piú di cinque ore in simili ragionamenti, li cittadini tutti stavano sopra li corpi morti, e alcuni in acqua: alcuni notavano e alcuni si sommergevano nel lago dove si ragunavano le canoe, che era molto largo. E sí grandi erano le lor miserie, che niuno saria bastante a poter pensare come le potessero sopportare; e grandissima moltitudine di donne e di fanciulli correvano a noi, e affrettandosi ciascuno d'esser il primo, e venivano a gettarsi l'un l'altro in acqua e anco affogarsi tra li corpi morti. E parmi che per l'acqua salsa che bevevano e per la fame e per il puzzo fussero assaliti da sí grave pestilenza, che ne morirono piú di cinquantamila uomini; li corpi morti de' quali, acciochè noi non conoscessimo la lor carestia e necessità, gli gettavano in acqua di modo che li brigantini non li potessero trovare, e non gli gettavano fuori, acciochè noi altri nella città non gli vedessimo: onde in quelle strade nelle quali essi dimoravano trovammo i monti di corpi morti, di modo che niuno poteva mettere il piede altrove se non sopra d'essi. Or io avevo dato ordine che in tutte le strade stessero gli Spagnuoli, acciochè gl'Indiani amici nostri non uccidessero que' miseri cittadini che venivano a darsi nelle nostre mani, i quali erano quasi senza numero; medesimamente feci avisati i capitani de' nostri amici che a niun modo comportassero che fussero uccisi coloro che ricorrevano a noi; ma non si poté fare tanto, né tanto resistere, che in quel giorno non fussero uccisi e sacrificati piú di quindecimila uomini. E fra questo mezzo tutti li primarii della città, e gli altri tutti atti a combattere, erano ristretti in certe loggie e case e acque, dove non giovava loro fingere sí che non vedessimo apertamente la lor debolezza e consumamento. Ma essendo già l'ora tarda e non volendo essi arrendersi, comandai che fussero drizzati que' pezzi d'artegliaria contra di loro, per tentar se si volevano arrendere, perciochè averiano patito maggior danno dall'aver noi comportato che gli Indiani amici nostri gli avessero assaliti, che dall'arteglierie, le quali fecero loro pur danno in qualche parte. E questo giovando poco, comandai che fusse scaricato un schioppo; al qual segno li nostri subito occuparono quel canto che mancava lor di prendere, e, gettati in acqua coloro che vi erano, gli altri che rimasero s'arrenderono senza combattere; e li brigantini, entrati insieme in quel lago, assaltarono le canoe, e gli uomini che in quelle si trovavano non ebbero ardire di affrontarsi a battaglia.
E piacque all'onnipotente Dio che un certo capitano dei nostri, nominato Garci Holguin, si mise a seguitare una canoa, nella quale gli pareva che fussero portati uomini di qualche riputazione; e avendo egli a proda due o tre balestrieri, si apparecchiavano di saettare coloro che erano nelle canoe, i quali accennarono che in quella canoa vi era il signore della città, e perciò non volessero altrimenti contra di loro tirare saette. Allora essi di subito corsero a pigliare il detto signore, che era Guautimucin, e anco il signore della città di Tacuba e molti altri che erano nella detta canoa; e incontanente il predetto capitano Garci Holguin condusse prigione quel signore, insieme con gli altri primarii, a quella loggia dove io stavo, che era appresso il lago del signore della città. Il quale, poichè fu a sedere, non gli avendo io usato asprezza alcuna, fattomisi vicino mi disse in suo linguaggio che aveva fatto ciò che era tenuto a fare per difendere se stesso e i suoi, di modo che era condotto in simile stato, e che per l'avenire io disponessi di lui a mio piacere; e ponendo mano ad un certo mio pugnale, mi pregò che ficcandoglielo nel petto l'uccidesse, ma io gli commandai che dovesse star di buon animo. Preso che egli fu, cessò tutta la guerra, alla quale piacque al sommo Iddio d'imponer fine un martedí, la festa di sant'Ippolito, a' tredici d'agosto 1521: sí che dal dí che fu posto l'assedio alla città e che fu presa, il che fu alli 30 di maggio del detto anno, insino alla espugnazione, v'andarono settantacinque giorni. Onde la Maestà Vostra comprenderà le fatiche, li pericoli e le disgrazie che hanno avuto gli suoi vassalli; e quanto in ciò abbiano adoperato le loro persone, si può molto ben dai fatti istessi comprendere.
La somma dell'oro che fu raccolto in Temistitan. Come il signor della provincia Michuacan mandò ambasciatori al Cortese ad offerirsi, e, pigliata da quegli informazione se per quella provincia si può andar al mar d'Ostro, mandò con loro due Spagnuoli, che li conducessero lí.
Di quelli settantacinque giorni che durò l'assedio, niuno ve ne fu che passasse senza battaglia, o grande o picciola. E quel giorno che fu preso Guautimucin ed espugnata la città di Temistitan, poichè furono raccolte le spoglie e la preda che potemmo avere, ritornammo nel campo, rendendo grazia a Iddio della misericordia che ci avea usata e della vittoria tanto desiderata, che benignamente n'avea conceduto che ottenessimo. Stemmo quivi nel campo tre o quattro giorni, mettendo ordine a molte cose che bisognavano; dipoi venimmo alla città di Cuioacan, dove fin ora ho dimorato, attendendo a dare ordine e governo e a pacificar queste provincie. Raccolto l'oro e l'altre cose, per consiglio degli ufficiali di Vostra Maestà procurai di farlo fondere, ed essendo fuso arrivò alla somma di centoventimila castigliani, della quale ne fu consegnata la quinta parte al suo tesoriero, senza la quinta parte che toccava alla Maestà Vostra sí degli schiavi come dell'altre cose, sí come piú diffusamente apparirà nella relazione di tutte le cose che apparteranno alla Maestà Vostra, che sarà sottoscritta co' nostri nomi. L'oro che avanzò fu partito tra me e gli Spagnuoli, secondo che 'l costume, il servizio e la qualità di ciascuno richiedeva, e oltra il predetto oro furono trovati alcuni fregi d'oro, e de' migliori ne fu data la quinta parte al tesoriero di Vostra Maestà. Tra la preda che noi facemmo, avemmo certe rotelle d'oro e penne e altri lavori fatti di penne, tanto maravigliosi che non si potria con i scritti dimostrare, né si può comprender la loro eccellenza se non da chi gli vede; onde, essendo tali, non mi parve che si dovessero partire, ma donarli alla Maestà Vostra. Per la qual cosa comandai che si ragunassero tutti li soldati, e li pregai ad essere contenti che fussero mandati alla Maestà Vostra, e alla Vostra Maestà donassimo quella parte che a loro e a me perveniva: ed essi lietamente lo concedettero, e cosí mandammo alla Maestà Vostra il detto dono per li procuratori che manda il consiglio di questa Nuova Spagna.
Tenendo la città di Temistitan il prencipato in queste provincie, ed essendo ella di grandissima e illustrissima fama, parve che ad un certo potente signore d'una grandissima provincia, che è lontana settanta leghe da Temistitan, nominata Mechuacan, venisse a notizia come noi l'avevamo distrutta e gettata a terra. E rivolgendosi per l'animo la grandezza del dominio e la fortezza della detta città, gli parve che, poichè essa non aveva potuto farci resistenza, niente ci potesse resistere; onde mosso da paura mi mandò alcuni ambasciatori, e in nome suo per interpreti mi fecero intendere che 'l loro signore aveva saputo che noi eravamo vassalli d'un gran signore, e che, se io mi contentavo, esso co' suoi desideravano d'esser vassalli della Maestà Vostra e di tener con noi strettissima amistà. Io risposi loro esser vero che noi eravamo vassalli d'un gran signore, che è la Maestà Vostra, e a tutti quegli che ricusassero d'essere avevamo deliberato di far guerra, e che 'l lor signore ed essi avevano fatto bene a venire a darsi per vassalli della Maestà Vostra. Ed essendomi da un tempo in qua venuta notizia del mar d'India verso ostro, pigliai informazione da loro se vi poteva andar per la lor provincia. Essi mi risposero di sí, e io gli pregai, per poter mandare informazione a Vostra Maestà circa il detto mare, che conducessero li due Spagnuoli per la lor provincia i quali assegnerei loro. Mi risposero di volerlo far volentieri, ma per poter giugnere al mare erano astretti passar per una provincia d'un certo gran signore, col quale essi facevano guerra, e perciò allora non potevano giugnere insino al mare. Li sopradetti ambasciatori dimorarono appresso di me tre o quattro giorni, e ordinai che in lor presenza le genti da cavallo facessero alcune scaramuccie, acciò poi le raccontassero nel lor paese; e avendo donato loro alcuni fregi, gli spedi' insieme con gli Spagnuoli, che andassero alla detta provincia di Mechuacan.
Come il Cortese mandò quattro Spagnuoli, due in una parte e gli altri in un'altra, con alcuni Indiani in compagnia, per scoprir il mar d'Ostro; i quali ritornarono con la risposta di quanto aveano scoperto e particolare informazione di tutte le cose, con le mostre dell'oro che trovarono nelle minere di quelle provincie, condotti con loro alcuni abitatori di quelle marine presa la possessione di quel mare in nome della sacra Maestà e postovi alcune croci per segno nel lito.
Sí come ho detto nel precedente capitolo, non molto prima avevo avuto qualche notizia d'un altro mare australe d'India, e intendeva che in due o tre luoghi era distante da dodeci, tredici o quattordeci giornate da questo luogo. E io ero molto desideroso d'averne chiara notizia, sapendo che di ciò n'era per risultar grandissimo servigio alla Maestà Vostra, massimamente che tutti coloro che hanno scienza o vero esperienza delle navigazioni dell'Indie credono fermamente che, se per aventura si scoprisse in queste parti il mare australe dell'Indie, si scoprirebbono molte isole ricche d'oro e di gemme e d'ornamenti e di spezierie, insieme con molte cose secrete e di meraviglia, e il medesimo affermano tutti li dotti ed esperti nella cosmografia. Per questo desiderio adunche, e acciochè la Maestà Vostra avesse da me questo servizio singulare e degno di memoria, mandai quattro Spagnuoli, due in una parte e gli altri in un'altra, con la conformazione del viaggio che dovessero tenere; e avendo dati loro alcuni Indiani amici nostri che li guidassero, andando in lor compagnia, si partirono, e comandai che non si fermassero fin che non giugnessero a quel mare, e scoprendolo ne pigliassero la reale e personal possessione per nome della Maestà Vostra. E alcuni d'essi camminarono per spazio di centotrenta leghe per molte buone provincie senza impedimento, e, andatisene al mare, ne presero la possessione, ponendo per segno di ciò alcune croci nel lito; e de lí ad alquanti giorni se ne ritornarono con la risposta del detto discoprimento, dandomi particolarmente informazione di tutte le cose e conducendomi alcuni abitatori delle dette marine. Similmente mi portarono mostre dell'oro di molte minere, che trovarono in quelle provincie per le quali passarono, che con altre mostre al presente mando alla Maestà Vostra. Gli altri due indugiarono alquanto piú, perciochè fecero un viaggio di centocinquanta leghe da un altro lato, finchè giunsero al detto mare, del quale essi presero la possessione nel medesimo modo, arrecando pienissima informazione di quelle marine e menandosene alcuni abitatori di quelle. I quali insieme con gli altri io ricevetti lietamente, e, data loro informazione della gran potenza della Maestà Vostra, se ne ritornarono nella lor patria.
Come il Cortese mandò l'esecutor maggiore alle provincie Tatectelco, Tuxtebeque, Guatuxto e Aulicaba, le quali s'erano ribellate, e al luogotenente di Tepeaca mandò soccorso per la guerra di Guaxacaque. Come ordinò che nella provincia Tuxtebeque fusse fabricata una città, qual si chiamasse Modelin. Quei della provincia Guxuca s'arrenderono.
Nell'altra relazione significai alla Maestà Vostra come, nel tempo che gli Indiani mi ruppero, e la prima volta che mi cacciarono di Temistitan, si ribellarono alla Maestà Vostra tutte le provincie suddite alla detta città, e ci aveano mosso guerra. Ella per via di questa relazione potrà comandar che si vegga come noi avemo astretti al suo real servizio la maggior parte delle provincie che s'erano ribellate. E perchè alcune provincie vicine al mar d'India verso ostro per dieci, quindeci o trenta leghe dopo la rebellione di Temistitan s'erano ribellate, e gli abitatori a tradimento avevano uccisi piú di cento Spagnuoli, e non avendo io forze da poter mandare genti contra di loro, ispediti quelli Spagnuoli che erano ritornati da scoprire il mar verso ostro, deliberai di mandar Consalvo da Sandoval executor maggiore con trenta a cavallo e dugento fanti a piè e gli Indiani amici nostri, con alcuni primarii della città di Temistitan, alle provincie di Tatactetelco, Tuxtebeque, Guatuxto e Aulicaba. E datogli l'ordine che dovesse tenere in questa espedizione, cominciò a inviarsi per mandarlo ad effetto.
In quel tempo il luogotenente ch'io avevo lasciato nella città della Securezza de' Confini, che è nella provincia di Tepeaca, venne alla città di Cuioacan per farmi sapere come gli abitatori della detta provincia e delle altre a lei vicina, vassalli di Vostra Maestà, pativano gran danno dagli abitatori d'una certa provincia nominata Guaxacaque, i quali facevano lor guerra per esser nostri amici; e che, oltra il dar rimedio a questo male, era ottima cosa render sicura la provincia di Guaxacaque, perciochè per quella si passava al mar d'India verso ostro; e che, se la mantenessimo pacifica, saria cosa molto giovevole, sí per la già detta cagione come per molte altre, le quali poi dirò alla Maestà Vostra. Il detto luogotenente mi disse che egli avea ottima informazione particolarmente di tutta quella provincia, e che con pochi soldati la potremo soggiogare, perciochè, mentre io ero all'assedio di Temistitan, egli vi era andato, avendogli fatto instanza gli abitatori di Tepeaca a far quella guerra: e non avendo egli condotto piú di venti o trenta Spagnuoli, lo costrinsero a ritornare, benchè non a quel termine che egli averia desiderato. Io, intesa che ebbi la sua relazione, gli assegnai dodeci uomini a cavallo e ottanta fanti spagnuoli, e il detto esecutor maggiore insieme col luogotenente si partirono co' lor soldati da questa città di Cuioacan alli 30 d'ottobre del 1521; ed essendo giunti alla provincia di Tepeaca, fecero la rassegna de' lor soldati, e ciascuno se n'andò alla sua impresa.
L'esecutor maggiore indi a venti giorni mi scrisse che era giunto alla provincia di Guatusco, e avenga che temesse di ricever qualche disturbo da' nemici, essendo gente molto destra al combattere e avendo grandissime forze, nondimeno piacque all'onnipotente Iddio che lo ricevessero pacificamente; e ancora che non fusse passato all'altre provincie, istimava certamente che gli abitatori di quelle dovessero arrendersi alla M.V. Dopo quindeci giorni ebbi sue lettere, per le quali mi avisava che era passato piú avanti e che tutte quelle provincie già erano quiete; e parevagli che, volendo cavar di quella gran frutto, vi si dovesse fabricare una terra, come molto prima avevamo consigliato, e che io guardassi quel che volevo che egli in questo caso dovesse fare. Risposi ringraziandolo della fatica presa da lui in quella espedizione per commodo della Maestà Vostra, e gli feci intendere che la sua opinione era ottima in fabricarvi una terra e condurvi abitatori; onde gli ordinai che facesse fabricare una città per abitazione di Spagnuoli nella provincia di Taxtebeque e le ponesse nome Medelin, e gli mandai la elezione de' giudici e reggenti e d'altri officiali, a' quali tutti comandai che attendessero molto bene a tutte le cose che fussero a commodo e a servizio di Vostra Maestà, e che li paesani fossero ben trattati.
Il luogotenente della città della Sicurezza de' Confini se n'andò co' suoi soldati alla provincia di Guaxaca, con gran numero d'uomini circonvicini amici nostri, e benchè gli abitatori della detta provincia avessero cominciato a far lor resistenza, e tre o quattro volte valorosamente venissero a combattere, alla fine si arresero pacificamente, senza lor danno alcuno. E mi scrisse d'ogni cosa particolarmente, avisandomi che la provincia era ottima e piena di minere, delle quali mi mandò finissime mostre, che insieme con l'altre cose indirizzo alla Maestà Vostra. Egli se ne rimase in quella provincia, aspettando quel che io gli volessi comandare.
Come nella città di Temistitan si fabricavano le case già destrutte, compartiti i fondi del terreno a coloro che deliberarono d'abitarvi. Il signor della provincia Tatutebeque manda suoi baroni con presenti ad offerirsi. Come con gli Spagnuoli mandati a Mechuacan vennero altri baroni di quel signor, chiamato Calcucin, con circa mille uomini; e il presente che portarono, e come, maravigliatosi delle cose che gli fece vedere il Cortese, lietamente se ne ritornarono alla patria, col presente dato loro da portar al signore.
Io avevo posto ordine di soggiogar queste due provincie, vedendo il felice successo, e avendo anco già fatte fare tre colonie di Spagnuoli, la maggior parte de' quali era appresso di me nella città di Cuioacan. Ed essendoci consigliati in qual luogo dovessimo porre un'altra colonia che fusse vicina al lago, avendone grandissimo bisogno per sicurezza e quiete di tutte queste provincie, ci parve che si dovesse porre nella città di Temistitan, essendo tutta già abbattuta a terra: la quale, come abbiamo detto, era tanto famosa e insin ora da noi tanto stimata. Per la qual cosa io compartii li fondi del terreno a coloro che deliberavano di abitarvi, e furono eletti gli giudici e reggenti per nome di Vostra Maestà, come si suol fare ne' suoi regni. Insino che si fabrichino le case, avemo deliberato dimorare in questa città di Cuioacan, dove al presente siamo da quattro o cinque mesi in qua, che si rifà la città di Temistitan. E in vero è una bellissima città, e creda la Maestà Vostra che ogni giorno diventa piú nobile e piú grande, di modo che, sí come ne' tempi passati è stata la principale e la signoria di tutte queste provincie, cosí speriamo ancora che abbia da esser per l'avenire. E si fa e farassi di maniera che gli Spagnuoli stiano fortificati e sicuri, e molto piú possenti de' cittadini, e di tal sorte che non possano esser offesi da loro.
Tra questo mezzo il signor della provincia Tatutepeque, che è vicina al mar d'India verso ostro, per la qual passarono quei due Spagnuoli che andarono a scoprire il detto mare, mi mandò certi suoi baroni e per loro mezzo si offerse per vassallo alla Maestà Vostra, mandando alcuni doni, cioè fregi e pezzi d'oro e altri lavori fatti di penne, le qual cose tutte furono consegnate al tesoriero di Vostra Maestà. E io, ringraziando li predetti ambasciatori di tutto ciò che mi aveano esposto per nome del signore, diedi loro alcune cose da portargli: e se n'andarono molto allegri.
In questo medesimo tempo arrivarono quei due Spagnuoli che erano andati alla provincia di Mechuacan, per la quale, secondo che mi raccontavano gli ambasciatori che mi avea mandato quel signore, si poteva andare al mar d'India verso ostro, ma bisognava passar per la provincia d'un certo loro nemico. Venne insieme con gli Spagnuoli il fratello del detto signore di Mechuachan con altri baroni e famigliari, che erano da mille uomini, li quali ricevetti benignamente; e per nome di Calcucin, signore della detta provincia, donarono alla Maestà Vostra un presente di rotelle d'argento che pesavano molte libre e anco altre cose, le quali tutte furono consegnate al tesoriero di Vostra Maestà. E acciochè vedessero li nostri modi e gli potessero raccontare al lor signore, ordinai che, ragunatisi tutti gli uomini a cavallo in una certa piazza, corressero in presenza loro, facendo alcune scaramuccie, e li fanti a piè con la loro ordinanza facessero il medesimo, e alcuni di loro scaricassero gli schioppi. Feci medesimamente battere una certa torre con l'artigliarie, di modo che si maravigliavano grandemente delle cose che furono fatte intorno la detta torre, sí come anco quando viddero correr li cavalli. Oltra di ciò ordinai che fussero menati a veder la distruzione della città di Temistitan, la qual veduta, e compresa la sua potenza e fortezza, vedendola posta in acqua, ebbero molto maggior maraviglia. Dopo quattro o cinque giorni, avendo date loro molte cose da portare al signore, e anco a loro medesimi doni di cose che essi ne fanno grandissimo conto, se ne ritornarono lietamente nella patria.
Come il Cortese ebbe lettere della venuta di Cristoforo Tapia venuto in quelle parti per pigliar il governo di esse, e la risposta fattali, mandato a lui fra Pietro Malgerzio per ordinar insieme quanto era ispediente al servizio della sacra Maestà. L'ordine che que' di Messico e Temistitan avean posto per ribellarsi.
Io scrissi già nell'altra relazione alla Maestà Vostra del fiume Panuco, che è nella marina di sotto la città della Vera Croce per spazio di 50 o 60 leghe; al quale già due o tre volte erano arrivate le navi di Francesco di Garai, e aveano anco ricevuto gran danno da quegli che abitano appresso quel fiume, per la mala e sinistra maniera che tennero i capitani che egli avea mandati là in contrattar co' detti Indiani. Io, vedendo che in tutto il mar d'India verso tramontana è grandissima carestia di porti, e niuno è simile al porto di quel fiume, e anco essendo già prima venuti a me gli abitatori di quello e offertisi per vassalli di Vostra Maestà, e avendo fatto e facendo ora guerra a' vassalli di lei e amici nostri, ho deliberato di mandar là un capitano con alcuni soldati per tener in pace tutte quelle provincie, e, se vi fusse luogo buono, fabricar quivi nella ripa del fiume una terra, perciochè cosí terrei quieti e sicuri tutti i convicini. Ma, essendo noi pochi e divisi in tre o quattro parti, vi era qualche contradizione, che io non dovessi cavar piú soldati di questo luogo. Parte per aiutar gli amici nostri, e parte perchè dopo la espugnazione di Temistitan erano giunte certe navi, che avevano condotti alcuni cavalieri, ordinai che si mettessero in ordine venticinque a cavallo e centocinquanta fanti, e con loro un capitano, che andassero al detto fiume.
Quando spedivo il sopranominato capitano, vennero lettere dalla città della Vera Croce, che narravano esser giunta una nave al porto della detta città, nella quale era venuto Cristoforo da Tapia, riveditor delle fabriche dell'isola Spagnuola. Dal quale ebbi lettere il giorno seguente, dove m'avisava della sua venuta in queste parti non essere stata per altra cagione che per pigliar il governo d'esse per nome della Maestà Vostra; e di questo egli aveva le sue reali commissioni, la copia delle quali non voleva dare in luogo alcuno, finchè non parlavamo insieme: il che egli averia voluto far subito, ma, per aver li cavalli battuti dal mare, non si era posto in viaggio; ben mi pregava ch'io mettessi ordine come ci potessimo trovar insieme, o venendo egli qua, o andando io là alla marina. Ricevute le lettere, incontinente gli diedi risposta, dicendogli ch'io grandemente mi rallegravo della sua venuta, e che niuno poteva venire di commissione di Vostra Maestà al governo di queste provincie del quale io n'avessi maggior allegrezza, parte per la conoscenza che era stata tra noi, parte per la pratica e vicinanza che avevamo avuta insieme nell'isola Spagnuola. E perchè lo stato pacifico di queste provincie non era ancora fermo come si conveniva, e perchè anco per ogni picciola novità daremmo occasione agli abitatori di esse di cercar di ribellarsi, ed essendo fra Pietro Malgerzio da Urea, commissario della crociata, stato presente a tutte le nostre fatiche e conoscendo egli ottimamente in che termine qui stessero le cose, ed essendo stata la sua venuta di molto utile alla Maestà Vostra e la sua dottrina e consiglio molto giovevole a noi altri, lo pregai con grande instanzia che volesse pigliar fatica d'andar a parlare al detto Tapia, e vedesse le commissioni di Vostra Maestà; e poichè egli meglio di alcun altro conosceva quel che apparteneva al suo real servizio e al bene di tutte queste provincie, egli insieme col detto Tapia ordinassero quelle cose che fussero convenevoli, sapendo che io non mi torrei da quelle in niun modo. E di questo lo pregai in presenza del tesoriero di Vostra Maestà, il quale gli commise il medesimo. E cosí si partí per andare alla città della Vera Croce, dove dimorava il detto Tapia; e acciochè nella detta città, e dovunque si trovasse il detto Tapia, gli fusse provisto d'ogni cosa e ricevuto commodamente, spedi' il detto padre con due o tre miei soldati. Ed essendo essi partiti, aspettavo la lor risposta, e tra questo mezzo mi apparecchiavo alla partita, accommodando alcune cose che appartenevano al servizio della Maestà Vostra e alla pace e quiete di tutte queste provincie.
De lí a dieci o dodeci giorni i giudici e reggenti della città della Vera Croce mi scrissero che 'l detto Tapia aveva mostrate le commissioni della Maestà Vostra e de' suoi governatori, col suo real nome, ed essi gli avevano ubbidito con ogni debita riverenza; ma, quanto al mandarle ad esecuzione, gli avevano risposto che, essendo la maggior parte de' governatori qui appresso di me, per essersi trovati all'assedio ed espugnazione di Temistitan, essi ne dariano loro aviso, facendo tutti quel che piú pareva esser conveniente al servizio di Vostra Maestà e al bene delle provincie. Oltra di questo avisavano che 'l sopranominato Tapia per la detta risposta prese qualche sdegno, e anco avea tentato di fare alcune cose scandalose. E avenga che questo mi dispiacesse molto, risposi loro pregandoli e ammonendoli che, riguardando principalmente al real servizio della Maestà Vostra, si sforzassero d'ubbidire al detto Tapia e non dessero occasione che nascesse qualche discordia, perciochè io mi apparecchiavo al viaggio per andare a parlargli e adempire gli comandamenti della Maestà Vostra e fare quello che convenisse al servizio di quella. E volendo già partirmi, e avendo rimesso il viaggio di quel capitano al fiume Panuco, conciosiachè, partendomi io, fusse necessario lasciar qui una buona guardia, li procuratori del consiglio di questa Nuova Spagna del mare Oceano mi fecero una monitoria, con grandissimi protesti che non mi partisse di qui, perciochè le provincie di Temistitan e di Messico, che in breve tempo erano ridotte a pacifico stato, per l'absenzia mia potrebbono far novità e tumulto, onde ne nascerebbe grandissimo danno alla Maestà Vostra e la provincia ne verrebbe ad esser in disturbo. Nella detta monitoria si contenevano molte altre cagioni, per le quali dimostravano che al presente non dovessi partir di questa città, dicendomi oltra di questo che essi con l'auttorità del consiglio anderiano alla città della Vera Croce, dove era il detto Tapia, e vederebbono li provedimenti e commissioni della Maestà Vostra, e fariano ciò che vedessero esser utile al real servizio di quella. E perchè ci parve che bisognasse far cosí, e li detti procuratori si partivano, per loro scrissi al detto Tapia, narrandogli tutte quelle cose che erano fatte, e che in mio luogo mettevo e davo commissione a Consalvo di Sandoval esecutor maggiore, a Didaco di Sotto e a Didaco di Valdenebro, che erano quivi nella città della Vera Croce, che in mio nome, insieme con quel comune e insieme co' procuratori degli altri comuni, vedessero ed eseguissero quel che appartenesse al servizio di Vostra Maestà e al commodo delle provincie: e in vero essi erano e sono tali che non erano per fare altramente.
Giunti che furono dove si trovava il detto Tapia, il quale già si era messo in viaggio col padre fra Pietro, gli dissero che tornasse adietro, e ritornarono insieme alla città di Cimpual; e quivi il detto Cristoforo mostrò le commissioni e provedimenti della Maestà Vostra, alle quali tutti ubbidirono con quella riverenza che si debbe alla Vostra Maestà. Nondimeno, in quanto al mandarle ad esecuzione, ne supplicavano alla Maestà Vostra, giudicando cosí esser convenevole al suo real servizio, per le ragioni e cagioni contenute nella supplicazione, dove hanno scritto piú diffusamente come tal cose siano passate: la qual supplicazione li procuratori che vengono dalla Nuova Spagna la portano, sottoscritta di mano di notaio publico. Dopo molte monitorie fatte d'amendue le bande tra 'l detto Tapia e i procuratori, il Tapia montò sopra la sua nave, essendogli stata fatta la monitoria che cosí dovesse fare, perciochè, per la sua venuta e dimora in queste provincie, e per il publicarsi governatore ed esser venuto per capitano d'esse, nasceva sedizione, e gli abitatori di Messico e di Temistitan già avevano posto ordine con queste provincie di ribellarsi e far tradimento, dal quale sarebbe stato piú difficile scampare che dal primo. E questo era ordito in questa maniera, che alcuni abitatori di Messico avevano messo ordine, con gli abitatori di quelle provincie alle quali io avevo mandato l'esecutor maggiore per soggiogarle, che venissero a me con grandissima celerità, annunciandomi che intorno a quelle marine andavano errando dieciotto navi con gran numero di gente, ma non prendevano terra; e perchè non poteva esser gente amica, se mi fusse piaciuto, loro si sarebbono apparecchiati e là ne sariano venuti meco per darmi aiuto. E acciò io prestasse lor fede, mi portarono dipinte in carta le forme delle navi. E avendomi essi avisato secretamente di questa cosa, di subito compresi l'animo loro, ed esser un inganno e tradimento per levarmi di questa provincia; e perciochè alcuni de' primarii, vedendomi rimanere ora che io dovevo partire, aveano messo un altro ordine, finsi di non me n'accorger, facendo poi metter in prigione alcuni di loro che cotal cosa avevano trattate.
Sí che la venuta del Tapia e 'l non aver egli notizia del paese né degli abitanti aveva suscitato grandissima sedizione, e veramente lo star suo qui sarebbe stato danno incredibile, se Iddio non vi avesse dato rimedio. E senza dubbio sarebbe stato piú utile a Vostra Maestà che egli se ne fusse stato nell'isola Spagnuola e avesse lasciato andar la sua venuta qua, e chiestone consiglio da lei, e avisarla in che stato fussero le cose di queste provincie, poichè tutto egli aveva inteso per le navi ch'io avevo mandate alla sudetta isola per chieder soccorso. Ed esso molto ben sapeva il rimedio che fu fatto allo scandolo che intervenne per la venuta di Panfilo di Narvaez, spezialmente per quelle cose le quali erano state ordinate dal consiglio e reggimento della Maestà Vostra, e che l'almiraglio, i giudici e gli ufficiali di Vostra Maestà, che fanno residenzia nella sopradetta isola Spagnuola, molte fiate avevano ammonito il sopranominato Tapia che non attendesse a voler navigare a queste provincie, se prima non fusse certificata la Maestà Vostra di tutte quelle cose che in quelle fussero intervenute, onde sotto certe pene gli vietarono il venirvi; ma egli con alcuni modi che tenne con loro, considerando piú tosto il suo particolare interesse che quel che fusse servizio di Vostra Maestà, fece tanto che rivocorono la proibizione della sua già detta venuta. Ho dato aviso d'ogni cosa alla Maestà Vostra; ma quando il Tapia si partí di questi paesi, né io né li procuratori scrivemmo, non ne parendo conveniente portator delle nostre lettere, e anco acciochè la Maestà Vostra creda e conosca che ella, non essendo stato ricevuto il Tapia, ha conseguito grandissima utilità, come piú chiaramente si dimostrerà quando e quante volte farà di bisogno.
Come Pietro d'Alvarado diede notizia al Cortese d'aver soggiogata la provincia di Tatutepeque e, scoperto un certo tradimento, aver ritenuto quel signor e suo figliuolo, e quella provincia esser copiosissima di minere; e come avea preso la possessione di quel mare per nome della sacra Maestà, mandate le mostre delle minere e perle ch'avean cavate. Come fu scoperto il tradimento ch'era stato posto d'uccider il Cortese, e condannato a morte Antonio di Villafagna.
In uno de' capitoli di sopra significai alla Maestà Vostra come quel capitano ch'io avevo mandato a soggiogar la provincia di Guaxaca la teneva pacificamente, quivi aspettando quel che io gli comandasse. E perchè avevo di bisogno di lui, essendo egli luogotenente e giudice nella città della Sicurezza de' Confini, gli scrissi che gli ottanta fanti e i dieci cavalli che aveva seco li consegnasse a Pietro d'Alvarado, il quale io mandavo a soggiogar la provincia di Tatupeque, che è distante quaranta leghe dalla provincia di Guaxaca, appresso il mar d'India verso ostro, e faceva guerra e danni intollerabili a coloro che si erano dati per sudditi della Maestà Vostra e agli abitatori della provincia di Tatupeque, per averci essi promesso che noi passeremmo per la lor provincia a discoprir il mare verso ostro. Il detto Pietro d'Alvarado si partí di questa città all'ultimo di gennaio dell'anno presente, e tra li soldati che trasse di qui e quegli che gli furono consegnati in Guaxaca ragunò insieme quaranta cavalli e dugento fanti, tra i quali n'erano quaranta tra schioppettieri e balestrieri, e avevano due pezzi piccioli d'artegliaria da campo. De lí a venti giorni ebbi lettere dal detto Pietro d'Alvarado, che narravano trovarsi in viaggio per andare alla detta provincia di Tatutepeque, e mi certificava aver avuti prigioni certe spie abitatori della detta provincia, ed esaminandoli gli avevano detto che 'l signor di Tatutepeque insieme con le sue genti l'aspettavano alla campagna; ed egli andava con intenzione di fare ogni cosa a lui possibile per quietar quella provincia, e che oltra gli Spagnuoli menava anco seco molti e valorosi uomini. E aspettando io con grandissimo desiderio il fine di questa impresa, alli quattro di marzo del presente anno ricevetti lettere da Pietro d'Alvarado, nelle quali mi avisava esser entrato nella provincia, e che tre o quattro terre avevano avuto ardire di far resistenza, ma durarono poco; e che era entrato nella città di Tatuteque e, per quanto si poté vedere, fu ricevuto molto cortesemente, avendo il signore voluto che egli alloggiasse in certe sue case grandi coperte di paglia; nelle quali, per esser situate in luogo non molto commodo per la gente da cavallo, non volse alloggiare, ma discese ad un'altra parte della città, che era piú piana. E lo fece anco perchè gli era venuto all'orecchie che essi avevano deliberato d'uccider lui e tutti i suoi compagni, attaccando il fuoco la notte alle case, mentre gli Spagnuoli con lui vi fussero messi dentro ad albergare: e avendogli Iddio discoperto questo tradimento, avea finto di non se ne esser accorto, conducendo seco nel piano il signore della provincia insieme col suo figliuolo, li quali aveva ritenuti e gli aveva in sua potestà come prigioni, e da loro avea avuto piú di venticinquemila castigliani. E secondo che aveva inteso per relazione de' suoi sudditi, istimava che egli avesse grandissimo tesoro, e che quella provincia era tanto pacifica che nulla piú, perciochè facevano le lor fiere e i lor traffici come erano già soliti di fare, e dicevano esser copiosissima di miniere, e in sua presenza averne cavate le mostre, le quali mi mandò; e che per tre o quattro giorni era andato al mare, e di quello aveva preso la possessione per nome di Vostra Maestà, e alla sua presenza avevano cavata la mostra delle perle, la qual similmente mi mandò: e io insieme con quella delle minere la mando alla Maestà Vostra.
Indirizzando l'onnipotente Iddio questa impresa ottimamente, si adempieva il desiderio che ho di servire alla Maestà Vostra in discoprir questo mare verso ostro; ed essendo cosa di tanto momento, ho procurato diligentissimamente che in uno de' tre luoghi dove scopersi il mare si fabrichino due mediocri caravelle e due brigantini: le caravelle saranno per discoprire e i brigantini per andar presso terra alle marine. E a questo effetto mandai quaranta Spagnuoli, guidati da un uomo molto diligente, tra i quali erano legnaiuoli, segatori di tavole e fabri e uomini pratichi del mare, comandando che nella città della Vera Croce si apparecchiasse di far chiodi, vele e altre cose che faccino di bisogno per li detti legni: e solleciteremo quanto ne sarà possibile che si finischino e mettinsi in mare. La qual opera finita, creda la Maestà Vostra che sarà cosa dalla quale risulterà maggior commodo a Vostra Maestà che sia risultato di cosa alcuna, dapoi che sono state ritrovate l'Indie.
Essendo io nella città di Tessaico, prima che n'uscissi per andare all'assedio di Temistitan, ordinando e inviando quelle cose che erano opportune al detto assedio, non ponendo cura a quel che alcuni trattavano, ne venne a me uno che si era trovato presente a quel trattato, certificandomi che alcuni amici di Didaco Velazquez, miei soldati, avevano trattato d'uccidermi a tradimento, e già tra loro avevano eletto chi dovesse esser capitano, podestà e altri ufficiali; e che in ogni modo io vi rimediasse, perchè egli vedeva che, oltra lo scandalo che ne succederebbe nella persona mia, era cosa certa che niuno Spagnuolo saria potuto scampare, essendo noi l'uno l'altro contrarii; e che per questo troveremmo non solamente apparecchiati gli nemici, ma ancora quegli che pensavamo che ci fussero amici si affaticheriano ad ucciderne tutti. Subito che io viddi discoperto cosí gran tradimento, ringraziai Iddio, essendo in lui posto ogni rimedio, e incontinente feci pigliare uno di quegli che ne era capo; il quale spontaneamente confessò che aveva deliberato e con molti, i quali egli nella sua confessione nominò, posto ordine d'uccidermi o di farmi prigione, e pigliar il governo delle provincie per Didaco Velazquez. E la verità era che egli aveva determinato di fare Didaco capitano e giudice maggiore e se stesso esecutor maggiore, e mi dovevano overo uccidere o veramente far prigione, e in questo si erano accordati molti, de' quali ne aveva fatto una lista che fu trovata nella sua casa, benchè era squarciata, con alcuni di coloro ch'egli nominò, co' quali aveva fatto il trattato. E non solamente queste cose erano tutte trattate e consigliate nella città di Tessaico, ma le avevano già cominciate a trattare mentre attendevano a far guerra nella provincia di Tepeaca. Vista la sua confessione (egli era nominato Antonio da Villafagna, e per origine era da Zamora), e avendola un giudice e io per vera e provata, lo condennammo alla morte, e cosí fu esequita la giustizia nella persona di colui. E benchè di questo ritrovassimo molti esser consapevoli, feci vista di non saperlo, portandomi con loro amichevolmente, perciochè, appartenendo il caso a me, anzi meglio si potrebbe forse dire alla Maestà Vostra, non volsi proceder severamente contra di loro. Ma questa mia simulazione non molto giovò, conciosiachè dipoi alcuni dalla parte del detto Didaco Velazquez cercassero piú volte d'insidiarmi e secretamente far molte novità e scandali di modo che piú mi bisognava guardar da loro che da' nostri nemici. Nondimeno l'onnipotente Iddio indrizzò tutte le cose di maniera che, senza alcun loro castigo, è tra noi ogni pace e tranquillità: e se per l'avenire sentirò cosa alcuna, gli castigherò come vorrà la giustizia.
Della morte di don Ferdinando, signor di Tessaico, e come il governo fu conceduto al suo fratel minore, il quale fu battezzato, e gli fu posto nome don Carlo. Come certi Spagnuoli salirono sul monte dal quale esce una palla di fumo a guisa d'una saetta, e ciò che gli intravenne. Ordine posto dal Cortese per conservazione e sostegno degli Spagnuoli.
Doppo l'espugnazione di Temistitan, mentre io dimoravo nella città di Cuioacan, passò di questa vita don Ferdinando, signor della città di Tessaico: della cui morte tutti avemmo grandissimo dispiacere, essendo egli fedel vassallo di Vostra Maestà e amicissimo de' cristiani. E per consiglio e consentimento de' signori e primarii di quella città e provincia, in nome di Vostra Maestà fu conceduto il governo al suo fratel minore, il quale si battezzò, e gli ponemmo nome don Carlo; e, come insin ora si può vedere, egli seguita le vestigie di suo fratello, e molto si diletta del nostro abito e costumi.
Nell'altra relazione diedi notizia alla Maestà Vostra come appresso la provincia di Tascaltecal e di Guaxacingo era un monte ritondo e alto, dal quale quasi sempre usciva una palla di fumo, che a diritto a guisa d'una veloce saetta saliva in alto. E perciochè ci affermavano quella esser cosa piena di pericolo, e che morivano coloro che salivano sul detto monte, comandai a certi Spagnuoli che vi salissero e vedessero come stesse il monte nella cima. Poichè vi furono saliti, quella palla di fumo uscí con tanto strepito che non poterono né ebbero ardire d'arrivare alla cima, donde usciva quel fumo; e d'una bocca all'altra era lo spazio di due tiri di balestra, perciochè questo monte è di circuito tre o quattro leghe, e di tanta altezza che non potevano veder la parte da basso. Quivi trovarono molti pezzi di solfo gettati fuori dal fumo, e una volta, mentre se ne stavano quivi, sentirono lo strepito del fumo che veniva suso, e con tutto che molto s'affrettassero di smontare, prima che scendessero a mezzo 'l monte cadevano giú rotolando gran numero di sassi, onde si videro posti in grandissimo pericolo. E gl'Indiani riputarono esser un fatto notabile l'andare là su, dove gli Spagnuoli salirono.
Per altre lettere ho dato notizia alla Maestà Vostra che gli abitatori di queste provincie sono di maggior capacità e ingegno di tutto il resto degli abitatori dell'altre isole, e ci sono paruti di tanto intelletto e ragione quanto mediocremente può bastare all'uomo; onde allora non mi parve che dovessero esser astretti a servir gli Spagnuoli come gli abitatori dell'altre isole; e, mancando questo, gli acquistatori e le colonie che avemo poste in queste parti non si potrebbono sostentare né nutrire. Sí che, per non astringere allora gl'Indiani e per dar qualche compenso agli Spagnuoli, mi pareva che la Maestà Vostra dovesse commettere che, delle rendite le quali in queste parti pervengono a lei, ne fussero alleggeriti per il vivere e per le spese fatte; e in questo ordinasse che si facesse quella provisione che paresse piú convenevole al suo servizio, come copiosamente gliene ho scritto. Ma poi, vedute e considerate le grandissime e continue spese della Maestà Vostra, e dovendo piú tosto accrescere le sue entrate che dare occasione di diminuirle, riguardando anco il lungo tempo che avemo atteso alla guerra, e la necessità e li debiti da' quali eravamo astretti, e l'indugio che vi era fin che la Maestà Vostra potesse deliberar di cosa alcuna, e anco vedendo la importunità degli ufficiali suoi e insieme di tutti gli Spagnuoli, sono stato quasi costretto dare nelle loro mani i signori e abitatori di queste provincie, considerando i servizii e le imprese che hanno fatte in queste parti per la Maestà Vostra, acciochè, tra questo mezzo che ella comandi altro overo confermi questo medesimo, li detti signori e abitatori servano agli Spagnuoli, provedendo a ciascuno Spagnuolo il quale sarà loro assegnato di quelle cose che gli faranno di bisogno per suo sostegno. E fu preso quest'ordine per consiglio di molti che molto ben conoscono e intendono li costumi di queste provincie, e non si può tener modo migliore né piú convenevole, sí per sostenimento degli Spagnuoli, come per conservazione degl'Indiani. E acciochè le cose passino per buona via, come piú appieno esporranno alla Maestà Vostra li procuratori che verranno di questa Nuova Spagna, per le cose e paghe di Vostra Maestà sono consegnate le provincie e le città migliori e piú ricche. Supplico la Maestà Vostra debba commettere che in questo si faccia quella provisione che parrà piú utile e convenevole al servizio suo.
Catolico Signore, l'onnipotente Iddio conservi e accresca con accrescimento di maggior regni e dominii la vita e real persona e il potentissimo stato di Vostra cesarea Maestà, come il suo real cuore desidera.
Della città di Cuioacan di questa sua Nuova Spagna del mare Oceano, alli quindeci di maggio, l'anno del Signore 1522.
Potentissimo signore, della Vostra cesarea Maestà umilissimo servo e vassallo, il quale baccia li real piedi e mani,
Fernando Cortese.
Potentissimo Signore, fa relazione alla Vostra cesarea Maestà Fernando Cortese, suo capitano e giustizia maggiore in questa Nuova Spagna del mare Oceano, sí come la Maestà Vostra potrà comandare che si vegga, perciochè noi ufficiali della Maestà Vostra siamo tenuti a riferire ogni cosa e dar conto di tutto quello che è successo in queste parti, e tutto si manda in queste lettere, e questa è la pura verità: e perciò non bisogna che non scriviamo piú diffusamente, ma in tutto ci rimettiamo alla relazione del predetto capitano.
Invittissimo e catolico Signore, Iddio onnipotente conservi e accresca con accrescimento di maggior regni e dominii la vita e real persona e il potentissimo stato di Vostra Maestà, secondo che 'l suo real cuore desidera. Di Cuioacan, alli quindeci di maggio 1522.
Potentissimo Signore, della Vostra cesarea Maestà umili servi e vassalli, i quali bacciano li real piedi e mani della Maestà Vostra,
Iuliano Alderete, Alfonso da Grado,
Bernandino Vazquez da Tapia.
Di Fernando Cortese la quarta relazione della Nuova Spagna.
Come l'algozin maggiore, andato alla provincia Guallacalco, la trovò essersi ribellata, e come prese una signora a cui tutti davano obedienza in quei luoghi. Delle provincie di Tabasco, Cimaclan, Quechiula e Quizzaltepeque. Come il Cortese mandò un capitano per ridur quelle che s'erano ribellate e castigarle.
Quando avisai Vostra Maestà, col mezzo di Giovan di Riviera partito di qua, delle cose accadutemi in queste parti, dopo li secondi avisi che gliene mandai, le feci sapere come io avevo spedito con gente l'algozin maggior a causa di sottometter di nuovo al servizio di lei le provincie di Guatusco, Tustepeque e Guatasca, con l'altre convicine verso il mare di Tramontana, che si ribellarno sin dalla sollevazion di questa città, di quanto gli era occorso nel viaggio, e come egli avea in commission da me di far una terra abitata in esse provincie e chiamarla per nome terra di Medellino. Saprà ora la Maestà Vostra che tal terra fu fatta e si abita, e sottomesso tutto il paese: dove sendo pacificato mandai piú gente, comandandoli ch'egli mandasse lungo il sito in suso sino alla provincia di Guallacalco, 50 leghe lontana d'onde si situò Medellin, e di qua centoventi. Però che, stando io qui nella città di Temistitan mentre che Montezuma signor d'essa era vivo, come quel ch'ero desideroso di voler sapere tutti i segreti di queste parti per darne a Vostra Maestà conto intero, avevo mandato Diego d'Ordas, che al presente si trova costí in corte, il qual fu raccettato da' signori e paesani di quella provincia molto volentieri, sendoseglino offerti per vassalli e sudditi di Vostra Maestà. Io tenevo aviso qualmente si trovava un porto per navili molto buono in un fiume grande, il qual passa per essa provincia ed esce nel mare, perchè 'l medesimo Ordas e quei che andarono con esso lui l'avevano riconosciuto. E il paese era attissimo ad abitarvi, e, per mancar porti a questi liti, io desideravo trovarne un buono e farvi abitare.
Comandai al suddetto algozin maggiore che, prima ch'egli entrasse in quella provincia, mandasse dai confini alcuni suoi messi che li diedi io, nativi di qui, a far saper a coloro come io lo mandavo, e ad intender da loro se perseveravano nel buon animo che dinanzi avean mostrato e offerto al servizio di Vostra Maestà e all'amicizia nostra; con ordine ancora che ei facesse saper loro che, per le guerre passate col signor di questa città e con le sue terre, io non gli avevo mandato a visitar di già tanto tempo, ma nondimeno gli avevo tenuto sempre per amici e vassalli di Vostra Maestà, sí che come tali si credessero dover trovarmi ben animato a ciò che tornasse lor bene; e che, a fine di favorirgli e aiutargli in qualsivoglia bisogno loro, io mandavo là tal gente per abitar in quella provincia. Andato l'algozin maggiore e con esso la gente, e fatto secondo la commissione, non li trovò di quel volere che ci avevan mostro prima, anzi con gente ordinata a guerra e a vietargli l'entrata nel lor paese; laond'egli tenne sí bel modo in assalirgli di notte una, ove prese una signora a cui davano tutti ubbidienza in quei luoghi, che si quietò ogni cosa, mandando ella per tutti quei signori, ai quali comandò che ubbidissero in quanto venisse lor comandato a nome della Maestà Vostra, perchè altrettanto farebbe ella. Cosí arrivarono al sudetto fiume, ove quattro leghe lontana dalla sua foce, non vi essendo sito piú vicino al mare, si edificò da fondamenti una città, la qual nominossi lo Spirito Santo. E quivi fu per alquanti dí la residenza dell'algozin maggiore, per insino che furono quietate e ridotte al servizio di Vostra catolica Maestà molte altre provincie, delle quali fu quella di Tabasco, ch'è nel fiume della Vittoria, o di Grisalva che lor chiamino, e quella di Cimaclan e Quechiula e Quizzaltepeque e altre che per essere picciole non si dicono; i nativi delle quali si diedero e raccomandarono alla sudetta terra, agli abitatori della quale han servito e servano insin ad ora, ancor che si sieno ribellate di nuovo alcune d'esse, come Cimaclan, Tavasco e Quizzaltepeque. Contro alle quali ho mandato un mese fa un capitan con gente di questa città, per ridurle al servizio della Maestà Vostra e castigarle per la ribellione, né per ancora ho saputo che sia successo di lui. Credo bene che a Dio piacendo faranno assai, perchè sono andati con buono apparecchio d'artegliaria, di munizioni, di balestrieri e di cavalli.
Come il Cortese mandò un capitano per riconoscer la provincia di Mechuacan, e del presente che gli fu fatto. Della città detta Huicicila e di Ciacatula. Della provincia nominata Coliman, alla quale andato senza licenza il detto capitano con la sua gente e altra d'amici, furono rotti e scacciati dal paese, e come di ciò ne fu punito il detto capitano.
Io feci saper medesimamente alla Maestà Vostra, negli avisi mandatile per Giovan di Riviera, come una provincia grande detta Mechuacan, il signor della qual è chiamato Casulci, si era offerto con esso il signore e i suoi nativi di star soggetta a Vostra Maestà, e mi avevan portato certo presente, ch'io lo mandai co' procuratori che di qui della Nuova Spagna vennero a lei. E per esser essa provincia e dominio del Casulci grande, secondo mi avean riferito alcuni Spagnuoli che io vi mandai, per avervisi veduti segni di gran ricchezza, sendo cosí prossima a questa gran città, rassettatomi con alquanto piú gente e cavalli, vi mandai un capitano con settanta cavalli e dugento fanti ben armati con artiglieria, ad effetto che riconoscessero tutta quella provincia e suoi secreti, e caso che fusse tale abitassero in Huicicila, città quivi principale. Arrivati là, furono ben raccolti da quel signor e paesani e alloggiati in essa città; alli quali, oltre alla provisione lor necessaria di vettovaglie, essi diedero da tremila marchi d'argento misto con metallo, qual sarebbe mezzo argento, e oro per circa seimila ducati castigliani misto similmente con argento, di che non s'è fatto il saggio, e panni di bambagia con altre cosette che loro usano. D'onde tratto il quinto di Vostra Maestà, si compartí il resto fra' Spagnuoli che andaron là, i quali, come non ben sodisfatti del paese per abitarvi, si mostraron mal disposti a ciò, e fecero inoltre qualche motivo di che fur puniti. Per il che feci ritornar di là quelli che volsero tornare, e agli altri comandai ch'andassero con un capitano nel mare di verso mezzodí, ove io ho fatto abitar una terra detta Ciacatula, cento leghe lontan da Huicicila: e quivi tengo quattro navili fabricati di nuovo in terra, per scoprir quanto mi sarà possibile e sarà servizio di Dio in quel mare.
Andando questo capitan e gente a Ciacatula, ebbero indizio d'una provincia nominata Coliman, lontana cinquanta leghe dal viaggio ch'eglino avevan da fare in su la man diritta verso ponente: dove andò senza la mia licenza con esso tal gente, e con molt'altra d'amici della provincia di Michuacan, ed entrovi alquante giornate, con qualche incontro de' paesani suoi contrari. Donde, ancor che fussero in tutto quaranta cavalli e piú di cento, chi con balestre e chi con rotelle, a piedi, furon rotti e cacciati del paese, con morte di tre Spagnuoli e di molti degli amici, e andorno a Ciacatula. Il che saputosi da me, mi feci condurre e preso il capitano, lo punii per la disubbidienza.
Come Pietro d'Alvarado, mandato alla provincia Tutepeque, prese il signor di quella col figliuolo; del presente che gli fecero. Della terra detta Segura la Frontura, e in che modo il Cortese fece abitarla. Della setta che fecero i reggenti di quella terra, per la qual fu disabitata, e come i ribelli furon presi, e della loro condannagione. Come, morto il signor di Tatubeteque, la qual con l'altre s'eran ribellate, il Cortese vi mandò Pietro d'Alvarado col figliuol del signor, e tutte quelle terre s'arresero.
Perchè nel dar conto a Vostra Maestà cesarea qualmente io aveo mandato Pietro d'Alvarado nella provincia di Tutepeque, qual è sopra 'l mare di verso mezzodí, non mi occorse avisarla se non ch'egli vi era arrivato e vi avea preso il signor d'essa col figliuolo, e che gli avevan fatto certo presente d'oro, con alcune mostre fattegli d'oro di minere e perle, non ci sendo per allora altro da scrivere; saprà Vostra Maestà che 'n risposta di tal nuove avute da lui li comandai ch'ei cercasse in quella provincia convenevol sito e vi facesse abitare, commettendo io che gli abitatori della terra di Segura la Frontiera si trasferissero ad abitar quivi, perochè quel che là si abitava non era piú necessario, essendo quivi assai d'appresso. Il che fatto, chiamossi la terra Segura la Frontiera, come il principio dell'altra fatto prima. E compartironsi con esso gli abitatori di tal terra nativi di quella provincia, e di quella di Guassaca e Coaclan e di Cosclahuaca, e di Tachquiaco e d'altre convicine, e servivangli e gli profittavano molto volentieri. E restò quivi mio luogotenente Pietro d'Alvarado.
Accadde che, mentre io conquistavo la provincia di Panuco, come io racconterò piú avanti li capi e reggenti di quella terra pregaron Pietro d'Alvarado a venir con lor mandato a negoziar d'alcune cose meco che li raccommandarono; qual accettato e venutosene, essi capi e reggenti fecero certa setta e lega, chiamando la communità, e crearono un capo e, contra il volere dell'altro lasciato quivi capitano dall'Alvarado, disabitorno la terra e vennono nella provincia di Guassaca: il che fu cagion d'inquietar e alterar molto quei luoghi. Avisato ch'io fui di questo da colui che quivi era rimaso capitano, mandai là Diego di Campo, capo maggior di giustizia, acciochè, informatosi d'ogni cosa, ei castigasse i colpevoli. Il che inteso da loro, si fuggirono e stettero parecchi dí absenti, per insin ch'io li presi, ond'esso capo maggior di giustizia non potette pigliare piú d'uno dei ribelli, il qual condannò alla morte, e quello appellossi a me. Io, avendo presi gli altri, li feci consegnare al medesimo, il qual, proceduto contra di loro, li condannò come l'altro. Questi ancor appellaronsi, e son di già conclusi dinanzi a me i loro processi da sentenziarvi in seconda instanzia; gli ho veduti, e ben che sia stato grave il lor fallo, per rispetto del lungo tempo che sono in prigione, penso di commutar la pena del morir naturale, a che furon condannati, in morir civilmente, che sarà il dar lor bando da queste parti, con proibizione che non ci entrino senza licenza di Vostra Maestà, sotto pena d'incorrer nella pena della prima sentenza.
Morí in questo mezzo il signor della provincia di Tequantepeque, la qual e l'altre convicine si ribellarono. Vi mandai con gente, e col figliuolo di quel signore tenuto presso di me, Pietro d'Alvarado, dove, benchè in qualche scaramuccie morissero alcuni Spagnuoli, quelle nondimeno s'arresono di nuovo a Vostra Maestà. Stannosi al presente pacifiche e servon in tranquillità e sicurezza agli Spagnuoli a' quali son assegnate, se ben per mancar la gente non si è tornato ad abitar la terra; né men fa bisogno adesso che si riabita, perciochè per il castigo avuto son rimase quelle genti cosí ben dome, che per ciò che si comanda loro se ne vengon fino a questa città.
Come Tequantepeque e Mezclitan provincie s'arresero, poi per la venuta di Cristoforo Tapia danneggiarono grandemente i convicini, e, mandatovi un capitano con molta gente, dopo alcune scaramuccie si pacificarono. E come di nuovo si ribellò Tequantepeque, e del gran danno che fece; come il Cortese la racquistò e il castigo che li dette.
Subito che questa città di Temistitan col suo dominio fu ricuperata, si ridusse in soggezione della sua corona imperiale. Due provincie verso tramontana, lontana di qua 40 leghe, a' confini della provincia di Panuco, chiamate Tequantepeque e Mezclitan, assai forte di paese e ben avezze nell'esercizio dell'arme per li nemici che elle hanno d'ogni parte, vedendo quel che si era fatto con questa gente, e che nulla si difendeva contra Vostra Maestà, mi mandarono messi ad offerirsi vassalli e sudditi di lei, quali io gli ricevei a suo nome reale.
Tali si rimasero e tali sono stati fin alla venuta di Cristoforo di Tapia, che, per li movimenti e inquietudini causate in quest'altre genti, non pur non adempierono l'offerte loro di ubbidienza, ma danneggiorono assai i convicini al paese vassalli di Vostra Maestà, con incendii di molte terre e con l'uccisione di molta gente. E posto che, per sí fatto accidente, io non mi trovasse abbondanza di gente per averla divisa in tante parti, conoscendo che 'l non vi provedere ci dava gran danno, per tema che i confinanti con esse provincie non si aggiungessero a loro, pel danno che ne ricevevano e perchè eziandio non mi sodisfaceva l'animo loro, mandai là un capitano con trenta cavalli e cento fanti con balestre, schioppetti e rotelle, e con molta gente d'amici. I quali andati, e scaramucciato con loro qualche volta, vi morirono certi de' nostri amici e due Spagnuoli. Piacque al nostro Signor Dio che volontariamente vennero a pacificarsi e mi condussero que' signori, a' quali io perdonai, per esser venuti a me senza esser presi.
