Giuseppe Rovani
CENTO ANNI
PRELUDIO
Maggior
follia non v'è
Che,
per godere un dì,
Questa
soffrir così
Legge
tiranna.
Alle
cadenze di questa cabaletta il teatro parve dividersi in due per lo
scoppio d'applausi.
Vengano ora i musici gridava un giovinotto ora che
finalmente questo Amorevoli canta come un uomo e non come una donna.
Il
tenore Amorevoli diffatto fu il primo che, per l'ineffabile dolcezza
d'una voce naturale e pel gusto squisitissimo del suo canto, fece
sperare che col tempo si potesse far senza de' musici. Ma così
non la pensavano i vecchi, uno de' quali diceva indispettito:
Tutto va bene, ma bisognava sentire Carestini a cantar quest'aria.
Egli aveva gli estremi dei bassi e degli acuti, tanto che il Ciardini
tenore disse, che voleva farsi evirare per poter cantare il basso
come lui.
E dove lasciate Cafariello? diceva un altro che portava ancora
la parrucca a riccioni; giammai uomo mortale spinse così
lungi l'audacia del canto.
E Bernacchi il patetico?
E dove lasciate Egiziello, il grande, l'unico Egiziello, il re
dell'espressione? fu egli che nell'opera Artaserse fece
piangere tutta Roma per questo solo accento:
E
pur son innocente.
E
dopo lui Guadagni e Salimbeni e Monticelli e Reginelli e Garducci e
l'Elisi; se il men valoroso di costoro fosse qui, codesto Amorevoli
non piacerebbe nè poco nè assai...
Intanto si compiaccia a sentirlo.
Per forza, non c'è altri...
E
l'opera continuò... e Amorevoli dalla voce piena di fascino e
dall'aspetto bellissimo, fu chiamato sei volte al proscenio, dopo
che, con un'espressione e un ardore indicibile, ebbe cantato
quell'aria con cui finisce l'atto primo:
Empio
fato se m'opprime,
Seguirà
le mie ruine
Chi
superbo mi contende
La
beltà che mi piagò.
Le
ultime due volte che Amorevoli uscì, tenne fisso lo sguardo ad
un palchetto... Nessuno però nè s'accorse, nè
prese informazione di quell'atto...
Solo
il gentiluomo veneziano che teneva dietro alle beltà lombarde,
guidato macchinalmente da quello sguardo ad osservare egli pure il
palchetto, chiese all'amico che gli serviva d'interprete:
Chi è quella bellissima dama là, al numero quattro del
second'ordine?
Bellissima, se avesse imparato a sorridere, e se ricevesse la grazia
dalla bontà... Quella è la contessa Clelia V..., odiata
dalle donne ed anche dagli uomini.
Odiata?
Sì, odiata... Sa il latino, il greco e la matematica... e
dall'alto del suo tripode ci guarda tutti come una divinità
sdegnata. Mentre il cavalier servente è dovunque un
mobile di casa, ed è adottato da chi lo considera come
un'imposizione della moda e nulla più, ella non ha mai patito
d'averne uno. La natura le ha messo il cuore in ghiaccio per
preservarlo dalle infiammazioni.
Ha marito?
Altro che marito! Vedetelo là nel palco dirimpetto... È
un ex colonnello di cavalleria, fatto con sangue di Spagna e con
sangue lombardo. Nobilissimo, del resto, e ricchissimo; ma serio come
un cavaliere del tempo del Cid. Sposò la sapienza,
perchè s'accorse che la grazia lo avrebbe fatto diventar
geloso come il Moro di Venezia...
III
Il
fischio dell'avvisatore, partito dal palcoscenico, fece cessare tutti
i discorsi che si tenevano nella platea e ne' palchetti, e si alzò
il sipario. Il ballo di quella sera rappresentava La Morte
d'Ercole, del coreografo Pitraut, colui che aveva destato
tanto chiasso a Parigi per aver messo in ballo il Telemaco
dell'arcivescovo di Cambray, nel quale ballo la dea Calipso, in
conseguenza di un passo falso, avea corso pericolo di perdere
l'immortalità. L'azione dell'Ercole si apriva
con un grande strepito guerriero; una folla di popolo annunciava il
ritorno d'Ercole che entrava in cocchio tirato da alcuni schiavi di
nazioni diverse da lui soggiogate. Jole era strascinata dai
lottatori; Filoteta ed Ilo stavan seduti sul cocchio ai piedi
d'Ercole. Compariva finalmente Dejanira, la bellissima
Gaudenzi. Questa ballerina destava allora il massimo fanatismo in
Europa, non tanto perchè fosse d'una bellezza abbagliante, ma
perchè nell'arte sua era un'eccezione alla regola, ovverossia
poteva servire di regola tra gli abusi. La critica sapiente,
che allora usciva a protestare in opuscoletti, si lamentava forte che
i compositori de' balli andassero lontanissimi dalla natura; ma più
ancora si lagnava degli esecutori. Tutta l'arte de' ballerini in
generale si riduceva alla capriuola. Non si trattava più di
ballare, ma di andare in alto, e quegli che più s'approssimava
al cielo del teatro passava per il più bravo. Il ballerino
Sauter, per far vedere al pubblico la forza delle sue gambe, si
propose in un gran ballo eroico, dopo aver fatto duecento capriuole
ed altrettanti tours de jambes, di cadere in à
plomb sul piede dritto, e di starvi per otto minuti in
equilibrio, affine di dar tutto il tempo alla platea di battere le
mani. Questi salti eran tanto pericolosi, che bene spesso in teatro
succedevano grandi inconvenienti, e in quella medesima stagione a cui
ci troviamo, nello stesso ballo della Morte d'Ercole, una
divinità, facendo uno sforzo pantomimo, prese così male
la sua misura, che si precipitò nell'orchestra, dove ruppe sei
istromenti, disordinò quindici parrucche, gettò a terra
il violino di spalla, cui poco mancò che uccidesse invece di
fracassare sè stessa; avvenimento, che per quello che poi
saprà il lettore, fece cadere in deliquio la bella Gaudenzi.
Ma continuando a parlar dell'arte della danza a quel tempo, non parea
vero che i compositori de' balli, che volevano far effetto
affrontando qualunque assurdità e mettendo in pericolo la vita
dei loro esecutori, trovassero ballerini e ballerine, e ricche e
sospirate dal bel mondo, che si adattassero a sfigurarsi e a diventar
furie sulla scena. La celeberrima Campioni e la milionaria Curz, a
forza di contorsioni e movimenti irregolari, finito il ballo,
diventavano deformi a segno da far paura; i loro occhi si facevan
torti e biechi, si tramutavano le loro fattezze e lor fuggiva il
colore. Non così la Gaudenzi. Il nostro amico, parlandoci un
giorno di sua madre, ci fece vedere un libro, che teneva carissimo,
nel quale davasi di lei il seguente giudizio: «Anche nel bel
mondo ballante si trovano le rare fenici. La Gaudenzi è una di
quelle; ella balla con agilità inarrivabile, con elegante
portamento e con brio vivacissimo; il corpo suo è sì
ben formato che sembra fatto per ballare. È grande attrice
pantomima; con un volto oltre ogni dire bellissimo esprime al vivo le
diverse passioni dell'animo, la tenerezza, il dolore, lo spavento,
l'allegria, il furore». Noi siamo inclinati a credere che
l'autore dell'opuscolo, stampato a Milano dal Motta, dove stanno
queste parole, fosse uno spasimante della Gaudenzi, e che però
caricasse le dosi; tuttavia viene una gran voglia di credergli,
quando si pensa che tutta Europa andava perduta dietro a codesta
Gaudenzi, mentre pure aveva uno stile di danza contrario a quello
allora in voga. Ma se ella poteva danzare con ragionevolezza d'arte,
non poteva far scomparire le assurdità della composizione
coreografica; però nel nuovo ballo del Pitraut, dopo essersi
gettata nelle braccia dello sposo Ercole, doveva adattarsi a ballare
un pas de trois con lui e con Jole, e solo poteva mettere in
atto tutte le riforme ch'ella avea introdotte nella danza quando
eseguiva l'a solo. Ella avea compreso che la danza non
è altro che un'arte plastica viva e vera, in cui la figura
umana, dotata di forme bellissime, s'atteggia a consigliar pose e
movenze e contorni eleganti alla pittura e alla scultura.
I
pittori Galliari, che non s'interessavano gran fatto alla musica,
nell'ora che danzava la Gaudenzi, erano assidui ad osservarla, stando
fra le quinte; e noi abbiam veduto un disegno a penna d'uno di loro,
dove è ritratta la celebre danzatrice in costume di Dejanira,
adagiata su d'un letto di cespugli, in preda al dolore. Quantunque
però, nel massimo imperversare dell'arte barocca, ella avesse
tanta purezza di atteggiamenti, non aveva il coraggio di omettere
l'entrechat propriamente detto, perchè voleva far
tacere le ballerine rivali, le quali, se ometteva la capriuola,
l'accusavano di poca agilità nelle gambe. Sapeva dunque
soddisfare in un punto e alle esigenze legittime della bellezza
assoluta, rivelando forme d'indescrivibile perfezione, e ai capricci
della moda, e alle pretese dei compositori. Del resto, se ella
era abilissima come danzatrice, riusciva inarrivabile come attrice, e
sapeva provocare il vero orror tragico, quando, nell'ultima scena del
ballo, mentre Ercole ardeva nella camicia funesta, ella entrava come
forsennata, e, non potendo reggere allo spettacolo straziante, si
uccideva. Se non che tutte le sere doveva risuscitar tosto per uscire
al proscenio (non si potevano contar le volte), a ricevere le
dimostrazioni di un pubblico che andava in delirio; e, dopo calato il
sipario, il palco scenico abusivamente era invaso dai giovani
zerbinotti, che recavansi a farle tributo dei loro omaggi e a
lasciarle un tappeto di rose e viole sul pavimento del camerino,
dov'ella gentile e spiritosa e vivacissima dava belle parole a tutti,
e occhiate che parevano significare quel che non volevano dire.
Veduta da presso, la Gaudenzi non scapitava d'un punto dell'effetto
che produceva a chi la guardava dalla platea; chè veramente
era dessa di una perfetta beltà. Aveva la capigliatura
biondo cupa increspata e prolissa, la quale nella sua schietta
natura non potea vedersi che nel momento in cui, attendendo a dar
parole, scioglieva i capegli per poi foggiarli anch'essa nel puff di
convenzione. Aveva occhi azzurri, bocca e mento e contorni
della purezza più completa; soltanto il naso, come quello
della greca Aspasia, sopravanzava d'alquanto il confine stabilito
dalle scuole accademiche. Ma quegli occhi azzurri e quel naso
erano un argomento di censura per le altre beltà invidiose,
segnatamente del ceto patrizio. La contessa Marliani
affermava, sdegnosissima nella sua convinzione, che non può
essere una beltà perfetta chi non ha gli occhi neri; la quale
asserzione diede luogo ad una disputa de' begli spiriti che recavansi
alla sua conversazione. Fu persino convocata una consulta di
pittori per decidere in proposito; e avendo essi sentenziato in
favore degli occhi azzurri, quasi corsero il pericolo di perdere il
loro posto alla tavola di casa Marliani. Ma anche noi che
scriviamo, avremmo perduta l'amicizia della contessa perchè le
avremmo detto che, se gli occhi neri lampeggiano in virtù
della legge dei contrasti, gli occhi azzurri risplendono per virtù
propria; le avremmo detto che la pupilla azzurra sdegna la
mediocrità, vuol bellezza perfettissima di linee nel
sopracciglio e nella cassa dell'occhio, mentre la pupilla nera
s'appaga invece anche di linee irregolari; che l'occhio nero non
avendo un colore, non ha sempre nè varietà nè
nobiltà nè iridescenza nè riflessi, sia dalla
luce esterna che dall'intima luce dell'anima; ora tutte queste
qualità avevan gli occhi della Gaudenzi, occhi esercitanti un
fascino, che poteva persino sembrar colpevole a chi non conosceva
l'indole di quella donna.
Ma
intanto che i cavalierini incipriati stavano indugiandosi alle soglie
del camerino della Gaudenzi, in aspettazione dell'ultima occhiata, e
tutti nella speranza che quell'occhiata significasse una scelta,
senza, del resto, arrivar a comprendere che la Gaudenzi era
sudatissima e sentiva il bisogno di spogliarsi e rivestirsi, e nel
suo segreto, pur conservando l'amabilità dell'azzurra pupilla,
li mandava tutti al diavolo, s'intesero voci d'alterco sul palco
scenico. Ad un illuminatore, che passava in quel punto, tutti
que' gentiluomini si volsero per domandarli di che si trattasse:
È il signor Amorevoli che non vuol più cantare...
Come, come?
Per questa sera, no.
Ma perchè?
Dice di star malissimo, e i medici, richiesti dai cavalieri
ispettori, dichiarano invece che non è mai stato così
bene; ed egli ha minacciato di bastonar tutti quanti, cavalieri,
ispettori e medici... e senza dir altro e sghignazzando di
gran voglia, l'illuminatore passava oltre. Allora gli
spasimanti della Gaudenzi s'allontanarono dalla loro vittima e
mossero a spingere un occhio e un orecchio curioso al camerino del
tenore. Ma tutto era tornato nella più perfetta calma. In
conclusione, convenne fare la volontà del tenore, il quale
dichiarava che, quand'anche non avesse la febbre richiesta dai
regolamenti del teatro, pure non poteva spingere la voce al di là
del sol, aveva compromesso il la, e sarebbe stata una
imprudenza solamente a parlare del si e dei falsetti. Così,
dopo alcuni momenti, uscì l'avvisatore a gridare dal
proscenio, in mezzo ad un silenzio di tomba:
Per improvviso abbassamento di voce del tenore signor Amorevoli, si
ommetteranno nel secondo e nel terz'atto tutti i pezzi d'Ircano. -
Non
è a dire come rimanesse percosso da questa notizia tutto
quanto l'uditorio, il quale, per non saper come sfogare il dispetto,
fischiò disperatamente l'avvisatore, il quale si ritrasse con
un volto pieno d'indifferenza, di calma e d'ironia; con un volto che
pareva quello di Socrate quando si alzò a sfidare le risate
della folla d'Atene. Tanto in qualche cosa giova essere gli
ultimi per assomigliare ai primi.
Ma
tornando all'Amorevoli, noi, al pari dei medici del teatro e dei
cavalieri ispettori, siamo inclinati a credere che in quella sera
egli avesse una salute di ferro e una voce a tutta prova.
Seduto
di fatto nel suo camerino innanzi ad uno specchio, stava
disbellettandosi; e ridendo tra sè, pareva che godesse di un
trionfo ottenuto. Entrava in quella il servo universale del
palco:
Si va dunque a casa?
Prepara il mantello e gli stivali, Zampino.
Gli stivali?
Gli stivali ed il mantello... Sì.
Ecco il mantello.
Tu vuoi assaggiare la mia canna, eh?
Non sono il medico del palco scenico.
Porta via dunque questo drappo rosso, che fa uscire il sole anche di
notte... e prepara il mantello nero, bestione.
Vuol l'amo o le reti, signor Angelo?
Bada a te, Zampino. E Amorevoli si alzava aspergendosi il
volto e le mani d'acqua odorosa, e mettendo in mostra una camicia
tutta gaja di preziosissime trine, e un pajo di calzoni di raso
turchino con punte d'argento. Si adattò il gilè, che
pareva un mazzo d'ortensie, mise gli stivali di rnarocchino nero con
rovesci azzurri come i calzoni, infilò la marsina variopinta
come una squama di serpente, si calcò il cappellino a tre
punte sulla parrucca alla circostanza, e si gettò il
mantello sulle spalle. Dopo aver detto a Zampino: Preparati ad
accompagnarmi col lampione uscì dal camerino, e
recatosi sul palco scenico, nel momento che era calato il sipario,
dopo i frammenti del second'atto, mise l'occhio ad un buco del
telone, e guardò al numero quattro in second'ordine. Il palco
era vuoto... egli soffregossi le mani e ripartì queto, uscendo
per la falsa porta del teatro. Zampino lo seguiva senza far parola,
col lampione che già aveva acceso.
Lasciato
il teatro, Amorevoli volse il passo verso la contrada Larga... alla
quale rispondeva una porta del teatro per dove uscivano i proprietarj
de' palchetti. Molti carrozzoni erano là in fila, e i
cocchieri aspettavano di esser chiamati dal lacchè della
propria casa.
Casa Borromeo, casa Litta, casa Marliani, casa Gambarana, casa
Annoni, casa Belgiojoso, casa Sanazzaro, casa Bossi, casa Taverna...
gridavano essi di mano in mano che i carrozzoni si facevano
innanzi.
Amorevoli
si fermò sull'angolo della contrada delle Ore, porgendo
orecchio alle voci rauche di quei poveri lacchè che facevan
venire innanzi le carrozze in processione.
Casa Verri, casa Beccaria, casa V...
Amorevoli
stette un istante senza far motto, gettò il mantello alla
veneziana intorno alle spalle, ascoltò il cupo e pesante romor
delle ruote di quell'ultimo carrozzone che s'allontanava.
Quante sono le ore? chiese poi a Zampino.
Manca poco a mezzanotte.
Vieni che faremo una passeggiata per la città.
A quest'ora?
A quest'ora e partirono.
Camminarono
una mezz'ora buonamente... Zampino di tant'in tanto diceva ad
Amorevoli:
Ma che si fa?...
Bada a te... e attendi a servirmi bene e vennero a
Poslaghetto. Colà era un'antica osteria, donde partivano
grandi schiamazzi e canti e villotte...
Che diavolo c'è laggiù, Zampino?
Siamo agli ultimi di carnevale, signore; saranno i compagnoni della
Badia de' facchini.
Benissimo. Ora va' a mangiare il tuo boccone in quell'osteria, e
attendimi là...
Non devo accompagnarla?
No.
Ma e se?...
Va' a mangiare il tuo boccone... e Amorevoli partì
solo.
Pareva
praticissimo di quel gruppo di contrade, e difilò dritto ad
una cinta di un gran giardino. Era il giardino del palazzo V..., nome
che dobbiamo tacere, avvertendo solo, a scansare equivoci, che aveva
desinenza spagnuola, e che una volta aveva probabilmente dato
l'appellativo ad una contrada.
Faceva
una notte di febbrajo limpida e stellata... e dal dietro della cinta
si vedeva la sontuosa facciata di un gran palazzo antico, Da
due finestre, poste tra loro a molta distanza, ai lati estremi di
quel palazzo, trapelavano due lumi. Un altro lume trapelava
più in lontananza da una casetta modesta, che rispondeva ad un
giardino confinante a quello della casa V..., il qual giardino
apparteneva al palazzo del marchese F... che era morto la mattina di
quel giorno; due lumi luccicavano a due balconi di quello stesso
palazzo. Il lume della prima finestra del palazzo V... rischiarava la
stanza della contessa Clelia che vegliava...; quello della seconda
finestra rischiarava la camera dell'ex colonnello conte V... che
già dormiva; il terzo lume, che traspariva dalla finestra
della casa modesta, rischiarava l'alloggio della ballerina Gaudenzi,
che s'era acconciata là per esser vicina al Teatrino Ducale e
che in quel momento stava mutandosi la camicia.
Delle
ultime due fiamme, l'una illuminava un lenzuolo in cui era avvolta la
salma patrizia del marchese defunto; e l'altra una mano di gente
venale, pagata la notte a far compagnia al morto.
In
quello spazio misurato dall'occhio del tenore Amorevoli non
scintillavano che quelle cinque fiamme... Esso le contò
macchinalmente, e scavalcò il muricciuolo di cinta,
E
con un'ansia incognita
Ebbe
la debil orma accelerato
E
in alto..................................
Scintillava
il beffardo occhio del fato.
IV
La
contessa Clelia era sola nella sua stanza da letto, di cui gli
addobbi e gli ornamenti, sovraccarichi di sfoggiata ricchezza, fuor
delle leggi del buon gusto, è più facile che un uomo
d'immaginazione se li dipinga, di quello che li descriva un
galantuomo di null'altro temente che di riuscir nojoso a' lettori.
Tuttavia in quelle linee contorte e peccaminose del barocco, e in
quell'oro condensato senza risparmio in forme d'ornamenti, c'era
qualcosa che poteva parlare alla fantasia, e tanto più in
quanto in mezzo ad essi spiccava una donna così severa e così
bella, bella di quella bellezza di rigida perfezione che lascia
placidissimo il cuore, ma che provoca lo spirito d'osservazione in
menti avvezze ad esaminare le opere dell'arte. Pure non si potea dar
figura che fosse meno adatta a quella stanza; chè l'una e
l'altra rappresentavano due stili di due periodi opposti e nemici tra
loro. Il volto della contessa apparteneva a quello stile greco romano
che non sopporta transizioni di scuola; e siccome in quell'ora in cui
vegliava, ella si era lasciata cadere l'alta acconciatura de'
capegli, dai quali, ravviati un momento prima dalla cameriera, era
scomparsa anche la cipria, così a quelle volute contorte del
Borromini e del Fumagalli faceano più cruda antitesi quella
fronte quadra, quei piani delle guancie modellati a rigore, come
quelli d'un cammeo antico, quel mento romano che richiamava il mento
appunto della Clelia, quando passa il Tevere, disegnata
dall'improvvisatore Pinelli, quel naso rigorosamente giusto e ad
angolo retto, il quale insieme cogli occhi grandi e neri e di lento
giro, e colle palpebre prolisse e co' sopraccigli arcuati e folti,
più forse che nol comportasse la delicatezza muliebre,
generava quel tutto che sarebbe necessario a dipingere una Minerva
convenzionale. Occhi tuttavia e sopraccigli e palpebre, che pur di
sotto al rispetto quasi disgustoso che imponevano, e alla fuga in cui
mettevano ogni pensiero giocondo e gaio, potevano, in certi momenti e
a seconda di certe nature, provocare strani pensieri e sommovere il
senso voluttuoso.
La
fronte però, quasi sempre corrugata, di quella gentildonna e
certe protuberanze che, preziose sotto alla mano del frenologo,
recano sempre offesa alla completa bellezza per l'occhio
dell'artista, potevano venir in soccorso onde spegnere la seduzione.
Ma da quella fronte, senza saperlo, i rigidi parenti (di cui,
per esser fidi ad un sistema di prudenza, sopprimeremo al solito il
nome del casato), avean preso consiglio per dare alla fanciulla
Clelia una educazione che fosse distinta oltre il consueto, a ciò
poi singolarmente sollecitati da un dottissimo abate, un tal
Carlantonio Tanzi, stato precettore al fratello della contessina, il
quale, non trovando più nessuno a cui comunicare la sua
dottrina, pensò fare di lei un oggetto di esercitazione
scientifica pe' suoi vecchi anni, e una meraviglia del gentil sesso.
Ad ogni modo, l'abitudine di introdurre le fanciulle a
discipline non fatte pel sesso grazioso, nel secolo passato, secolo
delle esagerazioni e delle cose a rovescio, fu comune più che
non si creda. Era il barocco applicato all'educazione, per cui
alle fanciulle si gonfiavano le teste a spese del cuore, e si
riduceva la scienza a ricovrarsi per forza all'ombra de'
guardinfanti. Molte donne, nel secolo passato, studiarono filosofia,
giurisprudenza, matematica; talvolta, qualche stragrande ingegno,
fece parer sapienza cotale pazzia, e valga per tutte quel prodigio
della Gaetana Agnese; ma più spesso furono anomalie di
sterilissima dottrina, rigonfiata da orgoglio infelice. La contessina
Clelia pertanto, dal dotto abate che non aveva cavato nessun
costrutto dal fratello di lei, fu incaricata di far le sue veci e di
rappresentarlo al consesso dei dotti. A dieci anni la
contessina, oltre alla lingua francese, che si parlava abitualmente
dal conte padre, il quale tante volte s'era trovato a Parigi confuso
nella folla dei cortigiani del gran Luigi, conosceva la lingua
latina; e il prof. Branda, quello col quale ebbe accanite dispute il
giovane Parini, fu invitato dal prete Tanzi a sentir la contessina
Clelia tradurre l'orazione di Cicerone Pro Archia e il Sogno
di Scipione, e recitar a memoria uno squarcio di Lucrezio
De rerum natura. Non istupisca il lettore: chè Voltaire
mandava già il figurino da Parigi; e il professor Branda,
lodata al conte padre la contessina miracolosa, consigliò
l'abate Tanzi ad insegnarle anche la lingua greca... e la lingua
greca fu imparata; poi quand'ella ebbe sedici anni, apprese
matematica insieme col giovane Paolo Frisi, quello che fu in seguito
autore del trattato De gravitate universali corporum, e
in questa scienza, ajutata da un naturale ingegno e sollecitata da
quelle prove di distinzione onde si vedeva circondata ogni qual volta
trovavasi colle altre fanciulle patrizie sue coetanee, fece tali
progressi, che fu introdotta persino all'intima confidenza di Urania;
di modo che nella notte a cui ci troviamo, quantunque la contessa
pensasse assai più di quello che leggesse, pure si teneva sul
tavoliere di lapislazzulo, insieme coll'opera di Boscovich De
maculis solaribus, e all'altra d'Eulero Novæ tabulæ
astronomicæ, il famoso trattato sulla processione degli
equinozj, che d'Alembert aveva pubblicato due anni prima; del qual
d'Alembert ella sapeva tener dietro, senza scontorcersi, alle
dimostrazioni; tantochè avrebbe potuto ripetere ad un consesso
di dotti, come gli assi dell'ellisse descritta dal polo dell'equatore
sieno fra loro come i coseni dell'obliquità dell'eclittica ed
i coseni del doppio di questa obliquità. Ma i coseni
dell'obliquità dell'eclittica non bastavano a render felice
una bella donna di venticinque anni. Sette intanto ne eran corsi da
che era stata fatta sposa all'ex colonnello conte V..., senza
mai averlo veduto prima, senza avere dell'amore e delle questioni
aderenti, altre idee che quelle che sono depositate ne' classici
latini; idee che non poterono avere uno sviluppo intero, compresse
come vennero dall'algebra e dalla geometria, due scienze più
infeste della brina ai primi germogli dell'affetto. Sposò
dunque l'ex colonnello che aveva quattordici anni più di
lei. Egli vantava un gran casato, una grande ricchezza, e brillavagli
inoltre sull'uniforme di parata un segno che attestava il suo valor
militare. Era serio, era dignitoso, parlava poco, ma dalle poche
parole trapelava la stima profonda che aveva della giovinetta
prodigiosa. Ond'ella, quando i rigidi parenti proposero il
matrimonio, consentì e provò anche qualche sussulto che
non veniva nè dalla geometria nè dall'algebra, ma fu un
sussulto di brevissima durata, e la scienza dovette colmare i vuoti
lasciati dall'affetto vero. D'altra parte è a tener
conto d'una cosa. Non tutte le creature umane raggiungono la
maturanza un punto medesimo. L'abitudine agli studi severi, quel non
riposarsi mai su pensieri e desiderj erotici, aveva ritardato il
completo sviluppo della contessa. Fu necessario il tempo, più
che il sole di un'anima appassionata, a togliere l'acerbità a
quel frutto. La giovane contessa era alta, era ben fatta, era bella
parliamo d'allora che andò a maritarsi ma le mancava
quell'arcana virtù della donna, che non si sa da chi e da che,
e come e quando venga provocata.
Noi
non possiamo dire precisamente in qual periodo della vita della
contessa Clelia abbia incominciato codesta misteriosa virtù,
ma pare che sia stato tra l'anno ventiquattresimo e il
ventesimoquinto della sua età; nessuno però s'accorse
di questo, perchè nessuno poteva sospettare che fosse una
virtù l'eccessiva acerbità ond'ella esprimevasi
parlando sia cogli uomini sia colle donne. Un fatto solo notarono
tutti, e uomini e donne: ch'ella era cresciuta in beltà. S'era
fatta più maestosa nel volto, s'era arrotondata ne' contorni
del corpo, soltanto negli occhi era diventata più seria. Del
resto, chi mai non potesse capacitarsi del come una donna possa
essere più bella a venticinque anni che a diciotto, sappia che
la contessa Clelia non aveva mai avuto figli; e che i parti e il
latte guastano un bel corpo di donna più che i classici latini
e i trattati d'astronomia. Quantunque però crescesse di
maestosa bellezza e di attraenti rotondità, non per questo
nessuno presumeva che la gioventù galante le si facesse
dappresso. Ella non era che ammirata quando non era temuta, ed era
temuta quando non era odiata; chè vi sono tali beltà a
questo mondo, sia maschili sia femminili, che raccolgono tanto meno
quanto più hanno di perfezione nel loro aspetto. Sono
conquiste considerate al di sopra di ogni forza volgare, epperò
lasciate in disparte come imprese disperate; donne condannate tutta
la vita a desiderare e ad essere desiderate, a tormentare e ad essere
tormentate per finire i vecchi anni tra le reminiscenze di una gloria
vanitosa senza felicità. Nessuno adunque dei bei giovani di
Milano osava avvicinarsi alla contessa, quantunque taluno de' più
audaci sì fosse azzardato persino a dire all'amico: Che bella
donna!! Nè è da credere che facesse paura il grave e
superbissimo suo marito ex colonnello, tutt'altro: la paura non
veniva che dalla maestà soverchia della bellezza di lei, e da
quelle parole piene di sapienza riposta ond'ella faceva ammutolire
tutti quelli che le si avvicinavano, e dal sospetto ch'ella fosse più
sapiente ancora di quello ch'ell'era. Ma come potè adunque un
tenore?... Noi stavamo in aspettazione di questa domanda, però
la soluzione del problema eccola qui.
Nel
famoso 18 brumajo, Bonaparte, che pure era passato imperterrito
attraverso alla flottiglia inglese, fidente nel proprio destino, per
giungere in tempo a Parigi onde recarsi in mano le redini di tutta la
cosa pubblica; quando si trattò di abbattere il Consiglio de'
cinquecento, si smarrì e parve minor di sè stesso, e
nessuno de' suoi coraggiosi fautori, nemmeno il fratello Luciano,
avrebbe osato disperdere quel formidabile Consiglio. Chi seppe
far tanto? Colui che aveva men testa di tutti, colui che ripeteva il
suo coraggio dalla spavalderia militaresca, e affrontava il pericolo
per non saperne misurar le conseguenze. Fu Murat, che, alla testa de'
suoi granatieri, a bajonetta in canna, entrò nel Consiglio, e
i membri dovettero discendere dalle finestre... con che le sorti di
Napoleone furon fermate. I grandi fatti giovano a spiegare i piccoli,
e viceversa, però la contessa Clelia che riusciva a' cavalieri
milanesi più formidabile del Consiglio dei cinquecento, non
fece nessuna paura al tenore Amorevoli, il quale anzi s'incalorì
delle difficoltà, e fatto baldanzoso dalla lunga lista de'
proprj amori fortunati e reso intraprendente dalle sopracciglia folte
della contessa che gli richiamavano le sue belle compatriotte di
Trastevere (perchè il tenore Amorevoli era nato a Roma), fece
quello che fece poi Murat, mezzo secolo dopo, col Consiglio dei
cinquecento.
Nelle
serate musicali che si tenevano o nell'una o nell'altra delle case
patrizie di Milano, Amorevoli era pregato, supplicato a intervenire,
ad imbalsamar tutti quanti col suo dolcissimo canto. La contessa
Clelia, come di prammatica, era sempre intervenuta a quelle serate, e
ad onta dell'algebra che le faceva usbergo al cuore, si sentì
penetrare da quella voce, nè fu la sola a subire quel fascino.
Tutte le gentildonne leggiadre che si trovavan là a bever
l'onda soave, avrebber battuto moneta falsa per quel fatal Romano, il
quale le saltò via tutte e s'accostò alla sola contessa
Clelia. Amorevoli non era uomo di sterminato ingegno
nessuno durerà fatica a crederlo; non era troppo forte
in letteratura nemmen questo è improbabile; anzi
bisognava si facesse ajutare per afferrar bene il concetto dei
paragrafi de' contratti teatrali, e più ancora per comprendere
alcune strofe dei libretti di Metastasio; ma l'arte di far all'amore
è appunto un'arte, e non una scienza; è in essa che
l'istinto va innanzi a qualunque studio, e l'istinto conosce le vie
segrete e le percorre da padrone; d'altra parte Amorevoli non mancava
d'una certa drittura naturale, e quando parlava, parlava bene e con
quell'accento là dei romaneschi...; lingua toscana in bocca
romana... il proverbio è antico, e i proverbj sono
la sapienza del genere umano... e la verità di quel proverbio
riuscì fatale alla contessa... Infelice!!
Perfino
il gobbo Tacchinardi, gobbo e vecchio, fece impazzir qualche donna
col veleno imbalsamato della sua voce: pensi or dunque ognuno che
brecce doveva aprire Amorevoli, giovine di ventisei anni, bello,
elegante, con certi occhi in cui la penetrazione pareva nuotare nella
voluttà, con una voce che, anche allora solo che parlava, era
già musica, e con quegli accorgimenti del serpe flessuoso che
avvolge e stringe pur continuando a dispiegare la pompa della sua
variopinta veste. Così la scienza fu investita dall'ignoranza,
e la matematica fu messa a giacere dalla melodia. Il lettore
non può immaginarsi il dolore che noi ne proviamo.
V
Ma
tornando ai fatti, in quella notte in cui la contessa vegliava, non
per amore della scienza, siccome pare, ma per amore di qualche altro
oggetto, e in cui Amorevoli stava seduto su d'un sasso cui faceano
spalliera foltissimi carpini, che a lui servivano e di paravento e di
paraluna nel tempo stesso, doveva succedere uno di quei contrattempi
che e si direbbero espressamente concertati dalla perfida
malizia della fortuna, uno di que' contrattempi pe' quali si è
convenuto di dire che talvolta il vero non è
verosimile. Non era la prima volta che Amorevoli, saltando pel
muro di cinta, recavasi nel giardino di casa V... dopo mezzanotte,
ovvero sia dopo finito il teatro; e non era la prima volta che la
contessa, quando batteva un'ora all'orologio dell'Ospedale Maggiore,
discendeva nella biblioteca situata al piano terreno del palazzo, la
quale, per un grande finestrone arcuato, rispondeva al giardino;
finestrone difeso da un'inferriata a modo di cancello, tutta messa ad
oro e foggiata a ricchissimi rabeschi. La contessa, stando di
dentro, sentiva le proteste d'amore dell'infuocato Amorevoli, il
quale protestava inoltre contro quel cancello che non aveva mai
voluto essere aperto, e che serviva alla contessa e di parlatorio e
di fortino. Come, del resto, e quando donna Clelia e il tenore
della stagione di carnevale siensi dati l'intesa per trovarsi a que'
notturni abboccamenti è quello che non si sa. Allorchè
il destino iniquo ha stabilito che succeda quello che non dovrebbe
mai succedere, offre egli stesso le opportunità, consiglia i
mezzi, tende le reti, suggerisce le parole, è il Figaro più
scaltro e più disinvolto e più briccone di tutti, tra
due individui che cogli occhi si son detti quello a cui non
basterebbero cento sonetti del Petrarca. Quale adunque sia
stato il momento e quale il modo con cui que' due concertarono la
maniera per trovarsi insieme, non è ciò che più
importa di sapere. Ma il fatto sta che allorchè in
quella notte di febbrajo suonò quella tal ora, la contessa
discese, e Amorevoli si alzò dal sedile di sasso e si tolse
d'intorno al volto il ferrajuolo, e nell'esaltazione affrontò
anche il chiaro di luna quando sentì aprir la vetriera; e così
in meno d'un lampo fu là, e nella sua, sebbene con renitenza
ineffabile, stette la morbida mano di donna Clelia; di donna Clelia,
che, ignara, di tutto, fuorchè di quello che è men
necessario alla donna, e versando allora come attonita in un mondo di
sensazioni non mai esplorato prima da lei, riusciva ingenua e quasi
stolidamente inesperta, come una fanciulla quattordicenne, la quale,
sebben difesa dal senso arcano del pudore, se non è vegliata
da esperti custodi, concede improvvida le sue fragranze al primo
vento protervo che le soffi intorno. Quella stima eccessiva di
sè stessa che aveale generato lo studio e la scienza,
quell'orgoglio in cui era venuta, forse perchè la sua
intelligenza, sviluppata da infinite cure, non era però per
natura forte abbastanza da sostenere il peso della dottrina, quella
acerbezza dei modi e del linguaggio, che era l'espressione e dell'uno
e dell'altra, erano scomparse. Ma ciò non solo con Amorevoli
(sarebbe troppo facile a comprendersi), ma con tutti, ma colle donne
di sua conoscenza, ma co' gentiluomini, ma con quelli che avea sempre
trattati con dispregio e a cui per contraccambio ella era riuscita
così disgustosa.
Chi
volesse dar la spiegazione dell'acredine ond'era involuta l'indole di
quella gentildonna nel tempo in cui non si pasceva che d'orgoglio
scientifico, potrebbe forse assegnarne la cagione a questo, ch'ella,
sebbene in confuso e senza nemmeno averne la coscienza, sentiva
fieramente la mancanza di uno di quegli affetti che bastano a colmare
un'esistenza; noi per esempio portiamo l'opinione che se essa, in
quei sette anni di matrimonio, avesse avuti una mezza dozzina di
figlioli, il corpo sarebbesi tanto quanto sciupato, ma l'animo
sarebbesi nudrito dei più cari conforti dell'esistenza.
Fu perciò una vera disgrazia, ch'ella per sentire com'è
dolce la vita quando è dolce, abbia dovuto porre il labbro
sugli orli imbalsamati di un vaso che doveva poi esser pieno
d'assenzio. La contessa e Amorevoli stavano da qualche tempo
infervorati in un dialogo, che noi non riporteremo per quella ragione
che i dialoghi di due amanti, come le poesie improvvisate, per
conservare il loro prestigio, hanno bisogno di non essere trascritti.
Possiamo però assicurare che, chi fosse stato presente a
quella notturna confabulazione senza conoscere gl'interlocutori,
avrebbe detto che l'ingegno e l'acutezza e l'amabile scaltrezza e
l'eloquenza appartenevan in proprio a colui che si lasciava allegare
i denti persin dalle strofe di Metastasio: e che invece la povertà
delle idee, la mancanza di slancio, la parola impacciata, la
timidezza puerile erano di colei che pure aveva tanta confidenza con
Eulero e con d'Alembert. E purtroppo l'eloquenza del tenore Amorevoli
era come un ferro tagliente che mira a squagliare una corazza, mentre
la timidezza e il turbamento di donna Clelia rendevano quel
combattimento oltre ogni dire ineguale. Il cancello dorato
della biblioteca stava fra loro due come una guardia di confine, ma
siccome la contessa ne aveva la chiave e dipendeva dalla sua volontà
l'aprirlo, così non potremmo giurare quel che avrebbe fatto la
sua timidezza se dal desiderio fosse stata convertita in coraggio.
In una parola, è probabile che sia stata necessaria una
disgrazia per soccorrere la virtù. Amorevoli, colla sua
voce soave e colla sua facondia insidiatrice, tentava di metterla
all'ultime strette, con una argomentazione serrata, in cui i sofismi
comparivano e scomparivano trasportati dalla velocità delle
parole, l'opposizione sempre più lenta e fiacca
dell'avversario... quando di repente... s'udirono a non molta
distanza più voci che gridavano all'accorr'uomo, al
dàgli dàgli. Davvero che se quello che
stiamo per dire non avesse altro documento che la relazione orale e
solitaria del nonagenario da cui raccogliemmo tanto cumulo di fatti,
noi non avremmo il coraggio di esporre un avvenimento, che, siccome
abbiam detto, non parrebbe verosimile. Ma una difesa scritta nel
secolo passato, che reca la firma: I. C. C. Benedictus Comes
Aresius carceratorum protector... e una sentenza del Senato con
motivazioni profonde, ci fa vedere che quanto è realmente
avvenuto, non può essere rivocato in dubbio. Però
andiamo avanti coraggiosamente, anche perchè, d'altra parte,
se il fatto è strano, riuscì poi fecondo di conseguenze
gravissime.
VI
Amorevoli,
per un movimento troppo spontaneo, balzò indietro tre passi a
quel dàgli dàgli, risuonato
improvvisamente nel silenzio della notte, e s'inferrajuolò
sino al viso per un altro movimento spontaneo; nè egli aveva
finito di coprirsi la faccia movendo, senza proposito determinato, in
ritirata, che la contessa era già uscita, anzi fuggita dalla
biblioteca, per fermarsi affannata sui gradini della scala che
metteva alla sua stanza da letto, comprimendosi colla sinistra il
cuore che parea volesse scoppiarle. Chiunque attende a far cosa che,
se potesse, vorrebbe tener nascosta anche a sè medesimo, trema
dello stormire non aspettato d'una foglia; figuriamoci poi d'una
voce, anzi di più voci che squarcino l'aria intera in un
momento che tutto per consueto dev'essere silenzioso, e che accusino
la piena veglia di molte persone che avrebbero l'obbligo di dormire
profondamente. Amorevoli, sgomentato, s'accostava al muro di
cinta e già stava per tentare il varco; chè le voci,
anzichè cessare, facevansi più vicine, e con esse
udivasi un rumore diffuso, come di molte pedate che battessero
l'ortaglia. Ma un uomo, a pochi passi da lui, in quel punto stesso,
colla velocità non avvertibile di un lepre, coll'elasticità
di un saltatore di corda, balzò oltre il muricciuolo; e
Amorevoli, trattenuto da quell'improvvisa comparsa, non ebbe tempo di
raccapezzar le idee, che si trovò d'improvviso fra molti
uomini che gli furono sopra afferrandolo pel mantello e gridando
Ah... ci sei... è qui l'abbiam côlto
non ci scappa più; e in quella sorvenivano
altri con lumi e con lampioni, stringendosi tutti d'intorno a lui,
che, rischiarato da quelle fiamme messegli al viso per riconoscerlo,
apparve in tutto lo splendore del suo ricchissimo vestito, con gran
meraviglia di coloro che gli si serravano a' fianchi, i quali tosto
per la magica virtù di quella serica marsina e di quelle trine
sfoggiate e delle catenelle e degli anelli, mutarono il ci
sei... nel chi siete e nel chi è
lei? Ci fu un istante in cui nelle teste di quanti eran
là corse un pensier solo, il pensiero che doveva essere un
altro l'oggetto delle loro ricerche; e questo pensiero apparve così
chiaro all'esterno, che un di loro, il più vecchio di tutti,
uscì con asprissima voce a ricacciarlo indietro:
Ma cosa mai vi fa stupire, balordi, che state lì a
contemplarlo come se fosse un'eccellenza? Che cosa vi credete?... È
appunto questa catena e questa seta e questo bel gilè che ci
voleva per conoscere il selvatico... È l'uomo senz'altro
costui; vi sono i ladri cenciosi ed i ladri scialosi. Tutto dipende
dalla qualità del furto.