Stando io dipoi nella provincia di Panuco, mandarono fuori voce i nativi di queste bande che io tornavo in Castiglia, laonde si causò alterazione e ribellossi di nuovo Tequantepeque, ma dal cui tenitorio scese il signor di essa con molta gente, e abbrucciò piú di venti terre de' nostri amici, de' quali ammazzò e fece assai prigioni. Perciò nel mio ritorno da Panuco li conquistai di nuovo, e, quantunque all'entrarvi ci ammazzassero alcuni de' miei amici che restavano adietro, e vi crepassero dieci o dodeci cavalli per l'asprezza delle montagne, conquistossi tutta la provincia e fu fatto prigion il signore, con un suo fratel garzone e con un suo capitan generale, che insieme col suo signore fu incontinente impiccato. E fatti schiavi tutti i prigioni di quella fazione, alla somma di 200 uomini, si bollorno e fur venduti all'incanto publico; di che, tutto pagato il quinto pertinente a Vostra Maestà, si divise il restante fra' soldati di quella guerra, benchè non vi fusse a bastanza per pagar i cavalli che vi morirono, che, per esser la region povera, non vi fu altro bottino. L'altra gente rimasta in detta provincia venne a pacificarsi, e cosí stassi, il cui signore è il garzon fratello del signor morto. Al presente però non ci serve né giova punto, stante la povertà del paese, in altro che d'assicurarci che ei non ci sollevino coloro che ci servono; ove, per piú assicurarmi, ho posti alcuni nativi di qui.
Come per la venuta di Giovan Buono da Quesso, qual portò da cento lettere del vescovo di Burgos per far admettere Cristoforo Tapia governatore, s'era alterata la gente del Cortese, e come ei gli acquetasse, onde rimasero molto contenti.
Arrivò in tal tempo nel porto e terra dello Spirito Santo, di che adietro ho fatto menzione, un brigantino assai picciolo venuto da Cuba, e con esso un Giovan Buono da Quesso, venuto in qua per patron di navilio nell'armata condotta da Pamfilo di Narvaez; il quale, com'egli appareva per gli spacci ch'avea recati seco, veniva di commissione di don Giovanni da Fonseca, vescovo di Burgos, credendosi che qui si trovasse Cristoforo di Tapia, ch'egli aveva cerco per ambizione di farcelo venir governatore, per il contrasto che notoria e ragionevolmente si tenea che ci dovesse esser in admetterlo. E l'avea mandato il vescovo per l'isola di Cuba, acciochè, come questo fece, communicasse la cosa con Diego Velasco, che li diede il brigantino per questo passaggio. Costui portava da cento lettere d'uno istesso tenore sottoscritte dal vescovo, e forse in bianco, da doversi dare a giudizio suo a persone che qui si trovassero, in che ei diceva loro che servirebbono molto alla Maestà Vostra in far admettere il Tapia, e che perciò prometteva loro notabili premii, e che sapessero come gli stavano meco in compagnia contra la volontà di Vostra Maestà, con altri particolari troppo incentivi a' movimenti e stati inquieti. Il quale pur anco scrisse a me una sua lettera, con dirmi il medesimo e con promettermi che, s'io ubbidivo al Tapia, egli opererebbe che Vostra Maestà mi gratificasse grandemente, e, quando io facesse altrimente, mi promettesse al fermo che ei mi saria nemico notabile.
Per la venuta di questo Giovan Buono e per le lettere portate da lui si alterò tanto la gente della mia compagnia, che io certifico la Maestà Vostra che, s'io non l'assicuravo con dir a tutti la causa perchè cosí scriveva loro il vescovo, e che non temessero le sue minaccie, che non riceverebbe Vostra Maestà maggior servizio, né che maggiormente la movesse a far lor grazie, che 'l non consentire che 'l vescovo né alcun di sua aderenza s'intromettesse in questi affari, conciosiachè egli procurasse questo per asconderne il vero alla Maestà Vostra e domandargliene grazie senza che ella sapesse ciò che li desse, io averei avuto troppo da fare in quietarli; sendo io massimamente stato informato (il che dissimulai a tempo) che alcuni avevano praticato poichè si metteva lor paura in premio de' suoi servizii, che egli sarebbe bene sollevarsi qua a commune, sí come s'era fatto in Castiglia, per insin che Vostra Maestà fusse informata del vero, poichè 'l vescovo era sí valente in questa negoziazione che ei faceva che ella non sapesse punto de' lor avertimenti, e aveva in baglia gli ufficii della casa de' traffichi di Siviglia, dove gli agenti loro erano mal trattati, sendogli tolte le relazioni e lettere e danari loro, e proibitogli il venirgli soccorso di gente e d'armi né di vettovaglie. Imperò, inteso da me il sudetto, e che Vostra Maestà non sapeva nulla di questo, e che fussero certi che, saputosi da lei i suoi servigi, ne conseguirebbono le grazie che meritano i buoni e leali vassalli che servono il re e signor suo, come essi hanno servito, si acquetorno; e per la grazia che la Maestà Vostra s'è degnata farmi delle sue reali provisioni son rimasi tanto contenti, e servono con tanta affezione, quanto ne è testimonio il frutto de' lor servigi, per li quali meritano che a lei piaccia far premiarli sí del passato come del presente, e per il buon animo di tutti in servirla. Io quanto a me la supplico di questo umilissimamente, ch'io non riceverò per minor grazia quella che si degnerà far Vostra Maestà a qualunque di loro che si facesse a me proprio, posciachè io non l'averei potuto servir senza loro come io l'ho servita. Io la supplico sopra tutto molto umilmente che ella faccia scrivergli, con riconoscer in servizio i loro travagli e offerirgli per tanto gratitudine, che, oltre a sodisfar con questo al debito di Vostra Maestà, vien a dargli animo d'affaticarsi da qui inanzi con piú fervente affezione.
Come il Cortese, avisato che l'armiraglio don Diego Colon, Diego Velasco e Francesco de Garai s'erano congiunti nell'isola Cuba come nemici per danneggiarlo, con quarantamila uomini e assaltogli, gli ruppe e mise in fuga. Come quei di là dal fiume assaltorono il campo del Cortese, e furono rotti e incalzati piú d'una lega. Come trovò gran numero di genti in agguato e combatterono fieramente, e rotti tre o quattro volte si rimisero, pur furono rotti. Dell'assalto dato a' paesani di là dal fiume alla sproveduta, e come si arrenderono con tutti gli altri del paese.
Per una cedola che la Maestà Vostra fece spedir ad instanza di Giovan di Riviera per quello si appartenea all'adelantado Francesco de Garai, pare ch'ella sia stata informata come io ero per andar o mandar al fiume di Panuco a pacificarlo, però che si diceva esser buon porto in quel fiume, e perchè quivi avevano ammazzati di molti Spagnuoli, sí di quelli di un capitano che vi mandò Francesco de Garai, come di un'altra nave che per tempesta diede in quel lito, non ne lasciando vivo pur uno; e perchè i nativi di là eran venuti ad iscusarsi meco di tali uccisioni, dicendomi averle fatte per aver saputo che coloro non erano delli miei e per esser stati mal trattati da loro, e che, volendo io mandar là de' miei, essi gli stimerebbono molto e servirebbongli in quel che potessero, e mi arebbono grado che io ve gli mandasse, perochè temevano non ritornassero contra di loro quelli co' quali avean combattuto per vendicarsi; e perchè anco vi erano de' convicini nemici loro che li danneggiavano, onde ei si aiuterebbono con gli Spagnuoli ch'io dessi loro. Ma per mancarmi la gente quando ei mi domandaron questo, non potei compiacernegli, ma ben promise di contentarli quanto prima io potesse, laonde si partirono satisfatti, restando offerti vassalli di Vostra Maestà. Dieci o dodeci luoghi abitati delli piú propinqui a' confini de' sudditi di questa città ritornorno da me pochi dí dapoi, instandomi molto che, poichè io mandavo gli Spagnuoli ad abitar in molte parti, ne mandasse ancora ad abitar quivi con esso loro, perchè ei ricevevano gran danno da que' suoi nemici e da quelli del medesimo fiume abitanti al lito del mare, che, se ben era tutta una nazione, perchè essi eran venuti da me, gli era fatto da quelli mal trattamento. Per satisfar adunque costoro e per far abitar quella regione, e per trovarmi aver ancor piú gente, disegnai mandar un capitano con certi compagni a quel fiume; il qual sendo a punto per partirsi, seppi per un navilio venuto dall'isola di Cuba come l'armiraglio don Diego Colon e gli adelantadi Diego Velasco e Francesco de Garai s'erano congiunti nella medesima isola e collegatisi, per entrar di là come miei nemici a danneggiarmi il piú che potessino. Imperò, per non lasciargli conseguire tanto mal animo, io mi deliberai, lasciando in questa città la miglior provisione che potetti, d'andar in persona, acciochè, in caso ch'eglino o alcun di loro vi venisse, s'incontrassero piú presto in me che in verun altro, perchè io potrei meglio schivar il danno.
Partii dunque con centoventi cavalli e con trecento fanti e qualche pezzo d'artigliaria, e circa quarantamila uomini da guerra di questa città e de' convicini. Arrivato a' confini della region loro, 25 leghe di qua dal fiume, in luogo grande abitato detto Aintuscotaclan, mi assaltò marciando molta gente da guerra, con la qual combattemmo. Laonde, sí per aver io tanta gente d'amici quanti essi erano in tutto, come per trovarmi in pianura atta a cavalleria non durò molto la battaglia, e, benchè mi ferirno alcuni cavalli e Spagnuoli e vi restar morti de' nostri amici, essi n'ebbero la peggiore, perchè molti di loro vi morirono e molti n'andarono in fuga. Io mi trattenni due dí in quel luogo, sí per medicar i feriti, come per esser venuti ancora là da me quei che erano venuti qua ad offerirsi vassalli di Vostra Maestà, e mi seguitorno di là fin ch'io arrivai al porto, e dal porto in là, servendo in tutto quel che potevano. Io caminai a giornate per insin ch'arrivai al porto, né vi fu in parte alcuna da contrastar con loro, anzi gli abitatori de' luoghi per dove io marciava mi venivano a chieder perdono del loro eccesso e ad offerirsi al servizio di Vostra Altezza.
Arrivato a quel porto e fiume, alloggiai in una terra discosto dal mare cinque leghe chiamata Chila, disabitata e abbrucciata, perchè quivi era stata la rotta del capitano e della gente di Francesco de Garai. Io mandai in quella messi di là dal fiume e per tutte le palude abitate da gran popoli, facendogli intendere che non avessero paura d'esser danneggiati da me per causa del passato, perch'io sapevo che s'erano rivoltati contra quelli nostri per esser stati mal trattati da loro, onde loro non ne avevano colpa; né mai volsero passar da me, anzi trattarono malamente i messi e n'uccisero ancor qualcheduno, e per esser l'acqua dolce di che ci fornivamo di là dal fiume, si mettevano colà in arme e assaltavano i nostri che andavano a pigliarla. Cosí stetti io piú di quindeci giorni, credendo di poter tirargli a noi per amore, e che, vedendo come quelli che s'erano riconciliati erano ben trattati, essi ancora si riconcilierebbono, ma loro si confidavano tanto nel forte de' paludi ov'erano, che non se ne mossero mai. Vedendo che nulla mi giovava operar per amore, cominciai a cercar rimedio e, prese dell'altre canoe, che è una sorte di barche d'un pezzo, con alcune che vi avevamo avute da principio, cominciai con esse una notte a passar il fiume, tragettando cavalli e gente, de' quali nel far del giorno io tenevo già copia, senza essere stato sentito, su l'altra riva. Passai ancor io, con lasciar nell'alloggiamento del mio campo buona provisione. Sentiti che ci ebbero dalla banda loro, ne vennero contra con molta gente e ci dettero dentro con tanta gagliardia che, dapoi ch'io sono in queste bande, non ho ancor veduto dar l'assalto in campagna cosí resoluto come quei dettero: nel quale assalto ci ammazzarono due cavalli, e ne ferirono piú di dieci tanto malamente che non poterono servir per quella giornata. Con l'aiuto di Dio li rompemmo, con incalzarli piú d'una lega, con morte di molti, e io con trenta cavalli che mi erano restati e con cento fanti seguitai la vittoria, e dormii la notte in un luogo che ritrovai disabitato, tre leghe discosto dal mio campo. Quivi si trovarono nelle moschee di molte cose tolte a' Spagnuoli che ammazzarono di Francesco de Garay.
Cominciai il giorno seguente a caminare a canto ad una palude, per trovare innanzi il guado da passarla, parendomi trovarsi della gente e luoghi abitati dall'altra parte: e camminai tutto 'l giorno, non vi trovando guado né fine. E sendo già l'ora di vespro, se ne scoperse a vista un bel luogo abitato, verso il quale prendemmo il viaggio, tuttavia a canto ad essa palude, dove accostandoci in sul tardi non vi pareva gente; dove, per piú assicurarmi, mandai dieci cavalli ch'entrassero nell'abitato, e con altri dieci mi vi posi su un canto per di fuori verso la palude, non essendo per anco arrivata la retroguardia degli altri dieci. Entrando nell'abitato, si scoperse gran quantità di gente, messasi in aguato dentro alle case per pigliarne sproveduti, la qual combatté sí fieramente che ci ammazzarono un cavallo e ferirono quasi tutti gli altri, insieme con molti Spagnuoli. E furono tanto ostinati nel combattere, e duraronvi sí gran pezzo, che, rotti tre o quattro volte, si rimisero altrettante. E, fatto dell'ordinanza com'una mola rotonda, mettevansi cosí con le ginocchia in terra e aspettavanci senza parlare né alzar grido, come sogliono far gli altri; né noi entravamo volta fra loro che non c'investissero con molte freccie, e tante erano che, se non ci trovavamo ben armati, ei si averebbono dato un bel vanto di noi altri, e per aventura non ne scampava contra di loro alcuno. Volle Dio che certi di loro, piú acosto ad un fiume che scorrea d'appresso in quella palude ch'io avea costeggiata il dí, cominciarono a gettarsi all'acqua, dietro alli quali si dettero a fuggire gli altri pur al fiume, e cosí furono rotti; ma non fuggirono piú lontano che di là dal fiume, sopra lo quale stemmo, lor d'una banda e noi dall'altra, sino all'oscurar della notte, che, per esser profondo il fiume, non potevamo passar ad assaltargli, e non ci increbbe punto quando essi lo passarono. Di qui n'andammo ad un luogo lontano un tratto di fromba dal fiume, dove stemmo quella notte con la maggior guardia che potemmo, e vi mangiammo, per non esservi altro cibo, il cavallo che ci avevano morto.
N'andammo il giorno appresso per una strada, non comparendo alcuni di quelli del giorno avanti, per la qual arrivammo in tre o quattro luoghi abitati, dove non si trovò gente alcuna, né altro che cellari da vino il quale si fa da loro, del quale trovammo molte tinaccie. Noi passammo quel giorno senza intoppo di gente, e dormimmo in campagna, avendo trovati certi seminati di maiz, ch'è il lor formento, dove gli uomini e cavalli poterono alquanto rinfrescarsi. Cosí me n'andai due o tre dí senza ritrovar gente, ancorchè passassimo di molti luoghi abitati, e perchè pativamo per necessità di vettovaglie, non avendo avuto fra tutti in questo tempo cinquanta libre di pane, ritornammo al campo, dove trovai star bene e senza aver avuto contrasto la gente ch'io vi avevo lasciata. Parendomi subito che tutta la gente paesana si stava dalla banda della palude ch'io tutti avevo potuto passare, vi feci tragettar una notte fanti e cavalli con le canoe, ch'è una sorte di barche di un pezzo, con ordine ch'andassero uomini con balestre e schiopetti lungo la palude e il resto per terra. Assalirono in questo modo un gran luogo abitato e, per esser colto alla sproveduta, vi ammazzarono molti; per il qual assalto loro s'impaurirono tanto, in veder che essendo circondati dall'acqua gli avevamo assaltati senza esser sentiti, che subito vennero a pace, e in poco men di venti giorni fecero il medesimo tutti gli altri del paese, e offerironsi per vassalli di Vostra Maestà.
Come il Cortese edificò una terra e chiamolla San Stefano del Porto. Come si ruppe un navilio carico di munizioni. Della spesa che fece il Cortese in questa andata.
Poi che si fu posta pace in tal paese, mandai persone che lo vedessero e riconoscessero ben per tutto, dandomi riporto appresso delle terre e popoli che v'erano. Il qual datomi, elessi il luogo che miglior mi parve e vi fondai una terra, chiamandola San Stefano del Porto, assegnando a nome della Maestà Vostra que' luoghi abitati da mantenersi a coloro che vi volsero restar abitatori; e, fattivi reggenti e capi di giustizia, vi lasciai un mio luogotenente d'un capitano. Vi rimasono in tutto ad abitare trenta cavalli e cento fanti, a' quali lasciai una barca con un naviliotto mandatomi dalla Vera Croce. Mi mandava pur dalla Vera Croce un famigliar mio che vi sta un navilio carico di munizioni di carne e pane e vino e olio e aceto, con altre cose, il qual si perdette: e di quello si salvarono tre uomini in una isoletta nel mare, cinque leghe lontana da terra, i quali mandai a levar con una barca, e trovarongli vivi, sendosi mantenuti di vecchi marini, essendone in quell'isola molti, e di frutti che dicono esser come fichi.
Io certifico la Maestà Vostra ch'io solo in questa andata spesi piú di trentamila ducati d'oro, sí come, sendo cosí servita, potrà far vedere ne' miei conti; né manco costò a coloro che vennono meco in cavalli, munizioni e arme e ferramenti, perchè la pesavano egualmente con l'oro overo a doppio peso con l'argento. Imperò, conosciuto ch'ella era tanto ben servita di quel viaggio, ancor che si fusse occorsa maggior spesa, l'avressimo fatta molto volentieri; perchè, oltre al metter quegli Indi sotto 'l suo giogo imperiale, tal nostra andata fece gran frutto, perchè, arrivato subito là un navilio con gente e robbe assai, diede in terra per non poter far di manco, e, se la regione non stava in pace, non ne saria scampato niuno, come di quei dell'altro che prima aveano morti, de' quali ritrovammo le pelli de' loro visi posti ne' loro oratorii, acconcie sí fattamente che se ne riconobbero molti. Quando ancor arrivò in essa regione l'adelantado Francesco di Garai, sí come io narrerò piú avanti, non sarebbe restato vivo uomo delli suoi se non la trovavano in pace, perchè, forzati dal tempo, capitorno trenta leghe di sotto dal fiume di Panuco, con perdita di qualche navilio, e si misero in terra molto malandati; ma trovorno la gente pacificata, che li portava in collo servendogli per insin che li posorno nell'abitato dagli Spagnuoli, che ancor senza aver guerra sariano morti: tanto bene si causò loro dall'aver pace in tal parte.
Del soccorso mandato contra la provincia d'Impilcingo, e instruzione data al capitano, e la cagione perchè il detto capitano non conquistasse affatto la detta provincia. E come, andato alla provincia di Coliman, pacificati alquanti luoghi che non erano pacifichi, trovò in punto molta gente da guerra; e, venuti alle mani, gli Spagnuoli furono vittoriosi, in modo che non solo quella provincia, ma molte altre ancora d'appresso s'offersero. D'un'isola abitata da donne senza alcun maschio, molto ricca di perle e d'oro.
Ho detto ne' capitoli adietro come, dopo pacificata la provincia di Panuco nel viaggio, fu conquistata la provincia di Tequantepeque, già ribellatasi, e tutto quello che vi si fece. Avendo aviso che un'altra provincia presso al mare di Mezzogiorno, chiamata Impilcingo, della sorte di questa di Tepantepeque, per il forte delle montagne e per la gente non manco bellicosa, dava con i suoi di gran danni a' vassalli di Vostra Maestà cesarea suoi confinanti, de' quali alcuni mi si erano querelati con domandarmi soccorso, se ben la mia gente si trovava poco riposata, sendo per quel viaggio dugento leghe da un mar all'altro, io misi incontinente insieme venticinque cavalli e settanta over ottanta fanti e li mandai con un capitano in quella provincia, commettendoli nell'instruzion data che lui facesse opera di indurgli per amore a servirla, e se ciò ricusassero facesse lor guerra. Questi vi andò e fu con essi alle mani, e, per esser il paese asprissimo, non poté lasciarlo conquistato affatto. E perchè li diedi pur in instruzione che, fatto questo, egli andasse alla città di Ciacatula e con le sue genti e con quella di piú che potesse trovarne ne andasse alla provincia di Coliman, dove ho detto negli altri capitoli ch'avevano rotto il capitano e gente che andavano a quella città dalla provincia di Chichiuacan, e ch'egli operasse di amicarnegli overo, non potendo, li conquistasse, egli si partí: e, tra la gente avuta da me e quella ch'ei levò di là, fece cinquanta cavalli e centocinquanta fanti. Se n'andò a quella provincia, posta sessanta leghe dalla città di Ciacatula, al lito inverso del mare di Mezzogiorno, pacificando di passata alquanti luoghi che non erano pacifici. Arrivatovi, nel luogo ove avevano rotto l'altro capitano, vi trovò in punto molta gente da guerra che l'aspettava, con credere di portarsi cosí ben seco come con l'altro; perciò serratosi contro dall'una e l'altra parte, piacque a Dio dare la vittoria a' nostri senza morte d'uomo, benchè de' cavalli e d'essi nostri fussero feriti molti. E ben ci fu pagato da' nemici il danno datoci, che tanto grave fu loro questo castigo, che senza altra guerra ci si fece amico tutto il paese; né solo questa provincia, ma molte altre ancora d'appresso s'offersero al vassallaggio di Vostra Maestà: queste furono Aliman, Colimonte, Ceguatate.
Di là mi scrisse egli tutto 'l successo. Li mandai commissione di cercar sito a proposito e fondarvi una terra, da chiamarsi Coliman dal nome della provincia, e gli mandai la nominazion de' capi e reggenti di giustizia da deputarvi, comandandogli che andasse a visitar i luoghi abitati e le genti di quelle provincie, per darne il riporto a me, con quella piú ampia informazione che egli potesse darmi del tutto. Egli ritornò e portollami, con la mostra di perle che vi trovò, e io a nome di Vostra Maestà divisi le terre e luoghi di tal provincie agli abitatori rimasi là, che furono venticinque a cavallo e centoventi a piedi. Tra l'altre cose che egli mi riferí, mi diede nuova d'un bonissimo porto trovato in quel lito, di che, per esservene pochi, m'allegrai molto. Mi riferí similmente de' signori della provincia di Ciguatan, i quali affermasi molto ch'hanno un'isola tutta abitata da donne senza alcun maschio, e che vi vanno a certi tempi uomini co' quali elle usano, e quelle di loro che s'ingravidano, partorendo femine le serbano, e partorendo maschi li cacciano da sé; e che quest'isola è dieci giornate discosto da tal provincia, e molti di loro vi sono andati e l'hanno veduta. Mi dicono in oltre ch'ella è molto ricca di perle e d'oro, e com'io tenghi apparecchio procurerò di saperne la verità e darne pieno aviso alla Maestà Vostra.
Come dalle città di Uclacan e Guatemala vennero al Cortese con due Spagnuoli da cento uomini nativi di quelle città, di comandamento de' lor signori, ad offerirsi; dipoi, informato che le dette città e un'altra detta Chiapan erano di mal animo, preparò le genti per mandar là e una armata per far abitazioni nel promontorio over capo d'Higueras; fu avisato della venuta di Francesco di Garai, che s'intitolava governatore della regione, e quello che ne successe.
Nel venir della provincia di Panuco in una città chiamata Tuzzapan, arrivorono due Spagnuoli ch'io avevo inviato con persone native di Temistitan e con altri della provincia di Soncomisco, qual è sopra 'l mare di Mezzogiorno lungo, verso il lito dove Pietro Arias è governator di Vostra Maestà, lontana da questa gran città di Temistitan dugento leghe, a certe città di che io di già molti giorni avevo notizia, dette Uclacan e Guatemala, poste altre sessanta leghe lontane da questa provincia; co' quali Spagnuoli vennono circa cento uomini nativi di quelle città, per comandamento de' signori loro, offerendosi vassalli e sudditi di Vostra catolica Maestà. Io li ricevei a suo nome reale, con certificarli che, volendo e facendo eglino quanto offerivano, sarebbono sotto il medesimo nome ben trattati e favoriti da me e dalli miei, e diedi loro alcune cose delle mie ch'essi pur prezzano, parte per se medesimi e parte per portar a' loro signori, rimandando in sua compagnia altri due Spagnuoli per proveder loro di cose necessarie a cammino. Sono dipoi stato informato da Spagnuoli ch'io ho nella provincia di Soncomisco che tai città con le sue provincie, e un'altra detta Chiapan che v'è d'appresso, non hanno la volontà che mostrorono e offerirono prima, anzi dicono che le fanno danno nei luoghi di Soncomisco, perchè ei ci sono amici; e mi scrivono essi cristiani che per altra via mandano sempre a lor messi ad iscusarsi, ch'eglino non fanno questo, ma altri. Per saper il vero di questo, io avevo spedito Pietro d'Alvarado con piú d'ottanta cavalli e dugento fanti, fra' quali erano molti balestrieri e schioppettieri, e con quattro pezzi d'arteglieria e molta munizione. Avevo medesimamente fatto un'armata di navilii, mandandone capitano un Cristoforo Dolit che passò di qua meco in compagnia, per mandarla lungo il lito di tramontana a far abitazioni nel promontorio over capo d'Higuerras, il qual è sessanta leghe lontano dal porto dell'Ascensione, la qual è a barlavento di quel che è chiamato Iucatan, lungo il lito di terra ferma verso 'l Darien, sí per esser stato informato che quell'è ricchissima regione, come per esser parere di molti pilotti, che egli esca per quella baia lo stretto in l'altro mare: cosa ch'io desidero sopra tutte l'altre che mi si scuopra, imaginandomi il gran servizio che Vostra Maestà n'averia.
Sendo già in procinto questi capitani con ciò che lor facea mestieri al viaggio per ciascuno, ebbi un messo dalla terra di San Stefano del Porto, ch'io feci abitar al fiume di Panuco, col qual mi avisavano i capi di quella come era arrivato al fiume l'adelantado Francesco di Garai con centoventi cavalli e quattrocento fanti e molt'artiglieria, e ch'ei s'intitolava governatore della regione, e cosí faceva intenderlo a' paesani per un interprete ch'egli avea seco, dicendo di aver a far le lor vendette de' danni patiti per opera mia; e gli invitava seco a cacciarne gli Spagnuoli ch'io avevo messo là e gli altri ch'io vi fussi per mandare, ch'egli gli aiuterebbe a questo, con molt'altre cose scandolose, d'onde li paesani stavano alquanto alterati. E per piú accertarmi del sospetto avuto della sua lega con l'almiraglio e con Diego Velasco, arrivò pochi giorni dopo a quel fiume una caravella dell'isola di Cuba, nella qual venivano degli amici e famigliari di Diego Velasco e un servitor del vescovo di Burgos, qual dicesi che veniva fattore di Iucatan; il resto della compagnia era di servitori e parenti di Diego Velasco e servitori dell'almiraglio. La qual nuova intesa, cosí debole com'io ero d'un braccio per una caduta da cavallo, e nel letto, mi risolvei d'andarlo a trovare per schivar quell'alterazione, e, mandato innanzi Pietro d'Alvarado con tutta la gente ch'egli tenea in punto pel suo viaggio, ero per partirmi fra due giorni. Ed essendo già incaminato il mio carriaggio e letto, lontani dieci leghe da questa città, dove il giorno dapoi mi dovea trovare a dormire, arrivò un messo dalla terra della Veracroce in su la mezzanotte, con lettere d'un navilio arrivato di Spagna, e con esso una cedola sottoscritta del nome reale della Maestà Vostra, per la qual comandava all'adelantado Francesco di Garai ch'ei non s'impacciasse in quel fiume, né in parte alcuna ch'io avessi fatto abitare, perch'ella era sicura ch'io la tenesse a suo nome reale: ond'io gliene bacio centomila volte i piedi. Io cessai d'andare per questa cedola, né mi fu di poco utile alla sanità, per essere stato sessanta giorni senza dormire e molto travagliato, tal che, se mi partivo allora, non ci era sicurezza della mia vita: il che tutto non curavo, eleggendo per il meglio di morire in questa giornata che, per conservarmi vivo, esser cagione di molti scandoli e movimenti e altre morti che si vedevano ben chiare.
Io spedii subito Diego di Campo, capo maggior di giustizia, con la medesima cedola dietro a Pietro d'Alvarado, perchè uno gli diede una lettera con ordine che in modo alcuno ei non si avicinasse dove si trovava la gente dell'adelantado, perchè non s'attaccassero, comandando al capo maggior di giustizia ch'egli intimasse tal cedola all'adelantado e mi rispondesse incontinente quel ch'egli dicesse. Il qual, partitosi, presto arrivò alla provincia di Guatesque, dove era stato Pietro d'Alvarado, che di già era entrato innanzi nella provincia; e sapendo che gli andava dietro il capo maggiore di giustizia e io restavo, li fece intender subito com'esso Pietro avea saputo che un capitano di Francesco di Garai, chiamato Gonsalvo del Valle, se n'andava con ventidua cavalli danneggiando i luoghi di quella provincia e sollevando la gente, e ch'egli era stato avisato che tal capitano aveva messo l'ascolte pel viaggio ch'egli avea da fare. Laonde era alterato l'Alvarado, credendo che quel capitano Consalvo volesse offenderlo, per il che condusse la gente sua tutta in battaglia, per insin che arrivò ad un luogo abitato detto di Laslaias, ove si trovò Consalvo con la sua gente; col qual cercò di parlar l'Alvarado, e li disse quel ch'avea saputo ch'esso andava facendo, e che si maravigliava di lui, atteso che non era stata intenzione del governatore né de' suoi capitani d'offenderli né far loro danno veruno, anzi ch'egli avea comandato che fussero favoriti e proveduti di ciò che era loro necessario. E poichè tanto s'era innovato da loro, acciochè si potesse star sicuro che fra la gente d'una parte e l'altra non venisse scandolo né danno, li domandava in grazia ch'ei non avesse per male di far consegnar l'arme e cavalli della gente che aveva seco, per insin che si mettesse ordine al tutto. Iscusavasi Gonsalvo dal Valle che cosí non era in fatti come quello era stato informato, ma che con tutto questo li piaceva fare quanto egli era pregato. Cosí stettero quelli e questi insieme mangiando e godendo, sí li capitani come tutta la gente, senza essere fra loro disparere né rissa. Il che tosto che seppe il capo maggior di giustizia, ordinò che un mio segretario qual gli andava appresso, nominato Francesco d'Ordugna, andasse là dove erano ambidue quei capitani, con commissione di far restituir a chi l'aveva consegnate l'arme e cavalli, facendogli intendere ch'io avevo animo di prestar lor ogni aiuto e favore dovunque n'avessero bisogno, mentre non disordinassero in metterci scandalo nel paese, comandando medesimamente all'Alvarado a favoreggiarli e a non interporsi in niuna lor cosa, né farli sdegnare: il che egli adempí.
Come, ritrovandosi le navi di Francesco di Garai sopra la foce del fiume Panuco, il luogotenente di San Stefano richiese i capitani e padroni che venissero in porto e, avendo provvisioni dalla cesarea Maestà, le mostrassero. Quello che gli risposero i padroni, e che poi li mandorono a dir di secreto; come il luogotenente andò là. De' commandamenti che fecero l'una e l'altra parte. Della retenzione e liberazione di Giovanni Grisalva, general dell'armata.
Avenne in questo medesimo tempo che, trovandosi le navi d'esso adelantado in mare sopra la foce del fiume Panuco circa tre leghe, come ad offesa degli abitatori di S. Stefano, ch'io avevo quivi edificato, dove sogliono star surti tutti i navili ch'arrivano in quel porto, per il qual rispetto Pietro di Vallesia, mio luogotenente in quella terra, per assicurarla dal pericolo che v'aspettava per l'innovazione di quelli tali navili, richiese certe cose a' capitani e patroni di quelli, a fin che ne venissero suso in porto e vi surgessero amichevolmente senza far aggravio né dar alterazione alla terra, ricercandogli ancora che, se avessero provisioni dalla Maestà Vostra d'abitare overo entrar in tal terra, o in qualsivoglia maniera che stesse, le presentassero, protestandogli che presentate s'esequirebbono in tutto e per tutto, secondo ch'ella per esse comandasse. A che essi capitani e padroni dettono certa forma di risposta, che in effetto concludeva come essi non volevano far nulla di quanto il luogotenente avea ricerco; per il che esso fece la seconda richiesta diritta a' medesimi capitani e padroni, mettendogli pena per fargli esequir la prima richiesta e comandamento: al che di nuovo risposero quel che prima aveano risposto. Vedendo in questo punto i padroni e capitani come dallo star loro con li navili alla foce del fiume di già due mesi e piú risultava scandolo, tanto tra' Spagnuoli che quivi residevano come tra' paesani, Castromachio, padron d'uno di quei navili, e Martin di S. Giovanni Lipuzcano, padron d'un altro navilio, mandorono di secreto suoi messi al luogotenente, a fargli sapere che volevano essergli amici, e ubidire a' comandamenti della giustizia; onde li ricercavano ch'egli andasse a' lor navili, che 'l riceverebbono e adempierebbono quel ch'egli comandasse, aggiungendovi ch'ei terrebbono modo che gli altri navili, oltre a quei loro, si metterebbono nel medesimo modo e amichevolmente in man di lui e farebbono ciò ch'egli comandasse.
Laonde deliberossi il luogotenente d'andarsene con cinque uomini a quelli navilii, dove arrivato fu ricevuto da' padroni; di là mandò al capitan Giovanni di Grisalva, generale di quell'armata, che allora si trovava nella nave capitana, ad effetto ch'egli seguisse in tutto le richieste e comandamenti fattili dal luogotenente. A che egli non solamente non volle ubidire, ma comandò alle navi ivi presente che s'accompagnassero con la sua dove egli era; e accompagnati ch'ei l'ebbe, eccetto le due sopradette, con esse navi insieme, circondandole con la sua capitania, comandò a' capitani di quelle che sparassino l'arteglieria che avevano contro alli due navili, finchè si mettessero in fondo. Fatto quel comandamento publico, sí che tutti l'udirono, comandò il luogotenente che tenesse in ordine l'artegliaria delli due navili che gli avevano ubbidito; nel qual tempo non volsero ubidire al comandamento di Giovanni di Grisalva le navi ch'erano intorno alla sua capitana, dove li padroni e capitan di quelle. Ed egli in quel mezzo mandò un suo scrivano, chiamato Vicenzo Lopes, per parlar al luogotenente. Udita la sua imbasciata, egli li rispose giustificando la sudetta causa sua, che 'l venir suo là era stato solamente a fine di buona amicizia, per schivare scandoli e movimenti che seguivano dallo star di que' navili fuori del porto dove si solea sorgere, come corsali in luogo sospettoso a fare qualche assalto in terra di sua Maestà, cosa che stava molto male, con altre ragioni che venivano in proposito. Le quali operarono tanto che lo scrivano, tornato con la risposta al capitan Grisalva, l'informò di quanto il luogotenente gli aveva detto, inducendo il capitano ad ubidirlo, poichè egli era chiaro quelli esser sopra la giustizia in quella provincia; e sapeva esso capitano che insino allora non s'erano mostrate patenti né provisioni reali da parte dell'adelantado Francesco di Garai né da parte sua, a che il luogotenente e abitatori della terra di S. Stefano avessero ad offerirsi, e ch'era cosa assai brutta lo star di quella maniera come corsali in stato della Maestà Vostra. Mosso da queste ragioni, il Grisalva con gli altri padroni e capitani di nave, ubidirono al luogotenente e vennono su pel fiume innanti, dove sogliono sorgere gli altri navili; i quali entrati nel porto, il luogotenente fece prender Giovan di Grisalva per la disubidienza passata. La quale prigionia saputasi dal mio capo di giustizia maggiore, gli mandò l'altro giorno comandamento che fusse liberato e favoreggiato, con tutti gli altri venuti in que' navili, senza toccare alcuna lor cosa: e cosí fu fatto.
Delle lettere e andata del capo maggior di giustizia a Francesco di Garai, il qual, viste le patenti e provisioni del Cortese, con la cedola mandatali dalla cesarea Maestà, disse ch'egli era apparecchiato di adempire; e quello richiese al detto capo, il che tutto fu fatto.
Delle lettere che 'l detto Francesco scrisse al Cortese, e come andò a trovarlo;
il grande accetto fattoli e il parentado che conclusero.
Scrisse medesimamente esso capo maggior di giustizia a Francesco di Garai, il qual era lontano di là dieci o dodeci leghe in un altro porto, facendoli sapere come io non potevo andar ad abboccarmi con lui, e ch'io mandavo esso capo con mia procura di pigliar con lui ordine sopra di quel che fusse da fare, e acciochè si mostrassero le spedizioni d'una parte e l'altra e si ponesse conclusione in ciò che Vostra Maestà fusse meglio servita. Poichè tal lettera del capo maggior di giustizia fu letta da Francesco di Garai, egli l'andò a trovare, e fu da lui ben ricevuto, e provistoli con tutta la sua gente di tutto quel che lor era necessario. E ragionatosi fra loro in quel congresso, vedute le nostre patenti e provisioni, e veduta la cedola di che Vostra Maestà m'aveva fatto grazia, l'adelantado la ubidí, sendone cosí richiesto dal capo maggior di giustizia, e disse ch'egli era apparecchiato ad adempirla e che per tal adempimento voler ritirarsi a' suoi navili con la gente sua, per girsene ad abitar altro paese fuor del compreso in essa cedola di Vostra Maestà; e poichè l'intenzione mia era di favorirlo, ch'ei lo pregava a farli raccor tutta la sua gente, perochè molti di que' ch'avea condotti voleano restarsi e altri se n'erano andati, e gli facesse proveder di vettovaglie, delle quali egli avea bisogno per li navili e per la gente. Il che tutto fu fatto dal capo maggior di giustizia, come gli aveano comandato. E andò incontinente il bando in quel porto, dove erano piú la gente d'ambe le parti, che tutte le persone venute con l'armata di Francesco di Garai lo seguitassero e mettessersi in compagnia di lui, sotto pena al contrafattore, s'egli fusse a cavallo, di perder l'arme e 'l cavallo ed esser messo in prigione, e al fante a piedi d'aver cento frustate e star similmente in prigione. Domandò in oltre l'adelantado ad esso capo maggior di giustizia che, avendo vendute alcuni de' suoi l'arme e cavalli nel porto di S. Stefano e in quel dove erano e altrove in quel contorno, se gli facessero restituire, perchè senza tali arme e cavalli non si potrebbe servire della sua gente. Cosí ordinò il capo maggior di giustizia che, dovunque si trovassero arme e cavalli di tal gente, si togliessero a chiunque l'avea comperate, e fece restituirle all'adelantado; egli fece in oltre che i suoi bargelli n'andassero alla strada e ritenessino tutti coloro che se ne fuggivano, i quali diedi prigioni all'adelantado, e furono molti. E gli mandò ancora il bargel maggiore, alla terra di San Stefano, qual è il porto, e con esso un mio secretario, ad effetto che in quella terra e porto si facessero simili diligenzie, col far de' bandi e raccor la gente che se n'andava, e se li rimandasse, e acciochè s'adunasse quanta vettovaglia si potesse per provederne le navi dell'adelantado; e commisegli ch'ancor pigliassero tutte l'arme e cavalli venduti, e si dessero pur all'adelantado.
Il che tutto fatto con somma diligenza, ritornò l'adelantado al porto per imbarcarsi, e restossi con la sua gente il capo maggiore di giustizia, per non mettere piú carestia nel porto di quella che vi era e perchè essi si potessero proveder meglio. E quivi stette da sei o sette giorni, per saper come s'esequiva l'ordine mio e quel che egli aveva proveduto; e perchè vi mancavano le vettovaglie, scrisse il capo maggiore di giustizia all'adelantado se li commandava piú cosa alcuna, perchè ei se ne tornava alla città di Messico, dove io risiedo. E l'adelantado gli fece a sapere per un suo messo com'egli non teneva apparecchio per andarsene, per aver trovato che se gli erano perduti sei navili, e gli altri che gli erano rimasi non erano buoni da navigar con essi; e ch'ei si stava facendo un'informazione per la qual mi constasse di tutto questo, sí come li mancava l'apparecchio per partire; e che egli mi faceva ancor a sapere che la gente sua si metteva a liti e contese con esso lui, con dire che ei non erano obligati a seguirlo, e che s'erano appellati dai comandamenti fatti del mio capo maggior di giustizia, dicendo non esser tenuti adempierli, per sedeci o diciassette cause ch'allegavano, una delle quali era ch'alcune persone della lor compagnia erano morte di fame, e ve n'erano dell'altre non troppo oneste contra la persona di lui. Li fece saper inoltre che, con tutte le diligenze ch'ei faceva, non gli era possibile ritener la gente, perchè quella che vi era la sera non si trovava la mattina, perchè coloro che gli erano menati prigioni, posti ch'erano il giorno dipoi in libertà, se n'andavano; e che dalla sera alla mattina gli accadé veder mancarsi dugento uomini. Sí che ei lo pregava per tanto molto affettuosamente a non partirsi per insin che giungesse da lui, perch'egli volea venir meco a ragionamento in questa città, e che, se lo lasciavano là, pensava di morirsi di dolore. E veduta tal lettera di lui, si risolvé il capo maggior di giustizia d'aspettarlo. Cosí ne venne a quello di là a due dí doppo scrittogli, e di là mi spedirono un messo, col qual mi faceva a sapere il capo sudetto che l'adelantado veniva ad abboccarsi meco in questa città, e venendosene a picciole giornate sin ad un luogo abitato chiamato Cicoache, a' confini di queste provincie, che aspettarebbono in quello la mia risposta. Mi scrisse appresso l'adelantado, per aviso del mal apparecchio ch'egli avea e del mal animo che la sua gente gli avea mostrato; laonde, perchè ei credeva ch'io avrei apparecchio da poter rimediarli, cosí in provederlo della mia gente come nel resto che li bisognasse, e perchè conoscea di non poter esser aiutato né sovvenuto per man d'altri, s'era risoluto di venir meco a ragionamento; e m'offeriva il suo figliuolo maggiore con ciò che egli aveva, e sperava di lasciarmelo, ch'egli mi fusse genero, maritandosi con una mia figliuola picciola.
Constando in questo medesimo tempo il capo maggior di giustizia, mentr'erano per venir qua, ch'erano venute in quell'armata di Francesco di Garai certe persone d'averne assai sospetto, come amici e servitori di Diego Velasco, i quali s'erano mostrati contrarii alle cose mie, e vedendo che non era ben che rimanessero in provincia, perchè dal loro conversare s'aspettavano motivi e inquietudini nel paese, in conformità d'un spaccio reale che la Maestà Vostra mi mandò per cacciar del paese tai persone scandolose, comandò che ne fussero cacciati. Costor furono Gonsalvo di Figueroa, Alfonso di Mendozza, Antonio della Cerda, Giovanni d'Avila, Lorenzo d'Uglioa e Taborda, Giovanni di Grisalva, Giovanni di Medina e altri. Il che fatto, ne vennono sin al detto luogo di Cicoache, dove giunse loro la mia risposta alle lettere che m'aveano mandate, con le quali io gli avisavo allegrarmi molto della venuta dell'adelantado: il qual venendo qua, s'attenderebbe molto volentieri a quanto egli m'aveva scritto, e a far che conforme al suo desiderio egli si partisse benissimo ispedito. Io proveddi appresso che la persona sua venisse ben trattata nel viaggio, comandando a' signori de' luoghi che li dessero a compimento tutto quel che li fusse necessario. E arrivato ch'ei fu a questa città, io lo raccolsi con tutta la bontà dell'animo e dell'opere che si richiedea e ch'io potei far per lui, sí come averei fatto per un mio fratello, che in vero m'increbbe assai della perdita de' suoi navilii e dello sviamento della sua gente; per il che gli offersi la volontà mia, come veramente ell'era, di far per lui quanto mi fusse possibile. Egli, come molto desideroso di veder effettuarsi tutto quello che m'aveva scritto intorno al maritaggio, cominciò ad importunarmi molto instantemente che lo concludessimo, e io, per farli piacere, mi risolsi di fare quel di che egli mi pregava e desiderava tanto; sopra di che si fecero di consenso d'ambedue le parti, con assai chiarezza e giuramenti, certi capitoli che concludevano il parentado e quel che per eseguirlo si dovea far dell'una e l'altra parte, con questo però, che sopra tutto, sendo la Maestà Vostra avisata di quanto avevamo capitolato, ne restasse ben servita. Sí che noi, oltre la nostra antiqua amicizia, pel contratto e capitoli fra noi, insieme con la parentela mediante i nostri figliuoli, restammo cosí unanimi e di par volontà, che niun di noi attendeva ad altro che a quel che bene stava a cadaun di noi, nella spedizione massime dell'adelantado.
Come la gente dell'adelantado, non volendo andar con lui, se n'andò fra terra ferma, e per gli suoi disordini si causò revoluzione del paese. Della morte del detto adelantado.
Ho dato conto di sopra alla Maestà Vostra del molto operare del mio capo maggiore di giustizia, a fine che la gente dell'adelantado che andava sparsa per il paese s'adunasse con quello, e delle diligenze usateli, le quali, ancorchè fossero molte, non bastarono però a levar loro la scontentezza concetta contro ad esso Francesco di Garai. Anzi, credendosi dover esser costretti conforme a' bandi e commandamenti ad irsene con lui, se n'andorono fra terra ferma, spartiti in piú bande, a tre a tre e a sei a sei, e stettero ascosi di quella maniera senza poter essere trovati: cosa che fu cagione di alterar gli Indi di quella provincia, tanto per veder gli Spagnuoli sparsi in piú bande, quanto per i disordini che ei facevano tra' paesani, togliendo loro per forza le donne e 'l mangiare, con altre inquietazioni e motivi. Onde si causò la revoluzione di tutto il paese, credendosi che, sí come l'adelantado aveva messa voce, fusse divisione fra Spagnuoli sotto diversi superiori: il che ho racconto di sopra alla Maestà Vostra, e di che tutto fu publicata la fama da lui per interprete, che gl'Indi poterono molto ben intenderlo. Per il che, avendo prima avuta informazione gl'Indi dove, come e in che parti si trovavano gli Spagnuoli, tennero tal arte che di dí e di notte diedero loro dentro, in que' luoghi abitati dove eglino s'eran sparsi, e, sí come li colsero sproveduti e disarmati, ammazzarono gran numero di loro. E crebbero in tanto ardire ch'arrivorno alla terra di San Stefano del Porto, dove dettono sí gagliardo assalto che misero gli abitatori in gran disagio, talchè si tennero perduti, e perdevansi, se non si fussero trovati provisti e uniti, laonde si poterono fortificare e resistere a' suoi nemici, sin all'uscire fuori contra di loro molte volte e romperli.
Le qual cose mentre si facevano, ebbi nuova da un uomo a piè ch'era campato da tai rotte qualmente tutta la provincia di Panuco e suoi nativi s'eran ribellati, e aveano ucciso gran numero di Spagnuoli che erano rimasi della detta gente dell'adelantado, con altre del popolo della sudetta terra ch'io v'avevo fondata a nome di Vostra Maestà; e ch'ei credeva, considerata la rotta grande di quelli, che niun Castigliano vi fusse restato vivo. Di che Iddio benedetto sa quanto io mi contristai, vedendo massimamente che niuna innovazione tale occorre in queste parti, che non ci costi troppo e che non le ponga a rischio di perdersi. E tanto s'adolorò l'adelantado di questa nuova, sí per parerli d'esser stato cagione di questo, come perchè egli avea in quella provincia un suo figliuolo con tutto quel che s'avea portato, che s'amalò di dolore, e di tal malattia morí fra spazio di tre giorni.
D'alcuni che furono assaliti alla strada. Come gli uomini del luogotenente furono uccisi, fuori che lui e due a cavallo. Come il Cortese ispedí un capitano con due altri della terra, con quindecimila uomini per uno, e l'ordine datoli. Il capitano combatte in due luoghi e ha vittoria. Come della provincia di Ganuco furon fatti prigioni da quattrocento tra signori e principali, oltre il vulgo, i quali tutti, cioè i principali, furono abbrucciati per giustizia, e pacificata la provincia.
Ma perchè la Maestà Vostra s'informi piú particolarmente del successo dopo avuto questa prima nuova, ciò fu che, poichè quello Spagnuolo portò nuova della sollevazion di quella gente di Panuco, perchè egli non dava conto d'altro, salvo che in un luogo detto Tacetuco, mentre che egli e tre altri a cavallo e uno a piedi venivano a viaggio, que' di tal luogo gli assaltarono alla strada e combatterono con loro, e vi furono uccisi due a cavallo e l'altro a piedi e il cavallo dell'altro, e che ambidue s'erano salvati fuggendo, sopravenuta la notte, e che avean veduto un alloggiamento di quel luogo, dove egli dovea aspettar il luogotenente con quindeci cavalli e quaranta fanti, starsi tuttavia abbrucciando, e che per i segnali vedutivi si credea che vi fusser rimasi tutti morti, aspettai sei over sette dí per altra nuova di questo. E mi giunse in tal tempo un altro messo del luogotenente, i quali dicea restar in un luogo detto Tenestechipa, della giuridizione di questa città, che divide i confini da quella provincia; il qual mi facea a saper per sua lettera come, trovandosi in Tacetuco con quindeci cavalli e quaranta fanti, aspettando piú gente che s'avea a congiunger con lui, perchè egli andava dall'altra banda del fiume ad amicarne certi luoghi che ancor non ci erano amici, una notte all'alba gli avevano circondato l'alloggiamento con di molta gente e messovi fuoco. E per quanto presto eglino avean cavalcato, stando alla sproveduta, per esser venuto insin là tanto al sicuro com'erano venuti, gli avevano appressati tanto che gli avevano uccisi tutti, da lui e da due altri a cavallo in fuori, che s'erano salvati fuggendo, benchè avessero morto a lui il cavallo, d'onde un altro se 'l portò via in groppa; e che si erano salvati perochè, di là a due leghe, ritrovorno un capo di giustizia d'essa terra con certa gente che li raccolse, benchè non vi s'intertennero molto, ch'egli e loro uscirono fuggendo di quella provincia. E non tenevano aviso né sapevano altro della gente rimasa in essa terra, né dell'altra dell'adelantado Francesco de Garai, divisa in certe parti, perchè, sí come ho detto alla Maestà Vostra, dapoi che l'adelantado era venuto là con quella gente e avea parlato a' paesani, dicendo ch'io non avevo da impacciarmi con esso loro perch'egli era il governatore e quello al quale dovevano ubbidire, e che unendosi essi con lui scacciarebbono tutti quegli Spagnuoli ch'io avevo e que' di quella terra e quanto piú io ve ne mandasse, essi s'erano alterati, né mai piú volsero servir bene a Spagnuolo alcuno, anzi, n'avevano uccisi alcuni trovati a caso soli per le strade. Onde egli credeva ch'ei si fussero congiurati a far quanto fecero, e come avevano battuto lui e coloro che erano con lui, cosí credea che avesser battuti tutti gli altri, sparsi chi qua chi là, perchè si stavano senza un minimo sospetto di quella revoluzione, vedendo come insin allora essi avevano servito loro senza risentimento di star soggetti.
Avendomi significato in oltre con questo aviso della ribellione de' nativi di quella provincia, e sapendo l'uccisioni di quegli Spagnuoli, quanto piú presto io potetti spedii subito cinquanta cavalli e cento fanti balestrieri e schioppettieri con quattro pezzi d'artiglieria, con assai polvere e munizione, sotto un capitano spagnuolo e con altri due di questa città, quindecimila uomini per uno, comandando ad esso capitano che con la maggior fretta ch'ei potesse arrivasse in quella provincia e s'affaticasse d'entrarvi senza intrattenersi altrove, non lo sforzando gran necessità, sino ad arrivar alla terra di San Stefano del Porto, a saper nuova degli abitatori e gente che io v'avevo lasciato, potendo essere che fussero assediati in qualche parte e acciochè desse lor soccorso: il che fu cosí. E s'affrettò il capitano quanto piú poté ed entrò nella provincia, e combatterono con lui in due luoghi; e dandoli Dio vittoria, seguí marciando per insin ch'egli arrivò a quella terra, dove ritrovò ventidue cavalli e cento fanti tenuti quivi assediati e combattuti sei o sette volte, ma difesesi con alcuni pezzi d'arteglieria che avevano, ancor che 'l poter loro non era di piú oltre difendersi, né anco con poca fatica. E se 'l capitano che io mandai indugiava tre dí, non vi saria restato uomo di loro, che ormai morivano tutti di fame; e avevano mandato un brigantino, di que' navili che condusse là l'adelantado, alla Vera Croce per darmi la nuova di là, che per altra via non potevano, e per vettovagliarsi con quello, come dapoi si vettovagliorno, benchè erano di già stati soccorsi dalla gente che io avevo lor mandato. Quivi seppero come la gente lasciata da Francesco de Garai in un luogo detto Tamaguilche era sin a cento Spagnuoli a piè e a cavallo, i quali erano stati tutti morti, non essendo scappato piú che uno Indo dell'isola di Giamaica, il qual si fuggí su per i monti, dal quale s'informarono come gli aveano soprapresi di notte; e trovossi per conto esser morti della gente dell'adelantado 200 e 10 uomini, e 43 degli abitatori ch'io avevo lasciato in quella terra, i quali andavano per i luoghi raccomandati a loro; e credesi ancora che furono piú di quei dell'adelantado, che di tutti non si ricordano.
Con la gente menata là dal capitano, e che 'l luogotenente e capo di giustizia avevano per la terra, si trovarono in tutto ottanta cavalli, e partiti in tre parti fecero tal guerra in quella provincia, che ei fecero prigioni oltre al vulgo da 400 tra signori e uomini principali: i quali tutti, cioè i principali, s'abbrucciorno per giustizia, avendo confessato com'essi erano stati i motori di quella guerra, e che qualunque di loro s'era trovato alla morte o egli aveva morti degli Spagnuoli. Il che fatto, liberarono degli altri che avevano prigioni, co' quali ridussero la gente all'abitazion de' suoi luoghi, e providde il capitano a quelli di nuovi signori a nome della Maestà Vostra, in persona di quelli che secondo il costume loro per successione doveano ereditargli. In quest'ora ho ricevuto lettere dal medesimo capitano e d'altri che sono con lui, con aviso che ormai, a Dio grazia, tutta la provincia è pacifica e sicura e i provinciali servono bene, e credo che 'l disturbo della rissa passata farà pace per tutto l'anno.
Creda la Maestà Vostra che queste nazioni sono tanto sollevabili, che qualsivoglia novità o apparato di sollevazione che veggano le commuove, però che di già era loro in consuetudine il ribellarsi e sollevarsi contra i lor signori, né vederanno mai occasioni a questo che non la piglino.
Come il Cortese, comprati cinque navilii e un brigantino e fatto quattrocento uomini, li mandò al capo over promontorio d'Hibuere, e con che ordine e per che cagione, e ducati ottomila all'isola della Cuba. Le provisioni ed espedizioni fatte per scoprir nuovi paesi e varie nazioni.
Io dissi ne' precedenti capitoli come, al tempo che io ebbi nuova dell'arrivo dell'adelantado Francesco de Garai a quel fiume di Panuco, io avevo in esser armata o gente da mandar al capo o promontorio de Hibuere, e le cause che mi muovevano a questo; da che si soprasedé per tal arrivo, credendo che esso adelantado d'autorità propria si volesse metter a possedere il paese, e che volendo io resistere, s'egli l'avesse fatto, mi fu necessario tener tutta la gente. Dopo finita quella spedizione con lui, se ben mi seguiva spesa grande nel soldo de' marinari e fornimenti per navilii e nella gente che vi dovea navigare, parendomi che di questo Vostra Maestà ne fusse molto ben servita, perseverai nel mio primo proposito e comperai altri navilii, oltre a quelli che io avevo, che furono cinque piú grossi e un brigantino, e feci quattrocento uomini; i quali forniti d'arteglieria, monizioni e arme e d'altre robbe e vettovaglie, oltre a quello di che furono proveduti in questo luogo, io mandai a due miei famigliari piú d'ottomila ducati di oro all'isola di Cuba, acciochè si comperassero cavalli e robbe, sí da portar in questo primo viaggio, come perchè tenessero in punto da caricar i navilii alla tornata, acciochè non restassero di far l'effetto a che io li mandavo per mancamento di cosa alcuna, e acciochè in sul principio per mancamento di robbe non faticassino gli uomini del paese, ma piú tosto gli dessino essi di quel che portavano che togliessino il loro. Con tal ordine si sono partiti dal porto di S. Giovanni di Chalchiqueca alli 11 di gennaro 1524 per andarsene all'Habana, che è la punta dell'isola di Cuba, dove s'hanno da fornire di tutto quello che mancherà loro, e specialmente di cavalli, e quivi unire i navilii e dipoi con la benedizione di Dio seguire il lor viaggio verso il detto paese; e arrivando al primo porto di essa, saltare in terra e sbarcare tutta la gente, cavalli e monizioni e con ciò che portano in detti navilii, e dipoi nel miglior sito che parerà loro fortificarli con sua arteglieria, che portano molta e buona, e fondarvi una popolazione; e subito le tre navi maggior che ho spedite per l'isola di Cuba al porto della città della Trinità, per esser luogo migliore da fermarvisi, dove abbi da restare uno de' miei creati, per far provisione delle cose che li fussino di bisogno e che 'l capitano mandasse a richiedere. Gli altri navilii piú piccioli e il brigantino, col pilotto maggiore e con un mio cugino loro capitano detto Diego Murtado, debbano trascorrere tutta la riviera del porto dell'Ascensione, investigando di quello stretto che si crede esservi, e vi si fermino tanto che non resti lor piú da vedere cosa alcuna, e veduta che l'averanno ritornarsene dove sarà il sudetto capitano Cristoforo Dolid. E di là con uno de' navilii m'aviseranno di quel che averanno ritrovato, e che esso Dolid averà saputo del paese e che li sarà successo in quello, acciochè di tutto io possi dar copioso aviso alla Maestà Vostra.
Io dissi ancora qualmente io avevo gente per mandare con Pietro d'Alvarado a quelle città d'Uclaclan e Guatemala, delle quali ho fatto menzione ne' capitoli passati, e ad altre provincie delle quali ho notizia che sono innanzi a quelle, e come s'era sopraseduto per l'arrivo del detto adelantado Francesco de Garai. E perch'io tenevo già fatto molta spesa, sí de' cavalli e arme e artiglieria e munizione, come di denari dati per sovenzione alla gente; e perchè io credo che di ciò nostro Signor Dio e la Maestà Vostra hanno da tenersi molto serviti; e perchè, secondo la notizia avuta, io penso scoprire per quella parte di molti e molto ricchi e strani paesi e di molte e varie nazioni, son ritornato a perseverare nel mio primo proposito. E oltre di quel che prima s'era provisto per tal viaggio, io rifeci la provisione ad esso Pietro d'Alvarado, e lo spedii di questa città alli 6 di decembre del 1523, e condusse seco centoventi da cavallo, con li quali e li carriaggi erano cento e settanta cavalli, e trecento fanti, tra li quali sono centotrenta balestrieri e schioppettieri; e conduceva anco quattro pezzi d'artegliaria, con assai polvere e munizione. E ne andavano seco alcuni uomini segnalati, sí de' nativi di questa città come dell'altre di questo contorno, e con loro dell'altra gente, non però molta, per esser tanto lungo il viaggio.