In
questa comparivano lumi a molte finestre del palazzo V... e lo stesso
conte ex colonnello s'affacciò, degnandosi di parlare a
quella gente, mentre i domestici erano già chiamati dal
rumore.
Che cosa è successo?
Eccellenza, ci perdoni, fu côlto questo signore, vogliamo dire
quest'uomo, nella stanza dell'illustrissimo signor marchese F...
morto stamattina, come V. S. illustrissima sa bene...
No, che non fu côlto nella stanza..., usciva un altro ad
interrompere...
Fuggiva quando noi ci siamo accorti del rumore.
Bisogna dir le cose giuste.
Perdoni, illustrissimo signor conte... ma noi siamo accorsi quando
l'uomo fuggiva....
Ma no, non è così...
Illustrissimo signor conte, dee sapere...
Ma
al signor conte illustrissimo scappò la pazienza, e disse al
cameriere, già disceso in giardino:
Vieni su in camera, e conduci con te uno di questi uomini.
Mentre
il cameriere obbediva, gridava uno dalla siepe che divideva il
giardino di casa V.... dal giardino del marchese defunto:
Qua tutti, presto.... che è venuto il signor tenente del
Pretorio.
Amorevoli
non aveva mai parlato; nella sua testa era un tal cozzo di pensieri,
che gli pareva di sognare, e solo volse lo sguardo alla finestra
della stanza della contessa, quando vide uscir molti lumi dalle
finestre del palazzo; poi ripiegò il capo come sdegnoso di
vedere e di esser veduto. Bensì, quando sentì nominare
l'ufficiale del Pretorio, provò qualche cosa entro di sè
che assomigliava ad un sollievo. Ma fu di breve durata; chè un
pensiero crudo come la fitta di un coltello gli attraversò la
mente.... il pensiero che l'unica giustificazione che gli rimaneva
per togliersi da quel tristo impiccio non era adoperabile per nessun
modo. Egli aveva veduto fuggire un uomo; comprendeva che trattavasi
d'un qualche delitto, sebbene non sapesse immaginarsi quale; ma nel
tempo stesso pensava che si poteva fracassargli le ossa colla corda e
il cavalletto, ma non strappargli di bocca il nome della contessa. Vi
sono uomini, tutt'altro che esemplari, più donne che uomini se
si bada alla mollezza del costume, alle abitudini da cui son tratti
da condizioni speciali; ma che, in certe contingenze della vita, si
son fatta una legge morale, la quale nemmen sanno dove l'abbiano
attinta, ma che per loro è incontrovertibile. Una di queste
leggi morali, a cui Amorevoli obbediva con religione di scrupolo, con
quella religione onde taluni sono schiavi dei pregiudizj, i quali
sono i padroni più despoti dell'uomo, era quella di non
compromettere mai la donna colla quale aveva avuto od aveva tresche
d'amore. Potea essere debole in tutto; in questo era un eroe; non lo
sgomentava per nulla l'idea della colpa; ma lo facea fremere soltanto
l'idea che altri potesse mettere in piazza il nome di una donna
amoreggiata. Quando dunque gli si affacciò alla mente il
pensiero, che a palesare il motivo della sua venuta in quel giardino,
tutto si potea sventare, lo respinse come una abbominevole
tentazione.
Avete sentito? fu detto allora ad Amorevoli, venite con
noi; suvvia presto, che cosa state pensando?
Badate ai fatti vostri, e statemi un tantino discosti... so far la
strada da me, senza essere sorretto. Spicciamoci.
Amorevoli
pronunciò queste parole in modo, che a quella gente passò
la voglia di dir altro, e si avviarono.
Per
una callaja che era aperta nella siepe di divisione entrarono nel
giardino del marchese F... Sotto l'atrio del palazzo li attendeva il
tenente del Pretorio con un barigello, un guardiano e un fante, come
allora venivano appellati.
Il
tenente del Pretorio aveva sentita la storia particolareggiata
dell'avvenuto da chi era stato a chiamarlo. Però, quando vide
Amorevoli: È costui? disse.
Sì, signore.
No soggiunse Amorevoli imperterrito. L'uomo che cercate l'ho
visto io a fuggire e a saltare il muro di cinta. Tant'è vero
che questi uomini mi vennero addosso quand'io stavo di piè
fermo.
Senz'essere
avvezzo agli interrogatorj come l'uom del Pretorio, a chicchessia
poteva riuscir ovvia la dimanda che gli fece infatti il tenente:
Ma voi che cosa stavate facendo là?
Quest'è un altr'affare, e il signor tenente ha ragione di
chieder questo; ma io risponderò in Pretorio, se vossignoria
me lo permette. Intanto è bene che vossignoria sappia ch'io
sono il tenore Amorevoli, al servizio di S. M. il Re di Spagna, e che
oggi ho l'onore di cantare al Regio Ducal teatro di Corte.
A'
tempi di Tramesani, di Crivelli, di Rubini, in qualunque, trambusto
costoro si fossero trovati, bastava che si nominassero per essere
tosto riconosciuti; e lo stesso accadde al tenore Amorevoli, che vide
spuntare sulla faccia dell'ufficiale un sorriso di rispetto e di
bonomia.
Mi rincresce, signore, questo contrattempo, ma...
Comanda il signor tenente interruppe allora il barigello
che si salga nella camera che fu aperta, o da questo signore o da chi
è fuggito, e là, alla presenza di tutta questa gente,
si stenda tosto la deposizione del fatto?
Benissimo rispose l'ufficiale che s'avviò, pregando il
tenore Amorevoli a seguirlo. Tutti in silenzio salirono lo scalone,
sfilarono per due o tre anticamere, entrarono in un salotto dove era
una gran tavola, sulla quale stavan fiaschi e bottiglie, tazze e
bicchieri, che attestavano come quella gente, che avea vegliato a
custodia della salma patrizia, avesse passato la notte a tracannare
il vino della cantina del quondam marchese. Da questo salotto
passarono nella camera in cui giaceva sul letto, avvolto in un
lenzuolo, il corpo del defunto. Tutti dovettero entrar là,
compreso Amorevoli che volea ritirarsi.
No, signore; si compiaccia di rimanere, disse il barigello, più
risoluto e fiero e men musicale assai del tenente del Pretorio.
Quello è dunque l'uscio che fu scassinato?
Quello, sì signore risposero tutti ad una voce; e il
tenente e il barigello s'affacciarono all'uscio, e videro tra molta
suppellettile, un rolò aperto.
È questa la camera?
Questa.
E
il tenente del Pretorio cogli altri retrocesse nel salotto, e là,
fatte da un lato le bottiglie e le tazze, stese la seguente succinta
relazione del fatto, che è quella che noi abbiam trovato
allegata agli atti del processo, il quale diede a far tanto, in prima
al tribunale criminale, di poi per tanti anni, e iteratamente e a
lunghi intervalli, al foro civile.
«Oggi,
giorno 11 febbrajo dell'anno 1750, alle ore otto italiane, chiamati
dagli uomini che vegliavano in casa F.... per custodire il cadavere
del marchese A. F., morto la mattina del 10 corrente, abbiamo trovato
aperto l'uscio della camera attigua a quella dove giaceva il
cadavere, e di cui la chiave dal sullodato marchese F., per quanto
asserisce un domestico della casa, qui presente, e per quanto è
da verificare, venne consegnata un'ora prima della sua morte al molto
reverendo preposto di S. Nazaro. Al qual preposto, per
asserzione dello stesso domestico, e sempre come sarà a
verificare, il marchese F... disse aver messe carte importanti nel
rolò della sua camera da studio, il qual rolò
fu parimenti da noi trovato aperto. Raccolte in seguito le
deposizioni concordi delle otto persone qui presenti, tre domestici
della casa, e cinque uomini di fuori, riferiamo come costoro, colpiti
da un rumore in un momento che cessavano di parlare, e spaventati
perchè veniva dalla stanza del morto, accorsero
cionulladimeno, e videro in quella un uomo che usciva per l'uscio che
stava a dritta del capezzale del letto. Riferiamo inoltre come
tutti si rimanessero prima spaventati, temendo non fosse il morto
risorto, ma che poi fattisi animo, inseguirono l'uomo che era uscito,
il quale pareva assai pratico della casa; perchè passando per
gl'interni corridoj, giunse a un mezzanino, e di là saltò
nel giardino... Che due lo inseguirono saltando pure di là....
ma che, smarritolo al salto della siepe... trovarono poi nel giardino
di casa V... e presso il muro di cinta, una persona col mantello, che
ora, alla nostra presenza, dice di essere il signor Angelo Amorevoli,
cantante di camera di S. M. il Re di Spagna, e primo tenore
nell'attuale stagione al Regio Ducale teatro di Corte; il quale però
protesta di non essere lui altrimenti l'uomo fuggito, ed aggiunge di
aver visto invece egli stesso a fuggire uno.
«F. Baldini, tenente del Pretorio. F. Rò,
barigello.
G. Cialdella, guardiano».
Stesa
questa relazione, il tenente si alzò e disse agli uomini di
casa F...: Voi tutti domani sarete chiamati al Pretorio, e
nessuno esca dalla città sotto pena d'arresto. In quanto a
voi, signor Amorevoli, quando pure sia vero quanto asserite, bisogna
che veniate a passare una notte al Pretorio... Domani... si farà
quel che si farà...
Amorevoli
non disse una parola.
Quando
tutti furono al portone del palazzo, trovarono una frotta di gente
che, sebbene ad ora tarda, dalle osterie vicine, era accorsa al
rumore e alla vista delle guardie. Tra quella frotta c'era
Zampino, il servo del palco scenico, che riconobbe Amorevoli, ed ebbe
il coraggio di gridare:
Che cos'è? che cos'è stato? che diavolo è
successo? Ma signor Amorevoli.... Ma loro signori non sanno che è
il primo tenore del teatro Ducale? È uno sbaglio, non può
essere che uno sbaglio.
Taci, Zampino, e va' a casa gli disse Amorevoli.
Ma
il tenente gli si rivolse, e sentito chi era desso:
Giacchè sei qui, soggiunse, la tua presenza può essere
opportuna... e vieni con noi anche tu.
Dove?
Al Pretorio.
In prigione?
Sta' queto, Zampino.
Ma che diamine ha fatto, signor Amorevoli, in quel poco tempo ch'io
stava mangiando il mio boccone all'osteria!... e quasi piangendo lo
seguì.
Ed
in breve furon tutti al palazzo del Pretorio.
VII
Il
giorno dopo, a quell'ora in cui si può giurare che tutto il
mondo è svegliato, ad eccezione degli ammalati che hanno preso
la decozione di morfina, dei giuocatori che nella notte hanno voluto
ad ogni costo inseguir la fortuna che li fuggiva, e di altre cento
eccezioni; in quell'ora, che a buoni conti noi la poniamo due o tre
quarti d'ora dopo mezzodì, chi si fosse preso il diletto di
percorrere la città di Milano in cabriolet, facendo sosta alle
botteghe di cioccolatteria e di bottiglieria, e a
quelle per la vendita del tabacco; in piazza del Duomo, in pescheria,
in piazza dei Mercanti; o fermandosi presso i libraj Agnelli e Motta
e Bianchi e Galeazzi, in Santa Margherita, dove facean cerchio
maestri, accademici, letterati, preti, giureconsulti; o presso gli
speziali Rapazzini nei Tre Re, e Archinti in piazza del Duomo, e
Omodei a porta Romana, dove s'adunavano i medici e i chirurghi più
riputati della città; o nelle sale degli Accademici
Trasformati in casa Imbonati, sulla piazza di San Fedele, o nello
studio di pittura del Londonio, giovane allora di 22 anni, che già
raccoglieva d'intorno a sè i capi più strani e pazzi e
avventati della città; o sotto il Coperchio de' Figini nelle
botteghe di mode, frequentate dalle più eleganti dame; o nel
salon di qualche maravigliosa, per esempio, della
contessa Marliani, la regina dello spirito e della maldicenza; o in
quello della contessa Clelia Borromeo del Grillo, calamita dei
numerati patrizj dediti agli studj, e degli abati poetanti e dei
maestri di spinetta; ovvero nella bottega del parrucchiere Blanchy,
nato Giuseppe Bianchi in Cordusio, ma che avea cangiato nome dopo il
suo viaggio a Parigi, donde avea importato nella nostra bella patria,
per la prima volta quel tal puff a capitello che era lo spasimo delle
nostre dame; nella qual bottega non sdegnavano di soffermarsi i più
sfoggiati cicisbei o per farsi raccomodare un riccio, o rimettere un
neo caduto, o rimpastare un po' di biacca e belletto...; se qualcuno
adunque si fosse preso il diletto di scorrazzare in lungo e in largo
per la città a far raccolta dei discorsi che si tenevano in
quei tanti centri di buontempo, non avrebbe sentito che un discorso
solo, come se fosse una parola d'ordine passata dal quartier generale
ai soldati del campo; non avrebbe sentito che un nome solo, quello
del tenore Amorevoli; e del suo arresto e del sospetto delle carte
trafugate, e del prevosto di S. Nazaro. Codesto tema poi,
generale e costante, si sparpagliava in mille ramificazioni; chi
narrava la vita del tenore; chi quella del defunto marchese; chi si
fermava al giardino di casa V..., chi voleva perder la testa a
indovinare il motivo per cui il tenore avea potuto trovarsi là;
chi passava in rivista tutte le cameriere e le fantesche di casa
V..., perchè i tenori, diceva un tale, hanno pur troppo de'
gusti plebei; chi tutte le donne del vicinato che per caso avessero
qualche poggiolo o finestra o mezzano a cui si potesse ascendere dal
giardino; giacchè nessuno, letteralmente nessuno, nemmeno per
un istante fuggitivo, potè credere che Amorevoli fosse l'uomo
fuggito dalla casa F... e avesse dovuto aver interesse a entrar nello
studio del defunto marchese, chè in ciò non v'era
probabilità di sorta, e conveniva esser pazzi a supporlo.
Nella
cioccolatteria e caffetteria del Greco, in piazza del Duomo, il quale
cento anni fa era il caffè arcavolo degli odierni,
dell'Europa, del Cova, del Martini, dove
traeva tutta la gioventù più galante e più pazza
e più sfaccendata di Milano, verso le ore due dopo mezzodì,
sembrava quasi che vi si tenesse un'adunanza solenne. Mezza dozzina
di giovani sedevano là intorno ad un gran braciere; uno teneva
la paletta, e pareva colui che, per diritto di eloquenza,
desse l'avviamento a' discorsi; intorno a quella mezza dozzina, che
potea passare per il direttorio, stavan raccolte da trenta o quaranta
persone, le quali or crescevano ed or scemavano, a seconda di chi
andava e veniva; l'attenzione però era profonda.
Voi dite così parlava quel della paletta, che è
improbabile che il tenore Amorevoli siasi introdotto nella stanza del
morto per rubar carte importanti; e chi non lo dice e non lo crede?
bisognerebbe essere un gran mellone solo a sospettarlo. Ma, cari
miei, mi rincresce a dirvelo, altro è che una cosa sia
inverosimile, altro è che non possa essere possibile.
Chi sa tener dietro alla possibilità... essa è un mare
senza fine e senza fondo... e la legge non può pescare in quel
mare, e i giudici del Pretorio e quelli del tribunale e il collegio
dei giureconsulti potranno tenersi le loro convinzioni in petto, e
basta lì; ma se non vien fuori l'uomo che davvero ha fatto il
colpo, chi si trovò al suo posto, suo danno.
Ma che interesse volete voi che potesse avere il tenore?
Ma chi parla ora dell'interesse? cosa c'entra l'interesse? Se
qualcuno avesse tirato una schioppettata al tenore, perchè il
tenore per combinazione venne a trovarsi al posto del birbone
fuggito, che cosa valeva il dire egli era innocente? Lo
so anch'io. Ma fu ucciso perchè il maledetto accidente ha
voluto così... Or fate conto che tal sia della legge: essa
tira su chi si trova in mal punto, e a chi è toccata è
toccata.
Basterebbe poi, a mio rimesso parere, che il tenore dicesse il motivo
per cui trovavasi là...
Ora parlate bene; a tal patto la cosa cambia di aspetto...
Un motivo qualunque...
Un motivo qualunque no... la giustizia è inesorabile; essa è
un ragioniere che tien conto anche dell'ultimo quattrino, e se la
somma non riesce, il bilancio non si può fare. Ci
vuole, caro mio, un motivo che possa essere provato come due e due
quattro; e, a quel che ho sentito da uno scrivano del Pretorio...
sapete cos'ha risposto il tenore al primo interrogatorio del giudice?
Che cosa ha risposto?
Una assurdissima bestialità. Ma già si sa quel che può
uscire dalla bocca di un tenore...; ha risposto, se lo scrivano non
ha detto una sciocchezza, perchè anche questi scrivani.... ha
risposto che nessuno poteva nè può impedirgli delle
bizzarrie innocenti; che però gli era venuta voglia,
passeggiando in quelle parti là dopo il teatro, e vedendo quel
bel giardino e quel gran palazzo, e giacchè faceva anche il
più bel chiaro di luna che mai, gli era venuta, come dicevo,
la voglia di saltar dentro a far una passeggiata...
E che cos'ha risposto il giudice?
Questo non si sa. Ma se il giudice è quell'uomo acuto che
tutti conosciamo, gli dee aver detto: Siete stato disgraziato
a passeggiare in giardino, in un momento che si andava in cerca di un
ladro... Ora il ladro siete voi, se non avete qualcosa di meglio da
dire al giudice.
Ebbene, sarà come voi dite... osservava un altro, e ad uscire
d'impiccio dovrà pensarci il tenore; ma ora vorrei sciogliere
l'altro gruppo del nodo. Che diamine ci poteva essere di così
importante tra le carte del marchese?... se ognuno sa, almeno lo si
diceva da gran tempo, che l'erede universale di tutte le sue sostanze
era suo fratello, il conte Lodovico?...
Io non so nulla nè del marchese nè del conte, eccetto
che il primo fu un gran libertino a' suoi giovani anni, e il secondo
è croce, se il primo fu lettera. Il conte non è
niente di più che un uomo posato, misurato, tirato, che sta
con quattro cavalli mentre potrebbe averne dodici, perchè s'è
fitto in capo che suo figlio, il contino Alberico, che ha tutta
l'aria di voler assomigliare allo zio, possa mettere col tempo la
prima casa in Milano, e metter sotto casa Litta e casa Borromea; che
bel matto!...
Jeri è partito per la campagna.
Tanto per nascondere nella solitudine campestre la gioja che gli deve
esser derivata dal dolore provato in città sentendo i tocchi
dell'agonia suonati per il caro fratello, che Dio l'abbia in
gloria...
E
costui avrebbe continuato per un pezzo a tagliare i panni e al vivo e
al morto; chè era di quelli alla cui parlantina velocissima
conviene di tanto in tanto metter la scarpa, se può passar
l'espressione, per dar qualche riposo agli orecchi degli ascoltatori
e lena ai volonterosi di contraddire; ma per fortuna s'aprì
l'invetriata della bottega, e comparve un compagnone della brigata,
il quale a quei trenta o quaranta che voltarono le faccie a lui, fece
un paio d'occhi pieni di significazione, e gridò:
Amici, una grande scoperta!!
Che? Cos'è stato?
Chi di voi sa dove alloggia la Gaudenzi?
Nella contrada dei Moroni, chi non lo sa? l'abbiamo accompagnata a
casa tante volte dopo il teatro fra i battimani e gli evviva...
Questo va bene. Ma se nessuno sa che la finestra della sua cameretta,
dove riposa il suo bel corpo, guarda nel giardino vicino al giardino
dove fu colto Amorevoli, lo so io e l'ho scoperto io... e lo dico a
voi tutti.
Quando
a Newton nel pomo caduto balenò l'idea della gravitazione
universale, quando Galileo nel Duomo di Pisa fu colpito
dall'oscillazione della lampada, quando Volta nelle piastrelle di
zinco alternate al cartone inzuppato d'acqua salata afferrò il
prodigio delle perpetue correnti elettriche, quando... tutti coloro,
in una parola, che fecero qualche gran scoperta, non provarono
soddisfazione maggiore di quella a cui si esaltarono que' trenta o
quaranta al fiat lux del nome della Gaudenzi e della finestra
e del giardino...
Or ecco sciolto il maledetto enigma.
La è chiara come il sole.
Non ci può esser dubbio.
Ma tu, come hai fatto a sapere?
Vi basti che l'ho saputo... e se non mi credete, andate a verificare
voi stessi.
Però bisogna confessare che il tenore è un bravo
giovane...
Ma certo che è un bravo giovane.
Mi rincresce per la Gaudenzi che ho sempre tenuta per la fenice del
suo ceto... Ma vada; allorchè da una scappata si sviluppa una
bell'azione... è sempre una cosa che fa piacere... Bravo
Amorevoli! così va fatto. Già, quando nel canto uno sa
trasfondere tutta quella dolcezza e quell'affetto e quella
passione... bisogna bene che nel cuore ci sia del buono... non si
sbaglia... Oh quanti di questi cavalieri, che portano spada,
avrebbero gridato là sfacciatamente in Pretorio il nome della
cara beltà, pel crepacuore di non poter dormire a proprio
letto... Oh sepolcri... Oh apparenze!!
Ma
chi parlava, a queste parole si fermò, perchè la sua
attenzione, come quella degli altri, si volse al carrozzone del
giudice, che in quel punto attraversava la piazza del Duomo.
Lasciando
ora dunque i giovinotti del caffè del Greco, e tenendo dietro
al giudice del Pretorio, dobbiam dire che, sottoposto
all'interrogatorio di pratica, il tenore Amorevoli, il quale davvero
aveva risposto quanto fu già riferito nel caffè del
Greco; sottoposti pure all'interrogatorio gli uomini di casa F...,
dietro quanto risultava dalla deposizione del tenente Baldini; il
signor don Antonio De Capitani di Arzago, chè tale era il
nome del giudice, giovane d'anni, ma di matura e soda intelligenza,
pensò bene di recarsi egli stesso a visitare il preposto di S.
Nazaro, anzichè citarlo a comparire in Pretorio, per rispetto
alle qualità venerabili di quel degno sacerdote. Smontato alla
canonica, si fece annunciare, e il pio e umile prete discese egli
stesso a riceverlo.
So già per qual ragione ella s'incomoda a venir da me...
disse il preposto. Era anzi mia intenzione di venire da lei
fra poco.
E
così, precedendo il signor giudice, lo fece entrare in un
salotto, dove sedettero ambidue.
Ella dunque, signor preposto, sa perchè son qui... La cosa è
seria più che non si creda...
Lo so.
Ora abbia la bontà di dirmi, fin dove però glielo
permette il suo ministero, in che rapporti ella si trovò col
marchese defunto...
Non le tacerò cosa nessuna; ella sa quale fu il tenore di vita
di quel benedetto uomo...
Lo so.
Or bene, sette anni sono, da una povera giovine, che ebbe la
disgrazia di capitare nelle sue mani, ebbe un figliuolo...
Qualcosa ne sapeva...
Dopo le prime smanie, ogni affetto, come sempre, venne a sbollire in
quell'uomo volubilissimo; e dato un pugno d'oro a quella poveretta,
si dimenticò presto e di lei e del fanciullo...
Siam sempre a queste...
Quella sciagurata veniva spesso a piangere da me... e a pregarmi
perchè pregassi il marchese... Non le so dire quanto mi
pesasse il recarmi da colui... Spesso... troppo spesso... la dignità
dell'uomo, non che quella del sacerdote, veniva offesa. Ma appunto
codesti insulti, che per gli altri è una virtù il
respingere, per noi è un merito il sopportare. Insieme colle
brusche parole veniva però sempre qualche pezzo d'oro, ond'io
tornavo all'assalto ogni qualvolta la poveretta veniva da me per
bisogno. Se non che l'uomo venne a star male un anno fa... una
malattia di generale disfacimento... Allora una fiera tristezza gli
entrò nell'animo, e con quella una arrendevolezza insolita.
Dietro le mie preghiere, volle vedere quella sciagurata e il
fanciullo; e un giorno più dell'altro lavorando su quell'animo
ammollito, ottenni quel che era nelle vie della giustizia; almeno io
vissi nella speranza d'averlo ottenuto. Lo consigliai a nominare
erede universale il figlio suo, chiamandolo all'onore del mondo, e a
distruggere il testamento fatto prima, pel quale l'erede universale
doveva essere il suo fratello conte Lodovico, una degna e brava
persona, per verità, ma ricca a sufficienza; del rimanente non
aveva dimenticato nemmeno lui... Mi pregò gli facessi venire
un notajo... gli ho mandato il giovane dottor Macchi, il quale vegliò
alla stesa del testamento olografo... perchè quell'uomo non
sapea nulla di nulla. Io seppi dal dottore che quel testamento
infatti era stato scritto dal proprio pugno del marchese, e firmato,
e così messo tra altre carte. La cosa rimase segreta tra me,
il dottore ed il marchese, il quale però soltanto due ore
prima di morire: «Do a voi, mi disse, la chiave del mio studio.
Là dentro nello scrigno c'è quello che voi avete voluto
che si facesse.» Ecco tutto. Del resto io non ho veduto nulla.
Qui c'è una mano esperta che trafugò il testamento,
soggiunse il giudice, dopo un momento di pausa. Ma il mare delle
congetture è troppo vasto per scoprirvi il filo, se non vien
fuori l'uomo. D'altra parte il conte Lodovico...
Partì due ore prima della morte del fratello... egli e suo
figlio.
Per questa parte adunque non c'è a far nulla.
E poi, torno a ripetere, il conte è un uomo irreprensibile...
Dopo
queste parole vi furono alcuni istanti di silenzio, trascorsi i
quali, il parroco:
Sarebbe bene uscì a dire che V. S. illustrissima
parlasse col notajo Macchi... Egli ha letto la scritta del marchese
dopo averla dettata... chi sa che il notajo non sappia qualcosa di
più?
Il
giudice si alzò e: Non voglio perder tempo
soggiunse: sull'istante vado dal dottor Macchi...
Egli sta in borgo delle Grazie.
Lo so.
Così
dicendo, il giudice si partì dalla casa del preposto di S.
Nazaro, e quando lo salutò:
Mi scuserà, reverendo signor preposto, soggiunse, se per le
volute formalità sarò costretto a sentirla anche in
Pretorio. Risalì poi in carrozza per recarsi difilato
alla casa del dottor Macchi.
Ma
quando fu nella via, pensò che era più conveniente
mandarlo a chiamare, che andarlo a visitare, perchè questa
poteva essere una deviazione dalle leggi d'ufficio, soltanto
compatibile, in via straordinaria, con un reverendo preposto. Giunto
così al Pretorio, mandò infatti a prendere in carrozza
il notajo, il quale non si fece aspettare, e ripetè press'a
poco le parole del preposto di S. Nazaro, senz'altra aggiunta che
questa:
Del resto, illustrissimo signor giudice, se io ho dettato il
testamento, e se il marchese lo ha tutto trascritto di suo pugno, ciò
non vuol dire che dopo non l'abbia anche lacerato... perchè
già ella sa che il suo costume fu sempre di disfare oggi
quello che aveva fatto jeri... onde il trafugamento può forse
essere stato un delitto inutile.
Ma a che proposito, osservò allora il giudice al notajo, ella
mi dice questo?
A nessun proposito. Bensì è mia opinione che se mai i
protettori del fanciullo volessero muover lite al fratello del
marchese, di che ho sentito a toccare un tasto, se il secondo
testamento non salta fuori, ognuno potrà pensare quel che
vuole; ma l'erede è il signor conte di pieno diritto.
Il
giudice non replicò nulla, e licenziò il notajo.
Alcuni
momenti dopo entrò un usciere ad annunciare all'illustrissimo
signor giudice una visita dei cavalieri ispettori del palco scenico
del teatro Ducale.
So di che si tratta, disse fra sè il giudice, e li fece
venire avanti.
I
cavalieri ispettori del teatro Ducale erano venuti a domandare
formalmente al giudice il permesso che il tenore Amorevoli potesse
cantar la sera al teatro, dimostrando che col pubblico s'era
contratto l'impegno e col pubblico non si scherzava; e che, del
resto, come il signor giudice avrebbe ingiunto, si sarebbe seguita la
pratica di riconsegnarlo alla giustizia, tutte le sere, dopo finita
la recita.
Il
giudice rispose, che, non solo non aveva nessuna difficoltà a
conceder questo, ma che anzi era suo debito di fare in modo che il
pubblico si dovesse soddisfare pienamente; che però tutto
dipendeva dallo stato di salute del tenore, cui mandò infatti
a riferire la visita e il desiderio degli ispettori cavalieri. Dopo
alcuni momenti, con loro maraviglia e soddisfazione, Amorevoli mandò
a dire che era assai ben disposto a cantar la sera.
Ma
lasciando ora il Pretorio e il giudice, vorremmo sapere che cosa fa e
che cosa aveva fatto donna Clelia, dalle due ore dopo mezzanotte a
quell'ora in cui gli ispettori del palco scenico partirono per dar
gli ordini opportuni, onde il pubblico fosse avvisato che la sera il
tenore Amorevoli avrebbe cantato.
L'infelice,
in quella giornata, pur troppo, aveva dovuto recarsi a far visita ad
una dama sua conoscente; e ognuno può immaginarsi quel ch'ella
abbia provato udendo i tanti discorsi che si fecero intorno
all'avvenimento della notte. E dovette trattenersi colà tanto
tempo, quanto potè bastare per sentire anche la scoperta
relativa alla finestra della stanza della Gaudenzi; poichè dal
caffè del Greco quella notizia si diffuse repentinamente per
tutta la città, anche senza il telegrafo elettrico. Al qual
proposito è ad osservare che mentre ella, donna Clelia e non
la Gaudenzi, avrebbe voluto giacer mille braccia sotterra, piuttosto
che trovarsi in punto che venisse conosciuta la parte che ella aveva
avuto in quel fatto misterioso; pure, in fondo al suo cuore era
deposto un cruccio inavvertito anche a lei; il cruccio, il dispetto
perchè nessuno avesse mai sospettato che il tenore Amorevoli
fosse venuto nel giardino per amor suo. L'essere amati da persona
amatissima aggiunge un tale orgoglio al cuore in sussulto, che, ad
onta di qualunque pericolo, esso vorrebbe, all'ultimo, far noto a
tutto il mondo il trionfo del suo amor proprio. Ma, lo ripetiamo,
questo sentimento giaceva recondito e dissimulato da altre pressure
nel fondo del cuore di quella donna, e ad ogni sguardo che
innocentemente veniva a fermarsi su di essa, mentre il discorso
percuoteva quel tasto, ella gelava e ardeva di confusione e di
spavento; e solo, solo allora che sentì nominare la Gaudenzi,
quasi fu per tradirsi; così forte tentazione la prese di
gridare: No, non è lei! Ma le fitte più
crude le ebbe a subir la sera, quando coll'orgoglioso conte
ex colonnello, suo marito, dovette recarsi in teatro ad
assistere all'opera.
Il
fatto della notte, l'arresto dellAmorevoli, le mille dicerie,
il silenzio generoso ond'esso avea reso sempre più difficile
la propria posizione, la credenza ormai fatta generale degli amori di
lui colla bellissima Gaudenzi, misero in tutta la popolazione una tal
voglia di andare in teatro, che, la sera, i soldati del corpo di
guardia dovettero accorrere per stornare gravissimi disordini.
Nessuno poi saprebbe immaginarsi gli applausi prodigati in quella
notte dal pubblico a colui ch'egli chiamava il re del canto;
indescrivibili furono le pazzie che si fecero per testimoniargli la
universale simpatia, e per significare la disapprovazione universale
alla lettera cruda della legge e al codice delle manette; e
quanto fu strepitoso il trionfo del tenore arcangelico (perchè
l'aggettivo arcangelico fu trovato la prima volta pel tenore
Amorevoli, e non per Moriani, come crede il volgo), altrettanto fu
quello della danzatrice olimpica. Amorevoli e Gaudenzi,
furono i due nomi echeggiati tutta la sera, senza riposo, con tutta
l'aria che può mettere nelle sue canne la gran gola del
pubblico; tanto parea ammirabile il connubio di quelle due belle e
giovani persone! tanto sembrò perfetta quell'armonia della
danza e del canto!
Ma
se l'infelice donna Clelia dall'alto del suo palchetto facea sangue
nel suo segreto, altri, al cui orecchio eran pur giunte tutte le
dicerie del pubblico, fremeva in più basso scanno, ed era il
primo violino di spalla, il quale, nella sua potenza, a tutti
nascosta, dall'umiltà del suo posto, era destinato a gettar
fuoco e fiamme nella polveriera di questo dramma. Ma non è
tempo ancora ch'ei si faccia innanzi.
VIII
L'amore
è il sole dell'anima, ha detto e stampato Vittore
Hugo, quando non contava che vent'anni, ossia quando nemmeno gli
uomini di genio hanno potuto ottenere dall'esperienza il permesso e
il diritto di parlar dell'amore, nè di nessuno degli altri
enti morali che costituiscono l'infesta e crudele famiglia dell'umane
passioni; Vittore Hugo s'attenne poi al metodo più sicuro per
definire una cosa a rovescio, quella di non guardarla che da un lato.
S'egli in quel punto si fosse limitato a descrivere la
felicità, certo vi sarebbe riuscito; chè egli amava
allora, riamato, quella virtuosa e leggiadra fanciulla, che poi sposò
coll'assenso de' superiori, colla benedizione dei parenti, con tutti
i più felici augurj degli amici, colla contentezza della
Francia, che preconizzò altissime sorti al suo giovine poeta,
il quale si assestava nella vita con tutto il suo agio, stornando per
sempre, coll'applicazione di un matrimonio precoce, quelle feroci
ambascie del cuore che troppo spesso hanno la compiacenza persin di
sfiancare i più robusti intelletti. Così il primo poeta
della Francia fece coll'amore la cura dell'amore, e, avendolo in
isbaglio preso per il sole, lo curava intanto al pari di una
malattia, innestandoselo come il vajuolo. L'amore è una
malattia; una delle più terribili malattie del genere umano,
in quanto i nove decimi degli uomini ne devono essere flagellati
almeno una volta nella vita. Se non è oggi, sarà
domani, ma verrà il tuo giorno anche per te, o gaudente
bevitore di wermuth. Felici noi, soltanto, che,
grazie al cielo non siam più di primo pelo, e
che, avendolo subìto a' nostri giovinetti anni colla sequela
di non so quante ricadute, ora, al pari di Renzo, possiam diguazzarci
in mezzo al flagello, sicurissimi d'andarne illesi. Ma chi fosse
innamorato della definizione di Hugo e sospettasse il paradosso nelle
nostre parole, a persuadersi rifletta questo fatto, che di tante
centinaja di migliaja di suicidj onde l'umanità fu contristata
da Adamo in poi, di due terzi buonamente ne fu cagione l'amore; a
compire l'altro terzo, pare abbia contribuito la confraternita dei
debitori.
Allorchè
la favola inventò la camicia avvelenata di Nesso che arse le
immani membra del semidio Ercole, côlto all'impensata, seppe
ben ella cosa faceva; ma in Fedra, in Medea, in Didone, nella Saffo,
e a voler saltare più di due mila anni, in Gaspara Stampa e in
Properzia de' Rossi, che consolazione e qual sole sia l'amore,
ognuno lo può vedere, perchè l'amore, se non trova
contrasti, si spegne o si trasmuta in un'infiammazione benigna che
non intacca l'appetito e non infesta le digestioni e allora non è
amore; e quando sia tale veramente, si crea i contrasti da per sè,
quantunque non ci provveda la perfida fortuna; inventa fantasmi e
larve e sospetti e affanni, e si confedera alla gelosia; ed è
allora che esso entra nel suo pieno stadio, nel suo più
completo sviluppo, che assume le sue virtù più
micidiali, che fa scomparire il color vivo delle fronti, che emunge
le guancie, che turba il numero delle battute del polso, che toglie
il sonno, che sfila e sfianca anche le vite meglio costrutte dalla
rigogliosa natura. O giovinetti, o giovinette, o donne, o uomini, che
versate in qualche periglio amoroso, o voi tutti adunque che mi
ascoltate, se mai il quadretto che v'ho delineato fosse atto a
produrre alcun effetto, fate buon pro dell'avviso, e ringraziatemi; e
chiudete i vostri cuori in fretta, come quando si chiudono le
persiane al comparir dell'uragano.
Così
fossimo vissuti al tempo di donna Clelia e fossimo stati suoi amici,
e avesse ella potuto bere il contravveleno di queste poche righe! ma,
pur troppo, non siamo nati in tempo, e l'uragano scoppiò, e il
suo cuore, rimasto aperto, ne fu messo sossopra, e terribile uscì
il malanno; perchè potrebbe darsi benissimo che qualche
testolina leggiera ne avesse a ridere, ma noi non ridiamo: tanto
quella donna era diventata infelice, chè l'amore esaltato
dalle furie della gelosia, era penetrato nel cuor suo per siffatto
modo, che ben poteva esser definito un tétano
morale.
In
quella notte del trionfo d'Amorevoli e della Gaudenzi, preveduto, ne
siamo quasi certi, dal primo, e per nulla aspettato dalla seconda;
tanto che, non sapendo darsene una spiegazione a sè stessa, ne
richiese, piena di meraviglia, lo stesso tenore che non le seppe dir
nulla (poichè se arrivava a comprendere il motivo per cui egli
era stato così festosamente accolto dal pubblico, non riusciva
a capacitarsi perchè anche la Gaudenzi dovesse avere una
porzione di quegli applausi prodigati in via straordinaria); in
quella notte adunque la falsa diceria degli amori della ballerina col
tenore, aperse a tutta prima una profonda ferita nel cuore di donna
Clelia; chè la gelosia, stranamente immaginosa nell'inventar
sospetti, anche allora che nessun fatto vi dà argomento, aveva
trovato in quelle voci il naturale suo pascolo; pur tuttavia, per la
relazione spontanea della stessa passione ajutata dal desiderio, a
poco a poco si lasciò persuadere dagli interni ragionamenti a
creder false tutte quelle voci, e si veniva così rassicurando
e quasi consolando; chè l'idea del gravissimo pericolo in cui
ella si trovava in faccia al marito, e in cui si trovava la sua fama
in faccia al mondo, se il vero si fosse scoperto, dopo il primo
spavento, erasi quasi del tutto dileguata; tanto l'amore è
imperterrito. Ma la sventura volle che un cavaliere, di quelli che in
teatro esercitano l'officio di gazzettino orale e, raccolta una
notizietta alla porta, la sparpagliano di palchetto in palchetto col
cinguettio d'una cutrettola, volle dunque la sventura che colui
entrasse da lei, presente il conte ex colonnello, a raccontarle
che il Pretorio in quella sera stessa aveva mandato d'ufficio un
invito cortese alla Gaudenzi, affinchè per il giorno
susseguente dopo mezzodì volesse aver la compiacenza di
recarsi nelle sale della giudicatura per essere sentita intorno ad un
fatto in cui essa poteva avere qualche parte. Tale notizia era la
pura verità, poichè il giudice, al cui orecchio dopo
molti giri e rigiri capitò pure la fama di quei pretesi amori
della Gaudenzi con Amorevoli, sospettando nella delicatezza generosa
del secondo il motivo del suo silenzio, pensò che sarebbe
stato forse più facile cavar la confessione sincera dalla
bocca della Gaudenzi, e così poter mandar libero e assolto da
una imputazione gravissima un uomo, che in faccia al mondo era fuori
d'ogni dubbio innocente, ma non lo poteva essere in faccia alla
legge.
Ma
quella notizia tornò a suscitar la tempesta nel cuore di donna
Clelia, che già erasi venuta tranquillando; e le si fisse in
petto, relativamente agli amori di Amorevoli colla Gaudenzi, con
tutti i caratteri della certezza, di quel genere di certezza che
produce la desolazione. Il conte marito e il cavaliere s'accorsero di
un certo trasmutamento nel volto di lei, onde ad una voce le
domandarono s'ella si sentiva male, senza però insistere di
troppo, tanto erano lungi dal vero. Ma il ballo e l'opera finirono,
il sipario calò, il lacchè entrò nel palchetto,
il conte e la contessa scesero nell'atrio, salirono nel carrozzone, e
in breve, ridottisi a casa, il conte spagnolescamente accompagnò
la contessa alle soglie del suo appartamento, ed egli, come consueto,
ritirossi nel proprio. Or che notte fu quella per la contessa
Clelia! che irrequietudine, che affanno! Coloro che in questo punto
stanno comprimendosi le mascelle per uno spasmodico dolor di denti;
quelli che all'inattesa notizia di un grosso fallimento guardano
spaventati al totale rovescio dei proprj affari; quelli che si
sentono annunciare dal medico che bisogna risolversi all'amputazione
di una gamba, han tutto il diritto di dire che la contessa avea buon
tempo, e che bisognava aver smarrita la ragione onde pigliarsi tanto
affanno per l'infedeltà di un tenore. E il medesimo
quasi diciam anche noi, che non abbiamo nè dolori, nè
gambe in pericolo, nè fallimenti... Ma non per nulla abbiam
detto che l'amore è una malattia, e che la mente cessa di
essere sana quand'è investita dai suoi roventi pensieri.