Del giunger di Pietro d'Alvarado nella provincia Techantepeque. Quello che si trovi aver speso il Cortese per il bisogno delle guerre. Del paese acquistato verso il mare di Tramontana e per il mare a Mezzogiorno. Del guerreggiar de' popoli Ciaputechi e Messi, e delle genti mandate contra quelli.
Ho avuto nuova di loro, qualmente alli dodeci di gennaro di quest'anno erano arrivati nella provincia di Techantepeque, e che andavano sani: piaccia a nostro Signor Dio di guidarli tutti secondo ch'egli ne sia servito, che ben credo io, come essi vanno indrizzati al suo servizio e nel real nome di Vostra Maestà, non possin mancar di prospero e buon successo. Io al detto Pietro commisi ancora ch'egli avesse particolar cura di darmi piena e particolar notizia delle cose che gli accadessero di là, acciochè si potessero mandar a communicar con Vostra Altezza. E ho per cosa molto certa, secondo gli avisi e disegni ch'io ho di quel paese, che esso Alvarado e Cristoforo Dolid sieno per unirsi, se qualche stretto non li divide. Molti viaggi si sarebbono fatti a tal paese, e molti secreti vi si sarebbono scoperti, se non m'avesse impedito il disturbo dell'armate venute in qua: in che certifico la Maestà Vostra ch'ella ha ricevuto assai danno, e per non essersi scoperto paese assai, e per aversi tralasciato d'acquistare alla sua camera reale gran somma d'oro e di perle. Imperò, se d'ora in poi non ne verranno piú, m'affaticherò di ristorar il perduto, né si rimarrà da questo per fatica della persona mia né per spesa della mia facultà, che io certifico la Maestà Vostra che, oltre ad aver speso ciò che avevo in denari, io son debitore dell'oro avuto delle sue rendite di piú di settantamila ducati larghi, per i bisogni delle spese che le costeranno, quando sarà servita che si veggano i conti, senza altri dodecimila prestatimi per le spese della mia casa da altre persone.
Ho detto ne' capitoli precedenti come le provincie convicine alla terra dello Spirito Santo, e quelle che servivano agli abitatori di essa, s'erano in parte ribellate e avevano uccisi alcuni Spagnuoli. Per ridurle adunque al real servizio della Maestà Vostra, e tirarvi insieme dell'altre vicine a quelle, non bastando la gente che stava in tal terra per conservar l'acquistato e acquistar queste, ispedi' un capitano con trenta cavalli e cento fanti, parte balestrieri e parte schioppettieri, e con due pezzi d'artegliaria e provisione di munizioni e polvere, i quali partirono agli 8 di decembre del 1523, né infino a qui ho saputo altro di loro. Penso che faranno gran frutto, e che di questo viaggio si farà servizio grande a Dio e alla Maestà Vostra e si scopriranno assai secreti, per esser questo un pezzo di terra ferma tra la conquista di Pietro d'Alvarado e di Cristoforo Dolid, quello che insino ad ora si stava pacifico verso il mare di Tramontana; il quale come si è conquistato e fatto amico, perchè è assai poco, Vostra sacra Maestà viene ad avere piú di quattrocento leghe di paese amico e soggetto al suo real servizio a tramontana, tutto continuato senza intermezo, e pel mare a mezogiorno piú di cinquecento leghe, tutto da un mare all'altro, che serve senza contradizione alcuna, da due provincie in fuori, poste nella provincia di Techantepeque e in quella di Chinanta e di Guassaca e Gualzacalco, in mezzo a lor quattro, della cui gente chiamasi l'una i Ciaputechi e l'altra i Missi. Le quali per esser tanto aspre che non vi si può pur camminar a piedi, con tutto che oramai due volte io abbi mandato gente per conquistarle e non ci sia riuscito, però che hanno le forze gagliarde e il paese aspro e l'arme buone, combattendosi da quelli con lancie di venticinque in trenta palmi lunghe e assai grosse e ben fatte, le cui punte sono di selci durissime, con che si sono difesi coloro, con morte di molti Spagnuoli ch'erano andati là, e hanno dato e danno di gran danni a' luoghi prossimi sudditi di Vostra Maestà con assaltarli di notte, abbrucciargli e ammazzar di molte persone, in maniera che s'hanno fatto che molti luoghi a loro prossimi si sono ribellati e confederati con loro. E perchè ciò non proceda piú avanti, ancorchè non m'abbondava la gente, per averne mandata a tante parti, io posi insieme cento e cinquanta uomini a piedi, li piú balestrieri e schioppettieri, non servendo in que' luoghi i cavalli, e quattro pezzi d'artiglieria con la munizione necessaria, e con provisione d'ogni cosa necessaria a' balestrieri e schioppettieri; con i quali mandai per capitano Roderico Rangel, capo di giustizia di questa città, che un'altra volta era stato contra quelle genti e, per essere allora di molte acque, non aveva potuto far nulla, e ritornosse doppo esservi stato due mesi. Il qual capitano, insieme con tal gente, partí di questa città alli cinque di febraro del presente anno.
Io credo, sendone cosí Dio servito, che per andar egli ben provisto, e per andar in tempo buono, e perchè menai di molta gente atta da guerra nativa di questa città e de' suoi contorni, che si metterà fine a questa controversia: da che non ne risulterà poco servizio alla corona imperiale di Vostra Altezza, perchè quelli non solamente non servono, ma fanno ancor danno grande a quei che ci hanno buona volontà, e il paese ha molta ricchezza e minere d'oro. Quando costoro si stessero in pace, dicono quei lor vicini ch'essi anderebbono a torgliene, per esser stati tanto ribelli, dapoi che sono stati invitati alla pace tante volte, e sendosi offerti vassalli di Vostra Maestà hanno ammazzato gli Spagnuoli, e per aver fatti tanti danni s'hanno a pronunciar per ischiavi. Cosí comandai che quei che si potessero pigliar vivi si marchiassero del marco di Vostra Maestà, e, trattane la parte sua, si dividesse il resto fra' conquistatori. Ella in vero può credere molto certo che la minor di queste entrate a che si va mi costi del mio piú di cinquemila ducati d'oro, e li due dati a Pietro d'Alvarado non ci si numerano né si mettono a memoria; ma, come s'impiega tutto in servizio di Vostra Altezza, se con questo insieme si spendesse la persona mia, lo riconoscerei per maggior grazia, né mi si presenterà mai cosa in che poter metterla ch'io non ve la metta.
La cagione perchè i navilii che già furono cominciati a far nel mare di Mezzodí non siano al dí d'oggi finiti.
Ho fatto menzione, sí nella relazione passata come in questa, di quattro navilii ch'io ho cominciato a fare nel mare a Mezzogiorno, i quali per esser molto tempo che s'incominciorono, parerà a Vostra Altezza ch'io sia stato alquanto trascurato, non si essendo finiti al dí d'oggi. Gliene dico la cagione, ed è che, sendo il mar a Mezzogiorno, quella parte massime dove io fabrico i navilii, lontano dal mar a Tramontana, dove si scarica ciò che viene a questa Nuova Spagna, dugento e piú leghe, e in parte mal portuosa per li scogli e montagne e per esservi in altra parte di molti grandi e principali fiumi, come di qui s'hanno a portar tutte le cose necessarie a' navilii, non essendo luogo ond'elle si possino provedere, vi si sono portate e portansi con difficoltà grande. Intervenne di piú in questo che, poi ch'io avevo là nel porto dove tai navilii si fanno tutto ciò che v'era bisogno di vele, capi, gomene, funi, chioderia, ancore, pece, sevo, stoppa, bitume, olio e altre cose, vi s'appicciò il fuoco una notte e s'abbrucciò tutto, non ne rimanendo altro che l'ancore, che non poterono abbrucciarsi. Ora di nuovo v'ho fatta la medesima provisione, per essermi di già due mesi arrivata una nave di Castiglia, in che mi portarono cose necessarie a' navilii, che, per paura di quel che m'intervenne, io avevo di già mandato a domandarle. E io fo certa la Maestà Vostra che a quest'ora mi costano i navilii, non gli avendo per ancora messi in acqua, piú di novemila ducati d'oro, senza altre cose necessarie. Ma laudato ne sia nostro Signor Dio, perchè stanno oramai in termine che a Pasqua del Spirito Santo o a san Giovan di giugno potran navigare, se non mi mancherà bitume, che, sendosi abbrucciata quella ch'io avea, non ho avuto onde provedermi. Io spero nondimeno che me la porteranno a tempo da cotesti regni, però ch'io ho provisto che mi sia mandata. Io apprezzo tanto tai navilii che non potrei significarlo, considerando per certissimo che col mezzo d'essi, se Dio cosí sarà servito, sarò cagione che Vostra sacra Maestà sia padrona in queste parti di piú regni e signorie di quei che sin oggi si sanno nella nazione nostra: piaccia a lui d'aviar tutto secondo ch'ei si serve, e che Vostra Maestà può conseguirne tanto bene, poi ch'io credo che col far io questo non le rimarrà altro da fare.
Come ora sia abitata e si va riedificando la città di Temistitan; dell'arti, traffichi e mercanzie di quella; d'un forte notabile che s'è fatto in detta città.
Poichè fu servito nostro Signor Dio che s'acquistasse questa gran città di Temistitan, mi parve di presente non esser ben a risedervi, per molti inconvenienti che occorrevano, e mi trasferi' con tutta la gente ad un luogo detto Cuyuacan, nella riviera di questa palude, di che ho già fatta menzione. E perchè io desiderai sempre che tal città si riedificassi, per la grandezza e sito suo maraviglioso, m'affaticai di raccorre tutti i suoi terrazzani absenti in molte parti, dalla guerra in qua, e quantunche io abbi sempre tenuto e tenghi ancora il signor suo prigione, feci che un capitano suo generale nella guerra, il qual io conobbi dal tempo di Montezuma, pigliasse carico di farla riabitare: e acciochè fusse di maggior autorità la persona sua, li diedi il carico medesimo ch'egli avea in tempo del suo signore, il quale carico è ciguacoat, che vuol dire come luogotenente del signore. E diedi altre cure di governo in questa città, soliti aversi fra loro, ad altri principali uomini ch'io conoscevo prima, e diedi giuridizione di terre con che ei si mantenessero a questo ciguacoat e agli altri: non però tanta quanta essi avevano prima, né tanta che in tempo alcuno potessero offendere; e mi sono sempre studiato d'onorargli e favorirgli, ed eglino si sono cosí ben portati che sino oggi s'è riabitata la città di piú di trentamila fuochi, e ci si serva l'ordine già consueto ne' lor mercati e traffichi. Io ho dato loro tanta libertà ed esenzioni che ogni dí si riempie piú di popolo, perchè vivono molto a piacer loro. Gli artigiani, che vi è gran numero di mecanici, vivono per giornate cogli Spagnuoli, come legnaiuoli, imbiancatori di case, tagliapietre, orefici e simili arti; e i mercanti si tengono molto sicuramente le lor mercatanzie e vendonle; e l'altre genti vivono alcuni di pescherie, che assai se ne spaccia in questa città, altre d'agricoltura, sendoci oggimai molti che hanno fatti suoi orti e seminatici ortami di Spagna, de' quali s'è potuto aver seme qua. E certifico la Maestà Vostra che s'eglino avessero piante e semi da orti di Spagna, ed ella fusse servita di farceli mandare, come io la supplicai con gli altri avisi, perchè costoro si danno volentieri all'agricoltura e ad allevar arbori, che in processo di poco tempo ne sarebbe qua copia grande; da che ridonderebbe a lei non poco servizio, perchè sarebbe causa di perpetuar di qua e averci maggior entrata e dominio di quel che ora, la Dio mercé, si possede da Vostra Altezza. Al che fare ella si può render ben certa ch'io non mancherò punto, e mi ci affaticherò con tutte le forze e poter ch'io sarò sufficiente.
Operai, subito che s'acquistò questa città, di farci una fortezza in acqua, in parte d'essa dove io potesse tener sicuri i brigantini, e da quello offenderla tutta, se volesse innovare, e dove fusse in mia libertà l'uscire e l'entrare quand'io volesse: e fecesi, ed è talmente fatto che, di quante cose d'arsenali e forti io ho veduto (che ne ho vedute molte), non so a qual d'esse l'agguagliare; e molti che ne han veduto piú di me affermano quel ch'io dico. Egli è in questo modo: egli ha nella palude due torri ben forti, con le sue cannoniere in luoghi convenienti; l'una di queste due torri si porge in fuori dalla cortina verso l'una parte del forte, con cannoniere che spacciano tutta una cortina, e l'altra verso l'altra parte nel medesimo modo. Dall'una all'altra di queste due torri è un corpo di casa di tre vasi, dove stanno i brigantini, la porta dei quali per l'entrata e per l'uscita è verso l'acqua fra esse due torri; e in tutto questo corso di casa sono parimente le cannoniere, in capo al quale verso la città è un'altra molto gran torre, di molti alloggiamenti al basso e all'alto, con le difese e offese per la città. E perchè io ne manderò il disegno alla Maestà Vostra, onde si comprenda meglio, non ne dirò piú particolarità, se non ch'egli è tale che, tenendolo noi, è in arbitrio nostro la pace e la guerra, quando ci piacerà, mentre vi si tengono i navili e l'artegliaria che or vi si tiene.
Fatta questa fortezza, parendomi che oramai io potevo adempir sicuramente il mio desiderio di tirar popolo a questa città, io ci venni con tutta la mia compagnia, e si divisero i suoli per le case fra gli abitatori: nella qual divisione io diedi un suolo per uno a tutti coloro che furono de' conquistatori, in nome di Vostra Altezza, per la fatica passata, oltre a quello che s'ha da dar loro come ad abitatori che hanno ad essere secondo l'ordine di qua. Insino a qui si sono studiati tanto in far le case degli abitatori, che ce n'è gran quantità di fatte, e altre si trovano oramai a buon principio. E per esservi copia di pietra, calcina e legnami e d'assai mattoni, che costoro del paese fanno, essi fanno da tutti cosí buone e grandi case che la Maestà Vostra può credere che, di qua a cinque anni, questa sarà la piú nobile e popolata città e di migliori edificii che alcun'altra sia, dovunque s'abita il mondo. L'abitato da noi Spagnuoli è diviso da quel de' terrazzani, dividendoci un braccio d'acqua, benchè tutte le strade che attraversano l'abitato hanno ponti di legname, per li quali si pratica dall'una parte all'altra. Fannosi due mercati da' terrazzani: l'uno è nel lor abitato, l'altro in quel degli Spagnuoli. In questi si portano d'ogni guisa vettovaglie e robbe che si trovino in paese, dal qual tutto si concorre a vender qua, né qui manca cosa alcuna che ci soleva essere in tempo di prosperità. Vero è che di gioie, d'oro, d'argento, né di piume, né d'altra cosa di gran prezzo non ce ne sono come ci solevano essere, con tutto che si scoprino qualche pezzo fatto d'oro e d'argento, ma piccioli e non come prima.
Il modo che tenne il Cortese per aver artegliaria, e quanti pezzi ora se ne truovi avere. Delle minere di rame, ferro e solfore che si sono ritrovate.
Per le differenze che Diego Velasco ha voluto aver meco, e per la mala volontà che per causa e intercessione di lui m'ha portata don Giovanni da Fonseca, vescovo di Burgos, e per quelli gli ministri della casa de' traffichi di Siviglia, alli quali egli avea cosí commandato, e Giovan Lopez de Recalde, computista di quella, in specie, da' quali dependeva il tutto in tempo del vescovo, io non sono stato provisto d'artegliarie e arme come m'era necessario, posto che molte volte io abbi mandato il denaro per averne. E perchè non è cosa che piú svegli l'ingegno umano che la necessità, io, come uomo che la provavo tanto estrema e irremediabile, poichè questi non lo lasciavano venire a notizia di Vostra Maestà, m'affaticai in cercar modo pel quale non si perdesse in quella quel che con tanto travaglio e pericolo s'era guadagnato, d'onde ne saria potuto venir tanto deservizio a nostro Signor Dio e a Vostra Maestà cesarea, e pericolo a tutti noi che ne troviamo qua. E mi sollecitai grandemente di cercar rame in queste provincie, e acciochè egli si trovasse piú presto, lo pagai per assai riscatto, e avutane quantità feci che un maestro, qual si trovò qua per sorte, ne facesse artegliaria: e fecemi due mezze colubrine, che sono riuscite cosí buone che d'ugual misura non possono esser migliori. E perchè, trovato il rame, mi mancava ancor lo stagno, senza il quale non si può fondere, e per essi due pezzi n'avea trovato con difficoltà grande, costandomi molto, da qualcheduno che n'avevano piatti e credenze, né piú ne ritrovavo di caro né a buon mercato, cominciai ad investigar per tutte le parti s'egli ve n'era in qualcheduna. E volle Dio, che cura e curò sempre a proveder al maggior bisogno, che tra nativi d'una provincia chiamata Tachco se ne scoperse certi piccioli pezzi, in foggia di monete assai sottili, e, seguitando d'investigare, io ritrovai che in quella provincia e anco in altre vi si spendeva per moneta, e con procedere piú innanzi seppi al fine ch'ei si cavava in tal provincia di Tachco, posta lontana da questa città ventisei leghe. E sapute le minere, incontinente io mandai là ferramenti e Spagnuoli, che me ne portarono la mostra, e da quell'in poi ordinai in modo che me n'han cavato quel che mi è bisognato, e se ne caverà piú, secondo il bisogno, benchè con assai fatica. Cercandosi ancor di questi metalli, si scoperse una vena di ferro assai grande, secondo m'informarono quei che dicono di conoscerla. Lo qual stagno scoperto, io ho fatto e faccio ogni dí qualche artegliaria.
Li pezzi che a quest'ora sono finiti sono cinque: due mezze colubrine e due alquanto minori di misura e un cannone, e due sagri ch'io portai quando venni in queste bande, e un'altra mezza colubrina ch'io comperai de' beni dell'adelantado Giovan Ponce di Leon. De' navili venuti in qua io ho, tra tutte l'artegliarie di metallo picciole e grandi maggiori de' falconetti, trentacinque pezzi, e di ferro colato, tra bombarde e passavolanti e altri tiri, sino a settanta pezzi: sí che oggimai, laudato ne sia Dio, ci potremo difendere. E non manco ci ha provisto Dio per la munizione, avendo noi trovato tanto e sí buono salnitro che ne potremo fare provisione per altre necessità, caso che noi avessimo le caldaie da cuocerlo, ancorchè assai se ne dispensa di qua nelle molte imprese che si fanno. Quanto al zolfo, io ho di già fatto menzione a Vostra sacra Maestà d'una montagna qual è in questa provincia, che esala gran fumo, dalla qual, calatovi per la bocca in giuso uno Spagnuolo settanta over ottanta braccia, se n'è cavato tanto che insino a qui ci è bastato; ma d'ora innanzi non aremo necessità a porci in sí fatto travaglio, per esser il luogo pericoloso, e io ogni volta scrivo che ce lo mandino di Spagna, e Vostra Maestà è stata servita che piú non vi sia vescovo che ce l'impedisca.
Come, avendo il Cortese ritrovato due leghe discosto dal porto di San Giovanni un bel sito per fondarvi una terra, con tutte le qualità che si richieggono, vi ha fatto fabricar una città, qual spera ch'abbi ad esser delle migliori della Nuova Spagna.
Dopo aver situata la terra di San Stefano, che s'abitò nel fiume di Panuco, e aver posto fine alla conquista della provincia di Tequantepeque e aver spedito il capitano che andò agli Impilcinghi e a Coliman, di che tutto ho fatto menzione in uno dei precedenti capitoli, innanzi ch'io venissi in questa città andai alla terra della Veracroce e a quella di Medellino, a causa di visitarle e proveder ad alcune cose che n'aveano mestieri in quei porti. E perchè io trovai che, per non aver luogo abitato dagli Spagnuoli piú presso al porto di San Giovanni di Chalchiqueca che la terra della Veracroce, andavano là a scaricarsi i navili, e che, non essendo sicuro il porto come converria, per le tramontane che regnano in quella spiaggia, se ne perdevano molti, andai ad esso porto di S. Giovanni a cercarvi d'appresso alcuno sito per far abitarlo, ancorchè, nel tempo ch'io già vi fui, ci si cercasse con gran diligenza e non trovasse, per esser tutto montagne di rena ch'ogni volta si mutano. Ora io stetti quivi qualche dí cercandolo, e volle Iddio che si trovò due leghe discosto da quel porto buon sito, con tutte le qualità che si richiedono a fondar terra, perochè vi sono di molta legne, acqua e pascoli, salvo che non vi si trova legname né pietre da fabriche, se non molto lontano. Trovossi a canto a questo sito un fiumicello, pel quale io mandai giuso un burchio per vedere se si usciva per quello in mare, o se per quello potrebbono venir barche sino al luogo che vi s'abitasse; e trovossi ch'egli metteva capo in un fiume che esce nel mare, e trovossi in bocca del fiume essere un braccio piú d'acqua, in maniera che, nettandosi il fiumicello, il qual è occupato d'assai legni d'arbori, potriano venir le barche contra acqua a scaricarsi sin nelle case degli abitatori. Vedendo dunque tal sito a proposito, e la necessità del rimedio per li navili, io feci che la terra di Medellino, posta venti leghe fra terra ferma nella provincia di Tatalptetelco, si trasferisse quivi; e cosí fecessi, che oramai vi si sono trasferiti tutti questi abitanti là, e vi tengono fatte le case loro, e si mette ordine a nettar il fiumicello e a fare casa de' trafichi in quella terra, che, ancorchè si ritenghino i navili allo scaricarsi, dovendosi andar due leghe in su per acqua, saranno nondimeno sicuri che non si perderanno. E io credo certo che, dopo questa città, quella sia per essere la miglior terra che sia in questa Nuova Spagna, perchè d'allora in qua vi si sono scaricati navili, e le barche ne vanno con le mercanzie sino alle case di quella, e vi vanno i brigantini. E io procurerò per tanto di tenerlo sí ben in punto che vi scarichino senza una minima fatica, e starannovi da qui innanzi i navili ben sicuri, perchè 'l porto è molto buono. Affrettai medesimamente di far le strade che di là vengono a questa città, con che si darà miglior spacio alle mercatanzie che infin adesso non s'è dato, però che la strada è migliore e si scurta una giornata.
Provisione fatta per il Cortese di caravelle, brigantini e altri navilii per mandar a scoprir uno stretto per il qual si passi nel mar a Mezzogiorno, e l'utilità che per quello, ritrovandosi, ne seguirebbe alla cesarea Maestà.
Nei capitoli passati ho detto per quai parti io ho spedite gente, sí per mare come per terra, ond'io credo che, guidandola nostro Signor Dio, la Maestà Vostra si troverà ben servita, e come io di continuo non occupo in altro il pensiero che in considerar tutti i modi che si possino tenere per effettuar il desiderio ch'io ho di servirla. Vedendo non mi restar altro a questo che saper il secreto della riviera che ci resta a scoprire tra il fiume di Panuco e la Fiorita, per la banda di tramontana, sino che s'arrivi alli Bacagliai, perchè si tiene per certo essere in quella riviera uno stretto per il qual si passi nel mare di Mezzogiorno, e s'egli si trovasse, secondo un certo disegno che ho io della navigazione dove è l'arcipelago che scoperse Magaglianes per comandamento di Vostra Altezza, pare ch'egli uscirebbe molto d'appresso a quello; e sendo servito nostro Signor Dio che per quella banda si trovasse tale stretto, sarebbe il navigar sin d'onde s'hanno le specierie a' reami di Vostra Maestà molto buono e breve, tanto che sarebbe li due terzi manco del viaggio che ora si fa, e senza risico né pericolo de' navili all'andare e tornare; perochè sempre anderebbono per li reami e stati della Maestà Vostra, che, in qualunque necessità occorresse loro si potrebbono riparar senza pericolo in qualsivoglia parte dove volessero pigliar porto, come in terra di Vostra Maestà. E per rappresentarmisi il gran servizio che di qui le resulta, ancor ch'io sia consummato dalle spese e impegnato per li molti debiti e costi dell'altre armate fatte per terra e per mare, e in mantener ordini di legname e artegliarie ch'io ho in questa città e ch'io mando in tutte le parti, e per altre assai spese che m'occorrono tutto il dí, sendosi fatte e facendosi tutte a costo mio, ed essendo tutte le cose di che ci abbiamo da provedere tanto care e di prezzo tanto eccessivo che, ancor che 'l paese sia ricco, l'interesse ch'io ne posso avere non basta alle grandi spese ch'io ho; ma con tutto ciò, avendo rispetto a quel ch'io dico in questo capitolo, e postponendo ogni necessità che me ne possa venire, se ben posso certificar la Maestà Vostra che a questo fine io piglio denari in prestito, ho determinato di mandar tre caravelle e due brigantini in questa impresa, bench'io pensi dovermi costar piú di undecimila ducati, e aggiunger questo agli altri servizii ch'io ho fatti, perch'io 'l tengo per il maggiore se, com'io ho detto, si truova lo stretto. E, posto che ei non si truovi, egli non è possibile che non si scuoprino molti ricchi e gran paesi, onde Vostra Maestà cesarea sia molto servita, e suoi stati e regni s'aumentino grandemente. E di qui, quando anco non si trovasse tale stretto, ne seguirà che Vostra Altezza verrà a sapere che egli non vi è, e ordinerassi in che modo per altre parti ella si serva de' paesi delle specierie e di tutti quei che con essi confinano. E quanto a questa, io da ora me l'offerisco che, sendo servita di comandar ch'io l'abbi (in caso che il stretto non si ritruovi), opererò che Vostra Maestà resterà servita e con manco spesa. Piaccia a Dio che l'armata consegua il fine a che si fa, ch'è di scoprir quello stretto, che sarebbe il meglio: e questo credo io che succederà, poichè nulla si può ascondere alla sua real ventura, e a me non mancherà diligenza, né buono ricapito, né volontà per procurarlo.
Io penso altresí di mandar li navili ch'io ho fatto nel mar a Mezzodí, che a Dio piacendo navicheranno alla fin di luglio del presente anno del 1524, lontano la medesima riviera in cerca di tale stretto, che, s'egli vi è, non si può ascondere a costoro per il mare a Mezzodí, e agli altri per mare a Tramontana: perochè costoro a mezzodí scorreranno la riviera sin a trovarlo o coniunger la terra con quella che scoperse Magaglianes, e gli altri a tramontana sino a congiungerla con gli Bacagliai, sí che o per una parte o per l'altra non si rimanga di saper il secreto. Io certifico la Maestà Vostra che, secondo l'informazione datami de' paesi lungo il lito del mare di Mezzogiorno, mandando per quella banda questi navili io vi averei fatto di gran guadagni; ma, per saper il suo gran desiderio di conoscere il secreto di questo stretto, e il notabil servizio che con scoprirlo si farebbe alla sua corona reale, io pospongo ogni altro profitto e guadagno che mi è di qua assai chiaro, per seguir quest'altra strada. L'incamini nostro Signor Dio com'egli ne sia piú servito, e la Maestà Vostra adempia il suo desiderio, e io parimente il mio, di scoprirlo.
Supplica il Cortese che avendo egli speso da ducati sessantamila delle rendite della cesarea Maestà, e piú di cinquantamila de' suoi, per pacificar i paesi e ampliare gli stati di lei, che, trovandosi esser cosí, gli siano pagati per li ministri ch'ella ha mandato per riveder i conti delle sue entrate reali.
Sono arrivati li ministri che la Maestà Vostra ha fatto venire per attendere a' negozii delle sue entrate e facultà reali, e hanno cominciato a riveder i conti a coloro che avevano dinanzi questa cura, datagli da me a nome di Vostra Altezza. E perchè tai ministri l'aviseranno del ricapito a che insin qui sono state le cose, io non mi stenderò in darle conto particolar di tutto, ma mi rimetterò solo a quel che gliene sarà dato da loro, qual io credo che sarà tale che si potrà conoscer da quello la sollecitudine e vigilanza avuta sempre da me in ciò che s'appartenga al suo servizio reale, e che, se ben l'occupazione delle guerre e la pacificazione del paese è stata tanta quanta il successo la dimostra, io non per tanto mi sono dismenticato di tener special cura di conservare e adunare tutto quel che mi sia stato possibile, di ciò che le è appartenuto e s'è potuto applicarle. E perchè per il calculo ch'essi ministri ne mandano a Vostra Maestà appare, com'ella vedrà, ch'io ho speso delle sue entrate, in pacificar paesi e in ampliar gli stati ch'ella ha in essi, piú di sessantaduemila e tanti ducati d'oro, egli è bene che Vostra Altezza sappia non essersi potuto far altro, perchè, poi ch'io cominciai a spendergli, a me non era già rimaso altro da spendere, ed ero impegnato per piú di trentamila ducati d'oro avuti in prestito da piú persone; e non potendosi far altro, né si potesse eseguir altrimente il suo servizio, come la necessità e il mio desiderio richiedevono, io fui forzato a spenderli: ma non credo che 'l frutto già redondato e che ne ridonderà per l'avenire sia stato tanto poco, che non ci renda piú di mille per cento. E perchè i ministri di Vostra Maestà, con tutto che costi loro come per avergli spesi ella ne sia stato molto ben servita, non me l'accettano ne' conti, con dire che non hanno commissione di questo, io la supplico a comandare che, apparendo ch'eglino sieno stati bene spesi, mi sieno accettati, e mi sieno pagati altri cinquanta e tanti mila ducati d'oro che io ho speso della mia facultà e ch'io ho tolti in prestito dagli amici, perchè, se non mi fussero pagati, non potrei satisfar a coloro che me gli hanno prestati e resterei in grande necessità. Il che non penso io che sia permesso da Vostra Maestà, ma piú tosto che, oltre a far pagarmeli, ella ha da commettere che mi si faccino di molte e grandi grazie, che, oltre all'esser lei tanto catolico prencipe e cristiano, i miei servizii quanto a loro non ne sono indegni, e il lor frutto dà di ciò testimonio.
Come, essendo state tolte le cose che 'l Cortese mandava all'imperatore, ei procurerà di mandargliene di piú preziose, e di quelle che ora li manda, tra le quali vi è una colubrina d'argento, e dell'oro delle sue entrate ducati sessantamila. De' sinistri portamenti di Diego Velasco.
Ho saputo da' sudetti ministri e da altre persone venute in compagnia loro, e per lettere ricevute da cotesti regni, che le cose ch'io mandai alla Maestà Vostra per Antonio di Quignones e per Alfonso d'Avila, partiti di qua procuratori di questa Nuova Spagna, non se le presentorno, perchè furon pigliate da' Francesi, per la mala provisione che mandorno quei della casa de' traffichi di Siviglia, per accompagnarli fin dall'isola degli Astori. E benchè per il gran pregio e novità di tai cose io desiderasse che Vostra Maestà l'avesse vedute, perochè, insieme col servizio che a lei se ne faceva, i miei servigi sarebbono ancor stati piú manifesti, e per questo me ne è incresciuto assai, ma mi sono anco allegrato che le pigliassero, perchè vien per tanto a mancar poco alla Maestà Vostra, e io procurerò di mandargliene dell'altre molto piú preziose e nuove, sí come io n'ho nuova per alcune provincie che io ho di già mandato a conquistare e per altre dove io manderò ben presto, avendo la gente per questo effetto; e i Francesi e altri prencipi alli quali saranno palesi le sudette cose, conosceranno per quelle la ragione ch'egli hanno di sottoporsi alla corona imperiale di Vostra Maestà, poichè, oltre de' molti e gran regni e stati ch'ella possiede in coteste parti, da queste tanto divise e appartate, io, che sono il minor de' suoi vassalli, le posso far tanti e tai servigi.
Per cominciamento adunque dell'offerte mie, io le mando ora per Diego de Soto, mio famigliare, alcune cosette restatemi allora per rifiuto, come non degne d'accompagnar l'altre, e alcune ch'io ho fatte d'allora in qua; che, se bene, com'io dico, mi restarono per rifiutate, hanno pur qualche vista. Io mando con esse una colubrina d'argento, nella qual fonditura vi sono iti 24 cantari e 50 libre, benchè, per essersi fusa due volte, credo se ne sia perduto qualche poco; e benchè ella mi sia costata assai, perchè, oltre al costo del metallo, il qual fu di piú di quattromila e cinquecento ducati d'oro, a ragion di piú di cinque ducati d'oro il marco, con le altre spese de' fonditori e d'altri e di condurla sin al porto ci si sono spesi piú d'altri tremila ducati d'oro, imperò, essendo cosa di tanto prezzo, tanto da vedere e degna di tanto alto prencipe ed eccellentissimo, mi diedi a farla e spenderci. Io supplico Vostra cesarea Maestà che accetti il mio picciol servizio, stimandolo quanto merita la mia gran volontà di farnele de' maggiori, s'io avesse potuto; perchè, ancorchè, com'io ho detto di sopra, io fussi indebitato, io mi volsi ancor piú indebitare pel desiderio mio ch'ella conosca quanto io desideri servirla, sendo io stato cosí mal fortunato che insin qui ho avute tante contrarietati innanti a lei, che non m'hanno dato oportunità con che manifestarle tal mio desiderio.
Io mando medesimamente alla Maestà Vostra oro per 60 e piú mila ducati di quel che le è apertenuto delle sue entrate reali, secondo vedrà per il conto che i suoi ministri e io gliene mandiamo: e ne siamo arrischiati a mandarle tanta somma in una volta, sí per la necessità che appare che ella debba avere per le guerre e altre cose, come perchè Vostra Maestà non si curi molto della perdita del passato. Se ne manderà dopo questo, qualunche volta ci sarà il modo, tutto quel piú ch'io potrò. E creda Vostra Maestà che secondo sieno indrizzate le cose, e che in queste parti s'ampliano li suoi regni e signorie, ch'ella avrà in questi piú sicure entrate senza spesa che in nissun degli altri, salvo se non ci occorrono disturbi, come quelli che infino a qui ci sono occorsi. Dico questo però che due dí fa arrivò al porto di S. Giovanni di questa Nuova Spagna Gonsalvo di Salar, fattor di Vostra Altezza, dal qual ho saputo che nell'isola di Cuba, per dove ei passò, li dissero che Diego Velasco, luogotenente in quella parte dell'almiraglio, avea tenuto modi col capitano Cristoforo Dolid, spedito da me per nome di Vostra Maestà a far abitare le Hibuere, e che s'erano convenuti ch'egli si dichiararebbe col paese per esso Diego Velasco: caso che, per esser tanto brutto e in tanto diservizio di Vostra Maestà, non mi par da credere. Per altra parte però lo credo, conoscendo i tratti che sempre ha voluto usar Diego Velasco per farmi danno e disturbarmi sí ch'io non servi, che, quand'ei non può far altro, procura che non venga gente in queste parti; e, come ei comanda a quell'isola, prende coloro che vi vanno di qua e fa loro di molte oppressioni e aggravii, togliendo lor quel che portano, e li fa provar ciò ch'ei vuole per liberargli, i quali per vedersi liberi dicono e fanno quanto egli vuole. Io m'informerò della verità, e, s'io trovo che cosí sia, penso di mandar per esso Diego Velasco e prenderlo e mandarlo preso a Vostra Maestà, perchè, tagliandosi la radice di tutti questi mali, la qual è quest'uomo, si seccheranno tutti gli altri rami, e io potrò effettuar piú liberamente i miei servigi cominciati e per incominciarsi.
Supplica il Cortese la cesarea Maestà che, per esser alcuni di quelli paesi ben disposti a convertirsi alla nostra santa fede catolica, vogli far valida e gagliarda provisione in mandar persone religiose di buona vita ed esempio, e il modo che li parrebbe doversi tenere per sostegno loro, e fabricar conventi e altre cose necessarie. Dell'affittar delle decime.
Quante volte io ho scritto a Vostra sacra Maestà, le ho detto della disposizione che si truova in alcuni di questi paesi di convertirsi alla nostra santa fede catolica ed esser cristiani, e ho fatto supplicarla che per ciò facesse provedere di persone religiose, di buona vita ed esempio. E perchè sin al presente ne sono venuti qua molti pochi o quasi niuno, e certo è che farebbono frutto grandissimo, gliene riduco a memoria, e la supplico a farci provisione quanto piú si possa in breve, che di ciò sarà molto servito nostro Signor Dio, e s'effettuerà il desiderio che Vostra Altezza ha in questo caso come catolica. E perchè i communi delle terre di questa Nuova Spagna e io mandammo a supplicarla, per li detti procuratori Antonio di Quignones e Alfonso d'Avila, che facesse proveder loro di vescovi e d'altri prelati per l'administrazioni degli ufficii e culto divino, e ci parve allora che cosí convenisse, e consideratosi ora bene, mi è parso che Vostra Maestà ci debba proveder d'altra maniera, a fine che costoro di qua si convertino e possino esser instrutti nelle cose della nostra santa fede. E tal maniera da tener in questo caso a me par che sia ch'ella, com'io ho detto, faccia venir a queste bande molte persone religiose e grandemente gelose del fine della conversione di questa gente, e di lor si faccino conventi e monasteri, per le provincie che a noi parranno convenienti, e si diano lor le decime per fabricar e sustentarsi la vita, e l'avanzo di loro sia per le chiese e per ornamento de' luoghi dove abiteranno Spagnuoli, e per servire in quelle de' sacerdoti. E queste decime si ricuperino da' ministri di Vostra Maestà, i quali ne tenghino conto e ne provegghino ad essi monasteri e chiese, che basterà per tutti, e ne avanzerà anche assai, da servirsene la Maestà Vostra; e che ella supplichi sua Santità che le conceda le decime di questi paesi per questo effetto, facendole a sapere il servizio che si fa a nostro Signor Dio in convertir questa gente, il che non può farsi se non per questa via, però che, sendoci vescovi e altri prelati, ei non cesserebbono dal costume che osservano oggidí per i peccati nostri in disporre de' beni ecclesiastici, con lo spendergli in pompe e altri vizii e in lasciar patrimoni a' lor figliuoli e a' parenti. E ci sarebbe anco altro maggior male, che, dove queste genti al tempo suo avevano persone religiose, quali attendevano alli riti e cerimonie del paese, ed erano tanto ben composte d'onestà e castitade che, se si sentiva in qualcheduno cosa aliena da questo, n'era punito con pena di morte, se ci vedessero le cose della chiesa e del servizio di Dio in poter de' canonici e d'altre dignitati, e sapessero ch'ei fussero ministri di Dio, e gli vedessero usar gli vizii e profanerie che or a' tempi nostri usano in cotesti regni, sarebbe un disprezzar la fede nostra e tenerla come da burla, e di tanto gran danno ch'io credo che non gioveria predica alcuna che lor si facesse.
E poi ch'egli è di tanto momento, e l'intento principal di Vostra Maestà è e deve essere che queste genti si convertino, e noi residenti qua a suo real nome dobbiamo eseguirlo e averne sopra ogni altra cosa cura, come cristiani, ho voluto avisarnela e dirgliene il parer mio: il qual io la supplico ad accettar come di suo suddito e vassallo, che, sí come io m'affatico e m'affaticherò con le forze del corpo che li regni e stati suoi fra queste nazioni s'amplifichino, e vi si dilati la sua real fama e poter grande, io non desidero meno, né m'affaticherò meno con l'anima, a fine che Vostra Altezza faccia seminar fra loro la nostra fede santa, acciochè ella meriti per questo la felicità di vita eterna. E perchè al dar gli ordini, al benedir le chiese e far li sacramenti e altre cose, non sendo qua li vescovi, saria difficile andarne a cercar provisione altrove, Vostra Maestà dee medesimamente supplicar sua Santità che dia sue facultà di subdelegati in queste regioni a due principali persone religiose che ci verranno, l'uno dell'ordine di S. Francesco e l'altro dell'ordine di S. Domenico; e sieno le facultà piú copiose ch'ella potrà impetrare, perchè, per esser queste regioni tanto remote dalla chiesa di Roma, e noi cristiani che ci stiamo e quei che ci staranno tanto lontani da' rimedi per le conscienze nostre, e tanto soggetti a' peccati, come umani, gli è necessario che sua Santità stenda le mani con noi altri in questo, in dare ample facultadi a tai persone, e concedere che ancor l'abbino coloro che succederanno qua residenti, quai saranno o il general o il provincial di ciascuno di questi ordini in questi paesi.
Si sono affittate le decime in queste bande d'alcune terre, e dell'altre si fa l'incanto, e affittansi dall'anno ventitre in qua, perchè degli anni piú adietro a me pare che non sia da curare, sendo stati pochi, e avendo coloro ch'erano di qualche creanza in quei tempi, per rispetto delle guerre, speso piú in mantenersi che non era il profitto che ne cavavano. Se altro comanderà Vostra Maestà che si faccia, si farà quello che piú le sarà di servizio. Si summarono le decime di questa città del detto anno e di questo del ventiquattro per piú di cinquemila e cinquecentocinquanta ducati d'oro; quelle delle terre di Medellino e della Veracroce si prezzano per piú di mille ducati d'oro dei medesimi anni: non si sono sommate, e io credo che monteranno piú. Non ho saputo se quelle dell'altre terre si sono prezzate, perchè, sendo lontane, non me n'è venuta risposta. Si spenderanno di questi danari in far le chiese e pagarne i rettori, i sagrestani e gl'ornamenti, e in altre bisogne d'esse chiese; di che tutto terrà il conto il computista e 'l tesoriero di Vostra Maestà, al qual tesoriere si depositerà tutto il denaro, e quello che se ne spenderà sarà con mia licenza e sua.
Della proibizione fatta per li presidenti circa il trarre da quell'isole cavalle e altre cose da moltiplicare. D'alcuni ordini fatti per il Cortese, acciò gli Spagnuoli e quelli abitatori si conservino, perpetuando.
Io sono anco informato, per li navili venuti ora dall'isole, che i giudici e ministri di Vostra Maestà residenti nell'isola Spagnuola hanno fatto proibire, col mandar bando publico in quell'isola e nell'altre, che non si cavino di là cavalle né altra cosa buona a moltiplicar in questa Nuova Spagna, sotto pena di morte: il che hanno fatto a fine che noi abbiamo sempre necessità di comperar le mandrie e bestiami loro, ed essi ce li vendono per prezzi disonesti. E non dovrebbono però farlo, sí per esser notorio il gran deservizio che si fa a Vostra Maestà in divietare che questa regione si empia di popoli e si pacifichi, poichè e' sanno quanto questo che ci proibiscono sia necessario a sostentamento dell'acquistato e all'acquistar quel che ci rimane, come per la cortesia dell'opere e magnificenze che quell'isole hanno ricevuto da questa Nuova Spagna, e per aver essi in vero ben poca necessità da quello di che non danno le tratte. Io supplico Vostra Maestà che provegga a questo col mandar suo spaccio reale a quell'isole, per il quale qualunque vorrà possa estraer ciò che li piace senza incorrer alcuna pena, e quelli isolani non possino divietarlo, perchè, oltre che lor non mancherebbe nulla per questo, ella ne saria molto deservita, perochè noi non potressimo far niente qua in acquistar cosa alcuna di piú, né meno in conservar l'acquistato. Io mi sarei ben riscosso contra di loro quanto a questo, tal che sarebbe lor stato in piacere riponer le proibizioni e bandi, perchè, col mandar io un altro bando che non si scaricasse qua niente che si portasse da quell'isola salvo lo divietato da loro, sarebbono contentissimi di liberare le tratte, tanto perchè si ricevessero qua, quanto per non aver provisione d'onde guadagnar ben niuno se non per li traffichi di questa regione, i quali innanzi che cominciassero, non si trovavano tra tutti gli abitatori di tali isole mille ducati d'oro, e posseggono ora piú che mai possedessero. Ma, per non dar occasione a quei ch'hanno voluto esser maldicenti di sciorre la lingua, ho voluto dissimular questo per insino ch'io lo manifestassi alla Maestà Vostra, acciochè ella vi faccia provedere secondo le pare che si richiegga al suo servizio.
Io ho similmente fatto saper a Vostra Maestà cesarea la necessità di qua d'aver piante di tutte le sorti, per la commodità del paese ad ogni uso d'agricoltura, e, per non si esser proveduto sino ad ora di cosa alcuna, io la supplico di nuovo, vedendo che ne sarà ben servita, a comandar alla casa di traffichi di Siviglia che non lasci partir navilio il qual non porti in qua certa quantità di piante, che ciò sarà cagione suffficiente all'abitar e perpetuar di qua.
Io, come a chi si conviene procurar ogni buono ordine che si possa per far che s'abitino queste terre, e che gli Spagnuoli abitatori e li nativi d'esse si conservino perpetuando, e la nostra fede santa si radichi, poichè Vostra Maestà mi ha fatto grazia di darmi cargo, e nostro Signor Dio è stato servito ch'io abbi mezzo da venir conoscendolo, e sotto il suo giogo imperiale, ho fatto certe ordinazioni e pubblicatole per bando: e perchè ne invio l'esempio alla Maestà Vostra non mi accaderà dir altro, salvo che, per quanto io ho potuto sentir di qua, è cosa convenevolissima ch'elle s'osservino. D'alcune di loro non si satisfanno molto gli Spagnuoli residenti in queste parti, di quelle massimamente che gli astringono a stabilirsi nel paese, pensando li piú di passarsela con questi luoghi come se la passarono con l'isole che s'abitarono prima, cioè di fruttarsegli e struggerli e dipoi abbandonarle. E perchè parmi che saremmo degni di gran colpa, noi che abbiamo isperienza del passato, se non rimediassimo al presente, e per non mancar di proveder alle cose che ci costa aver rovinate tali isole, tanto piú essendo il paese qui, come io le ho molte volte scritto, di tanta magnificenza e grandezza e da il quale tanto si possa servir Iddio, e per accrescer le reali entrate di Vostra Maestà, io la supplico che si degni far vederle e m'invii la commissione di quello ch'io debba eseguire, secondo che meglio ne sarà servita, sí nelle sudette ordinazioni come in altre di piú che a lei sia servito che s'osservino ed eseguischino. E io terrò sempre avertenza d'aggiungere quel che piú mi parrà convenirsi, però chè, rispetto alla grandezza e diversità de' paesi che ogni dí si scuoprono, e a' molti secreti che ogni dí conosciamo da quel che s'è scoperto, convengono di necessità a' nuovi avenimenti nuovi pareri e consigli. E se in qualcheduno delli già detti, o ch'io arò a dire a Vostra Maestà nell'avenire, le parrà ch'io contradica alli precedenti, creda Vostra Maestà che mi fa dar nuovo parere il nuovo accidente.
Invittissimo Cesare, nostro Signor Dio guardi l'imperial persona di Vostra Maestà, e la prosperi e conservi in augmento di molti maggiori regni e stati lunghissimo tempo al suo santo servizio, con quanto piú ella desidera.
Dalla gran città di Temistitan di questa Nuova Spagna, il quindeci d'ottobre del 1524.
Di Vostra sacra Maestà molto umil servo e vassallo, che a lei bacia i reali piedi e mani,
Fernando Cortese.
Le relazioni di Pietro d'Alvarado e di Diego Godoy sul Guatemala
Di Pietro D'alvarado a Fernando Cortese
Lettere di Pietro d'Alvarado, nelle quali racconta le guerre e battaglie fatte nell'acquisto di Ciapotulan, Checialtenego e Vilatan, e de' pericoli ne' quali incorse, come fece abbrucciar li signori di Vilatan e parimente essa città, e constituí signori i loro figliuoli di due montagne, una d'allumi e l'altra di zolfo.
Signor, da Soncomisco, scrissi a Vostra Signoria tutto quello che insin là m'era successo, e qualche cosa ancora di quel che s'aspettava d'allora innanzi, dopo aver mandato de' miei messi a questa terra, facendo saper qualmente io ci venivo per conquistare e mettere in pace le provincie che ricusassero il dominio di sua Maestà, e domandando aiuto e favore a costoro qui e il passo per il territorio loro, come a vassalli di quella, poichè s'erano offerti tali a Vostra Signoria: il che facendo, essi farebbono da leali e buoni vassalli di sua Maestà, e sarebbono molto favoreggiati e si manterebbe loro buona giustizia da me e da tutti gli Spagnuoli; e che, se ciò non volessero, io protestavo di far loro guerra, come a traditori, ribelli e sollevati contra 'l servigio dell'imperator nostro signore, e li dichiaravo per tali, dichiarando in oltre per gli schiavi tutti coloro che si prendessero vivi nella guerra. Questo fatto e significato a loro per messi della propria nazione, io feci mostra di tutta la mia gente a piè e a cavallo, e la mattina del giorno seguente partii per andargli a trovar nelle proprie case, e marciai tre giorni per un monte disabitato. E avendo alloggiato il campo, le mie guardie pigliarono tre spie d'un luogo del lor paese chiamato Ciapotulan, alli quali domandai quel ch'andavano facendo, e mi risposero: "A raccor del mele", ancorchè, come apparve poi, essi erano notariamente spie; né con tutto questo io gli volsi punire, anzi io feci loro buona ciera, e li rimandai con commissione e richiesta simile alla sopradetta a' signori di Ciapotulan, dalli quali, quanto a questo né ad altro, non ebbi mai risposta. Andato io dunque là, arrivato che vi fui vi trovai tutte le strade aperte e molto larghe, cosí la maggiore come l'altre di traverso, e le strade che andavano alle contrade principali erano turate, onde incontinente li giudicai di mal proposito e che avessero fatto ciò per combattere. Uscirono di là certi mandati a me, che mi dicevano da lontano ch'io entrassi nell'abitato ad alloggiarmi, per combattercisi poi con piú lor acconcio, sí come avevano ordinato. Io mi accampai quel giorno accosto all'abitato, tanto ch'io considerasse il territorio e vedesse che pensiero fusse il loro, e loro subito quella sera non poterono ascondere il lor mal animo, e mi uccisero e ferirono degli Indiani delle mie bande: di che avuto aviso, mandai in quel punto gente a cavallo a stracorrere, la qual s'incontrò in molta gente da guerra e scaramucciarono, e ci ferirono certi cavalli. Il giorno dopo andai a veder la strada che io avevo a fare, e viddi pur gente da guerra, e il paese tanto montuoso di tante macchie e alberi, ch'egli era assai piú forte per loro che per noi altri. Io mi raccolsi all'alloggiamento, e mi partii il giorno appresso con tutta la gente per entrar nell'abitato. Eravi per la strada un fiume cattivo da passare, e l'aveano occupato gli Indi: quivi combattendo con loro ce 'l guadagnammo, e io sopra 'l piú alto della sponda del fiume, in una pianura, aspettai la gente rimasa adietro, per essere il passo pericoloso: e con tutto ch'io andasse col miglior ordine ch'io potesse, correvo gran rischio. Stando in quello alto, loro vennero da molte bande per li monti e m'assalirono di nuovo, e in quella facemmo loro resistenza, sino a tanto che passarono tutte le bagaglie. Ed entrati che fumo nelle case, assalimmo quella gente e seguitammo ad incalzarla meza lega oltre la piazza, e poi tornammo ad alloggiar nella piazza istessa, dove stetti due giorni scorrendo per il paese, dopo i quali mi parti' per andar ad un villaggio nominato Quecialtenago.
In questo giorno passai due fiumi pericolosi, che escono per un sasso tagliato: quivi passai con gran fatica, e cominciai a montar un passo lungo sei leghe, e a mezzo cammino feci gli alloggiamenti quella notte, perchè era il passo tanto aspro e malagevole che a fatica potemmo condurvi i cavalli. La vegnente mattina segui' il mio viaggio, e andando trovai ad una picciola costa, ma erta assai, una donna sacrificata e un cane: la qual cosa, per quanto mi disse l'interprete, significava disfida; andando piú avanti, trovai un passo stretto attraversato con uno steccato di pali molto forte, ma non vi era gente che lo difendesse. Fornito di montar il passo, mandai avanti i balestrieri e la fanteria, perchè non vi potevamo mandar i cavalli, essendo la strada molto aspra; in quella si mostrarono circa tre o quattromila uomini da guerra sopra una elevatura, i quali assalirono i nostri amici, e quelli tirarono a basso, ma noi li porgemmo subito aiuto. E io, stando alla parte di sopra per raccorre la gente e rifarmi, viddi piú di trentamila uomini venire alla volta nostra, e piacque a Dio che trovammo quivi certi piani, e, quantunque i cavalli fussero stanchi e affaticati dal cammino, gli aspettammo finchè ne poterono giugner con le saette: e assaltandogli, essi, che mai avevano veduto cavalli, si sbigottirono di sorte che gli incalzammo per buona pezza, sí che sbandandosi qua e là ne morirono molti di loro. Io aspettai quivi tutta la gente, e, posti di nuovo in ordinanza, andammo ad alloggiare lontani una lega a certi fonti d'acqua, perchè non ne era in quei luoghi, e la sete ci affliggeva di maniera che, essendo stracchi, ogni luogo ne faceva buon riposo. E per essere io quivi il principale, mi posi nell'antiguardia con trenta a cavallo, e molti di noi avevamo tolto cavalli freschi; tutta l'altra gente seguiva in un battaglione, e io smontai a pigliar l'acqua. Ed essendo smontati a bere, vedemmo venirci sopra molta gente armata, e lasciandogli avicinare, perchè venivano per li piani, gli assalimmo, e postigli in fuga li perseguitammo assai, e trovammo tra quella gente che uno aspettava due uomini a cavallo. Noi li perseguitammo ben una lega, finchè giunsero ad una montagna, dove fecero testa. Io mi posi a fuggire con certi cavalli per ritrarli al campo, e vi vennero con noi, finchè giunsero alle code de' cavalli: allora stringendomi con i cavalli mi voltai contra di loro, e si fece grande uccisione, alla qual seguí la vittoria, e vi morí uno dei quattro signori di Vilatan città, il quale veniva per capitano generale di tutto il paese. E io mi ritrassi alle fonti, dove feci gli alloggiamenti, essendo molto stanchi gli Spagnuoli e feriti alcuni cavalli.
La mattina seguente mi levai per andar a Quecialtenago, villaggio lontano una lega, la qual per la passata uccisione trovai disabitata, di sorte che non vi era persona. Quivi mi fermai ristorando me e l'esercito, scorrendo il paese, che è non meno populato che Talcalteque, e né piú né meno quanto ai terreni lavorati, ma è freddo oltra modo. E stato quivi sei giorni, un giovedí a mezzogiorno comparse gran numero di gente da piú parti, che, secondo che da loro intesi, erano di quelli di dentro la città da dodecimila, ma d'altri luoghi circonvicini erano infiniti. E quando gli vidi, posi la gente in ordinanza e andai ad assaltargli nel mezzo d'un piano, che era lungo tre leghe, con novanta a cavallo, e lasciai l'altra gente che guardassino gli alloggiamenti, e che potevano essere un tiro di balestra lontani dal campo. Quivi li mettemmo in scompiglio e li perseguitai due leghe e mezza, sinchè, passando tra loro tutta la nostra gente, non avevamo piú alcuno davanti; dapoi voltandoci sopra loro, i nostri amici e la fanteria facevano la maggior ruina del mondo sopra di quelli in un torrente, e circondarono una montagna senza alberi, ove quelli erano ricorsi: i nostri vi montarono suso, pigliandone quanti vi erano ascesi. In questo giorno furono ammazzati e presi molti di questi popoli, tra' quali erano assai capitani e signori e persone segnalate.
I signori di questa città, quando ebbero inteso la sconfitta della lor gente, s'accordarono con tutto il paese e, convocate altre provincie a questo effetto, diedero ostaggi a' suoi nemici, i quali tutti disposero di unirsi con loro per ammazzarci, e conclusero di mandarci a dire come di nuovo davano obedienzia all'imperatore nostro signore, e ch'io andassi in Vilatan città, dove poi mi condussero con animo d'alloggiarmivi, e poi una notte appiccar fuoco nella città e arderci tutti senza che potessimo defenderci. E averebbono mandato ad effetto il loro mal proposito, se non che Iddio nostro Signore non permesse ch'avessino vittoria sopra di noi, perchè la città è fortissima, e ha solamente due intrate, l'una di trenta e piú gradi di pietra molto alta, e dall'altra parte una strada fatta a mano e lastricata, la qual era tagliata in piú parti: e volevano finir di tagliarla quella notte, perchè niuno cavallo vi potesse passare: e perchè la città è molto spessa di case e ha le vie strettissime, non potevamo a modo alcuno far difesa di non arderci o precipitarci dalle balze. Poichè vi fummo entrati e ch'io mi vidi nella città, che era fortissima e che non potevamo prevalerci dei cavalli, per esser le vie tanto strette e torte, determinai di uscirmene al piano, benchè quei signori mi dissuadevano, dicendo che io mi assettassi a mangiare, e che dipoi mi potrei partire: ma questo facevano per aver tempo di condur ad effetto la loro mala intenzione. Ma io, vedendo in quanto pericolo stavamo, mandai subito a pigliar la via lastricata e il ponte per ridurmi nel piano, la qual via stava in tal termine che appena vi poteva montar un cavallo; ed era d'intorno la città molta gente armata, i quali, poichè mi videro uscito al piano, si ritirarono, ma non già tanto che io non ricevessi danno da quelli. Ma io dissimulavo il tutto per pigliar i signori, che già s'erano assentati, e con destrezza ch'io usai e doni che gli feci per assicurarli io li presi, e tenevoli prigioni nella mia stanza: ma non per ciò si rimanevano i suoi di combattermi d'intorno, ferendo e uccidendo molti de' miei Indiani che andavano per erba; e ad un Spagnuolo, cogliendo erba lontano un tiro di balestra dal campo, sopra un alto, tirarono d'una gran saetta e l'uccisero. Ed è tanto forte il paese, per li molti dirupi che vi sono, i quali hanno cento pertiche di fondo, che non potemmo per tali rotture venir con loro alle mani, né castigarli come era il lor merito. Ma vedendo che col scorrere per il paese e ardendolo potevo ritirarli al servizio di sua Maestà, determinai di arder i signori, i quali dovendo esser arsi dissero (come si vede per le loro confessioni) che essi facevano far la guerra contra di noi, e qual ordine doveano tenere per ardermi nella città, dove m'aveano condotto con tal pensiero, e che avevano comandato ai loro vassalli che non venissero a dar obedienzia all'imperatore signor nostro, che non gli servissero, né facessero per noi altra opera buona. Cosí intendendo la loro trista volontà quanto al servizio a sua Maestà, e anco avendo riguardo alla tranquillità del paese, gli arsi e comandai che fusse arsa la città, rovinandola da' fondamenti, perchè è tanto pericolosa e forte che pare piú tosto uno ridutto di ladri che stanza di cittadini. Ma per cercarli mandai alla città di Guatermala, lontana dieci leghe da questa, a richieder per nome di sua Maestà che mi mandassero gente da guerra, sí per conoscere la loro mente verso di noi, come ancora per tenere il paese in spavento: la città fu contenta di questa mia dimanda e mi mandò quattromila uomini, con li quali e con la gente ch'avevo entrai piú avanti, e facendo correrie li cacciai di tutto il lor paese. Essi, vedendo quanto era grande il danno che gli facevo, mi mandarono suoi messi, facendomi intendere come già si erano disposti di portarsi bene con noi, e s'aveano errato, che questo gli era avenuto per commissione dei loro signori, e vivendo quelli non sarebbono stati arditi di far altramente, ma che ora, poi ch'erano morti, mi pregavano che li perdonasse. Io gli assicurai della vita, commettendoli che venissero alle lor case e che abitassero nella città, come per il passato, a servizio di sua Maestà; e per meglio assicurar il paese liberai duoi figliuoli de' morti signori, ai quali diedi le signorie de' loro padri, e credo che faranno quanto si conviene al servizio di sua Maestà e a beneficio del paese. Al presente non ho altro che dire circa le cose pertinenti a questa guerra, se non che tutti coloro che si presero nella guerra sono stati bollati e fatti schiavi, dei quali si diede il quinto di sua Maestà a Baltasar di Mendozza tesoriero, e questo quinto fu venduto all'incanto, acciochè fusse piú sicura la rendita di sua Maestà.