D'altra parte quell'affanno veniva accresciuto alla contessa dal non
avere a chi confidarlo. Un male, soltanto a raccontarlo altrui, scema
della sua intensità. Ma la contessa non aveva amiche, non ne
ebbe mai: e ciò non tanto per la sua indole naturalmente
altera, quanto perchè, cresciuta tra l'invidia astiosa delle
sue pari, che non poteano sopportare la superiorità del suo
ingegno e il prodigio della sua dottrina, si era venuta, a così
dire, guastando il sangue in quella necessità continua di
render disprezzo per invidia. Ma qualcosa conveniva pur fare, pensava
la contessa nella veglia angosciosa di quella notte; ma se Amorevoli
era stato arrestato, qualunque fossero le sue relazioni colla
Gaudenzi, era pur stato côlto in un momento (e tal pensiero la
beatificava) in cui stava intrattenendosi seco in affettuosi e caldi
parlari; ma se Amorevoli si mostrò così generoso a
tacere il suo nome, ella non doveva permettere, serbando un vile
silenzio, che quell'uomo avesse a subire tutte le conseguenze d'una
imputazione infame. Nella stretta di tali pensieri, e nel bisogno che
più e più sentiva di confidarsi a qualcuno, si ricordò
d'una donna; di una matrona milanese, colla quale erasi trovata due
sole volte a parlare in tutta la sua vita maritale; d'una donna che a
Milano era l'oggetto dell'amore, dell'ammirazione, della venerazione
universale, e dal cui colloquio anch'ella aveva raccolto un grande
conforto; così grande che aveva potuto comprendere per la
prima volta com'è soave l'amicizia d'una donna, quando questa
abbia tutte le virtù che le son proprie, senza le sue
debolezze. Sapeva inoltre che colei, quasi per una professione
della vita, era stata ed era pur sempre mediatrice pietosa,
eccitatrice imperterrita di buone opere, benefattrice instancabile,
in molte gravissime contingenze in cui altri erasi trovato. Risolse
pertanto di recarsi da quella signora. Questa si chiamava
donna Paola Pietra; severa come la vetusta Cornelia, in
continuo lutto vedovile, andava essa educando severamente due suoi
figliuoli.
Le
avventure di costei, fuori affatto di ogni ordine comune, la
costanza, la virtù, i sacrifizj, il coraggio che ebbe a
mostrare in una condizione di vita specialissima... tutto ciò
aveva diffuso la sua fama per tutta l'Italia ed anche per l'Europa;
chè, già claustrale professa nel convento di Santa
Radegonda, ne era fuggita per adempiere il voto fatto in segreto a
Dio, di far cancellare da più alta autorità gli effetti
d'una violenza che si era voluto farle, spingendola renitente ai voti
monastici.
Intorno
a questa donna Paola Pietra, sta manoscritta una relazione in una
serie di motti volumi miscellanei raccolti da un padre Benvenuto di
Sant'Ambrogio ad Nemus di Milano, ed esistenti nella biblioteca di
Brera.
Il
monaco suddetto comincia dal premettere al suo, come egli stesso lo
chiama «Succinto rapporto degli avvenimenti della
signora donna Paola Pietra, uscita dal monastero di Santa Radegonda
di Milano nell'anno 1730» scritto di sua propria mano,
pare, nel 1766; comincia, diciamo, dal premettere «un'efficace
invettiva contro il non mai abbastanza detestato (sono sue parole), e
dall'Italia principalmente non mai cacciato abuso di sagrificare, o
cogli artifizj o colle violenze, le povere fanciulle allo stato
religioso, a cui nè da Dio nè dalla loro inclinazione,
sono chiamate». Assicurando indi il lettore «che nella
relazione (son pure sue parole) non si dirà cosa veruna di cui
non se ne abbiano autentiche prove,» viene a raccontar il
fatto, dichiarando però di dover passar sotto silenzio, per un
certo riguardo, gli avvenimenti che precedettero la professione
religiosa fatta da donna Paola nel 1718.
Tali
riguardi sembra che fossero comandati al monaco di S. Ambrogio
dall'esistere in Milano, nel momento in cui egli scriveva, e
dall'avervi grande autorità coloro, per colpa de' quali la
fanciulla Paola ebbe a sopportare tanta violenza. Ma quegli
avvenimenti in prima da noi sospettati, poi inseguiti e sorpresi, a
dir così, in alcuni cenni sfuggiti quasi per inavvertenza ad
altri paurosi autori di memorie intorno a quel tempo, noi li verremo
esponendo, giacchè non siamo condannati dai riguardi che
facevano ostacolo ai contemporanei di donna Paola. Narrando la
storia della quale, se dobbiamo uscire per poco di via, dall'altra
parte avremo facile il mezzo di rilevare certi atteggiamenti
particolari del pubblico costume, in un periodo anteriore al tempo
che ci siam proposti d'illustrare, ma di cui è necessario
conoscere quanto basta per valutare con più sicuro criterio il
tempo successivo. Vedrà inoltre il lettore, nel rovescio della
medaglia che offre la monaca di Santa Radegonda di Milano a suor
Virginia di Santa Margherita di Monza, che mai possa la forte volontà
assistita dalla pura coscienza, e come il solenne spettacolo d'una
sincera virtù sia talora potente a placare anche il decreto di
consuetudini di ferro.
IX
Quando
si pensa che Carlo VI, subentrato ai Re spagnuoli nel dominio di
Lombardia, era innamorato della Spagna e del suo sistema, è
facile a comprendere come doveva camminare la cosa pubblica in
Lombardia, durante il regno di lui, sebbene ei fosse d'indole
mitissimo. L'arbitrio dell'autorità costituita tenne allora le
veci della giustizia; il diritto storico fu così onnipotente,
che il diritto razionale e naturale parve davvero un'utopia di
filosofi sentimentali e innamorati, per adoperar la frase di un
moderno statista dalla pelle di cuojo; come pare anche oggidì
a qualche sincretico legista, che dalla memoria sterminata e
prevalente su tutte le altre facoltà dello spirito, ebbe
guasto l'intelletto e contaminato il cuore. Quel periodo adunque di
Carlo VI contrassegnò la massima prevalenza del ceto patrizio.
Chi non era nobile era una bestia, non tollerabile se non in quanto
serviva come un cavallo o come un bue; e se appena appena si
rivoltava per l'istinto inalienabile della difesa, o sbizzarriva per
insipiente indocilità, tosto veniva tolto dal corpo sociale
come pericoloso e infesto. Il Senato poi che, sotto il dominio
spagnuolo (non sono parole nostre), corredato nella sua istituzione
di somma autorità, si reputava maggiore del Governo stesso;
per cui la vita, la libertà, la fortuna d'ogni cittadino,
erano abbandonate al potere illimitato di lui, che si credeva sciolto
dai rigidi principj di ragione, e solea dire che giudicava tamquam
Deus; sotto Carlo VI vide più ancora accresciuta
l'autorità propria, e perchè le istituzioni mantenute
in vigore da chi è innamorato di esse, non ponno a meno
d'invadere un campo maggiore di quello che primamente era loro stato
conferito; e perchè inoltre, negli anni di Carlo VI, non si
presentarono governatori così prepotenti come quei di Spagna,
a respingere l'arbitrio coll'arbitrio, ed a farsi beffe del tamquam
Deus.
Quando
un popolo è condannato a portare simultaneamente il peso di
due poteri arbitrarj e iniqui, ma che pure si faccian mutua
controlleria, può avere intervalli di sollievo e può
accidentalmente trovar anche la giustizia; mentre invece, se di que'
poteri uno solo rimane sul campo, allora ai soggetti non resta a far
altro che mordersi le mani, perchè loro è impedito
anche di esprimere i gemiti del dolore. Ad onta di ciò,
qualche uomo di Stato e qualche istoriografo potè lodarsi di
quel periodo transitorio; ma la logica rivede i conti alla cronaca,
le cui cifre, se non rispondono alla riprova della prima, è
indizio che sono fallaci. Però il fatto che siamo per
raccontare viene a smentire l'asserzione: che sotto il governo di
Carlo VI siasi respirato quanto lo comportava la condizione dei
tempi. Degli arbitrj inumani del Senato, rimasto solo sul
campo, fu dunque conseguenza un funesto avvenimento che non si è
potuto scancellare dalla tradizione inorridita, sebbene siasi fatto
scomparire dagli archivj il relativo processo criminale. Però,
furono uomini devoti alla giustizia ed alla santa ragione quelli che
pensarono di conservare il dettato della tradizione da essi raccolta
dalla stessa bocca di chi era stato testimonio di quel fatto, che ben
potè chiamarsi la strage degli innocenti; e la conservarono,
perchè lo spettacolo dei traviamenti a cui può andar
soggetta un'autorità costituita in arbitrio illimitato,
rimanesse ad ammonizione ed a sgomento delle future generazioni.
Chi
quindici o vent'anni fa era studente al ginnasio, al liceo,
all'università, avrà sentito parlare di un tempo non
molto lontano, in cui i giovinetti battaglieri e maneschi solevano
ordinarsi in truppa, e assumevano tra loro un'ostilità di
convenzione per aver un pretesto di menar le mani. Gli scolari
del ginnasio e del liceo di Sant'Alessandro eran nemici giurati di
quelli, per esempio, del ginnasio di Santa Marta, o di quelli di
Brera; e questi, non volendo patire insulti, respingevano i nemici
armata mano, vale a dire colle munizioni scolastiche, quali i
pennajuoli, le righe, le cinghie di pelle, i temperini che
convertivano l'ostilità di convenzione in ostilità
vera, e le antipatie in furore, e le ragazzate in fatti gravi e in
occasioni di affanni alle famiglie. Spesso gli assaliti diventavano
assalitori, e l'esercito del ginnasio di Brera, che aveva la riserva
formidabilissima degli studenti di disegno, armati di squadra e
compasso, trasportavan la guerra fuori del proprio nido, e
inseguivano i nemici fin nelle loro sedi come gli antichi Romani. La
contrada del Fieno e la piazza dell'Albergo Imperiale parlano ancora
di queste guerre, a chi sa interrogarle, come i campi di Zama e di
Cartagine. Noi stessi poi ci ricordiamo come alcuni scolari di
retorica, che avevano appartenuto a quei tempi gloriosi, guardassero
a noi, scolari novizj di prima classe, con quell'aria di pietà
e di dileggio con cui un veterano di Waterloo guardava ai molli
giovani cresciuti dopo la restaurazione.
Codesta
pericolosa consuetudine, di che a' nostri tempi fanciulleschi non era
rimasto che la ricordanza, ricordanza che qualche rara volta
provocava lo spirito d'imitazione, ora, per fortuna, è
scomparsa affatto; ma invece trovavasi nel suo massimo vigore nel
secolo passato. Quanto più era rigoroso e quasi tirannico il
regime casalingo de' nostri padri, tanto più i giovanetti
reagivano a quel rigore, allorchè eran fuori della vista
paterna e materna. Non potendo respirare in casa ragionevolmente,
perchè il terribile papà, colla parrucca di Filicaja o
col topè di Scannabue, li fulminava con lo sguardo, si
sfogavano irragionevolmente fuori di casa, e con tanto più
intensa, quasi diremmo, rabbia fanciullesca, quanto minore era il
tempo di libertà a loro concesso. Cattivo il sistema
d'educazione, pessime le conseguenze. Però avveniva
talvolta che le nature giovanili più vivaci e generose
prorompessero peggio delle altre in atti d'insubordinazione e di
disordine. Nè limitavansi a quelle battaglie tra loro; ma
talvolta quando durava la tregua, siccome avevano degli spiriti
esuberanti da versar fuori, tanto più esuberanti quanto più,
siccome dicemmo, venivan compressi in casa dal folto sopracciglio
paterno e in iscuola dall'arcigna canizie del frate professore
gesuita o barnabita, così si sfogavano sui passeggieri, su
qualche figura barbogia e ridicola, su qualche vecchia che vendesse i
libretti della cabala e avesse odore di sortilega, press'a poco, come
non è gran tempo, potemmo vedere qualche sucida vecchiarda
inseguita a dileggi e a fischiate dall'irrompente folla della
fanciullesca marmaglia.
Qualche
volta però, uniti in formidabile truppa, segnatamente gli
scolari già adulti della rettorica, si dilettavano anche a far
qualche atto di giustizia sommaria, a fare scherzi e dileggi a coloro
che per verità li avevano provocati, scherzi e dileggi che non
mancavano di spirito, e mettevano di buon umore tutta la città.
Ora avvenne il seguente fatto. Alcuni allievi del ginnasio di Brera,
delle classi superiori, giovinetti dai quindici ai sedici anni,
finite le scuole, uscirono un dì in truppa dalla porta
maggiore del palazzo, e di là traendo per le contrade, si
dilettarono a metterle a rumore, trattenendosi di tanto in tanto a
far celie e dispetti ai passanti, ai bottegaj, alle vecchie
portinaje, alle livree passamantate di qualche casa, ai cocchieri, ai
lacchè, ecc., ecc.; quando, un di loro, proponendosi qualche
soperchieria più saporita, rivolto ai colleghi di scuola, così
disse: Andiamo a vedere il nuovo guardaportone del senator
Goldoni. Invece di quel bell'uomo che aveva prima, il Marchese ha
voluto seguir la moda, e s'è provveduto di un nano, ma
il più brutto e laido nano che m'abbia mai visto; non patisce
che nessuno si fermi a guardarlo, e sfido a vincere la tentazione. A
chi gli ride in faccia, ringhia come un cane, e scaglia invettive a
tutti, e qualche volta mena anche a tondo la lunga canna d'India, che
a chi gli tocca il pomo nelle gambe non è un servizio. Il
senator Goldoni sa tutte queste cose, e va superbo di questo bel
mobile; e quando sa che il suo nano ha fatto cadere il pomo del
bastone su qualche testa o qualche schiena, gli dà doppia
giornata e doppio pranzo. Ora, fatto tesoro di queste parole,
i compagni mossero tutti e di gran lena, senza nemmeno far precedere
una consulta, alla volta del palazzo Goldoni. Giunti di faccia al
quale, e visto che il nano guardaportone era là tronfio e
pettoruto, e con un faccione protervo e provocatore e ghignoso, tosto
si schierarono in semicerchio innanzi a lui, e si misero a cantare in
coro una villotta allora in voga, dove c'erano delle celie che
parevan pensate e messe in musica apposta per esso. Non è a
dire la furia a cui montò il nano, e come tosto facesse
succeder le brutte parole e le minaccie e i fatti; e come,
all'ultimo, secondo il suo costume, si desse a far girare su quella
schiera il suo lungo e pesante bastone senza modo nè misura.
Ma il nano era solo, e la schiera era giovane e fitta e forte e
baldanzosa, onde fattiglisi intorno, lo disarmarono, lo avvoltolarono
come un palèo, e così raggirandolo a spintoni, a calci,
a schiaffi, gli fecero fare il giro di tutta la città, fra le
risate universali, ottenendo, quel che oggi si direbbe, un vero
successo d'entusiasmo.
Il
tumulto crebbe al punto, e i guaiti del nano, infuriato e percosso da
tanti pugni, furono tali, che, come avviene di consueto in queste
faccende, accorse la sbirraglia. Allora gli studenti abbandonarono il
nano e tentarono la fuga; ma la folla stipatissima essendo stata
d'inciampo ai loro passi, gli sbirri s'impadronirono de' più
adulti, lasciando andare la ragazzaglia minuta, mentre il nano mezzo
pesto fu ricondotto al suo portone. I quattro giovinetti, che tale
riuscì il numero dei disgraziati, vennero tratti al capitano
di giustizia ammanettati come ladri. Se quel nano fosse stato
un povero del volgo, esercitante qualche professione, forse gli
sbirri avrebber dato una mano agli scolari di Brera; ma avendolo
conosciuto pel nano del senator Goldoni, si fecero un paléo,
di difenderlo con devozione di vassalli, e di accompagnarlo a casa
con tutti i riguardi dovuti a un alto personaggio. E se gli sbirri si
comportarono di questa maniera, non stettero indietro i giudici, gli
auditori, i notaj, gli scrivani del Capitano di Giustizia, allorchè,
maravigliando e quasi inorridendo del gravissimo insulto, guardarono
a quei quattro giovinetti scellerati, che ebbero tanta audacia di
percuotere il Guardaportone del senator Goldoni. Ma la cosa non
doveva fermarsi qui. All'annuncio di quanto era avvenuto, quel
senatore, pallido d'ira e giurando di trarre una terribile vendetta,
la quale fosse a lezione ed a sgomento della plebe, si recò,
abbandonando il pranzo e lasciando i convitati in gran trambusto e
cordoglio, al palazzo dell'eccellentissimo presidente del Senato, il
quale non meno stupito e convulso d'ira del marchese Goldoni, quasi
che si trattasse della patria in pericolo, convocò
extraordinariamente il Senato, ingiungendo che facesse parte
dell'adunanza il Capitano di Giustizia e il suo Vicario, come
praticavasi nelle bisogne d'urgenza. A chi considera oggi tali fatti,
la storia pare bugiarda, chè la ragione si rifiuta ad
ammettere tanta demenza, più quasi che ferocia, in uomini
gravi, costituiti in autorità. Ora il Capitano, avendo già
esaminati i giovinetti, lesse in Senato il costituto, esponendo il
fatto come un atto manifesto di pubblica sedizione, ed anche,
subordinatamente, pronunciando il voto per la massima pena da
infliggersi ad essi. Sebbene la maggior parte de' senatori, per la
vertigine provocata dall'orgoglio di corporazione, giudicassero
quella colpa gravissima, e, smarrito ogni lume di ragione, non
sapessero tener conto menomamente dell'inesperienza inconscia e non
responsabile di quegli adolescenti, e però non credessero di
derogare alla proposta del Capitano di Giustizia, pure non mancò
in quel consesso di giudici iracondi qualche voce pietosa; e forse
quella voce avrebbe potuto stornare la carneficina; poichè,
essendosi letti a quel consesso i nomi de' giovinetti, fece senso a
tutti quello di don Giovanni Pietra, figlio del conte Francesco
Brunon-Pietra, e fece senso non per altro che perchè era il
nome di un nobile. Questo incidente bastò a fare aggiornar la
sentenza; ma tutto, purtroppo, fu inutile. Una soperchieria infantile
doveva esser causa di un'ingiustizia, e questa doveva provocar poi un
atto inumano e veramente inaudito, atto inumano che, a primo aspetto,
avrebbe potuto aver sembianze di una virtù somigliante
all'inesorabile giustizia della patria potestà di Roma antica;
chè il dì dopo, il segretario del Senato, lesse in
pieno consesso uno scritto sottosegnato dal conte Francesco
Brunon-Pietra, col quale ei supplicava che non si avesse riguardo
nessuno alla nobiltà del suo casato, quando fosse stato
d'impaccio al corso della giustizia; perchè, riferiamo le sue
stesse parole, «l'obbedienza alle leggi e il rispetto
all'autorità e segnatamente il culto dell'alta maestà
del Senato doveva andar innanzi a tutto.» Le voci pietose che
s'eran fatte sentire il giorno prima, si fecero riudire ancora, ma in
segno di dolorosa meraviglia, inculcando che si dovesse considerare
come non ricevuto uno scritto in cui la devozione all'autorità
faceva tacere l'umanità, e offendeva le leggi più
antiche e più irrepugnabili di natura, ma tutto fu indarno.
I giovinetti vennero condannati a morte.
Or
che indole d'uomo era quel conte Francesco Brunon-Pietra, e come e
perchè aveva potuto inviare al Senato quel terribile scritto?
Noi abbiamo fatte molte e lunghe e non facili ricerche per scoprirne
le cagioni, e alla fine, tenuto scrupolosamente conto di tutto, ci
riuscì di cavarne quanto segue.
Quel
conte Brunon-Pietra era stato assai famigerato in Milano per le sue
galanterie donnesche, per la sua vita disordinata e facinorosa; e
soprattutto per aver consumato nella prima gioventù l'intero
patrimonio, che era di qualche milione di lire milanesi, e ingoiate
poi, l'una dopo l'altra, quattro eredità laterali. Fu allora
che, ridotto quasi al verde, seppe così ben fare e comportarsi
nella casa dei marchesi Incisa, che una graziosa e virtuosissima
giovinetta di quel casato, ricchissima di un'eredità legatale
da un suo padrino, tirata ad arte nelle insidie, finì ad
invaghirsi perdutamente di lui, ed a concedergli la mano di sposa.
Da questo matrimonio nacquero, ne' primi due anni, un figlio maschio
e una fanciulla che non conobbero la madre, perchè, vittima
delle furibonde ingiurie maritali, morì tre mesi dopo il
secondo parto. Pare che le cagioni di quelle ingiurie e di quella
morte immatura sieno state delle tresche scandalosissime con una
contessa Ferri, nata Alfieri; poichè, non ancora compiuto il
lutto vedovile, il conte Brunon, senza riguardo alcuno, la sposò,
e n'ebbe poscia un figliuolo. Intanto che il primogenito e la
fanciulla del primo letto, eredi della ricchezza materna, erano
tuttora in cura delle nutrici, il figliuolo del secondo letto
cresceva in casa, e la nuova moglie del conte, che aveva preso sul
marito quell'impero ch'egli in addietro aveva sempre esercitato sulle
donne, gli comunicò un tale amore per quel fanciullo, ch'esso,
al pari della matrigna, sentì avversione pei primi due, e
tutto l'incomodo e il peso della loro esistenza. Questo non
apparì manifestamente in principio, ma quando i fanciulli
avanzarono in età, trapelarono al di fuori le intenzioni del
conte, tanto che i parenti della defunta marchesa Incisa, fecero
reclami per avocarne a sè la tutela; ma invano, perchè
il conte, astutissimo e versipelle, seppe condursi così bene,
che furono respinti i reclami e a lui data piena soddisfazione.
Se non che d'allora in poi il conte, affinchè i figliuoli non
si lamentassero, finse di trattarli bene. La fanciulla, che era donna
Paola, fu messa educanda, com'era di consuetudine, in un monastero
che fu quello di Santa Radegonda, il fanciullo fu tenuto in casa; e
siccome egli era naturalmente acuto e vivacissimo, e si sentiva come
il padrone in casa, e non poteva soffrir la matrigna, nè vedea
molto di buon occhio il fratellastro, il conte Brunon, per non averlo
contrario, e perchè non gli uscisse di mano l'amministrazione
delle sue sostanze, si diede ad accarezzarlo, ad assecondare ogni suo
capriccio. Quali disegni poi si volgesse in testa non si
sa..., ma forse, senza che lo sapesse spiegare a sè medesimo,
meditava di addensar pericoli al giovinetto, perchè avesse o
tosto o tardi a rimanerne travolto. Ed or la mente vorrebbe
respingere l'idea di un tanto accordo tra il destino e i desiderj di
quel padre scellerato.
Prima
che si eseguisse la pena capitale contro que' sventurati giovani, si
commosse tutta la città, impietosita e di loro e dei parenti
desolati; e nei giorni d'intervallo molte pratiche si tentarono per
smuovere l'autorità del Senato da tanta efferatezza. Or
non è a dire la dolorosa meraviglia di tutti, nel sentire quel
che era stato scritto al Senato dal conte Francesco, il quale solo,
per la sua nobiltà e per quella del figliuolo, avrebbe potuto,
se avesse voluto fermamente, impedire quella carneficina e salvare
col proprio figliuolo altri giovinetti complici.
Ma
la costernazione generale, se fu sincera e profonda, non fu
coraggiosa, perchè non par vero che lo spettacolo di così
scellerata, ripetiamo demenza, non abbia fatto insorgere tutta la
città, per strappare quelle giovani vite dalla mano del
carnefice, con tali dimostrazioni solenni dell'ira pubblica, che
valessero ad inspirare al Senato stesso quello sgomento che insegna
la pietà.
Il
conte Francesco potè dunque veder lieta l'infernal moglie per
quel primogenito spento, e spento, gli parea quasi tanto sono
assurdi i sofismi dell'iniquità per un ordine
provvidenziale; ma restava la fanciulla, educanda in Santa Radegonda,
la giovinetta donna Paola Teresa, che già toccava i sedici
anni, e doveva fra poco tempo uscire di là per accasarsi
convenevolmente, essendo ricca di buona parte della ricchezza
materna. Ora quella figliuola, superstite al fratello, turbò
la gioia del connubio infernale. Il conte Francesco ereditava dal
figlio i due terzi della sostanza che aveagli lasciata la marchesa
Incisa; ma questo non bastava alla sua seconda moglie, la
quale, eccitata da un affetto smodato pel proprio figlio, le parea
che fosse rubato a lui quello che potea pure diventar suo, se donna
Paola Teresa, o scomparisse come il fratello infelice, o giacchè
era in convento, vi rimanesse professa per sempre. Ma la
fanciulla non avea mai dato segno di vocazione alla vita claustrale.
Ricca e bella e, per soprappiù, avendo sortito dalla natura
una grande virtù per la musica e pel canto virtù
fatta poi mirabile dagli insegnamenti della celebre suor professa
Rosalba Guenzani, cantatrice e suonatrice d'organo nel monastero
appunto di Santa Radegonda aveva già potuto presentire
le attrattive del mondo; chè ogni qualvolta usciva di
convento, a stare un giorno col padre, nella qual occasione recavasi
anche a far visita a' parenti, veniva accolta da tutti come in
trionfo; e già le era stato toccato di qualche cospicuo
matrimonio; di modo che, per modesta e virtuosa che fosse ed
era virtuosissima, tanto da esser l'idolo, non solo della sua maestra
suor Rosalba Guenzani, ma delle altre suore e delle amiche colleghe
ogni qualvolta ritornava in convento, sebbene le fossero care e la
maestra e le amiche, pure non desiderava altro che di lasciare quelle
meste mura del chiostro e di uscire all'aperto. Or venne il tempo in
cui, finita la sua educazione, doveva infatti uscire. Ma fu
allora che il conte Francesco, messo innanzi il pretesto d'un
viaggio, cominciò ad insinuare alla fanciulla di rimanervi
fino al suo ritorno; ed ella vi rimase. Di poi, quando non
valse più quel pretesto, ne cavò fuori altri molti per
poterla dimenticare colà; ed ella pazientò senza
lamentarsi, ma con grande suo affanno. Infine il padre un dì
le fece motto della convenienza ch'ell'avrebbe avuto di abbracciar la
vita monastica. La fanciulla stupì a quella proposta, e
rispose con sdegno, e risolutissimamente negò. Allora il padre
finse di non adirarsi e di trovar giusta quella fermezza di
risoluzione; onde levatala dal convento, la condusse in casa. Se non
che, dopo alcuni giorni, il portone del palazzo Pietra stette chiuso,
perchè tutta la famiglia erasi recata in campagna in un luogo
tra i monti valtellinesi. Passarono così due mesi, finchè
corse la voce che tutta la famiglia era tornata, ed anche la
fanciulla donna Paola. Ma con grande meraviglia di tutti, essa
venne ricondotta dal padre nel convento di santa Radegonda, dove la
madre abbadessa sentì dalla bocca stessa di lei che voleva
farsi monaca. La poveretta in que' due mesi erasi per tal modo
disfigurata, che pareva una larva di fanciulla strappata per miracolo
alla morte dall'arte medica. Che cosa del resto sia avvenuto in quel
luogo del valtellinese, con che atti di crudeltà siasi
trattata la giovinetta in quel tempo, non si sa; onde è libero
il campo alle congetture. Quello che pur troppo avvenne si fu, che,
dopo un anno, donna Paola Pietra si professò monaca in Santa
Radegonda. Ma, dice il frate di S. Ambrogio ad Nemus, in
quella sua succinta relazione:
«In
quello stesso momento in cui la fanciulla non da un solo timore
riverenziale, ma da una manifesta violenza, fu costretta fare nel
suddetto monastero la solenne professione de' voti, protestò
nell'interno del suo animo a Dio di non concorrere colla volontà
ad un atto, a cui era trascinata dall'altrui volere.» Paga
d'aver di ciò chiamato Dio stesso in testimonio, si persuase
di poter conservare intera quella libertà che Dio stesso le
avea data. Tuttavia, fosse prudenza o un resto del timore onde ella
erasi lasciata obbligare all'atto solenne, non confidò che
assai tempo dopo, a fide e virtuose persone, gl'interni suoi
sentimenti; e come se fosse presaga di quanto doveva poi veramente
succedere, nella dolorosa solitudine del chiostro si consolava colla
speranza di dover un giorno romper quei lacci che la violenza degli
uomini le avevan posto. A tale effetto conservò per molti anni
un suo abito secolare, di cui credea fermamente di doversi servire.
Pure in qual modo ella avesse ad uscirne non poteva nemmeno
immaginarselo, ben conoscendo che era impresa impossibile il tentarlo
per le solite vie giuridiche. Ma la straordinaria virtù del
suo canto, come l'aveva già esposta, quand'era ancora
educanda, all'ammirazione generale, doveva additarla, monaca,
all'altrui pietà. Già abbiam detto che tutta la
città di Milano accorreva nella chiesa di santa Radegonda a
sentirvi le migliori produzioni della musica per canto ecclesiastico.
Il maestro Prediani, bolognese, che allora era in Milano,
soleva, per così dire, stare in giornata su tutto quello che
producevasi in Italia in questo genere, e appena venisse in luce
qualche composizione squisita, era sollecito di mandarla alla celebre
suor Rosalba, affinchè ella la facesse conoscere ed apprezzare
con quel magistero ch'ella aveva nel toccar l'organo e nel cantare, e
perchè specialmente, se trattavasi di pezzi a due voci, veniva
squisitamente assecondata da suor Teresa Paola Pietra. L'Ave
maris stella di Leo era uscito di fresco in que' giorni.
Il
ceto distinto della città, che allora tenea dietro a tutte le
novità musicali, e s'interessava anche della musica di chiesa,
veniva informato dal maestro Prediani, che dava lezioni nelle
principali case, del quando si doveva eseguire qualche gran pezzo
istrumentale in Duomo, o qualche canto in Santa Radegonda, onde
accorse per sentire quella nuova composizione. La folla, come suol
dirsi, si portava a que' trattenimenti, tanto che l'arte faceva
dimenticare la devozione; e però, in proposito, erano uscite
alquante pastorali contro l'uso e l'abuso della musica sacra.
Ora, tra quella folla stipatissima, si trovò un Inglese, che
si chiamava lord Crall, uomo straordinario e cavalleresco, e portato
naturalmente all'entusiasmo. Egli sentì quella musica e sentì
la voce commossa della monaca giovinetta, la quale, ripetendo quel
canto divino, vi trasfondeva tutta l'intensità dei proprj
affanni, e con tal fascino, che tutti, mentre atteggiavano il volto
al sorriso per la soavità della melodia, pur si sentivano
irresistibilmente inondati di lagrime.
Quel
gentiluomo dunque, più commosso ed esaltato di tutti, chiese
di quella monaca, e udita la storia del fratello di lei e del tristo
padre, e com'ella fosse venuta renitente ai voti; tanto si interessò
di essa che, d'una in altra ricerca, venne a conoscere i segreti suoi
pensieri, ed eccitato dalla pietà e dall'entusiasmo per tanta
virtù e sventura, si offrì di liberarla e di farla sua
sposa. La forza di codesta tentazione fu sì gagliarda sulla
monaca giovinetta, che il pericolo della fuga, i disastri d'un lungo
viaggio, l'abbandono della patria, la diversa religione del
gentiluomo, e i mille sentimenti di pietà e d'onore che
doveano sostener la sua ragione, se la tennero per qualche tempo in
grande sospensione d'animo, pur non valsero a soggiogarla; poichè,
all'ultimo, ella si faceva imperterrita nell'idea d'esser libera
innanzi a Dio, e di potere col matrimonio serbare inviolato il
proprio onore. Rispetto ora al gentiluomo che aveva promesso
di liberarla, giova sapere com'egli nascesse da una famiglia illustre
inglese passata in Francia, e come il padre suo, pel celebre editto
fulminato da Luigi XIV contro gli Ugonotti, nel 1685, siasi trovato
costretto a tornare in Inghilterra; dove morì lasciando due
figlie ed un maschio, che fu poi questo lord Crall.
Custodivansi
le chiavi del monastero nella stanza dell'archivio, a cui si entrava
per una bussola chiusa da una piccola serratura; fatta per ciò
la prova di diverse chiavi, ne fu trovata una che l'apriva. Dopo di
che, fissato il giorno e l'ora per l'uscita, licenziatosi
pubblicamente il cavaliere dagli amici, partì da Milano; ma
trattenutosi segretamente in un casino poco distante dalla città,
vi fe' ritorno pochi giorni appresso, nella stessa notte stabilita
per la fuga. Giunta l'ora in cui la si dovea eseguire,
accaddero nel monastero alcuni piccoli e curiosi accidenti che non
mette conto di riferire, i quali parea avessero ad impedirla, ma
invece l'agevolarono.
Il
cavaliere si trovò, con altri, ben armato alla porta del
monastero, ed una carrozza stava preparata in vicinanza alla chiesa
di S. Paolo; prima d'uscire depose la fanciulla la veste religiosa, e
comparve in sott'abito da uomo. Alla presenza di testimonj si
rinnovarono allora ambidue la fede ed il giuramento di sposi, di cui
il cavaliere avea prima fatto dichiarazione in iscritto; e,
senz'altro contrattempo, lasciarono la città.
La
notizia di codesta fuga fece un tal rumore e provocò tanti
parlari, che per molto tempo circolarono scritture in proposito e
poesie di vario tenore; nelle quali, o lo sdegno dell'ascetismo
esaltato condannava altamente quella risoluzione della giovane
monaca, o la pietà spontanea di una ragione più libera
protestava in sua difesa; ma più di tutti levò grido e
si diffuse rapidamente ed ebbe migliaja di copie manoscritte un
sonetto ch'ella medesima scrisse in propria difesa: ed è
questo, che, sebbene scorretto e tutt'altro che prezioso in faccia
all'arte, è preziosissimo in faccia a più gravi
ragioni:
Donde
n'entrai, m'involo alla ventura,
Porto
meco l'onor, la fè nel core.
Benchè
questo rassembri un grande errore,
Pianger
dovrà chi lo mio mal procura.
So
che al mondo non v'è legge sì dura,
Ch'obblighi
un cuore ad un sforzato amore.
Amo
il decoro e son dama d'onore,
Onde
vincer saprò la mia sventura.
Qual
combattuta nave in mezzo all'onde,
Oggi
imploro dal ciel soccorso, aìta
Per
arrivar le sospirate sponde.
Se
fortuna o periglio a me s'impetra,
Sia
noto al mondo come fui tradita,
Se
ben ebbi nel seno un cor di Pietra.
Ma
da Milano i due fuggiaschi viaggiarono sollecitamente a Venezia, dove
si trattennero parecchi giorni in una casa vicina a quella d'altri
Inglesi, nonostante lo strepito che presso la Repubblica faceano il
ministro cesareo e il nunzio del papa. Se non che, essendo stati
avvisati che non avrebbero potuto fermarsì colà più
lungamente senza pericolo, la donna, vestita, come sempre era stata,
da uomo, fu condotta di notte sopra un vascello inglese che stava
alla rada; mentre il cavaliere, dopo averla consegnata al capitano,
per una maggior cautela, passò in altro bastimento olandese. E
bene erano stati avvisati in tempo, perchè il giorno dopo, per
ordine del Magistrato, si fece la ricerca della fuggitiva in quella
medesima casa donde poche ore prima era uscita. Dalla rada di Venezia
passato il vascello inglese a Zante per farvi provvigione di vino per
l'equipaggio, non potè fermarsi colà quanto bisognava,
perchè recatosi di notte al suo bordo il nipote del Console
inglese in quell'isola, avvisò il capitano che suo zio aveva
accordata al governatore la permissione di far la visita al vascello,
per toglierne una religiosa trafugata. Il capitano, levate allora le
ancore, si allontanò dall'isola, apprestandosi alla difesa,
nel caso che lo si fosse attaccato. La mattina seguente si mostrò
infatti una marciliana con altra nave. Ma quella, avendo
scorto che l'equipaggio era sotto l'armi, ed essendo il vento poco
favorevole per tentare l'abbordaggio del vascello, dopo averlo per
qualche tempo inseguito, dovette abbandonarlo. Donna Paola intanto
era stata, per maggior sicurezza, nascosta dal capitano nel fondo del
vascello, dove ebbe a trattenersi parecchie ore. Cessato il pericolo,
all'uscire di quella sepoltura, fu salutata con grandi evviva da
tutto l'equipaggio, già informato delle avventure della
medesima. Il vino che dovea provvedersi a Zante, fu provveduto in
altro porto; e dopo un viaggio non molto lungo, il vascello approdò
felicemente a Londra. Qui donna Paola venne accolta dalle due sorelle
del cavaliere e ritrovò preparata l'abitazione. Il cavaliere
intanto, che per maggior cautela s'era trattenuto alle spiaggie di
Venezia, venne poi con abito mentito ad Ancona, donde, attraversata
per terra l'Italia, giunse a Livorno, dal cui porto con altro
vascello passò in Inghilterra, dove sbarcò poco dopo
l'arrivo di donna Paola.
Sparsasi
per tutta Londra la novella di codesto fatto straordinario, tosto
l'arcivescovo di Canterbury, con proposte onorevoli, tentò
l'animo della donna ad abbracciare la religione anglicana; ma la
donzella fermissimamente dichiarò che, non essendo passata in
Inghilterra per motivo di religione, ella non era in istato nè
in volontà di cangiarla; dichiarazione che ripetè
poscia alla regina medesima, quando, con maggiore grandezza di
offerte, essa le mandò lo stesso invito dell'arcivescovo. La
sola cosa che bramava donna Paola era di convalidare il suo
matrimonio colla presenza d'alcuni parroci cattolici di Londra; ma
questi avendo ricusato di assisterla finchè Roma non avesse
decretata invalida la sua professione religiosa, ella inviò
una supplica al pontefice allora regnante. Ma o non fosse stata la
supplica debitamente concepita, o fosse stata mal diretta, non ne
ottenne risposta veruna; per cui deliberò di condursi in
Francia insieme col cavaliere, e di là, bisognando, anche a
Roma, per implorare personalmente ciò che non s'era potuto
ottenere per lettere.
Giunti
in una città di quel regno, il vescovo, a cui era noto il
fatto già pubblico in tutta Europa, penetrando il loro arrivo,
fece qualche passo per assicurarsi della religiosa. Ma essi, avutone
sentore, sollecitamente si ritiraron in Ginevra, dove dall'istesso
magistrato furono, poco tempo dopo, segretamente avvisati perchè
si guardassero dall'uscirne, essendo attesi ai confini; e qui uno
stratagemma servì loro di scorta, e preso altro cammino,
dubitando di nuovi incontri, se ne tornarono in Inghilterra. Colà,
senza nessun avvenimento notevole, visse donna Paola fino all'anno
1732, con quella tranquillità che le potea permettere la sua
specialissima condizione, e il rimordimento che di tanto in tanto la
infestava d'essersi fatta giustizia da sè stessa, quantunque
pur sempre si confortasse della protesta fatta in suo segreto a Dio,
e della insistenza e diligenza assidua ond'ella erasi adoperata e
s'adoperava per riconciliarsi colla Chiesa. Quando finalmente la sua
fortuna volle che ritrovasse un mercante cattolico di Londra, il
quale prese l'impegno di scrivere ad un suo corrispondente in Roma,
uomo che si assunse l'incarico con religioso calore; e a servir
meglio e l'amico e la coppia virtuosa, recossi a ragguagliarne il
cardinal di Sant'Agnese, di cui aveva la protezione, il qual
cardinale era un Giorgio Spinola di Genova. Questi, riflettendo alla
gravezza dell'affare, ne parlò tosto al Santo Padre, ed al
cardinale Vincenzo Petra penitenziere, dal quale, coll'assenso
pontificio, fu per mezzo dello stesso mercante spedito sollecitamente
a Londra il solito breve assolutorio col salvacondotto, affinchè
la donna nel termine di sei mesi si portasse a Roma. A tale uopo
furon dati gli ordini a banchieri di varie città pel
somministramento del denaro e di tutto quello che nel viaggio potea
bisognare alla medesima.
All'arrivo
di questi ricapiti, benchè fosse il cuor dell'inverno, partì
donna Paola da Londra con un cameriere cattolico; ed attraversata la
Francia sotto altro nome, giunse a Marsiglia, non senza gravi
patimenti cagionati dalla stagione, e il giorno 8 febbraio 1733 entrò
in Roma. Il cardinal di Sant'Agnese, avvisato preventivamente
dell'arrivo, fe' che le movesse incontro una matrona di esemplare
saviezza, in casa della quale donna Paola si trattenne segretamente
alquanti dì, trascorsi i quali, per ordine del pontefice,
passò al convento del Bambino Gesù, sotto apparenza di
dama fiamminga, per ivi addurre le sue ragioni contro la profession
de' voti.
La
prima determinazione del papa fu di deputare un congresso di
cardinali, dal quale si esaminasse se una tal causa dovea agitarsi
nella Congregazione del concilio o nel tribunale della sacra
Penitenzieria. Le gravi e particolari circostanze che, a primo
aspetto, si videro in quest'affare, fecero abbracciare il secondo
partito. Per operar tuttavia con più cautela, a' giudici della
Penitenzieria furono aggiunti cinque cardinali, fra' quali lo stesso
prefetto della Congregazione del concilio.