Circa la terra, fo saper a Vostra Signoria che essa è temperata, sana, e da gente robusta abitata. Questa città è ben fatta a maraviglia, ha lunghi terreni da seminarvi e assai gente soggetta, tutti i quali popoli a quella soggetti e i popoli convicini lascio sottoposti al giogo e al servizio della real corona di sua Maestà. In questo villaggio è una montagna d'alume, una di vetriolo e un'altra di zolfo, il miglior che sin ad ora sia stato ritrovato, e che, con un pezzo che mi fu portato, senza affinarlo né farvi altro, ne cavai diciasette libre di polvere molto buona. E perchè mandai Argueta e lui non volse aspettare, non mando a Vostra Signoria cinquanta some d'esso, ma gliele manderò al suo tempo, in quel modo e per chi meglio si potrà.
Lunedí agli undeci d'aprile mi parto di qua per andar a Guatemala città, dove penso fermarmi, perchè un villaggio posto in acqua, nominato Aticlan, ha guerra con noi e mi ha morto quattro messi. Io penso, con l'aiuto del nostro Signore, di ridurla tosto al servizio di sua Maestà, perchè, per quanto mi sono informato, ho assai da fare piú avanti; per ciò mi piglierò fretta a caminare per poter invernare cinquanta o cento leghe oltra Guatemala, dove mi dicono, e s'intende dagli uomini di questo paese, che di là avanti sono maravigliosi e larghi edificii e città molto grandi. Parimente mi hanno detto che cinque giornate oltre una città molto grande, che è lontana di qua venti giornate, si finisce il villaggio di questa regione, e cosí mi affermano: il che se è cosí, tengo certissimo che ivi sia lo stretto. Piaccia a nostro Signor Iddio di darmi vittoria contra questi infedeli, acciochè io li conduca al suo servizio e di sua Maestà.
Non averei voluto mandarvi questa relazione cosí spezzata, ma tutto continuamente descritto dal principio sin al fine, perchè averei avuto assai piú che dire. La gente spagnuola ch'è in mia compagnia, sí a piedi come a cavallo, s'è portata sí bene in la guerra, la quale se gli è presentata, che tutti sono meritevoli di gran beneficii. Ora non mi resta a dire altro che importi, se non che ci troviamo in paese di gente la piú robusta che fusse mai veduta, e acciochè nostro Signor Iddio ci dia vittoria, supplico V.S. che faccia far processioni per la città da preti e frati, pregando la nostra Donna che ci aiuti, poichè siamo tanto fuori d'ogni speranza d'aver soccorso, se non viene per sua intercessione. V.S. parimente faccia sapere a sua Maestà come la serviamo con le persone e con le facultà a nostre spese, e far questo prima per scaricare la conscienzia di V.S., e poi acciochè sua Maestà ci premii come è convenevole. Nostro Signore conservi lo stato magnifico di Vostra Signoria lungo tempo, come quella desidera.
Di Vilatan, agli undeci d'aprile.
Perchè lungo è quel viaggio ch'ho da fare, penso che mi mancherà li ferri da cavalli: se Vostra Signoria potrà provedermi di quelli per la primavera futura, sarà molto bene e utile a sua Maestà, perchè ora vale tra noi piú di cento e novanta ducati larghi la dozena, e cosí li paghiamo ad oro. Bacio la mano a Vostra Signoria.
Pietro Alvarado
Altra relazione fatta per Pietro di Alvarado a Fernando Cortese
Nella quale si contiene l'acquisto di molte città e provincie, le guerre, scaramuccie e battaglie, tradimenti e ribellioni che vi sono seguite; com'egli edificò una città; di due montagne, una che getta fuoco, l'altra che esala fumo; di un fiume che arde tutto e di un altro freddo; e come l'Alvarado d'una saetta rimase storpiato.
Signor mio, circa quelle cose che sin a Vilatan mi sono successe, sí nella guerra come nella pace, ho dato copiosa relazione a Vostra Altezza; ora vi voglio avisare di tutti i paesi per i quali sono andato e ho conquistato, e d'ogni altra cosa che mi sia succeduta. Cioè, che mi parti' da Vilatan città e venni alla città di Guatemala, dove fui da que' signori sí ben ricevuto che io non saria stato meglio in casa de' nostri padri, e ci fu proveduto di quanto faceva mestiero, di tal maniera che non ci mancò alcuna cosa. Ed essendovi stato otto giorni, seppi da' signori di quel luogo come, sette leghe lontano di qua, era una città molto grande sopra una laguna, che faceva guerra a Vilatan e all'altre città convicine per il commodo ch'aveva dell'acqua e delle barche ch'aveva, e che di là veniva la notte ad assaltare il territorio di costoro; perciò essi, vedendo quanto danno vi facevano, mi dissero come erano verso di noi di buon animo e che stavano alli servizii di sua Maestà, e per questo che non cercavano muover guerra senza mia licenzia, perciò ch'io li provedesse. La mia risposta fu che io li manderia a chiamare per nome dell'imperatore signor nostro, e che, se venissero, li comanderei che non facessino guerra nel lor paese come sin allora fatto avevano; quando che non venissino, io andarei in persona da loro a farli guerra. Cosí mandai subito due messi di que' del paese, ed essi gli uccisono senza riguardo alcuno. Io, quando intesi la loro trista intenzione, mi parti' di questa città per andar contra quelli, con sessanta cavalli e cento e cinquanta pedoni, e con li signori e gente di questo villaggio; e vi andai con tanta fretta che quel giorno arrivai al suo villaggio, e non mi venne alcuno incontro a ricevermi pacificamente, perciò entrai con trenta a cavallo nel loro paese per la costa nella laguna. Quando giunsi ad un scoglio che era situato nell'acqua, vedemmo un squadron di gente molto vicino a noi. Io gli assaltai con quelli cavalli ch'io mi ritrovavo, ma, seguitandogli, essi entrorono per una via lastricata e stretta che conduceva allo scoglio sopradetto, per la qual non potevano andar i cavalli; perciò smontando lí i miei compagni tutti ristretti seguitorono gl'Indiani, e arrivammo allo scoglio cosí presto che non ebbero tempo di rompere i ponti, perchè levandoli non averemmo potuto entrarvi. Fra tanto giunsono molti de' miei che venivano dietro, e pigliammo lo scoglio, che era ben abitato, e tutta la gente di quel luogo si gettò a nuoto verso un'altra isola: e ne fuggirono molti, perchè non giunsero cosí subito trecento barche, d'un pezzo, che erano de' nostri amici, le quali conducevano per l'acqua. Io al tardi usci' del scoglio e alloggiai in un piano di maizzali, ove dormi' quella notte. E la mattina seguente, ricomandandoci al nostro Signor Iddio, entrammo per il paese abitato, il qual era molto forte per le molte roccie che vi erano, e lo trovammo abbandonato, perchè, avendo perduto quel forte ch'avevano in acqua, non ardirono aspettarci in terra, benchè tuttavia ci aspettarono alcuni al confino del paese abitato: ma tanta è l'asprezza di que' luoghi, che non fu ammazzato piú gente. In quel luogo posi gli alloggiamenti a mezzodí e, cominciando a far correrie per il paese, pigliammo certi Indiani del paese, tre de' quali mandai per messi a' signori di quel villaggio, ammonendoli che venissero a dar obedienzia a sua Maestà, sottomettendosi alla sua corona imperiale e a me in nome di quella, altramenti che io seguiria la guerra, perseguitandoli sempre e cercandoli per i monti. Questi mi risposono che sin a quel tempo non era stato sforzato il lor paese, né vi era entrata gente d'arme per forza, ma che, essendovi entrato io, si contentavano di servir all'imperatore nella maniera ch'io gli comanderei: e subito venendo si posono in mio potere; e io gli narrai la grandezza e potenzia dell'imperatore signor nostro, ma che sapessino come io in nome di sua Maestà gli perdonavo tutti i passati errori, perciò che per l'avenire si portassino bene, non facendo guerra ad alcuno de' convicini, i quali s'erano fatti vassalli di sua Maestà. Cosí li mandai via e, lasciandoli sicuri e in pace, tornai a questa città; dove essendo stati tre giorni, vennero a me tutti i signori e principali capitani di detta laguna con presenti, dicendomi ch'erano nostri amici e si recavano a gran ventura d'esser vassalli di sua Maestà, per levar via i travagli e le guerre e le differenzie che erano tra loro. Io li raccolsi lietamente e, dategli delle mie gioie, li rimandai al suo paese con molto amore: e sono i piú pacifici che siano in questo paese.
Stando io in questa città, vennero molti signori d'altre provincie della riviera di mezzodí, nominata dal mar del Sur, a dar obedienzia a sua Maestà, dicendomi che volevano esser suoi vassalli e non volevano guerra con alcuno, sí che io per questa loro causa gli accettassi per tali, e difendendoli gli mantenessi in giustizia. Io gli accettai benignamente, com'era il dovere, e dissi che in nome di sua Maestà li darei favore e aiuto. Allora mi fecero sapere come un altro villaggio, nominato Yzcuititepeche, posti assai infra terra, non li lasciava venir a dar obedienzia a sua Maestà, e che non solamente impediva loro, ma che ad alcune provincie che sono in quel paese, e di buona mente verso gli Spagnuoli, che vorrebbono venire a far amicizia con loro, vietavano il passo, dicendogli dove andavano e che erano pazzi, ma che mi lasciassero andar là, essi tutti guerreggiarebbono meco. Quando fui certo esser cosí il vero, mosso dal desiderio di satisfare a quelle provincie e a' signori di questa città di Guatemala, mi parti' con tutta la mia gente da piedi e da cavallo, e per tre giorni dormi' in luogo disabitato. La mattina del quarto giorno, entrando nel territorio di quel villaggio, che è tutta piena d'alberi molto spessi, vi trovai le strade tutte serrate e molto strette, sí che vi erano solamente sentieri, perchè non contrattava questo villaggio con persona alcuna, né aveva strada aperta; perciò, non vi potendo combattere i cavalli per i molti pantani e boscaglie del monte, mandai avanti i balestrieri. Ma, perchè pioveva sconciamente, l'acqua era tanta che le loro guardie e scolte si ritirarono al villaggio, e, non pensando ch'io giugnessi quel giorno sopra di loro, stracurorono le guardie, né seppero della mia venuta finchè mi ritrovai con loro nel villaggio: e quando v'entrai, trovai i soldati che stavano tutti al coperto per fuggir la pioggia. Quando volsero unirsi insieme non ebbero spazio, benchè alcuni di loro ci aspettarono, e ferirono alcuni Spagnuoli e molti degl'Indiani amici che conducevo meco; e servendosi della foltezza degli alberi e della molta pioggia, si posero per i boschi, senza che potessimo fargli altro danno d'ardergli il paese abitato. Subito mandai messi a que' signori, avisandoli che venissero a dare obedienzia a sua Maestà, e a me in suo nome, se non che li danneggierei assai nel villaggio e li darei il guasto a' maizali. Essi vennero, dandosi per vassalli di sua Maestà, e gli accettai, commettendoli che per l'avenire fussero buoni. E stando in questo villaggio otto giorni, vi vennero piú altri popoli e provincie per aver la nostra amicizia, i quali s'offersero per vassalli dell'imperial signor nostro.
E desiderando penetrare nel paese e saper i secreti di quello, acciochè sua Maestà fusse meglio servita e signoreggiasse a piú larghi paesi, determinai di partirmi di là e andai ad un villaggio nominato Atiepar, dove fui raccolto da que' signori e dagli uomini del paese: questa è una gente da per sé, ch'ha un altro linguaggio. Questo villaggio al tramontar del sole, senza che ne avesse causa alcuna, rimase abbandonato, di sorte che non vi si trovò uomo in parte alcuna. Ma perchè il cuore dell'inverno non mi sopragiungesse e m'impedisse il camino, determinai lasciarli cosí, e passai da lungi con buonissimo ordine nella mia gente e nelle bagaglie, perchè era mia intenzione d'entrar avanti cento leghe e per strade pormi ad ogni impresa che mi si offerisse, fin ch'io avesse veduto tanto paese, e poi dar volta sopra que' villaggi e pacificarli. Il giorno seguente mi parti' di là e giunsi ad un villaggio detto Tacuilula, e qua fecero il medesimo come quelli di Atiepar, cioè che mi riceverono in pace, e indi ad una ora se n'andorono. Di qui partitomi, giunsi ad un altro villaggio nominato Tassisco, che è molto forte e copioso di gente, dove fui raccolto come nelli sopradetti, e vi dormi' quella notte. L'altro giorno mi parti' per andar ad un altro villaggio molto grande, nominato Nacendelan, e temendo di quella gente, perchè non l'intendevo, lasciai dieci cavalli nella retroguardia e altri dieci nel mezzo della battaglia, e cosí mi posi in camino. Non potevo essermi allontanato da quel villaggio di Tassisco due o tre leghe, quando intesi come era sopragiunta alla retroguarda gente armata, la quale aveva ucciso molti degl'Indiani amici e toltomi parte delle bagaglie, tutte le corde delle balestre e i ferramenti che io portavo per l'esercito, e non se li poté resistere. Subito mandai don Georgio d'Alvarado mio fratello, con quaranta o cinquanta cavalli, a cercar di riaver quello che ci avevano tolto; ed egli, trovata molta gente armata, combattendo con quelli gli vinse, ma non si poté ricuperar cosa alcuna delle perdute, perchè già avevano diviso il bottino, e ciascuno portava nella guerra la sua particella. Georgio d'Alvarado, poichè fu giunto a Nacendelan villaggio, tornò adietro, perchè tutti quegli Indiani erano fuggiti alla montagna. Subito mandai don Pietro con gente a piè che andasse cercandoli nella montagna, per veder se poteva ridurgli al servizio di sua Maestà: e non puoté mai far cosa alcuna, per le gran boscaglie che sono ne' monti, e cosí ritornò adietro; e io li mandai messi indiani de' suoi medesimi con richieste, commissioni e protesti che, se non venivano, li farei schiavi, ma con tutto questo non volsero venire essi né i messaggi.
Passati otto giorni che io stavo in Nacendelan, venne gente d'un villaggio nominato Paciaco, la qual era lungo la strada ch'avevamo da fare, ad amicarsi con noi: io gli accettai benignamente e, dategli alcune delle cose mie, li pregai che fussero verso di noi fedeli. La mattina seguente mi parti' per questo villaggio, ed entrando nel loro paese trovai le strade sbarrate e alquante saette fitte in diversi luoghi; entrando per la gente, vidi che certi Indiani facevano in quarti un cane in foggia di sacrificio. Dipoi nel villaggio sopradetto levorono un alto grido, e vedemmo levarsi contra di noi molta gente da terra, li quali noi assalimmo, tanto arditamente combattendo con loro che li cacciammo del villaggio, e gli seguimmo incalzandoli quanto fu possibile. E indi mi parti' per andar ad un altro villaggio, nominato Mopicalco, dove fui raccolto come negli altri; ma quando giunsi al villaggio non vi trovai persona niuna, perciò andai ad un villaggio detto Acatepeque, dove non trovai persona alcuna, anzi era tutto disabitato. E seguendo la mia intenzione di entrarvi a vedere cento leghe di paese, mi parti' per andar ad Acasual, villaggio ch'è battuto dal mar del Sur, e quando giunsi mezza lega vicino al detto villaggio, vidi i campi pieni di gente da guerra, con li suoi pennacchi, divise e arme da difendere e da offendere, nel mezzo d'un campo che ci stava ad aspettare: e giunto che fui vicino a quelli un tiro di balestra, mi fermai finchè giungeva la mia gente, la qual giunta e posta in ordinanza, mi avicinai a quelli mezo tiro di balestra, e non viddi che facessero movimento alcuno di guerra. E parendomi che stavano alquanto vicini ad un monte dove potevano fuggirsi da me, comandai alla mia gente che si ritirasse là, la qual era cento a cavallo e cento e cinquanta pedoni, e cinque o seimila Indiani nostri amici: cosí andavamo ritirandoci, e io rimasi nella coda per farli ritirare. Gli Indiani ebbero tanto piacer di vederci ritirare che ci seguirono fin alle code dei cavalli, e le lor saette giungevano quei davanti, e tutto questo si faceva in un piano, dove né noi né essi potevano intopparsi. Quando mi vidi esser ritirato il quarto d'una lega, dove ciascuno aveva da prevalersi delle mani, diedi volta contra di loro con tutta la gente, e combattendo virilmente ne facemmo sí gran strage che, in poco spazio, non ne rimase alcun vivo di coloro che ci erano venuti contra, perchè erano tanto carichi d'arme che chi cadeva a terra non poteva levarsi. Le loro armi sono casacche di cottone, grosse tre deta, lunghe sin ai piedi, e saette e lancie lunghe, e quando cadevano i nostri pedoni gli uccidevano tutti. In questo incontro ferirono molti Spagnuoli, e me ancora con una saetta che mi passò la coscia e si ficcò nella sella: della qual ferita rimango stropiato, con una gamba piú corta che l'altra piú di quattro deta. Fui astretto di fermarmi in questo villaggio cinque giorni per medicarmi.
Dipoi mi aviai a Tacuscalco villaggio, mandando a far la scoperta don Pietro con altri cavai leggieri, i quali presero due spie, le quali mi dissero come piú avanti era molta gente venuta dal detto villaggio e da altri suoi convicini, che ci stava ad aspettare: e per meglio certificarci andarono sin a vista della detta gente, e viddero che era gran moltitudine. Allora giunse Gonzalo d'Alvarado con quaranta a cavallo, ch'avea l'artegliaria; ma perch'io stavo ancor male della ferita, si stette in ordinanza sinchè giungemmo tutti. Cosí raccolta la gente, io montai sopra un cavallo al meglio che puoti, per dar ordine come si dovesse dar lo assalto, e vidi come i nemici erano un corpo di gente da guerra in ordinanza: e mandai Gomez d'Alvarado che da mano sinistra dovesse dar l'assalto con venti cavalli, Gonzalo d'Alvarado da man destra con trenta cavalli, e che Giorgio d'Alvarado con il resto della gente assaltasse i nemici, i quali veduti da lontano mettevano spavento, perchè la maggior parte aveva lancie lunghe trenta palmi tutte ritte. Io mi posi in un colle per veder come andasse la battaglia, e vidi come tutti gli Spagnuoli giunsero ad un tiro di dardo vicini agli Indiani, ed essi Indiani non fuggivano, benchè fussero assaliti da' Spagnuoli, sí che rimasi stupito che gli Indiani fussero stati tanto arditi d'aspettarli. Gli Spagnuoli non aveano dato l'assalto, pensando che un prato qual era tra loro e gli Indiani fusse pantano; ma, quando viddero come era sodo e fermo, entrarono tra gli Indiani e, avendoli rotti, li perseguitarono per li luoghi abitati piú d'una lega, e fecesi di loro grande uccisione. I popoli piú avanti, quando viddero di non poter resistere, determinarono di levarsi e lasciarci i villaggi.
Stetti in questo villaggio due giorni a goder e ristorar la gente, dapoi mi parti' per andar a Miguaclan, i cui abitatori, sí come gli altri, fuggirono al monte. E aviandomi ad Atecuan, ivi mi mandarono i signori di Cuscaclan suoi messi, per dar obedienzia a sua Maestà, e a dire che volevano esser suoi vassalli e fedeli, e cosí diedero a me obedienzia in nome di sua Maestà: io gli accettai, pensando che non dovessero mentire come fecero gli altri. Quando giunsi alla città Cuscaclan, trovai molti Indiani che mi raccettarono, ma tutta la gente sollevata, e mentre che pigliamo alloggiamento non rimase uomo nella città, perchè tutti fuggirono alla montagna. Quando io viddi questo, mandai a dire a quei signori che non stessero ostinati, e che cosí tornassero come avevano dato obedienzia a sua Maestà e a me per suo nome, assicurandoli a venire, perchè non venivo per offenderli né a pigliar il suo avere, ma solamente per ridurli al servizio del nostro Signor Dio e di sua Maestà. Essi mi mandarono a dire che non conoscevano alcuno di noi, sí che non volevano venire, e che s'io volevo da loro qualche cosa, che mi aspettavano con l'arme. Quando io vidi la perversa intenzione, mandai a comandargli e richiederli per nome dell'imperatore signor nostro che non rompessero la pace e non si ribellassero, poichè già s'aveano dati per suoi vassalli, e che, se contravenivano a questo, io procederei contra di loro come traditori, sediziosi e ribelli contra la servitú che doveano a sua Maestà, e che, facendoli guerra, tutti coloro che fussero presi vivi sarebbono fatti schiavi e bollati, ma che se fussero fedeli io li favorirei e defenderei, come vassalli di sua Maestà: e a questo aviso non tornarono i messi né risposta alcuna. Quando vidi la loro ostinazione perversa, perchè non rimanesse quel paese senza castigo, mandai gente a cercarli per le montagne, i quali furono dai nostri trovati in arme, e combattendo con loro ferirono alcuni Spagnuoli e Indiani miei amici; ma finalmente fu preso un uomo principale di questa città, il quale per mia maggior giustificazione mandai a loro con un altro comandamento e richiesta, alla quale risposero come prima. Subito ch'io vidi questo, feci processo contra di loro e contra gli altri ch'aveano guerreggiato meco, e li chiamai per publici banditori: ma non per tanto volsero venire. Perciò, vedendo la loro ribellione, e che 'l processo era concluso e fornito, gli sentenziai per traditori, dannando i signori di queste provincie a morte, e che tutti gli altri che fussero presi durando la guerra e dopo, finchè dessero obedienzia a sua Maestà, fussero fatti schiavi, e che di loro o del suo avere fussero pagati medici, cavalli che combattendo con loro aveano ammazzati e quanti ne ammazzassino per l'avenire, e parimente pagassino l'arme e altre cose necessarie a questo conquisto che si perdessero. Io passai diciasette giorni sopra questo caso degl'Indiani di Cuscaclan, né mai per assalti che gli feci dare né per messi che gli mandai, come ho detto, puoti indurli che venissino a me, essendo difesi da folti boschi e gran montagne e dirupi, con altri loro forti luoghi fabricativi dalla natura.
In questo luogo s'intese come erano gran paesi e luoghi abitati infra terra, delle città di pietra e calce, e intesi dagli uomini del paese come questa terra non finisce nella regione dove è, perciò che, essendo grande e benissimo popolata, vi farebbe mistiero di lungo tempo a conquistarla. Ma perchè eramo nel mezzo del verno, non passai piú avanti a conquistare, anzi determinai di tornar in questa città di Guatemala, e nel ritorno pacificar le terre che io avevo lasciate di dietro; ma, per quanto feci e m'affaticai, non mai puoti ridurgli al servizio di sua Maestà, perchè tutta questa riviera del mar del Sur per la qual entrai è montuosa, e ha le montagne vicine, dove questi popoli si riducono. Cosí sono ridotto in questa città per causa delle molte acque, dove, per pacificar questo paese sí grande e gente tanto valorosa, ho edificato in nome di sua Maestà una città abitata da Spagnuoli, nominata Sant'Iago, perchè sin qua essa è nel mezzo di tutta la terra, e ha maggior e miglior apparecchio per acquistare e per tener in pace e abitarvi il paese piú adentro. Ho eletto i giudici ordinarii per mantenervi giustizia e quattro governatori, come Vostra Altezza vedrà li nomi loro che le mando.
Passati questi due mesi d'inverno che restano, e che sono i piú aspri di tutti, uscirò di questa città a cercar la provincia di Tapalan, che è lontana di qua quindeci giornate infra terra: e, per quanto sono informato, la sua città è grande come Messico, e ha grandi edificii di calcina e di pietra con terrazze sopra il tetto. E oltre di questa ve ne sono molte altre città, quattro e cinque delle quali sono venute a dar obedienzia a sua Maestà, e dicono che una di quelle ha trentamila case; della qual cosa non mi maraviglio, perchè, essendo grande le città di questa costa, non è fuor di ragione che siano ben popolate come dicono quelle infra terra. La primavera seguente, piacendo al nostro Signore, penso di passare avanti dugento leghe, ove per mio credere sua Maestà sarà servita e aumentato il suo stato, e Vostra Altezza averà notizia di cose nuove. Da Messico città sin dove sono andato conquistando sono quattrocento leghe, e credami Vostra Signoria che questo paese è meglio abitato e da piú gente che tutto quello che Vostra Signoria sin ora ha governato.
In questa provincia abbiamo trovato una bocca di vulcano, cosa piú spaventevole che mai sia stata veduta, la quale manda fuori pietre cosí grandi come una casa, ardendo in vive fiamme, e cadendo si fanno in pezzi e cuoprono tutta la montagna di fuoco. Sessanta leghe piú avanti vedemmo un altro vulcano, che manda fuori un fumo spaventevole che ascende sin al cielo, e il corpo del fumo circonda mezza lega. Niuno beve dell'acqua di quei fiumi che descendono di là, perchè ha odore di zolfo. E specialmente viene di là un fiume principale molto bello, ma tanto ardente che non lo poterno passar certa gente de' miei compagni, che andavano per scorrere in certi luoghi; e cercando il guado, trovarono un altro fiume freddo che entrava in questo, e là dove si univano trovarono il guado temperato, di maniera che poterno passare. Circa le cose di questo paese non ho piú che dire a Vostra Signoria, se non che mi dicono gl'Indiani che da questo mare del Sur a quello di Tramontana è il viaggio d'un inverno e d'una state.
Vostra Signoria mi fece grazia d'esser governatore di questa città, e io aiutai a conquistarla e la difesi quando vi ero dentro, con quel pericolo e fatica che vi è manifesto. S'io fussi andato in Spagna, sua Maestà me l'avrebbono confirmata e fattomi altri beneficii, intesa ch'avesse la mia servitú. Ma ho inteso che sua Maestà l'ha concessa ad altri, né già me ne maraviglio, perchè non ha cognizion di me: e di questo niuno ha la colpa se non Vostra Signoria, per non aver notificato a sua Maestà ch'io sono e la mia servitú in questo paese dove io sono, quanto nuovamente gli ho conquistato, la volontà mia di servir per l'avenire, e come gl'Indiani m'hanno storpiato d'una gamba nel suo servizio, quanto poco soldo sin ad ora io e questi nobili che vengono meco abbino guadagnato, e il poco utile che ci è seguito.
Nostro Signore prosperamente cresca la vita e il magnifico stato vostro per lungo tempo.
Di questa città di Sant'Iago, a' ventiotto di luglio 1524.
Pietro d'Alvarado
Relazion fatta per Diego Godoy a Fernando Cortese
Lettere di Diego nelle quali tratta del scoprimento e acquisto di diverse città e provincie; delle guerre e battaglie che per tal causa furon fatte; la maniera dell'arme da combattere e da coprirsi che usano quelli della provincia di Chamula; di alcune strade molto difficili e pericolose; de' portamenti del reggente, e della divisione de' beni che già furono divisi in quelle bande.
Molto magnifico Signore, io scrissi a Vostra Altezza sin da Cenacantean quello che sin allora mi pareva che si dovesse far sapere a Vostra Altezza, e questo sarà per avisarvi di quanto poi è succeduto, il che mi è paruto convenevole che sia manifestato a Vostra Signoria. Saperà adunque come martedí, che fu il terzo giorno della Resurrezione, a' 29 di marzo, la mattina si partí di qua il luogotenente con la gente per andar ad una terra nominata Guegueiztean, perchè di là era venuto a Cenacantean Francesco di Medina pacificamente, prima che vi venisse il luogotenente, che ve l'avea mandato sin da Chiapa; e mandò me con sei cavalli e sette balestrieri per un altro cammino, perchè andasse a visitar un'altra provincia detta Chamula, perchè medesimamente ero andato pacificamente al luogotenente a Chiapa, per andar poi di là dove egli avea d'andare, perchè non è molto lontano un luogo dall'altro. E per la via che mi guidarono fino alli cinque villaggi piccioli della detta provincia, che sono a vista l'uno dell'altro, erano tre leghe di tristo cammino, per le quali poco potemmo andar a cavallo, e giunti al primo villaggio trovammo come era disabitato, e che non vi era una minima cosa da mangiare, né anco una pignatta né pietra. Questo luogo era in una altura, e descendemmo da quello ad una valle stretta che conduceva agli altri villaggi, che da questa parte ch'io dico ben si vedevano, li quali stavano in un altro fianco molto alto e molto vicini l'uno all'altro, dove per montarvi si faceva una costa alta e tanto aspra che i cavalli, menati a mano, a fatica potevano montarvi. E cominciando a montare vedemmo nella cima del monte, nella medesima strada, un squadron di gente da guerra con le lancie inalberate e lunghe come lancie alla giannetta; e andando all'insú per la costa, vedemmo che per la collina di quel fianco venivano a picciola squadra gl'Indiani, correndo con le sue arme ad unirsi con gli altri che erano nella strada, animandosi e chiamandosi a nome l'uno l'altro. Io vedendo questo, e che il paese che io avevo lasciato adietro, dovendo io ritirarmi combattendo, era tanto pericoloso che, venendo loro a combatter con noi, correvamo gran risico, e correndolo noi lo correvano ancora gli altri Spagnuoli che stavano col luogotenente, determinai per miglior partito di lasciar quell'erta e tornarmi alla terra che mi lasciai di dietro, la qual dissi ch'era disabitata. E di qui li mandai a dire per un Indiano di Cenecantean come s'erano portati male, non acconciando le strade in tal modo che potessimo andar all'insú con li cavalli, perchè altrimenti non potevamo salirvi: perciò che i signori e alcuni de' principali venissino a trovarmi, dove li direi quanto il luogotenente ci aveva comandato che li dicessimo e li facessimo a sapere. Essi mi risposero che non volevano venire, che non andassimo là, e che cosa volevamo da loro: che ritornassimo adietro, altramente che stavano in punto con le sue arme per raccoglierci. Perciò, vedendo questo e sovenendomi del caso d'Almesia, che mi pareva simile a questo, acciochè non accadesse qualche sinistro, come si può credere che sarebbe accaduto per quello che poi successe, sí che sarebbe stato un miracolo a salvarsi alcuno di noi, non potendo combatter a cavallo né ritirarsi, tornarono indietro, perchè il luogotenente con tutta la gente ritornando poi sopra di loro gli avrebbe potuto castigar da vantaggio. E tornando adietro la guida ci condusse per un traverso che abbreviò la strada, sí che al tramontar del sole riuscimmo dove era alloggiato il luogotenente, che era lungo la strada in un bello e largo piano, vicino ad un fiume, circondato da molti e bei pini, a vista di tre villaggi di Cenacantean posti nella montagna che cominciava da questo primo, dal quale sin a Canatan erano due leghe e mezza. Giunti che fummo, feci a sapere al luogotenente ciò ch'avevamo veduto, e ch'io ero di parere che quegli Indiani non restassero senza castigo: il che pareva ancora a lui buon discorso.
La mattina seguente, a' 30 di marzo, di mercoledí, ci partimmo per andar sopra la gente di Chamula, e arrivando nel detto campo le bagaglie, e con loro Francesco di Ledema reggitore a guardare gli alloggiamenti, ci guidarono per un'altra via che conduceva al campo della detta provincia, e vi giungemmo ad ore dieci del giorno. E prima che vi si giunga vi è una gran costa e molto pericolosa per descendere, sí che nel ritorno caddero molti cavalli molto d'alto, ma tuttavia non pericolarono, perchè non vi erano pietre e vi si trovano certe macchie d'erbaggi grandi.
Signor mio, poichè fummo scesi la costa d'intorno il villaggio, ch'è posto in alto, v'è una stretta valle, e credendo che si potesse pigliar subito, dividemmo i cavalli in tre picciole squadre, per circondar il villaggio e dar sopra la gente che fuggisse. Avendo in compagnia de' nostri amici indiani, il luogotenente con la fantaria e gli altri amici, non potendo per modo alcuno montarvi a cavallo tanto era il pericolo, cominciai con destrezza a montar per un fianco ch'aveva una via stretta e in alcuni luoghi tagliata nel sasso. Giunto ch'io fui di sopra, prima che giungessi al villaggio, a canto di certe case, fui con molti sassi e saette ricevuto e con le lancie sopradette: perchè queste sono le loro armi con le quali combatterono, e con certi scudi nominati pavesi che gli cuoprono il corpo da capo a piedi, e quando vogliono fuggire leggiermente gli aviluppano e se li pongono sotto il braccio, e quando vogliono far testa gli stendono subito. Il luogotenente combatté con loro per buon spazio, finchè gli spinse dentro da un bastion molto forte e fatto di questa foggia, che era alto due stature d'uomini e grosso quattro piè, tutto di pietra e di terra interposta, tessuto con molti alberi e fatti per durar lungo tempo; nella parte piú aspra era una scala di gradi molto stretta, che conducono sin di sopra, per la qual vi entravano. Sopra quel bastione erano poste a lungo tavole molto forti e alte come un'altra statura d'uomo, molto ben fermate e con legnami dentro e fuori, e con forti radici ritorte e corde ligate; prima che si giunga al detto bastione, era una palificata di legnami in terra e incrociata una con l'altra, e ligata sí forte che ne stavamo pieni di stupore. Dal sopradetto bastione di pietra, dentro d'un picciol colle che era pieno di macchie, combattevano sí valorosamente e con tante sassate che non vi si poteva entrare da parte alcuna. E stando le cose in tal termine, certi Spagnuoli assalsero la scala credendo entrarvi, e non furono ancora giunti di sopra quando li levarono di peso con le lancie e li fecero andar rotolando per la scala: e il medesimo li fecero due o tre volte che diedero l'assalto per entrarvi, il che era impossibile, perchè di dentro era profondo, sí che valorosamente si difendevano, e ferivano molti Spagnuoli e degli amici; benchè con l'artigliaria e con le balestre se gli faceva gran danno, perchè essi per combattere si scoprivano, e non potevano far altramente e pochissimi colpi si tiravano che non facessero rovina tra loro.
Noi, o Signore, che aspettavamo a cavallo a piè del colle, vedendo come i nemici non volevano fuggire, determinammo di smontare e lasciar i cavalli: cosí, montati di sopra, combattemmo tutto quel giorno sin a notte, perchè si consumò tutto 'l giorno a disfar lo steccato di legname che era avanti il detto bastione. Il luogotenente mandò al campo a pigliar accette, zapponi e pali di ferro per rovinar il bastione di pietra, perchè non vi era altro modo di potervi entrare, perchè non si dimostrava persona alcuna che non avesse venti lancie contra la faccia. Venuta poi la notte, ci ritirammo in due o tre case, dalle quali si combatteva tenendo tuttavia buone guardie; il che fecero ancora quei di dentro, che tutta notte fecero gran strepiti e alti gridi, sonando tamburi, e ci lanciavano spesso pietre e talora saette, e udivasi lo strepito delle pietre che scaricavano.
Subito che fu giorno cominciammo a battere il bastione, e levando il sole vennero l'accette, i zapponi e i pali di ferro, le quai cose avevamo mandato a torre: cosí cominciammo a rompere il bastione. E quando si cominciò a rompere, i nostri amici indiani vennero con facelle di paglia accese, e le lanciavano alle tavole sopra il bastione per arderle; ma sí tosto come le tavole cominciarono ad ardere, vennero essi con vasi d'acqua ad estinguerlo. Ma prima che questi venissero, avevano fatto una certa loro difesa, dalla quale gettavano acqua bollente con cenere e calcina. Combattendosi in questo modo, ci lanciarono fuori un pezzo d'oro, dicendo che ne aveano due masse, acciochè entrassimo a pigliarle, dimostrando in questo di far poca stima di noi. Ed essendo passato mezzodí e quasi ora di vespro, avevamo già fatto due gran bocche, per le quali entrando ci stringemmo di maniera con loro che combattevamo a faccia a faccia con essi, e loro come fecero da principio stavano fermi, sí che i balestrieri senza torgli di mira appresentavano le balestre ai lor petti, e scaricandole spesso gli atterravano. Durante questo conflitto sopravenne una grandissima pioggia, con nugole tanto scure che non vedevamo l'un l'altro, sí che fu forza ritirarsi dal bastione alle case: e durò la pioggia ben tre ore. E sparita che fu la nugola tornammo alla battaglia, ma ci trovammo scherniti, perchè, quanto si comprese, quando si viddero stringere la notte passata e quel giorno, ad altro non avevano atteso che a levar le robbe con le donne e fuggirsi: perciò poichè fummo ascesi sul bastione non vi trovammo persona, ma, perchè si credesse che vi fussero, lasciarono le lancie appoggiate al bastione ritte e in modo che si vedevano di fuori. Noi entrammo avanti nella terra, ma vi si andava con gran fatica, perchè ad ogni cinque o sei case vi era un forte, e i torrenti tanto grandi, perchè era piovuto, che non potevamo andar avanti senza cader spesso. I nostri Indiani seguirono i nemici sin a basso, e presero donne, fanciulli e alcuni uomini. Medesimamente aveano appoggiato le lancie alle case, per dare ad intendere che fussero dentro. Stemmo qua il giorno e quella notte, dove trovammo robba assai da mangiare: e ben ne avevamo bisogno, perchè i due giorni passati non avevamo mangiato, non ne avendo per noi né per li cavalli; ma non vi trovammo altra cosa. Intendemmo da quei prigioni come il giorno avanti erano stati ammazzati dugento uomini, e che in quel giorno ne erano morti tanti che non gli avevano annumerati; e ci dissero come era stata con loro gente dell'altra provincia di Guegueiztean.
Al primo d'aprile, di venere, tornammo agli alloggiamenti, e perchè gli Spagnuoli si riposassero, sendo feriti li piú di loro, e si facesse provisione di cose necessarie, perchè se n'era consumata gran parte, vi restammo anco il sabbato appresso.
Domenica a' tre d'aprile, dopo udita messa, ci partimmo per andar al detto villaggio e provincia di Guegueiztean. Il cammino sinchè si giunge a vista di questo villaggio, che è capo della provincia, è tutto buono e piano, con buoni pini e un monte senza alberi; prima che si giunga alla provincia è una gran costa che scende sin al basso, e il villaggio è sopra un alto. E vedemmo come da un altro villaggio per una collina molta gente correva con le sue arme a porsi nel detto villaggio, dove quando fummo giunti ci parvero molto grandi i loro bastioni, ma non tanto forti come quei di Chamula; ma perchè essi erano informati di quanto s'era fatto in Chamula, abbandonando il villaggio e i bastioni, molti di loro si posero a fuggire per un fianco di certi colli, e la maggior parte per una bassa valle e seminata di maiz. Ma perchè noi non vi avevamo posto buon ordine, non ne furono ammazzati e presi piú di cinquanta, e tutti uomini, perchè il luogotenente non volse aspettare che fusse giunta tutta la gente, ma si fece avanti con cinque o sei cavalli che eravamo con lui, e seguimmo per la strada dietro a quelli che andavano per il fianco; ma perchè ci trovavamo nell'alta parte, e le strade erano molto aspre, ne aggiugnemmo pochi, i quali uccidemmo, e furono prese molte donne. Quei che fuggivano da basso empievano la valle, di maniera che camminavano con gran fatica, ma tardò tanto a giungere la nostra gente che tutti se n'erano andati. Tutti lasciarono l'arme, come quelli che si tenevano perduti, e noi cinque o sei cavalli che andavamo col luogotenente seguimmo, finchè si giunse ad un altro villaggio piccolo mezza lega avanti, e ben forte, dove aspettammo la gente, e per commissione del luogotenente vi facemmo gli alloggiamenti.
L'altro giorno, che fu il lunedí, il luogotenente mandò Alfonso di Grado con certe gente ad uno villaggio che si vedeva sin di là, per una casa bianca lontana due buone leghe, come narravano quei che v'erano stati, e dicevano che ivi s'era raccolta assai gente: quel luogo li pareva molto forte, per esser situato nella piú alta parte della montagna. E tornò la notte seguente, dicendo che non aveva trovato cosa alcuna. Da questo villaggio, che è capo di Guegueiztean, si veggono dieci o dodeci villaggi d'intorno a quello, tutti nella montagna, e sono a quello soggette. La valle a basso è molto bella e ben coltivata, e scorre un picciol fiume per quella. Tutti i villaggi di questo paese sono di tal qualità che guerreggiano l'uno con l'altro. Il luogotenente mandò di qua un Indiano di quelli ch'aveva, a dire a quei signori che venissero a far la pace, e gli aspettò quel lunedí e tutto 'l martedí, ma non venne persona.
Il mercoledí, a' sei d'aprile, ci partimmo dalli sopradetti villaggi ritornando a Canacantean, e seguimmo il cammino a Cematan, perchè, vedendo come i villaggi che si rendevano pacificamente cosí tosto si ribellavano, tutti gli Spagnuoli perderono la speranza; benchè poi la ricuperassimo assai buona, vedendo come si scoprivano molti luoghi abitati che venivano ad amicarsi con noi, donde gli Spagnuoli erano spinti dall'ingordigia di chieder le stanze e possessioni in quei luoghi. Cosí, avendo mutato parere, dicevano come era bene passar avanti, perchè quel paese era tale che non vi era uomo il qual ardisse di pigliar alcuno Indiano. Il luogotenente, vedendo questo, era della istessa mente, perchè non era uomo che non venisse ad affirmare quel medesimo: perciò, come ho detto, ritornammo adietro a Cenacantean, e di qua Alfonso di Grado andò a Chiapa, dove fu ben raccolto da altri Spagnuoli che erano andati a veder altri luoghi dal luogotenente a loro assegnati.
Stando in Cenacantean intesi come Francesco di Medina era stato la causa che queste due provincie si ribellassero: feci inquisizion contra di lui e, presolo, tolsi il suo constituto. Ma perchè, se fusse punito in questo luogo, gl'Indiani non lo potrebbono sapere, perchè mai non erano venuti a noi pacificamente, perchè stavamo per partirci, lo lasciai con sicurtà che giungendo a questo villaggio potesse proceder contra di lui. Ora, Signor, lo tengo prigione con buona guardia, e si farà giustizia. E perchè sappi V.S. in qual modo esso gl'indusse alla ribellione, mandovi la copia del processo, col quale Vostra Altezza vederà il tutto: perciò non mi estendo a ragionar sopra di questo caso.
Lunedí, che fu agli undeci d'aprile, ci partimmo da Cenacantean, e venne col luogotenente il signor accompagnato da alcuni Indiani, e fu sempre con noi sin a Cematan, e poi sin che giungemmo su quel de' nostri amici, accompagnandoci sempre e molto volentieri. E in questo giorno andammo a dormire lontano tre leghe, tra certi pini, a vista d'uno villaggio soggetto a Cenacantean, dove ci aveano fatta buona compagnia e spianataci la strada: qua ci providero gl'Indiani bene da mangiare. E il martedí andammo avanti tre leghe ad altre capanne, ove certi popoli ci portarono da mangiare, e da questi intese il luogotenente assai cose, come faceva da ciascuno Indiano che li veniva avanti. Io non ne do aviso a V.S. perchè non le intesi.
Il mercoledí camminammo tre leghe e mezza a certe capanne, e qua vennero certi Nagatuti di Apanasclan provincia, i quali altre volte erano venuti ad amicarsi con noi, e con loro certi Indiani di Michiampa, mandati dal luogotenente con li detti Nagatuti. Questi ci portarono un poco d'oro e un carcasso con certi ferri da saette, e dissero come quel Spagnuolo che era governatore in Sancomisco gli avea comandato che le facessero per Pietro d'Alvarado: né so se questa provincia o popoli che stanno d'intorno a Sancomisco gli sono soggetti. Gl'Indiani che vennero erano di bonissimo animo verso gli Spagnuoli, il che deve esser cosa buona, quanto noi tutti crediamo. Dissero ancora come Pietro Alvarado era entrato in Velatan, e che, fattavi la guerra, aveva morto assai gente; affirmarono ancora che dal suo villaggio sin a Velatan non vi erano piú di sette giornate, da Chiapa al loro villaggio tre giornate, sí che, per quanto dicevano gl'Indiani, da questo villaggio a Velatan possono esser cento leghe o poco piú. Vennero qua altri Indiani d'altri villaggi ad offerirsi per amici al luogotenente, e d'un altro villaggio detto Guzitempan, e d'un altro nominato Tesistebeque, che ci portarono un poco d'oro. Il luogotenente mandò con costoro duoi Spagnuoli a veder quei paesi.
Il giovedí avanti ci partimmo da queste capanne e andammo a dormire lontano tre leghe, dove erano anco altre capannuccie e spianata la strada. Ivi comparve una persona di presenzia onorata, dicendo come era il signor di Catepilula ch'avea fatto far tali capanne, e, portataci vettovaglia in copia, ci disse come avea spianato il cammino sin al suo villaggio, sí che gli comandasse quanto li piaceva: di che il luogotenente gli rendé molte grazie.
Il venerdí ci partimmo da queste capanne per andar a Catepilula, che pareva esser lontana tre leghe, ma peggior strada che fusse mai veduta; sí che, se gl'Indiani non l'avessero accommodata, era impossibile andar avanti, anzi di certo saremmo tornati adietro, perchè essa era piena di montagne alte e aspre, con una lega e mezza di smontata, sí difficile che non poteva esser piú pericolosa, perchè dalla parte d'un fianco erano certi profondi precipizii e, dall'altra, il sasso tanto rozzo che non potevano i cavalli fermarvi i piedi. Ma l'aveano essi Indiani tanto bene acconciata con palificate che la fermavano alla smontata del fianco, e con grossi legnami fortemente ligata, e postavi terra assai, tanto che l'opera era ridotta a quella perfezione che era possibile, e in qualche parte aveano tagliato della istessa pietra, e tagliati alberi infiniti per spianar il cammino che era da quelli impedito, e vi era alcun albero che fu misurato nove palmi per diametro e altri alberi molto grossi: il che manifestava come l'aveano fatta volentieri, e che vi si era adoperata molta gente, e in vero, se vi si fussero adoperati gli Spagnuoli con gl'Indiani a farla, non sarebbe stata meglio assettata. Discesi che fummo da questo passo difficile, ci condussero ad alloggiare fuori del villaggio, a certe capanne che ci aveano fatte, e il signore vi venne con un presente d'oro e alquante penne, con certi uccelli morti che le fanno; molta della sua gente ci portò vettovaglia in copia e, servendoci di quanto faceva mestiero, ci portavano acqua e legne. Questo villaggio e altri che li danno obedienzia sono in una bella valle lungo un fiume, con montagne da un capo e dall'altro. E vennero qua altri popoli per pacificarsi con noi, e portarono vettovaglia e alquanto oro al luogotenente; e per aspettar gli Spagnuoli mandati dal luogotenente a Guitempan, stemmo in questo luogo quattro giorni, sinchè vennero certi Indiani con una berretta di quei Spagnuoli, a dirci come quelli andavano per altra via a riuscire ad un villaggio ove noi dovevamo andare. Vennero qua certi Indiani dei Zapotechi, i quali erano andati ad abitar da Chiapa a Quicula, perchè è vicino a questo villaggio, e venivano a portar da mangiare senza prezzo e veder che cosa gli fusse da noi comandata.
Il mercoledí a' venti d'aprile ci partimmo da Apilula per seguir il nostro cammino, e, allontanati due leghe, giugnemmo ad un villaggio lungo la riva del fiume di Chapilula, posto tra certe montagne e soggetto ad un altro posto avanti a Silusinchiapa: e poteva esser lontano due leghe da quel luogo, ove giugnemmo in questo giorno. Fra queste due leghe sono altri piccioli villaggi che li sono soggetti, e tutti posti su la istessa riviera del detto fiume tra le montagne. La strada che conduce a questo villaggio Silusinchiapa è tanto aspra che non so come poter narrarlo, quantunque in vero gli uomini del paese l'aveano spianata e assettata al meglio ch'era stato possibile, avendo riguardo alla qualità del luogo; tuttavia passammo con gran fatica, e i paesani ci raccolsero amorevolmente, provedendoci di vettovaglia d'avantaggio, e alloggiando noi in quel luogo la medesima notte. Il giovedí e il venerdí non fece altro che piovere tant'acqua che il fiume crebbe di sorte che, essendo questo villaggio tra montagne, e scorrendo il fiume lungo la strada molto furibondo, non potemmo andar avanti né indietro. In questo spazio di tempo gl'Indiani tutti di questo villaggio se n'andarono, né piú tornorno, né comparve alcuno di loro: non saprei dire per qual causa se n'andarono, avendoci tanto benignamente raccolti e affaticatosi a spianar la strada.
La domenica, poichè fu cessata l'acqua, il luogotenente mandò certi pedoni a veder se potevano trovar alcune genti, i quali tornarono senza aver trovato cosa alcuna. Nei giorni che stemmo qua, mentre che non piovve, cercammo per questo fiume, parendoci che fusse di qualità di produr oro, e vi trovammo alcune particelle tanto sottili che erano come nulla: ma vi si cercò come da scherzo, perchè non vi erano gl'istromenti da cavarlo. Il luogotenente mandò sin di qua un comandamento agli uomini d'un villaggio detto Clapa, piú avanti di queste: come si dice, è soggetto a Cematan.
Il lunedí ci partimmo e andammo avanti due leghe e mezza, ad un villaggio soggetto a Cematan, nominato Estapaguaioia, ch'aveva da cinquecento case. E tutta quella strada si fa per il detto fiume, il qual si passa piú volte, sí che noi vi passammo con gran fatica, e alcuni Spagnuoli corsero gran pericolo per esser la strada tutta piena di scogli, e il fiume, che corre velocissimamente, ha di molte gran pietre. E veramente credo che i cavalli non mai fecero il peggior cammino per tutto 'l mondo, e perchè ci partimmo di giorno, avemmo assai che fare a giungervi al tramontar del sole, senza mai posarsi. Tutti i cavalli erano sferrati e stanchi dalla molta fatica, e ne caddero alcuni nell'acqua, i quali corsero gran pericolo.
Questo villaggio è buono e molto dilettevole, e ha una buona piazza e case e buoni alloggiamenti, con una bella valle di terreno coltivato lungo il detto fiume, e con montagne da amendue i capi, ma non tanto alte come le passate. Il giorno dietro, che fu martedí, il villaggio rimase disabitato. Perciò l'uomo, quando pensa di non aver piú che domandare, allora comincia a mordere e danneggiare, sí che, quantunque ogniuno che vuol contrariar con lui stia bene attento, nondimeno una volta overo un'altra lo farà errare. Non so qual trista sorte sia questa dell'uomo, che quando parla finge e inganna, tuttavia par che lo faccia per bene, e quando l'uomo si tiene d'esser sicuro e fermo dell'amore d'un altro, allora subito colui procura di farlo errare, con certi tratti che la persona non sa come intenderla in bene o in male. E io credo veramente che non potrà vivere alcun in pace dove si troverà un tal uomo, cosí quest'uomo non doveria stare se non dove sta Vostra Signoria, perchè non sarebbe ardito a muoversi: e tutti crediamo che, non stando lui in questo villaggio, viveremo pacificamente, e non saremmo stati quando egli non vi fusse venuto. E credami Vostra Altezza che l'uomo non si può separare da lui, quantunque lo procuri. Io vi scrivo questo perchè gli è cosí in effetto, e anco perchè Vostra Signoria lo conosce molto bene.
Io, Signore, partitomi di questo villaggio dal capo di Compilco venni avanti, sí perchè ero indisposto del corpo, come per visitar alcuni piccioli villaggi soggetti a Compilco, delli quali Vostra Signoria fece grazia a Pietro Castellar e a me, in duoi delli quali non trovammo persona; nelli altri duoi erano circa trenta uomini indiani per ciascuno, e ci diedero da centomila mandorle di massa di mistura di metalli, che chiamano cacao, e circa quaranta ducati d'oro e di rame, e dissero come tutta la gente era morta. Cosí passai da lontano e venni a questo villaggio, e avanti ad un poggio mi cadde morta una cavalla, di due ch'aveva, e un cavallo ch'avea condotto per servirmene alla guerra: questo cavallo ch'era mio, dei buoni del paese, quando mi parti' di questo villaggio, ed era infermo a morte, la qual infermità egli aveva contratta per la molta fatica ch'io gli diedi per il cammino. E sappia Vostra Altezza che quando ci partimmo di questo villaggio tutti noi da cavallo, avanti il luogotenente, il podestà di giustizia e i reggitori, ci obligammo che se alcuna bestia morisse o si storpiasse, non vi essendo da pagarla dell'entrata, che la pagassimo tra tutti: e perchè il luogotenente aveva diviso l'oro, non vi era piú di che pagarlo. Dimandai che mi facessino pagare o di quello che sua Signoria aveva avuto o tra tutti, come s'avevano obligato, e quantunque mi fusse costato ducati ducento e trenta, e ne puoti avere ducento e cinquanta, tuttavia me lo tassarono ducento, e alcuni cominciarono a dire che se la facevano pagare si partirebbono da quel villaggio. Allora io dissi: non voglia Iddio che per pagarmi una cavalla se n'andassero, e che non volevo far tal dimanda, perchè Vostra Signoria me la farebbe pagare, se fusse di giustizia. Vi supplico adunque ch'avendo riguardo al disio col qual io andai a servire, con tanto incommodo del mio cavallo che condusse quasi morto, e d'un poledro che mi cadde d'una balza e si storpiò d'una coscia, e d'un altro poledro che mi morí, poichè il guadagno il quale facciamo dagl'Indiani non lo concede, Vostra Signoria si contenti che mi sia pagato dell'oro che s'è avuto o di quello che si obligarono. Scrivo al presente questo a V.S. acciò quella lo sappia, ma io vi manderò prima informazione di questo, come tutti s'obligarono in persona, perchè io lo procurai, acciochè Vostra Signoria mi faccia grazia di mandar un comandamento a questo effetto.
Poichè fummo venuti in questo villaggio, a me parve come sarebbe cosa buona che venisse avanti Vostra Signoria un procuratore, ch'avesse relazione di tutti i successi, e informassivi sí circa le divisioni di ciascuna cosa e di chi ha e chi non ha, per supplicarle e chiedere che Vostra Signoria ci facesse grazia di quelle cose che questo villaggio ha bisogno; e parlai sopra di ciò al luogotenente e ai reggitori, i quali tutti conchiusero che gli era ben fatto, e si rimase che l'altro giorno ci riducessimo insieme a ragionare di questo; ed essendo uniti, trovammo Giovanni di Limpias e Bustamante molto dissimili di parere, sí che Vostra Signoria sia informata di quanto si conviene, come non giovò cosa alcuna a rimoverli della loro opinione, e volevano che si aspettasse Mormoleo, il quale, come si disse qua, è andato là dove sta Pietro d'Alvarado. Non so a chi assegnar questo, se non a poca cura che si pigliano di guardar a quello che si conviene alla republica. Ed essi sono piú ricchi d'Indiani che posseggono che qualunque altro di noi che abiti in questo villaggio, perchè Giovanni Limpias e suo fratello hanno il capo o frontiera di Quachula, ch'è il miglior luogo che sia qua, e un altro capo nominato Anaclansiquipila, villaggio buono, Quenchula e altri villaggi soggetti a quello, e a canto a questo villaggio il luogo di Cateclesiguata Sabion, nominato Anazanclan, che sono villaggi sí buoni come Caltiva; Bustamante solamente con una sua cedula ebbe da Vostra Signoria per grazia la metà di Ultapeche e de' suoi soggetti, in compagnia di Tapia, e la metà di Tilcecapan, che costeggia questo villaggio ed è buon luogo. Ancora possiede a canto a Quenchula e a Teapa e di sopra altri otto o dieci villaggi, delli quali Vostra Signoria non ne sa alcuni, perchè, quando facesti grazia di Ultapeche e di Tilcecoapan, questo avenne perchè vi dissero come non possedevano alcuno vassallo indiano, e ora egli possiede tanto che non è venuto a notizia di Vostra Signoria, che potrebbe bastare a due de' nostri abitatori in questo paese, come dicono tutti. Quando io viddi questo, conobbi come ad essi non piaceva che si scrivesse a V.S. quel che era di ragione che sapesti, perciò determinai di scrivere il mio parere. Supplico Vostra Signoria che accetti la mia sincera e buona volontà, che è parata ad ogni cosa che toccherà al servizio di sua Maestà e di V.S. e al bene della republica. Quanto agl'Indiani e alle divisioni, saprà V.S. che molti abitatori di questo villaggio già piú giorni posseggono Indiani senza averne titolo alcuno da Vostra Signoria, e credo ancora che non gli abbia assegnato loro l'ufficiale maggiore per nome vostro. Alcuni tengono masnade di popoli, e altri, perchè non hanno Indiani, si partono da questo villaggio: e dico masnade e gran copia di popoli perchè gli è cosí in fatto; e alcuni che non ne hanno sono cosí meritevoli e forse migliori d'averne che quelli che ne posseggono, parlando tuttavia di coloro che ne hanno di soverchio, rispetto ad altri che con la buona servitú meritano piú di loro. Sí che, Signore, non intendo come vadino le cose circa questi Indiani, né in qual modo alcuni di loro servono. Veggo bene che da tutti si cava poco utile, ma ne cavano meno que' che non hanno alcuno, e non ne avendo si partono di qua, i quali non si partirebbono quando si satisfacesse loro di quello che ad altri sopravanza, perchè, conformandosi alle divisioni fatte a persone le quali Vostra Signoria vuol ristorare, alcuni hanno di piú: ed è bene che tutti ne abbino, perchè vi è il modo di dargliene e di contentarli. Ma, dovendo Vostra Signoria sapere quanto ciascuno possiede, questo non si può far per via di visita né di assegnamento che egli abbi avuto o che ordini Vostra Signoria, se quella non manda espresso comandamento che si debba sapere chiaramente ciò che possiede ciascuno, in qual parte e con qual titolo, altramente V.S. non mai sarà ben informata per poter dar a tutti, come è di vostro desio e che ricerca la ragione, avendo riguardo a quelli che se gli deve. E in questo comandi V.S. come piú le aggrada, ma, per mio parere, quel che io dico sarebbe utile per quanto s'appartiene al bene commune di questa republica, prima che V.S. confermi e faccia le divisioni; perchè, altramente facendo, quelli che non hanno qua la debita provisione se n'andaranno, come vedrete per opera, e che già cominciano a partirsi.