Da
lungo tempo non eravi stata in Roma una causa più intralciata
di simil materia. Tre volte, in tempi diversi, radunossi la
Congregazione, e si tennero altresì molti Congressi. Non potè
sapersi quel che in essi s'andasse di volta in volta determinando: ma
quello che si può dire è, che le prove delle violenze
da principio accennate, furono, dopo quasi tre anni, poste in sì
chiaro lume che, non potendosene dubitare neppur da' giudici più
austeri, finalmente, nel mese di settembre dell'anno 1735, a pieni
voti venne fatto dalla Congregazione il decreto: Constare de
nullitate professionis. Il papa confermò il decreto, e,
dopo risolute altre dipendenze, fu data a donna Paola la libertà
d'uscire dal chiostro, in cui aveva dimorato per tutto quel tempo con
universale edificazione.
Donna
Paola Pietra, toccato così il supremo suo intento, a cui
incessantemente era stata fida, più, quasi diremmo, per
un'ostinazione della mente che si esaltava nell'idea di aver per sè
il diritto e la giustizia, che per la probabilità della
riuscita, lasciò Roma, sicurissima di sè medesima,
poichè s'era come veduta espressamente protetta dalla
provvidenza; e ritornò in Inghilterra a ricongiungersi con
colui che l'aveva tratta in salvo, e che sempre le si era mantenuto
religiosamente fedele. Abbandonata poi l'Inghilterra, venne con esso
a Roma dove solennemente ei la sposò. Ma la fortuna non volle
permettere che tanta felicità fosse duratura, e, dopo tre anni
di convivenza maritale, il virtuosissimo gentiluomo venne a morte,
lasciandola madre di due figli. Donna Paola per qualche tempo se ne
stette nelle vicinanze di Roma, poi, nel 1743, dopo tredici
anni di assenza, ritornò a Milano a fermarvi stabile dimora.
Un tale ritorno gettò lo sgomento in coloro che l'avevan
voluta sagrificare, sapendola così efficacemente protetta dal
santo padre; ma provocò un tripudio universale, tanto che le
diverse maestranze della città la vollero festeggiare con
notturna luminaria. Ed ella, se magnanima disprezzò tutte le
vili paure di chi l'aveva voluta opprimere, non mostrando nemmeno di
ricordarsi di loro; volle corrispondere efficacemente a quella
pubblica estimazione con atti di carità viva, col farsi
consolatrice degli altrui dolori, col metter pace nelle trambasciate
famiglie; più spesso, col difendere contro l'attentato de'
tristi l'innocenza che non si guarda; tra i molti suoi atti meritorj
aveva destato gran rumore un viaggio che fece appositamente per
ottenere da Maria Teresa la grazia della vita per un giovane,
colpevole d'aver ucciso un cavaliere che avea fatto contumelia alla
sua fidanzata. Naturalmente dotata di acuto intelletto, fortificata
dall'esperienza, virtuosa senza rigidezza, benefica senza
ostentazione, era essa richiesta di consiglio anche da persone di
gran riguardo.
Quand'ella
recavasi a passeggiare lungo le pubbliche vie, era segno agli sguardi
di tutti quel suo grave aspetto, in cui serbavansi tuttavia i resti
di una maestosa bellezza; aspetto grave di quella placida mestizia
che viene dalle angoscie passate, dalla memoria di una perdita
irreparabile, dalla severa considerazione della vita; ed ella, che
nell'animo avea tanta pietà per altrui, ne destava poi
altrettanta in tutti coloro che la guardavano, conoscendo il suo
passato; poichè facea senso quel perpetuo suo lutto vedovile,
il quale attestava un dolore che non poteva aver riposo nella vita; e
faceva senso quel suo comparire in pubblico assiduamente accompagnata
dai due suoi figliuoli già quasi adulti, e come lei vestiti a
lutto, e severi e mesti al par di lei. E davvero che il gruppo
di quelle tre figure, che si staccava come un simbolo di dolore sul
fondo vivace e variopinto e giocondissimo di quel tempo, giungeva a
compungere di gravi pensieri quella società così
spensierata e vana, la quale, ignara delle fiere lotte che
l'aspettavano, non attendeva che a darsi buon tempo, come chi spende
e getta e scialacqua le ultime ricchezze, e tuffa nell'ebrietà
il pensiero del domani.
Era
dunque stato un felice pensiero della contessa Clelia, quello di
voler recarsi da questa donna Paola Pietra, e per richiederla di
consiglio in un affare dilicatissimo e serio, e che poteva aver
conseguenze luttuose, quantunque vestisse le apparenze di un amore
galante; e per versare nel cuore di colei le ambascie, che ormai non
potevano più esser contenute nel suo.
X
LIBRO
SECONDO
La
ballerina Gaudenzi e Lorenzo Bruni. I pensatori celebri e
oscuri e i nembi precursori della procella sociale. Lo studio
del pittore Londonio. Artisti milanesi nel 1750. Il
pittore Clavelli e le maschere-ritratti. Gli Zanni. La
maschera del Tasca. Meneghino. La villotta di Cesare
Larghi. La lanterna magica del pittor Londonio. Il
minuetto. La prima domenica di quaresima. Il Capitano
di Giustizia. Sistema di giurisprudenza. Il processo
criminale. Venezia. Il lacchè Andrea Suardi
detto il Galantino.
I
Se
il lettore desiderasse di tener dietro alla povera contessa Clelia,
per conoscer tosto le sue risoluzioni e le conseguenze di esse, noi
ci troviamo nella necessità di non poterlo accompagnare,
perchè siamo invitati da altre persone, per esempio dalla
ballerina Gaudenzi, la quale in quella sera in cui il pubblico
delirio toccò la sua massima espressione al di lei riguardo,
si trovò in camerino l'usciere del Pretorio che le presentò
una citazione a comparire; e subito dopo vide il signor Lorenzo
Bruni, violino di spalla per l'opera, e primo violino direttore
d'orchestra pel ballo; il signor Lorenzo Bruni venutogli innanzi
agitato, convulso, iracondo e cogli occhi stralunati; il quale, se in
quella sera non proruppe in parole violenti e non fece una scena
dietro le scene, è perchè i veglianti regolamenti
proibivano a quelli dell'orchestra di andare in camerino, ed egli
comprendeva che, se i cavalieri ispettori chiudevano per lui, a loro
dispetto, un occhio su quella contravvenzione, perchè così
voleva la da tutti quanti idolatrata Gaudenzi, avrebbero còlto
però assai volontieri la prima occasione in cui egli avesse
commesso qualche stranezza, per far ritornare nel più crudo
rigore i regolamenti del palco scenico. Però erasi limitato a
dir sottovoce alla Gaudenzi, ma con un fremito mal compreso:
Che cosa dunque è successo, Margherita?
Ma non siete contento? Non vedete, che pazzie fa il pubblico per me?
Pazzie, eh?
O forse vi dà noia che il pubblico divida le sue grazie in due
esatte porzioni tra me e il tenore?
Il tenore, eh?... il tenore... Ma sapete che cosa si dice in pubblico
di voi?... Ma sapete perchè il pubblico v'applaudisce?
Gran novità da domandare e da sapere.... perchè il
pubblico m'applaudisce? Oh curiosa!.... perchè siamo belle,
perchè siamo divine, come dicono gli allocchi che vengono da
me; perchè Tersicore potrebb'essere la nostra fantesca, come
dice il poeta di teatro; perchè, in conclusione... Ma guardate
che paio d'occhi mi fate ... Ma sapete che siete bello stasera, ma
bello assai... Oh che matto!
Matto? Or sentirete se son matto, or sentirete che cosa dice il
pubblico di voi... Dice... dovreste per dio sentirvi a scottar la
faccia pel rossore della vergogna... Dice che il tenore stanotte era
disceso dalla finestra della vostra stanza, in quel punto che fu
preso dal bargello...
Ora ho capito, oh bella!... e una sonora e lunga e giocondissima
risata, di quelle che in buona lingua si chiamano cachinni, fu il
comento che la Gaudenzi fece a quella notizia inaspettata. Poi
soggiunse: Guardate, Lorenzo, cosa c'è lì su
quel tavolino.
Che? una citazione?
Una citazione, sì... ma ora comprendo tutto, oh bella, bella
davvero!
E
per quella sera non ci fu altro, perchè il fischio acuto e
importuno dell'avvisatore costrinse Lorenzo ad affrettarsi in
orchestra; e la Gaudenzi, quando il ballo fu finito e rivide Lorenzo
più torbido di prima:
Addio, Lorenzo, gli disse; avete bisogno di dormire... e di far buona
cera; a rivederci domattina, caro; e vispa e vivace e saltellante e
sghignazzante l'aveva lasciato là senz'altro.
Ma
la mattina venne presto, e quando fu un'ora ragionevole, Lorenzo
Bruni non si fece aspettare, ed entrato nell'angusto ma elegantissimo
appartamento della Gaudenzi:
È alzata la Margherita? domandò ad una zia di
lei; una zia rachitica e gibbosa, ma piena di acutezza, e che stava
presso a quella giovane beltà come il cane che ringhia sul
tesoro messo sotto la sua custodia.
Lorenzo
Bruni non aveva finito di nominar la Margherita, che questa, coi
capegli mal raccolti dalla notturna rete e fuggenti sulle spalle, e
in veste breve e discinta, dalla stanza da letto balzò con un
salto nella camera dov'egli trovavasi colla zia; e appoggiando
ambedue le mani sulle spalle di lui, fece due o tre battements
rapidissimi, dicendogli intanto con aria motteggiatrice e
carezzosa:
Siete guarito, Lorenzo? e accompagnò queste parole con
quella giocondissima e suonante risata a lei abituale; suonante e
leggera, e nel tempo stesso plebea insieme e gentile, che
assomigliava ad una scala musicale o ad un vocalizzo, in cui le note
spiccansi nette e granite; o che, se il confronto non è troppo
da naturalista, pareva il lieve e oscillante nitrito di una cavallina
che si stacchi allora dalla materna poppa. Lorenzo, venuto là
torbido e arrovesciato, com'ella ebbe finito di saltare e di ridere,
non potè a meno di spianare la sua fronte corrugata; tanto era
completo e ricreante lo spettacolo che, avvolta così a
bardosso nelle bianche vesti mattinali, offeriva quella regina della
beltà, della gioventù, della salute e dell'allegrezza.
E tale davvero era la Gaudenzi, che, veduta a quell'ora, avrebbe
fatto girar la testa anche al rettore magnifico dell'università
di Bologna. E tanto più riusciva pericolosa, quanto più
era inconscia degli effetti che produceva; effetti che potevan
suscitare incendj funesti, perchè nella vivacità
romorosa e irrequieta e, quasi diremmo, infantile, del suo carattere,
ella celava una calma profonda e inalterabilmente serena, cui nulla
avrebbe potuto offuscare.
E
a vedere com'ella moveva e girava quei suoi grandi occhi azzurri, e
come li fermava negli occhi altrui era imposibile credere che quegli
sguardi non avessero una significazione profonda; ed era impossibile
a non sospettare com'ella non fosse innamorata morta di
chiunque, segnatamente se fosse un bel giovane, che stesse parlando
seco; e che il più delle volte, infatti, beveva avidamente la
luce di quelle pupille, esclamando fra sè con gran tripudio:
Son io dunque il fortunato! Ma ella non ne sapeva
nulla, tanto era tranquilla e ingenua!! Ingenua, sì signori,
quantunque da nove anni, (chè allora toccava i diciotto)
respirasse l'aria torbida e la polvere corrosiva del palco scenico.
Ma oltre ad essere perfettamente calma, era anche perfettamente
buona; e la calma e la bontà, moltiplicate per una salute non
mai stata turbata dal giorno che, bambina, aveva finito di metter
l'ultimo dente, sino a quell'ora, davano per prodotto il buon umore
appunto, e l'allegria costante; al che, se si aggiunga un'esistenza
vissuta nell'agiatezza senza il fasto, tra gli applausi senza
l'invidia, nell'amore dell'arte che la preoccupava assiduamente senza
le amarezze di chi non è al primo posto, e tutto ciò
col condimento di un'ignoranza felice, ignoranza d'ogni altr'arte e
d'ogni altra cosa; il lettore potrà valutare completamente il
fenomeno di questa figliuola ingenua della natura, della natura che
aveva voluto appunto sfoggiare tutti i proprj tesori nel formarla e
nel crescerla.
Ma
in che rapporti viveva questa giovinetta di diciott'anni con Lorenzo
Bruni, e in che tempo si erano conosciuti e in che modo? e da qual
luogo erano usciti e l'una e l'altro?
Lorenzo
Bruni aveva avuto per patria Treviso, dove nacque da un padre notajo,
trentacinque anni addietro. Anch'esso aveva atteso alla
giurisprudenza nello studio di Padova; ma essendosi applicato, così
per passatempo, a suonare il violino, e riuscitovi più che
mediocremente, e fatto con questo i primi guadagni a Venezia, e non
colla giurisprudenza, la quale invece lo aveva condannato alla
soggezione di un padre insopportabile, tempra curiosa d'uomo che
forse suggerì l'idea di sior Todero a Goldoni; risolse
di non farne altro, e un bel giorno, senza domandare il permesso
paterno e senza nemmeno salutare i consanguinei, fece la scritta con
un impresario, e passò da Venezia a Bologna; e così,
d'orchestra in orchestra, percorse le principali città
d'Italia. A Livorno s'impegnò in seguito con un impresario di
Marsiglia, e da questa città erasi condotto a Parigi, dove
rimase un pajo d'anni. Libero come l'aria e insofferente d'ogni
benchè minimo legame, aveva scelto la professione di suonatore
appunto perchè, indipendente da qualunque padrone, da
qualunque paese, da qualunque autorità, cittadino di tutto il
mondo, trovava dovunque il fatto suo. E oltre a ciò, dotato di
mente svegliatissima e istrutto più che mediocremente,
travasandosi di luogo in luogo, si godeva a notare le varietà
dei costumi, della natura dei paesi, dell'indole dei ceti, delle
leggi, delle corti, de' cortigiani, delle arti, ecc., e a far la
conoscenza degli uomini più distinti d'ogni città che
visitasse; a Parigi, tra gli altri, aveva avvicinato Voltaire e
Rousseau e Diderot e d'Alembert. Quella sua natura inquieta e libera,
per la quale non aveva potuto sopportare il giogo paterno, nè
indursi a chiudersi in una città sola per tutta la vita,
dimostra com'egli fosse più adatto che mai ad esaltarsi alle
idee di quei quattro atleti dell'intelligenza, che erano destinati a
far da leva al mondo invecchiato.
Fin
da giovinetto, quantunque i precetti paterni avessero fatto di tutto
per chiudere il suo spirito in una scatola, egli aveva però
compreso, in confuso, che troppe cose non andavano bene intorno a
lui; a Venezia, per esempio, si era invelenito pensando alla
consuetudine delle denunzie segrete, e siccome aveva visto che colà
al reggimento della cosa pubblica non saliva che il patriziato, ad
esso dava colpa di tutto e l'aveva preso in odio con tutta
l'esagerazione di un giovane più caldo che riflessivo, il
quale non guarda che un lato unico dei prospetti umani. Nè,
quando stette fuori di Venezia, potè mai nelle altre città
trovar cosa che placasse l'ideale delle sue aspirazioni; e allorchè,
venuto a Parigi e lette le prime opere di Voltaire, e sentitosi preso
d'amirazione per esso, udì poi raccontare il fatto,
incominciato a tavola del duca di Sully, tra Voltaire e l'arrogante
marchese Rohan Chabot, e finito in istrada con quella bastonatura che
il nobile borioso avea fatto applicare, per vendetta, a Voltaire;
tanto più sentì crescere l'avversione verso quel ceto,
il quale allora almeno, se non cercava di aggiungere i proprj ai
meriti aviti, si ajutava d'orgoglio e di prepotenza per essere
rispettato. E, in tale avversione, Lorenzo non aveva nè modo
nè misura; e quantunque ricevesse le sue impressioni dalla
realtà che lo circondava, pure, trascinato dall'imaginazione,
o infervorato dallo sdegno, della società di allora faceva
piuttosto la caricatura che il ritratto.
Avveniva
pertanto che se, per esempio, raccontavasi qualche bell'atto generoso
di un qualche nobiluomo, egli se ne rodeva come di una causa perduta,
e cercava cento modi per offuscarlo; e invece, se taluno della bassa
plebe si fosse distinto per un qualunque nonnulla, ei ne menava sì
lungo scalpore, da provocare lo spirito di contraddizione anche in
coloro che pur la pensavano al pari di lui. Era insomma un uomo
irrequieto, e che malissimo s'adagiava nel suo tempo. Ma, di
tali uomini, in quel momento critico della metà del secolo
passato, ne eran nati parecchi, non si sapeva come, in molte parti
dell'Europa. Eran come quelle nuvolette bigie che si mostrano a
grandi lontananze e a vari punti dell'orizzonte su di un cielo tutto
sereno di un giorno d'estate e d'affannosa caldura; nuvolette che
sembran comparse a caso e per dileguarsi tosto; ma che, invece,
s'avvicinano grado a grado e, nell'avvicinarsi, s'ingrandiscono
finché, a un tratto, tutto il cielo non è che una
nuvolaglia sola, e intanto il sordo brontolìo del tuono si fa
sentire in lontananza.
II
Codesti
curiosi mortali che, dotati d'intelligenza eccedente la sfera comune,
non poteano trovarsi bene nel loro tempo e ne sentivano la
pesantezza, non sapeano ancora, al punto in cui siamo con questa
storia, quel che si volessero. Assomigliavano a chi, fornito di fibra
delicata e straordinariamente eccitabile, si sente dominato da un mal
essere che non sa spiegare, e volendone assegnare la causa all'aria,
alla stagione, a qualche cosa insomma, si vede invece contraddetto
dal limpido sole e dalla serenità del cielo e dall'allegria di
quanti lo circondano, i quali si lodano e del tempo e del sole e
dell'aria. Tale era la condizione in cui versava la maggior parte
delle intelligenze squisitamente acute che vivevano alla metà
del secolo passato. Del resto, nemmeno Voltaire sapea precisamente
quel che si volesse, quantunque fosse il più maturo di tutti;
nemmeno Diderot, che si agitava in un'assidua contraddizione e, se
parlava chiaro negli intimi sfoghi cogli amici, smarriva il coraggio
quando trattavasi di stampare quel che pensava; nemmeno Rousseau, il
quale non faceva che accusare un gran dolore senza saper indicarne il
luogo. Al pari di costoro, che, per l'ardimento sin colpevole delle
loro opere, dovevan poi salire al più alto fastigio della
rinomanza, un numero non piccolo d'uomini ignoti e dalle circostanze
condannati all'oscurità perpetua discutevano e si disfogavano
ne' parlari privati; anzi era codesta massa di uomini ignoti che
somministravano la materia, e venivano a determinare i propositi di
quelli chiamati a capitanarli. Ed uno di tali uomini, che nel sentire
e nel considerar le cose, non era inferiore a quegli ingegni
predestinati all'immortalità, era Lorenzo Bruni, che forse
avrebbe potuto spiccare sul fondo del suo tempo fra i pensatori più
audacemente liberi, se invece di suonare il violino in tutte le
orchestre delle principali città di Europa, avesse atteso agli
studj con volontà costante, e avesse avuto pazienza di
sopportare il burbero padre.
Lasciata
Parigi, quando finirono i suoi obblighi contratti coll'impresario, e
ritornando in Italia, Lorenzo conobbe a Venezia la Margherita
Gaudenzi ancor fanciulla, rimasta due anni addietro orfana del padre,
stato ballerino grottesco e morto d'una contusione per un salto
mortale mal calcolato; e poi anche della madre, perita nell'incendio
del teatro di Sinigallia, la quale, esercitando la professione di
figurante ed essendo stata una bella donna, avea sempre fatto
le parti d'una qualche dea, quando non si trattava nè di agire
nè di danzare; e nelle pantomime che finivano coll'Olimpo
illuminato, costantemente era stata incaricata di sedere in qualità
di Giunone accanto a Giove Tonante. La fanciulletta,
quando rimase orfana, era già tanto innanzi nell'arte, da
eccitare la meraviglia di quelli della professione. Allorchè
Lorenzo Bruni la vide per la prima volta a ballare sulle scene del
teatro di San Moisè, ne fu anch'esso maravigliato, insieme col
pubblico che accorreva da tutte le parti della città per
ammirare quel piccolo portento; tuttavia, rincrescendogli che
anch'ella, come voleva il pessimo gusto di allora, si lasciasse
andare alla danza grottesca, e ricordevole delle lunghe discussioni
tenute a Parigi con Rousseau stesso, sull'origine e sullo scopo del
ballo, nell'occasione che al teatro del Re aveva ballato la celebre
Guzzani; e abborrendo al pari del Ginevrino, quella danza che non può
al bisogno, suggerire movenze e pose e contorni e linee al pittore ed
allo statuario, e non sapendosi contenere nei limiti di una casta
eleganza, si abbandona frenetica e lasciva, a inconditi movimenti, in
cui non si cerca che di superare strane difficoltà;
dispiacendogli dunque tutto ciò, volle conoscere quella
fanciulla, colla quale tanto disse e tanto fece, che senz'esser
ballerino e solamente guidato dal buon gusto e dal bisogno che
sentiva di riformar tutto, la ridusse ad un sistema di danza allora
insolito, ma che pure destò ovunque un insolito entusiasmo;
tanto è vero che v'è un bello assoluto, il quale
trionfa anche ne' più corrotti periodi dell'arte! Basta solo
avere il coraggio di promulgarlo.
Era
dunque stato in gran parte per merito di Lorenzo Bruni, se la
Gaudenzi aveva potuto riuscire un'eccezione gloriosa tra le
danzatrici più celebri del suo tempo. Ma siccome la
fanciulla aveva obbedito, fosse per naturale pieghevolezza, fosse per
un felice istinto, alla volontà di Lorenzo, e questi
compiacevasi del frutto dei proprj consigli; così venne
stringendosi tra di essi una spontanea dimestichezza, che stava però
ne' rapporti di un maestro colla scolara, d'un tutore colla pupilla;
il qual tutore, guidato da una grande onestà naturale, e
sollecitato da quel suo spirito irrequieto e originalissimo che lo
metteva sempre in contraddizione colle opinioni più generali;
volle, aiutando la custodia vigile della zia della fanciulla, far
vedere al mondo come la virtù potesse conservarsi intera anche
in seno a quella professione che, comunemente, era creduta il varco
della perdizione. Suonatore di violino, aveva seguìto così
la fanciulla, da quell'ora in poi, di teatro in teatro, facendole
sempre da padre e da tutore e da maestro. Se non che il padre e il
tutore, man mano che la fanciulla cresceva, e l'adolescenza diventava
giovinezza, sentì in petto qualche cosa che non era più
nè calma di affetto paterno, nè severità di
precettore. Gradatamente insomma e inconsapevolmente s'era innamorato
della fanciulla; ma se non aveva mai voluto confessar ciò
nemmeno a sè stesso, non è possibile che volesse
manifestarlo alla giovinetta Margherita, la quale di qualunque benchè
minimo sospetto non aveva neppur gli elementi in sè stessa,
onde continuò con ingenuità e con obbedienza a non
riguardarlo che come padre e tutore. Se taluno de' nostri lettori è
così mal andato di salute da rifiutarsi a credere ciò
che diciamo, non getteremo nè il tempo nè il fiato per
cercare argomenti a persuaderlo. Non si crede veramente se non ciò
che si sarebbe capaci di fare.
Di
teatro in teatro, eran venuti ambidue la prima volta al Ducale di
Milano, nel 1748, dove erano stati confermati per il carnevale
dell'anno 1750. Godeva il Bruni dei trionfi della sua, diremo dunque,
pupilla; godeva a sentirla lodata dappertutto dell'onesta virtù
onde conservavasi ornata; perchè, anche ne' tempi del più
indulgente galateo morale, e del più rilasciato costume, la
virtù è sempre applaudita e rispettata, al pari del
vero bello artistico che trionfa ognora, pur nel mezzo delle
deviazioni del gusto. Pensi ora adunque il lettore che pugnalata al
cuore di Lorenzo dovette essere la prima voce che gli giunse
all'orecchio del sospettato amore di Margherita con Amorevoli e, più
che dell'amore, della notturna tresca. Per verità che non
prestò fede neppur un istante a quella bugiarda voce, e tanto
più che, quando entrò nel camerino della Margherita a
dirle di che trattavasi, le vide l'innocenza in volto e s'accorse
d'un'ingenuità fin quasi stolta in quel suo ridere
spensierato. Ma che fa l'esistenza delle virtù se nessuno ci
crede?
Lorenzo,
pur mettendo da canto ogni altro affetto, sentiva l'entusiasmo della
vittoria nel poter dire: Cosa mi diventano tante dame superbe
che tutti i giorni cambiano il cicisbeo come la camicia? cosa mi
diventano al confronto di questa povera figliuola di un grottesco e
di una figurante? E una voce sinistra, che in un baleno era
corsa per tutta la città, aveva bastato a distruggere tutto, e
a far succedere parole turpi e scherni inonesti al rispetto di prima!
Perchè ben è vero che gli applausi della sera trascorsa
eran saliti fin al velario per festeggiar la Gaudenzi; ma eran gli
applausi di quella parte di pubblico che avea goduto nello scoprire
che la intemerata colomba, cui bisognava rispettare per forza, era
pur essa iniziata ai misteri d'amore tanto allora in voga.
Cara mia, disse dunque Lorenzo alla Margherita, quando questa,
ridendo, gli domandò se stava bene di salute; voi ridete, ma
vogliatemi credere che non c'è da ridere.
La
Margherita si fece allora un po' seria, e soggiunse :
Caro Lorenzo, non vi comprendo; in fin de' conti la verità è
una sola... e quando avrà parlato, perché so parlar
alto anch'io, vedete, quand'è necessario, ogni sospetto sarà
dileguato.
Cioè volete dire che non avrete più citazioni in
Pretorio, e nessuno potrà insultarvi impunemente, se non vorrà
essere passato da una parte all'altra, perchè di scherma io so
giocar tanto bene, quanto suonare un a-solo di violino. Ma
tutto ciò non vuol dir nulla... e fino a tanto che non esca il
nome di colei per la quale il tenore dev'essere venuto in queste
vicinanze, a nessuno potrà esser tolto dalla testa che voi
eravate l'oggetto delle sue visite notturne.
Ma perchè io e non altre! Domandate a Zampino, il quale
stamattina è venuto per le solite cose del teatro, quante
donne furono chiamate a comparire... N'è vero, zia?
È vero, disse questa, ma la compagnia non vi fa molto onore...
Una è la moglie d'un gabelliere che sta lì
dirimpetto... L'altra sta lassù al quarto piano e si diletta
di far la cucitrice. Belle e giovani tanto l'una che l'altra, ma
della loro onestà non mi parlate. Chiedetene qualcosa alla
Gilda che ci serve, e sentirete... Ben v'è la moglie d'un
pittore che gode buonissimo nome, e la bella figliuola d'un
mercante... della quale non c'è chi dica male... Ma in
conclusione, voi vedete, signor Lorenzo...!
Ma! esclamò egli strabuzzando gli occhi; e stette un
momento silenzioso, poi soggiunse: In Pretorio v'accompagnerò
io stesso, Margherita, e chiederò io stesso di parlare al
signor giudice. Fate adunque di esser pronta fra un'ora, ch'io sarò
a pigliarvi in carrozza.
L'ora
passò, Lorenzo venne colla carrozza, e la Margherita
accompagnata dalla zia, vi salì tosto. Giunsero tutti e
tre verso mezzodì al Pretorio, dove s'accorsero che una folla
di curiosi stava aspettando nel cortile. Quando la Gaudenzi ascese lo
scalone e corse la voce della sua venuta per tutti gli ufficj del
Pretorio, molti calamaj macchiarono d'inchiostro atti e processi e
libelli, tanta fu la fretta e la furia degli impiegati per giungere
in tempo a vederla. Notaj, auditori, uscieri, scrivani, colla penna
nell'orecchio e i paramanica di bambagina verde, facean capolino
dagli usci e dalle finestre; altri uscivan sul corridoio per dove la
Gaudenzi aveva a passare, fingendo un'incumbenza di premura. Altri le
s'attraversavano al passo per guardarla in faccia ben bene, con gran
dispetto di Lorenzo. Ma questi potè confortarsi quando,
all'annuncio della Gaudenzi, il giudice, ch'era giovane e di maniere
squisite, le mosse incontro, dicendole alquante cose cortesi, e
concedendo sì alla zia di lei come a Lorenzo di assistere
all'esame, e di essere interpellati in proposito.
Le
domande del giudice, le risposte della fanciulla Gaudenzi, le
osservazioni di Lorenzo, le appendici della zia rachitica
costituiscono un dialogo da empire quattro facce di processo verbale,
dialogo che noi abbiam qui, e che per molti rispetti non è
indegno d'una lettura, ma che potrebbe anche provocar gli zitti di
quella parte di pubblico che preferisce la musica veloce di Verdi a
tante altre musiche; onde, senza riportarlo, ci limiteremo a dire che
le sue risultanze furono tali, quali ciascun lettore poteva
aspettarsele. Il tenore Amorevoli, interrogato prima dal giudice sul
fatto della Gaudenzi, aveva parlato e protestato in modo da
impedirgli una soverchia insistenza nell'ordine delle domande da
farsi alla Gaudenzi stessa. E il giudice, quando ebbe praticate tutte
le indagini iniziatrici, come voleva il suo ufficio, accorgendosi che
le cose prendevano una piega ostinata, risolse di non farne altro, e
di passare al criminale il processo così incoato. Ma Lorenzo
non fu pago per nulla di quell'esame, perchè, si apponesse o
no, gli parve che il giudice, il quale aveva lasciato andar qui e là
qualche epigramma e qualche scherzo gentile, non fosse del tutto
persuaso dell'innocenza della Gaudenzi; e ciò ch'è
peggio, allorchè, dopo ricondotta al suo alloggio la
Margherita, egli si gettò ne' pubblici ritrovi della città,
a sentire come generalmente la si discorresse, dovette fremere più
d'una volta alle parole che udì, e più d'una volta fu
per venire a qualche atto violento, onde, se si contenne, fu un
miracolo.
Almanaccando
così mille cose, e pensando al modo di far saltar fuori la
complice, se ne tornò in quel giorno verso il quartiere dove
era la casetta della Gaudenzi, il palazzo del marchese F... e quello
della contessa V... Entrò dai portinaj e nelle botteghe là
presso, interrogò serve e servitori e lacchè e
barbieri, esplorò porte, cancelli e finestre; chiese conto dei
signori padroni del giardino dov'era stato còlto Amorevoli, e
quando sentì a nominare la contessa Clelia, e dire ch'era
giovane e bella, egli che non sapeva nulla nè del suo
carattere austero, nè della sua dottrina astronomica, disse
tosto fra sè: Ma perchè, la si lasciò da
parte costei?... Ma perchè? Nessuno de' cittadini
milanesi, i quali erano compresi della fama di quella donna
intemerata, nemmen per ombra avean potuto fare un sospetto su di
lei... ma Lorenzo, il quale era di fuori, e non era stato a Milano
che due stagioni, e, se conosceva pittori e poeti e accademici, non
conosceva tutta quanta la nobiltà, nel suo sospetto non fu
arrestato neppur da un dubbio; e sdegnato di que' privilegj manifesti
e segreti che si accordavano ai grandi signori, quasi fu per recarsi
dal giudice; ma, pentitosi di quel partito, che poteva aver aspetto
di denuncia, giurò di venirne a capo in altro modo, e quello
che si avvisò di fare e che fece, nessuno se lo potrebbe
imaginare in mille anni...
Ma
e la contessa Clelia?... Ah pur troppo che non ebbe il coraggio di
metter tosto in atto il consiglio di donna Paola Pietra, come
sentiremo poi; e volendo lasciar passare gli ultimi tre giorni di
carnevale, per istornare uno scandalo che, secondo lei, sarebbe
riuscito rumoroso in mezzo alla folla dei teatri, delle feste, delle
mascherate, aveva pensato di aspettare il primo giorno di quaresima
per adempire al dovere... Ma precisamente quegli ultimi giorni di
carnevale le dovevano esser fatali.
III
Lasciando
per ora da un lato l'infelice contessa, che in ventiquattr'ore è
già dimagrata; e dovendo infingere col conte marito, colla
cameriera, col parrucchiere seccatore e venditor di frottole
instancabile, colla sarta, che in quel dì le portò fin
quattro vestiti, l'uno più bello dell'altro, per farne sfoggio
in teatro e alle feste, infingersi con tutti quanti l'avvicinavano, i
quali erano invasi dall'allegria del secolo e dalla pazzia della
stagione; quasi era per morire dello sforzo violento che faceva onde
chiudersi in petto la passione. Ci conviene inoltre lasciare
nella solitudine del suo camerino in Pretorio il tenore Amorevoli,
pentito e strapentito d'essersi impigliato in quel terribile vischio;
e che, a dar sfogo al dispetto che lo rodeva e a passare il tempo
della giornata lunghissima, solfeggiava a voce distesa, onde tener la
gola preparata per la sera, e talora cantava alcuna cabaletta o
dell'Artaserse, o della Semiramide riconosciuta, o
dell'Olimpiade, e si concitava nell'esprimere:
Se
cerca, se dice
L'amico
dov'è ......
L'amico
........
E
come se fosse in teatro, quando era alla cadenza, dove azzardava, per
non esser al cospetto del pubblico, i passi e le volate più
audaci, sentiva le voci e gli applausi di un altro pubblico, lo
scarso pubblico inquilino insieme con lui de' locali del Pretorio,
voci maschie e anche voci femminine; ladri di mezzo carattere, e
tagliaborse novizj, e debitori insolventi e donne di Pafo che
s'attaccavano all'inferriata a strillare il loro bravo,
appannato dalla raucedine e dall'accento del vernacolo di Cittadella;
e a cantare anche, come per corrispondergli un complimento, una di
quelle canzoni da orbo, che in que' dì scriveva Pietro Cesare
Larghi:
Imparate,
o peccator,
Con
la stanga del dolor
A
sarà la porta granda
Che
a l'inferno la ve manda.
Amorevoli
taceva, si guardava i calzoni di raso azzurro colle stelle d'argento
e diventava malinconico, indignandosi d'essere stato messo là
con quella gente; chè, pur troppo, se non ci si è
provveduto oggidì, tanto meno a quel tempo s'era pensato ad
un'opportuna segregazione tra le diverse qualità d'imputati, e
tra gl'imputati e i rei. Ci convien dunque lasciare alle sue
pene il tenore Amorevoli. E dobbiam privarci della compagnia
edificante di donna Paola Pietra, e tutto ciò per seguire il
signor Lorenzo Bruni in san Vicenzino, nella casa che, movendo dalla
contrada de' Meravigli, è anche oggi la quarta a dritta.
In
quella casa, a piano terreno, verso il giardino, teneva il suo studio
il giovane Francesco Londonio, e più forse che studio di
pittura, vi teneva accademia sempre aperta di allegria, e fabbrica
operosissima di scherzi e matterìe; e ritrovo, a una cert'ora,
di tutti i pittori e scultori ottimi, buoni e grami che allora
possedeva Milano; e in que' giorni di carnevale, quartier generale
della compagnia dei Foghetti, di cui esso era il
capitano.
Lorenzo,
che già altre volte erasi recato a quello studio, vi si
diresse difilato; e indugiatosi un momento all'ingresso, prima di
bussare, sentiva il suono d'una voce che parlava, la quale veniva
susseguita, di tratto in tratto, da una risata unissona di più
persone. E codesta risata pareva come un intercalare obbligato alle
pause che faceva il parlatore. Quando tra una mano di persone v'è
una grande allegria e una gran vena di motteggio, riesce penoso, non
si sa bene perchè, il farsi tra di loro non chiamato: e
Lorenzo, che pur conosceva que' compagnoni, stette un momento in
forse per tornare indietro, ma si fece poi animo e bussò
forte. Avanti, avanti, avanti, gridarono più
voci ad una; ed egli entrò...
Oh!! benvenuto, signor Lorenzo...
Benvenuto.
Benvenuto... signor capitano degli archetti; le presento qui, nel
nostro pittore Gazzetta, un buon suonatore di violino, il quale
giacchè le fabbricerie lo lasciano senza lavoro, vorrebbe
ritrovarsi in orchestra.
Chi
parlava era il giovane Londonio, la cui figura dovendo comparire a
più riprese, in mezzo alle tante che popoleranno il nostro
quadro centenario, è bene si sappia quello che ancora non è
stampato in nessun libro, come cioè, nato in Milano nel 1723
(e fin qui ci arriva anche il Ticozzi nel suo Dizionario de'
pittori), fosse discendente di una famiglia originaria spagnuola, che
si chiamava Londognos, feudataria di Ormilìa, un ramo
della quale s'era stabilito in Lombardia al tempo della dominazione
spagnuola, quando per la prima volta vi capitò un cadetto, in
qualità di generale delle truppe spagnuole. Questo Francesco
Londonio, quantunque non avesse che 22 anni quando ricevette la
visita del signor Lorenzo Bruni, era già noto come pittore di
soggetti campestri; ma ciò che allora ne costituiva davvero la
rinomanza nelle società alte e basse, era la sua amenissima
giovialità, per la quale avrebbe sparsa l'allegria anche tra
le file di un mortorio; pensatore di bellissimi trovati, a chi ne
faceva, a chi ne prometteva, onde se egli era un amico carissimo,
qualche volta riusciva pure un amico molesto; ma quanto era temuto,
altrettanto era cercato, e si moriva di noja senza di lui, in tutti
quei convegni dov'era solito praticare.
In
quel momento stava adunata nel suo studio quasi tutta la
confraternita dei pittori milanesi.
V'era
il maestro di lui, Ferdinando Porta, figlio di Andrea, scolaro del
Cerano e del Legnanino; v'era il giovane pittor De Giorgi, allievo
del pittor Del Cairo; v'erano gli esordienti Bergami e Pagani,
scolari del pittor Frasa e del Lucini; v'era Angelo Mariani e Zucchi
Carl'Antonio già provetti, scolari l'uno del Fiori, l'altro
del Sant'Agostino, scrittore di cose d'arte, e che s'era dimezzato
tra il Procaccini e il Crespi Daniele. V'erano Lucini e Fabbrica e
Clavelli e Zaccaria Rossi e il Crivellone, pittore di trote e di
aragoste. V'era il fanciullo Biondi, che attendeva allora a macinar
colori: nomi la maggior parte di pittori ignoti a tutti, sin anco ai
Milanesi, e che non sono registrati in nessuna storia dell'arte; e
de' quali taluno sarebbe forse celebre se fosse nato a Bologna, a
Venezia, a Firenze; tanto questa nostra città in talune cose è
trascuratissima, fino alla barbarie; così che quei che volesse
far la storia delle arti milanesi, potrebbe bene invecchiar nelle
ricerche, pur colla pazienza straordinaria di Muratori, ma non
venirne a capo mai di farla completa.
Ma,
che noja! Ci par di sentir a dire; ma che strana idea di regalarci
qui una pagina lacera dell'elenco della confraternita de' pittori del
1750? Ma perchè farci camminare fino a san Vicenzino,
in traccia di persone nuove, mentre vorremmo stare colle conosciute?
In quanto alla noja, rispondiamo dunque, che, dal momento che la si
prova, è inutile dire che c'è a torto; pure dobbiamo
far notare che bisognava passare per di qui, poichè se al
lettore noi dicessimo che, dall'umile studiolo d'uno dei pittori che
si trovavano là presso il Londonio, e da un disegno grazioso e
da pochi colori stemperati su di una tavolozza, dovrà uscire
un risolvente drammatico più possente di quanti ne uscirono
dal laboratorio chimico di Dumas, il lettore non crederebbe.
Ma dal momento che il signor Lorenzo, che non era uno sciocco nè
un buontempone, pur in quell'affanno in cui versava, erasi recato a
far visita al Londonio, dove sapeva che di solito si riuniva una
congrega di pittori, bisogna bene che ne abbia avuto la sua ragione.
Stiamo dunque attenti a tutte le sue parole, e non perdiamo la
traccia de' suoi passi.
IV
Lorenzo
dunque era tutto preoccupato del suo gran pensiero, il quale aveva
due intenti: quello di far sfolgorare all'aperto l'intatta onestà
della sua Gaudenzi, e quello di tirare in campo una gran dama, di
mettere in pubblico quel che era successo in segreto, di tal maniera
che, nè per protezioni, nè per deferenze, nè per
privilegi nè per sotterfugi, non riuscisse più
possibile di salvare da uno scandalo solenne i due blasoni del casato
lombardo della contessa, e del casato ispano del conte colonnello.
Costretto pertanto a fermarsi là, tra quegli allegri
compagnoni del pittor Londonio, e ridere insieme cogli altri dei
piacevolissimi racconti di lui, si tormentava del tempo che passava
inutilmente, e che era preziosissimo per la natura del suo disegno.
Egli aveva bisogno di trovarsi un momento a solo col Londonio, e, non
volendo dar nell'occhio, gli conveniva aspettare che quella compagnia
si sciogliesse. Buon per lui che il Londonio entrò a dire:
Orsù, amici, a momenti sarà qui a pigliarci il
carrozzone per andare al corso di porta Romana; non v'è tempo
a perdere e bisogna vestire la divisa dei Foghetti, perchè
mi preme la riputazione. Dopo il corso pranzeremo, se vorrete,
tutt'insieme; dopo si andrà all'opera, dopo alla festa in
maschera. Quante faccende in un sol giorno!... domani poi, se non
volete andare alle vostre case per dormire un pajo d'ore... potete
dormir qui tutti da me... perchè domani è un altro
giorno pieno zeppo di faccende... e ci converrà non perderci
di vista...
A dormir qui, va bene, entrò a dir uno, ma non si vorrebbe che
ci trattassi come hai fatto col podestà di Chioggia: perchè
siamo ancora in febbraio.
Che cosa ha fatto al podestà? domandarono allora tutti ad una
voce.
Ma come? non la sapete?
Io no.
Nemmeno io.
Racconta.
Raccontate.