Io lascierò di scrivere alcuna cosa in questa parte per non dir male d'alcuni, ma perchè mi spiace assai che alcuno sia ingrato a Vostra Signoria di que' beneficii ch'essa gli fa, e per quanto s'appartiene a tutti gli abitatori di questo villaggio, sappia Vostra Signoria che alcuni conoscono gli avuti beneficii e alcuni no, e avisovi come, andando per questi viaggi passati, Bustamante reggitore, quanto di lui si narra, disse piú volte che vorrebbe piú tosto esser un cimice che reggitore di questo villaggio. Non creda Vostra Signoria che se io l'avesse udito, che me ne fussi passato cosí di leggiero, né manco s'io l'udisse: ma perchè l'avea detto avanti al luogotenente, me ne tacqui per onore di quello. Ora son certo che egli l'ha detto, perchè un giorno Giovanni di Salamanca venendo in parole di questo con lui, e affermando ch'aveva parlato male, Bustamante rispose che lo aveva detto per conoscere di che animo fussero gli altri. Consideri adunque Vostra Signoria quanta cura si piglierà egli di far quanto s'appartiene al reggimento, oltra piú altre triste qualità che sono in lui, delle quali Vostra Signoria si potrà informare da quanti vengono là; e vi aviso di questo perchè so come V.S. è mal informata e s'inganna di lui, non sapendo le sue astute arti ch'egli usa. Non niego ch'egli non sia gentiluomo e che non meriti che V.S. gli faccia de' beneficii, ma dico che, dandogli simil carico, vi caricherà molto la conscienzia, non essendo Vostra Altezza ben informata di lui. Non creda V.S. ch'io scriva questo perch'io li porti odio, anzi tengo verso di lui buona intenzione; ma perchè mi doglio non veder riuscir bene quello che s'appartiene al servizio di Vostra Altezza, mi son mosso a scrivervi quello che è pura verità, e tuttavia passo altre cose che circa di questo si potrebbono scrivere.
Il quarto giorno che giungemmo in questo villaggio, venne il signor di Uluisponal e quello di Tititepaque, e mi diedero una lettera di Vostra Signoria, nella qual essa mi comandava che in ogni modo faccia la sua casa, nella qual non è stato lavorato perchè non sono stato qua, e parmi che 'l signore al quale avevo comandato che trovasse i legnami non gli ha cercati, e si scusò d'esser stato gravemente infermo: e veramente io lo lasciai infermo, come credo d'aver scritto a V.S. Egli stette qua cinque giorni, e feci chiamar i principali del villaggio di Pietro di Castellar e mio, e, andando con loro, stettero due giorni cercando legnami per li villaggi lungo il fiume all'insú, e tornati mi dissero come aveano trovato quanto facea mestiero, e che vi verrebbe la gente quando volesse. Io gli dissi che venissero dopo s. Giovanni, e cosí farò che di subito darò principio all'opera al meglio che io potrò, perchè i pavimenti da edificare sono in buon termine e sopra il fiume.
Parimente V.S. mi scrivea che uno Indiano venuto a Vostra Signoria avea detto come io avevo dimandato oro a Luigi Marino: V.S. mi comandò che non gliene dimandasse, e io cosí gli ho detto. Dissi al cacique quanto si conteneva nella lettera, il quale si sbigottí, e rispose che l'Indiano non sapeva quello che si dicesse. Il signor mi disse ch'aveva raccolto moneta di metalli mescolati per darla a Vostra Signoria, ma che non voleva mandarla finchè io non vedesse, e per servirvi lasciai di passar oltra 'l fiume per vederla e spedirla. Il giorno dopo san Giovanni anderò là, e la manderò ad Horrera di Tustebeque, e la maggior copia d'accette che io potrò: gli Indiani ne hanno alcune, e sono traportate dalli suoi villaggi ad Uluta e Titiquipaque. Io ne dimandai al cacique e a Cristoval, e mi dissero di non ne avere. Ed è generale opinione che l'avessino preso di quest'anno, che Giovanni Limpias disse publicamente come gli Indiani suoi dicevano che Marino, quando venne, avea posto un tributo o gravezza a tutti li villaggi di Spagnuoli e a ciascuna casa di quaranta mandorle al giorno, e che egli avea detto che non dessero a noi oro né metallo mescolato, ma solamente da mangiare, perchè stavamo qua solo per guardar questo fiume, perchè l'oro era per Vostra Signoria e il metallo mescolato per Marino. Ed è vero che Giovanni di Limpias disse questo piú volte, presente di me e del luogotenente e di molti altri.
Gli schiavi ch'io condusse di V.S., che sono 34, perchè sono donne e fanciulli, se si conducessero alla città morirebbono tutti per cammino. Perciò mi parve che al presente starebbono meglio in Oluta, sinchè avisasse V.S. se vi paresse meglio di condurli a Corusca o alla Villa Ricca, perchè ivi avete case e roba dove possono stare, per esservi tanto caldo, e vi staranno piú sani, overo se a voi pare che si vendano: V.S. mi avisi di quello che piú le sarà grato, acciochè si mandi ad effetto. Se V.S. comanderà che si vendino, supplico quella ad ordinar ancora che si vendino a credenza, perchè non è in questa villa uomo che abbia un quattrino.
Non so che altro scrivervi al presente, o Signor mio, ma ben vi supplico che facciate cessar il dividere i luoghi, sinchè V.S. sia informata di quanto ho sopra detto, perchè in tal modo si gioverà a questo villaggio; altramente la divisione sarà come di furto. Cosí ogni dí verranno di qua persone a darvi noia, come sempre hanno fatto per questa causa.
Iddio nostro Signore conservi la magnifica persona vostra, e vi aumenti lo stato come quella desia.
Diego di Godoy.
Relazione d'alcune cose della Nuova Spagna e della gran città di Temistitan Messico fatta per un gentiluomo del signor Fernando Cortese.
Il paese della Nuova Spagna è a guisa di Spagna, e quasi della medesima maniera sono le montagne, le valli e le campagne, eccetto che le montagne son piú terribili e aspre, da non potervisi ascender se non con infiniti travagli: e vi è montagne, per quel che si sa, che durano meglio di dugento leghe. Sono in questa provincia della Nuova Spagna gran fiumi e fonti d'acque dolci e molto belli, gran boschi ne' monti e pianure d'altissimi pini, cedri, roveri e cipressi, elci e molte diverse sorte d'alberi di montagne. I colli sono molto ameni nel mezzo della provincia, e vicino alla costa del mare sono monti spiccati dall'un mare all'altro. La distanzia che è dall'un mare all'altro per il piú corto è di centocinquanta leghe, e per un'altra centosessanta, e dall'altra dugento, e da un'altra passan trecento, e da un'altra banda presso cinquecento; e piú sopra è distanzia cosí grande e tanta che non se ne sa il numero delle leghe, perchè non si è veduto da Spagnuoli, e ci è da veder ancora di qua a cent'anni, e ogni dí si vede cosa nuova.
Sono in questa provincia mine d'oro e d'argento, di rame e di stagno, di acciaio e di ferro. Vi sono molte sorte di frutti che paiono simili a quei di Spagna, avenga che nel gusto non sieno in quella perfezione, né nel sapore, né nel colore; ancora che ce ne sieno molti bonissimi, e cosí buoni come sono quei di Spagna, ma non generalmente. Le campagne sono dilettevoli, molto piene di bellissime erbe, alte fino a mezza gamba. Il paese è molto fertile e abbondante, e produce qualunque cosa che ci vien seminata, e in molti luoghi rende il frutto due o tre volte l'anno.
Degli animali.
Vi sono molti animali di diverse maniere, come sono tigri, leoni e lupi, e similmente adibes, che sono tra volpi e cani, e altri che sono fra leoni e lupi. I tigri sono della grandezza o forse qualche poco maggiori che i leoni, eccetto che sono piú grossi e forti e piú feroci; hanno tutto 'l corpo pieno di macchie bianche. E niuno di questi animali fa male a' Spagnuoli, ancorchè alle genti del paese non faccino carezze, anzi se gli mangiano. Vi sono anco cervi e volpi salvatiche, daini, lepri e conigli. I porci hanno l'ombelico sopra il fil della schiena. E vi sono molti altri e diversi animali, e specialmente ve ne è uno, che è poco maggior che il gatto, che ha una borsa nel ventre, dove asconde i figliuoli quando vuol fuggir con essi, perchè non gli sieno tolti: e quivi gli portano senza che si conosca né si veda se vi porta cosa alcuna, e con essi monta fuggendo sopra gli alberi.
La provincia di questa Nuova Spagna è molto ben popolata per la maggior parte: vi sono di gran città e terre, cosí nella pianura come nelle montagne, e le case sono fatte di calcina e pietre e di terra e quadrelli crudi, e tutte con le sue terrazze, quei popoli però che vivon nel mezzo del paese; ma quei che abitano vicini al mare hanno quasi tutti le case e pareti di quadrelli crudi e terra e di tavole, col tetto di paglia. Solevano avere i naturali del paese bellissime meschite con gran torri e abitazioni, nelle quali onoravano e sacrificavano i loro idoli, e molte di quelle città son meglio ordinate che quelle di qua, con molto belle strade e piazze, dove fanno i lor mercati.
La sorte de' soldati loro.
La gente di questa provincia è ben disposta, piú tosto grande che picciola; son tutti di color berrettino come pardi, di buone fazioni e gesti; sono per la maggior parte molto destri, gagliardi e sopportatori delle fatiche, ed è gente che si mantiene con manco cibo d'ogni altra. È gente molto bellicosa, e che molto determinatamente hanno ardimento di morire. Solevano aver gran guerre e gran differenzie fra loro, e tutti quei che si pigliavano nella guerra, o erano mangiati da loro, o erano tenuti per schiavi. Se i nemici andavano a porre assedio a qualche villaggio, se gli assediati se gli rendevano senza far resistenza o guerra, restavano solamente vassalli de' vincitori; ma se erano presi per forza, restavano per schiavi tutti. Hanno i loro ordini nella guerra, che hanno i loro capitani generali, e hanno i particolari capitani di quattrocento e dugento uomini. Ha ogni compagnia il suo alfiere, con la sua insegna inastata e in tal modo ligata sopra le spalle, che non gli dà alcun disturbo di poter combattere né far ciò che vuole: e la porta cosí ligata bene al corpo che, se non fanno del suo corpo pezzi, non se gli può sligare né torgliela mai. Hanno per costume di gratificare e pagar molto bene coloro che servono ben su la guerra e che si faccino conoscere segnalatamente con qualche opera virtuosa, che, ancora che sia il piú disgraziato schiavo fra loro, lo fanno capitano e signore e gli danno vassalli e lo stimano, in modo che per tutto dove lui va lo servono, e l'hanno in tanto rispetto e riverenzia come al proprio signore. E nella persona propria di questo tale segnalato gli fanno un segno ne' capegli, acciochè sia conosciuto per quell'opera virtuosa che ha fatto e ciascuno lo veda apertamente, perchè essi non usano di portar berrette; e ogni volta che fa qualche buona opera nuova, gli fanno addosso in testimonio di virtú qualche altro simile segnale, e da' signori se gli concede sempre altre grazie.
L'arme offensive che portano e difensive.
L'arme difensive che portano in guerra sono certi saietti a guisa di giupponi di cottone imbottiti, cosí grosso come un deto e mezzo, e tali come due deta, che vengono ad esser molto forti; e sopra d'essi portano altri giupponi e calze che son tutti insieme e che si allacciano dalla parte di dietro, e sono d'una tela grossa, e il giuppone e le calze sono coperte di sopra di piume di diversi colori, che sono molto galanti: e una compagnia di soldati le portano bianche e rosse, e altri azzurre e gialle, e altre di diverse maniere. I signori portano di sopra certi saietti, come giacchi che fra noi si usano di maglia, ma sono d'oro o d'argento indorati; e quel vestito che portano di piuma è forte al proposito delle sue armi, acciochè non riceva saette né dardi, anzi ritornano adietro senza farvi colpo, né anco le spade non possono molto bene prenderne. Portano in testa per difesa una cosa, come teste di serpenti o di tigri o di leoni o di lupi, che ha le mascelle, ed è la testa dell'uomo messa nella testa di questo animale, come se lo volesse divorare: sono di legno, e sopra vi è la penna, e di piastra d'oro e di pietre preciose coperte, che è cosa maravigliosa da vedere. Portano rotelle di diverse maniere, fatte di buone canne massiccie che sono in quel paese, tessute con cottone grosso doppio, e sopra vi sono penne e piastre rottonde d'oro: e sono cosí forte che se non è una buona balestra non la passa, però ve ne sono di tali che la passano, ma la saetta non li fa male. E perchè qua in Spagna sono state vedute alcune di queste rotelle, dico che non sono di quelle che portano su la guerra, ma sono di quelle che essi portano nelle loro feste e balli sollazzevoli, che usano di fare.
L'arme offensive che portano sono archi e frezze e dardi, che essi tirano con un mangano fatto di un altro bastone; i ferri che hanno in punta sono o di pietra viva o di un osso di pesce, che è molto forte e acuto. Alcuni dardi hanno tre ferri con che fanno tre ferite, perchè in una mazza inseriscono tre punte di bacchette con loro ferri della sorte sopradetta, e cosí d'un colpo tirano tre botte in una lanciata. Hanno le spade, che sono di questa maniera: fanno una spada di legno come a due mani, ancora che non sia sí lunga la impugnatura, ma larga tre deta, e nel taglio d'essa lasciano certe incavature nelle quali inseriscono un rasoio di pietra viva, che taglia come un rasoio di Tolosa. Io viddi che, combattendosi un dí, diede uno Indiano una cortellata ad un cavallo, sopra il qual era un cavalliero con chi combatteva, nel petto, che glielo aperse fin alle interiora, e cadde incontinente morto; e il medesimo dí viddi che un altro Indiano diede un'altra cortellata ad un altro cavallo sul collo, che se lo gettò morto a' piedi. Portano frombe con le quali tirano molto lungi, e molti o la maggior parte d'essi portano tutte queste sorti d'armi con che combattono, ed è una delle belle cose del mondo vederli alla guerra in compagnia, perchè vanno maravigliosamente in ordine e galanti, e compariscono cosí bene quanto si possa vedere. Sono fra loro di valentissimi uomini e che osano morir ostinatissimamente. E io ho veduto un d'essi difendersi valentemente da due cavalli leggieri, e un altro da tre e quattro, né potendolo essi uccidere, da disperazione un di loro gli lanciò la lancia, ed egli prima che gli arrivasse addosso la raccolse in aere e con essa combattette piú d'una ora con esso loro, finchè quivi giunsero due pedoni che lo ferirono di due o tre saette, onde egli mossosi contra un di loro, uno di quelli pedoni l'abbracciò di dietro e gli diede delle pugnalate.
Nel tempo che combattono cantano e ballano, e tal volta danno i piú fieri gridi e fischi del mondo, e specialmente se conoscano d'averne il meglio: ed è cosa certa che, a que' che non gli hanno veduti combattere altre volte, mettono gran terrore con le loro grida e bravura. Ed è gente la piú crudele che si trovi in guerra, perchè non perdonano né a fratello né a parente né ad amico, né gli pigliano a vita ancora che fussino donne e belle, che tutte l'uccidono e se le mangiano; e quando non posson portarsene la preda e le spoglie de' nemici, l'abbrucciano. Solo i signori non è lecito d'uccidere, ma gli portano presi sotto buona custodia. E dopo ordinate certe feste, in mezzo di tutte le piazze della città erano certi circuiti murati con calcina e pietre massiccie, tanto alti quanto una statura e mezza d'uomo, che ascendevano in essi per gradi, e di sopra era una piazza come un giuoco di tegola rotondo, e nel mezo di questa piazza era una pietra rotonda ficcata con un buso in mezzo: e quivi montava il signor prigione, e lo legavano lungo con una sottil corda al collo del piede, e li davano una spada e una rotella, e cosí veniva a combatter con esso lui colui che l'avea preso: e se questo tale che l'avea preso di nuovo tornava a vincerlo, era tenuto per valentissimo uomo, e gli davano un certo segno per la valente prova ch'avea fatta, e il signore li facea grazia; e se il signor preso vincea lui e sei altri, in modo che fussero in numero di sette, lo liberavano ed erano obligati di restituirgli tutto quel che gli avessero tolto nella guerra. E avenne che, combattendo un giorno quelli di una signoria chiamata Huecicingo con que' d'un'altra città chiamata Tula, il signor di Tula si pose tanto fra gli nemici che si perse da' suoi, e ancora che facesse cose maravigliose in arme, caricarono nondimeno tanto i nemici sopra di lui, che lo presero e lo condussero alla città loro: e fecero essi secondo il costume le loro feste, ponendolo nel circuito, contra il quale vennero sette uomini a combattere, li quali tutti uccise ad uno ad uno, essendo egli legato secondo l'usanza. Veduto questo da quei di Huecicingo, fecero pensiero che, se essi lo avessero sciolto, essendo egli cosí valent'uomo e di gran cuore, non sarebbe mai restato fin tanto che non gli avesse destrutti, onde si risolvettero di ucciderlo, e cosí fecero; del qual atto rimase a loro un'infamia grande per tutto quel paese di traditori e di disleali, per aver rotta la legge e il costume contra quel signore, e per non aver osservato con esso lui tutto quel che si soleva osservare con tutti quelli ch'erano signori.
La maniera del vestire degli uomini.
I vestimenti loro son certi manti di bambagia come lenzuola, ma non cosí grandi, lavorati di gentili lavori di diverse maniere, e con le lor franze e orletti, e di questi ciascun n'ha due o tre e se gli liga per davanti al petto. Al tempo dell'inverno si cuoprono con certi pellizzoni fatti di una piuma molto minuta, che pare che sia cremesino, come i nostri cappelli pelosi, de' quali n'hanno rossi, neri e bianchi, berrettini e gialli. Cuoprono le loro parti vergognose, cosí di dietro come dinanzi, con certi sciugatoi molto galanti, che sono come gran fazzuoli che si legano il capo per viaggio, di diversi colori, e orlati di varie foggie e di colori similmente diversi, con i suoi fiocchi, che nel cingerseli viene l'un capo davanti e l'altro di dietro. Portano scarpe che non hanno tomara, ma solamente le suola e i calcagni, molto galanti, e di dentro dalle deta dei piedi vengono al collo del piede certe correggie larghe, che con certi bottoni si ligano quivi. Non portano in testa cosa veruna, eccetto che nella guerra o nelle loro feste e danze, e portano i capelli lunghi ligati in diverse foggie.
Del vestire delle donne.
Le donne portano certe lor camicie di bambagia senza maniche, ch'assomigliano a quelle che in Spagna chiamano soprapelizze; sono lunghe e larghe, lavorate di bellissimi e molto gentili lavori sparsi per esse, con le loro frangie o orletti ben lavorati, che compariscono benissimo: e di queste portano due, tre e quattro di diverse maniere, e una è piú lunga dell'altre, perchè si vedano come sottane. Portano poi dalla cintura a basso un'altra sorte di vestire di bambagia pura, che gli arriva al collo del piede, similmente galante e molto ben lavorate. Non portano sopra la testa cosa alcuna, specialmente in terra fredda, se non che portano i capegli lunghi, e gli hanno belli, ancora che neri e castagnini; onde con queste loro veste e i capegli lunghi sparsi, che gli cuoprono le spalle, fanno bellissimo vedere. Ne' paesi caldi che sono vicini al mare, portano le donne una foggia di velo fatto a reticello, di colore leonato.
La seta con che lavorano.
La seta con che lavorano è che pigliano i peli della pancia del lepre e conigli e gli tingono in lana di quel colore vogliono, e glielo danno in tanta perfezione che non si può dimandare meglio; dopo lo filano e con esso lavorano, e fanno sí gentili lavori quasi come con la nostra seta, e ancora che si lavi mai perde il suo colore, e il lavoro che si fa con essi dura gran tempo.
I cibi che hanno e che usano.
Il grano di che fanno il pane è un grano a guisa di cece, alcuni bianchi e altri rossi, e altri neri e vermigli; lo seminano, e fa una canna alta come una mezza lancia, e butta due o tre panocchie, dove è quel grano a guisa di panico. Il modo con che fanno il pane è che mettono una pignatta grande sopra il fuoco, che tiene quattro o cinque cantara d'acqua, e gli accendono sotto il fuoco, fin che bolla l'acqua, e allora gli lievano il fuoco e dentro vi gettano il grano, che da loro si chiama tayul, e sopra esso gettano poi un poco di calcina perchè gli lievi la scorza che lo copre; e l'altro giorno, overo de lí a tre o quattro ore, che si è raffreddato, lo lavano molto bene al fiume o in casa con molte acque, onde resta molto netto della calcina, e doppo lo macinano con certe pietre fatte a posta, e, secondo che lo vengono macinando, gli vengono gettando l'acqua e si va facendo pasta: e cosí in un punto macinandolo e impastandolo fanno il pane, e cuoconlo in certe cose come tecchie grandi, poco maggiori che un crivello. E cosí facendo il pane, subito lo mangiano, per esser meglio caldo che freddo. Hanno anco altri modi da farlo, che fanno certi pani buffetti della massa e gli involtano in certe foglie d'erbe, e doppo li mettono in una gran pignatta con poca acqua e la cuoprono molto bene, e quivi col caldo e col tenerli stufati li cuocono, e anco in padelle con diverse cose che mangiano.
Hanno molte galline grandi a guisa di pavoni molto saporite e hanno molte coturnici di quattro o cinque sorti, e sono alcune di esse come pernici; hanno molte oche e anatri di molte sorte, cosí domestiche come salvatiche, della piuma delle quali fanno i loro vestimenti per la guerra e festa, e di queste penne si prevagliono molto per piú cose, perchè hanno diversi colori, e ogni anno la levano a questi loro uccelli. Hanno pappagalli grandi e piccioli, che gli tengono in casa, e si prevagliono similmente della loro penna. Occidono per loro mangiare molti cervi, cavrioli, lepri e conigli, che in molte parti ce ne sono molti. Hanno varie sorti d'erbe d'orto e da mangiar di diverse maniere, di che essi sono molto amici, che le mangiano talor verdi e talora in varie minestre. Hanno una sorte di pepe da condire che si chiama chil, che niuna cosa mangiano senza esso. Sono genti che con manco cibo si sostentano e che meno mangiano di quante altre sono al mondo.
I signori mangiano molto sontuosamente molte sorti di vivande, sapori e minestre, focaccie e pasticci di tutti gli animali che hanno, frutti, verdure e pesci, che hanno in buona quantità. Si portano ai signori tutte queste sorte di cibi, e gliele portano innanzi ne' piatti e scodelle e sopra certe stuore di palma molto gentilmente lavorate, e in tutti gli alloggiamenti ve ne sono, e vi sono anco delle sedie di diverse sorti fatte, dove seggono, tanto basse che non sono piú alte d'un palmo. Questi cibi gli mettono anco inanzi a' signori, e una tovaglia di bombagia con che si nettano le mani e la bocca, e sono serviti da duoi o tre scalchi e maestri di sala: e mangiano di quello che piú loro piace, e doppo fanno che il restante sia dato ad altri signori suoi vassalli, che stanno quivi a fargli corte.
Le bevande che usano.
Fanno il vino di diverse sorti che bevono, però la principale e piú nobile che usano è una bevanda che si chiama cachanatle, e sono certi semi fatti del frutto d'un albero, il qual frutto è a guisa di cocomero e dentro ha certi grani grossi, che sono quasi della sorte dell'ossa de' dattili. L'albero che fa questo frutto è il piú delicato di tutti gli altri alberi: non nasce se non in terra calda e grossa, e prima che si semini seminansi duoi altri alberi che hanno gran foglia, e come questi sono all'altezza di due stature d'uomini, in mezzo a tutti duoi seminano quest'altro che produce questo frutto, acciochè quei duoi altri alberi, per esser questo delicato, lo guardino e difendino dal vento e dal sole e lo tengano coperto. Sono questi alberi in grande stimazione, perchè quei grani sono tenuti per la principal moneta che corra in quel paese, e vale ciascuno come un mezzo marchetto fra noi; ed è moneta la piú commune, ma molto incommoda, doppo l'oro e l'argento, e che piú si costuma di quante sono in quel paese.
Come si faccia il cacao.
Questi semi, che chiamano mandorle o cacao, si macinano e si fanno polvere, e macinansi altre semenze picciole che hanno, e gettano quella polvere in certi bacini che hanno con una punta; poi vi gettano l'acqua e la mescolano con un cucchiaro, e doppo l'averlo molto ben mescolato lo mutano da un bacino all'altro, in modo che leva una spuma, la quale raccogliono in un vaso fatto a posta. E quando lo vogliono bevere, lo rivoltano con certi cucchiari piccioli d'oro o d'argento o di legno e lo bevono: e nel bever si ha da aprir ben la bocca, perchè, essendo spuma, è necessario di darli luogo che la si venga disfacendo e mandando giú a poco a poco. È questa bevanda la piú sana cosa e della maggior sustanza di quanti cibi si mangiano e bevanda che si beva al mondo, perchè colui che beve una tazza di questo liquore potrà, quantunque camini, passarsene tutto il dí senza mangiare altro; ed è meglio al tempo del caldo che del freddo, per esser di sua natura fredda.
Un'altra sorte di vino che hanno.
Vi sono certi alberi, overo fra alberi e cardi, che hanno le foglie grosse come il ginocchio e lunghe quanto un braccio, poco piú o meno secondo il tempo che hanno, e gettano nel mezzo un tronco che si fa cosí alto come sono due o tre altezze d'uomo, poco piú o manco, e cosí grosso come un fanciullo di sei o sette anni. E in certo tempo dell'anno, che è maturo e ha la sua stagione, con una trivella forano questo albero da basso, d'onde stilla un umore, che lo mettono in conserva in certe scorze d'alberi che hanno: e de lí ad un dí o due lo beono, cosí smisuratamente che finchè cadono in terra embriachi senza sentimento non lasciano di bere, e si reputano onore grande beverne assai ed embriacarsi. Ed è di tanta utilità questo albero che d'esso fanno vino e aceto, mele, sapa, fanno veste per vestirsi uomini e donne, ne fanno scarpe, ne fanno corde, legnami per case e tegole per coprirle, e aghi per cucire e serrare le ferite e altre cose. E similmente cogliono le foglie di quest'albero o cardo, che si tengono là come qua le vigne, e chiamanlo magueis, e mettono a cuocere queste foglie in forni bassi da terra, e dipoi struccano con certo loro artificio di legno dette foglie arrostite, levandoli via le scorze o radici che sogliono avere. E di questa bevanda bevono tanto che si embriacano. Hanno un'altra sorte di vino di grano che mangiano, che si chiama chicha, di diverse sorti, rosso e bianco.
Il modo di fare i comandamenti.
Avevano queste genti un gran signore, che era come l'imperatore, e avevano poi e hanno altri, come re e duchi e conti, governatori, cavalieri, scudieri e uomini di guerra. I signori mettono i loro governatori e rettori nelle loro terre, e altri ufficiali. Sono i signori tanto temuti e obediti, che non gli manca altro che essere adorati come dii. Era cosí gran giustizia fra loro che, per il minor delitto che uno avesse fatto, era morto o era fatto schiavo. Qualunque furto o assassinamento che si fosse fatto si castigava molto severamente, e massimamente quando altri entravano nelle possessioni altrui per rubbare frutti o il grano che essi hanno, che, per entrare in un campo e rubbare tre o quattro mazzoche overo spighe di quel loro grano, lo facevano schiavo del patrone di quel campo rubbato. E se qualche uno facea tradimento, overamente commetteva delitto alcuno, contra la persona dello imperatore overo re, era ucciso insieme con tutti gli suoi parenti fin alla quarta generazione.
La fede e l'adorazione che facevano e i loro tempii.
Avevano grandissimi e bellissimi casamenti dei loro idoli, dove gli facevano orazione, sacrificavano e onoravano, e vi erano persone religiose deputate al servigio d'esse, come vescovi e canonici e altre dignità, i quali servivano il tempio e in esso viveano e residevano la maggior parte del tempo, perchè in essi loro tempii erano di buoni e grandi alloggiamenti dove potevano stare, e dove si allevavano tutti i figliuoli dei signori, servendo i loro idoli, finchè erano in età di pigliar moglie: e in tutto il tempo che vi stavano, giamai si partivano de lí né si tagliavano i capegli, ma levandoli via allora gli tagliavano che si maritavano. Queste meschite, over tempii, hanno le sue entrate ordinate per riparare e provedere di quel che avevano di bisogno quei religiosi che gli servivano. Gli idoli che adoravano erano certe statue della grandezza d'uno uomo e maggiori, fatte d'una massa di tutte le semenze che essi hanno e che mangiano, e le impastavano con sangue di cuori d'uomini: e di questa materia erano i loro iddii. Gli teneano posti a sedere in certe sedie, come cattedre, con la rotella in un braccio e nell'altro la spada, e i luoghi dove gli tenevano erano certe torri della maniera che si vede nella figura a fronte.
La sorte di queste torri.
Fanno uno edificio d'una torre in quadro di cento e cinquanta passi o poco piú di lunghezza e cento e quindeci o cento e venti di larghezza, e comincia questo edificio tutto massiccio, e doppo che è tanto alto come due stature d'un uomo, per le tre parti all'intorno lasciano una strada di larghezza di duo passi, e dalla parte del lungo cominciano a montare scalini; e doppo tornano a salire con altre due stature d'uomo in alto, e la materia è tutta massiccia, fatta di calcina e pietre, e quivi poi per tre parti lasciano la strada di duo passi, e per l'altra saliscono gli scalini: e saliscono tanto in questo modo che vanno in alto cento e venti e cento e trenta gradi, e di sopra resta una piazzetta ragionevole, e in mezzo di essa cominciano altre due torri di dentro che vanno in alto dieci o dodeci stature d'uomo, e nella cima vi sono le sue finestre. In queste torri alte tengono i loro idoli molto ben ordinati e apparati, ed è anco ben concia e ordinata tutta la stanza, e dove avevano il loro dio principale (che secondo le provincie cosí era il nome di esso, perchè il dio principale della gran città di Messico si chiamava Horchilouos, e in un'altra città che si chiama Chuennila, Quecadquaal, e in altre di diversi nomi), e in quella stanza dove stava questo idolo principale non era concesso a niuno l'entrarvi, eccetto al sommo pontefice che hanno. E tutte le volte che facevano festa ai loro idoli sacrificavano molti uomini, donne e fanciulli e fanciulle, e quando avevano qualche necessità, come della pioggia, o che cessi di piovere quando piove troppo, o che siano assediati dai loro nemici, o per altre necessità, gli fanno i sacrifici in questo modo.
Il modo di sacrificare.
Pigliano quello che hanno da sacrificare e prima lo conducono per le strade e per le piazze, molto bene adornato e con gran festa e allegrezza, e ciascuno gli racconta i suoi bisogni, dicendogli che poichè ha d'andare dove sta il suo dio, che gli dica quel bisogno che ha acciochè vi rimedii, e gli dà qualche cosa da mangiare o altra robba: e in questo modo raccoglie molte cose, come sogliono avere coloro che portano in volta le teste di lupo, il che tutto viene ai sacrificatori; e lo portano al tempio, dove fanno una gran festa e balli, nella quale egli ancora festeggia e balla con esso loro. Dopo colui che l'ha da uccidere lo spoglia e lo conduce allato alle scale della torre, dove è un idolo di pietra, e lo appoggia sopra le spalle, ligandoli una mano e dall'altra parte l'altra, e poi un piedi legato ad una parte e l'altro dall'altra, e quivi di nuovo tutti ricominciano a ballare e cantare a torno a lui e gli dicono la principale ambasciata che ha da fare a quello iddio loro. E viene il sacrificatore, che non è il minor ufficio fra loro, e con un rasoio di pietra che taglia come se fosse di ferro, però assai grande, come un gran coltello, e in tanto quanto uno si farebbe segno di croce gli dà con esso nel petto e glielo apre, e gli cava il cuore cosí caldo e bollente: il quale piglia incontanente il sommo pontefice, e con il sangue d'esso unge la bocca del loro idolo principale, e subito getta di quel sangue verso il sole o alcuna stella (se è di notte), e dopo ungano la bocca agli altri idoli di pietra e di legno che essi hanno, e la cornice della porta della cappella dove sta l'idolo principale. Dipoi abbrucciano il cuore, riserbando la polvere d'esso per gran reliquia, e similmente abbrucciano il corpo del sacrificato, e la polvere d'esso conservano in un altro vaso separato da quel del cuore. Altre volte gli sacrificano per punti e ore, e arrostiscono il cuore, e l'ossa delle gambe o braccia, involti in molte carte, le conservano per una gran reliquia. E cosí in ciascuna provincia hanno gli abitatori il loro particolar modo e cerimonie di idolatria e sacrificio, perchè in altri luoghi adorano il sole, in altri la luna e in altri le stelle, in altri i serpi e in altri i leoni o altri simili feroci animali, delle quali cose tengono le imagine e statue nelle loro meschite; e in altre provincie, e particolarmente in quella di Panuco, adorano il membro che portano gli uomini fra le gambe, e lo tengono nella meschita e posto similmente sopra la piazza, insieme con le imagini di rilievo di tutti i modi di piaceri che possono essere fra l'uomo e la donna, e gli hanno di ritratto con le gambe alzate in diversi modi.
In questa provincia di Panuco sono gran sodomiti gli uomini, e gran poltroni e imbriachi, in tanto che, stanchi di non poter bere piú vino per bocca, si colcano e alzando le gambe se lo fanno metter con una cannella per le parti di sotto, fintanto che il corpo ne può tenere. È cosa molto notoria che quelle genti vedeano il diavolo in quelle figure che essi facevano e che tengono i loro idoli, e che il demonio si metteva dentro a quelli idoli e de lí parlava con esso loro, egli comandava che sacrificassero e a loro dessero i cuori degli uomini, perciochè essi non mangiavano altra cosa: e per questo effetto erano tanto solleciti a sacrificar uomini, e gli davano i cuori e il sangue d'essi; e gli comandava ancora molte altre cose, che essi facevano pontalmente come gliele diceva. Sono queste le piú devote genti e piú osservatrici della religione loro di quante nazioni abbia create Iddio, in tanto che essi istessi s'offerivano volontariamente a dover essere sacrificati, pensandosi di salvare con questo modo l'anime loro, e si cavavano essi istessi il sangue dalle lingue e dall'orecchie e dalle coscie e dalle braccia, per sacrificarlo e offerirlo agli idoli loro. Hanno di fuora e per cammini molti eremitorii, dove i viandanti vanno a sparger il lor sangue e offerirlo agli idoli, e n'hanno ancora su le montagne altissimi di questi eremitorii, che erano luoghi di gran devozione, sacrificandosi il sangue e offerendosi ai loro iddii.
Delle città che vi sono e della maniera d'alcune d'esse.
Vi sono di gran città, e specialmente quella di Tascala, che in alcune cose s'assimiglia a Granata e in altro a Segovia, ancora che sia piú popolosa d'alcuna d'esse; è signoria e governata da alcuni signori, ancorachè in certo modo s'abbia rispetto ad uno, che è il maggior signore, che tiene e tenea un capitano generale per la guerra. Ha bel paese di pianure e montagne, ed è provincia popolosa, e vi si raccoglie molto pane. A sei leghe lungi da questa è un'altra città piana e molto bella, che s'assimiglia a Vagliadolid, nella quale io vi contai cento e novanta torri fra meschite e case de' signori, che similmente è signoria, e governata da 27 uomini onorati, fra i quali tutti avevano in riverenza e rispetto un vecchio che passava centoventi anni, ch'era portato in lettiga. Ha paese e sito bellissimo e di molti arbori fruttiferi, e spezialmente di cerase e pomi, e produce molto pane. A sei altre leghe lontano v'è un'altra città chiamata Huezucingo, che sta in una costa d'un monte, che s'assimiglia a Burgos; similmente signoria, che è governata da consoli, e ha paese bellissimo e fertili pianure e colli ameni e buoni.
Il lago di Messico.
Da tutte le bande è circondata da montagne la città di Temistitan Messico, eccetto dalla banda fra tramontana e levante. D'alcun lato ha montagne asprissime, che è quel del mezzogiorno, che è il monte di vulcano e Pocatepeque, ed è simile ad un monte di grano rotondo, e ha quattro leghe d'altezza o poco piú: nell'alto d'essa è un vulcano che tiene in circuito un quarto di lega, per la bocca del quale due volte il dí e qualche volta la notte usciva d'esso la maggior furia di fumo del mondo, e andava per l'aere cosí intiero, ancorachè facesse gran vento, fino alla prima regione delle nuvole, e ivi si mescolava con esse e si dissolveva, né piú si vedeva intiero. È questo monte undeci leghe lontano da Messico. Vicino a questa sono altre montagne altissime, e quasi dell'altezza di quest'altra, che d'alcuna parte sono dieci leghe lontane da Messico, e dall'altra sette o otto. Tutte queste montagne sono coperte di neve la maggior parte dell'anno, e al piè d'esse da una parte e l'altra sono di bellissime ville e villaggi abitati; l'altre montagne che vi sono non sono molto alte, ma tra monti e pianure, e in tutte queste montagne da una parte e dall'altra sono bellissimi boschi pieni di molti pini, elci e roveri. E al piè di queste montagne nasce un lago d'acqua dolce, che si fa cosí grande che tiene trenta leghe di circuito o piú: la metà d'esso verso la banda di quelle montagne dove nasce è acqua dolce e molto buona, e come nasce con la furia che mena va correndo verso settentrione, e dopo tutta l'altra metà è acqua salsa. E dove è l'acqua dolce vi sono molti canneti di cannevere e molto bei luoghi abitati, come è Cuetavaca, che ora si chiama Veneziuola, che è un luogo grande e buono; v'è un altro luogo maggior che si dice Mezquique, e un altro chiamato Caloacan, come gli altri di grandezza o poco meno; ve ne è un altro, detto Suchimilco, che è maggiore che niun di tutti gli altri, e questo è alquanto fuor dell'acqua, e piú vicino all'orlo del lago che niuno; v'è un altro villaggio che si dice Huichilusbusaco, e un altro chiamato Messicalcingo, che è in mezo dell'acqua dolce e la salsa. Tutti questi luoghi abitati sono nell'acqua dolce, come ho detto, e la maggior parte d'essi nel mezzo. Il lago dolce è stretto e lungo, e il salso è quasi rotondo. Sono in questa parte di acqua dolce certi pesci piccioli, e nell'altra salsa sono piú piccioli.
Della gran città di Temistitan Messico.
Questa gran città di Temistitan Messico è edificata dentro di questa parte del lago che ha l'acqua salata, non cosí nel mezzo, però alla riva dell'acqua, circa un quarto di lega longe da terra ferma per il piú vicino. Può aver questa città di Temistitan piú di due leghe e mezza e presso a tre, poco piú o meno, di circuito; la maggior parte di coloro che l'hanno veduta giudica che vi sieno meglio di sessantamila abitatori, e piú tosto piú che meno. Entrano in essa per tre strade alte di pietra e di terra, ciascuna larga trenta passi o piú: una di queste strade vien per l'acqua piú di due leghe fino alla città, un'altra una lega e mezza; queste due strade attraversano il lago ed entrano per mezzo della città, e nel mezzo si vengono a congiongere insieme, in modo che si potrebbe dire che sono tutte una. L'altra strada vien dalla terra ferma qualche un quarto di lega alla città, e per questa strada vien per spazio di tre quarti di lega una seriola o ruscello d'acqua alla città da terra ferma, ch'è dolce e molto buona e piú grossa che il corpo d'un uomo, e arriva fin dentro la terra, della quale bevono tutte le genti: e nasce al piè d'un sasso e colle e quivi si fa uno fonte grande, e de lí è poi stata tirata alla città.
Le strade che vi sono.
Aveva e ha la gran città di Temistitan Messico assai e belle strade e larghe, ancora che ce ne sieno due o tre principali; tutte l'altre erano la metà di terra come mattonata e l'altra metà d'acqua, e se n'escano per la parte di terra e per la parte dell'acqua nelle lor barchette e canoe, che sono d'un legno concavo, ancora che ce ne sieno di cosí grande che agiatamente vi stanno dentro cinque persone per ciascuna, e se ne vanno a solazzo le genti, altri per acqua in queste lor barche e altri per terra ragionando insieme. Vi sono molte altre strade pur maestre che tutte son di acqua, né servano ad altro che a ricever barche e canoe secondo l'usanza loro che si è detto, perchè senza esse non possono entrare né uscir dalle lor case. E di questa maniera sono tutte l'altre terre che abbiamo detto, poste in questo lago nella parte dell'acqua dolce.
Le piazze e i mercati.
Sono nella città di Temistitan Messico grandissime e bellissime piazze, dove si vendono tutte le cose che s'usano fra loro, e spezialmente la piazza maggiore, ch'essi chiamano il Tutelula, che può esser cosí grande come sarebbe tre volte la piazza di Salamanca, e sono all'intorno d'essa tutti portici: in questa piazza sono communalmente ogni dí a comprare e vendere 20 o 25 mila persone, e il dí del mercato, che si fa di 5 in 5 giorni, vi sono da 40 o 50 mila persone. Ha il suo ordine, cosí in essere ogni mercanzia separata al luogo suo come nel vendere, perchè da una banda della piazza sono coloro che vendono l'oro e dall'altra, vicini a questa, sono quei che vendono pietre di diverse sorti legate in oro, in forma di varii uccelli e animali; dall'altra parte si vendono i paternostri e gli specchi; dall'altra penne e penacchi d'ogni colore da lavorare e cucir in veste, per portar alla guerra e nelle lor feste; dall'altra parte cavano le pietre da rasoi e di spade, ch'è cosa di maraviglia a vederle, che di qua da noi non si può intendere, e ne fanno le spade e rotelle. Dall'una banda vendono i panni e vestimenti degli uomini di varie sorti e dall'altra i vestimenti delle donne, e dall'altra si vendono le scarpe, e dall'altra parte i cuori acconci di cervi e altri animali, concieri di testa fatti di capelli, che usano tutte l'Indiane, e dall'altra il bambace; dove si vende il grano ch'essi usano e dove il pane di diverse sorti, e dove si vendono pasticci, e dove le galline e polli e le ova, e quivi vicino lepri, conigli, cervi, cotornici, oche e annatre. In un'altra parte poi si vende il vino di varie sorti e nell'altra l'erbe dell'orto di diverse sorti, il pepe in quella strada, in un'altra le radici e l'erbe da medicine, che fra loro ve ne sono infinite, e in altra i frutti varii, in altra legname per le case, e quivi vicino la calcina e appresso le pietre, e finalmente ogni cosa sta da sua parte per ordine. E oltra questa gran piazza ve ne sono delle altre, e mercati in che si vendono cose da mangiare, in diverse parti della città.
De' tempii e meschite che avevano.
Solevano essere in questa gran città molte gran meschite o tempii ne' quali onoravano e sacrificavano le genti a' suoi idoli, però la maggiore meschita era cosa maravigliosa da vedere, perciochè era cosí grande quanto una città. Era circondata d'una alta muraglia fatta di calce e di pietra e avea quattro porte principali, e sopra ogni porta era uno edificio di casa come fortezza, i quali tutti erano pieni di diverse sorti d'armi, di quelle che essi portavano alla guerra, che il signor maggior loro Montezuma quivi le teneva in conserva per questo effetto. E di piú v'aveva una guarnigione di diecimila uomini di guerra, tutti eletti per uomini valenti, e questi accompagnavano e guardavano la sua persona, e quando si facea qualche rumore o ribellione nella città o nel paese circunvicino andavano questi o parte d'essi per capitani, e un'altra maggior quantità, se era bisogno, si facea presto nella città e fuora a' confini: e prima che si partissero andavano tutti alla meschita maggiore, e quivi s'armavano di queste armi che erano sopra queste porte, e faceano subito sacrificio a' lor idoli, e pigliando la sua benedizione si partivano per andar alla guerra. Era in quel circuito del tempio maggiore grandi alloggiamenti e sale di diverse maniere, che v'erano sale dove poteano star senza darsi fastidio l'un l'altro mille persone; v'erano dentro a questo circuito piú di 20 torri, che erano della sorte che ho già narrato, posto che fra l'altre ce ne fusse una maggior e piú lunga e larga e piú alta, che era lo alloggiamento dello iddio principale e maggiore, nel quale aveano lor tutti maggior devozione. E nell'alto della torre aveano i lor iddii e tenevangli in gran venerazione, e in tutti gli altri alloggiamenti e sale stanziavano e viveano i loro religiosi, che servivano al tempio, e i sacrificatori in altre stanze. Nell'altre meschite d'altre terre cantano di notte come si dicessero i mattutini, e in molte ore del dí per ordine, intonando una parte d'essi da una banda e una parte dall'altra, che dicono gli inni, e rispondono gli altri come se dicessero vespro o compieta. E aveano dentro questa meschita fontane e luoghi da lavarsi per servizio d'essa.
De' casamenti.
Erano e sono ancora in questa città molte belle e buone case de' signori, cosí grande e con tante stanze e appartamenti, e con giardini alti e bassi, che era cosa maravigliosa da vedere: e io entrai piú di quattro volte in una casa del gran signor non per altro effetto che per vederla, e ogni volta vi caminavo tanto che mi stancavo, e mai la fini' di vedere tutta. Aveano per costume che in tutte le case de' signori, all'intorno d'una gran corte, fossero prima grandissime sale e stanzie, però v'era una sala cosí grande che vi potevano star dentro senza dar l'un fastidio all'altro piú di tremila persone; ed era sí grande che nel corridore dell'alto d'essa casa v'era una sí gran piazza, che v'averebbono potuto giocar al giuoco delle canne, come in altra gran piazza, trenta uomini a cavallo.
Questa gran città di Temistitan è alquanto piú lunga che larga, e nel cuore e mezzo di essa, dove era la meschita maggior e le case del signor, si riedificò la contrada e castello degli Spagnuoli, cosí ben ordinato e di sí belle piazze e strade quanto d'altre città che siano al mondo, che sono le strade larghe e spaziose, e all'intorno d'essa vi sono edificii di belle e sontuose case di calcina e mattoni tutte uguale, che l'una non è piú alta dell'altra, eccetto alcune che hanno le torri, e per questa ugualità compariscono assai meglio che l'altre della città. Sono in questa contrada o castel di Spagnuoli piú di 400 case principali, che in niuna città in Spagna per sí gran tratto l'ha migliore né piú grande, e tutte sono case forti, per esser tutte di calcina e pietra murate. Vi sono due gran piazze, una grande, attorno alla quale sono molti belli porticali: s'è fatta una chiesa maggiore nella piazza grande, ed è molto buona. Vi è un monasterio di S. Francesco, che è assai bell'edificio; v'è un altro monasterio di S. Domenico, che è uno de' grandi e forti edificii e buoni che sia in Spagna: e in questi monasterii sono frati di buonissima vita, e gran letterati e predicatori. Vi è un buono ospitale e altri eremitorii. Le abitazioni degl'Indiani sono attorno a questo castello e contrada o cittadella di questi Spagnuoli, in modo che stanno circondati da tutti i lati: e in esso sono meglio di trenta chiese, dove i cittadini della città nativi odano messa e sono instrutti nelle cose della nostra fede.
La gente di questa città e del suo territorio è molto abile per tutte le cose, e i piú ingegnosi e industriosi di quanti sono al mondo. Sono fra essi maestri in ciascuna sorte d'esercizio, e per far una cosa non hanno bisogno d'altro che di vederla una volta fare ad altri. Ed è gente che stima meno le donne di quante nazioni sono al mondo, perchè non gli comunicherebbe mai i fatti loro, ancora che conoscesse che il farlo gli potesse metter conto. Hanno molte mogli, come i mori, però una è la principale e patrona, e i figliuoli che hanno di questa ereditano quel che hanno.
Dei matrimonii.
Tengono molte moglie e tante quante ne possono mantenere, come i mori, però, come si è detto, una è la principale e patrona, e i figliuoli di questa ereditano e que' dell'altre no, che non possono, anzi son tenuti per bastardi. Nelle nozze di questa patrona principale fanno alcune cerimonie, il che non si osserva nelle nozze dell'altre. Hanno un costume gli uomini di pisciare stando accosciati come le nostre donne, e le donne stanno in piedi.
Del sepellire.
Facevano una fossa murata di calcina e pietra sotto la terra, e quivi poneano il morto assiso sopra una sedia, e gli poneano appresso la sua spada e rotella, e con esso mettevano certe gioie d'oro: e io aiutai a cavar d'una sepoltura tremila castigliani, poco piú o meno. Gli mettevano quivi cose da mangiare e da bere per certi giorni, e se era femina gli mettevano appresso la roca e il fuso e tutti i suoi instrumenti da lavorare, dicendo che là dove andava aveva da attendere a fare qualche cosa, e che quel che gli ponevano da mangiare era per sostentarsi nel camino. Molti altri poi abbrucciavano e sepellivano la polvere.
Tutti que' di questa provincia della Nuova Spagna, e ancora que' dell'altre provincie della sua circonvicinanza, mangiano carne umana e la stimano piú che tutte l'altre imbandigioni del mondo, tanto che molte volte vanno alla guerra e pongono in sbaraglio le vite loro per uccidere qualcuno e mangiarselo. Sono, come si è detto, per la maggior parte sodomiti, e bevono smisuratamente.
Relazione che fece Alvaro Nunez, detto Capo di Vacca, di quello che intervenne nell'indie all'armata della qual era governatore Panfilo Narvaez, dell'anno 1527 fino al 1536, che ritornò in Sibilia con tre soli suoi compagni.
A' dicessette di giugno del 1527 partí del porto di San Lucar di Barrameda il governator Panfilo di Narvaez, con potestà e mandato dalla Maestà Vostra, per conquistare e governar le provincie che sono dal fiume delle Palme insino al capo di Florida, tutte in terra ferma; e l'armata che il detto governatore menava seco erano cinque navilii, ne' quali andavano da seicento uomini. Gli ufficiali, perchè d'essi s'ha da far particolar menzione nel libro, erano questi: Capo di Vacca per tesoriere e agozino maggiore, Alonso Enriquez contatore, Alonso de Solis per fattore di sua Maestà e per riveditore; ed eravi ancora per commissario un frate dell'ordine di San Francesco, chiamato fra Giovanni Gottierrez, e seco altri quattro frati del medesimo ordine.
Arrivammo primieramente all'isola di S. Domenico, dove ci fermammo da 45 giorni per provederci d'alcune cose necessarie, e principalmente di cavalli. Quivi ne mancarono piú di centoquaranta de' nostri uomini, che volsero restare per le promesse e partiti che li fecero quei del villaggio. Indi partiti arrivammo a San Giacomo, che è porto nell'isola di Cuba, e quivi riposatici alcuni giorni, il capitano si rifece di gente, d'arme e di cavalli. Avvenne in quel luogo che uno gentiluomo chiamato Vasco Porcalle, vicino alla villa della Trinità, che è nell'isola medesima, offerse al governatore di dargli alcune vettovaglie che egli avea in detta villa della Trinità, la quale è lontana cento leghe dal detto porto di San Giacomo, onde il governatore partí con tutta l'armata alla volta di quella villa. Ma, arrivati a mezo il cammino ad un porto che chiamano il capo di Santa Croce, parve al governatore che fosse bene d'aspettar quivi, e mandar solamente un navilio a pigliare quelle vettovaglie; e cosí ordinò ad un capitano Pantoxa che v'andasse col suo navilio, e che per maggior sicurezza v'andasse seco ancor io, ed egli si rimase quivi con quattro navilii, avendone già comprato un altro nell'isola di San Domenico. Arrivati noi co' nostri due navilii al porto della Trinità, il capitano Pantoxa se n'andò con Vasco Porcalle per pigliare le vettovaglie alla villa, che è lontana dal porto una lega, e io mi fermai quivi in mare co' pilotti, i quali ci dissero che quanto piú presto fusse possibile ci disbrigassimo di quei luoghi, perchè quello era un molto mal porto e vi soleano perire molti navili. E perchè quello che quivi ci avenne fu cosa molto segnalata, parmi che non sia fuor del proposito dell'intenzione mia in descriver questo viaggio e narrarla.
La mattina seguente il tempo cominciò a dar tristi segni, cominciando a piovere e il mare a turbarsi, in modo che quantunque io dessi licenza alla gente che smontasse in terra, nondimeno, vedendo il tempo che faceva, ed essendo la villa lontana una lega, molti di loro per non stare all'acqua e al freddo se ne ritornarono in nave. In questo venne una canoa dalla villa, ove mi portavano una lettera d'un vicino d'essa villa, che mi pregava ch'io andasse da lui, che mi darebbe tutte quelle vettovaglie che bisognassero: ma io mi scusai con dir che non potevo lasciare i navilii. Sul mezzogiorno ritornò la canoa con un'altra lettera, nella quale con molta importunità mi pregava del medesimo che con la prima, e menavano un cavallo che mi portasse. Io diedi la medesima risposta che avevo data la prima volta, ma i pilotti e l'altra gente mi pregarono molto ch'io vi andasse, per sollecitare che le vettovaglie si portassero il piú presto che fusse possibile, per partirci subito di quel porto, dove stavamo con molta temenza di perderci con tutti i navilii se vi stavamo troppo. Laonde io mi disposi d'andarvi, e lasciai ordine ai pilotti che, se si alzasse il vento ostro, col quale in quei luoghi sogliono spesse volte rovinarsi i navilii, ed essi si vedessero in pericolo manifesto, dessero co' navilii a traverso in parte che si salvasse la gente e i cavalli. E cosí io smontai in terra, e, quantunque volesse menare alcuni in mia compagnia, essi non volsero venirvi, dicendo che pioveva troppo forte ed era troppo gran freddo, e la villa stava assai lontana, ma che il dí seguente, che era domenica, essi con l'aiuto di Dio uscirebbono per udir messa. Un'ora dipoi che io fui in terra, il mare cominciò a divenire molto fiero, e la tramontana fu tanto potente che i battelli non ebbero ardimento di dare in terra, né con navilii poterono in alcuna guisa dare a traverso, per essere il vento in prua, onde con molto gran travaglio, con due tempi contrari e con molta pioggia si stettero tutto quel giorno e la domenica. La notte appresso, l'acqua e la tempesta cominciò a crescer tanto che non meno tormentava quei di terra che quei di mare, perchè caddero tutte le case e tutte le chiese, ed era di mestieri che andassimo sette e otto uomini abbracciati insieme per poter resistere al vento, che non ci portasse, e fuggire la rovina delle case; fuggendo alla foresta, non minor tema ci davano gli arbori di quella che ci avessero date le case, perciochè ancor quelli cadendo ci tenevano in continuo timore di ammazzarci. In questa tempesta e pericolo passammo tutta la notte, senza trovare parte né luogo dove pure una mezza ora potessimo star sicuri; ma principalmente dalla mezzanotte innanti udimo romori e gridi grandi, e suoni di sonagli, di flauti e di tamburi e altri stromenti, che durarono insino alla mattina, che la tempesta cessò. In que' paesi non fu veduta giamai cosa tanto spaventevole, e io ne feci fare una testimonianza o fede, la qual mandai alla Maestà Vostra. Il lunedí mattina ce ne scendemmo al porto, e non vi trovammo i navilii; ma vedemmo de' suoi arnesi nell'acqua, onde conoscemmo che erano perduti. E cosí ci demmo ad andar per la costa cercando se ritrovassimo qualche cosa, ma non ritrovando nulla ci mettemmo a cercar per i monti, e andati da un quarto di lega lontani dall'acqua, trovammo la barchetta d'un navilio posta sopra certi arbori, e piú oltre dieci leghe per la costa si ritrovarono due persone del mio navilio, e alcuni coverchi di cassa: e quei due uomini erano sí fattamente trasfigurati e contraffatti da' colpi del lito e del mare, che non si potevano riconoscere chi fossero. Trovammo ancora una cappa e una coltra fatta in pezzi, né altra persona o cosa di piú si ritrovò mai. Perderonsi in que' due navilii sessanta uomini e venti cavalli, e que' che rimasero vivi furono solamente da trenta, che il dí medesimo che arrivammo in quel porto scesero in terra insieme col capitano Pantoxa. Stemmo in tal maniera alcuni giorni con molto travaglio e con molta necessità, perchè il sostentamento e la provisione di quel popolo era tutto perduto e andato in rovina con alcuni bestiami, e il paese rimase in modo che era gran compassione a vederlo, caduti gli arbori, brucciati i monti e rimasi senza frondi e senza erba. E cosí passammo insino a' cinque di novembre, che vi sopragiunse il governatore della nostra armata co' suoi altri quattro navilii, i quali avevano ancor essi passati gran pericoli e tormenti, ed erano scampati perchè con tempo buono s'erano ritirati al sicuro. La gente che egli avea menato seco e que' che vi ritrovò erano tanto spaventati e impauriti de' pericoli e danni passati, che non s'assicuravano piú d'imbarcarsi d'inverno, e pregarono il governatore che gli facesse posare in que' luoghi: e cosí egli vedendo la volontà loro e quella de' vicini, cosí fece, e a me diede il carico de' navilii e della gente, che con essi me n'andassi ad invernare al porto di Sagua, che è 12 leghe lontana da quel luogo. E cosí, andativi, stemmo insino a' 20 di febraro che seguí.
In questo tempo arrivò quivi da noi il governatore con un brigantino che aveva comperato alla Trinità, e menò seco un pilotto che si chiamava Miruelo, il quale dicevano che era molto pratico e che era molto buon pilotto di tutta la costa di tramontana. Lasciava oltre a ciò il governatore nella costa di Lassarte il capitan Alvaro della Cerda, con un navilio che esso governatore avea quivi comprato, e con esso lasciò quaranta uomini e 12 altri a cavallo. Due giorni dipoi che il governatore arrivò da noi, c'imbarcammo, ed eravamo in tutto 400 uomini e ottanta cavalli sopra quattro navilii e un brigantino. Il pilotto che di nuovo avevamo preso mise i navilii per le seccagne che dicono di Canarreo, in modo che il dí seguente ci trovammo in secco, e cosí stemmo cinque giorni, toccando molte volte il fondo de' navilii in secco. In fine di quei cinque giorni, una fortuna di ostro spinse tant'acqua nelle seccagne che noi potemmo uscire, ancorchè non senza molto pericolo. Partiti di quivi, arrivammo a Guaniguanico, dove ne assalse un'altra tempesta cosí fiera che stemmo a gran pericolo di perderci; al capo di Corrientes n'avemmo un'altra, dove stemmo tre giorni. E passati questi intorniamo il capo di Santo Antonio, e con tempo contrario andammo, finchè arrivammo dodeci leghe vicine alla Havana; e stando il dí seguente per entrarvi, ci prese un tempo d'ostro che ci allungò dalla terra, e attraversammo per la costa di Florida, e arrivammo a' 12 d'aprile alla terra Martes. Cosí costeggiando la via di Florida, il giovedí santo surgemmo nella medesima costa, nella bocca d'una spiaggia, in capo della quale vedemmo alcune case e abitazioni degl'Indi.