È un fatto molto semplice; fu l'anno scorso, quando ho passato
quegli otto giorni, al carnevale di Venezia... che gli alberghi erano
zeppi al punto, che a trovar un letto era come trovar un tesoro. Io
però ne avevo trovato uno allo Scudo di Francia, sebben mi
costasse un occhio. Ora sentite questa. Voi sapete il dispetto che
provo a trovarmi a tu per tu con una persona non conosciuta;
figuratevi poi quando si viaggia, e si è in una camera da
letto. Ebbene, a una cert'ora, quando l'albergo era
tutt'occupato dal primo all'ultimo piano, dalla prima all'ultima
stanza, viene da me l'oste. Forse perchè io era il più
giovane di quanti eran là e gli avevo ciera da buon figliuolo,
e mi dice: Signore, è arrivato il podestà di
Chioggia, e vuole alloggio.
Buon pro gli faccia, gli dico, doveva arrivar prima il podestà.
Cerchi una gondola e dorma la sua notte sotto il felze.
Va bene, ma io gli ho promesso... insisteva l'oste, e in quella entra
il signor podestà in persona, e tanto fa e tanto insiste, che
io non posso dire di no. Voi sapete che, per quanta ira uno possa
avere in petto, in certi momenti non si trova il modo di scacciare un
seccatore. Ma quando fummo soli, non potendo resistere all'idea di
dover dormir con un altro, con un podestà... e tondo e grasso
qual era colui di Chioggia... non so se voi lo conosciate (diceva
rivolto al Bruni), pensava al modo di disfarmene, perchè aveva
anche un gran sonno, per aver ballato tutta la notte al ridotto di
san Moisé, e così nel pensare, guardando il soffietto
che pendeva da lato del camino, mi viene un'idea, e tosto,
rivolgendomi all'amico, sì gli dico: Signor podestà?
Cosa mi comanda?
Ho a farle mille scuse anticipate.
Di che?
Di questo, che vado soggetto a un grave incomodo.
Ed è?
Una febbre acuta, la quale mi ha messo in fin di morte sin da
fanciullo, mi lasciò un vizio, un gran vizio.
Ebbene?
Vo soggetto a quelli che si chiamano i venti freddi.
Una malattia nuova.
Nuovissima, e chi ha la disgrazia di dormire con me ci soffre, ma
assai. Ora che cosa avreste fatto voi se foste stati il
podestà?
Darvi la buona notte, e andar via.
Così pare almeno; ma il podestà fu di un altro parere,
e metà credulo e metà no, entrò per il primo in
letto. Allora io non feci altro che seguirlo, e, così mezzo
vestito, mi cacciai sotto coltre, armato di soffietto, e spensi il
lume. Lasciai che il podestà dormisse della grossa, e poi misi
in movimento il mantice... Tirava un vento, cari miei, che il letto
pareva il Cenisio, onde il podestà si risvegliò
spaventato, e non potè trattenersi dal dire dopo qualche
momento:
Ah! è veramente orribile la vostra malattia, signor mio, per
carità, accendete il lume, ch'io vo a gettarmi in laguna,
piuttosto che dormire con voi.
Io
obbedii, accesi il lume. Egli si alzò, non parlò più;
soltanto borbottò tra' denti, ed uscì chiamando l'oste
a tutta voce. Il resto della notte la dormii così assai
placidamente. Or non temete che io voglia oggi estendere a maggiori
proporzioni l'esperimento di Venezia. Voi non siete nè
sconosciuti, nè podestà, nè ostinati, e v'invito
io. Su lesti, dunque, e vestiamoci. La carrozza è qui...
sentite. Poi, voltosi al Bruni: Dovreste venire anche
voi, gli disse. Qui c'è riserva di vesti e maschere per tutti
gli amici che capitano... purchè sien tutti artisti, non
importa se di pennello o di scalpello o di arco o di fiato o di gola
o di rima. Stupisco anzi che non sia venuto oggi il segretario
Larghi, il più caro scrittor di villotte che si conosca; e
bisogna sentir lui stesso a cantarle! ma lo sentiremo alla festa del
teatrino. Risolvetevi dunque. Volete esser Pantalone o Brighella?
Caro mio, nè l'uno nè l'altro, rispose Lorenzo: e còlto
il momento che gli altri attendevano a vestirsi, così gli
disse: Son venuto da voi per un affar di premura.
Cattivo giorno, ma non importa.
Ho bisogno dell'opera di un pittore... ma di tale che sia e valente e
improvvisatore, e conosca l'arte di colorir le maschere ad uso di
Parigi. Ne ho già chiesto altrove, e so che a Milano ve n'è
uno bravissimo.
Siete fortunato... eccolo là... È il pittor Clavelli...
Ma...
E
dicendo questo, il Londonio crollò la testa.
Ma... che cosa?
Ma non sapete che, se l'anno passato tali maschere eran tollerate,
quest'anno sono proibite, dopo il lagrimevole fatto della vedova del
Duca di Choiseul?...
Ma qui non si tratta di far piangere, ma di far ridere, soggiunse il
Bruni.
Fate voi... non so che dire; quel giovine lì vi servirà
bene; d'altra parte, è in così povere acque, che certo
deve aver più paura della bolletta, che delle ordinanze di sua
eccellenza. Or lo chiamo e mettetevi d'accordo. Badate però
ch'io non so nulla.
Fate conto ch'io non v'abbia mai interpellato su di ciò. Per
altro non è e non sarà che uno scherzo.
Il
giovine pittore Clavelli fu chiamato, il Bruni gli parla, il pittore
mise innanzi quella difficoltà che sappiamo; ma sentendo che
si trattava di guadagnar bene, acconsentì, e promise al signor
Bruni che si sarebbe lasciato trovare al caffè del Greco,
mezz'ora prima che incominciasse il teatro.
Così
stretto il contratto col signor Lorenzo, finì il pittore di
adattarsi i due gobbi di Pulcinella, chè tale era la sua
maschera, e si mise in ischiera cogli altri, i quali vestivano
ciascuno il costume d'uno dei Zanni, allora tanto in voga, i quali
eran come i deputati rappresentanti delle principali città
d'Italia. Il pittore Londonio, nella sua qualità pur di
confratello onorario della badia de' facchini e nella sua
qualità di pittore campestre, vestiva la maschera di Beltrame
di Gaggiano, maschera che di quel tempo sussisteva ancora, quantunque
avesse dovuto cedere il primo posto a quella del Meneghino, inventata
già dal Maggi, lo splendor di Milano, come lo
aveva chiamato il Redi, e che fu l'Allighieri del dialetto milanese.
Così tutti discesero e salirono, meno il Bruni, nel carrozzone
carico di munizione per la battaglia del giovedì grasso:
fiori, confetti, coriandoli, melaranci, pomi, ova; e di buon trotto
si gettarono nel fitto del combattimento, sul corso di porta Romana,
a percuotere e a rimaner percossi dalla pioggia de' pomi, a
imbrattare e a rimaner imbrattati dalle ova, che si rompevan sulle
parrucche incipriate a farvi strani empiastri e lorde miscele di
tuorli e di cipria.
Ora,
senza perdere il tempo a descrivere il corso del giovedì
grasso dell'anno 1750, perchè noi siamo nemicissimi delle
descrizioni, segnatamente se siano state fatte da cento altri
scrittori; ci limiteremo a dire, a coloro che volessero pur farsene
un'idea, che a gettare tutti i colori dell'iride, con tutte le loro
infinite gradazioni, su quelle ottanta o centomila figure allora
stivate lungo il corso di porta Romana, e a raddoppiare il frastuono,
come se quelle centomila persone avessero due gole enfiate per
ciascuna; e a lasciare alle carrozze, ai padovanelli, ai calessi, ai
birbini, ai carri convertiti in forma di barche e di vascelli il
permesso di muoversi a loro beneplacito e di produrre per conseguenza
un disordine molto simile a quello di un corpo di truppe che sia
piuttosto in fuga che in ritirata; e a portare a un tre quarti
buonamente della popolazione colà affollata il numero delle
maschere d'ogni forma, d'ogni foggia, di ogni paese e d'ogni colore;
a far insomma colla mente tutte queste operazioni, ne può
uscire, chiudendo gli occhi e lavorando d'imaginazione, lo spettacolo
d'un corso carnevalesco di quel tempo. Ma noi, che non abbiam voglia
di attendere a ciò, lasceremo passar l'ora del corso, per
recarci invece in piazza del Duomo al caffè del Greco, dove il
pittor Clavelli a un'ora di notte stava aspettando il sig. Lorenzo
Bruni, che venne di fatto a pigliarlo puntualmente, e a condurlo al
teatro Ducale.
Vi basterà osservar dalla platea, disse il Bruni al pittore,
nel far la via, o sarà necessario salire sul palco scenico?
Farà bisogno della platea e del palco scenico, perchè,
a condurre la cosa in modo che l'arte si confonda colla realtà,
conviene pigliar tutte le misure.
Andrete dunque in platea e sul palco scenico. Conoscete i fratelli
Galliari, quelli che dipingon le scene?
Li conosco benissimo; ma se non mi vedranno, vi sarò
obbligatissimo.
Perchè?
Perchè è bene che la cosa stia fra voi e me; so quel
che dico... l'ordinanza parla chiaro; e fu gran tracollo per me,
vedete, quella benedetta ordinanza! fate conto che ne' carnevali
passati io arrivassi a guadagnar sino a cento zecchini veneti, tanto
che avevo lasciato da una parte la pittura di chiesa, che è la
gran pittura, per dir la verità; ma col pane non si scherza...
e questi curati di campagna credono di sciupare il pane dei poveri a
dar da mangiare a' pittori, segnatamente se son giovani e non han
nome.
Abbiate coraggio, amico, e se mi servirete bene, farete poi il
ritratto intero della ballerina Gaudenzi.
Oh che fortuna sarebbe! sento che è una gran bellezza! una
bellezza famosa! Se il ritratto mi riuscisse, tutte le dame di Milano
verrebbero da me... sono le occasioni che fanno l'uomo. Cosa credete
voi... che tanti pittori famosi sarebbero riusciti tali, se non
avessero avuto le occasioni? Che, per esempio, il cavaliere Del
Cairo, che fu il maestro del mio maestro, fosse davvero un gran
pittore? Non lo credete; ha avuto il vento in poppa; opere di qui,
ritratti di là, zecchini a staja, e poi l'ordine di san
Maurizio. Ma, per colpa sua e di qualch'altro, s'imbastardò la
maniera lombarda cogli innesti della scuola di Bologna; e poi col
pigliare qualcosa da Roma, qualcosa da Firenze, qualche cosa da
Venezia, ne uscì una mescolanza tale, che non siam più
nè di qui nè di là... Ma quando un paese ha
avuto la fortuna di possedere un Leonardo, e poi un Luino, e poi
quello spavento del Crespi... il Crespi del San Brunone... Non so se
voi abbiate visto quel lavoro a fresco? Quello è un a
fresco!... Domando io dunque, se c'era bisogno di andar altrove a far
gli accattoni? Ma la moda fa tutto; ed io che parlo, son guasto più
degli altri, e col far quello per cui voi m'avete chiamato, mi son
guasto la mano, e poi mi son messo al punto di guastarmi anche la
saccoccia. Se, per esempio, domani taluno mi desse a dipingere una
Deposizione, farei le tre Marie col guardinfante. Così vanno
le cose.
In
questa entrarono nel teatro già affollato, e nel punto che già
cominciavan le dame a sedere ai loro posti nei palchetti.
Vedo che in platea non c'è luogo, disse il Bruni, troveremo
dunque un posto comodo in orchestra, dove senza dar nell'occhio,
potrete gittar giù sulla carta qualche segno. Quando poi vi
bisognerà d'andar tra le quinte, me lo direte.
Lorenzo
Bruni si recò allora col pittor Clavelli in orchestra; messo a
sedere l'amico, si mise anch'esso al posto, che i suonatori erano già
tutti sulle loro sedie, e già attendevano ad accordar
gl'istrumenti. Il teatro era zeppo, già faceva quel mezzo
silenzio che precede l'alzata del sipario; tutti i palchetti erano
occupati; Lorenzo girò gli occhi lungo le file, e il caso
volle che fosse, nel momento che il conte V... e la contessa si
ponevano a sedere l'uno rimpetto all'altra. Allora sul volto di
questa, egli, dal suo basso scranno, tenne fisso uno sguardo lungo e
indagatore.
Alla
bellezza abituale della contessa Clelia, di cui nessuno erasi prima
infervorato, per l'eccesso della sua medesima perfezione, si era
sovrapposta una velatura leggiera nel colore, e talune indescrivibili
impressioni nella superficie, le quali, togliendole quella, quasi
diremo, pompa orgogliosa della beltà nudrita dalla salute e
dalla calma, vi aveva soffuse le traccie del patimento e di un certo
languore di stanchezza, languore prezioso (per la poesia,
intendiamoci bene, non per la realtà), il quale essendo
appunto la prima volta che compariva su quella faccia, vi produceva
un contrasto ineffabile e la rendeva oltre ogni dire attraente a
tutti gli sguardi. Tanto è ciò vero che, quasi a un
punto stesso, da tutti coloro che la osservarono quand'ella girò
gli occhi intorno, si fecero queste medesime osservazioni a di lei
riguardo.
Ma come s'è acconciata stasera la contessa V...?
Davvero che mi pare un'altra. Se si sapesse ch'ella ha una sorella,
si direbbe ch'è la sorella a punto. È però
sempre bella. Per me, dirò anzi, che è più
bella del solito. Ah, è un gran peccato che l'abbiano
inzuppata nella scienza, e fatta così indurire come quel legno
che diventa marmo stando nell'acqua!
Ma
se molti in quel punto la guardavano fuggitivamente, Lorenzo teneva
gli occhi sempre fissi in lei; e da quel palchetto non li abbassò
che per volgersi e girarli torvamente sulla platea, così
parlando fra sè: Balordi che siete!... si trova un bel
giovane in un giardino, di quelli che s'innamorano per professione,
lo sorprendono al piè del palazzo e della stanza dove sta una
donna che ha quella faccia lì... e si va a turbar la pace di
cinque o sei case per trovar la donna de' suoi sospiri... Balordi voi
e balordo il giudice, quando non vi sia di peggio... perchè
pare impossibile... una bellezza di quella sorte... che... in
conclusione ... qual è la più bella di tutte queste
duchesse e contesse e marchese e marchesine che stan qui?... E
nessuno è arrivato a pensare che ai tenori, segnatamente
quando toccan di quelle grosse paghe che ognun sa, piacciono i buoni
bocconi, e, se furono cullati sul letto di paglia, aspirano ai
moschetti di drappo. Ma pazienza fossero tutte Vestali le donne di
Milano, tutte Lucrezie, tutte Cornelie... Ma no... perchè,
anche senza far torto a questa città... si sa ch'è la
malattia del secolo, che più si sale e più si pecca...
che si è sempre fatto così... Ah sciocchi e balordi...
c'è da scavar vicino... ed essi, no... voglion correr mezzo
miglio per le ortaglie, e far fatica a trovar l'accesso alla casetta
di quella povera ragazza... che è pura come l'acqua... E tutti
a intestarsi che debba davvero essere la Gaudenzi... come se non ci
fosse stato tutto il tempo e tutto il comodo, supposta una simpatia,
d'intendersela sul palco scenico!... Ma non piace al signor pubblico
ciò che è naturale e semplice... siam sempre alla
storia del teatro... bisognava che il tenore Amorevoli, per essere un
caldo amante, saltasse muri, saltasse siepi, si lacerasse tra i pruni
la seta dei gheroni, corresse pericolo di rompersi l'osso del collo
salendo per qualche scala di seta... allora va bene... allora il
signor pubblico è contento...
E
così avrebbe seguito il corso de' suoi pensieri chi sa sin
dove, se un gran colpo d'archetto del primo violino non gli avesse
tagliati i pensieri in due. Gettò allora gli occhi sulla
musica, mise il violino alla ganascia, e stette pronto.
Il
sipario si alzò, e avvenne tutto quello che era avvenuto la
notte addietro. Uscì il tenore Amorevoli tra un subisso
d'applausi, i quali poco ormai lo confortavano, perchè, se lo
si lasciava andar in teatro, v'era accompagnato in cocchio dal
tenente e dal guardiano del Pretorio, che stavan con lui in camerino
perchè non parlasse con nessuno; uscivan con lui, e lo
accompagnavano all'orlo del palco scenico e lo aspettavan tra le
quinte. Queste cose si sapevano dal pubblico, che le disapprovava,
quantunque a torto. E venne l'ora del ballo, e il momento in cui
usciva la Gaudenzi divina.
Ma
che è questo? che novità? che segreto? Cos'è
successo?... Ah! noi non sappiam cosa dire, ma il fatto è così
precisamente, lettori miei. La Gaudenzi venne accolta da un bisbiglio
ostile, intercalato da una dozzina di fischi portentosi, indarno
respinti da pochi battimani, che si ritirano tosto, quasi vergognosi
d'essersi compromessi.
Da
che dunque poteva dipendere questo inaspettato cambiamento delle
teste del pubblico? Da un fatto assai semplice: da ciò che,
essendosi egli ostinato nel credere agli amori della Gaudenzi con
Amorevoli, e avendo sperato, quando sentì ch'essa era stata
citata a comparire in Pretorio, volesse confessare ciò che
generosamente e cavallerescamente il tenore aveva taciuto; gli venne
un fiero dispetto di quell'aspettazione delusa, e più ancora
della supposta ipocrisia della fanciulla, che si pensò non
avesse voluto corrispondere alla delicatezza dell'amante, per
continuare a godere in faccia al mondo di quella gran fama d'onestà,
usurpata a troppo buon mercato; la quale onestà, in quella
universale rilassatezza del costume, era così eccezionale e
strana, segnatamente se la si applicava al teatro, che se molti avean
prima potuto apprezzarla, altri l'avean sopportata di mal animo, come
un'ostentazione; e questi altri, i quali s'eran compiaciuti della
scoperta che la Gaudenzi fosse pur essa infine una donna da teatro
come tutte le altre, si rivoltarono senza ritegno contro al preteso
sforzo che, secondo essi, ella avea fatto per proseguire ad ingannare
il mondo. Talvolta un'idea, un'opinione, una credenza s'impadronisce
di un'intera massa di gente in un modo irresistibile. E gli uomini di
buon senso e di spirito equo, che volendo esaminare prima di
condannare, azzardano qualche difesa e qualche osservazione, sono
quelli precisamente che danno le mosse al temporale.
Cane d'un pubblico, scrisse il conte Rostopchin nel
proprio epitafio, in attestato del suo profondo disprezzo
all'opinione pubblica; e Cane d'un pubblico, disse Lorenzo fra
sè e sè fremendo, quando da un collega d'orchestra
sentì la spiegazione di quell'improvviso malumore della
platea; ma ciò che più di tutto gli fece salire il
sangue alla testa, e lo raffermò nel suo proposito di
vendetta, fu l'aver visto lo stesso signor conte V... a degnarsi di
uscire dalla sua orgogliosa gravità per zittire anch'esso.
Anche tu, pensò tra sè, anche tu, bufalo bardato di
Catalogna! ma non sai quel che ti attende? E quando calò il
sipario, tutto convulso si avvicinò al Clavelli, per
chiedergli se gli occorreva d'andar sulla scena.
Ho visto bene, e già ho qui il profilo che non ne scatta un
pelo, tanto che in un bisogno potrebbe bastare. Ma un'occhiata
attenta e ben dappresso e tra le quinte gli farà nascere il
gemello...
E si arriverà in tempo?
Altro che in tempo! abbiamo due giorni.
Quando fosse pronto per sabbato a mezzanotte, è anche troppo.
Io vi avrò servito per mezzodì, e Lorenzo
accompagnò il pittore Clavelli sul palco scenico, collocandolo
presso una quinta; e, prima di discendere in orchestra, andò
nel camerino della Gaudenzi, la quale piangeva dirottamente.
Il pubblico di Milano, esclamò allora Lorenzo, scoppiando
dall'ira e dalla commozione, potrà versare a' tuoi
piedi tutto l'oro che costa il suo Duomo... ma faccia conto d'averti
veduta per l'ultima volta. Del rimanente aspetto sabbato...
V
Ad
un savio, non ci rammenta più nè quando nè dove,
fu domandato: quale può essere la cosa più fatta per
addensare la tristezza nel cuore di un uomo sentimentalmente
intellettuale? Forse la vista di un campo santo, ha egli
risposto, nelle ore notturne, con cielo profondo, e luna pallida e
stelle tremule e fuochi lambenti e strigi volanti? No. Forse
la cima inaccessa delle Alpi, dove il cacciatore rimane percosso dal
mortale solengo? O in una campagna abbandonata e brulla durante il
bigio novembre, la vista di uno stagno, sull'opache acque del quale
incumba immobile, da un ramo che vi peschi, un decrepito airone? O la
solitudine infinita del mare ghiacciato, dove Alfieri, poeta e
viaggiatore, potè scoprire com'è tremendo il silenzio
quando sta nel suo regno desolato? No. Forse una camera
anatomica, dove il coltello dell'investigatore chirurgo sprigioni i
gas più letali e più putridi da un cadavere umano? No.
Che luogo dunque? Una festa da ballo.
Così rispose quel savio, con incredulo stupore di tutti; ma
per quanto potesse essere uno strano pensatore, noi dividiamo
perfettamente la sua opinione. Se fosse possibile scrivere un
compendio della storia dei dolori, dei disastri, delle tragedie,
degli odj, delle vendette, dei delitti di cui il primo filo, più
o meno avvertitamente, fu gettato nel rigurgito abbagliante della
luce notturna, nel vortice fracassoso delle danze, nella polvere
sollevata, nella gioja, nell'orgia, negli scherzi vellicanti, nel
motteggio malizioso, nell'epigramma ambidestro, nella schiuma dello
sciampagna, nell'allegria saltante, nelle grida incondite,
nell'ebbrezza, nella stanchezza, nella dormiveglia di una festa da
ballo in maschera; quel compendio sarebbe più voluminoso delle
più voluminose enciclopedie condensatrici dell'umana sapienza.
Chi non vuol credere, non s'incomodi; ma la nostra opinione è
questa.
Quante
volte dalla bocca vermiglia di una faccia di cera uscì la
folgore muta di una parola sola, ma che, sola, bastò a
scomporre per sempre la felicità di due vite; che potè
esaltare in un marito il cieco furore d'una gelosia omicida; e
persuadere un troppo credulo fidanzato a respingere quella che
indarno fu insidiata da qualche turpe amatore. Quante volte
dell'effervescenza del senso, protetto dalla maschera e liberato per
lei dal vigile pudore, Mefistofele approfittò per gettar la
trama d'un futuro infanticidio! Quante volte una mendace accusa fu
portata in alto dalla maschera, a cui nulla è inaccesso, per
far percuotere un innocente odiato! e l'iniquità, resa
inoffensiva dalla viltà nativa, diventò di colpo e
audace e micidiale, celandosi dietro un volto di cera! Quante volte
l'effimera virtù si disciolse tutta in sudore al contatto di
quel volto stesso... e la ferma virtù vacillò... e
cadde a un tratto chi avea potuto resistere a lungo. Per dio la
maschera ci fa spavento! sicchè riputiamo che sarebbe un
bel passo della civiltà se scomparisse per sempre dalla faccia
degli uomini; e tanto più che è già una maschera
la faccia naturale. E dopo di ciò una festa da ballo è
luogo di mestizia anche senza i volti finti! Quante infelici
passioni vi s'infiammano, quante felici illusioni scompajono; quanta
gara funesta di perfide vanità; quanti gentili tessuti
affranti dalla danza frenetica! Chi ha assistito coll'occhio
investigatore e colla riflessione a quel punto in cui la prima luce
del sole entra a mescolarsi in una gran sala colla fiamma decrepita
dei doppieri consunti, e un raggio vivo di quella luce va a
percuotere le faccie di un gruppo di giovinette che, vaghe, poche ore
prima, delle più fresche rose della salute e della gioja,
nell'abbattimento sorgiunto, nella stanchezza, nel repentino
avvizzire, nella pupilla fuggita, nel livido pallore, lasciano già
indovinare il processo con cui la dissoluzione s'impadronirà
col tempo dei loro corpi, e dietro a quella che è quasi larva
di gioventù e di bellezza, lasciano travedere con raccapriccio
la futura vecchia e il cadavere futuro: ci saprà dire in
confidenza, se si può raccogliere allegria da una festa da
ballo! Ma abbandoniamo le inutili digressioni, e facciamoci con chi
deve recarsi alla festa da ballo in maschera del sabbato grasso.
Pochi
minuti prima della mezzanotte di quel sabbato, ossia circa
quarant'otto ore dopo che la dea Gaudenzi venne fischiata dal
pubblico, lasciatosi trascinare da quella infesta precipitazione di
giudizj che ha sul collo tante vittime; Lorenzo Bruni, un po' colle
dolci parole, un po' colla finta collera, un po' colla vera, stava
distogliendo da un ostinato proposito la Gaudenzi, che, abbigliata
con tutto lo sfarzo di una regina, nel punto che stava per salire in
carrozza alla festa del teatro Ducale, d'improvviso, come una puledra
che adombri, erasi fermata, e, risalendo la scala, avea cercata la
sua stanza, giurando che sarebbe morta, piuttosto che mostrar la
propria faccia a coloro che aveano potuto insultarla senza ragione.
Avvezza
fin dalla prima infanzia alle carezze de' genitori, alle gentilezze
di tutti; e, fatta adulta, alle lodi, all'ammirazione, agli applausi,
alle adulazioni, ai trionfi; quel primo insulto la trapassò di
una profonda ferita, e in modo che la vescichetta del veleno, ci si
permetta questa espressione, del veleno onde la natura non manca mai
di provvedere anche la più soave e mite creatura, s'era
dischiusa con uno squarcio repentino, tanto che lo avea schizzato con
veemenza d'intorno a sè, al punto da mettere nella più
seria costernazione la vigile zia e Lorenzo. All'invito ch'egli le
avea fatto il giorno prima di recarsi all'ultima festa da ballo in
maschera, ella aveagli risposto con isdegnosa ironia; alle dolci
persuasioni opponendo una fierezza fin quasi selvaggia, di cui ella
sino a quel punto non avea sospettato neppure la possibilità,
e che aveva dato da pensare all'esperimentato Bruni. Bene, a poco a
poco, s'era venuta placando, e piangendo e chiedendo perdono con
carezzevoli blandizie, avea promesso di far il suo desiderio e s'era
lasciata ornare dalla sollecita zia di fiori, di perle, di brillanti;
ma la vescica del veleno le si riaprì, come abbiam veduto, nel
punto di salire in carrozza.
Senti, Margherita, hai tu fiducia in me? le diceva Lorenzo.
Non mi fido più di nessuno; gli uomini son come i gatti; oggi
leccano, domani graffiano...
Ma puoi tu dire ch'io t'abbia mai fatto un torto...
Chi v'ha detto questo? rispose acremente la Gaudenzi. Voglio dire
che... ma qui diede in uno scoppio di pianto. Il pensiero
dell'insulto ricevuto, riassalendola, non le concedeva pace.
Dammi retta, Margherita; se ciò che è avvenuto ti
affanna tanto, e n'hai troppe ragioni, l'unico tuo desiderio deve
esser quello di confonder tutti quanti, dando modo alla verità
di mostrarsi intera; ed è ciò appunto a cui ho
pensato.... Tu sai che non t'ho mai consigliato cosa che non dovesse
portare il tuo bene... Potrei dunque eccitarti a venire stanotte in
teatro, se non fossi certo che all'alba del domani, ne uscirai
vendicata da quegli stessi che ti hanno offesa?...
Ma se è vero quel che mi dite... perchè dunque mi fate
mistero del modo?...
Il perchè lo saprai... ed io pretendo d'aver diritto alla tua
fiducia... Suvvia, alzati, e andiamo.
Suvvia, soggiungeva la zia, torna buona come prima, e obbedisci chi
vuole il tuo bene...
La
Gaudenzi non rispose, si alzò, mosse lentamente verso l'uscio,
e Lorenzo la seguì.
Andiamo, disse il Bruni, a pigliare il padre della prima donna, che
s'è incaricato di farti il bracciere alla festa; e
partirono.
Ma
intanto che Lorenzo Bruni e la Gaudenzi salivano in carrozza, dopo
un'ora di contrasto, in casa V..., quasi che da un medesimo filo
dipendessero i successivi movimenti di due congegni, continuava
ancora un contrasto incominciato dopo. La contessa Clelia, la
quale mille volte s'era pentita di non aver tosto messo in atto il
consiglio di donna Paola Pietra, e alle fischiate onde si volle
punire la Gaudenzi aveva provato un cruccio, un affanno,
un'inquietudine particolare; e però non desiderava altro,
fuorchè spuntasse la prima domenica di quaresima per recarsi
in Pretorio, o per iscrivere al giudice, contenta di affrontare
affanni peggiori ma di tagliare quel nodo una volta per sempre e
finirla; sazia della festa del giovedì grasso e d'un pranzo
incomodo di sessanta coperti e d'un'accademia del venerdì e
del trovarsi sempre in mezzo a tanti uomini e donne, in ciascuno de'
quali e delle quali ella vedeva i suoi denigratori spietati, quando
la gran notizia fosse scoppiata in piazza; e affranta per di più
da un tedio convulso che la faceva stare di malissima voglia,
aveva risoluto di non intervenire altrimenti in quella notte alla
festa da ballo in maschera del teatro Ducale. Ma non avesse mai fatto
una simile proposta al conte marito! La contessa, nelle più
comuni circostanze della vita, poteva in casa far tutto quello che
voleva, lo abbiamo già detto; ma in certe occasioni speciali,
guai ad omettere una pratica, una consuetudine, un cerimoniale.
Allora il conte, rispettosamente ammiratore della contessa, diventava
il suo despota e il suo tiranno; e per dare, a modo d'esempio, il
permesso alla moglie di non intervenire all'ultima festa del
carnevale, dove tra le dame più cospicue si compiva l'ultima e
più fiera battaglia di eleganza e di ricchezza, bisognava che
la moglie fosse stata assalita, per lo meno, da una encefalite
fulminante. Il conte era della famiglia di quel tale che, piuttosto
che infrangere un cerimoniale, volle morire asfissiato da un
braciere.
Fatto
adunque il viso più severo che per lui fosse possibile
alla moglie, e pronunciate quelle parole più irrevocabilmente
di ferro che per lui si potevano, passò nella sala dov'era la
madre della contessa, una sorella e un fratello; e tutto aspro:
Donna Gertrude (disse alla madre), la si compiaccia di recarsi un
istante da sua figlia, la quale pare che abbia volontà
d'inquietarmi.
Che cosa?... Che è avvenuto? rispose donna Gertrude,
maravigliata di veder così a rovescio il conte, il quale per
consueto, sebbene un po' duramente, le si era sempre dimostrato
cortese; ma in quella entrava la contessa.
Preghi il conte, mamma, a permettermi di non uscire; perchè
sto male, male assai.
Il
colonnello non seppe allora più contenersi, e strepitò,
senza però mancare alla sua gravità.
Ma
in quel punto il fratello di donna Clelia si alzò, e di queto
le disse non so che parole all'orecchio.
A
quelle parole piegaronsi i ginocchi alla contessa, e si gettò
a sedere.
La
madre e la sorella si guardavano... Il conte passeggiava... Il
fratello taceva.
Trascorsi
alcuni momenti, la contessa Clelia si levò e:
Andiamo, disse, non voglio che per sì poco il conte si
affanni.
Una
mezz'ora dopo, preceduta dal conte marito e dalla sorella, la
contessa discendeva lo scalone, rallentando il passo per essere
raggiunta dal fratello. Quando questi le fu vicino:
Chi ti ha detto...? gli disse la contessa.
È un bisbiglio che corre per la città... La tua assenza
avrebbe potuto accrescere i sospetti.... Or pensa a te...
A
piedi dello scalone, tra le torcie di due lacchè, la contessa,
attonita, salì in carrozza; il conte lieto e sorridente
sedette vicino a lei; la portiera si chiuse, e via di trotto. Il
conte fratello e la contessina tennero lor dietro in altra carrozza.
VI
Un'ora
dopo, la festa da ballo al teatrino era già all'apogeo dello
splendore, della folla, della vivacità, del frastuono. Così
in quel tempo, come oggidì, il palco scenico si congiungeva
alla platea per mezzo di una gradinata divisa in tre scompartimenti.
Gl'intervenuti salivano al palco per quello di mezzo, e discendevano
in platea pei due laterali. Essendo il teatro più
piccolo, l'orchestra veniva collocata in una galleria espressamente
eretta sul palco. Del resto, noi uomini della civiltà e
del progresso, che abbiamo fatto le meraviglie quando il Fetonte
degli impresarj introdusse per la prima volta il tappeto verde in
teatro, dobbiamo sapere che, nel 1750, i più ricchi tappeti di
Gand a rosoni variopinti coprivano tutt'intero il pavimento in
occasione delle feste, e tutto era di conformità con quella
ricchezza; dimodochè, se la sala tenevasi, come dicemmo,
alquanto oscura durante lo spettacolo, pel migliore effetto ottico
della scena e delle vedute architettoniche e campestri dei fratelli
Galliari, le fiamme inondavano il teatro di luce quando si convertiva
in festa da ballo. Ciascuna fila de' palchetti era rigirata da trenta
lumiere di cristallo, portanti cadauna sei torcie di cera; dalla
vòlta pendevano otto grandi lumiere pur di cristallo, e
dall'interno de' palchetti usciva un'altra luce ausiliaria. Siccome
poi da ciascun davanzale cadevano sui parapetti ricchissimi arazzi e
ricami d'oro e d'argento, o di broccato tutto d'oro tempestato di
pietre d'ogni colore e di luccicanti berilli, così l'effetto
che allora produceva lo spettacolo interno del teatro Ducale era di
gran lunga superiore a quello d'ogni più sfarzosa festa da
ballo in maschera d'oggidì. E se il lusso e lo splendore era
tanto in platea e sul palco, le sale del ridotto costituivano davvero
un Olimpo di ricchezza e di luce in mezzo a cui sfolgoravano le deità
terrene; chè le dame più cospicue s'addensavano tutte
colà, o adagiate in apposita sala, su scranne dorate, a beare
di loro presenza chi le adocchiava; o in altra sala, aggirantisi in
quelle danze passeggiate che si chiamavano minuetto e
perigordino. Nè è da credere che le sale del
ridotto fossero accessibili soltanto alle dame; tutt'altro. La
divisione che tra ceto e ceto era ancora ben determinata, nel secolo
passato, in tutte le relazioni della vita, e la distanza che tra
patriziato e borghesia e plebe era mantenuta inesorabilmente da cento
prammatiche e distinzioni e cerimonie, scomparivano affatto in quelle
feste del carnevale. Era una continuazione modificata del medio evo,
quando il feudalismo dei padroni e dei servi potè costituire
quasi due nature diverse; quando per una legge di compenso, a Milano,
nelle notti fescennine del famoso san Giovannino alla Paglia, tutti
quanti si mescolavano in istrane dimestichezze. Ma quei giorni di
eguaglianza eccezionale erano in ragione della disuguaglianza legale
e consuetudinaria; tanto che, mitigandosi e trasmutandosi la seconda,
grado grado la prima si limitò, e di svolgimento in
isvolgimento si pervenne al punto che ambedue scomparvero e si
confusero, come vediamo oggidì, in una cosa sola, e tolti gli
argini, le acque si riunirono. Ma non preveniamo i tempi, e non
esponiamo al pubblico intempestivamente il dietro le scene del
nostro libro.
In
mezzo a quell'Olimpo lucente delle più belle dame milanesi
comparve, a una cert'ora, la Gaudenzi accompagnata dal signor
Casserini, il marito della prima donna, quella che faceva la parte di
Semiramide riconosciuta. Ma appena fu vista dalla folla de' cicisbei
curvati in vari atteggiamenti sulle dame sedute, come statue, che
facessero gruppo convenzionale con altre statue, si alzò un
bisbiglio ostile. Lorenzo Bruni, che, tutto coperto dal domino nero e
dalla nera maschera, stava dietro alla pupilla, quando la vide
indietreggiare perplessa, la spinse ad adagiarsi su d'una sedia. La
Gaudenzi obbedì, ed egli si indugiò là un
momento. Seduta tra la contessa Marliani e la contessa Borromeo del
Grillo stava la contessa Clelia. Ferveva un incessante cicalìo
tra la folla incessante. Maschere d'ogni generazione passavano
davanti alle dame per avventar loro motti e scherzi e complimenti.
Il villottista cantava il nome e cognome a ciascuna, e le loro
qualità fisiche e morali in accozzamenti strani di idee e di
rime; di tratto in tratto fermavasi loro dinanzi un arlecchino, un
brighella, un pulcinella, un dottorazzo bolognese, a dir lunghe
filastrocche nel dialetto della città rappresentata dalla loro
maschera. Intanto sentivasi la musica del minuetto, la quale,
con poche variazioni, era quella che introdusse poi Mozart nella
festa da ballo del suo Don Giovanni, e oggidì, con
altre poche variazioni, rifece Verdi nell'introduzione del suo
Rigoletto. Tra quella musica e lo strisciar lento dei
piedi e il ronzìo continuo, s'udiva strillato, con
accompagnamento di chitarra, qualche strambotto d'una maschera
curiosa, che s'intitolava il Tasca e parlava un dialetto
composto, mescuglio di veneziano, milanese e bolognese:
Nol
xè, nol xè pi mondo
De
viver all'antiga,
Chi
no truffa e no intriga
Resta
in fondo.
Tanto
la zente xè destomegae,
Che
pi no l'ha favor la veritae.
Chi
negozia col vero
El
xè fallio de botto;
Se
domanda Zinzero
El
xè merlotto,
Vedo
la lealtae scalza e confusa
Perchè
tutti la loda, e pochi l'usa.
E
altrove gridava Meneghino una filastrocca del Maggi in quel dialetto
che, dopo cent'anni, ha potuto alterarsi tanto:
.
. . . . . . . . . . .
.
. . . . . . . . . . .
.
. . . . . . . . . . .
Ferr
e strasc, cardeghee,
Rivendiru,
postee,
Conch,
e tajee e messò,
Garzonscii
de sartô,
Canaja
che vivii
De
menuder guadagn,
E
criee per i strad cont i cavagn,
Cioviru
de san Sater,
Tucc
compagnon de better,
El
vost car Meneghin
El
va in lontan paes;
Se
pu no s'vedaremm, a revedes.
.
. . . . . . . . . . .
Mortadell
di tri Scagn,
Busecca
de la Gubba,
Passerit
di trii Merla,
Moscatel
di trii Re,
Montarobbi
del Gall,
Malvasia
d'offelee,
Tutt
cose de tesoree,
El
vost car Meneghin
El
va in lontan paes;
Se
pu no s'vedaremm, a revedes.
E
ad un certo punto entrò nella sala una frazione della
compagnia de' Foghetti. Il pittor Londonio, in
costume di Beltrame di Caggiano, mostrava nella lanterna magica
alcune sue bizzarre composizioni, le quale facevano sghignazzar tutti
quanti e abbassar gli occhi ad alcune dame che s'indispettivano di
non poter comprimere il riso. E subito dopo Cesare Larghi,
ch'era segretario soprannumerario di governo, in costume di contadino
brianzolo, accennando di voler cantare una delle sue villotte con
accompagnamento di ribeba, imponeva silenzio a quanti eran là,
i quali gridavano ai suonatori e ai ballerini, basta, zitto,
silenzio; e Cesare Larghi, vista la Gaudenzi, e
indispettito col pubblico del modo ond'erasi comportato secolei, si
pose precisamente innanzi ad essa, a cantare quella veramente poetica
villotta dettata in dialetto contadinesco... e che fu stampata nella
collezione de' poeti vernacoli milanesi:
I
to oggitt me paren dò bei stelli
Che
hin pu lusurient de la lusnava,
E
quij to ganassitt ch'hin de sgioncava,
E
hin inscì svernighenti e tanto belli.
Famm
vedè, cara ti, quii to bocchini
Tanto
streccit che paren facc col fuso,
Che
fan ol pover Togn deslenguà in giuso
E
van disend a tucc: femm di basini.
La
cantilena soavemente campestre onde si esprimevano quelle poetiche
parole, la bella voce e l'accento e il garbo onde il Larghi la
cantava, in prima avean messo un silenzio così profondo in
quelle sale, che si sarebbe sentito a volare una mosca; e provocarono
poi un tale scoppio d'applausi, che di più non avrebbe potuto
ottenere lo stesso Amorevoli.
Come
il Larghi ebbe finito, quella dozzina di socj della compagnia de'
Foghetti si presentarono alle dame, e le invitarono a
ballare un minuetto. Poche vi si rifiutarono, ma tra queste vi fu la
contessa Clelia, che accusò di star male. Cesare Larghi invitò
la Gaudenzi, la quale, ringraziandolo della cortesia, non si fece
pregare. Si rimise allora lo schiamazzo nelle sale, si
rinnovarono le grida, l'orchestra tornò a suonare; e dodici
coppie strisciarono la danza con mille scontorcimenti leziosi della
testa e delle braccia che sporgevano rose nel punto che fingevano
involarle, e sulla punta delle dita deponevan baci incaricati di
volar sul volto delle dame danzanti. Lorenzo Bruni che aveva seguito
per poco la Gaudenzi nella sala da ballo, ritornò dove s'era
trattenuta la contessa Clelia, e girandole dietro le spalle, le
accostò la bocca della maschera nera all'orecchio, e,
parlandole con voce sottomessa e alterata, l'invitò a danzare.
Signore, ho già rifiutato un altro gentile invito, perchè
sto male.
Signora, devo parlarvi. Si tratta di un affar grave...
Favorite ad accettare un ballo; avremo agio a stare insieme senza
sospetto altrui.