In quel giorno medesimo uscí di nave il contator Alonso Enriquez, e si mise in una isola che è nella medesima spiaggia, e chiamò di quegli Indi, i quali vennero e stettero con esso noi buona pezza, e per via di riscatto gli diedero pesce e alcuni pezzi di carne di cervio. Il giorno appresso, che fu il venerdí santo, il governatore si sbarcò con quanta gente poterono portare i battelli, e andammo alle ville o case che avevamo vedute degl'Indi, le quali trovammo tutte sgombrate e sole, perchè la gente se n'era quella notte andata nelle loro canoe. Una di quelle case era molto grande, che capiva piú di trecento persone, le altre erano piú picciole: e vi trovammo una campanella d'oro tra le reti. L'altro giorno il governatore alzò le bandiere per Vostra Maestà e prese la possessione del villaggio nel suo real nome, e presentò le provisioni e fu ricevuto e obedito per governatore, sí come Vostra Maestà ordinava. E cosí medesimamente presentammo noi altri le nostre provisioni avanti a lui, il quale l'accettò e obedí come in esso si conteneva, e subito fece sbarcare il resto della gente e i cavalli, che non erano piú che quarantadue, perchè gli altri per le molte tempeste e colpi di mare, e per la longhezza del tempo, erano morti: e questi pochi che erano rimasi stavano tanto fiacchi e affaticati, che per allora poco ce ne potemmo servire. Il dí seguente gl'Indi di quei luoghi vennero a noi, e quantunque ci parlassero, nondimeno non erano da noi intesi, ma facevano molti segnali e minaccie, e ci parea che dicessero che noi ci partissimo di quel villaggio, e cosí senza farci veruno impedimento se n'andarono.
Il dí appresso il governatore volle entrar per il villaggio, per discoprirlo e veder che cosa vi fosse. Fummo seco il commissario, il veditore e io con quarant'altri uomini, tra' quali n'erano sei a cavallo, de' quali poco ci potevamo valere. Prendemmo il cammino verso tramontana, e all'ora del vespro arrivammo ad un golfo molto grande, che ci pareva che entrasse molto per dentro il villaggio, e quivi fermatici quella notte, il dí seguente ritornammo dove stavano i navili e la gente nostra. Il governatore comandò che il brigantino andasse costeggiando la via di Florida, e cercasse il porto che il pilotto Miruelo avea detto di sapere: ma già l'aveva smarrito e non sapeva in che parte noi fossimo, né dove era il porto; e fu ordinato al detto brigantino che, se non trovava il porto, attraversasse alla Havana e trovasse il navilio che teneva Alvaro della Cerda, e presa qualche vettovaglia ci tornasse a trovare. Partito il brigantino, ritornammo ad entrar per il villaggio di quei medesimi di prima, con alcuni di piú e costeggiammo il golfo che avevamo trovato, e andati da quattro leghe pigliammo quattro Indiani e mostrammo loro del maiz, perchè insino a quel giorno non n'avevamo ancor veduto segnale alcuno: essi dicessero di menarci dove n'era, e cosí ci menarono al villaggio loro, ch'era non lontano di là al capo del golfo, e quivi ci mostrarono un poco di maiz, che ancora non era maturo da cogliersi. Trovammo quivi molte casse di mercatanti di Castiglia, e in ciascuna di esse era un corpo d'uomo morto, coperti tutti di pelli di cervi dipinti: al commissario parve che quella fosse spezie d'idolatria, e bruciò le casse con tutti i corpi. Trovammovi ancora pezzi di tela di panni e pennacchi che parevano della Nuova Spagna, e alcune mostre d'oro, e con segni domandammo a quegli Indiani onde avessero avute tai cose. Essi pur a segni ci mostrarono che molto lontano di quivi era una provincia che si chiamava Apalachen, nella quale era gran quantità d'oro: e facevano gran segni per darci ad intendere che in detta provincia era molta copia di tutto quello che dicevano, che in Palachen ve ne era molto, e a noi è tenuto in pregio. Noi partiti di là andammo avanti, menando per guida quei quattro Indiani che avevamo presi prima, e cosí, lontano dieci o dodeci leghe di quel luogo, trovammo un altro popolo di quindeci case, dove era una buona campagna di maiz seminato, il quale già stava da potersi cogliere, e trovammone ancor del secco. Quivi ci fermammo duoi giorni, e dipoi tornammo dove stava il contatore con la gente e navilii, e narrammo loro tutto quello che avevamo veduto, e le nuove che quegli Indi ci avean date.
E il dí seguente, che fu il primo di maggio, il governatore chiamò da parte il commissario, il contatore, il veditore e me, e un marinaro che si chiamava Bartolomeo Fernandez, e uno scrivano chiamato Girolamo d'Alaniz, e a tutti insieme disse che egli era d'animo d'entrar per la terra adentro, e che i navilii s'andassero costeggiando finchè trovassero il porto, e che i pilotti dicevano e credevano che, andando alla via delle Palme, non potevano esserne molto lontani: onde ci dimandava il parer nostro. Io risposi che per niun modo mi pareva che si dovessero lasciare i navilii finchè non fossero in porto sicuro e popolato, e che considerasse bene, perchè i pilotti non dicevano alcuna cosa di certo, e non si fermavano in un parere, e non sapevano dove fussino; e che, oltre a ciò, i cavalli non stavano in modo che per alcun bisogno che ci avenisse potessero servirci, e sopra tutto che noi andavamo muti e senza lingua da poterci intendere con gl'Indi, né saper da essi quel che cerchiamo; e che noi entravamo in paese del quale non avevamo relazione alcuna, né sapevamo di che sorte fosse, né che cose vi si trovassero, né da che gente abitata, né in che parte di quella stavamo, e sopra tutto non avevamo vettovaglia per entrare in luoghi incogniti, perchè, veduto quello ch'era ne' nostri navilii, non si potea dare all'entrar per terra piú che una libra di biscotto e una di carne di porco per persona; e finalmente che il parer mio era che ci dovessimo imbarcare e andar a trovar porto e terra migliore e piú popolata di quella che quivi avevamo veduta, la quale era tanto disabitata e povera quanto altra che se ne potesse trovare in quelle parti. Al commissario pareva tutto il contrario, dicendo che non era da imbarcarsi, ma che andando sempre per terra costeggiando si cercasse il porto, poichè i pilotti dicevano che la via di Panuco non poteva esser lungi piú di dieci o 15 leghe, e che non era possibile che andando sempre alla costa non lo trovassimo, perchè dicevano ch'era dodeci leghe dentro terra, e che i primi che lo trovassero aspettassero finchè arrivassero gli altri; e che l'imbarcarsi era un tentare Iddio, poichè dal dí che ci eravamo imbarcati in Castiglia avevamo passate tante fortune, tanti travagli, e perduta tanta gente e navilii: onde si dovea andar lungo la costa fino che si trovasse il porto, e che i navilii con l'altra gente anderia per l'istessa via, finchè arrivasse al medesimo porto. A tutti gli altri che quivi erano parve che fussi bene che cosí si facesse, eccetto che allo scrivano, il qual disse che, avanti che abbandonasse i navilii, gli doveva lasciare in porto conosciuto e sicuro e in paese popolato, e che, fatto ciò, si poteva poi entrar per terra e far tutto quello che gli paresse. Il governatore volle seguire il parer di se stesso e di quegli altri che l'aveano consigliato prima. Io, veduta questa sua determinazione, lo richiesi da parte della Maestà Vostra che non si dovessero lasciare i navilii finchè non fossero in porto e sicuri, e cosí richiesi lo scrivano che ne facesse testimonio. Il governatore mi rispose che, poichè egli seguiva il parer di piú altri ufficiali e del commissario, io non ero parte sofficiente a farli questa richiesta, e domandò allo scrivano che facesse testimonianza come, non essendo in quel villaggio sostentamento da potervi abitare, né porto per li navilii, egli levava quel popolo che vi era e andavasene in cerca di porto e di paese migliore di quello: e cosí mandò subito a far intendere a quei che dovevano andar seco che si provedessero di tutto quello che giornalmente loro bisognasse. E doppo questo, in presenzia di tutti coloro che quivi erano, mi disse che, poi ch'io tanto disturbavo e tanto temevo l'entrar per terra, mi rimanesse e mi prendessi la cura de' navilii e della gente, e che stanziasse e abitasse se arrivavo prima di lui. Io mi scusai di non volerlo fare. Dipoi la sera medesima mi mandò a pregare ch'io volessi pigliarmi quel carico de' navilii, ma, vedendo che con tutto quel suo importunamento io tuttavia ricusavo, mi domandò per qual cagione io cosí stesse ostinato a non volerlo accettare. Al che io risposi ch'io fuggivo quel carico perchè tenevo per cosa certissima che né egli era per riveder mai piú i navilii, né i navilii lui, e che questo giudicio io facevo dal vedere che cosí male in ordine e senza provisione s'entrava per la terra adentro; onde io volevo piú tosto arrischiarmi al pericolo al quale s'arrischiava egli e gli altri, e passar quello ch'essi passavano, che prendermi il peso de' navilii e dare occasione che si dicesse che, doppo l'aver contradetto all'entrar per terra, mi fussi rimaso per paura, e l'onor mio andasse in disputa, volendo io piú tosto esporre la vita ad ogni pericolo che mettere l'onor mio a condizione tale. Il governatore, vedendo che egli meco non faceva frutto alcuno, fece che molti altri me ne pregarono, alli quali io risposi il medesimo che a lui; e cosí finalmente egli fece suo luogotenente per li navilii uno alcalde che non aveva menato seco, e chiamavasi Caravallo.
Il sabbato, che fu il primo giorno di maggio, quel dí medesimo che ciò s'era fatto, il governatore fece dare a ciascuno di quei che dovevano venir con noi due libre di biscotto e mezza libra di carne di porco, e cosí ci partimmo per entrar per la terra adentro. La somma di tutti quei che vennero fu di trecento uomini in tutto, tra li quali era il commissario fra Giovanni Sciuarez, e un altro frate che si chiamava fra Giovanni de Palis, e tre cherici e gli ufficiali; a cavallo noi eravamo 40. E cosí, con quella provisione che avevamo portato, andammo 15 giorni senza trovare altra cosa da mangiare, fuor che palmizi alla guisa di quei dell'Andaluzia. In tutto questo tempo non trovammo Indiano alcuno, né vedemmo casa né luogo abitato, e alla fine trovammo un fiume, il qual passammo con molto travaglio notando e con zattere, e stemmo un giorno a passarlo, perchè correva con molta furia. Passati dall'altra riva del fiume, ci vennero incontra da dugento Indiani, e il governatore nostro si fece avanti e, dopo l'aver parlato loro per segni, essi ci fecero all'incontro tai segni che ci attaccammo con esso loro, prendendone cinque o sei, i quali ci menarono alle lor case, ch'erano vicine da mezza lega: e quivi trovammo gran quantità di maiz che stava già da potersi cogliere, onde rendemmo infinite grazie a nostro Signore Iddio che ci avesse soccorso in cosí estrema necessità, perciochè veramente, essendo noi ancor nuovi nei travagli, oltra alla stanchezza che allora avevamo de' corpi, eravamo ancor molto sbattuti dalla fame. Il terzo giorno dipoi che quivi eravamo arrivati, fumo insieme il contatore, il riveditore, il commissario e io, e pregammo il governatore che mandasse alcuni a cercar in mare, per veder se trovassimo porto, perchè quegli Indi dicevano che il mare non era molto lontano di quivi. Egli ci rispose che non ci curassimo di parlare in ciò, perchè il mare era troppo lungo, ma, poichè io era quello che piú l'importunavo, mi disse che io andasse a scoprire il mare e cercare il porto, e che andasse a piè con quaranta uomini. E cosí il dí sequente io mi partii insieme col capitano Alonso del Castiglio e quaranta uomini della sua compagnia, e cosí andammo fino all'ora del mezzogiorno, che arrivammo ad alcune spiaggette del mare, che pareva che si stendessero molto dentro terra, e per quegli andammo da una lega e mezza con l'acqua fino a mezza gamba, calpestando sopra ostriche che ci tagliavano tutti i piedi e ci fecero molti disturbi, finchè arrivammo a quel medesimo fiume che avevamo passato prima, il quale entrava in quel medesimo golfo: e non lo potendo noi passare per il tristo apparecchio che avevamo, ce ne ritornammo al governatore, narrandogli ciò che avevamo trovato, e come era di mestiero di ripassar di nuovo quel primo fiume per quel medesimo luogo ove l'avevamo passato la prima volta, per discoprir bene quel golfo e vedere se per quei luoghi vi fusse porto. E cosí il dí appresso il governatore ordinò al capitano Valenzuela che con sessanta uomini a piede e sei a cavallo passasse quel fiume, e andasse seguitandolo in giuso, fin che arrivasse al mare, e cercasse se vi fusse porto. Colui di lí a due giorni ritornò e disse che avevano scoperto il golfo, e che tutto era spiaggia bassa fino al ginocchio: non si trovava porto; e che aveva vedute cinque o sei canoe d'Indiani, che passavano da una parte all'altra e portavano molti penacchi.
Saputo questo, il dí appresso ci partimmo di quel luogo, andando sempre dimandando di quella provincia che gl'Indiani ci avevano detto, chiamata Apalachen, e menavamo per guida quelli che avevamo presi; e cosí andammo fino a' 17 di giugno, che non trovammo Indiani ch'ardissero d'aspettarci. Quivi venne da noi un signore, che lo portava un Indiano in collo, ed era coperto d'un cuoio di cervo dipinto, e menava seco molta gente, e davanti a lui andavano sonando alcuni flauti di canna: e cosí arrivò al governatore e stette un'ora seco, e per segnali gli facemmo intendere come andavamo ad Apalachen, e per quei segnali ch'egli ci fece ci parve di comprendere ch'ei fosse nemico di quei d'Apalachen, e che verrebbe ad aiutarci contra loro. Noi gli donammo corone, sonagli, e altre cose tali, ed egli donò al governatore il cuoio che portava sopra, e cosí diede volta indietro e noi li seguimmo appresso. Quella sera arrivammo ad un fiume, il quale era molto profondo e molto largo e correva molto forte, e non ci bastando l'animo di passarlo con zattere, facemmo una canoa, e stemmo tutto un giorno a passarlo: e se gl'Indi ci avessero voluto offendere, potevano agevolmente disturbarci il passo, e ancora, con tutto che essi ci aiutarono, ci avemmo molto travaglio. Uno de' nostri a cavallo, chiamato Giovan Velasco, ch'era nativo di Cuellar, per non volere aspettare entrò nel fiume col suo cavallo, ed essendo la corrente del fiume molto gagliarda lo gettò da cavallo, ed egli, attenendosi alle redine, affogò se stesso e il cavallo insieme. E quegli Indiani di quel signore, che si chiamava Dulcancellin, trovarono il cavallo e ci dissero dove troveremo lui per lo fiume a basso, e cosí s'andò a cercarlo: e la morte sua ci diede molto dispiacere, perchè fino a quel punto non ci era mancato niuno de' nostri. Il cavallo quella notte diede da cenare a molti. E cosí, passato quel fiume, il dí seguente arrivammo alla gente di quel signore, dove ci mandò del loro maiz. La sera, andando alcuni de' nostri a pigliare acqua, fu tirata una frezza dagl'Indiani, e diede ad uno cristiano, ma piacque a Dio che non lo ferisse.
Il dí seguente ci partimmo di quel luogo, senza che alcuno di quegli Indiani comparisse, perchè tutti s'erano fuggiti. Ma nell'andare avanti si viddero alcuni Indiani che venivano di guerra, e quantunche noi li chiamassimo, essi non vollono tardare né aspettarci, ma ritirandosi ci seguivano poi per la via medesima che noi facevamo. Il governatore lasciò fra via una imboscata d'alcuni a cavallo, i quali, come quegl'Indi passarono, furon loro sopra e ne presero tre o quattro, che de lí avanti ci servirono per guida, e ci menarono per paese molto travaglioso a camminare e maraviglioso a vedere, essendo monti molto grandi e arbori altissimi, delli quali tanti n'erano caduti a terra che ci intrigavano il cammino, di maniera che non potevamo passare senza girar molto con gran nostro travaglio: e di quegli arbori ch'erano caduti, la maggior parte erano fessi dall'un capo all'altro dalle saette che quivi caggiono, essendovi sempre gran tempeste. Con questo travaglio camminammo insino al giorno doppo san Giovanni, nel qual giorno arrivammo a vista d'Apalachen, senza che quelli del villaggio ci sentissino. Rendemo noi molte grazie a Dio vedendoci cosí vicini a quel luogo, e credendo che fosse vero quello che ci era stato detto, e sperando che quivi si finirebbono i nostri travagli grandi ch'avevamo passati, sí per il lungo e tristo cammino come per la gran fame che avevamo patito, perciochè, quantunche alcune volte trovassimo del maiz, nondimeno le piú volte andavamo sette e otto leghe senza trovarne. E molti n'erano tra noi che, oltre alla fame e alla stanchezza, avevano impiagate le spalle dal continuo portar dell'arme, senza che degli altri travagli s'incontravano giornalmente. Ma pur tuttavia, vedendoci arrivati dove desideravamo, e dove ci avevano detto ch'era tanto sostenimento e tanto oro, ci era aviso d'avere passato gran parte de' travagli e della stanchezza.
Arrivati cosí a vista d'Apalachen, il governatore mi comandò ch'io pigliassi meco nove a cavallo e cinquanta a piedi ed entrasse nel villaggio: e cosí facemmo il reveditore e io, ed entrati non trovammo se non fanciulli e donne, perchè allora gli uomini non erano quivi; ma indi a poco, andando noi per quelli luoghi, vennero e cominciarono a combattere e a saettarci, e ammazzarono il cavallo al reveditore, ma alla fine fuggirono e lasciaronci. Quivi trovammo gran quantità di maiz che stava già per cogliersi, e assai del secco n'avevano rimesso; trovammovi molte pelle di cacciagioni e alcune mante di filo, picciole e triste, con le quali le donne cuoprono alcune parti della lor persona; avevano molti vasi da macinare il maiz. In quel popolo erano quaranta case piccole ed edificate basse e in luoghi raccolti, per tema delle tempeste grandi che quel paese suole aver di continuo; le fabriche sono di paglia, e stanno intorniati da monti molto spessi e grandi arboreti e molti pelaghi d'acqua ove sono tanti e tanto grandi arbori caduti che intricano ogni cosa, e fanno che non vi si può camminare senza gran travaglio.
Il terreno, dal luogo ove noi sbarcammo insino a questo popolo d'Apalachen, per la maggior parte è piano, e il suolo è d'arena duro e saldo, e per tutto si truovano molti grandi arbori e monti chiari, ove sono noci e labrani e altri che chiamano laquidambares; vi sono cedri e savine ed elci e pini e roveri e palmizi bassi, come sono quei di Castiglia. Per tutto quel paese sono molte lacune grande e picciole, e alcune ne sono molto travagliose a passare, sí per esser molto profonde, sí ancora per molti arbori che vi sono caduti; il suolo loro è d'arena, e quelle lacune che trovammo nella marca d'Apalachen sono molto maggiori che tutte l'altre che avevamo trovate fino là. In questa provincia sono molti campi del loro maiz, e le case sono sparse per la campagna, come quelle delle Gerbe. Gli animali che vi vedemmo sono cervi di tre sorti, conigli, lepri, orsi, leoni e altri sí fatti, tra' quali ne vedemmo uno che porta i figliuoli in una bolgia che ha nella pancia, e quivi li porta tutto il tempo che sono piccioli, finchè si sanno andar procacciando il mangiar da se stessi: e se a caso i figliuoli stanno in cerca del mangiare senza la madre, e a lei sopravenga gente, ella non fugge finchè se gli ha raccolti nella sua bolgia. Per que' luoghi la terra è molto fredda, e vi sono molto buoni pascoli per greggie; vi sono uccelli di molte sorti, paperi in gran quantità, oche, anatre, garze, tordi e altri uccelli di simil sorte, e vi vedemmo molti falconi, grifalchi, sparvieri e altre molte sorti d'uccelli.
Duoi giorni dipoi che noi arrivammo in Apalachen, gl'Indi che n'erano fuggiti ritornarono a noi con pace, dimandandoci i figliuoli e le donne loro: e noi li demmo tutti, se non che il governatore si ritenne un lor cazique, che fu cagione di fargli partir scandalizati. E il dí seguente ritornarono come nemici, e con tanta furia e prestezza ci assalirono, che arrivarono a mettere fuoco fino alle case dove stavamo; ma come noi uscimmo fuori, se ne fuggirono e si raccolsero alle lacune, che erano quivi molto vicine, onde per quelle, e per li frumenti che v'erano molto grandi, noi non potemmo far loro alcun danno, se non che n'ammazzammo un solo. Il dí appresso altri Indiani d'un altro popolo, che era dall'altra banda, vennero da noi e ci assalirono nel modo stesso che aveano fatto gli altri prima, e nella medesima guisa se ne fuggirono, e fu similmente ucciso un di loro. Stemmo quivi XXV giorni, ne' quali facemmo tre entrate per la terra adentro, e trovammola molto povera di gente e molto malagevole per camminare, per rispetto di tristi passi e monti e lacune che vi sono. Noi a quel cazique che avevamo ritenuto, e agli altri Indiani che menavamo con noi ed erano vicini e nemici di questi d'Apalachen, domandammo delle qualità di quel paese, della gente e delle vettovaglie e altre cose intorno a ciò; e ciascuno appertamente ci rispose che il maggior popolo di tutto quel paese era quello d'Apalachen, e che piú oltre era manco gente e molto piú povera che loro, e tutto quel paese era mal popolato, e gli abitatori stavano molto sparsi, e passando piú avanti si trovavano grandissime lacune, monti spessi e diserti grandi e disabitati. Domandammo loro del paese che era verso il sur, che popolo e mantenimenti tenesse, e ci risposero che, di quivi andando verso il mare, a nove giornate era un popolo che si chiamava Aute, e che gl'Indi di quel luogo aveano molto maiz, e che vi erano fagioli, che sono simili a li nostri cesari, e zucche, e che per esser cosí vicini al mare vi si trovava del pesce, e ch'erano amici loro. Noi, veduta la povertà del paese e come fosse mal popolato, e intesa la mala relazione che ce ne davano, e che quegl'Indi ci faceano guerra ferendoci le persone e i cavalli ne' luoghi ove andavamo a pigliare acqua, stando essi di là dalle lacune e tanto al sicuro che non gli potevamo offendere, ed essi ci frezzavano, e ammazzarono un signor di Dezaico che si chiamava don Pietro, il quale il commissario menava seco, ci accordammo finalmente di partirci de lí, e andare a cercare il mare e quel popolo d'Aute che coloro ci dicevano: e cosí ci partimmo, in capo di XXV giorni che quivi eravamo arrivati.
Il primo giorno passammo quelle lacune e tristi passi senza veder Indiano alcuno, ma il secondo dí ci venner sopra ad una lacuna di molto tristo passo, che l'acqua ci dava fino al petto e vi erano molti arbori caduti: ed essendo noi in mezo a quella gl'Indi ci assalirono, essendosi essi nascosti dietro degli arbori perchè non gli vedessimo, e altri n'erano sopra gli arbori caduti, e cominciaronci a frezzare in modo che ci ferirono molti uomini e cavalli, e ci tolsero la guida che menavamo: e questo fecero prima che noi uscissimo delle lacune. Dipoi, essendone usciti, ci furono appresso perseguitandoci per impedirne il passo, in modo che non ci giovava di spinger loro avanti, né di farci forti e voler combattere con esso loro, perchè essi subito si ficcavano nelle lacune e quindi ci ferivano i cavalli e gli uomini. Il che vedendo, il governatore comandò che quegli a cavallo scendessero e gli assalissero a piè, e cosí fecero, e il contatore scavalcò con essi, e assalitoli li posero tutti in fuga, e se ne entrarono in una lacuna: e cosí guadagnammo loro il passo. In quella mischia rimasero feriti alcuni de' nostri, che lor non valsero le buone arme che portavano, e vi furono di quei che giurarono d'aver veduto duoi roveri, grossi ciascuno come la gamba, che erano dalle frezze di quegl'Indi stati passati da banda a banda; il che perciò non è cosa da maravigliarsene, vista la forza con che le mandano, e io medesimo viddi una frezza in un piè d'un alamo, che vi entrava dentro un sommesso. Quanti Indiani noi vedemmo dalla Florida insino a quel luogo, tutti sono arcieri, ed essendo alti di corpo e andando ignudi, paiono a vederli di lontano tanti giganti. Sono gente maravigliosamente ben disposti, molto asciutti e di molta forza e leggierezza. Gli archi che usano sono grossi come il braccio, d'undeci e dodeci palmi, e tirano lontano dugento passi, e cosí di mira e giusto che non tirano mai in fallo.
Passato che avemmo questo passo, indi ad una lega arrivammo ad un'altra lacuna della medesima sorte, se non che, per esser lunga da meza lega, era molto peggior che la prima: questa passammo noi liberamente e senza disturbo d'Indiani, perciochè, avendo essi spesa tutta la munizione delle frezze loro in quel primo assalto, non ne erano rimase loro da poterci assalir di nuovo. L'altro giorno appresso, passando un altro passo tale, io trovai bestie di gente che andava avanti, e ne diedi aviso al governatore che veniva nella retroguardia, e cosí, andando noi ordinati e provisti, non ci poterono offendere. E usciti che fummo alla pianura, essi ci venivano tuttavia perseguitando, onde noi rivoltici da due parti ne ammazammo duoi di loro, ed essi ferirono me e duoi altri cristiani: e perchè essi si tirarono alla montagna, noi non potemmo far loro altro male. In questa guisa noi andammo otto giorni, e da questo passo che ho detto insino ad una lega vicino al luogo dove andavamo, non ci vennero a dar noia altri Indiani. Quivi ce ne usciron sopra alcuni e senza esser sentiti diedero nella retroguardia, e al grido che diede un ragazzo d'un gentiluomo de' nostri, chiamato Avellaneda, il già detto Avellaneda rivolgendosi corse a soccorrere, e gl'Indi lo colsero con una frezza dalla costa della corazza, e fu tale la ferita che passò quasi tutta la frezza per dietro la testa: e colui morí subito, e noi lo portammo cosí morto fino ad Aute.
Arrivammo in Aute il nono giorno doppo la partita d'Appalachen. Trovammo tutta la gente di quel luogo fuggita, e avevano brucciate le case, e vi trovammo molto maiz e zucche e fagioli, che già stavano per cogliersi. Quivi ci riposammo duoi giorni, e dipoi il governatore mi pregò ch'io andassi a scoprire il mare, poichè gl'Indiani diceano che era tanto vicino, e già ancor noi per cammino l'avevamo scoperto per un fiume molto grande che fra via avevamo trovato, e gli avevamo posto nome il fiume della Madalena. E cosí il dí seguente io andai a discoprire insieme col commissario, col capitan Castiglio e Andrea Dorantes, e con altri sette a cavallo e cinquanta a piedi; e camminammo fino all'ora del vespro, che arrivammo ad un golfo o entrata di mare, ove trovammo molte ostriche, e ringraziammo molto Iddio che ci avea condotti in tal luogo. Il dí appresso io mandai venti uomini a riconoscere la costa e considerare la disposizione del luogo. Costoro tornarono la notte seguente, e dissero che quegli golfi e spiagge erano molto grande, ed entravano tanto per la terra adentro che disturbavan molto il poter discoprir quello che noi cercavamo, e che la costa stava molto lontana de lí. Sapute queste nuove, e veduta la mala disposizione e apparecchio che quivi era per discoprir la costa, io me ne ritornai dal governatore, e lo trovai ammalato con molti altri; e la notte avanti gli Indiani gli avevano assaliti e dato loro molta noia, per avergli trovati infermi, e avevano ucciso un cavallo. Io diedi conto al governatore di quello che avevo fatto e della mala disposizione della terra, e per quel giorno ci stemmo quivi.
Il giorno seguente ci partimmo d'Aute, e camminammo tutto quel giorno fino ad arrivar dove io ero stato prima: fu il cammino molto travaglioso, perchè né i cavalli bastavano a portare gli infermi, né sapevamo che remedio pigliare, perchè ogni giorno s'amalavano piú, che certo fu cosa di molta gran compassione e dolore a veder la gran necessità e travaglio in che stavamo. Arrivati vedemmo il poco rimedio che vi era per passar avanti, per esser la maggior parte de' nostri infermi, e in tal maniera che pochi ve n'erano che in alcuna guisa ci potevamo valer di loro. Lascio io qui di narrar questo piú a lungo, perchè ciascuno può considerar per se stesso come si stia in paese cosí strano e tristo, e senza alcun rimedio per fermarsi né per passare oltre. Ma, essendo il piú certo rimedio Iddio Signor nostro, e di questo noi non ci sconfidammo giamai, avenne quivi cosa che aggravava molto piú, e questo fu che la maggior parte della gente nostra a cavallo si cominciò a partir segretamente, pensando di trovar da se stessi rimedio, e lasciare il governatore e gli infermi, che stavano senza alcuna forza o potere. Ma pur tuttavia essendo tra loro molti gentiluomini e persone da bene, non volsero che ciò si facesse senza saputa del governatore e ufficiali della M.V., e come noi biasmammo quel lor proposito e lor facemmo vedere in che termine lasciassero il lor capitano e gl'infermi, e sopra tutto ricordammo loro il servigio di V.M., s'accordarono di rimanere, e che quello che avenisse ad uno di noi avenisse a tutti, né uno abandonasse mai l'altro. Doppo questo il governatore li fece chiamar tutti, e a ciascuno dimandò il parere loro, come si potesse uscir di simil paese e trovar qualche rimedio, essendo piú della terza parte de' nostri infermi: e potevamo tener per certo che, seguendosi cosí, d'ora in ora infermeriamo tutti, e non se ne poteva sperare se non la morte, la quale per trovarci in que' luoghi ci dovea parer piú grave. Finalmente, veduto e conservato molto bene questo e molt'altri inconvenienti, e tentati molti rimedii, convenimmo tutti in un parer molto mal agevole a metter in opera, e questo era di far navilii per andarcene. A tutti pareva cosa impossibile, perchè noi altri non gli sapevamo fare, né avevamo ferramenti né fucina né stoppa né pece né sarte, né finalmente cosa alcuna di tante che ne bisognano in tale esercizio, e sopra tutto non avendo che mangiar fra tanto che si facessero. E cosí, considerato tutto questo, ci accordammo che si dovesse in ciò pensar con piú tempo, e cosí per quel giorno cessò quella pratica e ciascuno se n'andò, raccomandandoci a Dio che c'indrizzasse come piú gli fusse servizio.
Il dí seguente piacque a Dio che venne uno de' nostri, il qual disse che egli faria alcuni canoni di legno, e con alcuni pelli di selvaggine si farebbono alcuni folli da soffiare. E trovandoci noi a tempo che qualsivoglia cosa che avesse ogni poco di colore o d'ombra di rimedio ci pareva assai, dicemmo che si facesse, e ci convenimmo che delle staffe e degli sproni e balestre e altre cose di ferro che erano tra noi si facessero i chiodi, le seghe, l'accette e altri ferramenti, poi che tanto bisognavano. E prendemmo per rimedio che, per avere alcun sostentamento finchè questo si mettesse in opera, si facessero quattro entrate in Aute con tutti i cavalli e altri che potessero andarvi, e che ogni terzo giorno s'ammazzasse un cavallo, il quale si compartisse tra quei che lavoravano nel far delle barche e tra gli infermi. L'entrate si fecero con quei cavalli e gente che fu possibile, nelle quali si portarono da quattrocento stara di maiz, benchè non senza contesa e questioni con quegli Indi. Facemmo cogliere molti palmizi per poterci valere della lana e corteccie loro, torcendole e indirizzandole per usare in vece di stoppa per le barche, le quali si cominciarono a fare con un solo carpentiere che era nella compagnia nostra. E tanta diligenza vi ponemmo che, essendosi cominciate a' quattro d'agosto, a' venti del settembre prossimo furono finite cinque barche di ventidue codami per una, e riempiemo le fessure e calcate con stoppe de' palmizi, e impegolammole con certa ragia che un Greco chiamato don Teodoro portò d'alcuni pini, e della medesima robba de' palmizi, e delle code e crini de' cavalli facemmo corde e sarte, e delle nostre camicie facemmo vele, e delle savine che quivi erano facemmo que' remi che ci parvero esser necessarii. E tale era quel paese, nel quale i peccati nostri ci aveano condotti, che non vi si trovavano pietre per lastrigar le barche, né per tutto quel paese n'avevamo veduta alcuna. Scorticammo similmente le gambe intere de' cavalli, e conciammo i cuoi per farne vasi da portar acqua. In questo tempo alcuni de' nostri andavano cogliendo tamarindi per gli angoli ed entrata del mare, ove gl'Indi in due volte che gl'incontrarono ammazzarono X cristiani, cosí vicini agli alloggiamenti nostri che gli vedemmo e non gli potemmo soccorrere, e gli trovammo da parte a parte passati con frezze, che, quantunque i nostri avessero buonissime armature, non bastarono a resistere a' colpi loro, tirando quegl'Indi con tanta forza e destrezza con quanta di sopra s'è detto. E al detto e giuramento de' nostri pilotti, della spiaggia alla quale ponemmo nome della Croce insino a questo luogo noi andammo da dugentottanta leghe, poco piú o meno, e in tutto quel paese non vedemmo montagne, né avemmo alcuna notizia per alcuna via che ve ne fussero; e avanti che ci imbarcassimo, oltre a que' che ci avevano uccisi gl'Indi, ci morirono piú di quaranta altri uomini d'infermità e di fame. A' XXII di settembre si finirono di mangiare i cavalli, che solamente uno ce ne rimase, e in quel giorno ci imbarcammo con questo ordine: nella barca del governatore andavano quarantanove uomini, e nell'altra ch'egli diede al contatore e al commissario andavano altrettanti; la terza diede al capitan Alonso del Castiglio e Andrea Durante con quarantaotto uomini, e altra ne diede a due altri capitani, che si chiamavano l'uno Telles e l'altro Pignalosa, con quarantasette uomini; l'altra al veditore e a me con quarantanove uomini. E dipoi che furono imbarcati le vettovaglie e gli arnesi e cose nostre, alla barca non avanzava piú d'una quarta sopra l'acqua, e oltre a ciò andammo tanto stretti che non ci potevamo menare né rivoltare per la barca: e tanto potette la necessità, che ci fece arrischiare ad andare in questa guisa e mettersi in un mare cosí pericoloso, senza che niuno di noi sapesse l'arte del navigare.
Quella spiaggia onde partimmo ha per nome la spiaggia de' Cavalli, e andammo sette giorni per que' golfi con l'acqua fino alla cintura, senza vedere alcun segnale di costa, e al fine di quei sette giorni arrivammo ad un'isola che sta vicina alla terra. La barca mia andava davanti, e vedemmo venir cinque canoe d'Indiani, i quali le sgombrarono tutte e le lasciarono nelle nostre mani, vedendo che noi andavamo verso loro. L'altre barche nostre passarono avanti e diedero in alcune case dell'isola medesima, ove trovarono molte lize e ova loro, che erano secche, e ci fu molto rimedio per la necessità in che noi stavamo. Doppo questo passiamo avanti, e indi a due leghe passiamo uno stretto che fa quell'isola con la terra, e lo chiamammo lo stretto di San Michele, perchè nel giorno di detto santo vi passammo. Usciti di quello stretto arrivammo alla costa, ove, con le cinque canoe che io aveva tolte agl'Indi, rimediammo ad alcune cose delle nostre barche, facendone falque e aggiungendole alle nostre, in modo che uscirono due palmi sopra l'acqua. E con questo tornammo a caminar lungo la costa per la via del fiume delle Palme, crescendoci tuttavia la sete e la fame, perchè le vettovaglie erano molto poche e stavano molto al fine, e l'acqua ci mancò, perchè le botti che avevamo fatte delle pelli de' cavalli subito furono marcie e non ci giovarono di nulla, e molte volte entrammo per alcuno golfo e spiaggie che entravano molto per entro terra, e le trovammo basse tutte e pericolose: e cosí andammo XXX giorni, e alcune volte trovammo alcuni Indiani pescatori, gente povera e miserabile. E a capo di questi XXX giorni, che la necessità dell'acqua era estrema, andando noi vicini alla costa, una notte sentimmo venire una canoa, e vedendola aspettammo che arrivasse, ed ella, ancorchè noi la chiamassimo, non volse venire né guardarci, e per essere notte non la seguitammo e andammo al viaggio nostro. Nel far del giorno vedemmo un'isoletta e andammovi per vedere se vi trovassimo dell'acqua, ma ci affaticammo in vano, perchè non ve n'era. Stando quivi surti ci prese una tempesta molto grande, onde vi stemmo sei giorni senza aver animo di rientrare in mare, e avendo cinque giorni che non avevamo bevuto, la sete era tanto grande che ci fu forza di bevere dell'acqua del mare, e alcuni s'allargaron tanto nel bevere che di subito ci morirono cinque uomini. Io racconto queste cose cosí brievemente perchè non credo che sia di mestieri narrar particolarmente le miserie in che ci trovammo, poichè, considerando il luogo ove stavamo e la poca esperienza d'alcun rimedio, ciascuno può pensar da se stesso in che termine ci ritrovassimo.
Finalmente, vedendo che la sete cresceva e l'acqua salata ci ammazzava, ci disponemmo, se ben la tempesta non era ancor cessata, di raccomandarci a Dio nostro Signore, e piú tosto arrischiarci al pericolo del mare che aspettar la certezza della morte che la sete ci dava: e cosí uscimmo per la via onde avevamo veduta passar la canoa la notte che di quivi eravamo passati. In questo giorno ci vedemmo molte volte annegati, e tanto perduti che non era alcuno di noi che non ci tenesse per certa la morte. Piacque a nostro Signore Dio, il quale nelle maggiori necessità suol mostrare il favor suo, che a posta di sole voltammo una ponta che fa la terra, ove trovammo molta bonaccia e tranquillità. Uscirono verso noi molte canoe, e gl'Indi che v'eran dentro ci parlarono e senza mirarci se ne tornarono: erano gente grande di corpo e ben disposti, e non portavano frezze né archi. Noi altri gli seguimmo insino alle case loro, che stavano quivi vicini alla lingua dell'acqua, e saltammo in terra, e davanti alle case trovammo molti cantari d'acqua e molta quantità di pesce condito, e il signor di quella terra l'offerí tutto al governatore, e pigliandolo per mano lo menò alla casa sua. Le case di costoro erano di stuore, molto bene fabricate. E dipoi che entrammo in casa del cacico o signore loro, ci diede molto pesce, e noi gli demmo del pane di frumento che portavamo, e lo mangiarono in nostra presenzia e ce ne domandarono dell'altro, e noi ne demmo a loro, e il governatore diede al caciche molte cosette. E stando seco nella sua casa, intorno a mezza ora di notte gli Indi assaltarono noi e quegli altri de' nostri che stavano molto male, gettati per quella costa, e assalirono ancora la casa del cacico, dove era il governatore, e lo ferirono d'una pietra nel viso e presero il cacico. Ma egli, avendo i suoi cosí vicini, scampò via e lasciò una sua manta di pelli di mardole zibelline, che sono al parer mio le megliori di tutto il mondo, e hanno uno odore che non pare se non d'ambra e muschio, e si sente l'odore gran pezzo lontano: ve ne vedemmo ancor dell'altre, ma niuna ve ne era che fusse come quella. Noi, vedendo il governatore ferito, lo mettemmo nella barca e facemmo che seco si riducesse alle barche la maggior parte della gente, e restammo in terra solamente cinquanta uomini per combattere con gl'Indi, che quella notte ci assalirono tre volte, e con tanto impeto che ogni volta ci facevano ritirare un tratto di pietra: e niuno vi ebbe de' nostri che non fusse ferito, e io fui ferito nella faccia, e se, come essi si ritrovarono con poche frezze, ne avessero cosí avute molte, per certo ci averebbono fatto troppo gran danno. L'ultima volta si posero in aguato i capitani Dorante, Pegnalosa e Tellos con quindeci uomini, e diedero loro nelle spalle, e in modo tale che gli fecero fuggire e ci lasciarono; e il dí seguente io ruppi a loro piú di venti canoe, che ci valsero per una tramontana che soffiava, e per tutto quel giorno ci convenne star quivi con molto freddo, senza avere ardire d'entrare in mare per la gran tempesta che vi era.
Doppo questo tornammo ad imbarcarci e navigammo tre giorni, e avendo presa poca acqua, come pochi ancora erano i vasi che avevamo ove portarla, tornammo a cadere nella medesima necessità di prima. E seguendo il viaggio nostro entrammo nello stretto, ove stando vedemmo venire una canoa d'Indiani, e come noi li chiamammo vennero, e il governatore, alla barca del quale s'erano accostati, loro domandò dell'acqua, ed essi gliene offersero, purchè si dessero loro vasi dove portarla. E un cristiano greco chiamato Doroteo Teodoro, del quale disopra s'è fatta menzione, disse che voleva andar con essi loro, e quantunque il governatore e molti altri s'affatigassero di sconsigliarlo, egli tuttavia volle andarvi, e menò seco un nero, e gl'Indiani lasciarono per ostaggi due di loro. La sera quelli Indiani tornarono e portaronci i nostri vasi senza acqua, e non rimenarono i due cristiani nostri; e quelli due loro che erano rimasi per ostaggi, tosto che essi parlarono loro, si volsero gettare in acqua, ma i nostri che gli avevano in barca li ritennero, e cosí gli altri Indiani se ne fuggirono, e lasciaronci molto confusi e tristi per li due cristiani che avevamo perduti.
La mattina seguente vennero da noi molte altre canoe d'Indiani, domandandoci i duoi loro compagni che ci avevano lasciati per ostaggi: il governatore rispose che li darebbe, purchè essi ci rendessero i due cristiani. Con questa gente venivano da cinque o sei signori, e ci parve la piú ben disposta e di maggiore autorità e conserto di quanti altri ne avevamo trovati fin qui, benchè di persona non fussero cosí grandi come gli altri che abbiamo contati. Portavano i capelli sciolti e molto lunghi, ed erano coperti di mante di mardole della sorte di quelle che di sopra si dissero, e alcune d'esse erano fatte di molto strana guisa, avendovi alcuni lacci di lavoro di pelle leonate che parevano molto belle. Ci pregavano che noi andassimo con esso loro, che ci darebbono i nostri due cristiani e acqua e altre molte cose, e di continuo venivano sopra noi molte canoe, procurando di pigliar la bocca di quella entrata, e cosí per questo come perchè il luogo era molto pericoloso, ce ne uscimmo al mare, dove stemmo con esso loro fino a mezzogiorno. Ma, non volendoci rendere i nostri cristiani, e per questo non volendo ancor noi rendere loro i due ostaggi, cominciarono a tirarci pietre con frombe, con mostrar di volerci frezzare, benchè tra essi non vedemmo se non tre o quattro archi. E cosí stando, il vento si rinfrescò ed essi se n'andarono, e noi navigammo tutto quel giorno fino all'ora del vespero, quando la barca mia che andava avanti discoperse una punta che la terra faceva, e dall'altro capo si vedeva un fiume, e io feci sorgere in una isoletta che faceva quella punta per aspettar l'altre barche.
Il governatore non volse accostare, ma si mise in una spiaggia che era quivi molto vicina, ove erano molte isolette, e quivi si ragunammo tutti, e da dentro il mare pigliammo acqua dolce, perchè il fiume entrava nel mare di tratto e con furia; e per poter brustolare un poco di maiz che portavamo, che già due giorni lo mangiammo crudo, saltammo in terra in quell'isola, ma, non trovando legne, ci accordammo d'andare al fiume che era di dietro alla punta, una lega di quivi. E andando era tanta la corrente del fiume che in niuna maniera non ci lasciava arrivare, anzi ci rispingeva dalla terra, e noi altri affaticandoci e ostinandoci per prenderla, la tramontana che veniva da terra cominciò a crescer tanto che ci rigettò al mare, senza che potessimo fare altro: ed essendo a meza lega in mare, misurammo e trovammo che con trenta braccia non potevamo prender fondo, e non potemmo conoscere se la corrente era cagione che non potessimo pigliare. E cosí navigammo due giorni, travagliando tuttavia per pigliar terra, e al fine di quelli duoi giorni un poco avanti l'uscita del sole vedemmo molti fiumi per la costa, e affaticandoci per arrivar dove quegli erano, ci trovammo in tre braccia d'acqua, e per essere notte non ardimmo di pigliar terra, perchè, avendo veduti tanti, credevamo che ci potesse avenir qualche pericolo, senza che noi per la molta scorrenza potessimo vedere che facevamo: e per questo determinammo d'aspettare alla mattina, e cosí, essendo venuto il giorno, ciascuna delle nostre barche si trovò separata dall'altre, e io mi trovai in trenta braccia. E seguendo il viaggio mio, all'ora del vespro viddi due barche, e accostatomi alla prima viddi che era quella del governatore, il qual mi dimandò che mi parea che dovesse farsi; e io gli disse che mi pareva di ricuperar quella barca che andava avanti, e che in niuna guisa non la lasciasse, e che, unite tutte tre quelle nostre barche, noi seguissimo poi il viaggio nostro ove Iddio ci guidasse. Egli mi rispose che ciò non poteva farsi, perchè quella barca era molto dentro al mare, e vi volea prender terra, e che, se io voleva esser seco, facesse che quei della barca mia prendessero i remi e si sforzassero quanto poteano, perchè a forza di braccia conveniva prender terra: e a questo lo consigliava un capitano che era seco, chiamato il capitan Pantossa, dicendo che se quel giorno non si prendeva terra, non si prenderebbe poscia in altri sei, e tra tanto era necessario morir di fame. Io veduta la volontà sua presi il mio remo, e cosí fecero tutti gli altri che erano nella barca mia, e vogammo finchè quasi fu tramontato il sole; ma, avendo il governator nella sua la piú sana e gagliarda gente de' nostri, noi in niuna guisa lo potemmo seguire. Il che vedendo, io gli domandai che per poterlo seguire mi desse un capo della sua barca, ed egli mi rispose che essi non farebbon poco se essi soli, quella notte, potessero arrivare a terra. E io gli disse che, poi ch'io vedeva la poca possibilità che vi era da poterlo seguire e far quello che esso avea comandato, mi dicesse allora che comandava ch'io facesse: egli mi rispose che non era piú tempo di comandar uno ad altri, ma che ciascuno facesse quello che li parea meglio per salvezza della vita sua, e cosí dicendo s'allungò da noi con la barca sua. E non potendolo io seguire, arrivai sopra l'altra barca che andava in alto mare, e trovai che era quella de' capitani Pignalosa e Telles, e cosí navigammo quattro giorni, mangiando ciascuno per tassa mezo pugno di maiz crudo il dí.
In capo di questi quattro giorni, ci prese una tempesta che fece prendere l'altra barca, e per molta misericordia che Iddio ebbe di noi altri non ci affondammo del tutto. Ed essendo il verno e grandissimo freddo, e tanti giorni che pativamo fame, co' molti colpi che avevamo ricevuti dal mare, il dí appresso la gente cominciò molto a cadere, in tal modo che, quando il sole si colcò, tutti quei che erano nella barca mia stavano caduti uno sopra l'altro, tanto vicini alla morte che pochi ve n'avea che si sentissero, e tra tutti loro non ve ne avea cinque che stessero in piè. E come fu fatta notte, non restammo se non il maestro e io che potessimo maneggiar la barca, e alle due ore di notte il maestro mi disse che io prendesse cura della barca, perchè egli stava tale che si tenea per fermo di morir quella notte; e cosí io presi il timone, e passata mezanotte andai a veder se 'l maestro era morto, ed egli mi disse che piú tosto stava meglio e che governeria la barca fino al giorno. Io certamente mi ritrovavo allora in tale stato, che molto piú volentieri averia pigliata la morte, che veder tanta gente avanti a me in quella maniera che quegli stavano. E dipoi che il maestro prese il carico della barca, io mi riposai un poco, ma molto inquietamente, che allora non era cosa da me piú lontana che il sonno, e appresso all'aurora mi parvi d'udire il tumulto e romor del mare, perchè, essendo la costa molto bassa, sonava molto; onde con questo io chiamai il maestro, il quale mi rispose che credeva che già noi fossimo vicini a terra, e tentando ci trovammo in sette braccia, e gli parve che ci dovessimo stare in mare insino al far del giorno. E cosí io presi un remo e vogai dalla banda della terra, che ci trovammo una lega vicini, e demmo la poppa al mare, e vicino a terra ci prese una onda, che rigittò la barca in mare un buon tratto di mano, e col gran colpo che diede quasi tutta la gente, che vi stava come morta si risentí. E vedendoci vicini a terra, ci cominciammo a levare e andar con mani e con piedi, e usciti in terra facemmo del fuoco a certi fossi, e cocemmo del maiz che portavamo e trovammo dell'acqua piovuta, e col calor del fuoco la gente si riebbe e cominciarono a prender forza. E il dí che quivi arrivammo era il sesto di novembre.
Dipoi che la gente ebbe mangiato, io comandai a Lope d'Oviedo, il quale avea piú forza ed era piú gagliardo di tutti gli altri, che s'accostasse a qualche arbore di quei ch'erano quivi presso, che, salito in uno d'essi, discoprisse la terra ove stavamo e vedesse d'averne qualche notizia. Egli cosí fece, e vidde che stavamo in isola, e che la terra era cavata alla sorte che suole star la terra dove vada bestiame, e per questo gli parve che dovesse esser terra di cristiani, e cosí ce lo disse. Io gli replicai che tornasse a guardarla molto meglio e particolarmente, e vedesse se vi era alcun cammino che fosse seguito, ma che però non si dilungasse molto, per il pericolo che vi potrebbe essere. Egli andò e, dato in una stradela, andò per quella avanti fino a meza lega, e trovò alcune capanne d'Indi che stavano sole, perchè quegl'Indi erano andati al campo, e cosí egli prese un'olla e un cagnoletto picciolo e un poco di lize, e se ne tornò da noi. E parendoci che tardasse troppo, li mandammo appresso duoi altri cristiani per cercarlo e veder che gli fosse avvenuto, e cosí l'incontrarono quivi appresso, e viddero che tre Indi con archi e frezze gli venian dietro chiamandolo, ed egli chiamava loro per segni. E cosí arrivò dove noi altri stavamo, e quegli Indi si fermarono un poco adietro assisi nella medesima riviera; e indi a meza ora sopragiunsero altri cento Indi arcieri, i quali ancorchè fosser grandi, nondimeno il timore ce li faceva parer giganti, e si fermarono intorno a noi altri, ove stavano quei tre di prima. Tra noi era cosa vana il pensar che vi fusse chi si difendesse, perchè appena ve ne erano sei che si potessero alzar da terra. Il veditore e io ci accostammo verso loro e chiamammoli, ed essi s'accostarono a noi, e, come potemmo il meglio, procurammo d'assicurar loro e noi stessi: demmo loro corone e sonagli, e ciascuno d'essi mi diede una frezza, che è segno d'amicizia, e per segnali dissero che la mattina tornerebbono da noi e ci porteriano da mangiare, perchè allora non ne aveano.
Il dí appresso, nel far del giorno, che era l'ora che gli Indi avevano detto, essi vennero a noi e ci portarono molto pesce e alcune radici che essi mangiano, e sono come noci, e qual piú e qual manco, e si cavano di sotto l'acqua con molto stento. Al tardi ritornarono di nuovo e ci portarono piú pesce e delle medesime radici, e menarono con essi loro le donne e i figliuoli, perchè ci vedessero, e cosí se ne tornarono ricchi di corone e sonagli che loro donammo, e l'altro giorno ci tornarono a visitare con le medesime cose che l'altre volte. Ora, vedendo noi altri che eravamo già provisti di pesce, di quelle radici, d'acqua e d'altre cose che potemmo, ci accordammo d'imbarcarci e seguire il viaggio nostro, e cavammo la barca dell'arena nella quale era fitta: e ci bisognò spogliare nudi, e patimmo gran fatica per vararla in acqua, per esser noi altri tanto deboli che cosa piú leggiera che quella ci averia dato gran fatica. E cosí imbarcati a due tratti di balestra dentro il mare, ci diede tal colpo d'acqua che ci bagnò tutti, ed essendo noi ignudi e il freddo molto grande, rallentammo le mani ai remi, e un altro colpo che il mare diede la barca si rivoltò; onde il veditore e due altri uscirono fuora per scampar nuotando, ma a loro avenne molto al contrario, perchè la barca li colse sotto e s'affogarono. Essendo quella costa molto brava, il mare con un'onda ci gettò tutti a terra nella medesima costa, tutti involti nell'acqua e mezzo affogati, senza che di noi mancassero altri che quei tre, i quali la barca si aveva colti sotto. Noi che eravamo rimasi vivi eravamo tutti nudi, con aver perduto quanto avevamo, che, quantunque fosse poco, nondimeno a noi per allora era molto; ed essendo allora il novembre e il freddo molto grande, e noi tali che agevolmente ci potevano contar tutte l'ossa, parevamo divenuti propria figura della morte. Di me io so dire che dal mese di maggio passato io non avevo mangiato altra cosa che brustolato; alcune volte fui in tanta necessità che lo mangiavo crudo; perciochè, quantunque s'ammazzassero i cavalli mentre si facevano le barche, io non ne potei mangiar mai, e non furono dieci le volte ch'io mangiassi pesce. Questo dico perchè ciascuno possi considerare come noi potessimo stare in quel punto, e sopra tutto quel giorno aveva soffiato una tramontana, che stavamo piú vicini alla morte che alla vita. Piacque a Dio che, cercando noi i tizzoni del fuoco che quivi avevamo fatto avanti che c'imbarcassimo, vi trovammo lume, e cosí facendo grandi fuochi ci stavamo, chiedendo a nostro Signore misericordia e perdono de' nostri peccati, con molte lagrime, avendo ciascuno di noi dolore non solamente di se medesimo, ma di tutti gli altri che si vedeva nel medesimo stato.
Al tramontar del sole gli Indi, credendo che noi non ci fussimo partiti altrimenti, ci vennero a ritrovare e portaronci da mangiare, ma quando ci videro cosí, in abito tanto differente dal primo e in cosí strana maniera, si spaventarono tanto che si rivolsero indietro. Io andai verso loro e li chiamai, e mi videro con molto spavento; feci loro intendere per segni come ci si era affondata la barca e affogati tre uomini, e quivi essi medesimi videro due morti, e gli altri che eravamo rimasi già andavamo a quel cammino della morte. Gli Indi, vedendo la disgrazia che ci era avenuta e il disagio in che stavamo con tanta sventura e miseria, si misero tra noi altri, e col gran dolore e compassione che n'ebbero, cominciarono a pianger forte e tanto di cuore che lunge di quivi si poteva udire, e cosí piansero piú di mez'ora: e certamente, vedendo che questi uomini tanto privi di ragione e tanto crudi, a guisa d'animali bruti, si dolevano delle nostre miserie, fece che in me e in tutti i nostri crescesse molto piú la compassione e la considerazione delle nostre sventure. Racquetato il pianto alquanto, io domandai ai cristiani che, se loro paresse, io pregherei quegli Indi che ci menassero alle case loro. Al che alcuni d'essi, che erano stati nella Nuova Spagna, mi risposero che di ciò non si dovesse far parola, perchè se coloro ci menavano alle loro case, ci averebbono sacrificati a' loro idoli; tuttavia, veduto che altro rimedio non vi era, e che per qualsivoglia altra via la morte ci era piú certa e piú vicina, io non curai di quello che costoro diceano, ma pregai gli Indi che ci volessero menare alle loro case: ed essi mostrarono che loro piaceva molto, e che noi aspettassimo un poco, che farebbono quanto noi volessimo. E subito trenta d'essi si caricarono di legna e andarono alle loro case, che erano lontane di quivi, e noi rimanemmo con gli altri insino che fu quasi notte, e allora ci presero e menandoci con molta fretta andammo alle case loro: e perchè temevano che per il gran freddo nel cammino non ne morisse o spasimasse e assiderassesi alcuno, aveano provisto che fra via si facessero quattro o cinque fuochi molto grandi, posti a spazii, e a ciascuno di quelli ci scaldavano, e come vedevano che avevamo preso un poco di forza e di caldo, ci menavano fino all'altro, con tanta fretta che quasi non ci lasciavano mettere i piedi in terra. E di questa maniera fummo insino alle case loro, ove trovammo che aveano fatta una casa per noi altri, e in quella molti fuochi; e indi ad un'ora che eravamo arrivati cominciarono a ballare e far gran festa, che durò tutta la notte, benchè per noi non vi era né festa né sonno, aspettando quando ci avessero a sacrificare. La mattina ci tornarono a dar pesce e radici, e a farci tanto buoni portamenti che ci assicurammo alquanto, e perdemmo in qualche parte la temenza del sacrificio.
In quei giorni medesimi io viddi ad uno di quegli Indi uno riscatto, e conobbi che non era di quei che noi gli avevamo dati; e dimandando onde l'avessero avuto, essi mi risposero per segni che l'aveano dato loro altri uomini come noi, che stavano di dietro a quel luogo. Io, veduto questo, mandai duoi cristiani e duoi Indi che lor mostrassero quella gente, e andati s'incontrarono in essi molto vicino, che venivano a cercar noi, perchè gl'Indi di quei luoghi aveano detto loro di noi altri. Questi erano i capitani Andrea Dorante e Alonso del Castiglio, con tutta la gente della lor barca, e venuti da noi si spaventarono molto di vederci nella guisa che stavamo, ed ebbono gran dolore di non avere alcuna cosa che darci, perchè non aveano altra robba che quella che portavano vestita. E stettero quivi con noi altri, e ci contarono come a' cinque di quel mese medesimo la barca loro avea dato a traverso, una lega e meza lontano di quivi, ed essi erano scampati senza perdere alcuna cosa; e tutti insieme ci accordammo di rassettare quella barca loro e andarcene in essa, tutti coloro che avesser forza e disposizione da poterlo fare, e gli altri rimanessino quivi finchè si riavessero, e come potessero se ne andassero lungo la costa e quivi aspettassero, finchè Iddio gli avesse condotti con noi altri a terra di cristiani. E sí come divisammo cosí facemmo, e avanti che mettessimo la barca in acqua Tavera, un cavaliere della compagnia nostra, si morí, e la barca che noi altri pensavamo che ci portasse fece ancor ella il fin suo, e non poté sostenere se stessa e subito s'affondò. Onde, stando noi nella maniera che s'è detto e nudi, e il tempo cosí forte per camminare e passar fiumi e golfi a nuoto, né avendo vettovaglia o sostentamento alcuno, né modo da portarne, determinammo di far quello a che il bisogno e la forza ci stringeva, cioè d'invernar quivi; e accordammoci similmente che quattro de' nostri piú forti andassero a Panuco, credendoci di starvi presso, e che, se a Dio nostro Signore fosse piaciuto che vi arrivassero, dessero nuova come noi eravamo quivi e della nostra necessità e travagli. Questi che andavano erano molto grandi natatori, e l'uno si chiamava Alnaro Ferrante, portoghese, carpentiere e marinaro, il secondo si chiamava Mendos, e il terzo Figheroa, che era natio di Toleto, il quarto essendo natio di Zaffra e menavano seco un Indo che era dell'isola de Avia.