La
contessa sentì scorrersi un brivido per l'ossa, e non trovò
parola per rispondere; chè quanto aveale detto il fratello
l'aveva messa in gravissima apprensione; onde si alzò allora
e, detto alla sorella che le sedeva presso:
Aspetta qui; e, pregata la contessa del Grillo a tenerle compagnia:
Vengo, soggiunse poi alla maschera, la quale offrendole il braccio,
la accompagnò nella sala da ballo.
Si
posero così tra le figure danzanti, e fecero un giro; indi,
quando le dodici coppie si ritirarono per dar luogo alle altre, la
maschera trasse la contessa a sedere nel vano di un finestrone.
Signora, sapete voi chi sono?
No.
In mille anni mai più vi apporreste.
Spiegatevi. Che volete dire?
Che vi avrei creduta generosa come siete bella...
Ma chi siete voi?
La
maschera aspettò che molte persone si fermassero lì
presso, e colse il punto che uno degli ispettori del palco scenico,
il conte Pertusati, gli passasse dinanzi. Allora parlò e gestì
in modo da attirar l'attenzione altrui; poi di tratto, balzando in
piedi, disse ad alta voce:
Non meritate, no, ch'altri vi abbia riguardo... Vedete ora dunque chi
sono; e togliendosi la maschera nera, scoprì la maschera
bianca. Balzò fuori allora, come per arte d'incanto, la
figura del tenore Amorevoli. Sua la faccia, sua la statura,
suo tutto. Quanti erano là il riconobbero, e la contessa non
potè comprimere un grido, e cadde.
La
maschera si ricoprì tosto.
Ora, voi tutti che siete qui, esclamò, potete attestare qual
fu la donna per cui Amorevoli fu arrestato; e, detto questo, s'involò
tra la folla, e scomparve.
Noi
crediamo che il lettore avrà, presso a poco, compreso da un
pezzo in che doveva consistere la trama onde Lorenzo Bruni aveva
pensato, con un mezzo per verità illecito, di far uscire la
verità allo scoperto.
Era
da circa mezzo secolo che in Francia, dove si davano in pubblico
persino otto balli alla settimana, si era introdotta la perversa
invenzione delle maschere-ritratti, le quali, eseguite da
pittori esperti e da plasticatori, rendevano al vivo la sembianza di
chiunque si voleva. Questa maschera-ritratto di solito la si
copriva con un'altra maschera qualunque, la quale, levata con
destrezza, lasciava intravedere il volto imprestato che stava sotto,
e che ricoprivasi tosto, onde impedire si potesse conoscere
l'inganno. Questa moda dalla Francia si diffuse tosto in Italia, e
segnatamente a Milano e a Venezia. Ma i disordini che ne conseguirono
furono tali e tanti, che la pubblica morale se ne risentì
altamente. Giovani scaltri assumevano il volto di fortunati amanti a
ingannar donne e donzelle inesperte. Donne gelose e gelosi amatori e
mariti, traevano in insidia donne e amanti creduli, dal che
derivarono vendette e delitti.
E
due anni prima del tempo a cui ci troviamo, alla duchessa di
Choiseul, che, rimasta vedova, s'era invaghita d'un giovane
cavaliere, con atroce giuoco fu fatto comparire ad una festa il
marito defunto, ond'ella ne prese tale raccapriccio e sgomento, che,
caduta ammalata, morì poi di consunzione. Perciò nella
Francia stessa s'eran pubblicati editti e pene gravi contro questa
invenzione turpe. Poco dopo la proibì anche la Repubblica di
Venezia, e nel marzo dell'anno 1749 era uscita pure a Milano, in
conseguenza di gravi inconvenienti avvenuti in quel carnevale, la
seguente ordinanza:
«L'eccellentissimo
governatore, avendo, con sua gravissima indignazione sentito il
pessimo e colpevole uso che si è fatto da taluni male
intenzionati e osceni giovinastri delle così dette maschere
ritratti, ha ordinato che ne sia assolutamente vietata ed interdetta
la fabbrica e l'introduzione, sotto pena di sei mesi fino a due anni
di carcere, da infliggersi tanto a chi ne pagasse o sollecitasse con
male suggestioni l'esecuzione, come a chi vi prestasse l'opera
dell'arte e della mano per danaro o per qualunque altro compenso.
Tanto sia partecipato al senato, ai tribunali, al pretorio e ai
giusdicenti.
Milano,
12 marzo 1749.»
Al
grido, alla caduta, allo svenimento della contessa si fermarono le
danze, fu fatta tacere l'orchestra, accorsero ad onde uomini e donne
da tutte le parti, accorsero le dame dalla sala vicina e la sorella
della contessa e la del Grillo; e tosto il fratello, i parenti, gli
amici, ultimo il conte V..., la comparsa del quale compresse a tutti
la parola in bocca, sicchè fu il solo che, per il momento, non
seppe nulla, e potè così ajutare la contessa, quando si
riebbe, a recarsi in palchetto. Scoppiarono allora le dicerie
come una eruzione vulcanica. Da quel punto del ridotto all'ultimo
angolo del teatro si propagò, colla rapidità della
luce, la notizia che il tenore Amorevoli era in teatro; si propagò
la notizia ch'era venuto per vendicarsi della contessa V...; che le
tresche del tenore erano impegnate con lei e non con la Gaudenzi; e
insieme colla notizia corsero e serpeggiarono e s'intersecarono gli
stupori; le incredulità, le osservanze, le testimonianze, le
persuasioni, le ire, le ingiurie contro quella donna che, dicevasi,
alla superbia insopportabile aveva potuto congiungere anche una
detestabile ipocrisia; e colle nuove ire e le nuove ingiurie versate
contro la nuova vittima, cominciarono i pentimenti d'aver a torto
fischiata la ballerina, la vittima di due sere prima, e i propositi
di rimettere in piedi quell'idolo stato rovesciato, e d'andare a
cercarla e di portarla a casa in trionfo.
E
intanto quella notizia era giunta all'orecchio del signor giudice del
Pretorio, che si trovava precisamente nel palchetto del signor
segretario del Senato. Còlto come da un colpo di
fulmine, e balzato in piedi al sentire che il tenore Amorevoli era
venuto in teatro, chiamò un de' tenenti che sopravvegliavano
al pubblico, e lo mandò ad assumere informazioni, mentre il
segretario del Senato, indarno trattenuto dal signor giudice, che
voleva prima verificar la cosa e aveva paura d'una solenne sgridata,
si recò, pago di farsi apportatore d'una straordinaria
novella, nel palchetto dell'eccellentissimo governatore, dove
trovavasi il presidente del Senato. Essi erano già informati
di tutto, e facevan chiose e commenti, e già avean mandato a
domandare il giudice stesso del Pretorio, che diffatto venne, pochi
momenti dopo, tutto confuso a protestare com'egli aveva lasciato il
tenore Amorevoli sotto buona custodia. Tutti stettero
perplessi ad aspettare il tenente ch'era corso al Pretorio, il quale,
sollecito e ansioso, era salito dal custode delle prigioni, e con
esso era entrato nel camerino dove Amorevoli giaceva sdrajato sul
letto tra un mezzo sogno e una mezza veglia. E il tenente ebbe
l'ingenuità di interrogarlo se mai fosse uscito per recarsi al
teatro, per il che il tenore sospettò avesse quel zelantissimo
ufficiale dato di volta al cervello.
Allora
il tenente, felice che non si fosse verificato lo scandalo d'un
prigioniero fuggito, si trovò d'aver gambe velocissime al pari
d'un lacchè, e giunto tutto trafelato al teatro, fu introdotto
al palco delle loro eccellenze ad annunciare, con gran contento del
giudice, ma con nuovo stupore di tutti, che il tenore Amorevoli non
era mai uscito dalla sua cella e che quei del ridotto dovevano aver
preso uno strano abbaglio. Fu chiamato pertanto il conte Pertusati,
uno de' cavalieri ispettori del palco, il quale si maravigliò
che il governatore dubitasse della sua asserzione; e furono fatti
venire testimonj più di parecchi: tutti si misero la mano al
petto, protestando di aver la vista perfetta e la testa sulle spalle.
Governatore, presidente, giudice almanaccarono a lungo. Che è?
Che non è? Cosa può essere stato? Pensa, ripensa e
torna a pensare... Ma, quasi contemporaneamente, nella testa del
presidente del Senato e del giudice del Pretorio sorse quel sospetto,
che poteva spuntare anche più presto, perchè l'uso
delle maschere-ritratti non era che del carnevale passato, e
l'ordinanza non gli era posteriore che di nove mesi. Appena messo
fuori quel sospetto, fece tosto presa nella testa del governatore
conte Pallavicini, il quale fattolo diventar certezza, sentì
il diritto di salire in furore, e d'ordinare al signor giudice che
praticasse tosto e in tutti i modi possibili le più rigorose
indagini per scoprire i contravventori dell'ordinanza.
Quando
il giudice uscì dal teatro, la primissima luce bigia dell'alba
si confondeva già colle torcie dei lacchè che
attendevano, presso le carrozze, i loro padroni. In una parte era uno
schiamazzo assordante di evviva; in un'altra, vicino a una carrozza,
ferveva un alterco vivacissimo tra due gentiluomini su cui si
projettava la luce delle torcie dei lacchè.
Il
giudice domandò che significasse quel rumore da un lato e quel
contrasto dall'altro, e gli fu risposto come alcuni giovinotti
accompagnavano a casa, colle torcie a vento, la Gaudenzi in trionfo;
e che l'alterco era tra il conte V... e suo cognato, perchè
non s'era più trovata in nessun luogo del teatro, nè in
palchetto nè altrove, la contessa sua moglie, e, mandato il
lacchè a vedere al palazzo, nessuno l'aveva vista ritornare.
Il giudice che aveva il pensiero ai contravventori, non badò a
tal fatto più che tanto, e s'affrettò al Pretorio, dove
spiccò tosto gli ordini, perchè si mandassero a
chiamare tutti i pittori della città di Milano senza perder
tempo. E anche noi senza perder tempo diremo, che non batteva il
mezzodì, che già il pittore Clavelli, semplice e
schietto, invitato a comparire e interrogato, confessò la
cosa, e nominò il violino per il ballo del teatro Ducale.
Questi, non trovato in casa, come si seppe che praticava presso la
ballerina Gaudenzi, colà appunto fu cercato e trovato ed
arrestato, con nuovo dolore e spavento e lagrime della Gaudenzi, la
quale, pur troppo, cominciava ad essere visitata dalla sventura.
Così
nell'ora trista del tramonto di quella tristissima prima domenica di
quaresima, il destino di cui abbiam veduto a scintillare in alto
l'occhio beffardo, potè contemplare a un punto solo quattro
scene dolorose: una sala del palazzo V... in cui il conte passeggiava
innanzi e indietro, rapidissimo, mentre il furore che lo divorava per
la scoperta dell'infedeltà di quella che aveva riputata
irreprensibile, gli si svolgeva in cuore e gli si tramutava in un
sentimento spasmodico di pietà e di costernazione, all'idea
che la contessa era scomparsa e non si sapeva nè dove nè
come, onde mille orridi timori gli straziavano l'animo; e nella sala
stessa, la contessa madre sedeva immobile, coll'occhio impietrito e
spaventato, intanto che la contessina piangeva dirottamente, e il
conte fratello stava ritto in gran pensiero, guardando macchinalmente
da un finestrone nella via sottoposta. Altrove poi, la povera
Gaudenzi teneva appoggiato il bel volto sulle spalle della zia che,
costernata, osservava la nipote costernata, mentre più
lontano, in una povera casupola di legno, una vecchia, la madre del
pittor Clavelli, pareva fatta stupida, all'annunzio che l'unico
figliuolo era stato trattenuto prigioniero; e nella casa in contrada
Borromeo, donna Paola Pietra, tenendo una lettera spiegazzata sulle
ginocchia, volgeva gli occhi al cielo, esclamando con un sospiro
profondo: Ahi sventurata!
E
tutto ciò per un muricciolo saltato... e colui che era stata
la cagione prima e sola di tanto disordine, attendeva placido in quel
punto, ne' suoi vasti latifondi, ad esaminare un prospetto di conti
presentatogli dal maggiordomo, di cui la somma totale veniva a dire
che l'entrata dell'illustrissimo signor conte era di lire milanesi
duecent'ottanta mila, a non contare due diritti d'acqua, che potevano
fruttare altre lire venti mila annue.
VII
Dobbiamo
saltare alcuni giorni dal tempo in cui avvennero le cose che noi
raccontiamo; per ora non son che giorni, ma in seguito ci accadrà
di saltar mesi ed anni e olimpiadi e lustri, e non è del tutto
improbabile che si debbano saltar via anche decenni. Egli è a
questo modo che il lettore potrà farsi capace della
possibilità di passar in rivista gli avvenimenti di cento anni
in un sol anno; perchè, se dovessimo continuare a tener dietro
ai giorni colla fedeltà di un calendario, converrebbe venire a
patti colla morte, tanto a chi scrive come a chi legge; la qual cosa,
quand'anche fosse possibile, non sarebbe certo un buon affare...
parliamo per noi; de' lettori non sappiamo. Tornato ora a' nostri
personaggi, a quelli segnatamente che vennero arrestati, il tenore
Amorevoli, Lorenzo Bruni, il pittore Clavelli, erano stati trasferiti
al capitano di giustizia; di modo che il primo, dopo cinque giorni, e
gli altri dopo ventiquattro ore, avean lasciato il Pretorio in santa
Margherita. Diciamo in santa Margherita, non già
nell'odierno locale della Direzione di Polizia, perchè a quel
tempo qui sussisteva ancora il convento delle monache Benedettine.
Del rimanente codesto fatto del trovarsi il Pretorio nella contrada
di santa Margherita, in quell'anno o in quel torno, noi lo abbiamo
ricavato da alcune ordinanze e avvisi a stampa che abbiamo
sott'occhio, ordinanze di quella classe, che, applicabili al momento
fuggitivo, non v'è per consueto chi ne tenga conto, onde si
perdono senza venir raccolte a fermare ne' libri una notizia stabile
di un accidente passeggiero. E da tali ordinanze e avvisi abbiam
potuto congetturare appunto, come nel locale assegnato pel Pretorio
vi fossero pure delle celle suppletorie pei detenuti. Ognuno sa poi,
che l'antico Pretorio non era che l'attuale palazzo dell'Archivio
nella piazza dei Mercanti, e che là erano i sedili per il
Podestà, pei due giudici, così detti del cavallo e
del gallo, i quali rendevan ragione nelle cause civili e
criminali; infine pel giudice dei dazj e pel vicario, ecc. Ma tali
ordini di cariche e di località, modificate, sebben
lentamente, col tempo hanno fatto trasportare il Pretorio altrove, e,
forse, per un provvedimento provvisorio, nella contrada di santa
Margherita. E pare inoltre, che, alla metà del secolo passato,
il Pretorio non serbasse tutte le sue antiche attribuzioni, ma ne
avesse invece in gran parte di simili a quelle dell'odierna pretura
urbana, con una sezione per le cause criminali.
Colà
si instituivano i primi esami e si assumevano le prime informazioni,
per passarle poi al capitano di giustizia; sebbene ci siano documenti
pe' quali è provato che, anche solo dietro relazione
definitiva del giudice pretore, o dei giudici del cavallo o del
gallo, si passasse alla condanna degli accusati.
Ora,
lasciando da parte cotali questioni che non hanno che qualche lieve
rapporto colla natura de' fatti che noi raccontiamo, e desiderando
solo voglia taluno stendere una descrizione della città
nostra, che completi e continui quella del Lattuada, che si ferma al
1735; diremo che, se Lorenzo Bruni aveva tanto fatto per mettere a
nudo la verità, e ben potea dire d'esserci riuscito nel modo
il più trionfante, sebbene illecito, come que' capitani che
vincono una battaglia per avere saputo ridersi del diritto delle
genti; la verità, appena comparsa, fu trattenuta indietro a
viva forza, e persino si tentò di farla scomparire, tanto che
Lorenzo non aveva altra certezza se non questa, d'aver saputo trovar
la maniera d'andar in prigione e di trarsi dietro il povero Clavelli,
senza aver trovato poi quella di farne uscire Amorevoli.
Avendo esso, al primo interrogatorio, per le sue buone ragioni,
confessato il fatto senza titubanza, e in conseguenza di ciò,
essendo stato inviato, benchè in carrozza, perchè
pagata da lui, al palazzo del capitano di giustizia, quando colà
ebbe a subire il secondo interrogatorio, la sua condizione si venne
terribilmente peggiorando. Fin dalle prime parole che gli rivolse
l'attuaro, Lorenzo potè accorgersi, acuto com'era naturalmente
e penetrativo e scaltrito dall'esperienza, che chi lo esaminava gli
aveva una singolare avversione; perchè non era quella consueta
severità del giudice verso il reo, ma una severità
speciale, trovata e adoperata espressamente per lui, rinfocata dalla
natura speciale di quella da lui commessa contravvenzione alla legge,
e più che mai dall'intento di quella contravvenzione stessa.
La
madre della contessa Clelia aveva un fratello senatore, la sorella
del senatore era la moglie del marchese Recalcati, in quell'anno
regio capitano di giustizia, uomo integerrimo e giurisperito
profondo. Il marito della contessa aveva un fratello, il quale,
avendo provato che la sua illustre casa erasi stabilita a Milano da
più di un secolo, aveva potuto entrare nel collegio dei nobili
dottori. Ora questo dottor collegiale era intrinseco del vicario di
giustizia, carica corrispondente a quella che, se non oggi, alquanti
anni or sono, chiamavasi di vicepresidente del tribunale criminale.
Ognuno può imaginarsi quanto alla contessa madre e al conte
marito e a tutto il parentorio premesse, se non l'innocenza di donna
Clelia (ormai improbabile, perchè la di lei fuga aveva chiuse
le porte a tutte le speranze), almeno l'apparenza di quella. Nei
primi giorni adunque dopo la sua scomparsa, se calde e
affannose e insistenti e continue furono le ricerche praticate
dappertutto per poter scoprire dove ella si fosse ridotta; ricerche
che, sino a quel punto, non avevano fatto altro che accrescere il
dolore e la desolazione; furono calde e affannose del pari le
pratiche, le preghiere, le insinuazioni che la sorella adoperò
col fratello, che il cognato senatore fece pesare gravemente sulle
spalle del cognato capitano, che il dottor collegiale, mediatrice
l'amicizia, fece penetrare nelle ossa del vicario; e siccome eran
tutta gente di legge, ossia gente avvezza, in mancanza d'un codice
preciso e determinato, a giuocar di testa e d'acume e di sofismi e di
cavilli nel labirinto inestricabile delle leggi statutarie, così
non affaticarono a conchiudere, che, dopo tutto quello che era
successo, non era ancora provato che donna Clelia fosse quel che si
voleva che fosse; perchè dal suo labbro non era uscita
confessione nessuna, essendo caduta in deliquio; che Lorenzo Bruni
poteva, anzi doveva essere un briccone matricolato, e Dio sa quale
scopo abbominevole aveva potuto proporsi, e forse della stessa
scomparsa di lei poteva essere l'autore egli medesimo. È a
notare però, che nè il senatore, nè il capitano,
nè il vicario non avean fatto che ascoltare, e con aspetto di
sapienza e di prudenza respingere le insinuazioni de' parenti e degli
amici, terminando sempre i discorsi coll'intercalare obbligato: non
si farà che la pura giustizia, e cogli intercalari
accidentali: bisognerà vedere, bisognerà
sentire; non si può aver riguardo a nessuno fosse il
padre, fosse la madre. Ma in conclusione s'eran lasciati
penetrare; perchè gli uomini bisogna che paghino il tributo
degli uomini, e nelle questioni di sangue e di parentado e di ceto e
d'onore, quando le instituzioni non sono imposte da una giustizia che
sia veduta da tutti i lati e in pubblico, il sentimento provoca il
sofisma, e il sofisma l'arbitrio, e tutto a nome del giusto e del
retto, e tutto senza che l'onestà dell'uomo prevarichi, perchè
non è sempre questione di cuor guasto, ma di testa conturbata.
Crediamo
sia inutile di dire come, nel secolo passato, nel sistema della
giurisprudenza pratica, e segnatamente del così detto processo
criminale, non si fosse fatto alcun passo oltre il secolo XVII. (Ci
riferiamo a questo secolo, perchè i lettori, nella
disquisizione legale di Manzoni intorno alla colonna infame, avran
potuto farsi una idea della condizione della giurisprudenza a quel
tempo). Non v'era un codice scritto ben discusso, ben formulato e ben
determinato in nessun paese. Le leggi statutarie e il diritto romano
e le varie interpretazioni dei legisti costituivano tutto il capitale
giuridico tanto di un dottor collegiale, come di un senatore. Ed era
da quattro secoli che ciò continuava, senza che nessuno si
accorgesse che quel sistema fosse irrazionale; irrazionale del pari e
assai meno popolare di quello che avea a lungo durato nel feudale
medio evo. Diciamo assai men popolare, perchè prima del secolo
XIII le cause criminali si trattavano in pubblico, onde, come dice
Sclopis, manifesta era l'accusa, pubblico l'esame de' testimoni,
aperta e libera così l'interrogazione come la difesa del reo.
Ma nel secolo XIII l'eresia suggerì nuove forme
d'inquisizione, e, all'uso de' tormenti preparatori, che fu il
crudele sistema di prove introdotto dallo studio delle leggi romane
(il quale, del resto, per tutte le altre parti era stato così
benefico), s'accoppiò il segreto nell'orditura del processo.
Che se in prima il processo segreto era invalso soltanto nelle
questioni ereticali e in via di eccezione, col tempo si diffuse e si
allargò a tutte le cause civili e criminali, e come regola
costante. In Mario Pagano, in Meyer, in Sclopis ognuno può
vedere tutte le forme originate da questo principio, e come,
essendosi voluto corroborare la coscienza morale del giudice colla
così detta coscienza giuridica sottoposta al calcolo della
probabilità, si fosse edificato un corpo di dottrina falso
e pieghevole ad ogni maniera di assurdi e di arbitrj. Per queste
cose, tanto nelle cause criminali, come anche nella trattazione delle
cause civili, se il giudice o l'avvocato o il patrocinatore che
sosteneva un assunto o lo contrastava, era dotto, acuto e dialettico,
e se per avventura tra la dottrina, l'acume e l'eloquenza lavoravano
la passione, l'ostinazione o l'errore implacabile del giudizio,
allora la legge statutaria, il diritto romano, e l'interpretazione
dei giuristi facevan la figura e subivan la sorte delle tre palle
sotto al bossolo del giocoliere. Per il che ognuno può
considerar com'eran degni di pietà coloro dalla cui parte era
la ragione. Se poi una tale pratica di giurisprudenza era comune a
tutt'Italia e a tutt'Europa, ciascuno Stato vi recava alcune sue
forme proprie addizionali, e alcune sue proprie modificazioni di vita
e di costumi, le quali rendevano ancor più inestricabile il
labirinto degli arbitrj. Per fermarsi a Milano, nel secolo XVIII,
oltre al sistema del processo segreto invalso dappertutto, e al
diritto romano, e ai commenti dei legisti, la città si
regolava ancora cogli statuti e colle costituzioni criminali di Carlo
V; ma v'era un fatto che, quand'anche il sistema generale fosse stato
ottimo e gli statuti di Carlo V i migliori possibili, era tale da
mettere ogni cosa in disordine; ed era che il campo della
giurisprudenza giudiziaria era tenuto e padroneggiato con mano
tenacissima, meno qualche rara eccezione, dal solo ceto patrizio.
Il
collegio dei dottori era costituito per la maggior parte di nobili.
Da questo collegio, che era, quasi diremmo, un vivaio perpetuo di
capacità giuridiche più o meno profonde, uscivano quasi
sempre i giudici del cavallo e del gallo, il giudice
del Pretorio, il vicario, il capitano di giustizia, i senatori, il
presidente del Senato. Abbiamo un elenco manoscritto dei
capitani di giustizia dal 1750 al 1783, da cui risulta, che tutti
appartenevano alle principali case della città. Si poteva
pertanto quasi dire, che la giurisprudenza fosse a Milano una
proprietà di famiglia. Ora, se a questo fatto si aggiunga
quello de' privilegj ancora sussistenti, ognun vede come poteva
camminare il vero diritto, concesso pure che quei patrizj
avessero teste di bronzo e cuori pietosissimi; e potessero, per un
prodigio della natura e della fortuna, aver tutti la testa, per
esempio, di Farinaccio, e la carità squisita, per esempio, di
san Francesco d'Assisi. Ma oltre ai legami, abbastanza forti del
ceto, v'eran quelli della parentela. Bensì qualche volta
s'intromettevano le rivalità e i puntigli e gli odj antichi
tra casato e casato: ma questo non era già un mezzo di
equilibrio, sibbene un'occasione nuova di poter offendere la
giustizia in un altro modo.
Ma
torniamo a' nostri personaggi.
Nella
prima metà del mese di marzo, Lorenzo venne condotto dal
barigello al banco dell'auditore, per essere sentito in un secondo
esame. Messo a sedere innanzi al banco, il Bruni stette attendendo
con impazienza che l'auditore, il quale era intento a sfogliar carte,
gli rivolgesse la parola. Era ansioso di sapere se gli avevano
destinato un protettore. I protettori de' carcerati (Protectores
carceratorum) erano giovani causidici, che esordivano la carriera
assumendo la difesa degli accusati. Eran nobili per la maggior parte
anch'essi e bisognava che passassero attraverso a questa pratica per
poter avere il diritto di essere ascritti col tempo al collegio dei
dottori. Le difese si scrivevano in lingua latina o in lingua
italiana, e così venivano presentate al capitano di giustizia
per passar poi anche in Senato.
Quando
l'auditore alzò la testa, volse a Lorenzo uno sguardo tale da
fargli temere il peggio; poi disse:
Persistete voi dunque nell'asserire che la causa per cui avete
ricorso ad una abbominevole astuzia, al fine di trarre in insidie la
nobilissima signora contessa Clelia V..., sia stato il desiderio di
stornare il disonore dalla vostra protetta?
Non posso che persistere, perchè è la pura verità.
Vogliate però considerare che la cosa è inverosimile, e
che una tale inverosimiglianza ci consiglierà gravi misure.
La verità è una sola, rispose Lorenzo con un certo
sdegno, e mi pare d'avere già esposto suffizienti argomenti
per togliere ogni altro sospetto dalla testa del signor giudice.
Torno a ripetere che, dal momento che la giustizia trovò
d'escluder dagli esami, non so per che sue ragioni, precisamente la
donna che sola era stata la cagione di trarre a mal partito il signor
Amorevoli, io mi trovai in dovere di illuminarla; prima di tutto
perchè trovavo ingiusto e insopportabile che una virtuosa
ragazza avesse taccia di disonestà per colpa altrui; in
secondo luogo perchè dal momento ch'io potei intravedere che
la nobilissima signora contessa avea potuto aver la debolezza...
Vi intimo di adoperar parole più rispettose.
Lorenzo
tacque un momento, come per respingere un leggiero soprassalto
d'indignazione, poi soggiunse:
Io ho l'obbligo di difendere me stesso. È un obbligo santo
come un altro, poichè ciò che mi s'ingiunse qui è
di dire la verità. Però se, quand'anche con un mezzo
riprovevole ma il solo tuttavia che m'era possibile, ho potuto
mostrare a tutto il pubblico da che parte stesse la colpa, io non so
in che modo debba nominare la signora contessa, quando per necessità
devo parlare di lei.
L'auditore
lo guatò bieco, senza far motto.
Siam tutti di carne umana, soggiunse poi Lorenzo sempre più
indispettito, e non è detto che una nobil dama non possa avere
una qualche debolezza... il signor auditore mi perdoni la parola.
Non è più questa la cosa di cui si tratta. Già
nel primo esame avete scagliato abbastanza vituperj contro il
rispettabile ceto patrizio.
Io non ho offeso nessuno. Ho detto solo che una povera fanciulla non
doveva portar la pena delle colpe altrui, e che, mi perdoni il signor
auditore l'amore della verità, la giustizia non doveva avere
nessun riguardo alla nobiltà della signora contessa; e dal
momento che non aveva dubitato d'interrogare tutte le donne che
possibilmente avean avuto parte nel fatto, non c'era nessuna ragione
per cui dovesse omettersi precisamente quella, sotto alle cui
finestre era succeduto l'arresto del signor Amorevoli. Se gli uomini
che tengono il sacrosanto mandato di rappresentare la giustizia
avessero fatto il loro dovere, io non mi sarei trovato al punto di
offendere la legge. Questo solo ho detto e dovevo dire, per mostrare,
d'altra parte, che se ho dovuto ricorrere a un mezzo proibito, fu per
un fine retto.
Un fine retto?... esclamò allora l'auditore rompendo le parole
all'accusato; rispondete, ora a questa domanda: Chi ha fatto
scomparire dalla sala, dal teatro e dal palchetto la nobile signora
contessa, di cui non si è ancora potuto scoprir traccia?
Questa
domanda riuscì così improvvisa e inaspettata al povero
Bruni, ch'ei ne rimase colpito, e tanto più in quanto d'un
colpo d'occhio ne misurò tutta l'estensione pericolosa. Ma
soggiunse poi subito:
Cosa poss'io sapere di quel che sia avvenuto della contessa?... Dio
faccia che non sia successa una disgrazia... Ma se ella è
scomparsa e fuggita, il motivo ne è così chiaro, che
non se ne può cercare un altro.
Il motivo n'è tanto chiaro, che la giustizia v'intima adesso
di addurre le prove onde convincerla che non siete stato voi a far
scomparir dal teatro la contessa.
Lorenzo
Bruni stette un momento silenzioso poi ripigliò:
Tocca a chi mi accusa di questo fatto, per me impossibile e assurdo,
a produrre le prove, non a me. Io non posso dir altro, se non che
dopo lo svenimento della contessa, avvenuto per l'effetto delle mie
parole e della creduta presenza del tenore Amorevoli, io non l'ho
veduta più, e non seppi che alla mattina com'ella era
scomparsa dal teatro e dalla casa, e non la si ritrovava in nessun
luogo.
La giustizia potrà rendervi ragione in seguito, ma per ora,
essendo voi il solo interessato ai danni della nobile contessa, la
giustizia è in obbligo di metter voi in istato di accusa per
un tal fatto.
Lorenzo,
a questo dire, si turbò forte e non trovò parole,
sospettando come nell'impegno, forse assunto, di stornare il disonore
della contessa e dal suo casato e da quello del marito, si era
determinato di prender lui di mira in ogni modo, gettando nel
pubblico false voci e false accuse.
Cosa dunque potete aggiungere al già detto?
Nulla... Io non posso che ripetere sempre le stesse parole. Io non
vidi mai più la contessa dal momento che cadde svenuta.
Quand'è così, voi sapete quali mezzi tiene in serbo la
giustizia per fare in modo che una bocca pronunzii la verità.
E
l'auditore, suonato il campanello, ingiunse al custode di ricondurre
il Bruni nella sua prigione.
Partito
Lorenzo, l'auditore si alzò, e prendendo il processo verbale
dalle mani d'un assessore:
Nessuno, disse, mi leverà dalla testa che costui sia un iniquo
matricolato E con tali parole sulle labbra, e coi relativi
pensieri nella testa, si mosse per recarsi nell'aula
dell'eccellentissimo signor capitano di giustizia. Quando fu
nell'anticamera e già stava per farsi annunziare, gli mosse
incontro una livrea dell'illustrissimo signor capitano marchese
Recalcati, e:
Per ora non si può entrare, gli disse.
Perchè non si può... ?
Perchè...
Ma
in quella si fecero intorno all'auditore molti notaj e assessori e
scrivani che si trovavano là, e:
Sapete, gli dissero, chi fu ammesso or ora all'udienza
dell'illustrissimo signor capitano?...
Che cosa posso saper io?... chi dunque?...
Non lo indovinereste in mill'anni. Quella venerabile matrona che
tutti conoscono, donna Paola Pietra.
Ma che relazioni può avere una tal donna colla giustizia?
Chi lo sa?
Gli è molto che sta col capitano?
Se non è di più, non è di meno di un'ora... Chi
sa mai cos'è avvenuto di strepitoso?
Ma
in questo punto s'udì una lunga scampanellata dalla camera del
capitano, e accorse le livree ad aprir l'uscio, comparve sulla soglia
donna Paola, la quale uscì, attraversando l'anticamera tra
gl'inchini riverenti di quanti eran là.
L'auditore
allora si fece annunziare, ed entrò dal capitano con una
faccia tutta giuliva.
Ecco il processo verbale del nuovo esame a cui oggi fu assunto
Lorenzo Bruni. Ho tali indizj, che mi danno la convinzione possa
costui essere il colpevole del trafugamento della contessa.
A
queste parole il signor capitano non fece motto, e preso il foglio
dalle mani dell'auditore, contro l'aspettazione di quel giudice
zelante, non disse nulla, e lo licenziò severissimo.
Ora
ci rimane a sapere per qual fine donna Paola Pietra abbia domandato
un'udienza al capitano di giustizia, e che cosa sia avvenuto della
bella e sventurata donna Clelia.
VIII
Talora
dà il caso che, nella massima esaltazione di un sentimento o
di più sentimenti, quando tutte le facoltà dello
spirito, quasi ubbriacate, hanno cessato di agire regolarmente,
essendo messe in rivoluzione da una sventura, da un pericolo, da un
dolore, da un colpo imprevisto, occorra necessariamente di prendere
un partito; e in tal contingenza si abbracci precisamente quello che
è il più opportuno, e che forse non sarebbe giunto a
trovare nè a proporre nemmeno la mente più calma e più
provvida. Bisogna adunque che quella esaltazione procellosa
de' sentimenti assomigli all'acquavite campale, che spinge fin le
reclute contro le bajonette d'un battaglione quadrato; e, per valerci
d'una similitudine un po' più gentile, conviene che
quell'esaltazione produca quasi un sonnambulismo benefico, il quale,
togliendo per poco all'uomo la ragione, la quale può turbarsi
in conseguenza della sua potenza medesima e della sua virtù
illimitata, gli dà invece l'istinto che va diritto per la sua
via, men nobile, se vogliamo, ma più determinata e precisa.
La disperazione, per esempio, non accetta mai le sue leggi dalla
ragione, ma si sottomette, sebbene inconscia, alla spinta cieca
dell'istinto, ed egli è per questo che qualche volta i suoi
consigli sono un sublimato di prudenza.
Una
salus victis: nullam sperare salutem.
Applicando
ora queste nostre riflessioni alla condizione speciale della contessa
Clelia, se, dopo avvenuta la catastrofe del finto Amorevoli e del
deliquio, tre uomini di consiglio, come soglionsi chiamare, si
fossero uniti per risolvere in fretta e in furia quel che la
sventurata avrebbe dovuto fare, è assai probabile che non
avrebbero dato il più sano parere.
E,
in quanto a noi, siamo specialmente convinti che si sarebbero ben
guardati dal dirle: Fuggite, e senza perder tempo, e sola e in
qualunque modo ciò vi riesca. Eppure, a pensarci bene, era
questo il partito più conveniente che rimaneva alla contessa.
Anche noi, dobbiam confessarlo, quando sentimmo per la prima volta
che donna Clelia era scomparsa dal teatro, abbiamo fortemente
sospettato non le avesse dato di volta il cervello; ma poi, a nostro
dispetto, dovemmo convenire che un consiglio di tal fatta non le
poteva esser venuto che da Salomone; tanto la disperazione avea
tenuto luogo di sapienza! A rimanere a Milano e nella sua casa, come
poteva sopportare la presenza del marito? e poi, chi sa cos'avrebbe
potuto fare quello spagnuolo inferocito? Come sostenere lo sguardo
della madre? come rispondere, cosa dire? Con che fronte uscire in
pubblico ad incontrare gli sguardi di tutta la città? Come
resistere all'insultante pietà delle rivali trionfanti? Ma
ella non avea nemmen pensato a tutto ciò. Riavutasi del
deliquio e uscita dal palchetto, col domino tra le mani e come per
pigliar aria, guizzò tra la folla delle maschere che facevano
ingombro al palchetto e assiepavano il corridojo, e senza titubanze e
rispetti, chè la disperazione è imperterrita e non
conosce ostacoli, uscì dal teatro; e là, allontanatasi
dalla porta dell'ingresso, avvolta nel domino a bardosso, ed esposta
così al freddo e al vento, che pareva un Sibilla vaticinante,
vista la carrozza di casa Cusani che conosceva (per essere la moglie
del marchese Cusani in grande intrinsichezza col Conte V...), chiamò
il cocchiere per nome. Quegli si volse, e, col lume del fanale e del
primo crepuscolo, riconosciuta, sebbene a stento, la contessa:
Cosa mi comanda? disse.
Sta queto, che già siam d'accordo colla marchesa; ho bisogno
della sua carrozza; e di buon trotto accompagnami alla mia villa a
Gorla...; tu ci sei stato altre volte. Vogliam fare una burla a
qualcuno.
Il
cocchiere non rispondeva, e stava perplesso; ma la contessa, aperta
la porticina :
Suvvia dunque, t'affretta; chè non c'è tempo a perdere,
e se non si corre, ogni cosa può andare a vuoto.
Il
cocchiere si strinse nelle spalle, ma obbedì; e sferzati i
cavalli, in mezz'ora fu a Gorla sul naviglio. Spuntava il primo sole
quando fece una magistrale voltata entro al portone già
dischiuso della sontuosa villa V... Colà giunta, la
contessa chiamò il castaldo, che accorse con di lui grande
stupore; fece pagar lautamente il cocchiere, al quale impose di
ritornar subito a Milano; poi rivolta al castaldo:
Ti farà meraviglia ch'io mi trovi qui? Ma oggi verrà il
conte... e sentirai da lui... or non è tempo a perdere... e fa
attaccare i migliori e più veloci cavalli che hai nelle
stalle... e dammi un uomo. Il castaldo obbedì anch'esso
prontissimo, per quante congetture facesse. La carrozza fu
tirata fuori, i cavalli attaccati, l'uomo fidato fu tosto in serpe
colla sua frusta disposta alle battiture. Donna Clelia intanto
aveva scritta una lettera, che, fatto chiamare un contadino, della
cui incapacità a leggere e a scrivere volle prima assicurarsi,
gli consegnò, perchè la ricapitasse al curato di Santa
Maria Podone. E il contadino era partito sotto gli occhi
stessi della contessa, e senza che il castaldo potesse veder la
lettera, dopo ciò la contessa erasi levate le gioje, che mise
in un fazzoletto; poi si sciolse i capegli, li abbassò, li
rese meno appariscenti, e li nascose in un velo nero che si fece dare
dalla moglie dell'agente; raccolse infine al possibile la coda del
vestito azzurro ricamato in argento e si avvolse tutta come potè
meglio nel domino, adattandoselo alla vita come un vestito comune; e
così stranamente acconciata, chè il tumulto de'
pensieri gl'impediva d'avere il capo a tali cose, salì
finalmente in carrozza, dicendo forte al cocchiere: Ponte san
Marco. La casa V... aveva un vasto tenimento tra questo luogo
appunto e il lago di Desenzano, e se la contessa si diresse a quella
volta non fu per altro motivo che perchè era quella la terra
più lontana dei possessi di casa V... Il viaggio durò
tutto quel giorno e il successivo. A notte inoltrata donna
Clelia giunse alla villa, tra le solite meraviglie degli agenti e
delle fattoresse. All'alba del terzo giorno, avuto il modo di cangiar
vesti, scomparve improvvisa anche dalla villa, all'insaputa di tutti.
Se
la contessa non avesse pensato a partire inosservata dalla villa di
Ponte san Marco, la sua prima fuga non le avrebbe giovato a nulla;
perchè, di fatto, da Milano fu spedito sulle sue traccie un
uomo fidato sin là, e ciò dovea naturalmente succedere,
poichè il cocchiere di casa Cusani, tornato a Milano, quando
la marchesa padrona era già a letto, dopo essersi sentito
minacciare lo sfratto dalla casa del padrone montato in sulle furie,
raccontò il fatto della contessa V... Allora il marchese
Cusani, che già sapeva della sparizione di lei, mandò
il cocchiere stesso ad avvisarne il conte marito, che tosto inviò
un servo a Gorla, ove ebbe la notizia che la contessa era partita per
Ponte san Marco; tanto che, quando esso, la madre, il fratello e la
sorella di donna Clelia, verso l'ora bassa della prima domenica di
quaresima, versavano in quell'angoscia che il lettore sa, un uomo
della casa era già in viaggio per quella volta; chè il
conte non avea voluto per nessun modo che partissero nè il
fratello nè la madre; se a ragione o a torto non sappiamo, ma
chi s'attenta di discutere sulla ragione e sul torto in momenti di
tanto affanno e scompiglio?
Qui
poi occorre di notare per la completa intelligenza delle cose, che il
fratello della contessa, quando sentì dal carrozziere di casa
Cusani quel ch'era avvenuto, si recò insieme con esso dal
marchese medesimo, il quale, dopo un lungo discorso tenuto col conte,
ingiunse al carrozziere di non lasciarsi sfuggir di bocca quel ch'era
seguito, nemmeno colla marchesa, alla quale si sarebbe concertato
quel che dovevasi dire. E la casa V... incaricò della
medesima incumbenza verso i gastaldi della villa a Gorla, l'uomo
spedito colà e altrove a cercar notizie della contessa. È
a notare inoltre come, in sull'ora tarda della stessa prima domenica
di quaresima, il curato di Santa Maria Podone avea portato in persona
una lettera a donna Paola Pietra, ed era quella appunto che la
contessa aveva scritto prima di partire per Ponte san Marco. In
quella lettera, con un disordine d'idee e di modi che è facile
immaginare, donna Clelia narrava in prima il fatto accaduto in
teatro, poi veniva prorompendo in questi sentimenti:
«Così tutto è finito per me, nè potrò
mai più mostrare la mia fronte a chi m'ha conosciuta, chè
piuttosto vorrei trovarmi mille braccia sotto terra. Oh se tosto
avessi adempito il suo consiglio, donna venerata, almeno il mondo mi
avrebbe dato il merito di una franca confessione, e forse non sarei
stata disprezzata da colui, nè tanto punita; quantunque, per
verità, non mi sembri poi di aver meritato così fiero e
spietato trattamento. Oh potessi far noto al mondo qual era la mia
intenzione, e come il pensier mio non fosse altro che di scansar pel
momento gli scandali del carnevale... Almeno colui potesse conoscere
che la mia intenzione era di salvarlo in ogni modo! Ma faccia ella
per me, venerabile signora, il bene che io non ho potuto. La sua
carità proveda e accorra e ripari. Se mai credesse di parlare
a mia madre, di parlare al conte, lor faccia intendere ch'io non ho
veruna macchia grave a rimproverarmi, e che fui assai più
disgraziata che colpevole, disgraziata quanto mai si può
pensare... Ma ora vedo di darle un incarico impossibile... perchè
non è bene, e non desidero ch'ella veda nè mia madre,
nè il conte. Chè lo giuro formalmente a lei, venerabile
signora, nè ella stessa potrebbe distogliermi da questo
proposito... Non sarà mai ch'io ritorni mai più a
vivere col conte; io non voglio vederlo mai più. Io non l'ho
mai amato, nè lo amo, quantunque lo rispetti e lo compianga.