Partiti questi quattro cristiani, indi a pochi giorni venne un tempo tale di freddo e di tempeste, che gl'Indi non poteano trovar le radici, e de' canali ove soleano pescare non cavavano frutto alcuno; ed essendo le cose cosí triste si cominciarono a morire molte genti, e cinque cristiani che stavano in Xamo, nella costa, vennero a tale estremità che si mangiarono l'un l'altro, finchè restò un solo, per non aver chi lo mangiasse. I nomi loro sono questi: Siera, Piego Lopes, Corral, Palatio, Gonzalo Ruis. Di questo caso si alterarono tanto gl'Indiani e tanto scandalo ne presero, che senza dubbio, se l'avessero saputo da principio, gli ammazzavano tutti, e tutti noi saremmo stati in grandissimo travaglio. Finalmente, che in poco tempo di ottanta uomini che noi eravamo restammo soli quindeci, doppo morti questi, venne agl'Indi una infirmità di stomaco della quale morí la metà di loro, e credettero che noi altri fussimo quei che gli ammazzassimo, e tenendolo per cosa molto certa concertarono tra loro d'ammazzarci tutti, quei pochi che eravamo rimasi. E già venendo per mandarlo ad effetto, un Indo che io tenevo disse loro che non credessero noi altri fossimo quei che gli ammazzavamo, perchè, se noi avessimo tal potere, faremmo che di noi altri non ne morisse tanti, com'essi aveano veduto che ce n'erano morti, senza poterli rimediare, e che già eravamo rimasi molti pochi, de' quali niuno facea loro danno né pregiudizio alcuno: onde il meglio era che ci lasciassero vivi. E piacque a nostro Signore che gli altri seguirono questo suo consiglio e parere, e cosí si rimossero da quel proposito.
A questa isola noi mettemmo nome l'isola di Malfatto. La gente che quivi trovammo sono grandi e ben disposti; non hanno altre armi che frezze e archi, nel che sono sommamente destri. Hanno gli uomini una tetta forata dall'una parte all'altra, e alcuni vi sono che l'hanno forate ambedue, e per il pertugio che vi fanno portano una canna attraversata, di lunghezza di due palmi e mezzo e grossa due deta. Portano similmente pertugiato il labro di sotto, e per entro vi portano un pezzo di canna sottile come mezo deto. Le donne sono di molta fatica. L'abitazione che essi fanno in quell'isola è da ottobre insino al fin di febraro, e il mantenimento loro sono le radici che ho detto, cavate di sotto l'acqua il novembre e il decembre. Hanno canali, ma non hanno pesce piú che per questo tempo, e de lí avanti mangiano le radici; al fin di febraro vanno in altre parti a cercar da mangiare, perchè allora le radici cominciano a nascere e non sono piú buone. È gente che piú d'ogn'altra del mondo ama i figliuoli, e miglior trattamento lor fanno: e quando accade che ad alcuno gli muore il figliuolo, lo piangono il padre, la madre, i parenti con tutto il popolo, e il pianto dura un anno intero, che ogni giorno avanti che esca il sole incominciano prima a piangere i padri, e dipoi secondo tutto il popolo, e il medesimo fanno a mezzodí e all'aurora: e finito l'anno, li fanno loro esequie e onori che si fanno ai morti, ed essi si lavano e mondano del lutto che portavano. Tutti i morti loro piangono in questa guisa, fuor che i vecchi, de' quali non fanno stima, perchè dicono che già han passato il lor tempo e che non vagliono piú a nulla, anzi occupano la terra e tolgono il mantenimento ai fanciulli. Usano di sepellire i morti, se non quei che tra loro sono fisici, i quali brucciano, e mentre il fuoco arde tutti stanno danzando e facendo molta festa, e fanno polvere dell'ossa; e passato l'anno, quando fanno gli onori ai loro morti, tutti si rivolgono per terra, e ai parenti danno quella polvere dell'ossa a bere in acqua. Ciascuno ha una moglie sua propria; i fisici sono quei che hanno piú libertà, e ne possono tener due e tre, ed è tra loro molto grande amicizia e conformità. Quando alcuno marita la sua figliuola, colui che la piglia, fino al giorno che si congiunge seco, tutto quello che prende cacciando o pescando lo lascia alla moglie, che lo porti a casa del padre, senza avere ardire di pigliarne né mangiarne cosa alcuna, e da casa del suocero portano poi da mangiare a lui; e in tutto questo tempo né il suocero né la suocera entrano in casa sua, né egli ha da entrare in casa loro né de' cognati, e se a caso s'incontrano tra via si dilungano un tiro di balestra l'uno dall'altro, e fra tanto che cosí si vanno dilungando portano la testa bassa e gli occhi in terra, perchè tengono per cosa trista il vedersi e il parlarsi. Le donne hanno libertà di conversare co' suoceri e altri parenti. E questa usanza hanno da quell'isola fino a piú di cinquanta leghe dentro terra. Un'altra usanza hanno, e questa è che quando muore fratello o figliuolo loro, per tre mesi non si procaccia da mangiare da quei della casa ove muore, anzi si lasciariano morir di fame, se non che i parenti e vicini proveggono loro di quello che hanno da mangiare; onde nel tempo che noi quivi stemmo, essendo morta molta gente, era nella maggior parte delle case molta gran fame, perchè essi osservano molto bene l'usanze e cerimonie loro, e quei che ne procacciavano da mangiar per loro, per essere in tempo cosí forte, non ne potevano trovar se non molto poco. E per questa cagione quegl'Indi che mi teneano se ne uscirono dell'isola, e in alcune canoe se ne passarono in terra ferma, ad alcune spiagge ove avevano molte ostriche: e per tre mesi dell'anno non si mangia altro, e bevono molta trista acqua. Hanno gran carestia di legnami e gran quantità di moscioni; le case loro sono edificate di stuore sopra scorze d'ostriche, e sopra di esse dormono sopra cuoi d'animali, i quali ancora non tengono se non a caso. E cosí stemmo insino alla fine del mese d'aprile, che andammo alla costa del mare, ove mangiammo more di tutto quel mese, nel quale finiscono di fare i giuochi e le feste loro.
In quell'isola ch'io ho detto ci volevano far fisici senza esaminarci né domandarci i titoli, perchè essi medicano le infermità soffiando nell'infermo, e con quello e con le mani gli sanano, e volsero che noi facessimo il medesimo e servissimo in qualche cosa. Noi ci ridevamo di tal cosa, dicendo che era burla e che non sapevamo medicare, onde ci levarono il mangiare, finchè facessimo quel che diceano: e vedendo la nostra perfidia, un Indiano mi disse che io non sapea ciò ch'io diceva, perciochè le pietre ed erbe che nascono per li campi hanno virtú, e che egli con una pietra calda, menandola per sopra lo stomaco, ne sanava il dolore, e che noi che siamo uomini è cosa certa che dobbiamo aver maggior virtú che tutte l'altre cose del mondo. Alla fine, vedendoci in tanta necessità, ci fu forza di farlo, senza però sperare che ci giovasse di nulla. La sorte e modo che essi tengono in curarsi è questa, che vedendosi infermi chiamano un medico, al quale dipoi che sono sanati danno tutto quello che hanno e procurano ancor altre cose da' parenti loro per dargliene.
La cura che lor fanno i medici è dare alcuni tagli dove tiene il male o dolore, e lo succhiano attorno; danno cauterii di fuoco, che tra loro è tenuta cosa molto utile, e io lo provai e me ne succedette bene; doppo questo soffiano in quel luogo che duole, e con questo credono che se gli levi il male. Il modo col quale noi li curavamo era benedirli e soffiarli, e dire un Paternostro e un'Ave Maria, e pregare come potevamo il meglio nostro Signor Iddio, che lor desse la sanità e mettessegli in cuore di farci qualche buon trattamento. Piacque alla sua misericordia che tutti quei per chi noi pregavamo, subito che gli avevamo benedetti e santificati, dicevano agli altri che stavano sani e bene, e per questo ci faceano molto buon trattamento, e lasciavano di mangiare essi per darne a noi, e ci davano pelle e altre cosette. Fu tanto grande la fame in quel luogo che molte volte io stetti tre giorni che non mangiai cosa alcuna, e cosí stavano ancor essi, e mi pareva impossibile di poter vivere, benchè in molta maggior fame e necessità mi trovai dipoi, come dirò appresso.
Gl'Indi che teneano Alonso del Castiglio e Andrea Dorante e quegli altri che erano rimasi vivi, essendo d'altra lingua e d'altro parentado, se ne passarono ad altra parte di terra ferma a mangiar ostriche, e quivi stettero insino al primo dí d'aprile, e subito poi se ne ritornarono all'isola, che era vicina fino a due leghe per lo piú largo dell'acqua: e l'isola tiene meza lega di traverso e cinque di lungo. Tutta la gente di quel paese va ignuda, e solamente le donne portano coperte alcune parti de' corpi loro con certa lana che colgono da certi arbori, e le donzelle si cuoprono con cuoi di salvadigine. È gente molto separata l'una dall'altra nella robba; tra loro non è signore alcuno, e tutti quei che sono d'una stirpe vanno insieme. Abitano quivi due sorti di lingue, una parte de' quali si chiamano di Capoques e l'altra di Han. Tengono per usanza quei che si conoscono, quando si veggono di tempo in tempo, avanti che si parlino star meza ora piangendo, e dipoi quello che è visitato s'alza prima e dona all'altro tutto quello ch'egli possiede, e colui lo riceve e indi a poco se ne va con quella robba: e alcune volte, dipoi che l'hanno ricevuta, se ne vanno senza dir parola. Altri strani costumi e usanze hanno, ma io ho contate le piú rare e le piú principali, per passare avanti a quello che a noi avenne.
Dipoi che Dorante e Castiglio ritornarono all'isola, raccolsero tutti i cristiani, che stavano alquanto sparsi, e se ne trovarono in tutto quattordeci. Io, come ho detto, stavo dall'altra parte in terra ferma, ove i miei Indiani mi aveano menato e dove mi avea presa una grande infermità, che già, se alcuna cosa mi avesse data speranza di vivere, quella bastava per levarmela in tutto. E come i cristiani lo seppero, diedero ad un Indo la manta di martori che avevamo tolta al cacico, come per avanti s'è detto, perchè li menasse dove io era a vedermi: e cosí ne vennero dodeci, perchè gli altri due stavano tanto deboli che non s'assicurarono a menarli seco. I nomi di que' che allora vennero sono questi: Alonso del Castiglio, Andrea Dorante, Diego Dorante, Valdeviesso, Estrada, Tostado, Caves Gottieres, Esturiano cherico, Diego di Huelva, Estevanico il nero, Betines; e venuti che furono a terra ferma, trovarono un altro de' nostri, chiamato Francesco del Leon. E tutti questi tredeci andarono lungo la costa, e subito che ebbero passato gl'Indi che mi teneano me ne diedero aviso, e come erano ancora in quell'isola Ieronimo d'Alaniz e Lope d'Oviedo. L'infermità mia disturbò ch'io non li potei seguire, e non gli viddi altrimenti, e mi convenne star con que' medesimi Indiani dell'isola piú d'un anno. E per il molto travaglio che mi davano e mal portamento che mi faceano, mi determinai di fuggirmene e passar da quei che stanno ne' monti e in terra ferma, che si chiamano Indi del Carruco, perchè io non potevo soffrir la vita che facea con quest'altri, che, tra molti altri travagli, mi conveniva cavar le radici di sotto l'acqua e tra le canne dove stavano sotto terra: e da questo io avevo le deta cosí guaste che una paglia che mi toccassi me ne faceva uscir sangue, e le canne mi rompevano per molte parti, essendone molte rotte, tra le quali mi conveniva andare con la roba che di sopra ho detto ch'io portavo. Laonde io operai di passarmene a quegli altri, e con essi stetti alquanto meglio: e perchè io mi feci mercatante, procurai di far quell'ufficio come seppi il meglio, e per questo mi davano da mangiare e mi faceano buoni portamenti, e mi pregavano ch'io andasse da un luogo all'altro per cose che lor bisognavano, perciochè, per rispetto della guerra che fanno di continuo tra loro, non si camina né si negocia tra essi molto: e io già con miei traffichi e mercatanzie entravo per tutto il paese quanto volevo, e lungo la costa mi stendevo 40 e 50 leghe. Il principal traffico mio erano pezzi di cochiglie di mare e di lor cuori e conche, con le quali essi tagliavano un certo frutto, che è come fasuoli, col quale si curano e fanno i balli e le feste loro, e questa è la cosa di piú prezzo che sia tra loro, e corone di mare e altre cose tali: e questo era quello che io portavo dentro terra. In cambio poi portavo cuoi e almagra, con la quale essi si ungono e tingonsi il volto e i capelli; portavo pietre focate per far punte di frezze, e colla e canne sode per farle, e alcuni fiocchi che si fanno di peli di cervo, che le tingono e rimangono colorite. E questo ufficio a me s'affaceva molto, perchè io avevo libertà di andar dove volevo e non ero obligato a far cosa alcuna e non ero schiavo, e ovunque andavo m'era fatto buon portamento e mi davano da mangiare per rispetto delle mie mercatanzie; ma quello che piú m'importava era che, cosí andando, io cercavo e vedevo per dove me ne potesse andar avanti. E tra loro ero molto conosciuto e avevano gran piacer di vedermi, e io portavo loro quello di che aveano bisogno, e que' che non mi conosceano mi desideravano e procuravano di conoscermi, per la fama che tra loro io avevo. Saria cosa lunga il narrare i travagli che in questo tempo io passai, sí per li pericoli come per la fame e per le fortune e freddo che molte volte mi sopravennero alla campagna, ed essendo io solo, onde pure io per gran misericordia di Dio scampai; e per questi rispetti io non facevo tale ufficio il verno, per esser tempo che essi medesimi, stando nelle lor capanne, non potevano valersi né muoversi.
Furon quasi sei anni quelli ch'io stetti con esso loro in quel paese, solo e nudo come tutti vanno, e la cagione perchè io stetti tanto fu per menar meco un cristiano che stava nell'isola, chiamato Lope d'Oviedo, uno di quei due che rimasero quando Alonso del Castiglio e Andrea Dorante con tutti gli altri si partirono: l'altro compagno, che era chiamato Alaniz, morí subito che essi furono partiti. E per cavar io il detto Lope andava ogni anno a quell'isola, e lo pregavo che con quel miglior modo che potessimo ce ne andassimo in terra di cristiani, ed egli ogn'anno m'intratteneva, dicendomi che l'anno appresso ce ne anderiamo. E alla fine io lo cavai, e passai il golfo e quattro fiumi, perchè egli non sapea notare, e cosí con alcuni Indi passammo avanti finchè arrivammo ad un fosso, che tira una lega a traverso e da tutte le parti è molto fondo: e per quanto ce ne parve e per quanto ne vedemmo, è quello che chiamano dello Spirito Santo. E dall'altro canto di quello vedemmo alcuni Indi, i quali vennero a vedere i nostri, e ci dissero come piú avanti erano tre uomini come noi altri, dicendoci i nomi loro; e domandandogli degli altri, ci dissero che tutti erano morti di freddo e di fame, e che quegl'Indi davanti da se stessi e per passatempo aveano uccisi Diego Dorante, Valdenieso e Diego de Huela, perchè se n'erano passati da una casa all'altra, e che gli altri Indi lor vicini, co' quali ora stava il capitan Dorante, per un segno che aveano fatto aveano ammazzati Esquinel e Mendes. Domandammoli come stavano i vicini; ci risposero che molto mal trattati, perchè i fanciulli e altri Indi che sono tra loro sono molto fastidiosi e di mala condizione, davano lor molti sorgozzoni e buffetti e bastonate, e che questa era la vita che con esso loro teneano. Volemmo informarci della terra avanti e del sostentamento da vivere che vi era, e ci risposero che era molto povera di gente e che non vi era che mangiare, e morivano di freddo perchè non avevano pelli né cosa con che coprirsi; e ci dissero ancora che, se noi volevamo vedere que' tre cristiani, de lí a due giorni gl'Indi che li teneano verrebbono a mangiar noci una lega di quivi, alla riviera di quel fiume. E perchè vedessimo che quello che ci avevano detto del mal trattamento degli altri era vero, stando noi cosí con essi, diedero al compagno mio buffetti e bastonate, e io non rimasi senza la mia parte, e di molti pezzi di luto che ci tiravano; e ogni giorno ci mettevano le frezze al petto sopra il cuore, dicendo che ci volevano ammazzare come gli altri nostri compagni. E temendo questo, Lope de Oviedo mio compagno mi disse che voleva ritornarsene, con alcune donne di quegl'Indi coi quali avevano passato il golfo, le quali erano alquanto adietro: io contesi molto seco che non lo facesse, ma per niuna via lo potei ritenere, e cosí se ne ritornò, e io rimasi solo con quegl'Indi, i quali si chiamavano Quevenes, e quei con chi Lope se n'andò si chiamavano Deaguanes.
Duoi giorni dapoi che Lope d'Oviedo se ne fu andato, gl'Indi che tenevano Alonso del Castiglio e Andrea Dorante vennero al luogo che quegli altri ci aveano detto a mangiar di quelle noci, delle quali si mantengono, macinando alcuni granelli con esse, duoi mesi dell'anno senza mangiar altra cosa. E ancor di queste non ne hanno ogni anno, perchè tale anno ne nascono e tale no; sono della grandezza di quelle di Galizia, e gli arbori sono molto grandi e ve ne sono in gran numero. Un Indo mi avisò come i cristiani erano venuti, e che, s'io li voleva vedere, me ne fuggissi e m'ascondessi ad un canto d'un monte che egli mi mostrò, perchè esso e altri parenti suoi avevano da venire a veder quegl'Indi, e mi menerebbono con esso loro dove i cristiani stavano. Io mi fidai di costoro e mi disposi di farlo, perchè aveano altra lingua diversa da quella de' miei Indiani; e cosí avendo io fatto, essi il dí seguente vennero e mi trovarono nel luogo che m'aveano insegnato, e cosí mi menarono seco. Ed essendo già vicini al luogo ove coloro avevano gli alloggiamenti, Andrea Dorante uscí a veder chi era, perchè gl'Indi avevano detto anco a lui come veniva un cristiano, e come mi vidde rimase molto spaventato, perchè avea molti giorni che mi tenevano per morto, che gl'Indi cosí gli aveano detto. Ringraziammo molto Iddio di vederci insieme, e quel dí fu uno di quelli ne' quali abbiamo avuto maggiore allegrezza nella vita nostra. E arrivati poi dove stava Castiglio, mi domandarono ov'io andassi; risposi che l'intenzione mia era di passare in terra di cristiani, e che questo andavo cercando e procacciando di poter fare. Andrea Dorante rispose che molti giorni erano che esso pregava Castiglio ed Estevanicco che passassimo avanti, ma che non si assicuravano di farlo perchè non sapevano notare, e che molto temevano i fiumi e golfi che lor conveniva passare, essendone molti per quei paesi; onde, poichè a Iddio Signor nostro era piaciuto salvarmi tra tanti pericoli e infermità, e alla fine condurmi alla lor compagnia, essi determinavano di fuggire, e io li porterei per li fiumi e golfi che ritrovassimo. E avvertironmi che in niuna maniera io mi lasciasse intendere dagl'Indi di voler passare avanti, perchè subito me ucciderebbono, e che per questo conveniva che io mi stessi con esso loro sei mesi, che era il tempo nel quale quegl'Indi andavano in altro paese a mangiar tune. Queste tune sono certi frutti della grandezza d'un ovo, rosse e nere e di molto buon sapore: le mangiano tre mesi dell'anno, ne' quali non mangiano alcun'altra cosa; e perchè nel tempo che le coglievano venivano altri Indi piú avanti con archi per contrattare e cambiar con essi, noi, quando coloro se ne tornassero, fuggiremmo da' nostri e ce ne anderemmo con quelli.
Con questo appuntamento io mi rimasi quivi, e mi diedero per ischiavo ad un Indo col quale stava Dorante. Questi Indi si chiamano Marianes, e Castiglio stava con altri lor vicini, chiamati Iguales. E quivi stando mi raccontarono che, dipoi che essi uscirono dell'isola di Malhado, nella costa del mare trovarono la barca ove andavano il contatore e i frati a traverso, e che passando quei fiumi, che sono quattro, molto grandi, le molte correnti lor tolsero la barca con la quale se ne passavano al mare, e se n'affogarono quattro d'essi, e gli altri con molto travaglio passarono il golfo; e che quindeci leghe avanti ne trovarono un altro, e che, giunti che essi furono quivi, già s'erano morti duoi loro compagni, in sessanta leghe che avean fatte, e che tutti gli altri stavano ancora a quel termine di morirsi, e che in tutto quel cammino non avevano mangiato se non granchi ed erba di muri. E arrivati a quest'ultimo golfo, dicevano d'aver trovati Indi che stavano mangiando more, i quali come viddero i cristiani se n'andarono ad un altro capo, e cosí stando essi e procurando modo di passare il golfo, passaron da loro un Indo e un cristiano, e arrivati conobbero che era Figheroa, uno de' quattro che avevamo mandati avanti nell'isola di Malhado; ove egli contò loro in che maniera egli e i suoi compagni fussero arrivati fino a quel luogo, ove due di essi e un Indo s'erano morti tutti di freddo e di fame, perchè erano venuti e andati nel piú forte tempo dell'anno; e che gl'Indi aveano preso esso Figheroa e Mendes, il qual Mendes se n'era poi fuggito, andando al meglio che potea verso Panuco, e che gl'Indi l'aveano seguitato e ucciso. E che, stando cosí egli con quegl'Indi, seppe come con Marianes era un cristiano che avea passato dall'altra parte, e l'avea trovato con quei che chiamano Quevenes, il qual cristiano era Gernando d'Esquivel, natio di Badaioz, che veniva in compagnia del commissario; e ch'egli da Esquivel seppe il fine ch'avea fatto il governatore, il contatore e gli altri, dicendoli come il contatore e i frati aveano gettata la barca loro ne' fiumi, e venendosene lungo la costa arrivò il governatore a terra con la gente sua, ed egli se n'andò con la barca sua, finchè arrivarono a quel golfo grande, ove tornò a pigliar la gente sua e passolla dall'altro capo, e tornò per il contatore e per li frati con tutti gli altri. E narrò come, stando cosí sbarcati, il governatore aveva revocato la potestà di luogotenente suo che aveva il contatore, e dato tal carico ad un capitano che andava seco, chiamato Pantossa; e che il governatore quella notte se ne stava nella barca sua e non volse smontare in terra, e con esso rimasero un maestro e un paggio che stava male, e nella barca non aveano acqua né cosa alcuna da mangiare, e a mezzanotte sopravenne una tramontana tanto forte che spinse la barca in mare, senza che alcuno la vedesse, perchè non avea per sostegno se non una pietra, e non ne seppero poi mai piú cosa alcuna. E che, veduto questo, la gente che era rimasa in terra se n'andò per lungo la costa, e trovando tanto disturbo d'acqua fecero zattere con molto travaglio, e cosí passarono dall'altra parte, e andando avanti arrivarono ad una ponta d'un monte in riva dell'acqua; e che trovarono Indi, i quali, come li viddero venire, posero le lor cose nelle canoe e se ne passarono dall'altra parte della costa: e i cristiani, vedendo il tempo che era, essendo di novembre, si fermarono in quel monte, perchè vi trovarono acqua, legne e alcuni gamberi, ove di freddo e di fame si cominciarono a poco a poco a morire. E oltre a ciò Pantossa, il quale era rimaso per luogotenente, facea lor tristi portamenti, e non potendolo soffrire Sottomagiore, fratello di Vasco Porcalle, quello dell'isola di Cuba che nell'armata era venuto per maestro di campo, si rivoltò contra di esso Pantossa e diedeli di un legno, dal qual colpo Pantossa rimase morto: e cosí si vennero finendo, e que' che morivano erano fatti pezzi dagli altri, e l'ultimo che morí fu Sottomagior, ed Esquevel lo fece, e mangiandolo si mantenne insino al primo di marzo, che un Indo di quei che quivi erano fuggito venne a veder se erano morti, e menossene poi Esquivel con lui. E stando in poter di questo Indo, Figheroa gli parlò e seppe da lui tutto quello che di sopra abbiamo narrato, e pregollo che se ne venisse con lui per andarsene insieme alla via del Panuco: ed Esquivel non lo volse fare, dicendo che da' frati egli avea inteso come Panuco era rimaso adietro, e cosí si rimase quivi, e Figheroa se n'andò alla costa ove solea stare.
Questo tutto ci raccontò Figheroa per relazione a lui fatta da Esquivel, e cosí di mano in mano arrivò da me: onde si può vedere e sapere il fine che ebbe tutta quella armata, e i casi particolari che a ciascuno degli altri avennero. E disse di piú che, se i cristiani per alcun tempo andassero per quelle parti, potrebbe essere che vedessero Esquivel, perchè sapea che se ne era fuggito da quell'Indo col quale stava, ad altri che si chiamano Maremaes, che erano quivi vicini. E cosí avendo finito di dire, egli e l'Asturiano se ne voleano andare agli altri Indi che stavano piú avanti, ma sentendoli quegl'Indi che li teneano uscirono e vennero a dar loro molte bastonate, e spogliarono l'Asturiano e ferirongli un braccio con una frezza; ma pure alla fine se ne fuggirono, e gli altri cristiani si rimasero, e fecero con quegl'Indi che li prendessero per schiavi: benchè, stando con esso loro e servendoli, furon trattati cosí male come mai fussero schiavi o altra gente del mondo, perciochè, di sei che erano, non contenti di dar loro continuamente molti buffetti, bastonate e pelar loro la barba, per solo passatempo e spasso loro e per passar solamente da una casa all'altra ne ammazzarono tre, che sono que' ch'io dissi di sopra, Diego Dorante, Valdeniesso e Diego de Huelva, e gli altri tre che eran rimasi aspettavano di fare ancor essi il medesimo fine. E per non soffrir quella vita, Andrea Dorante se ne fuggí ai Mareames, che erano quelli co' quali si era fermato Esquivel, ed essi gli raccontarono come avean quivi tenuto Esquivel, il qual poi se n'era voluto fuggire, perchè una donna avea sognato che egli le dovea ammazzare un figliuolo, e cosí fuggendo gl'Indi lo seguitarono e ucciserlo: e mostraron poi ad Andrea Dorante la spada sua, la corona, il libro e altre cose ch'egli avea.
Questo costume hanno costoro d'ammazzar anco i medesimi figliuoli per sogni che fanno, e le figliuole femine, nascendo, le lasciano mangiare a cani e le gettano per que' luoghi. E la ragione perchè lo fanno è che dicono che tutti quei del paese sono lor nemici e hanno con esso loro grandissima guerra, onde, se a caso maritassero le lor figliuole, moltiplicherebbon tanto i lor nemici che li soggiogheriano e piglieriano tutti: e per questa cagione voleano piú tosto ammazzarli che da lor medesimi avesse a nascere chi fusse nemico loro. Noi altri li domandammo perchè non le maritavano con lor stessi, e risposero che era cosa brutta il maritarle co' lor parenti, e che era molto meglio ucciderle che darle per moglie a' parenti e nemici loro: e questa usanza osservano costoro e altri vicini loro che si chiamano Iaguazes, né altri di quel paese se non essi l'osserva. E quando costoro hanno da tor moglie, comprano le donne da' lor nemici, e il prezzo che ne pagano è un arco, il miglior che possono avere, con due frezze; e se per sorte non hanno arco, danno una rete larga un braccio e lunga altrettanto.
Dorante stette con costoro, e indi a non molti dí se ne fuggí; Castiglio ed Estevanicco se ne vennero dentro terra ferma agli Iaguazes. Tutti questi sono arcieri e ben disposti, benchè non cosí grandi come gli altri che adietro avevamo lasciati, e portano le tette e i labri forati come coloro. Il sostentamento lor sono principalmente radici di due o tre sorti, le quali cercano per tutto il paese, e sono molto triste ed enfiano gli uomini che le mangiano; tardano due dí a rostirsi e molte d'esse sono molto amare, e con tutto ciò si cavano con molto travaglio, ma è tanta la fame che è in que' paesi che non posson far senz'esse, e vanno due e tre leghe cercandone. Alcune volte uccidono qualche selvadigina, e a' tempi pigliano del pesce, ma questo è tanto poco e la fame loro tanto grande che mangiano ragni, ova di formiche, vermi e lucerte e salamandre, serpi, vipere che col morso uccidono gli uomini, mangian terra, legno e tutto quello che possono avere, sterco d'animali selvaggi e altre cose ch'io lascio di raccontare: e credo per certo che, se in quel paese fusser pietre, le mangierebbono. Servano le spine de' pesci e delle serpi che mangiano, per macinarle dipoi tutte e mangiar quella polvere. Tra costoro gli uomini non si caricano né portano pesi, ma tutto ciò fanno le donne e i vecchi, che sono la gente ch'essi manco stimano; non hanno tanto amore a' figliuoli come gli altri che di sopra dicemmo; sono alcuni tra essi che usano peccato contra natura. Le donne sono molto affaticante e sofficienti, perchè delle 24 ore tra dí e notte non hanno se non sei ore di riposo, e tutta la maggior parte della notte passano in scaldare i loro forni per seccar quelle radici che mangiano, e, come s'incomincia a far giorno, esse cominciano a cavare e a portar legna e acqua alle case loro, e dan ordine alle altre cose di che hanno bisogno. La maggior parte di loro sono gran ladroni, perciochè, quantunque tra loro sieno ben compartiti, nondimeno, nel volger il padre la testa o il figliuolo, l'uno toglie all'altro ciò che può; sono gran mentitori e bugiardi e gran ebbriachi, e a tale effetto beono una certa bevanda loro. Sono tanto usati al correre che senza mai riposarsi, e senza stancarsi, corrono dalla mattina alla sera seguendo un cervo, e in tal modo ne ammazzano molti, perchè li seguono finchè gli straccano, e alcune volte li prendono vivi. Le case loro sono di stuore poste sopra quattro archi, e le levano, e mutansi ogni due o tre giorni per cercar da mangiare: niuna cosa seminano da poterne aver frutto. È gente molto allegra, e per la molta fame che hanno non lasciano di ballare e di far le lor feste; il miglior tempo che costoro hanno è quando mangiano le tune, perchè allora non hanno fame, e tutto il tempo passano in balli, e ne mangiano notte e giorno tutto il tempo che ne hanno. Le stringono e aprono e le pongon a seccare, e cosí secche le mettono in alcune serte, come fichi, e le serbano per mangiare per camino quando se ne tornano, e le scorze loro seccano e ne fanno polvere.
Molte volte, stando noi con costoro, ci avenne di star quattro giorni senza mangiare perchè non ve n'era, ed essi, per farci stare allegri, ci dicevano che non stessimo di mala voglia, che presto averemmo tune e ne mangeremmo molte e beveremmo del succo loro, ed empiremmo molto bene il ventre, e staremmo molto allegri e contenti e senza fame alcuna: e quando ci diceano questo, insino al tempo delle tune vi erano cinque e sei mesi. E quando fu il tempo andammo a mangiar le tune, e per camino trovammo molti moscioni di tre sorte, che sono molto tristi, noiosi, e tutto il rimanente della state ci davano molta fatica. E per difenderci da loro faceamo fuoghi di legne marcie e molli, perchè non ardessero, ma facessero fumo: ma questa difesa ci dava altro travaglio, perchè in tutta la notte non facevamo se non piangere dal fumo che ci dava negli occhi, e oltre a ciò il gran calore che i molti fuoghi ci davano; e uscivamo a dormire alla costa, e se alcuna volta potevamo dormire, essi ci ricordavano a bastonate il tornare a far ardere i fuoghi. Quei della terra piú adentro usano per questi moscioni un rimedio cosí incomportabile come questo e piú, cioè d'andar con tizzoni in mano bruciando i campi e i boschi ovunque si incontrano, per farne fuggire i moscioni, e cosí ancora per cavar di sotto la terra le lucerte e altre cose tali per mangiarsele, e sogliono ancora uccidere cervi intorniandoli con molti fuoghi; il che fanno ancora per togliere il pasto agli animali, acciochè sieno astretti d'andarne a trovare ov'essi vogliono, perchè non si fermano mai con le lor case se non dove sia acqua e legna. E alcune volte si caricano tutti di questa provisione e vanno a cercare i cervi, che molto ordinariamente stanno dove non è acqua né legna, e il giorno che arrivano ammazzano cervi e qualche altra cacciagione che possono, e consumano tutta l'acqua e la legna in acconciarsi da mangiare e ne' fuoghi che fanno per cacciare i moscioni, e aspettano all'altro giorno per prender alcuna cosa da portar per camino: e quando si partono, vanno cosí conci da' moscioni che paiono avere il mal di s. Lazaro. E in questa guisa si cavano la fame due o tre volte l'anno, con tanto gran costo come ho detto: e per averlo io provato, posso affermare che niun travaglio si trovi al mondo simile a questo. Per entro il paese sono molte cacciagioni e uccelli e animali, di quei che per adietro s'è detto. Vi si trovano delle vacche, e io ne ho vedute tre volte e mangiatene, e parmi che siano della grandezza di quelle di Spagna; hanno i corni piccioli come le moresche e il pelo molto lungo, e alcune ne sono berrettine e altre nere, e al parer mio hanno miglior pelli e piú grosse che quelle de' nostri paesi: di quelle che non son grandi fanno gl'Indi veste da coprirsi, e delle maggiori fanno scarpe e rotelle. E queste vengono di verso la tramontana per la terra avanti insino alla costa di Florida, e stendonsi per la terra adentro piú di quattrocento leghe, e in tutto questo camino per le valli per onde elle vengono descendono le genti che ivi abitano e si mantengono di loro, e mettono nel paese gran quantità di cuoi.
Quando furono finiti i sei mesi che io stetti co' cristiani, sperando di mettere in effetto l'appontamento preso tra noi, gl'Indi se ne andarono a mangiar tune, che possono esser lontani di quivi da trenta leghe. E stando noi già per fuggircene, gl'Indi co' quali noi stavamo vennero a questione tra loro per una donna, e si diedero pugna e bastonate e si ruppero il capo, e per lo sdegno e odio grande che ebbero si presero le case loro e ciascuno se n'andò a' suoi luoghi, onde bisognò che tutti i cristiani che quivi eravamo ci separassimo con esso loro, e in niuno modo non ci potemmo riunire insino all'altr'anno. E in questo tempo io passai molta fatica, sí per la molta fame come per li tristi portamenti che quegl'Indi mi faceano, che furon tali che tre volte mi convenne fuggire da que' padroni che mi teneano: e tutti mi vennero a cercare con diligenza per ammazzarmi, ma piacque a nostro Signor Iddio di non me lasciar trovare e di guardarmi dalle lor mani, per sua infinita misericordia.
Tornato che fu il tempo delle tune, noi cristiani ci ritrovammo insieme nel medesimo luogo di prima, e avendo già concertato di fuggircene e appuntato il giorno, quel giorno medesimo gl'Indi ci separarono, e ciascuno se n'andò al suo luogo: e io dissi a' cristiani che gli aspetterei nelle tune finchè la luna fusse piena, e questo giorno quando ciò lor dissi era il primo di settembre e il primo della luna, facendoli certi che, se in tal tempo non venissero, io me n'andrei solo e gli lascierei. E cosí ci separammo e ciascuno se n'andò co' suoi Indi, e io stetti co' miei fino a' tredeci della luna, e la deliberazione mia era di fuggirmene agli altri Indi quando la luna fusse piena. A' tredeci del detto mese arrivarono da me Andrea Dorante ed Estevanicco, e mi dissero che avevano lasciato Castiglio con altri Indi che si chiamavano Canagadi, che stavano quivi vicini, e che essi avevano passato molto travaglio e s'erano perduti fra via, e che il giorno avanti i nostri Indi s'erano mutati di luogo e andati verso dove stava Castiglio, per unirsi con quei che lo tenevano e farsi amici tra loro, essendo insino a quel giorno stati nemici e in guerra: e in questo modo noi ricuperammo ancor Castiglio.
In tutto il tempo che noi mangiavamo le tune avevamo sete, e per rimedio bevevamo del succo loro, il quale cavavamo in una fossa che facevamo in terra, e come era piena ne bevevamo finchè eravamo sazii: è dolce e di color di mosto cotto; e questo si fa per non vi esser altri vasi dove metterlo. Vi sono molte sorti di tune, tra le quali ve ne sono di molto buone, benchè a me tutte mi pareano buone, e la fame non mi lasciò mai spazio da poter fare scelta e giudicio di qual fusse migliore tra tutte. La maggior parte di tutta questa gente beve acqua piovuta e raccolta in alcune parti, perciochè, quantunque vi sieno fiumi, nondimeno, perchè essi non hanno mai stanza ferma, non hanno acqua particolarmente da lor conosciuta o luogo assegnato ove prenderla. Per tutto il paese son molte grandi e belli difese e di molto buoni pascoli per greggie, e parmi che sarebbe paese molto fruttifero, se fusse lavorato e abitato da gente che avesse ragione e conoscimento. Non vi vedemmo montagne, in tutto quel paese, per tutto il tempo che vi stemmo. Quegl'Indi ci dissero che piú avanti erano altri popoli, chiamati Camoni, che vivono verso la costa, i quali avevano uccisa tutta la gente che veniva nella barca di Pignalosa e Telliz, e che tutti erano cosí deboli e languidi che, ancorchè gli ammazzassero, non si difendevano in modo alcuno, e cosí gli finiron tutti: e ci mostraron robe e armi loro, dicendoci che la barca stava quivi a traverso. Questa è la quinta barca che mancava al conto, perciochè di quella del governatore già dicemmo che il mare se la portò, e quella del contatore e de' frati era stata veduta gettata a traverso nella costa, ed Esquivel ce ne raccontò il fin loro; le due ove andavamo Castiglio, io e Dorante, già abbiamo detto come all'Inda di Malfato si ci erano affondate.
Dipoi che ci fummo mutati di luogo, de lí a due dí ci raccomandammo a Dio nostro Signore e ce ne andammo fuggendo confidandoci che, quantunque la stagione fusse già tarda e le tune si finivano, nondimeno co' frutti che rimanevano ne' campi saremmo potuti andar gran parte del paese. E andando cosí quel primo giorno, con molto timore che gl'Indi ci avessero a seguire, vedemmo alcuni fumi, e andando verso quelli doppo vespero vedemmo un Indo, che come ci vidde se ne fuggí senza volerci aspettare. Noi gli mandammo appresso il nero, e colui, come lo vidde solo, l'attese. Il nero gli disse che noi andavamo a cercar quella gente che facean quei fumi, e colui rispose che quivi vicino eran le lor case, e che egli vi ci guiderebbe: e cosí lo seguimmo, ed egli andò correndo a dar aviso come noi andavamo. E a posta di sole vedemmo le case, e a due tiri di balestra avanti che arrivassimo, trovammo quattro Indi che ci aspettarono: ci riceverono benignamente. Dicemmo loro in lingua di Mareames che andavamo a cercarli, ed essi mostrarono di rallegrarsi della compagnia nostra, e cosí ci menaron alle case loro, e posero Dorante e il nero in casa d'un fisico, e me e Castiglio con alcuni altri. Costoro hanno altra lingua e si chiamano Avavares, e sono que' che soleano portar gli archi a quei nostri primi patroni, e a contrattare con esso loro; e ancorchè sieno d'altra nazione e lingua, nondimeno intendono la lingua di quelli con chi noi stavamo prima, e quel dí medesimo erano arrivati in quel luogo ancor essi con le case loro. Subito il popolo ci offerse molte tune, perchè già aveano notizia di noi, e come medicavamo, e delle maraviglie che 'l nostro Signore operava per nostro mezzo; che quando mai altre non ce ne avesse fatte, assai grande era l'aprirci il camino per paese cosí disabitato, e darci compagnia di gente dove per molti tempi non ve n'era stata, e liberarci da tanti pericoli e non permettere che ci uccidessero, e sostentarci tra tanta fame, e mettere in cuore a quelle genti che ci trattassero bene, come appresso diremo.
Quella notte medesima che noi arrivammo, vennero alcuni Indi a Castiglio e gli dissero che stavano molto male della testa, pregandolo che li sanasse: e doppo l'averli benedetti e raccomandati a Dio, in quel punto dissero che stavano bene e che il male s'era partito, e andarono alle case loro e ci portarono molte tune e un pezzo di carne di salvadigina, che ancor non sapevamo che cosa fusse. Ed essendosi ciò publicato tra loro, vennero molti altri infermi quella notte perchè li sanasse, e ciascun di loro portava un pezzo di salvadigina, e tanti ce ne portavano che non sapevamo dove metterli. Noi ringraziammo molto Iddio, che ogni giorno ci andava crescendo la sua misericordia e grazia. E finite che furono le cure, incominciarono a ballare e a cantare i loro versi e feste, fino all'altro giorno al nascer del sole: e durò tre giorni tal festa per la venuta nostra. Dipoi li domandammo del paese avanti e delle genti e vittuarie che vi si trovano, e ci risposero che per tutto quel paese sono molte tune, ma che già erano finite, e che non troveremmo gente alcuna, perchè doppo l'aver colte le tune ciascuno se n'era tornato alle sue case, e che era paese molto freddo e vi si trovavano poche pelle. Noi, udendo questo e vedendo che il verno e tempo freddo entrava, ci accordammo di farlo con costoro. E in capo di cinque giorni da che eravamo arrivati, si partirono e andarono a cercar altre tune dove erano altre genti d'altre nazioni e di lingue diverse; e andati cinque giornate con molta fame, perchè fra via non si trovano tune né altri frutti, arrivammo ad un fiume, e quivi fermammo le case nostre, e dipoi ce n'andammo a cercare alcuni frutti d'un arbore che è a somiglianza di fichi. E non vi essendo per tutti quei luoghi strada alcuna, io m'indugiai piú degli altri in trovarle, e cosí essi se ne tornarono alle case e io rimasi solo, e venendo a cercare i nostri quella notte mi smarrii, e piacque a Dio ch'io trovassi un arbore sotto il quale era stato fatto fuoco, e al fuoco suo io passai il freddo di quella notte. La mattina mi caricai di legna e pigliai duoi tizzoni e me ne tornai a cercarli, e andai in questa guisa cinque giorni, sempre col mio fuoco e carico di legna, perchè, se il fuoco mi si spegnesse in parte dove non fusser legna, come in molti luoghi non ve ne sono, io avesse come fare altri tizzoni e non rimaner senza fuoco, che non avevo altro rimedio per il freddo, essendo io nudo come nacqui. E per la notte io avevo questo rimedio, che me n'andavo appresso qualche cespuglio de' boschetti ch'erano appresso i fiumi, e quivi mi fermavo avanti che il sole si corcasse e facevo in terra una fossa, e in essa mettevo molte legna, che si fanno d'alcuni arbori de' quali per quei luoghi è gran quantità; e mettevo insieme molte legna di quelle che erano cadute e secche, e intorno a quella fossa io facevo quattro fuochi in croce, e avevo pensiero di venir d'ora in ora rifacendo i fuochi; e facevo alcuni fasci di paglia, che per quei luoghi ve ne è molta, e con quella mi coprivo in quella fossa, e a questa guisa mi difendevo dal freddo delle notti. E una notte il fuoco cadde sopra la paglia che mi copriva, e stando io dormendo nel fosso, il fuoco cominciò ad ardere molto forte, e quantunque io saltassi fuori con molta furia, nondimeno mi rimase nei capelli il segno del pericolo che avevo passato. In tutto questo tempo io non mangiai boccone né trovai che mangiare, e andando scalzo m'uscí molto sangue dai piedi, e Iddio usò meco gran misericordia, che in tutto questo tempo non soffiò mai la tramontana, che altrimenti non vi era rimedio alcuno ch'io rimanessi vivo. In capo di cinque giorni arrivai ad una riviera dove trovai i miei Indi, i quali insieme coi cristiani mi teneano già per morto, e sempre credettero che qualche vipera m'avesse morso. Ebbero tutti gran piacere di vedermi, e principalmente i cristiani, e mi dissero che insino allora aveano camminato con molta fame, e per questo non mi erano venuti cercando: e quella notte mi diedero delle tune che aveano. Il dí appresso ci partimmo di quivi e andammo in luogo dove erano molte tune, con le quali tutte sodisfecero alla gran fame che avevamo; e noi cristiani ringraziammo molto il nostro Signore Iddio, che non ci mancava mai di rimedio.
Il dí seguente, la mattina vennero da noi molti Indi, e menavano seco cinque infermi che stavano attrati e molto male, e venivano a cercar Castiglio che li medicasse; e ciascuno degli infermi offerse l'arco suo e le frezze, ed egli le prese, e a posta di sole gli benedisse e raccommandò a Dio: e tutti lo pregammo con piú devozione che potemmo che lor desse sanità, poichè vedevo che non vi era altro rimedio per fare che quella gente ci aiutasse, e potessimo uscire di cosí miserabil vita: e la somma bontà sua lo fece tanto misericordiosamente che, venuta la mattina, tutti si levarono cosí sani e gagliardi come se mai non avessero avuto alcun male. Questo cagionò a loro molta maraviglia, e a noi risvegliamento a rendere infinite grazie a nostro Signore, e che piú intieramente conoscessimo la gran bontà sua, e tenessimo ferma speranza che ci avesse da liberare e condurci in luogo dove lo potessimo servire; e di me io so dire che sempre ebbi ferma speranza nella sua misericordia, che m'avesse da levare di quella cattività, e cosí lo dissi sempre co' miei compagni. Come gli Indi se ne furono andati via, e portati i loro infermi sani, noi ce ne andammo dove stavano altri mangiando tune: e questi si chiamano Cacalcuches e Maliconis, che sono d'altra lingua, e insieme con essi erano altri che si chiamano Coaios e Susolas, e d'altra parte altri chiamati Ataios, e questi tengono guerra coi Susolas, e si frezzavano ogni giorno tra loro. E perchè in quei luoghi non si ragionava se non de' miracoli che nostro Signore Iddio operava per mezzo nostro, vennero da molte parti a cercarci perchè gli sanassimo, e in fin di due giorni che quivi eravamo vennero a noi alcuni Indi de' Susolas, e pregarono Castiglio che andasse a curare un ferito e altri infermi, dicendo che tra essi ve n'era uno che stava in fin di morte. Castiglio era medico molto timoroso, e principalmente quando le cure erano gravi e pericolose, e credeva che i suoi peccati avessero a fare che non tutte le cure succedessero bene. Gli Indi mi dissero che andasse io a curarli, perchè essi mi volevano bene e si ricordavano ch'io gli avevo curati altre volte alle noci, e che per quello mi aveano date noci e cuoi: e questo era stato quando io venivo a unirmi co' cristiani; onde mi convenne andare con esso loro, e venner con me Dorante ed Estevanicco e quando fummo arrivati vicino alle capanne che essi teneano, io viddi l'infermo il quale andavamo a curare che già era morto, e intorno a lui stava molta gente piangendo, e la casa sua disfatta, che tra loro è segno che il patron suo è morto: e cosí, quando io arrivai, lo trovai con gli occhi rivolti e senza alcun polso e con tutti i segnali di morto, e a me cosí parea che fusse, e il medesimo mi disse Dorante. Io gli levai una stuora che teneva di sopra per coperta, e come potei il meglio pregai nostro Signore, che mi desse grazia di dar sanità a quello infermo e a tutti gli altri che n'aveano bisogno: e doppo ch'io l'ebbi benedetto e soffiato molte volte, mi portarono l'arco suo e me lo diedero, e una cesta di tune, e mi menarono a curare molti altri che stavano male di mazzucco, e mi diedero due altre ceste di tune, le quali io diedi ai nostri Indi che erano venuti con noi. E fatto questo ce ne tornammo agli alloggiamenti nostri, e i nostri Indi ai quali avevo date le tune si rimasero quivi; e la notte se ne tornarono alle loro case ancor essi, e dissero che colui che era già morto, il quale io avevo curato in presenza loro, s'era levato sano e avea passeggiato e mangiato e parlato con esso loro, e cosí tutti gli altri ch'io avevo curati erano rimasi sani, senza febre e molto allegri. Questo cagionò molta grande ammirazione e spavento, e per tutto quel paese non si parlava d'altra cosa. Tutti coloro ai quali arrivava questa fama ci venivano a cercare, perchè li curassimo e benedicessimo i loro figliuoli. E quando gl'Indi che stavano in compagnia de' nostri, che erano i Catalcuchi, se n'ebbero da andare, avanti che si partissero ci offersero tutte le tune che aveano per il lor cammino, senza che se ne lasciassero alcuna per se stessi, e ci diedero pietre focate lunghe da un palmo e mezzo, con le quali essi tagliano e tra loro son tenute in molta stima. Ci pregarono che ci ricordassimo di loro e pregassimo Iddio che sempre stessero sani, e noi lo promettemmo di farlo, e con questo se ne andarono i piú contenti uomini del mondo, avendoci dato tutto il meglio di quel che avevano.
Noi stemmo con quegli Indi Avavares otto mesi, e questi conti facevamo con la luna. In tutto questo tempo ci venivano molte genti a cercare, e diceano per cosa certa che noi eravamo figliuoli del sole. Dorante e il negro fino allora non aveano medicato, ma per la molta importunità di tante genti che ci concorrevano da ogni parte divenimmo tutti medici, ancorchè nella securezza di prendere ogni cura era io il piú segnalato tra tutti: e niuno ne curammo mai che non ci dicesse d'esser sano, e tanta confidanza teneano in noi che non pareva loro potere essere sanati se non per nostra mano, e credeano che finchè noi stavamo con esso loro niuno d'essi potesse morire. Costoro e quei piú addietro ci contarono una cosa molto strana, e per li segnali che ce ne fecero parea che avesse 15 o 16 anni che era accaduto, e questo è che diceano che per quel paese andò attorno un uomo ch'essi chiamavano Mala Cosa, che era picciolo di corpo e avea barba, benchè non gli poterono mai vedere chiaramente il viso, e quando veniva a qualche casa, a tutti quei che vi erano dentro s'arricciavano i capelli e tremavano, e subito appariva alla porta della casa un tizzone ardente: e allora quell'uomo entrava in casa e pigliava qual volea di loro, e davali tre gran cortellate per li fianchi con una pietra focata molto aguza, larga come una mano e lunga due palmi, e metteva la mano per quei tagli e cavavagli le budella, e tagliavane da un palmo, e quel pezzo che tagliava metteva a cuocere sopra le brascie; e subito gli dava tre altre cortellate in un braccio, e la seconda gli dava per la salassatura, e staccavaglielo, e indi a poco glielo tornava a rattaccare, e mettevali la mano sopra la ferita, e diceano che subito colui ritornava sano. E che molte volte, mentr'essi ballavano, quella Mala Cosa appariva tra loro, alcuna volta in abito di donna e altra come uomo, e alcune volte pigliava la capanna o casa e alzavala in alto e de lí a poco cadeva insieme con essa e dava molto gran colpo. Ci dissero ancora che essi gli davano da mangiare, ma che non mangiò mai, e che lo dimandavano donde veniva e in che parte avesse la casa sua, ed egli mostrò loro una fenditura della terra e disse che la casa sua era là sotto. Di queste cose che essi ci narravano noi ce ne ridevamo molto e ce ne facevamo beffe, ed essi, vedendo che non lo credevamo, ci menarono molti di coloro che diceano che quell'uomo avea presi, e vedemmo i segnali delle cortellate che gli avea date ne' luoghi che coloro ci aveano detto. Noi dicemmo loro che colui era un uomo tristo, e nel meglio modo che potemmo demmo loro ad intendere che, se essi credessero in Dio nostro Signore e fussero cristiani come noi altri, non averiano timor di colui né gli averia ardire di venire a far loro quelle cose, e che tenessero per certo che, mentre noi stessimo in quel paese, egli non ardirebbe di comparirvi. Di questo essi si contentarono molto, e perdettero gran parte della paura che aveano. Questi Indi ci dissero che avean veduto l'Asturiano e Figheroa, con altri che stavano nella costa avanti, i quali noi altri chiamavamo quei de' fichi.
Tutta questa gente non conoscevano i tempi per sole né per luna, né tengono conto de' mesi né dell'anno, ma sanno le differenze de' tempi secondo che i frutti vengono a maturarsi, e nel tempo che si muovono i pesci, e all'apparir delle stelle, in che essi sono molto accorti ed esercitati. Con costoro noi fummo sempre ben trattati, benchè quello che avevamo da mangiare si conveniva cavar con le nostre mani, e portar le nostre carche d'acqua e di legna. Le case e sostentamento loro sono come quelle degli altri adietro, benchè hanno molto maggior fame, perchè non hanno né maiz, né ghiande, né noci. Andammo sempre in cuoio come essi, e di notte ci coprivamo con cuoi di cervi. Di otto mesi che stemmo con esso loro, i sei patimmo molta fame, che né ancor pesce non si trovava; e al fine di questo tempo già le tune cominciavano a maturarsi, e senza che quegli Indi ci sentissero noi ce ne passammo avanti ad altri, che si chiamano Malicones.
Costoro stavano una giornata di là, dove io e il negro arrivammo, e in capo di tre giorni io mandai il negro che menasse Dorante e Castiglio, e venuti ci partimmo tutti insieme con quegl'Indi, i quali andavano a mangiare alcuni fruttarelli di certi arbori, di che si mantengono dieci o dodeci giorni fra tanto che vengono le tune. E quivi con costoro s'unirono altri Indi, che si chiamano Arbadaos, e tra costoro trovammo molti infermi, deboli ed enfiati, tanto che ce ne maravigliammo molto. E gl'Indi coi quali eravamo venuti se ne tornarono per il medesimo cammino, e noi dicemmo di volerci rimaner con quegli altri, di che essi mostrarono d'aver gran dispiacere; e cosí ci fermammo nel campo con coloro, vicino a quelle case, e quando essi ci viddero si ristrinsero tra loro e, doppo l'aver ragionato un poco, ciascuno d'essi prese uno di noi per mano, e ci menarono alle lor case. Con costoro noi patimmo maggior fame che con quegli altri, che in tutto il giorno non mangiammo se non duoi pugni di quei frutti, che eran verdi e avean tanto latte che ci brucciava la bocca, ed essendoci carestia d'acqua dava molta sete a chi li mangiava: ed essendo la fame sí grande, ci convenne comperare da loro duoi porci, e in cambio loro demmo certe reti e altre cose, e un cuoio col quale io mi copriva. Già ho detto come per tutto quel paese andammo nudi e, non essendovi noi avezzi per avanti, mutavamo a guisa di serpi il cuoio duoi volte l'anno, e col sole e con l'aria ci si faceva nel petto e nelle spalle alcune piaghe molto grandi, che ci davano gran pena per rispetto delle carche che portavamo, molto grandi e pesanti, e faceano che le corde ci si ficcavano per le braccia. E il terreno è tanto aspro e serrato che molte volte facevamo legna de' boschi, che quando l'avevamo finito di cavare ci correva il sangue da molte parti, per le spine e cespugli dove intoppavamo, che ci rompevano ovunque toccavano. Alle volte m'avenne di far legna e, dipoi l'avermi cavato molto sangue, non le poteva portare, né in spalla né strascinando. Quando mi ritrovavo in questi travagli, non avevo altro rimedio né consolamento che pensare nella passione del nostro Signor Giesú Cristo e nel sangue che per me egli sparse, e considerare quanto maggiore dovea essere il tormento che egli patí dalla corona di spine, che quello ch'io soffriva. Contrattavo io con questi Indi, facendo loro pettini, e con archi e con frezze e con reti; facevamo stuore, che sono cose delle quali essi hanno molto bisogno, e ancorchè le sappiano fare, non voglion far nulla per cercar fra tanto da mangiare, e quando si pongono a lavorare passano molta gran fame. Altre volte mi faceano rader pelli e intenerirle, e la maggior prosperità ch'io avessi tra loro era il dí che mi davano a rader qualche cuoio, perchè lo radevo molto e mangiavo di quelle raditure, e quello mi bastava per due o tre giorni. Ci avenne ancora con questi e con gli altri che avevamo lasciati adietro che, dandoci essi un pezzo di carne, ce la mangiavamo cruda, perchè, se l'avessimo posta a cuocere, il primo di loro che fusse arrivato ce la avrebbe tolta e mangiatola, onde ci pareva che non fusse bene d'arrischiarla a questo pericolo, oltre che noi non stavamo di sorte che ci dessimo pensieri di volerla mangiare piú cotta che cruda. Questa fu la vita che con questi Indi passammo, e quel poco sostentamento che avevamo ce lo guadagnavamo con cosette che facevamo con le nostre mani.
Dipoi che noi avemmo mangiati quei cani, parendoci d'aver qualche vigore da poter passare avanti, ci raccomandammo a Dio nostro Signore che ci guidasse e ci spedimmo da quegl'Indi, ed essi ci menarono ad altri della lor lingua che stavano quivi vicini. E cosí andando piovve tutto quel giorno, e oltre a ciò smarrimmo il camino e fummo a fermarci ad un monte molto grande, dove cogliemmo molte foglie di tune, e le cocemmo quella notte in un forno che facemmo, e demmo loro tanto fuoco che la mattina stavano da poterle mangiare; e doppo l'averle mangiate ci raccomandammo a Dio e ce ne andammo, e ritrovammo il cammino che avevamo smarrito. E passando il monte trovammo altre case degl'Indi, e arrivati vi vedemmo due donne e alcuni fanciulli, che andavano per quel monte: e vedendoci si spaventarono, e fuggirono a chiamare gl'Indi loro che andavano per il monte. E venuti si fermarono a guardarci di dietro a certi arbori, e noi li chiamammo e vennero con molta paura, e dipoi che avemmo parlato loro, ci dissero che avevano gran fame, e che quivi vicino stavano molte delle lor case, e dissero di menarci là e cosí quella notte arrivammo dove erano cinquanta case, e tutti si spaventavano molto di vederci e stavano con molto timore, e dipoi che erano stati alquanti sbigottiti, si ci accostavano e ci menavano le mani per il viso e per il corpo, e dipoi se le menavano sopra il viso e corpo lor proprio. E cosí stemmo quella notte, e venuta la mattina ci menarono gl'infermi che eran tra loro, pregandoci che li benedicessimo, e ci diedero di quello che aveano da mangiare, che erano foglie di tune e tune verdi arrostite o secche: e per il buon portamento che ci faceano, e perchè quel poco che aveano ce lo davano volentieri, e aveano piacer di star senza mangiar essi per darne a noi, ci stemmo con esso loro alcuni giorni. E cosí stando, vennero altri Indi di quei piú avanti, e quando se ne vollono andare noi dicemmo ai nostri primi che ce ne volevamo andar con quegli altri, il che dispiacque lor molto, e ci pregarono molto strettamente che non ci partissimo; ma alla fine ci sbrigammo da loro, e lasciammoli piangendo della nostra partita, della quale aveano grandissimo dispiacere.