Ma se egli è or fatto infelice per me, son sette anni ch'io
son fatta infelice per lui; e d'altra parte vivo certissima che
nemmeno esso non mi ha amata mai. Dunque si rompa una volta e per
sempre questo nodo, il cui solo pensiero mi ha desolata, perchè...
ma io sento il rossore di quello che stavo per dire, ma io sento il
bisogno ch'ella mi protegga e mi consigli, e mandi il balsamo della
sua parola soave sulla piaga insopportabilmente dolorosa del mio
cuore. Or dove io vada non so. Nè so quello che io sia per
tentare, nè quello che la disperazione vorrà fare di
me. Ma qualunque cosa fosse per succedere; ma dovessi anche morire,
chè oramai non vedo miglior mezzo d'uscita alla passione che
mi divora e al tormento inesprimibile di non poter vivere senza
alimentarla, e di dover incontrare il disprezzo di tutti e il
mio stesso; dovessi, dico, anche morirne, io desidero che la sua
parola, pietosissima signora, venga a confortarmi nella mia ora
suprema. Or io parto... Ed ella mi scriva e tosto... e mandi la sua
lettera a Brescia, dove io manderà a levarla, e sulla
soprascritta metta il nome del mio casato a rovescio.»
Come
rimanesse donna Paola al ricevere questa lettera, è facile
imaginarlo. Il primo pensiero fu di recarsi tosto a spargere
qualche conforto fra coloro che dovevano vivere in angustie per la
partenza della contessa. Ma poi riflettè che ne potevano
scaturire guai più serj, e che prima di parlare alla madre e
al marito della contessa erano indispensabili altri provvedimenti.
Intanto credette bene di rispondere subito a donna Clelia, e di
trovare il modo perch'ella si ricoverasse in luogo sicuro, dove
potesse guardarsi e dalla passione propria e dall'ira gelosa del
conte. Le scrisse dunque di volo una lettera il cui tenore era
questo:
«Donna
tanto infelice quanto a me cara!
«Se
la sventura vi ha visitata, voi dovete essere più forte della
sventura. Se abbiate ben operato ad abbandonare la vostra
casa, nella pericolosa e speciale condizione in cui versate, non mi
attenterò di recarne giudizio. Ma quand'anche aveste fatto il
peggio, la Provvidenza metterà un riparo a tutto. Vi
ringrazio, cara donna, che il vostro primo pensiero sia stato quello
di scrivere a me, ed io vi mostrerò la mia gratitudine col
fare tutto quello ch'io potrò per voi. Di questo potete vivere
sicurissima, e se per ora non vi è dato altro conforto, questo
vi sia almeno intero. Da più parole della vostra lettera, io
scorgo che il vostro cuore, più assai che dalla medesima
sventura e dall'onta, è penetrato da un pensiero troppo
costante verso chi è vostro obbligo assoluto di dimenticare.
Cara la mia donna, il tempo guarisce di grandi piaghe, e vogliate
aver fiducia nel tempo: ma credetemi, che per tornare a rialzarvi in
dignità di donna onorata, e costringere il mondo, che si
appaga di maldicenza e di disprezzo, a tacere e a rispettare, ve l'ho
già detto, conviene che la vostra vita da quest'ora in poi
proceda inalterabile e senza un rimprovero. Allora voi troverete che
il mondo è qualche volta tanto giusto ne' suoi giudizj, quanto
più spesso è precipitoso e spietato. Allora verranno i
giorni in cui amerete la stessa sventura, perchè per suo mezzo
sarà scaturita la vostra felicità.
«Ma
pace per ora, la mia cara donna, pace e coraggio...; e giacchè
non avete ancor ben determinata la meta a' vostri passi, e fuggite
così a caso, cacciata dalla sola disperazione; e la solitudine
potrebbe trarvi a malissimo partito, Dio vi guardi dalle funeste
tentazioni della solitudine! Io scrivo in sull'istante ad una
famiglia virtuosissima di Venezia, quella dove fui accolta io stessa
con carità d'affetto, quando ci capitai da Milano, fuggita da
chi mi teneva in ingiusta prigionia; che rividi, come tornai da Roma,
e che l'anno scorso fu a visitarmi a Milano, con sempre costante
amorevolezza. Voi dunque avete a recarvi colà, e, a tale
oggetto, v'accludo un foglio perchè siate riconosciuta e
accolta e abbracciata e consolata, e forse guarita coll'insistenza
delle cure amorose. Ricevuta questa, rispondetemi di volo, e Dio vi
benedica.
«Paola
Pietra»
Questa
lettera giunse a suo luogo a Brescia, e presto arrivò nelle
mani della contessa Clelia, la quale tosto rispose alla donna pietosa
con effusione d'affetto, e coll'accettare il partito proposto. Così
ella recossi a Venezia, dove infatti fu accolta con ogni maniera di
affettuose dimostrazioni in quella casa a cui donna Paola aveala
raccomandata.
Ma
chi avrebbe detto che il destino, così spesso strano e
capriccioso, come talvolta provvido, della dimora di donna Clelia a
Venezia doveva valersene per iscoprire i capi del filo a cui
s'attiene il fatto principalissimo del nostro racconto, e quello per
cui sino ad ora avvenne tutto quello che avvenne? chè il
lettore, dato che, per un caso de' più strani, abbia preso
interesse a quest'istoria, non deve obbliare che, nella stanza vicina
a quella dove giaceva il defunto marchese F... erano state trafugate
delle carte; che probabilmente tra quelle ci doveva essere un
testamento; che se era stato commesso un delitto di tanta gravezza,
qualcuno necessariamente doveva averlo commesso e, se non di certo a
Milano, in qualche parte del mondo colui doveva bene esistere e
starsene cheto.
IX
Or
lasciamo per poco Milano, la Babylo minima di Ugo Foscolo, e
rechiamoci a Venezia, la città adottiva del chiaro di luna,
del romanticismo convenzionale e degli amori pseudo-platonici. O
Venezia! Oppure Vinegia, come noi preferiamo di chiamarti per
appagare un nostro gusto da antiquario, quante fantasie di poeti hai
tu stancate; quanti romanzieri hai raggirati lontano dal vero,
attraverso all'inestricabile labirinto delle tue calli; a quanti
esageratori di professione hai fatto prestito grazioso della tragica
tinta de' tuoi palagi secolari e dell'onda stigia de' tuoi rii,
saturi di gas fosforici e di quel jodio che è tanto lodato per
la cura della scrofola! Quante bugie, senza tua colpa, hai fatte
pronunciare agli storici, che pure, con un coraggio da leone,
s'incaricano di dire la verità! Quanti femori e coscie e
stinchi hai tu infranto colla pietra bianca de' tuoi ponti traditori!
A quanti giovinotti hai fatto perdere l'appetito e la salute
ricoverandoli insidiosamente sotto al felze delle tue gondole! Quanti
odorati squisiti e permalosi hai offeso coll'odore infesto del tuo
baccalà! Quante spregiate crete Versâr fonti
indiscrete dalle tue altane e dalle tue finestre plebee sul capo
dell'ansioso visitatore delle vetuste tue glorie! O Venezia, o, come
ci piace meglio, Vinegia, tanto straordinariamente bella e fantastica
e divina, quanto, in certe parti, difettosa e incomoda e talora
fetente! O regina dell'Adriatico, o donna di duplice aspetto, che
rendi veraci tutte le descrizioni perchè, al pari della fata
Alcina, ti mostri in apparenza di vegliarda a mettere in fuga chi
pure è venuto a visitarti colle migliori intenzioni; ma per
chi ben ti contempla, sei bella e giovane ed attraente e divina così,
da ammaliare Ruggero. Ma la colpa è di chi ha sempre voluto
descriverti da un lato solo; e dei pittori di prospettiva che non
sanno altro che far ripetizioni eterne della tua piazza e del tuo
palazzo Ducale. Così il visitatore, tratto in inganno e venuto
a te coll'ansietà come di chi vede una terra di consolazione
nella fata Morgana, s'indispettisce, se, dopo l'incantevol piazza e
Rialto grande e le colonne del molo e l'ampia laguna, non vede che
calli e callette, e negri rii, e casupole miserabili, e ballatoj con
luridi cenci, e zucche baruche, addentate ovunque dagli
squallidi figli de' tuoi pescatori. Il viaggiatore poetico che, pieno
la testa delle narrazioni convenzionali di Venezia, vi capita la
prima volta, e per una bizzarria dell'accidente, in un giorno di
pioggia; e prima di vedere le tue ricchezze gloriose s'incontra nelle
miserie deplorabili, e affacciandosi alla finestra dell'albergo, non
ha altra sensazione che di chi abitasse nell'interno d'un pozzo, tra
l'acqua in fondo e una pezzetta di cielo bigio su in alto..., che
indignazione egli sente contro le guide d'Italia menzognere; che
assalti repentini di nostalgia, quand'anche venisse dalle febbrifere
risaje! e l'aspetto di codesta prima impressione è così
micidiale, che gli dimezza e gli turba l'ammirazione e l'entusiasmo
anche pei giorni del sole e per le scene che non hanno riscontro in
nessun altro luogo del mondo.
Perchè,
ad essere sinceri, chi mai può dire che sia facile trovare un
riscontro, pur ne' sogni fantastici delle Mille ed una notti,
alla scena che si svolge innanzi all'occhio di chi s'affaccia, per
esempio, al finestrone della sala degli Scrutinj del palazzo Ducale,
in un mattino del mese d'aprile o di maggio, od anche di settembre,
quando un leggier vapore azzurro avvolge tutta la prospettiva lineare
degli edificj cospicui che decorano la grande e la piccola piazza, e
che rende più vaga e indefinita la prospettiva aerea? E ad
arte accenniamo al finestrone della sala degli Scrutinj, perchè
il giuoco prospettico riesce tale da quel punto che all'imaginazione
è permesso di sospettare interminabili le fughe delle
Procuratie nuove e delle vecchie, e più fantastico il
bisantino San Marco e quasi ampia come il Bosforo la laguna, e più
gigantesche le cupole del tempio della Salute, e quasi alberi annosi
d'un'aerea selva i campanili, i comignoli, i pinnacoli che spuntano
da ogni parte di dietro al sontuoso, diremo sipario,
costituito di quelle tante meraviglie architettoniche che l'arte
occidentale innalzò, e staccano su d'un cielo che nei giorni
della massima vampa solare e del voluttuoso vento africano, parrebbe
essere stato trasportato dall'Oriente! Ma cosa diventa il tuo sole, o
Venezia bella, in confronto della tua luna? Qual è regione
della terra dov'ella si mostri con tutti i suoi prestigj come in casa
tua? in quali altre onde si specchia più volontieri che nelle
tue? Da che torri d'altre città si mostra con più
attraente vezzo che da' tuoi edificj, o regina dell'Adriatico? Se non
che, siccome Byron ha detto che i malefizj della luna sono diabolici
in ragione della sua fama usurpata di castità e di modestia,
così noi dobbiamo credere che gl'influssi della luna di
Venezia sui deboli mortali e sui cuori giovanili siano assai più
funesti e irresistibili di tutti gli altri influssi ch'ella esercita
altrove, per esempio sul lago di Lucerna e di Costanza. O gondole
brune e romite che movete lente, troppo lente per credere che
voghiate con innocenza, o nel canale della Giudecca, o in quello più
storico dei Marrani, il canal Orfano dei drammaturghi sepolcrali, o
nella più espansa laguna delle Fondamenta Nuove, in cospetto
di San Cristoforo della Pace! come vi giova il pretesto di dover
usufruttare l'influsso della luce lunare! Quanti giovani,
anche inclinati al puritanismo, furono tratti in insidia dalla bianca
luna confederata ad una gondola nera, dal cui felze, ove penetrava un
suo raggio malizioso, uscì il suono di una qualche voce
vellutata o flautata, come vi par meglio, perchè le voci
femminili a Venezia, quando si sentono nel canale o nel rio,
subiscono, non sappiamo perché, una specie di trasformazione,
e infondono un suono che non ha riscontro in nessun'altra delle città
a noi note.
Ma
lasciando le gondole e le voci flautate, chi vuole a Venezia godere
la luna senza pericoli, non la contempli che quando ella s'interessa
all'incremento delle belle arti; allora egli si rechi a metà
Piazzetta, e la osservi quando il suo raggio attraversa le vetriate
dei due finestroni che coincidono all'angolo del palazzo Ducale; e si
fermi sotto al campanile quando il disco di essa, rompendo, quasi
diremmo, sul massimo suo vertice, sembra sciogliersi in raggi
infiniti, che piovono da quel punto come una cascata di luce; e
ascenda al ponte della Paglia a vedere come il contrasto del suo
bianco raggio che taglia sui marmi anneriti, accresca l'incomparabile
bellezza dal lato del palazzo del Doge, che risponde al ponte de'
Sospiri; e passi al ponte dell'Arsenale a guardare al suo lume i
leoni portati a Venezia dal Peloponnesiaco, i quali vegliano alla
custodia di quell'edificio da cui uscirono tante navi coraggiose e
fortunate; e trasvolando più lungi in gondola, entri nel rio
de' Zecchini a vedere i ruderi di palazzi abbandonati; o passi
davanti a S. Giovanni e Paolo, od agli avanzi del convento de'
Serviti, dove meditava il prodigioso Fra Paolo; e se gli cresce il
tempo, non ommetta il tempietto di Santa Maria de' Miracoli, che
direbbesi trasportato a Venezia da uno svolazzo di cherubini fatti
architetti; e osservi da vicino il giuoco dei tre ponti, dove la luna
si sbizzarrisce in mille modi con quelle arcate e collo specchio di
quell'acqua; e di qui ritraendosi e vogando altrove, si prolunghi
fino al rio San Polo, a vedere il contrasto che produce la luna colle
onde d'acciajo e coi palazzi gotici che sembran di pietra di
lavagna, e, colle fiamme che trapelano dalle finestre sparsamente,
mentre il fondo stacca sul cielo azzurro e stellato il vetusto
campanile di Santa Maria de' Frari.
Ma
a codesta scena appunto che si svolgeva lungo il rio San Polo
stava intendendo lo sguardo la contessa Clelia dal balcone gotico
di una casa di ragione del patrizio Salomon, intanto che l'ultima
notte del mese di febbraio sfoggiava tutto il suo sereno, tutte le
sue stelle e tutta quanta la sua luna! Al di sopra della sua testa
scintillava Giove; ma la contessa era ben lontana dal
considerarlo astronomicamente, come un tempo avrebbe fatto; nè
gli dava nessun pensiero che quel pianeta, sebbene non apparisse che
un semplice punto brillante, fosse circa mille volte più
grande della terra; ed era ben lontana dal notare, quantunque in
altra parte le apparisse la costellazione di Cassiope a lei ben nota,
come il lume di questa costellazione, natante nell'albore della via
lattea, fosse meno brillante della costellazione d'Andromeda! O tempi
per lei felici, e forse non redituri che alla più tarda età,
tempi felici, quando potea attendere a tali oggetti della scienza più
eccelsa, sgombra da ogni altro pensiero! O triangoli obliquangoli, o
parabole, o ellissi, o iperboli, o diametri e triametri, o assintoti
rettilinei, o punti multipli, o curve algebraiche, o radici di
polinomj irrazionali! chi mai, potendo in quel punto esplorare i
pensieri di donna Clelia, avrebbe sospettato che in quella
testa, ora così ardente e fantastica, avessero potuto
penetrare e per tanto tempo avere stabile dimora quelle austere forme
della scienza più austera? Perchè, ci rincresce a
dirlo, se avessimo saputo che si doveva riuscire a tal punto, quasi
ci saremmo astenuti dal trarre in iscena una donna che per tanti
rispetti ci è cara; ma purtroppo ella non pensava in quel
punto nè all'astronomia nè alla matematica, e molto
meno a suo marito; pensava bensì al tenore Amorevoli, e tanto
più che il giorno antecedente aveva saputo come non era stato
esso a trarla in insidia nel ridotto del teatro, e come invece colui
stava ancora in prigione; e, giacché non è a far
mistero di nulla, se ella a quell'ora si affacciava al
balcone, sebbene spirasse una brezzolina crudetta, era perchè
da un palazzo vicino, dove tutte le sere tenevasi accademia di
musica, tra le molte voci cantanti ve n'era una che, quantunque in
minor suono, parea la voce gemella della voce d'Amorevoli. Ad onore
del vero però e della giustizia, dobbiamo dire che se la
contessa stava tutta sola di notte a quel balcone, era inoltre per
fare un atto di carità squisita, che andasse a sconto dei suoi
peccati veniali, un atto di carità a vantaggio di una
giovinetta tanto bella quanto inesperta, la quale stava per far la
figura del rossignuolo quando il serpente a sonagli lo incanta per
farselo volare sulla lingua trisulca.
X
Ma
per spiegare al lettore più cose che forse non ha compreso al
primo, giova sapere come la contessa Clelia fosse stata bene accolta
dalla famiglia Salomon per virtù della lettera di donna Paola
Pietra: giova sapere, che se la persona e il nome della contessa
stettero nascosti per alquanti giorni in Venezia, a poco a poco ne
trapelò qualche notizia tra persona e persona che,
frequentando la piazza di San Marco, portarono in piazza la notizia
medesima; la quale venendo ad intrecciarsi al fatto che si
attendevano al teatro di San Moisè in Venezia, per la stagione
di primavera, la celebre ballerina Gaudenzi, e, per la stagione
futura di carnevale, il non men celebre tenore Amorevoli, presto,
insieme alla notizia ch'era già corsa dell'arresto di lui
avvenuto a Milano pel contrattempo d'una tresca amorosa, e pel
sospetto d'un delitto di più grave importanza, tali e tanti
parlari si sparsero e racconti e congetture e sospetti e domande e
lettere scritte espressamente a Milano, e risposte avute con gran
sollecitudine, che si diffuse per tutta Venezia la novella che la
contessa Clelia V..., la fatale Elena di quella seconda Iliade, erasi
rifuggita in Venezia appunto e dimorava in casa Salamon. Però
non si può dire quanto fosse generale il desiderio di vederla,
di avvicinarla, persin di ammirarla; di esaminare dappresso se era
poi tanto bella come si diceva, se il tenore era stato di buon gusto,
se non aveva avuto torto a sfidare tanti guai, a farsi arrestare, a
serbare un pericoloso silenzio, a rinnovare insomma quasi la tragedia
di Antonio Foscarini per amore e rispetto e venerazione di lei. E la
curiosità fu tanta, che il ponte che attraversava il rio San
Polo, di repente si vide frequentato a tutte l'ore del giorno da gran
numero di persone, per osservare se mai da qualche finestra si
mostrasse la testa della donna che era l'oggetto del discorso
universale. La contessa Clelia, a cui la buona famiglia che
l'alloggiava riferiva quel che dicevasi nella città, stavasene
celata dietro le finestre per vedere tutti senza essere veduta; ma
tra i moltissimi notò una figura che assai le diede da
almanaccare. Quella figura era d'un giovane gentiluomo, gentiluomo,
almeno, per quanto appariva al di fuori, e per la ricchezza
dell'abito e pel veladone di broccato e per la spada col fodero di
velluto bianco; giovane tanto che forse non arrivava ai vent'anni, ed
oltracciò di tant'avvenenza di corpo e di una bellezza così
baldanzosa di volto, che quand'anche ella avesse il pensiero altrove,
lo avrebbe distinto fra gli altri, anche se non le fosse sembrato
d'averlo visto tante e tante volte, e più facilmente a Milano
che in altro luogo. Quel giovane passò un giorno, passò
due, passò tre giorni per di là e più volte
quotidianamente; se non che ella potè accorgersi che non
veniva coll'intenzione della moltitudine, la quale attraversava il
ponte e gettava un'occhiata al palazzo Salomon; ma sibbene ci veniva
per fermarsi a volgere lo sguardo ad una finestra del palazzo
dirimpetto che stava presso al ponte, alla qual finestra compariva
anche una fanciulla. Chiesto di chi era il palazzo, a donna Clelia fu
risposto che apparteneva al patrizio Zen; ma non serviva che
d'alloggio alle figlie di lui, le quali per educazione vivevan
separate dal resto della famiglia; chiesto chi era la fanciulla, le
fu detto essere la maggiore delle figliuole di quel gentiluomo; la
qual giovinetta, che forse non aveva quindici anni e rappresentava il
tipo più vetusto e più legittimo e più completo
della beltà veneziana, era la sorella maggiore di quella
Cecilia, che doveva col tempo, sposata al patrizio Tron, diventar
celebre ed ispirare al grande Parini la famosa ode intitolata: Il
Pericolo.
Donna
Clelia, per accertarsi se quel giovane era colui veramente ch'ella
sospettava, o almeno per raccogliere un indizio di più onde
avvicinarsi alla verità, lo additò un giorno ad uno
della famiglia nel cui seno ell'abitava; affinchè senza farsi
scorgere lo codiasse e lo sentisse a parlare con qualcuno. L'incarico
venne accettato, e senza molta difficoltà, come ognuno può
imaginarsi, in quel dì stesso venne riferito alla contessa che
colui parlava il dialetto milanese. Questo bastò perchè
donna Clelia potesse ritenere d'essersi apposta infallibilmente. In
conclusione ella aveva creduto di ravvisare in quel giovane un tale
Andrea Suardi detto il Galantino, che a diciasette anni era
stato lacchè nella casa del marchese F... ed erasi reso famoso
per la straordinaria velocità delle sue gambe, e per avere
riportato tre volte il primo premio e la bandiera bianca nelle corse,
che, secondo voleva allora il costume, le case più ricche di
Milano, in certi determinati giorni dell'anno, facevan fare ai loro
più riputati lacchè, onde vedere chi lo aveva più
abile e più veloce. Quel giovinetto era dunque diventato una
specie di celebrità del suo ceto, e siccome era di
un'avvenenza non comune, ch'egli accresceva vestendo la livrea di
lacchè con un'eleganza insolita, così veniva da tutti i
grandi signori e accarezzato e regalato abbondantemente, ma il
giovinetto, di mente svegliata ma di trista indole, era stato guasto
da tante carezze e da tanta fortuna. Essendo manesco e rissoso, ad
ogni momento il padrone, che gli voleva bene, bisognava pagasse le
busse, le bastonate e, una volta, persino una coltellata che,
ubbriaco, aveva appoggiato ad un collega nell'acciecamento di una
rissa. Essendo discolo, e ch'era peggio, essendo bello, aveva messo a
mal partito più ragazze del popolo; e il padrone, il quale
aveva della debolezza per quel fanciullo, cresciutogli in casa da un
vecchio carrozziere, s'era trovato costretto più d'una volta a
pagare indennizzi e a far sospender reclami. A tutto ciò
aggiungevasi, che diventato anche giuocatore e non bastandogli più
nè il salario nè le mancie ordinarie e straordinarie, e
avendo debiti di giuoco da pagare, un giorno rubò alcune
monete d'oro al padrone; fatto che, per non essere stato scoperto,
rinnovò più volte; ma alla fine, essendo caduti i
sospetti su di lui ed essendo stato perciò tenuto d'occhio, fu
visto una mattina da due servitori entrare bel bello nella stanza del
signor marchese mentre dormiva, prendere una borsa da un tavoliere e,
vuotatala per una buona metà, mettersi il danaro in tasca. Fu
allora che, riferito e provato il furto, il giovane lacchè
venne scacciato sui due piedi dalla casa F...
Il
marchese vietò ai due servitori di raccontare il fatto in
pubblico, e per qualche tempo continuò il salario al giovane
Suardi, il quale, trovandosi ozioso e fuggito da tutti, ognuno può
pensare come potesse avviarsi al ravvedimento. Se non che,
nell'occasione di una corsa straordinaria avvenuta a Milano tra i
lacchè delle varie città di Lombardia, essendo quei di
Milano, per esser mancato l'intervento di lui, rimasti gli ultimi,
con grave offesa della gloria municipale, il giovane Galantino si
offerse allora di battersi coi tre lacchè vincitori, i quale
eran di Brescia, di Cremona e di Lodi; e la sfida andò di
maniera, che la gloria di Milano riuscì per virtù sua a
rimettersi al primo posto, tanto che egli ricevette doni da tutte le
parti, e si rifece in gala. Inoltre, per quella vittoria, un
gran signore di Napoli, che era venuto allora a stare a Milano, prese
il Suardi al proprio servigio, benchè dopo pochi mesi lo
avesse licenziato, onde il giovane ritornò presto alla vita
scioperata di prima. Ora la contessa Clelia aveva veduto molte
volte quel giovinetto lacchè, e anch'essa, pur nella sua
severità scientifica, aveva applaudito e di cuore a' trionfi
di lui, come avean fatto tutte le dame alle quali, com'è
naturale, doveva essere simpatico quel giovane così bello e
così alacre. È dunque facile a comprendere come,
ad onta del veladone di broccato e dei due orologi e delle ricche
trine e della parrucca ad ala di piccione e del cappellino a tre
punte listato d'oro, e di tutta quella trasformazione, dell'abitino
succinto di lacchè all'abitone prolisso di gentiluomo, a lei
facesse colpo quella figura e quella faccia veduta tante volte;
faccia caratteristica quant'altra mai, perchè ad un profilo
finissimo, ad una bocca quasi da fanciulla, ad un incarnato bianco e
rosato, che parea quello di una educanda non ancora trilustre, facean
contrasto due occhi neri, vivacissimi e pieni di fuoco, ma d'un
taglio così traditore e d'una luce tanto sinistra, che a lungo
lasciava disgustato chi lo guardava.
Che
il giovane Suardi, ossia il Galantino, come veniva comunemente
chiamato a Milano, da questa città fosse passato a Venezia,
non ci era nulla di straordinario, sebbene non fosse questo il luogo
più adatto alla sua professione di lacchè; ma quel che
ragionevolmente doveva promuovere di grandi sospetti era quello
sfoggio repentino del suo abbigliamento e quell'aria di
profumatissimo gentiluomo ch'egli si dava. La contessa, quando lo
vide la prima volta sul ponte, pensò ch'egli avesse fatto una
gran vincita al giuoco, e bizzarro qual era e amante della eleganza e
del lusso, come ne aveva dato un saggio anche a Milano pur nell'umile
sua livrea di lacchè, attendesse allora a gettare i guadagni
in fretta e in furia nel recitare per poco tempo la parte del gran
signore; ma a questa prima congettura ne tennero dietro delle altre,
essendole nota la cagione per cui era stato cacciato dalla casa F...,
e fece così altri sospetti di più grave natura.
Quando poi s'accorse del motivo pel quale più volte al giorno
capitava su quel ponte, e vide la giovane Marina Zen aspettarlo
ansiosa al balcone, e una notte, gettargli anche un letterino;
fremette d'indignazione, e sentì una pietà profonda per
quella giovinetta, che, cedendo alle prime effervescenze del sangue
ed agli arcani desiderj del cuore, si era lasciata cogliere da quel
vago aspetto di giovane, onde impaziente lo attendeva, e mestissima
lo vedeva discendere dal ponte e dileguarsi. Donna Clelia,
nella sventura congenere in cui versava, aveva trovata quella nuova
sollecitudine per i pericoli altrui, e un timore sinceramente
affannoso che una fanciulla sbocciante allora allora dall'infanzia,
cresciuta in tanta distinzione di natali, bella e fragrante come una
rosa, ingenua al punto di abbandonarsi all'insidia per non
sospettarla, fosse per cadere negli avvolgimenti di quel furfante
mascherato.
Lo
spirito, la bontà e il senno di donna Paola erano in quel
punto, trapassati nella contessa; tanto riuscì efficace il
contatto della virtù, che per lei fu una consolazione
l'imitarla.
Da
due notti il giovane Suardi, quando tutto dormiva, entrava nel rio in
gondola; la fanciulla veniva ad una finestra del pepiano, come
la chiamano i Veneziani; ed egli salendo al di sopra del felze,
alzandosi in sulla punta de' piedi, e protendendo la mano, poteva
toccar quella della fanciulla che, volendo e disvolendo, pur gliela
concedeva. La contessa Clelia stava in sull'ali, e se non s'intromise
prima in verun modo fu perchè, dopo pochi minuti, in quelle
due notti, la fanciulla erasi ritirata, il giovane era disceso, e la
gondola, movendo muto il remo, erasi dileguata. Pur quelle visite
notturne, continuando, potevano esser causa d'irreparabili sventure,
onde la contessa pensò che fosse debito suo il vegliare
assidua e attenta. E in fatti, in quella notte in cui abbiam visto la
contessa Clelia al balcone mentre le scintillava il pianeta di Giove
in sulla testa, quel Giove tanto abile a trasformarsi per tendere
insidie alle giovani beltà più celebrate della
mitologia; nel punto che si smezzava in seno la passione propria e la
pietà per la passione altrui, s'accorse della gondola consueta
che procedeva nel rio; e di lì a poco, ferma che fu la
gondola, vide affacciarsi la Marina, e tosto impegnarsi un dialogo
sommesso e una corrente elettrica di sospiri affidati all'aria. Il
Suardi stava, come di solito, sul felze; ma, ad un certo punto, come
un leopardo che spicchi un salto traditore, gettò una corda al
balcone, e di slancio fu al contatto del viso della fanciulla. Se non
che, quasi contemporaneamente, si spalancarono a battere
rumorosamente sui marmi le imposte della finestra del palazzo
dirimpetto; e il Suardi sentì una voce squillante di donna a
gridargli: Galantino! La fanciulla si ritrasse e chiuse i
vetri; egli si volse a saettare la pupilla ardente, come un serpe
inferocito percosso nella coda. Il raggio della luna, per una
divisione che era tra palazzo e palazzo, penetrato allora nel rio,
illuminava la finestra dove stava ferma donna Clelia in tutta la
maestà della sua faccia di Minerva. Ci fu un istante di
profondissimo silenzio e quasi terribile. Il Galantino ravvisò
la contessa.
XI
Tanto
la contessa che il Galantino stettero per qualche tempo immobili e
perplessi, la prima al balcone, il secondo sul felze della gondola;
donna Clelia fu molte volte in procinto di parlare, molte volte il
Galantino fu tentato di avventare ingiurie a quella che in così
mal punto lo aveva sorpreso. Il pensiero però di essere stato
riconosciuto, lo aveva colpito in modo che gli tolse il coraggio e la
sfrontatezza; onde senza dir nulla, saltò dal felze alla poppa
e mosse la gondola. Allora la contessa si ritrasse assai turbata,
perchè dopo la prima compiacenza d'aver salvata una fanciulla
inesperta, gli sorvennero i timori per sè stessa; poiché,
ben conoscendo l'indole tristissima di quel giovinetto, rifletteva
che, nella condizione in cui ella trovavasi, da quell'incontro
disgraziato potevano derivarle altri guaj. Donna Clelia non sapeva
che in parte come stessero e camminassero le cose a Milano, e ciò
pel carteggio che teneva con donna Paola Pietra, la quale da un lato
prudentemente le taceva alcune cose, e dall'altro non poteva conoscer
tutto nemmeno essa. La contessa aveva dunque raccolto dalla terza
lettera l'arresto di Lorenzo Bruni, tutore della Gaudenzi; aveva
maravigliato al racconto della maschera di cui era stata la vittima;
si era consolata al pensiero che Amorevoli era ancora in prigione;
che sorta di consolazione! ma il cuore umano è fatto così.
Aveva saputo le pratiche che in sui primi giorni i parenti di lei, la
madre, il marito avean fatto per tentare di venire sulle sue traccie,
ma come s'eran poi racquetati. Se non che donna Paola aveale scritto
che a Milano correva qualche voce, non sapeva poi in che maniera,
della sua dimora nella città di Venezia, e che però
attendesse a stare nascosta e ritirata; che in ogni modo le avrebbe
fatto noto prestissimo se potesse trattenersi a Venezia con fiducia,
o le fosse necessario rifuggirsi ad altro luogo, con maggiori cautele
di quelle che si erano usate prima. Non è dunque a dire
quanto, dopo avere appagato lo slancio generoso della sua pietà,
si pentisse del non essersi saputa misurare e tener nascosta pur nel
momento ch'era accorsa all'altrui soccorso. Se avesse saputo che,
nell'intenzione di tutto il patriziato amico de' suoi parenti, si
desiderava invece che ella stesse lontana da Milano, e si fingeva di
non conoscere dov'ella si fosse ricoverata, perchè alle loro
mire giovava il supposto che Lorenzo Bruni, più che della
contravvenzione alle leggi sulle maschere, fosse colpevole d'un
rapimento eseguito da altri per conto suo, non si sarebbe dato tanto
affanno dell'essersi fatalmente incontrata coll'ex-lacchè di
casa F... Del rimanente, se donna Clelia poteva aver qualche timore
della presenza del Galantino in Venezia, non è a dire quanto
costui, dopo il sobbollimento della prima sorpresa, e dopo la prima
furia, maledicesse cento volte la coincidenza del trovarsi la
bellissima giovinetta Zen nel palazzo dirimpetto al quale doveva
venire a dimorare la contessa Clelia V... Ma ciò che lo coceva
e gli metteva in cuore di strane paure, chè ben egli sapeva
come stava, era quell'essere stato sì tosto riconosciuto,
trasvestito qual era e pur fra l'oscurità; onde mille altri
sospetti gli entrarono nell'animo.
Per
quanto il Galantino della pravità avesse tutta la naturale
vocazione e la sfrontatezza, e fosse di quelle complessioni fisiche
così perfettamente costituite, che non sono accessibili
nemmeno ai turbamenti morali; talchè ai disappunti, agli
sfregi, al disonore, alla cattiva fama aveva fatto il callo, pure non
dormì troppo tranquillo in quella notte. Alla mattina però
si rinfrancò tutto quanto, chè coll'aria fresca che
veniva dalla terraferma gli sorvennero anche i secondi pensieri. E si
maravigliò di non aver considerato a tutta prima le
circostanze speciali in cui versava la contessa Clelia V...; poichè
anch'egli conosceva la storiella di Milano, e la fuga di lei, e
com'ella se ne stesse in Venezia di contrabbando. Perciò,
d'uomo assalito qual egli era, pensò di farsi assalitore,
cangiando in sull'istante, sul campo di battaglia, e tattica e
strategia; e d'una in altra cosa fermò il partito di recarsi a
fare una visita alla contessa. Nessuno può imaginarsi la
straordinaria svegliatezza della mente di quel tristo giovine, e il
colpo d'occhio onde sapeva scansare i pericoli nel punto di
affrontarli, e come, ad onta di così poca età e di una
educazione sì rozza, avesse il senso di quelle cose che non
s'imparano che cogli anni, colla squisita coltura e con una gran
pratica di mondo. Aveva poi una memoria prodigiosa e una facilità
strana d'apprendere, tantochè, per venire ad un esempio, in
quel mese da che stette in Venezia, si era impadronito d'una buona
metà del dialetto veneziano e già ne faceva qualche
sfoggio pe' suoi fini. Non è poi a dire come della propria
bellezza, di cui non s'invaniva, ma che valutava, quasi a prezzi di
stima, aveva stabilito di cavare quel partito che altri trarrebbe
dalla ricchezza e dalle altre facoltà che hanno peso e misura;
sicchè, contando sulla forza qualche volta onnipotente d'un
bell'esteriore, aveva pensato che a lui sarebbero state lecite tante
cose, che agli altri potevan venire ascritte a colpa. Perciò
aveva gran cura della propria bellezza, e dell'incarnato delle
proprie guancie; e dei denti bianchissimi, che puliva e curava colla
sollecitudine del soldato il quale sfrega col pomice la bajonetta,
non per amore della bajonetta, ma perchè gli deve servire in
fazione. La natura insomma aveva largito a lui tutti i suoi
doni, ma egli aveva condotto le cose in modo da convertirli tutti in
altrettante armi d'offesa, e ciò senza nemmeno averne avuto un
proposito deliberato; sibbene, torniamo a ripeterlo, per quella
pravità irresistibilmente attiva della sua natura, che solo
sarebbesi mitigata, o fors'anco si sarebbe tramutata in qualche altra
cosa, se avesse avuto un'altra nascita e un'altra educazione. Allora
non sarebbe stato il Galantino piè-veloce, ladro e truffatore,
come lo vediamo indicato nelle carte che abbiamo sott'occhio, ma
sarebbe riuscito un gemello, per esempio, di Fouché o di
Talleyrand. A quell'ex-lacchè travestito occorrevano molte ore
di toaletta; e in quel mattino adoperò la pomata di riserva,
per poter far visita con un certo successo, secondo lui, alla signora
contessa.
Vestì
pertanto l'abito più sfarzoso che aveva; un veladone ampio
di velluto nero, tutto tempestato di puntine d'oro, col panciotto
d'una stoffa a duplice trama di fil d'argento e di fil di seta
azzurra, che dava molteplici combinazioni di luce, d'ombra e di
colori ad ogni screzio di piega; coi calzoni corti di spinone, aventi
legacci di velluto a punte d'oro come il veladone, e fibbie di
brillantini; tutto il resto faceva corredo e complemento rigoroso al
vestito principale.
Non
solo adunque aveva adottato lo sfarzo e la ricchezza, chè a
ciò poteva arrivare in ventiquattr'ore qualunque villico
arricchito; ma nelle stoffe, nei colori, nel disegno de' ricami,
nell'eleganza totale dell'acconciatura, metteva l'intelligenza
dell'uomo squisito, e persino il colpo d'occhio dell'artista, talchè
pareva un cavalierino che tenesse il privilegio del buon gusto dal
lungo uso della ricchezza, dalle continue consulte col sarto, dai
viaggi a Parigi, che allora era il quartier generale della moda, e lo
era diventato fin dal tempo di Luigi XIV, che gli storici si
sentirono obbligati a chiamar grande, forse per non aver
pronta in quel momento un'altra parola. Ma venendo ora al fatto,
quando il Suardi fu bene in assetto, dalla casa ove dimorava, presso
al palazzo Pisani in campo san Stefano, discese al rio, ove
l'attendeva la gondola con un gondoliere in livrea, al quale,
nell'entrar sotto il felze, gridò: Casa Salomon.
Allorchè la gondola si fermò davanti allo scaglione di
quella casa, Galantino diede al gondoliere un breve portafoglio di
seta legato con nastri, fuor del quale spuntava una cartolina.
Allora, come ognun sa, non c'eran biglietti di visita propriamente
detti e propriamente fatti, ma c'eran i loro precursori; e giacchè
era il secolo delle eleganze più profumate e delle caricature,
chi voleva farsi annunziare a qualcuno per una visita, faceva
presentare al guarda portone, perchè lo facesse avere al
padrone della casa, un bigliettino su cui scriveva il proprio nome,
il qual bigliettino veniva sempre collocato in un portafoglio, in un
astuccio, in un vezzo qualunque; e tali vezzi qualche volta avevano
un gran valore, essendo d'argento, d'oro e persino ornati di pietre
preziose; a seconda della ricchezza del visitatore, e del bisogno che
aveva di rendersi gradito e d'imprimersi bene nella memoria di chi
voleva visitare; perchè era di prammatica che il padrone o la
padrona di casa, tolto il foglietto, e letto il nome, si tenesse il
vezzo per sè, come pegno e come dono. Il Suardi, che conosceva
tutte queste bizzarie della moda, aveva creduto bene di farne uso in
quell'occasione. Il gondoliere, chiesto pertanto della signora
contessa V..., presentò al servo il portafoglio di seta (la
prammatica non voleva che in una prima visita si sfoggiassero i
metalli fini e le gemme). Il servo, il quale era stato indettato
dalla padrona di casa fin da quando la contessa le era stata
raccomandata, rispose non saper nulla di quel nome, ma che avrebbe
fatta l'ambasciata alla padrona stessa. Questa era in casa, e disse:
Va dalla contessa, e domanda a lei quel che si ha a fare. Dal
nome che è lì dentro ella piglierà norma. Così,
entrato il servo nell'appartamento della contessa e fattosele
annunziare, le presentò il portafoglio di seta; la contessa
levò il foglietto, e lesse Galantino, per due
parole. Rimase stupita e sconcertata. Il servo, ch'era a
parte degli arcani, le chiese se avesse a licenziare il gondoliere.
La contessa non sapeva che risolvere; fremeva e arrossiva al pensiero
di dover ricevere una tal visita. Dall'altra parte temeva a
rimandarlo; però, dopo molte titubanze:
Fallo entrare, rispose.