Dall'isola di Malhado, tutti gl'Indi che in quel paese vedemmo hanno per usanza, dal giorno che le donne loro si sentono gravide, non dormono con esse finchè sieno passati duoi anni dall'aver creati i figliuoli, i quali elle allattano finchè sono d'età di dodeci anni, che già sono da sapersi da se stessi procacciar da mangiare. Dimandavamoli noi per qual cagione cosí gli nodrissero, e ci rispondevano che lo faceano per la molta fame che era in quel paese, dove, come noi vedevamo, alcune volte conveniva star tre e alcune volte quattro giorni senza mangiare: e per questo gli lasciavano allattare, perchè in quei tempi non morisser di fame; e se pure ancora alcuni ne fussero scampati, sarebbono stati troppo delicati e di poca forza. Se per sorte aviene che alcuno tra loro s'infermi, lo lasciano morire in quei campi, se non è figliuolo, e tutti gli altri, se non possono andar con essi, si rimangono; ma per un figlio o fratello loro, essi se li caricano in collo e cosí gli portano. Tutti costoro hanno usanza di separarsi dalle mogli loro quando tra loro non è conformità o accordo, e si rimaritano essi ed esse con chi vogliono: e questo si fa tra i giovani, ma quei che già hanno figliuoli non lasciano mai le lor mogli. E quando contendono con altri popoli e fanno questioni un con l'altro, si danno pugni e bastonate finchè sono molto stanchi, e allora si spartono, e alcuna volta gli spartono le donne entrando tra loro, perchè uomini non entrano a spartirli: e per qualsivoglia colera o passione che abbiano, non combattono con archi né con frezze. E dipoi che si hanno dati pugni e bastonate e finita la mischia, prendono le case e le donne loro e se ne vanno a vivere per i campi e separati dagli altri, finchè lor si passa lo sdegno e la colera; e quando già stanno cosí senza colera, se ne tornano alla gente loro, e da indi inanti sono amici come se mai non fusse stata tra lor cosa alcuna, né è bisogno che altri s'interponga a far le paci o l'amicizie, perchè in questa guisa le fanno da se stessi. E se quei che fanno questioni non hanno mogliera, se ne vanno da altri lor vicini, e se ben fussero lor nemici li ricevono benignamente e fanno loro molte carezze, e danno loro di quel che hanno, di modo che, passata che è loro la colera, se ne tornano al suo popolo ricchi. Tutti sono gente di guerra, e usano tanta astuzia per guardarsi da' lor nemici, come farebbono se fussero nodriti in Italia e in continua guerra. Quando sono in parte che i lor nemici li possono offendere, posano le lor case alla radicie del monte piú aspro e piú folto che quivi possin trovare, e allato a quello hanno un fosso, e quivi dormono. Tutti quei che sono da combattere stanno coperti con legna minute, e fanno le lor saettiere, e stanno tanto coperti e ascosi che, ancorchè gl'inimici lor sieno appresso, non gli veggono; e fanno una strada molto stretta fino a mezzo dentro il monte, e quivi fanno luogo perchè dormano le donne e i fanciulli. E quando viene la notte accendono lumi nelle lor case, perchè, se gl'inimici tenessero spie, si credano che essi vi sieno, e avanti l'alba accendono similmente fuochi: e se a caso i nemici vengono a dare in quelle case, quei che stanno nel fosso escono fuori, e insino alle trinciere fanno lor molto danno, senza che quei di fuori li veggano né li possano trovare. E quando non vi sono monti dove possano in tal maniera nascondersi e fare i loro aguati, si mettono al piano nella parte che loro par migliore, e intorniansi di trincere coperte di legna minute, e fanno le lor saettiere, onde saettano i nemici, e questi ripari essi fanno per la notte.
Stando io con gli Aguenes, a mezzanotte sopravenner loro i nemici all'improvviso e assalirongli, e n'uccisero tre e ferironne molti, di sorte che se ne fuggirono per il monte avanti; e poi, sentendo che i nemici se n'erano andati dalle lor case, essi ritornarono, e raccolsero tutte le frezze che coloro aveano tirate, e piú copertamente che poterono li seguirono. E quella notte vennero alle lor case senz'esser sentiti, e vicino all'alba gli assalirono e ne ammazzarono cinque de' loro, senza molt'altri che ne ferirono, e gli fecero fuggire e lasciar le case e gli archi con tutta la roba loro: e indi a poco spazio vennero le donne di quei che si chiamavano Quevenes, e si poser tra loro e gli fecero amici, quantunque alcune volte elle sieno principio della guerra. Tutte queste genti, quando tengono inimicizie particolari, se non sono d'una stessa famiglia si uccidono di notte con aguati e tradimenti, e usan tra loro gran crudeltà.
Questa è la piú sollecita gente per una armata di quante io ne ho mai vedute al mondo, perciochè, se temono de' loro nemici, tutta la notte stanno svegliati co' loro archi appresso e con una dozena di frezze, e colui che dorme tasta l'arco suo, e se non lo truova in corda gli dà la volta che gli bisogna. Escono molte volte delle lor case e vanno bassi bassi per terra, in modo che non possono esser veduti, e guardano e spiano per ogni parte per sentir che si fa, e se alcuna cosa sentono in un punto sono al campo con gli archi loro e con le frezze, e vanno scorrendo insino al giorno qua e là, dove veggono o sentono che bisogni, o pensano che possano essere i nemici. Quando viene il giorno, tornano a rallentare i loro archi, finchè poi vanno a caccia; le corde degli archi loro sono nervi di cervo. Il modo che tengono di combattere è d'andar bassi per terra, e mentre si frezzano vanno parlando e saltando sempre da un capo all'altro, guardandosi dalle frezze de' nemici, tanto che in luoghi tali possono con tal modo di combattere ricevere molto poco danno di balestre o d'archibugi, anzi gl'Indi se ne fanno beffe, perchè tale arme non vagliono contra loro in campi piani, dov'essi vanno sciolti, e solamente vagliono per luoghi stretti e d'acqua. Nel resto i cavalli son quegli che gli hanno da soggiogare, e quei che gl'Indi universalmente temono. Chi ha da combattere con esso loro conviene che stia molto avvertito che essi non conoscano che sia stanco o codardo, e mentre dura la guerra gli ha da trattare il peggio che può, perciochè, se timore conoscessero in lui o alcuna codardia, quella è gente che sa molto ben conoscere il tempo da vendicarsi, e prende ardire e forza dalla temenza de' loro adversarii. Quando nella guerra si son frezzati e hanno consumata la lor munizione, se ne ritorna ciascuno al cammino suo, senza che i nemici gli seguano quantunque l'una parte fusser pochi e gli altri molti: e questa è usanza loro. Molte volte si passano da parte a parte con le frezze, e non muoiono se non toccano le trippe o il cuore, anzi sanano molto presto. Veggono e odono e hanno i sentimenti piú acuti di quanti uomini io credo che sieno nel mondo. Sono grandemente pazienti della fame e della sete e del freddo, come quei che piú vi sono avezzi che tutti gli altri. Questo ho voluto raccontare perchè, oltre che ciascuno è desideroso di sapere i costumi e gli esercizii degli altri, quei che alcune volte si verranno a veder con essi sieno avisati de' lor costumi e arditezze, che sogliono molto giovare inverso tali.
Voglio similmente raccontare le nazioni e lingue che sono tra essi, dall'isola di Malhada insino agli ultimi Cuchendadi. Nell'isola di Malhada sono due lingue: questi si chiamano Cavoques, quegli altri di Han. In terra ferma, a fronte a quell'isola, sono altri che si chiamano di Carruco, e pigliano tal nome dai monti dove vivono; avanti nella costa del mare sono altri che chiamano Deguenes, e in fronte a questi sono altri che chiamano di Mendica. Piú avanti nella costa sono i Quevenes, e a fronte a questi dentro in terra ferma sono i Mariames, e andando per la costa avanti sono altri chiamati Guaicones, e in fronte a questi dentro in terra ferma l'Iguazes. In capo a questi sono altri che chiamano gli Ataios, e dietro a questi altri che chiamano Acubadaos, e di questi sono molti per questa riviera avanti. Nella costa vivono altri chiamati Quitoles, e in fronte a questi dentro in terra ferma i Avavares, e con questi si uniscono i Maliacones e i Cultalculches, e altri che si chiamano Susolas, e altri chiamati Comos, e davanti nella costa stanno i Camoles, e nella medesima costa avanti sono altri che noi chiamiamo quei de' fichi. Tutte queste genti tengono abitazioni e popoli e lingue diverse: tra costoro è una lingua nella quale, dicendo agli uomini "guarda qua", dicono arraca e ai cani dicono xo. E in tutto quel paese s'imbriacano con certo fumo, che danno ciò che hanno per averne. Beono similmente un'altra cosa che cavano delle frondi degli arbori, come d'elci, e le cuocono in alcune botti al fuoco, e dipoi che l'hanno cotta empiono la botte d'acqua, e cosí lo tengono sopra il fuoco, e quando ha bollito due volte la buttano in alcuni vasi e la raffreddano con una mezza zucca: e quando sta con molta schiuma, la beono quanta piú calda la posson soffrire, e finchè la cavano della botte e finchè la beono stanno gridando "chi vuol bevere". E quando le donne sentono questi gridi, subito si fermano senza aver ardir di muoversi, se ben si trovassero d'esser molto cariche: e se per sorte alcuna d'esse si movesse, la svergognano e danno delle bastonate, e con molto sdegno e colera essi gettan via quell'acqua o bevanda che hanno fatta, e se ne hanno bevuta la vomitano fuori, il che essi fanno molto agevolmente. La ragione di questa loro usanza essi dicono che è questa, che se, quando essi vogliono bere di quell'acqua, le donne si muovono da dove le prende quella voce, in quella bevanda si mette una cosa trista, la quale entrando nel corpo in breve spazio gli fa morire. E tutto il tempo che quell'acqua si cuoce, il vaso ha da star bene turato e chiuso, e se per sorte stesse scoperto e venisse a passare alcuna donna, la gettano via e non ne beono piú. È di color giallo, e la beono tre giorni senza mangiare, e ogni giorno ne beono un'anfora e mezza. E quando le donne hanno le loro purgazioni, non procacciano da mangiare se non per se stessi, perchè niun'altra persona mangia di quello ch'ella porta. Nel tempo ch'io stavo tra costoro viddi un bruttissimo costume, cioè un uomo che era maritato con un altro: e questi sono alcuni uomini effeminati e impotenti, e vanno vestiti e coperti come donna e fanno ufficio di donna, e non tirano archi e portano molto gran pesi. E tra costoro ne vedemmo molti cosí effeminati come ho detto, e sono piú membruti e piú alti che gli altri uomini.
Dipoi che noi ci partimmo da quei che lasciammo piangendo, fummo con gli altri alle case loro, e da essi fummo molto ben ricevuti, e ci menarono i figliuoli loro perchè toccassimo loro le mani, e ci davano molta farina di mesquiquez. Questi sono alcuni frutti che quando stanno negli arbori sono molto amari, e sono della sorte che sono le carobe, e mangiansi con terra, e con essa sono molto dolci e buoni da mangiare. Il modo col quale li conciano è che fanno una fossa in terra dell'altezza che vogliono, e dipoi che in questa fossa hanno gettati i frutti, con un legno grosso come una gamba e lungo un braccio e mezzo gli macinano molto bene, e piú che gli si attacca della terra della fossa, ne pigliano dell'altra crivellata e la mettano nella detta fossa e tornano a macinarla un altro poco; e dipoi la pongono in un vaso a modo d'una sporta, e vi buttan sopra tanta acqua che basti a coprirla, in modo che l'acqua avanzi per sopra, e colui che l'ha macinata la pruova in bocca, e se gli pare che non sia dolce dimanda terra e la mescola seco, e questo fa finchè la truova dolce. E cosí poi si mettono a sedere intorno intorno, e ciascuno vi mette la mano e ne piglia quanto può, e la sementa o amandole di quei frutti e cosí le scorze si gettano sopra d'alcuni cuoi, e colui che gli ha macinati le raccoglie e le torna a metter poi tutte nella sporta, e gettali sopra acqua come prima, e tornano a sprimer il sugo e acqua che ne può uscire, e similmente tornano a mettere le semenze e le scorze sopra il cuoio. E cosí in questa guisa fanno tre o quattro volte per ogni macinatura, e quei che si trovano a questo banchetto, che per essi è molto grande, rimangono con la pancia molto enfiata per la terra e acqua che beono. E di questo ci fecero gli Indi molta gran festa, e fecero tra loro molti balli e feste fintanto che quivi stemmo, e quando la notte noi dormivamo, alla porta della capanna dove stavamo vegghiavano sei uomini con molta cura, non lasciando entrar da noi alcuno finchè il sol fusse uscito. E quando ci volemmo partir da loro, arrivarono quivi alcune donne d'altri che vivevano piú avanti, e informati da loro dove stavano quelle case, ci partimmo verso quella parte, ancorchè coloro molto ci pregassero che per quel giorno non ci partissemo, perchè quelle case stavano molto lunge di quivi e non vi era cammino per andarvi, e che quelle donne erano venute stanche, ma riposandosi fino all'altro giorno verrebbono poi con noi e ci guiderebbono. Ma noi ce ne spedimmo e andammo via, e indi a poco quelle donne che erano venute quivi, con alcune altre di quei primi, se ne vennero dietro a noi; ma, non vi essendo strada battuta né sentiero, subito ci perdemmo, e cosí andammo quattro leghe, in fin delle quali arrivammo a bere ad un'acqua dove trovammo le donne che ci aveano seguito, e ci dissero il travaglio che aveano passato per ritrovarci.
Quindi partiti e menando quelle donne per guida, passammo un fiume in sul tardi, e l'acqua ci dava insino al petto, e poteva esser largo come quel di Siviglia e correva molto forte. E al colcar del sole arrivammo a cento case d'Indi, e avanti che arrivassimo uscirono tutti a riceverci, con tanto grido che era un spavento, e davansi gran palmate nelle coscie, e portavano zucche forate con pietre dentro, che è l'istrumento delle lor maggior feste: e non le cavano se non per ballare o per medicare, né è alcuno che l'ardisca pigliare in mano se non essi. E dicono che quelle zucche hanno virtú e che vengono dal cielo, perchè in quei paesi non ne nasce, né sanno onde vengano, se non che le portano i fiumi quando vengono grossi. Era tanto il timore e la confusione di costoro che, per accostarsi a noi piú presto l'un dell'altro e toccarci, ci strinsero tanto che mancò poco che non ci ammazzassero, e senza lasciarci mettere i piedi in terra ci portarono alle case loro, e tanto ci caricavano sopra e tanto ci stringea la calca, che ce ne entravamo nelle case che aveano fatte per noi, e non consentimmo che per quella notte facessero piú festa con noi. Tutta quella notte passarono tra loro in giuochi e balli, e il dí seguente a buon'ora ci menarono davanti tutta la gente di quel luogo, che noi li toccassimo e benedicessimo come avevamo fatti agli altri co' quali eravamo stati, e doppo questo diedero molte frezze alle donne dell'altro popolo, che erano venute con le loro.
Il dí appresso partimmo di quivi e tutta quella gente venne con noi, e come arrivammo ad altri Indi, fummo molto bene ricevuti come dagli altri, e ci diedero di quello che aveano, e i cervi che quel giorno avevano uccisi. E tra costoro vedemmo una nuova usanza, cioè che a quei che venivano da noi a curarsi, coloro che erano prima con noi toglievano gli archi, le frezze, le scarpe e le corone se ne aveano, e dipoi che cosí l'avevano lor tolte ce li menavano inanti perchè li medicassimo, e medicati che gli avevamo se n'andavano molto contenti, dicendo che erano sani. Cosí ci partimmo da costoro e andammo ad altri, da' quali fummo molto ben ricevuti, e ci menarono i loro infermi che, benedicendoli noi, diceano che erano sanati: e chi non sanava credeva che potessimo sanarlo, e per quello che lor diceano gli altri che noi curavamo, faceano tanta festa e balli che non ci lasciavano dormire. Partiti da costoro andammo dove erano molt'altre case, e qui cominciò un'altra nuova usanza, cioè che, ricevendoci ciascuno molto bene, coloro che venivano con noi toglievano loro tutta la robba e loro saccheggiavano le case, senza lasciar loro cosa alcuna: il che a noi dispiacque molto, vedendo cosí tristi portamenti verso quei che con tanta cortesia ci riceveano, e temendo ancora che tal cosa cagioneria qualche alterazione o scandolo tra loro. Ma, non essendo noi bastanti a rimediarvi e a castigar quei che lo faceano, ci convenne per allora soffrirlo, finchè ci vedessimo d'aver tra loro piú autorità. E cosí ancora quei medesimi che perdeano le robbe, vedendo il dispiacer nostro, ci consolavano, dicendo che di ciò non ricevessimo dispiacere, che essi erano tanto contenti d'averci veduti che aveano per bene impiegata la robba loro, e che avanti sarebbono pagati da altri che erano molto ricchi. Per tutto questo cammino avemmo molta noia per la gran gente che ci seguiva, e non potevamo separarci da loro, con tutto che molto lo procurassimo, perchè era molto grande la pressa che faceano per venirci a toccare, ed era tanta l'importunità loro, che passavano tre ore prima che potessimo fare che ci lasciassero. Il dí seguente ci menarono davanti tutta la gente loro, e la maggior parte sono sguerzi, e altri sono ciechi da se medesimi, di che restammo molto maravigliati; sono ben disposti e di buone maniere, e piú bianchi di tutti gli altri che fin qui avevamo veduti. Quivi cominciammo a veder montagne, che pareano che venissero verso il mare di Tramontana, e per la relazione che gli Indi ce ne fecero credo che stieno quindeci leghe lungi dal mare.
Quindi ci partimmo con quegli Indi verso quelle montagne che ho già dette, e ci menarono dove stavano alcuni parenti loro, perchè non ci voleano menare se non dove fussero lor parenti, non volendo che i loro nemici avessero tanto bene come parea loro che fusse il vederci. E quando fummo arrivati quei che venivano con noi saccheggiarono gli altri, i quali, perchè già sapeano l'usanza, avanti che arrivassimo aveano nascoste alcune cose; e dipoi che ci ebbero ricevuti, con molta festa e allegrezza trasser fuori quello che aveano ascoso e ce lo appresentarono, e queste erano corone, magra e alcuni ligazetti d'argento. Noi secondo l'usanza nostra le demmo subito tutte agl'Indi che venivano con noi, e cosí, dato che ce l'ebbero, cominciarono i balli e le feste loro, e mandarono a chiamare altro popolo che era quivi presso perchè ci venissero a vedere, i quali sul tardi venner tutti e ci portarono corone, archi e altre cosette, che noi pure dividemmo tra quegli altri. E il dí seguente, volendoci partire, ciascuno ci voleva menar dagli amici loro, che erano alla punta delle montagne, dicendo che quivi erano molte case e genti e che ci darebbono molte cose; ma, per esser fuori del viaggio nostro, non volemmo andarvi altrimenti, e pigliammo la via per la pianura vicina alle montagne, le quali credevamo che non dovesser esser lontane dalla costa. Tutte quelle gente sono molto triste, e tenevamo per meglio d'attraversar la terra, perchè la gente che sta piú in dentro è meglio condizionata e ci tratterebbono meglio, e tenevamo per certo che troveremmo il paese piú popolato e di miglior sostentamento; e ultimamente lo facevamo ancora perchè, attraversando la terra, vedevamo piú particolarità, perchè, se ad Iddio nostro Signore fosse piaciuto di cavarci di quel paese alcuno di noi e condurci in terra di cristiani, ne potessimo dar nuove e relazione. E vedendo gl'Indi che noi eravamo determinati di non voler andare ond'essi voleano, ci dissero che per donde noi volevamo andare non vi era né gente, né tune, né alcuna altra cosa da mangiare, e pregaronci che ci stessimo quivi quel giorno: e cosí facemmo. Allora essi mandarono duoi Indi perchè cercassero gente per quel cammino che noi volevamo fare, e il dí seguente ci partimmo, menando con esso noi molti di loro; e le donne andavano cariche d'acqua, ed era tanto grande tra loro l'autorità nostra, che niuno non ardiva di bere senza nostra licenza. Due leghe di quivi incontrammo gl'Indi che erano andati a cercar gente, e dissero che non ne trovavano, di che gli altri mostrarono d'aver dispiacere, e ci tornarono a pregare che andassimo per la montagna. Noi non lo volemmo fare ed essi, vedendo la volontà nostra, si spedirono da noi, benchè con molto lor dispiacere, e lungo il fiume all'ingiuso se ne tornarono alle case loro. E noi camminammo lungo il fiume in suso, e indi a poco incontrammo due donne, le quali erano cariche, e come ci viddero si fermarono e discaricaronsi e ci portarono di quello che aveano, che era farina del lor frumento, e ci dissero che avanti in quel fiume troveremmo molte case e tune e di quella farina: e cosí ci spedimmo da loro, che andavano a quegl'Indi onde noi eravamo partiti.
Andammo insino a posta di sole e arrivammo ad un popolo di 20 case, dove fummo ricevuti piangendo e con gran dispiacere, perchè già aveano inteso che ovunque noi arrivavamo erano saccheggiati da coloro che venivano con noi; ma, come ci viddero soli, perderono la paura e ci diedero tune e non altra cosa. Stemmo quivi quella notte, e all'alba quegl'Indi che ci aveano lasciati il dí avanti diedero nelle case loro, e cogliendoli sprovisti e sicuri tolser loro quanto aveano, senza che potessero asconder cosa alcuna: di che essi piansero molto, e i rubatori per consolarli dissero che noi eravamo figliuoli del sole, e che avevamo potere di sanar gl'infermi e d'ammazzarli, e altre lor menzogne maggiori di queste, come essi sanno dire molto bene quando veggono che lor bisognino. E soggiunsero che ci menassero con molto risguardo, e avesser cura di non offenderci né disobedirci in alcun modo, e che ci dessero quanto aveano e procurassero di menarci dove fusse molta gente, e che dove noi arrivassimo essi rubassero e saccheggiassero tutto quello che gli altri aveano, perchè cosí era usanza. E cosí, doppo l'avergli informati e ammaestrati di quanto doveano fare, se ne ritornarono e ci lasciarono con quelli, i quali, tenendo bene a memoria quello che coloro avean detto, ci cominciarono a trattare con la medesima riverenza e rispetto che gli altri.
E fummo con essi tre giornate, e ci menarono dov'era molta gente, e avanti che arrivassimo diedero aviso a coloro come noi andavamo, e dissero di noi tutto quello che gli altri avean loro insegnato e vi aggiunsero molto piú, perchè tutta questa gente indiana è molto amica di novelle, e sono gran bugiardi, e tanto piú quando vi va qualche loro interesse. Quando noi arrivammo vicino alle case, uscí tutto il popolo a riceverci con molto piacere e festa, e tra le altre cose duoi de' lor fisici ci diedero due zucche, e d'allora in poi cominciammo a portar zucche con noi, e aggiungemmo all'autorità nostra questa cerimonia, che con quelle genti è molto grande. Quelli che ci aveano accompagnati saccheggiarono le case, ma, essendo le case molte ed essi pochi, non poterono portarsene ogni cosa, ma ne lasciarono perdere la metà. E di qui per le falde del monte ce ne andammo, mettendoci per la terra adentro piú di cinquanta leghe, in fine delle quali trovammo quaranta case, e tra le altre cose che ci diedero ebbe Andrea Dorante un sonaglio grosso e grande di rame, dove era un volto intagliato, e mostravano di tenerlo in grande stima, dicendo che l'aveano avuto da altri loro vicini: e dimandatili donde coloro l'avessero avuto, dissero che l'aveano portato di verso la tramontana, e che quivi valea molto ed era tenuto in molto pregio. Noi conoscemmo che, dovunque fusse venuto, dovea quivi esser l'arte di fondere e di tragettare.
E con questo ci partimmo il dí seguente, e attraversammo un monte di sette leghe, e le pietre che vi erano eran di schiuma di ferro. E la sera arrivammo a molte case che eran poste alla riviera d'un vaghissimo fiume, e i signori di quelle uscirono a mezza strada a riceverne con i lor figliuoli in braccio, e ci diedero molti ligazetti d'argento e d'antimonio macinato, col quale essi s'ungono il viso, e diederci molte corone e molte mante di vacca, e caricarono tutti quei che venivano con noi di quanto essi aveano. Mangiavano tune e pignuoli: sono per quei luoghi pini piccioli, le cui pigne sono come uova piccole, ma i lor pignuoli sono migliori che quei di Castiglia, perchè hanno le scorze molto sottili, e quando son verdi li macinano e ne fanno pallotte, e se sono secchi li macinano con le scorze e li mangiano in polvere. E quei che quivi ci riceveano, come ci aveano toccati, si voltavano correndo verso le lor case, e subito ritornavano verso di noi altri, e cosí non restavano di correre andando e venendo di continuo, e in questa guisa ci portavano molte cose per il nostro cammino. Qui mi menarono un uomo, e mi dissero che era molto tempo che era stato ferito d'una frezza nella spalla dritta, e avea la punta della frezza sopra il cuore, e dicea che gli dava molta pena e che per quello stava sempre infermo. Io lo toccai e sentii la ponta della frezza, e conobbi che la teneva attraversata per la ternilla, e con un cortello ch'io avevo gli tagliai la carne e aprigli il petto insino a quella parte dove viddi la ponta attraversata, e viddi che era molto malagevole a cavarsi; tornai a tagliar piú e ficcai la ponta del cortello, e con gran travaglio finalmente la cavai, che era molto lunga, e con un osso di cervo, usando l'uficio mio di medicina, gli diedi duoi ponti. E quando io ebbi cavata la ponta me la dimandarono, e la donai loro, e il popolo corse tutto a vederla, e la mandarono per la terra adentro perchè tutti coloro la vedessero: e per questo fecero molti balli e feste, come sono usati di fare. E indi a duoi giorni io tagliai i duoi ponti all'Indo, e fu sano, e disse che non sentiva dolore né noia alcuna, e questa cura ci diede tra loro tanto credito per tutto quel paese, quanto mai da loro si potesse e sapesse stimare. Mostrammo loro quel sonaglio che portavamo, e ci dissero che nel luogo dove quei si faceano erano molte lamine di quelle sotterrate, e che quel sonaglio tra loro era cosa di molta stima, e che ivi eran case fabricate: e questo credemmo noi che fusse il mare del Sur, di che sempre avemmo notizia che quel mare era piú ricco che quello di Tramontana.
Da costoro noi ci partimmo, e andammo per tante sorte di gente e tanto diverse lingue che non basta memoria d'uomo a raccontarle, e sempre l'un popolo saccheggiava l'altro, e cosí quei che perdeano come quei che guadagnavano rimaneano contentissimi. Menavamo tanta compagnia che in niuna maniera ci potevamo valer con essi. Per quelle valli onde passavamo ciascuno d'essi portava un bastone lungo tre palmi, e andavano tutti in ala, e saltando alcuna lepre, che per quel paese ne sono molte, l'intorniavano subito, e cadeano tanti bastoni sopra di lei che era cosa maravigliosa, e in questa guisa la faceano andar dall'uno all'altro, che per mio aviso era la piú bella caccia che si potesse imaginare, perchè alcune volte elle venivano insino alle mani: e quando la notte ci fermavamo, erano tante quelle che ce ne aveano date che ciascuno di noi altri ne portava otto o dieci. E quei che portavano archi non comparivano tra noi altri, ma se ne andavano separati per la montagna a cercar cervi, e la sera quando venivano ne portavano per ciascun di noi cinque o sei, e molti uccelli e quaglie e altre cacciagioni; e finalmente quanto tutte quelle genti prendeano ce lo metteano inanzi, senza che essi ardissero di pigliarne né toccarne per se stessi alcuna cosa, ancorchè si morissero di fame, che cosí l'aveano in costume da che venivano con noi altri, se prima noi non lo benedicevamo. Le donne portavano molte stuore, delle quali ci facevano case, a ciascuno la sua separatamente, e con tutta la gente conosciuta da lui; e quando ciò era fatto, noi comandavamo che si arrostissero quei cervi e quelle lepri e tutto quello che aveano preso, il che si facea molto presto, in alcuni forni che a tale effetto essi faceano. E di tutte noi pigliavamo primieramente un poco, e il rimanente davamo al principale della gente, che lo spartisse tra tutti loro: e come ciascuno avea avuta la parte sua, se ne venivano a noi che la soffiassimo e benedicessimo, che altrimenti non avrebbono avuto ardir di mangiarne. E molte volte menavamo con noi tre e quattromila persone, onde era molto il travaglio nostro d'avere a soffiare e benedire il mangiare e bere di ciascuno di loro; e d'ogni altra lor cosa che volean fare ci venivano a dimandar licenzia, che si può considerare quanto fusse il fastidio che ne ricevevamo. Le donne ci portavano davanti le tune, i ragni, i vermi e tutto quello che poteano avere, perciochè, se ben si fussero morte di fame, non avrebbono mangiato cosa alcuna che non l'avessero avuta di nostra mano. E cosí andando con costoro passammo un gran fiume, che veniva dalla parte di tramontana, e passate alcune pianure di 30 leghe, trovammo molta gente che molto di lontano veniva a riceverci, e uscivano alla via onde noi avevamo da passare, e ci riceverono nel modo che aveano fatto gli altri.
Di qui avanti tennero altro modo di riceverci in quanto al saccheggiarsi, perciochè coloro che uscivano alla strada a portarci alcuna cosa non erano saccheggiati da quei che venivano con noi, ma, dipoi che eravamo entrati nelle case loro, da se stessi ci offerivano quanto aveano e le case ancora. Noi davamo tutto ai principali, che la dividessero tra loro, e sempre quei che rimanevano cosí spogliati ci seguitavano, onde ci cresceva molta gente per sodisfarsi della lor perdita, e diceano agli altri che si guardassero di non asconder cosa alcuna, perchè non potea esser che noi non lo sapessimo, e faremmoli morir tutti di subito. Erano tanto grande le paure che loro metteano che, i primi giorni che stavano con noi, stavano sempre tremando e senza ardir di parlare né d'alzar gli occhi al cielo. Costoro ci guidarono per piú di cinquanta leghe di paese diserto e montagne molto aspre, e per esser tanto secche non vi era caccia alcuna, onde sopportammo molta fame. Alla fine, passati un fiume molto grande, che l'acqua ci dava fino al petto, cominciarono molti di quei che venivano con noi a lamentarsi per la molta fame e travaglio che avevano patito per quelle montagne, le quali erano estremamente aspre e travagliose. Costoro medesimi ci menarono ad alcune pianure in fine di quelle montagne: vennero molta gente di lontano a riceverci, come i passati, e diedero poi tanta robba a quei che erano con noi che, per non poterla portare, ne lasciarono la metà. E noi dicemmo a quegli Indi che l'avevano portata che se la ripigliassero, perchè non si perdesse, ed essi ci risposero che per niente non lo farebbono, che non era usanza loro, dipoi che una volta aveano offerta la cosa, ritornarsela poi a pigliare, e cosí la lasciarono perdere.
A costoro noi dicemmo che volevamo andare verso dove il sole si colca, e ci dissero che per quei luoghi stava la gente molto lontana. Noi comandammo che mandassero a far loro intendere come noi andavamo, ed essi si scusarono come meglio poterono, dicendo che coloro eran loro nemici e che non avrebbono voluto che noi vi fossimo andati; ma non avendo ardimento di far contra la volontà nostra, vi mandarono due donne, l'una loro e l'altra che di quei lor nemici teneano prigione: e mandarono queste perchè le donne possono negoziare, se ben tra gli uomini è guerra. E noi le seguimmo e ci fermammo in un luogo dove era determinato che l'aspettassimo, ma esse tardarono 5 giorni a tornare, e gli Indi diceano che non doveano trovar gente. Noi dicemmo che ci menassero verso la tramontana, e ci risposero il medesimo, cioè che per quei luoghi non vi era gente se non molto di lunge, e che non vi era che mangiare, né vi si trovava acqua: e con tutto questo noi ci ostinammo e dicemmo che di là volevamo andare, ed essi tuttavia si scusavano del meglio modo che potevano. E per questo noi ci sdegnammo, e io una notte me ne uscii a dormire in campagna separato da essi, ma subito essi vennero dove io stavo, e tutta la notte non dormirono mai, con molta paura, e parlandomi e dicendomi che non stessimo piú in colera, che, se bene essi fussero certi morir fra via, ci menerebbono dove noi volessimo. Noi altri fingevamo tuttavia di star colerichi, e perchè la paura loro non si levasse, avenne un caso molto strano, cioè che in quel giorno medesimo s'infermarono molti di loro, e il dí seguente ne morirono otto; onde per tutto il paese dove ciò si seppe presero tanta paura di noi, che vedendoci pareva che morissero di paura. Ci pregarono che non stessimo piú in colera e che non volessimo che de' loro ne morissero piú, tenendosi per cosa certa che noi altri gli ammazzassimo solamente col volere. Ma certamente noi di ciò avevamo tanto dispiacere che non si potrebbe dir piú, perciochè, oltre il vederli morire, che pur ci dovea dispiacere, temevamo che non si morissero tutti e ci lasciassero soli per paura, e che tutti gli altri di quivi avanti ci fuggissero, vedendo quello che a costoro fusse avvenuto: pregammo Iddio Signor nostro che ci rimediasse, e cosí cominciarono a risanar tutti quei che s'erano ammalati. E vedemmo una cosa molto maravigliosa, cioè che i padri, fratelli e le mogliere di quei che morirono aveano grandissimo dolore di cosí vederli, e dipoi che erano morti non mostrarono alcun segno di doglia, né li vedemmo piangere, né parlar l'un con l'altro, né fare alcun altro segno, né ardivano d'appressarsi loro, finchè noi comandavamo che li sepellissero; e per piú di quindeci giorni che stemmo con esso loro, non vedemmo mai che l'uno parlasse con l'altro, né ridere né piangere alcun fanciullino dei loro. Anzi, perchè una pianse, la portarono molto lontano di quivi, e con alcuni denti di surzo acuti gli dierono de' tagli dagli umeri insino alle gambe: e io, vedendo questa crudeltà e sdegnatomene, dimandai perchè l'avessero fatto, e mi risposero per castigarla per avere ella pianto davanti a me. Tutte queste temenze che essi aveano di noi le metteano ancora a tutti quei che venivano nuovamente a conoscerci, acciochè ci dessero quanto aveano, perchè sapeano che noi non prendevamo nulla per noi, ma davamo ogni cosa a loro. Questa fu la piú obediente gente e di miglior condizione di quanta ne trovammo per tutto quel paese, e communemente sono molto disposti.
Riavuti e risanati quei che languivano, ed essendo noi stati quivi tre giorni, arrivarono le donne che avevamo mandate, e dissero d'aver trovata molto poca gente, perchè tutti erano andati alle vacche, che già era il lor tempo. Noi commandammo a quei che erano stati infermi che si rimanessero, e a quei che stavano bene che venissero con esso noi, e che due giornate di là quelle due donne anderebbono con due dei nostri a fare uscir gente alla strada, che ci ricevessero. E cosí la mattina seguente tutti quei che erano piú gagliardi partirono con noi, e a tre giornate ci fermammo, e il dí seguente partí Alonso del Castiglio ed Estevanicco il negro, insieme con quelle due donne per guida; e quella che di loro era prigione li menò ad un fiume che correva per entro una montagna, dove stava un popolo tra i quali era il padre di lei, e questo furono le prime case che vedessimo, le quali avessero forma e maniera di vere case. Quivi arrivò Castiglio ed Estevanicco, e doppo l'aver parlato con quegli Indi, in capo di tre giorni tornò Castiglio dove ci aveva lasciati, e menò cinque o sei di quegli Indi, e disse come avea trovate case di gente e di fabrica, e che quella gente mangiava frigioli e zucche, e vi avea veduto maiz: questa fu la cosa che piú d'altra del mondo ci rallegrò, e ne rendemmo infinite grazie a nostro Signore Iddio. E disse che il negro verria con tutta la gente di quelle case ad aspettarci nel cammino quivi vicino, e per questo noi ci partimmo, e andati una lega e mezza incontrammo il negro e la gente che veniva a riceverne, e ci diedero frigioli e molte zucche per mangiare e per portar acqua, e mante di vacca e altre cose. E perchè questi erano nemici e non si intendeano, noi ci partimmo dai primi, dando loro tutto quello che costoro ci avevano dato, e andammo con questi altri; e indi a sei leghe, che già si facea notte, arrivammo alle case loro, ma ne aveano fatte dell'altre per noi. Quivi stemmo un giorno e il seguente ci partimmo, menandoli con noi ad altre case fabricate, dove mangiavamo quello medesimo che loro mangiavano.
E dapoi per il tempo avenir era un altro uso, che quelli che sapevano della nostra venuta non ne uscivano all'incontro alle strade come faceano gli altri, ma gli trovavamo nelle case loro, e ne tenevano fatte altre per noi: e stavano tutti assisi, e tutti teneano volto il viso verso la parete, con le teste basse e coi capelli davanti agli occhi, e tutta la robba loro ammontonata in mezzo alla casa. E di qui avanti cominciarono a darci molte mante di cuoio, e non aveano cosa che non ci dessero. È gente di miglior corpo di quante ne vedemmo, e di maggior vivacità e agevolezza, e che meglio ci intendeano e rispondeano a tutto quello di che gli domandavamo; e gli chiamammo quei delle vacche, perchè la maggior parte delle vacche che muoiono in quei paesi è quivi vicino, e per quel fiume in suso piú di cinquanta leghe ne vanno ammazzando molte. Questa gente vanno tutti nudi nel modo de' primi che trovammo; le donne vanno coperte con alcuni cuoi di cervi, e cosí alcuni pochi uomini, e particolarmente i vecchi, che non servono per la guerra. È paese molto popoloso. E dimandatili perchè non seminavano maiz, dissono che lo faceano per non perdere quello che seminassero, perchè duoi anni adietro eran lor mancate l'acque ed erano state le stagioni tanto secche che tutti aveano perduto tutto il maiz che aveano seminato, e che non si assicureriano per alcuna guisa a seminare se prima non avesse piovuto molto: e ci pregarono che noi dicessimo al cielo che piovesse e ne lo pregassimo, e cosí promettemmo di farlo. Volemmo similmente sapere onde avessero trovato quel maiz che aveano, e ci dissero che l'aveano avuto da donde il sole si colca, dove n'era per tutto il paese, ma il piú vicino era per quel cammino. Dimandammoli per qual via noi andremmo bene a quella volta, perchè noi volevamo andarvi, e che ci informassero del viaggio: e ci dissero che il cammino era per quel fiume in suso verso tramontana, e che per diciassette giornate non troveremmo alcuna cosa da mangiare, fuor che certi frutti d'alcuni arbori che chiamano sciacan, e nascono tra le pietre, e ancor doppo fatta tal diligenza non si poteva mangiare, cosí era aspra e secca. E ciò era vero, perchè quivi ce ne mostrarono e non ne potemmo mangiare. E ci dissero ancora che, fintanto che noi andassimo lungo il fiume, andremmo sempre tra gente che erano nemici loro e parlavano la medesima lingua, e che non aveano cosa che darci da mangiare, ma che ci riceveriano di molto buona voglia, e che ci darebbono molte coperte di bombagio e cuoi e altre cose di quelle che essi aveano, ma tuttavia lor parea che per niuna maniera noi non pigliassimo quel cammino. Dubitando noi quel che dovessimo fare, e qual via prendere che piú fusse al proposito e util nostro, c'intrattenemmo con costoro duoi giorni, e ci davano da mangiar frigioli e zucche. Il modo col quale le cuocono è tanto nuovo che l'ho voluto scrivere in questo luogo, perchè si veggia e conosca quanto diversi e strani sono gl'ingegni e l'industrie degli uomini. Essi non hanno pignatte, e per cuocere quello che hanno da mangiare empiono mezza cocozza grande d'acqua, e nel fuoco mettono molte pietre, di quelle che piú agevolmente s'incendono, e quando le veggono infocate le pigliano con alcune tanaglie di legno e le gettano in quell'acqua nella zucca, finchè la fanno bollire con quel fuoco di quelle pietre; e quando veggono che l'acqua bolle vi buttano quello che hanno da cuocere, e in tutto questo tempo non fanno se non cavare una pietra e mettere l'altra infocata, per far che l'acqua bolla e la cosa che vogliono si cuoca.
Passati duoi giorni che quivi eravamo stati, ci determinammo d'andare a trovare del maiz, e non volemmo seguire il cammino delle vacche, perchè è verso tramontana, e questo per noi era troppo gran giro, perchè sempre tenemmo per fermo che andando verso ponente troveremmo quello che desideravamo. E cosí seguimmo il viaggio nostro, e attraversammo tutta la terra finchè uscimmo al mar del Sur d'ostro, e non bastò a distorcene il timore che ci aveano posto della gran fame che avevamo da passare, come veramente la passammo per tutte le diciassette giornate che ci aveano detto. Per tutte quelle del fiume in suso ci diedero molte mante di vacca, e non mangiammo di quei lor frutti, ma il sostentamento nostro era ogni giorno un pezzo di grasso di cervo grande quanto una mano, che per questa necessità procuravamo d'aver sempre: e cosí passammo tutte le 17 giornate. E in fine di quelle attraversammo il fiume e camminammone altre diciassette a ponente, per alcune pianure e tra alcune montagne molto grande che vi si trovano, e quivi trovammo una gente che la terza parte dell'anno non mangia se non alcuna polvere di paglia; e per esser quel tempo quando noi vi passammo, ci convenne mangiarne anco a noi, finchè finite quelle giornate trovammo case stabili, dove era gran quantità di maiz: e di quello e di farina ci diedero assai, e zucche e frigioli e mante di bambage, e di tutto caricammo coloro che quivi ci aveano condotti, e se ne ritornarono i piú contenti del mondo. Noi rendemmo molte grazie a Dio d'averci condotti quivi, dove avevamo trovato tanto sostentamento. Tra queste case ve ne aveano alcune che erano di terra, e tutte l'altre sono di stuore. E di quivi passammo piú di cento leghe di paese, e sempre trovammo case e stabili e molto sostentamento di maiz e frigioli, e davanci molti cuoi di cervi e mante di bambagio, migliori che quelle della Nuova Spagna, e davanci molte corone, e di certi coralli che nascono nel mare del Sur, molte turchine molto buone che vengono di verso tramontana, e finalmente ci dieder quivi quanto aveano, e a Dorante diedero smeraldi conci in punte di frezze. E con quelle frezze essi fanno i giuochi e le feste loro, e, parendomi ch'elle fussero molto buone, gli dimandai onde l'avessero avute, e mi dissero che le portavano d'alcune montagne molto alte che sono verso la tramontana, e che le comperavano a baratto di pennacchi e penne di pappagalli, e che quivi era popolo di molta gente e di case molto grandi. Tra costoro vedemmo le donne piú onestamente trattate che in niun'altra parte dell'India che avessimo veduto. Portano alcune camicie di bombagio insino al ginocchio, e sopra quelle certe mezze maniche d'alcune faldiglie di cuoio di cervo senza pelo, che toccano fino in terra, e le insaponano con certe radici che nettano molto, e cosí le tengono molto ben trattate; sono aperte davanti e allacciate con alcuni nastri. Vanno calzate con scarpe. Tutta questa gente veniva da noi che li toccassimo e benedicessimo, ed erano in ciò tanto importuni che ci davano molto fastidio, perchè, infermi e sani, tutti voleano andarsene benedetti; accadeva molte volte che delle donne che venivano con noi altri alcune ne partorivano, e subito nate le creature ce le menavano, acciochè le benedicessimo e toccassimo. Ci accompagnavano finchè ci lasciavano con altra gente, e tra tutti questi popoli si tenea per cosa molto certa che noi venivamo dal cielo perciochè tutte le cose che essi non hanno, e non sanno onde vengano, dicono che sono discese dal cielo.
Fra tanto che con costoro noi andammo, caminammo tutto il giorno senza mangiar fino a notte, e mangiavamo tanto poco che si spaventavano di vederlo. Non ci conobbero mai stanchi, e veramente noi eravamo tanto avezzi al travaglio che non ci stancavamo quasi mai. Avevamo con esso loro molta auttorità e gravità, e per conservarcela parlavamo loro poche volte: il negro era quello che parlava sempre, e s'informava del cammino che volevamo fare, delle genti che vi erano, e d'ogni altra cosa che volevamo sapere. Passammo per gran numero e diversità di lingue, e con tutte nostro Signore Iddio ci favoriva, perchè sempre ci intesero e noi intendemmo loro, e gli domandavamo per segni ed essi ci rispondevano, come se essi parlassero la lingua nostra e noi la loro; perciochè, quantunque noi sapessimo sei lingue, non potevamo valercene con tutte, perchè trovammo piú di mille differenzie di linguaggi. Per tutti quei paesi coloro che aveano guerra tra essi si faceano subito amici per venirci a ricevere e portarci quanto aveano, e in questa guisa gli lasciammo tutti, e dicemmo loro per segni, che ci intendeano, come nel cielo era un uomo che chiamano Iddio, il quale ha creato il cielo e la terra, e che esso adoravamo e tenevamo per Signore noi altri, e facevamo quello che ci comandava, e che di sua mano vengono tutte le cose buone, e che se essi facessero come noi se ne troverebbono molto bene: e cosí bene li trovammo disposti che, se avessimo avuta lingua da farci intendere perfettamente, gli averemmo lasciati tutti cristiani. Questo demmo loro ad intendere il meglio che potemmo, e de lí avanti sempre che levava il sole con molti gridi alzavano le mani al cielo e poi se le menavano per il corpo loro, e il medesimo faceano quando il sole si colcava. È gente ben condizionata e acconcia a seguir qualsivoglia cosa buona.
Nel popolo che ci diedero gli smeraldi, diedero a Dorante piú di seicento cuori di cervo aperti, de' quali essi tengono sempre grande abondanza per sostegno loro, e per questo li chiamammo il popolo de' cuori. Per questo paese s'entra a molte provincie che stanno al mare del Sur, e se quei che vi vogliono andare non entrano di qua si perdono, perchè la costa non ha maiz, e mangiano polvere di biete e di paglia, e di pesce che pigliano in mare con zattere, perchè non hanno canoe né barca alcuna. Le donne cuoprono le parti loro vergognose con erbe e paglia; è gente molta dappoca e trista. Crediamo che vicino alla costa, per la via di quei popoli che noi menammo, sieno piú di mille leghe di paese popolato, e hanno molto da vivere, perchè seminano tre volte l'anno fasuoli e maiz. Vi sono tre sorti di cervi, l'una grande come manzi molto grandi di Castiglia. Di tutta la gente le case da stanziare sono capanne. Hanno veneno, e questo è d'una sorte d'arbori della grandezza di pomari, e non bisogna se non cogliere il frutto e ungere la frezza con esso, e se non ha frutti, ne rompono un ramo e con certo latte che ha fanno il medesimo. Vi sono molti di questi arbori, che sono tanto venenosi che, se le foglie loro si pestano in qualche acqua raccolta e non corrente, tutti i cervi e qualsivoglia altro animale che ne beva subito crepano. Con questo popolo stemmo tre dí, e indi ad un'altra giornata ne era un altro, dove ci piovero tante acque che, per esser molto cresciuto un fiume che vi era, noi non lo potemmo passare e ci intrattenemmo quivi quindeci giorni.
In questo tempo Castiglio vidde al collo d'un Indo una fibia di cintura di Spagna, e con quella cucito un chiodo da ferrare; gliela tolse, e dimandamogli che cosa era quella, e risposero che era venuta dal cielo. E dimandati chi l'avesse portata, risposero che l'aveano portata alcuni uomini che portavano barba come noi, che erano venuti dal cielo, e arrivati a quel fiume con cavalli: portavano lanze e spade, e aveano passati con la lancia duoi di loro. Noi piú dissimulatamente che potemmo gli domandammo che fusse poi stato di quegli uomini, e ci risposero che se ne erano andati al mare e che aveano poste le lancie sotto l'acqua, e che ancor essi s'erano posti sotto l'acqua, e dipoi gli aveano veduti andar per sopra l'acqua verso dove il sole si colca. Noi ringraziammo molto nostro Signore Iddio per quello che intendemmo, perchè già eravamo fuor d'ogni speranza d'aver piú nuove di cristiani, e d'altra parte ci vedemmo in gran confusione e dispiacere, credendo che quella gente non saria se non alcuni che erano venuti per lo mare a discoprire. Ma al fine, avendo cosí certa nuova di loro, affrettammo piú il nostro cammino, e sempre trovavamo piú nuove di cristiani, e noi altri dicevamo che andavamo a trovar quei cristiani per dir loro che non gli uccidessero né li facessero schiavi, né li togliessero dalle terre loro, né lor facessero alcun altro male: di che essi aveano gran contentezza. Andammo per molto paese e tutto lo trovammo disabitato, perchè i paesani se n'andavano fuggendo per le montagne, senza aver ardimento di tener case né lavorare per tema de' cristiani. Ci diede gran dispiacere, vedendo il paese molto fertile e molto bello e pieno d'acque e di fiumi, e vederli poi cosí solitarii e brucciati, e la gente cosí debole e inferma, fuggita e nascosa tutta: e perchè non seminavano, con tanta fame si mantenevano solo con corteccie d'arbori e radici. Di questa fame patimmo noi la parte nostra in tutto questo cammino, perchè mal ci potevamo provedere, stando tanto mal condotti che parea che si volessero morir tutti. Ci portarono coperte e paternostri, le quali essi aveano ascose per tema de' cristiani, e ce le donarono, e ci raccontarono come altre volte i cristiani erano entrati per quel paese e aveano distrutto e brucciati i popoli, e portatosene la metà degli uomini e tutte le donne e fanciulli, e quei che aveano potuto scampare dalle mani loro andavano fuggendo. Noi, vedendoli cosí impauriti che non s'assicuravano di fermarsi in alcuna parte, e che non voleano né poteano seminare né lavorare il paese, anzi erano determinati di lasciarsi morire, il che lor parea meglio che aspettare d'esser cosí mal trattati con tanta crudeltà come sino a quel tempo, e mostravano grandissimo piacer con noi altri; ancor che temevamo che, arrivati noi a quei che stavano alle frontiere e in guerra coi cristiani, non ci avessero da trattar male e farci pagar quello che loro i cristiani faceano. Ma, essendo piaciuto a Iddio di condurci dove essi erano, cominciarono a temerci e riverirci come i passati, e ancora qualche cosa di piú, di che noi restammo non poco maravigliati: onde chiaramente si vidde che questa gente, per esser tratti a farsi cristiani e obedienti alla imperial Maiestà, dovrebbono esser tolti con buoni portamenti, e che questa sola via è la piú certa d'ogn'altra.
Costoro ci menarono ad un popolo che sta alla sommità d'una montagna, e vi si conviene salire con molta asprezza de' luoghi, e quivi trovammo raccolta molta gente per temenza de' cristiani. Ci riceverono molto volentieri e ci diedero quanto aveano, e piú di duemila cariche di maiz, il quale noi demmo a quei miserabili e affamati, che ci aveano seguiti e condotti fin là. E il dí seguente spedimmo quattro messaggieri per il paese, come eravamo usati fare, perchè convocassero e ragunassero gente piú che potessero ad un popolo che stava lontano di quivi tre giornate. E fatto questo, il dí seguente ci partimmo con tutta la gente che quivi era, e sempre trovavamo traccia e segnali dove aveano dormito cristiani; e a mezzogiorno trovammo i nostri messaggieri, che ci dissero che non aveano trovata gente, perchè tutti andavano per li monti ascosi e fuggendo, perchè li cristiani non gli ammazzassero e facessero schiavi, e che la notte passata aveano veduti i cristiani, stando essi di dietro a certi arbori guardando quello che faceano, e viddero che menavano alcuni Indiani in catena. E di questo si alterarono molto quei che venivano con esso noi, e alcuni d'essi se ne ritornarono per dare aviso per il paese come i cristiani venivano, e molto piú avrebbono fatto se noi altri non avessimo lor detto che non lo facessero e che non avessero paura: e con questo s'assicurarono, e n'ebbero molta contentezza. Venivano allora con noi Indi di piú di cento leghe lontani di quivi, e non potevamo far con loro che se ne ritornassero alle lor case, e per assicurarli dormimmo quivi quella notte, e l'altro dí caminammo e dormimmo fra via. E il dí seguente quei che avevamo mandati per messaggieri ci guidarono dove aveano veduti i cristiani, e, arrivati all'ora del vespro, vedemmo chiaramente che aveano detto il vero, e conoscemmo che le genti erano a cavallo per li pali dove erano stati attaccati i cavalli. Da questo luogo, che si chiama il fiume di Petutan, insino al fiume dove arrivò Diego di Guzman, può essere fino a dove sapemmo de' cristiani da ottanta leghe, e di là al popolo dove ci colsero l'acque dodeci leghe, e d'indi a quei che avevamo chiamati de' cuori cinque leghe, e di quivi fino al mare del Sur erano dodeci leghe. Per tutto questo paese, ovunque si trovano montagne, vedemmo gran mostre e segni d'oro, di ferro, d'antimonio, di rame e d'altri metalli. In quei luoghi dove sono case ferme è tanto caldo, che di gennaro vi fa caldo grande. Di quindi verso il mezzogiorno del paese disabitato, insino al mare di Tramontana, è molto scommodato paese e povero, dove passammo incredibile fame, e quei che vi abitano sono gente crudelissima e di molto mala natura e costumi. Gl'Indi che tengono case ferme, e cosí gli altri, non fanno alcuna stima dell'oro né dell'argento, né trovano cosa in che possa servire.
Dipoi che noi vedemmo vestigi certi di cristiani e intendemmo che eravamo cosí vicini, ringraziammo molto nostro Signore Iddio, che ci volesse liberare di cosí miserabile cattività: e il piacere che di ciò avemmo si può giudicare da ciascuno che si rechi a memoria il tempo che noi stemmo in quel paese, e i pericoli e travagli che vi passammo. Quella notte io pregai uno de' miei compagni che andasse dietro a' cristiani, che andavano per quei luoghi che noi avevamo assicurati, e avevamo tre dí di camino. Coloro non ebbero caro di far tale ufficio, e si scusarono per esser molto stanchi e affaticati. E ancorchè ciascuno d'essi lo potesse far meglio che io, per esser piú gagliardi e piú giovani, nientedimeno io, veduta la volontà loro, il dí appresso la mattina presi con meco il nero e undeci Indiani, e per la traccia che trovavo seguendo i cristiani passai per tre luoghi dove aveano dormito, e quel primo giorno caminai dieci leghe, e la mattina seguente trovai quattro cristiani a cavallo, che ebbero gran maraviglia di vedermi cosí stranamente vestito e in compagnia d'Indi: stettero guardandomi buona pezza, tanto attoniti che non ardivano di parlarmi né di domandarmi cosa alcuna. Io dissi loro che mi menassero dove era il loro capitano, e cosí andammo mezza lega dove era Diego di Alcaraz, che era il capitano; e doppo l'avergli io parlato, mi disse che egli stava quivi molto perduto, perchè era stato molti giorni senza poter prendere alcuni Indi, e che non aveva onde andare, perchè tra loro cominciava ad esservi molta necessità e fame. Io gli dissi come di dietro erano rimasi Dorante e Castiglio, i quali stavano dieci leghe di quivi con molta gente che ci avevano guidati, e gli mandò subito tre a cavallo e cinquanta Indi di que' che essi menavano; e il nero se ne tornò con essi per guidarli, e io mi rimasi qui, e lo richiesi che mi facesse testimoniale dell'anno, mese e giorno che io ero arrivato in quel luogo: e cosí lo fecero. Da questo fiume fino al popolo de' cristiani che si chiama S. Michele, che è del governo della provincia che chiamano la Nuova Galizia, sono trenta leghe.
Passati cinque giorni, arrivarono Andrea Dorante e Alonso del Castiglio con que' che erano andati per essi, e menavano con esso loro piú di seicento persone, che erano di coloro che i cristiani aveano fatti salire a' monti, e andavano ascosi per il paese: e quei che fin là erano venuti con noi gli aveano cavati e accompagnati co' cristiani, ed essi aveano spedite via tutte l'altre genti che fin quivi aveano menati. E arrivati ov'io stava, Alcaraz mi pregò che mandassimo a chiamar la gente che stava alle rive del fiume e andavan fuggendo per li monti, e che comandassero che portasser da mangiare, benchè questo non era bisogno, perchè essi sempre da se stessi ci portavano quanto poteano. E cosí mandammo subito i nostri messaggieri che li chiamassero, e vennero seicento persone che ci portarono tutto il maiz che aveano, e portavanlo in alcune pignatte coperte con luto, nelle quali l'aveano nascosto sotto terra: e ci portarono tutto quello che aveano di piú, ma noi non volemmo pigliare se non le cose da mangiare, e demmo tutto il resto a' cristiani che se lo dividessero tra loro. E doppo questo avemmo molte contese con essi loro, perchè ci voleano fare schiavi quegl'Indi che noi menavamo con noi, e con questo dispiacere e sdegno al partire lasciammo molti archi turcheschi che portavamo, e molte bisaccie e frezze, e tra esse quelle cinque di smeraldo, che non ce ne ricordammo e cosí le perdemmo. Demmo a' cristiani molte mante di vacca e altre cose che portavamo, e avemmo con gl'Indi molto travaglio per farli ritornare alle case loro, e che si assicurassero e seminassero il maiz loro. Essi non voleano venir se non con noi altri, finchè ci lasciassero con altri Indi com'era l'usanza, che altrimenti, se ne tornavano senza essere lasciati con altri, temeano di morirsi, e venendo con noi non temeano i cristiani né le lancie loro. Questa cosa dispiaceva molto a' cristiani, e facean lor dire in lingua loro che noi altri eravamo de' loro medesimi, che da molto tempo ci eravamo smarriti e perduti, e che eravamo gente di poca condizione e di poco valore, e che essi erano i signori del paese, a' quali essi aveano da servire. Ma di tutto questo gl'Indi faceano poca o nulla stima, anzi l'uno con l'altro tra loro diceano che i cristiani mentivano, perchè noi venivamo onde il sole esce fuori ed essi onde il sole si colca, e che noi altri sanavamo gl'infermi ed essi ammazzavano quei che erano sani, e che noi andavamo nudi e scalzi ed essi vestiti, a cavallo e con lancie, e che noi non avevamo ingordigia alcuna, anzi tutto quello che ci era dato lo tornavamo a dar subito ad altri e ci