Galantino,
ad onta della sua baldanza, stava pure in gran paura non gli venisse
un rifiuto dalla contessa: perciò quando il suo gondoliere e
la livrea di casa Salomon gli dissero di restar pure servito, balzò
fuori dalla gondola tutto pago e colla sua baldanza raddoppiata, e
s'avviò, preceduto dal servo, all'appartamento della contessa,
annunciato lungo i corridoj e le vaste anticamere dallo scricchiolio
delle sue scarpe di sommacco. Quando il servo spalancò i
battenti dell'uscio della sala ove stava la contessa, egli si
trattenne in gran rispetto, sulla soglia, curvando il tergo e
chinando la testa fin quasi alle regioni dell'ombilico, di modo che
l'elegantissimo fodero della sua spada, alzandosi in quel movimento,
veniva colla punta a trovarsi a livello della testa. La contessa
Clelia, stando in piedi, colla mano dritta appoggiata ad un
tavoliere, come una regina Elisabetta in atto di dare udienza, chinò
leggerissimamente il capo, in maniera però come s'ella
tentasse d'ingannare sè stessa sulla realtà di
quell'atto. Ma Galantino alzatosi tosto, varcò la
soglia, e fu nel mezzo della sala, faccia a faccia con donna Clelia.
Il servo si ritrasse, nè la contessa gli osò dir di
fermarsi. quantunque ne avrebbe avuta tutta la volontà. Passò
qualche momento in cui Galantino stette aspettando che donna Clelia
si ponesse a sedere; ma quando vide ch'ella non movevasi, senza
mostrare il benchè minimo disdegno a quell'attitudine di
regina in trono, con una disinvoltura piena di garbo e con un sorriso
dolce, sebbene un po' affettato, le offerse egli stesso una sedia,
rompendo in questi termini il silenzio:
Signora contessa, io non sono più il Galantino di Milano, sono
il signor Andrea Suardi, venuto a fermar la mia dimora a Venezia,
perchè qui, secondo il mio gusto, si spendono meglio i danari
e si gode meglio la vita. La fortuna mi è stata favorevole, e
le carte e i tavolini verdi hanno fatto venire nelle mie mani il
danaro altrui. Oggi sono benestante e ricco...; col tempo poi non è
affatto improbabile ch'io diventi anche nobile. Conosco due o tre qui
di Venezia, che cent'anni fa attendevano al miglioramento delle carni
suine, ma che per aver fatto in processo di tempo un prestito alla
serenissima repubblica, oggi son nobili, dell'ultima qualità
questo s'intende, ma nobili in ogni modo. In quanto a me poi,
l'assicuro, signora contessa, che del mio passato appena mi ricordo.
Così
dicendo, e porgendo la sedia, col gesto pregava donna Clelia a voler
sedere. Per quanto la contessa sentisse dentro di sè sdegno e
disprezzo e persino paura di quel vezzoso serpente che le stava
davanti, pure si lasciò per il momento quasi deviare e placare
da quell'aspetto così vago e sorridente, da quell'eleganza
così profumata; credeva, ma senza che nemmeno sapesse formular
la cosa a sè medesima, che quel volto geniale, que' modi
eleganti e quel ricco vestito costituissero come un muro di divisione
tra lei e l'abbiettezza e la tristizia di quel giovane. L'uomo
è così fatto: anche il più sapiente, anche il
più astuto ama lasciarsi ingannare dall'apparenza, anche
allorquando sa benissimo che di sotto sta il marcio. La
contessa dunque accettò la sedia, e dirimpetto a lei si pose a
sedere il Galantino.
Mi rincresce, disse allora questi, ch'io debba incominciare il mio
discorso con un rimprovero... e sorrideva maliziosamente, mentre la
contessa, abbassando gli occhi, non rispondeva. Che malefizio
egli è poi, seguiva il Galantino, perchè lo si debba
rompere in due da chi veglia a notte tarda, che malefizio può
essere egli mai che un giovinotto, il quale non è ammogliato,
faccia la sua corte ad una ragazza che non è maritata?
E
fece un'appoggiatura su questa parola, e nel pronunciarla, tutto il
dolce che prima avea tentato di accumulare nella sua vivace pupilla,
scomparve, per lasciar intravedere un guizzo di luce sinistra e
serpentina.
La
contessa, tutta rimescolata a quelle parole, alzò di repente
gli occhi che aveva tenuti abbassati, e li fermò con tanta
serietà negli occhi mobilissimi del Galantino, che questi
pensò di ammorbidire la lama, e di darle una piega.
Io non aveva cattive intenzioni (continuava), e non ne ho; ma che
colpa è la mia se quella ragazza è la figlia del conte
Zen? poichè, venga il diavolo a portarmi via, ma posso giurare
che aveva tanto la testa ai tavolini verdi in questi giorni, ch'io
non pensavo a ragazze; ma colei mi parlò tante volte e così
chiaro con que' suoi occhi da penna di pavone, che a non tenerle
dietro e a non accompagnarla per vedere dove fosse il suo palazzo,
sarei stato una gran bestia.
Il
lettore si avvedrà come lo stile di queste ultime parole di
Galantino faccia un po' di sconcordanza coi modi eleganti del suo
primo presentarsi; ma un giovane che era nato da un carrozziere, ed
era cresciuto tra le gambe de' cavalli, e dai dieci ai vent'anni non
aveva fatto altro che correre, facendo a gara con essi, bisognava
bene che di tanto in tanto, a sua insaputa, e ad onta della sua
straordinaria attitudine a saper uscire da sè stesso,
lasciasse tuttavia trapelare fra poro e poro l'acre odor di cipolla.
Se
non che la contessa non lo lasciò continuare, e soggiunse:
In conclusione, per qual fine voi oggi siete venuto da me?
Per due oggetti.
Quali sono?
Uno è dedicato all'ottima signora contessa, e s'inchinò;
l'altro deve fruttare interamente per me; e del resto, una mano
lava l'altra.
Non vi comprendo affatto.
Mi lasci parlare, e vedrà la signora contessa, che forse le
verrà fatto di capirmi.
XII
A
queste parole donna Clelia si alzò, fece alcuni passi, e si
recò in sull'uscio, con aria sbadata in apparenza, ma per
vedere se qualche servitore fosse lì presso; poi ritornò
all'obliqua scherma di quel dialogo, disposta a parlar chiaro e a non
lasciarsi intimorire.
Sentiamo dunque, ella disse, qual'è la cosa che pretendete
usufruttare per voi.
Una cosa semplicissima, signora contessa, ed è questa, che,
dal momento che in Venezia ella è la sola che sappia quel che
io sono stato una volta, voglia così aver la compiacenza di
non guastare con delle importune rivelazioni la mia condizione
d'adesso. La qual cosa spero che la signora contessa non mi vorrà
negare, anche per riguardo a ciò, che, se io, per esempio,
andassi a Milano, e qualcuno mi chiedesse dove sta al presente donna
Clelia V... io non avrei certamente l'obbligo di tacere; e allora, a
che scopo mettersi in carrozza; e correre a rompicollo per togliere
la lena a chi poteva venir dietro, se il signor conte non dovesse far
altro che attaccare i cavalli di posta, noleggiar la gondola di
Mestre, e venire a Venezia, a ripigliarsi la sua moglie?
Parliamo di voi, disse allora con piglio assoluto la contessa; di voi
e de' vostri bisogni, e lasciamo agli altri la cura dell'altre cose.
Il Galantino fu punto dall'accento altero più che dalle
parole di lei; onde si alzò anch'esso, e volendo come
insegnarle ad essere un po' più umile, assunse un fare
triviale e sguajato.
Ma sapete però ch'è bella, signora contessa?... di
tante donne e gentil donne, di tanti guarnelli e guardinfanti che
stanno a Milano, chi avrebbe detto che la più fredda doveva
essere la più calda, e che le balzane meglio impiombate
dovevano poi essere le più leggiere? Però, bisogna
confessarlo, la signora contessa è stata di buon gusto, e
vivano gli artisti da teatro; anch'io, per esempio, se trovassi una
donnetta di quelle che s'imbellettano in camerino, potrei mettere da
un canto la contessina bionda, e appagare così i rigori della
sua protettrice.
Senti, Galantino, vuoi tu ch'io suoni il campanello, e dica al
servitore di condurti alla gondola? Bada che in questa casa capitano
patrizj del Gran Consiglio, procuratori e avogadori, e se io dicessi
loro chi sei tu e chi eri tu e cosa tu hai fatto, e come tu vesta da
gentiluomo essendo stato un lacchè, per tentar le figliuole
dei nobiluomini veneziani, presto ti metterebbero al bujo; a Venezia
si fa presto, e sarebbe per loro un tratto d'indulgenza a scrivere al
Senato di Milano; e siccome chi si traveste e si vende per quello che
non è mette di grandi sospetti, non so quel che il Senato di
Milano farebbe di te quando il Senato di Venezia pensasse a
consegnarti al Pretorio del confine del ducato, perchè
t'inviasse dritto al Capitano di Giustizia! Sappi, che il tuo nome
passò per più bocche la notte che i servitori di casa
F... vider l'ombra d'un uomo a fuggire dalla stanza del marchese...
Queste
ultime parole furono di tanta forza, che il volto del Galantino
corrugato allo scherno, si spianò a un tratto, come se gli si
rilasciassero tutti i muscoli; e il colore incarnato e vivace, per la
prima volta forse, fuggì da quella faccia tanto bella quanto
sfrontata.
Ora
convien sapere, che tra i molti sospetti venuti alla contessa sul
conto del Galantino, quando lo vide per la prima volta a Venezia in
quello sfarzo, fece presa nell'animo suo anche questo, che la
ricchezza di lui fosse la conseguenza di quel delitto, e ciò
per la ragione, che la mattina del giorno successivo all'arresto
dell'Amorevoli, quando a tutti quanti in casa V... pareva
inverosimile e assurdo che il tenore potesse aver avuto interesse a
quel trafugamento, un servitore tra gli altri, entrò a dire:
Scommetterei che è stato il Galantino. Quel sospetto
gettato là da un servitore parve una gran sciocchezza, perchè
fu subito fatto osservare che il Galantino non avrebbe mai fatto lo
sbaglio di aprire uno scrigno dove non v'era che della carta scritta,
essendo noto il suo attaccamento sviscerato all'oro e all'argento
sonante... e una risata generale mandò per allora quel
sospetto agli atti di casa V..., donde non era mai uscito o, almeno,
non ne era uscito in modo da poter viaggiare sino al Pretorio.
Ora, che la contessa, in quelle strette di cuore e in quella febbre
d'amore, avesse dovuto occuparsi di quell'indizio criminale, il
lettore sarà abbastanza ragionevole per non pretenderlo.
Ma quelle parole del servitore, Scommetterei che è
stato il Galantino parole che erano scomparse affatto
dalla memoria della contessa, le si riprodussero tali e quali, alla
vista di lui in Venezia, come quando torna a dar fuori una macchia
untuosa non ben lavata dalla saponaria. Non gliene avrebbe però
mai fatto motto in quel dialogo, se il Galantino non l'avesse
stuzzicata con quella baldanza (e qui fece un errore indegno di lui),
baldanza che una dama di condizione non poteva sopportare. Dopo
tutto, convien confessare che la contessa si comportò con più
fermezza e colpo d'occhio di quello che si sarebbe potuto aspettare;
onde ci pare non sia sempre vero che lo studio della scienza dei
corpi celesti tolga agli intelletti la facoltà di saper
distrigarsi bene anche delle cose terrestri.
Intanto
però il Suardi aveva avuto tempo di ricomporsi, e insieme col
colore che gli era tornato sulle guancie, gli ritornò anche in
petto la fidanza; per la quale riprese di nuovo il fare squisito del
gentiluomo che aveva dimenticato per un momento con tanto suo danno.
Pur
troppo un piè messo in fallo può balzare dall'amenità
di un luogo montano in un precipizio.
Signora contessa, disse poi, ella mi fa torto, o, per dir meglio,
ella fa torto a sè stessa, dando luogo a sospetti di simile
natura. Che ho a far io col defunto marchese F...? che interessi mi
legano a lui? poichè, se non mi fu riferito il falso, credo
che si tratti di un testamento...; ella dunque vede bene, signora
contessa, che egli è vero ch'io fui il suo lacchè, e
che, se quel signore ebbe qualche vanto al mondo, fu per aver avuto
il primo lacchè di Lombardia a' suoi servizj, ma ciò
non fa ch'io sia un suo parente.
Donna
Clelia taceva, ma nella sua testa era penetrata la convinzione che
quel che aveva sospettato era vero.
Nella
bilancia della giustizia legale, il rossore, il pallore e lo
smarrimento sono imponderabili morali; ma nella bilancia dell'uomo
valgono più della stessa colpa confessata.
Bene,
qualche volta dà il caso che, nelle nature eccessivamente
sensitive, il rossore ed il pallore compajono per quelle arcane
movenze dello spirito, che si conturba pur al semplice annunzio delle
colpe altrui, ma ciò non poteva succedere in quella natura di
cuoio del lacchè Galantino: il quale, se potè
sgomentarsi alle parole della contessa, fu perchè era
tutt'altro che preparato a sentirle, e la sorpresa lo rovinò;
chè, sotto il lavoro immediato della sorpresa, l'uomo di
solito smarrisce il suo carattere abituale.
Ma
alle parole del Galantino così rispose la contessa:
Io ti dico quel che si pensa di te a Milano, non già quello
che ho pensato io, nè che penso adesso. Io non sono la
giustizia, e basta che io pensi e provveda a me. Ti dico soltanto che
può bastare un sospetto a perdere un uomo, e che perciò
ti giova arar dritto e prudente, e non immischiarti colle famiglie
patrizie di Venezia e non toccar le loro figlie, perchè
l'orgoglio dei Veneziani è tale, che guai se scoprissero
quello che tu sei... chè d'uno in altro fatto... si
potrebbe... tu mi comprendi...
Obbligarmi a non far la corte a nessuna delle belle patrizie
veneziane, rispose il Galantino, è un pretender troppo,
signora contessa, nè io so se in questo, quando mai si
presentasse una bell'occasione, potrò accontentarla. Pur d'una
cosa trovo che è mio dovere l'esaudire i suoi desiderj;
perchè, se la signora contessa conosce la famiglia Zen e ne ha
preso a proteggere la bella figliuola, io mi asterrò da questa
pratica, sicuro per altro di far un gran dispiacere alla ragazza, del
qual dispiacere voglia ella, signora contessa, pigliarsi tutta la
responsabilità.
Donna
Clelia non rispose, e il Galantino si licenziò, grazioso,
sorridente e gajo, in apparenza, come un damerino a cui la dama
adorata gli avesse detto di sperare.
Quando
la contessa rimase sola, chiamò il servitore cui raccomandò
di non lasciar mai più entrare quel signore, poi si mise a
fare tra sè e sè una consulta su ciò che gli
restava ad operare in quella circostanza.
Pensò
a quello strano e quasi inverosimile concordo di accidenti, pel
quale, in un modo lontanissimo da tutte le previsioni imaginabili,
venne a scoprire, o credeva almeno, l'uomo che era fuggito in quella
notte fatale dalla casa F... e da cui era nato tutto il parapiglia.
Per quanto però ella ne tenesse la convinzione, e a sè
stessa avesse potuto giurare che il Galantino e non altri era
l'autore del trafugamento; pure rifletteva che la convinzione morale
è una cosa troppo lontana dalla certezza fisica, per poter
così di leggieri mettere nelle mani della legge inesorabile un
giovane che, per quanto fosse tristo e avesse tutta la capacità
a quel delitto, pure non si poteva assolutamente escludere dalla
possibilità la sua innocenza in quel caso speciale.
Considerava poi che non era facile a trovare la cagione verosimile
del trafugamento consumato da quell'ex lacchè di casa F...;
perchè e documenti scritti e testamenti non avevano nelle sue
mani nessun valore utile per lui. Ella sentiva inoltre un'avversione
invincibile a farsi denunziatrice di un fatto a danno altrui, anche
data la piena certezza della colpa, anche data la certezza che, a
tacerla, si potesse recar mali gravissimi ad altri. Son le solite
lotte dell'intelletto e della logica col dominio del sentimento o di
quei sentimenti che, generati da controversi principj e da
pregiudizj, si piantano nel cuore dell'uomo a trattenere i consigli
della ragione e della coscienza. Siccome poi la comparsa in giudizio
del lacchè Galantino, come reo imputato del trafugamento,
poteva aprir la porta alla prigione del tenore Amorevoli, così
l'eccesso di questo desiderio era d'impaccio a donna Clelia, la quale
avrebbe voluto che il vero balzasse netto e schietto sul banco del
giudice, senza che ella vi dovesse aver parte. In ogni modo, dopo
aver messo a contatto e in disputa nel suo cervello tutti i pro e
tutti i contro, pensò di scriverne alla sua consolatrice e
consigliera donna Paola Pietra, sotto condizione del più
profondo segreto.
LIBRO
TERZO
Il
capitano di giustizia marchese Recalcati. I protettori dei
carcerati. Benedetto Arese e Pietro Verri. Il conte
Gabriele Verri. Sistema rigido d'educazione nel secolo
passato. Problema storico. Pietro Verri e la campana
della piazza de' Mercanti. Le difese del Verri e dell'Arese.
Lo zio di Cesare Beccaria. I giuochi d'azzardo e il ridotto di
San Moisè in Venezia. Una curiosa notizia intorno al
Senato di Milano.
I
Prima
di partire per Venezia abbiam lasciato donna Paola Pietra che usciva
dalle stanze del marchese Recalcati. E quella visita potè
recare un gran bene, in quel punto segnatamente che il Bruni e
l'Amorevoli, nella casa della giustizia, per un perfido giuoco della
sorte, erano alle prese coll'ingiustizia. La lettera scrittale dalla
contessa nel tumulto della passione le aveva data piena facoltà
di riparare i danni che essa non avea potuto stornare in tempo. Però
donna Paola assunse quel mandato a rigore di scrupolo e nell'intento
di soddisfare a ciò che era giusto ed onesto in tutti i modi
possibili. Si tenne dunque informatissima e delle voci che correvano
in pubblico, e di ciò che facevasi in privato, e, fin dove era
possibile, dell'azione interna delle pubbliche magistrature. Visitata
com'era di frequente dalle persone più distinte della città,
giunse a subodorare le intenzioni celate dietro alle formalità
apparenti; chè per quanto, come dicemmo, i processi criminali
camminassero segreti, pure dov'eran tanti assessori e attuari e
scrivani, uscivano un po' per volta a circolare tra pubblico e
pubblico le cose che più volevano tenersi nascoste. Donna
Paola seppe dunque che il parentado della contessa aveva gettato i
dadi opportuni per far credere ch'ella fosse vittima innocente di
qualche terribile intrigo; seppe inoltre che sulla contravvenzione
alla legge commessa dal Bruni si volevan edificare altri supposti ed
altre cose, perchè colui dovesse pagare i debiti di tutti. Del
resto donna Paola era quella precisamente che doveva conoscere più
d'ognuno (e il cuore le faceva sangue rammentando il passato) come lo
spirito di corporazione talvolta, a quel tempo, facesse tacere la
voce dell'assoluta giustizia. A prevenire così, in quanto
dipendeva da lei, le conseguenze possibili di quelle oblique
insinuazioni, aveva risolto di far visita ella stessa
all'illustrissimo marchese Recalcati, che aveva fama d'uom dotto e di
rettissime intenzioni, ma per modestia e per bontà era
d'indole pieghevolissima, e cedeva facilmente a chi stava o più
in su di lui, od era pari a lui per grado di magistratura, e lo
soverchiava poi per ostinazione di principj e d'opinioni, e per
superiorità di ingegno e d'eloquenza. Donna Paola
sapeva poi che i membri del nobile collegio dei giureconsulti, e i
giudici e i senatori (eccettuato qualche uomo specialmente rigido, e
quel senator Goldoni, pensando al quale essa fremeva ancora), presi
ad uno ad uno, quando la loro testa e la loro coscienza moveva libera
e nell'atmosfera sgombra della giustizia legale, temperata dalla
giustizia morale, sentivano e vedevano e desideravano e comandavano
il vero bene, ma poi, quando si fondevano in quella formidabile unità
del collegio e del Senato, sovente venivano a comprovare quanto fosse
vera la sentenza ciceroniana de' Senatores boni viri, con quel
che segue. Armata dunque di tutti questi dubbj e di tutti
questi sospetti, per tacere del senno e dell'esperienza, donna Paola
si recò negli uffici del Capitano di giustizia. Quando al
marchese Recalcati fu annunziata la sua visita, insieme colla
meraviglia, provò qualche sensazione che non era tutta di
piacere, chè ben conosceva anch'esso quella celebre e
venerabil matrona, e la di lei carità operosa e vigile; e
sapeva inoltre come colei non facesse mai passo che non fosse per
cosa della più grande importanza, e che, allorquando ella si
proponeva un fine, animata qual era dalla convinzione e dall'amore
del bene, non si rimanesse mai a mezza via, per qualunque ostacolo
incontrasse. È poi ad aggiungere, che, in quel giorno della
visita di donna Paola, la coscienza di quell'ottimo magistrato non
era tranquillissima, onde in tutto ciò che gli si presentava
di straordinario, gli parea come d'affacciarsi in un rimprovero
Nulladimeno
l'illustrissimo signor marchese, quando donna Paola Pietra entrò,
le mosse incontro con atto di profondissimo rispetto, e avanzato di
propria mano un seggiolone, la pregò a sedere.
Qual grave affare, soggiunse poi, ha determinato la signoria vostra
venerandissima a venire in questa casa della colpa e della sventura?
Il desiderio appunto, illustrissimo signor marchese, d'impedire
qualche possibile sventura, e di stornar qualche colpa. Ma di una
cosa io le debbo innanzi tutto far domanda.
Parli.
Vorrei sapere se il signor marchese può ascoltarmi, non nella
sua qualità di capitano di giustizia, ma come semplice e
privatissimo gentiluomo, e al bisogno farsi depositario di un
segreto?...
È un segreto relativo alle cose della mia carica e alla sorte
di coloro che dipendono da me?
Esso è tale appunto.
Allora debbo dire, che se dal fatto che mi venisse rivelato, potesse
cangiarsi ed anche semplicemente modificarsi lo stato di qualche
processo, io non potrei più in coscienza conservare il
segreto.
Donna
Paola stette per qualche momento silenziosa, poi disse:
Parlerò in ogni modo.
Io sto ad ascoltarla.
In queste prigioni son detenuti da qualche tempo un tale Amorevoli
cantante, e un tal Bruni Lorenzo suonatore di violino?...
Il
Recalcati si scontorse, e affermò col cenno.
Ora, siccome è facile congetturare (seguiva donna Paola), che
la condizione di costoro può migliorare o peggiorare a seconda
delle rivelazioni che qui dentro potessero penetrar dal di fuori,
così venni precisamente a farle una rivelazione, che può
di subito mandarli ambidue assoluti o quasi... ma il nome ch'io debbo
pronunziare ha bisogno del massimo riguardo, e converrebbe che non
uscisse da quest'aula.
Vossignoria parli pure con fiducia.
Il nome è quello dell'illustrissima contessa Clelia V... Se
una strana fatalità non sopravveniva, sarebbesi recata ella
stessa qui a confessare a V. S. illustrissima com'ella sola fosse
stata l'oggetto di quella visita dell'accusato Amorevoli. Or io vengo
per sua commissione e in nome suo a far questa deposizione appunto.
Siccome poi ho sentito a correr tra il popolo la voce, anzi la
credenza, che quel suonatore, sotto la falsa maschera, celasse il
fine di tenderle un'insidia gravissima, ed anzi di trafugarla o di
farla trafugare; così vengo ad aggiungere che la contessa è
fuggita di sua piena volontà, senza aver piegato ad
insinuazione d'altri, col fermo proposito di abbandonare una casa
dove, secondo lei, non poteva più vivere. Delle quali cose
potrò a suo tempo ed a richiesta della signoria vostra
illustrissima esibire le prove.
Ma dove s'è rifuggita?
V. S. illustrissima non ha mai sentito a parlare di questo?
A me finora non consta nessun fatto preciso. Molte voci ne corsero.
Ma sa ella, rispettabile signora, dove di presente si trovi la
contessa?
Siccome una tale notizia non giova nè nuoce a nessuno, e
soltanto potrebbe far danno alla signora contessa, così V. S.
illustrissima non troverà essere un contrattempo che anch'io
possa ignorarla.
Il
marchese stette muto per qualche istante; poi disse:
Io ringrazio di cuore, venerabile donna, l'alta e operosa sua carità
per la quale ha voluto venir ad illuminare la giustizia. Soltanto
debbo dirle che codesta sua carità la esporrà al grave
incomodo d'esser sentita più e più volte in giudizio.
Ed io sarò sollecita, ella conchiuse, di far in modo che tutto
corra a vantaggio del vero e del giusto; e ciò detto partì.
Ora,
quella visita e quella rivelazione cangiò il piano della
procedura, perchè donna Paola era temuta di quel timore il
quale non è altro che un modo del rispetto. Il capitano di
giustizia parlò col vicario, questo col fratello del conte
V...; collegiali e senatori furon sentiti privatissimamente, e si
risolse di lasciar che il processo camminasse per la china, senza
preoccupazioni, senza esacerbazioni, senza cavilli. Però, fu
determinato che, dietro esplorazione degli atti, i signori
patrocinatori dei carcerati, da eleggersi all'uopo, stendessero la
difesa dell'Amorevoli e di Lorenzo Bruni. Del primo fu eletto
patrocinatore il conte Benedetto Arese, giovane di non ancora
venticinque anni, e a Lorenzo Bruni toccò in sorte il conte
Pietro Verri, che appena avea varcati gli anni ventidue.
Fra
i personaggi, che sono già molti e saranno numerosissimi di
questa nostra storia, e che non tengono da noi altro incarico, pur
nella loro importanza drammatica, che di costituire la moltitudine ed
il fondo ai veri grandi uomini storici dei cento anni decorsi,
facciamo ora, per la prima, avanzare la figura giovanile di Pietro
Verri, come antiste a quella schiera gloriosa di uomini grandi
appunto e d'uomini utili, i quali e a gruppi e sparsamente e ad uno
ad uno vedremo sorgere, come alberi di alto fusto tra la fitta selva
delle piante volgari. Essendoci proposti di mostrare in azione
il più di questi benemeriti, per cui Milano e la Lombardia, e,
rispetto a certi elementi speciali della vita pubblica, l'Italia
tutta e persino l'Europa si atteggiò a vita più
razionale, vedrem frattanto il giovane Verri a contrassegnare il suo
primo ingresso tra gli uomini, con uno spirito già vigile a
combatter le male consuetudini, per cui il secolo non poteva più
reggersi, e col coraggio ad affrontar tutti gli ostacoli che i
pregiudizi della sua casa, del suo ceto, del suo tempo dovevano
opporgli onde farlo stramazzare a' primi passi.
II
Il
conte Benedetto Arese, il giorno dopo che si vide eletto a
patrocinatore del tenore Amorevoli, trovandosi nelle sale
dell'Accademia de' Trasformati, prese pel braccio l'amicissimo suo
Pietro Verri, e lo trasse nella libreria, dov'era un po' di silenzio.
Caro Pietro, mi trovo in un grave imbarazzo.
Capisco già cosa mi vuoi dire... Non sai da che parte
incominciare a scrivere la difesa di cui sei stato incaricato?
Se tu non mi aiuti mi trovo al punto di rinunciare all'incarico.
Tutti
gli amici coetanei di Verri e quelli che erano stati suoi compagni
agli studi, lo avevan sempre riguardato e lo riguardavano come colui
che aveva su tutti un'incontestabile superiorità; acuto,
arguto, epigrammatico, vivace, parlatore facilissimo, per poco che
s'agitasse una questione, di qualunque più lieve cosa si
trattasse, tirava gli altri facilmente dalla sua, o, almeno,
costringeva tacere gli oppositori; il che se potè stornargli
qualche amico che fosse un po' men caldo degli altri, se potè
generare qualche antipatia, qualche odio, chi ha pratica di mondo se
lo può facilmente imaginare. In ogni modo per una tale
superiorità, tutti lo richiedevano di consiglio.
Caro Benedetto, disse il Verri all'Arese, non far la sciocchezza di
rinunziare ad altri il patrocinio a te affidato; perchè se tu
ti credi in un grand'imbarazzo, è questo invece il caso di
cavarsela con grand'onore e con poca fatica.
Una
delle qualità caratteristiche del Verri era di non patir quasi
d'invidia (diciamo quasi, perchè è una parola
questa a cui non vogliamo rinunziare, tanto è comoda); provava
esso dunque una gran soddisfazione nel procurare di far figurare bene
i suoi amici.
Non so comprendere dove tu trovi sì grande facilità?
Passano anni, caro mio, e corrono centinaja di processi prima che si
presenti il caso in cui abbia più desiderio il giudice d'aprir
le porte al prigioniero che quasi al prigioniero di uscire; e quel
ch'è più raro ancora, che il giudice sia tanto convinto
dell'innocenza del costituito, al punto d'indispettirsi che questi
mantenga un silenzio che è a suo danno.
Questo lo so anch'io, ma che mi fa a me?
È assai facile, caro mio, dare a credere al giudice quello che
il giudice stesso pagherebbe qualche cosa per dar ad intendere agli
altri.
E che ho io da fargli credere?
Che sia probabile, e, sopratutto, che sia verisimile quel che a tutta
prima pare stranissimo e appena possibile. Fin adesso il tenore si è
sempre ostinato ad un sol punto di difesa, non è vero? onde
avrebbe sempre ripetuto, che passeggiando dopo il teatro e vedendo
quel bel giardino di casa V..., non volendo perdere l'occasione di
godersi tra quelle alte piante un chiaro di luna de' più
limpidi, gli venne il ghiribizzo di fare un salto e di passeggiare in
giardino.
Ma chi può prestar fede a una tale bizzarria?
Non è detto che una cosa bizzarra non sia una cosa vera. Qui
sta il punto... Quante volte è capitato a me, quante volte
sarà capitato a te, in villa, di saltare un fosso per entrare
in un parco altrui, onde guardare cosa c'era di bello e di nuovo.
Chi non lo sa che un tal ghiribizzo può capitare a
chicchessia? ma in villa, ma di giorno; non in una città, non
di notte, non nel mese di febbrajo.
Sia qual tu vuoi, ma tu devi piantarti qui e addurre l'esempio di
fatti consimili; poi c'è a tener conto della professione di
cantante, la quale dà il diritto ad esser più matti
degli altri. E poi c'è la vita passata del tenore, tutta senza
rimproveri, per il caso ond'è imputato, almeno; poi c'è
la sua agiatezza e i pingui quartali che vorremmo aver noi giovinotti
di famiglia, che abbiamo i berilli sul borsellino, ma di dentro c'è
poco o nulla, perchè i nostri buoni padri ci voglion troppo
bene... non è egli vero, Benedetto mio caro? E poi c'è
la sua condizione di forastiero, e d'uomo che non è mai stato
in Milano, e che per conseguenza non deve conoscer la pianta delle
case, al punto da passeggiarci dentro e passar per le fessure come un
topo domestico; e qui non sarà male il mettere un po' di
ridicolo che faccia rilasciare i muscoli troppo tesi dei magnifici
signori senatori. Alle volte val più un epigramma ben
scagliato e a tempo, che tutte e tre le parti d'un'orazione
ciceroniana... E poi già, non mi pare che si vorrà star
tanto sodi sulle formalità; quante volte elle si dimenticano
per peggiorare la condizione d'un galantuomo... A fortiori le
si dovranno dunque dimenticare anche per lasciar respirare libero un
galantuomo... Ma, per di più, c'è il fatto che il
tenore è aspettato a Venezia; e i patrizj veneziani, che amano
tanto la musica, faranno uno scalpore del diavolo perchè al
tenore sia data facoltà di cantare a San Moisè... e c'è
di meglio che il tenore è al servizio di sua maestà il
re di Spagna, e io so che si è già scritto al re con
tutte le circostanze mitiganti... e il re scriverà... e
l'imperatrice ne parlerà al ministro di Vienna... il quale
scriverà al plenipotenziario di qui... e... e poi bisognerebbe
aver coraggio, nominar la contessa e tagliar corto e aprir la
breccia; e giacchè si è già usciti dalla
giustizia per riguardo di lei, ed essi lo sanno, quantunque non
vorrebbero farlo sapere all'aria, così fulminarli con un
quousque tandem che non manca mai di fare il suo effetto, un
quousque tandem però, intendiamoci bene, condito con
attestazioni di gran rispetto, e fiancheggiato di magnificentissimi e
di eccellentissimi, tu mi comprendi.
Io ti capisco benissimo; ma in quanto alla contessa; nemmen per
ischerzo è a consigliarmi di gettar là qualche cosa sul
conto suo. Tu sai che mio padre...
Ah questi padri, questi padri benedetti, che pretendono di pigliar
sempre per l'orecchio i figliuoli, anche quando i figliuoli ci vedon
più di loro.
E
il giovane Verri si fece serio e tacque, per un momento, poi
aggiunse:
Basta, io son certo che la tua riuscirà una bellissima difesa
e che la spunterai, perchè ti proteggono il re di Spagna, i
patrizj musicanti di Venezia, e il desiderio de' giudici, i quali
imiteranno quelle dame, che nel loro interno sono felicissime di aver
avuto la sventura d'essere state sorprese da un zerbinotto
intraprendente e sfacciato. Ma io sì che tengo i piedi
in un pantano, da cui sarà difficile uscir netti, perchè
se rispetto la verità e la giustizia e la coscienza, son
sassate che vanno a cadere sull'invetriate dell'aula dei
magnificentissimi senatori; e se mi propongo di lavorar di scherma
soltanto per far sentire il suono del fioretto, ma senza ferire, io
avrei vergogna di me stesso, e allora sarebbe meglio lasciar la
difesa a un altro.
Ed io ne' tuoi panni farei questo precisamente.
Bel consiglio!
È il migliore...
E lasciar in balia di qualche scimunito la ragione di quel povero
diavolo di Lorenzo Bruni, che ti so dire essere un uomo di proposito
e di pensamenti generosi tutt'altro che vulgari! Eppure non è
che un povero suonatore di violino; ma quando questo è sano (e
picchiava colla punta del dito sulla fronte), e la ragion naturale
può andar dritta per la sua strada senz'essere trattenuta,
contrastata, deviata dai pregiudizj, oh che sapienza è
l'ignoranza!...
Ma e che dunque ti proporresti di fare?
Nient'altro che mettere la mia coscienza nel vuoto pneumatico, e
liberarla da tutta quella pesantezza che le potrebbe derivare dai
rispetti umani, e allora...
E allora?
Sarà quel che sarà. Ma non dir nulla di questi nostri
discorsi nè con tuo padre, nè con altri, nè col
marchese Beccaria, lo zio di Cesarino... A proposito del qual
Cesarino, sai tu che egli è un ragazzo adorabile, e che tremo
di lui soltanto perchè quello zio testardo potrebbe far tanto
da riuscire a guastarlo?...
Oh... sinchè Cesarino sta in collegio a Parma, non è
possibile che lo zio possa far male co' suoi consigli stemperati
nelle lettere.
Mentre
i due interlocutori stavano così parlando nella sala della
libreria, udirono un furioso batter di mani che veniva dalla aula
maggiore dell'accademia de' Trasformati. Si recarono dunque
anch'essi colà, e stettero a udirvi dalla viva voce del buon
Passeroni, un canto del poema il Cicerone, che di quel tempo
egli stava componendo. Quando il Passeroni ebbe finito di
leggere l'ultima ottava del canto, l'accademia si sciolse, e i due
amici partirono insieme cogli altri.
Il
Verri passò il resto della giornata meditando il suo
subbietto, e la sera, quando uscì per fare una passeggiata,
affatto solo, come soleva, verso il borghetto di porta Orientale, gli
venne in pensiero che a riscaldare l'eloquenza e a far raccolta
d'argomenti, per persuadere e, all'uopo, per intenerire i giudici,
gli sarebbe stato necessario, giacchè aveva sentito replicate
volte il Bruni nella sua prigione, di sentire anche la Gaudenzi, che
trovavasi ancora in Milano, quantunque fosse già in sulle
mosse onde trasferirsi a Venezia per la stagione di primavera. Pietro
Verri, quantunque avesse ventidue anni, pure non era stato in teatro
che poche volte, e anche quelle poche volte, sempre in compagnia di
suo padre, il signor conte Gabriele; il quale non aveva mai permesso
che il figlio si staccasse un momento da lui per uscire dal
palchetto. Quel rigidissimo uomo non voleva assolutamente che il suo
figliuol maggiore si trovasse neppure un istante in compagnia degli
eleganti zerbini che passavan la notte in teatro a corteggiar dame, a
giuocare nel ridotto, a dar mezz'oncie alle giovani corifee sul palco
scenico. Perchè è un fenomeno curioso e che può
dar molto a fare alla riflessione d'un filosofo, quello che, mentre
il costume generalmente era allora così rilasciato, e le
tresche amorose costituivan l'affare più importante e più
continuo della vita, e le dame giovani sfoggiavano tal nudità
che oggi farebbe senso, e le leggi del matrimonio avevano assunto
un'elasticità senza pari (e diciam questo perchè lo
troviam detto e ripetuto in storie, in libri di costumi, in poesie,
ed anche ce ne assicurò, oltre al nostro amico Giocondo Bruni,
qualche altro vecchio vivente, che giunse in tempo per mettere il
labbro sull'orlo di quei vasi di voluttà); pure dall'altra
parte è incontrastabile che l'educazione, nell'intimo della
maggior parte delle famiglie patrizie e non patrizie, si manteneva
rigidissima; che i padri e le madri attendevan più a farsi
rispettare e temere che amare dai figliuoli; che il tu di Roma antica
e il tu alla quacchera d'oggidì era ignoto tra genitori e
figliuoli, e sarebbe allor sembrata una profanazione l'assumerlo e
l'accordarlo. Guai se alla mattina, prima dell'ora d'asciolvere, le
ragazze non si recavano, con una prolissa riverenza appresa a scuola
da suor'Agata e da suor Martina, a baciar l'anellone d'amatista del
signor papà e l'anellino di brillanti della signora mamma;
guai se i ragazzi non imitavan le ragazze; e se ciò non si
ripeteva e prima e dopo il pranzo, e prima e dopo la merenda, e prima
e dopo la cena; perchè è un altro fenomeno storico che
i nostri avi mangiavano più di noi. Come dunque, ad onta di
tanti rigori e di tanta etichetta casalinga, e di tanto risparmio di
sorrisi confidenziali, dalla casa uscissero nel mondo tante zucche
vuote e tanti scapestrati e gaudenti e voluttuosi, è un
problema che mal si riesce a sciogliere; nel modo istesso che non
possiamo spiegare come ne' libri e nelle satire e nelle opere
dell'arte, ad ogni quattro parole, ad ogni pennellata si accenna
all'ignoranza classica dei nostri avi patrizj, mentre poi il più
de' giovani studiavan legge e si mettevano in lista per entrar al
nobile collegio de' giureconsulti, alle magistrature, al Senato?
La spiegazione noi crederemmo di trovarla in ciò, che nei
libri anche i meglio riputati, il più delle volte le cose e
gli uomini e i tempi si considerano da un lato solo, nel che sta il
gran segreto di far scaturire il falso perfino dall'istessa verità.
Ma
tornando al giovane Pietro Verri, sebben trattenuto in palchetto dai
rigori di suo padre, aveva però vista e contemplata e quasi
divorata la bellissima Gaudenzi... Era giovinotto, era vivacissimo. E
la simpatia verso la beltà, se non è una prova, è
sempre un indizio di squisitezza di sentimento e d'animo gentile.
La
ballerina Gaudenzi aveva dunque fatto, se non nel cuore, perchè
non sempre si arriva fin là, certamente nell'imaginazione di
Verri una fortissima impressione; ond'esso invidiò spesso i
cavalierini che si recavano a visitarla sul palco scenico fin
qui non c'è nulla di male. Nè quella figura gli era
uscita di mente, anche dopo il tempo trascorso dall'ultima notte
ch'ei l'aveva veduta in teatro; ed è anzi probabile che, una o
due volte al giorno, ella facesse una visita, sebbene di pochi
minuti, alla memoria di lui; chè le cose straordinariamente
belle si piantano con ostinazione nella mente di chi è nato a
comprenderle, pur nella sfera, intendiamoci bene, ingenua e pura e
sgombra dell'estetica.
Per
tutte queste cose, quando si sentì eletto a difendere il
Bruni, e da costui ascoltò ripetute le lodi ch'eran già
corse in pubblico della virtù di quella giovinetta, virtù
tanto più preziosa quanto ora men facile in quella
professione; gli venne il desiderio di conoscerla da vicino e di
parlarle. Il desiderio derivava da una fonte un po' sospetta, ma il
giovine Pietro s'ingegnò a dargli l'ammanto della necessità
impostagli dal suo delicato ufficio di patrocinare colui che le
teneva luogo di padre. Si recò dunque in porta Romana,
e, d'una in altra contrada, fu alla casa dove dimorava la Gaudenzi.
Ma tutto il coraggio gli mancò quando fu in veduta della
porta, indizio che non era proprio convinto della necessità
di quella visita. Il timore che suo padre potesse mai giungere a
sapere ch'egli era andato nella casa della ballerina Gaudenzi, lo
annientò, e al segno, che fu per retrocedere. Una
batteria di pensieri avversi gli rintronò nel capo per qualche
minuto; ma poi si fece animo, e gettata un'occhiata di sopra, di
dietro, a dritta, a sinistra, per assicurarsi se nessun suo
conoscente lo vedeva in quel punto, entrò nella porta.
Com'è ingenua e pudica la giovinezza degli uomini
straordinarj!
III
Chiesto
se per avventura trovavasi in casa madamigella Gaudenzi, e sentito
ch'ella non era mai uscita in tutta la giornata, il giovane Pietro
Verri si fece annunciare senza dare il proprio nome, ma semplicemente
come chi aveva cose importanti da comunicare ad essa. Dopo
alcuni momenti, insieme colla fantesca ch'era corsa a riferire quella
visita, uscì la Gaudenzi senza nessuna delle affettazioni
tanto comuni alle donne di teatro di gran cartello, le quali, in
tutti i tempi, e forse una volta più ancora d'adesso,
arrivavano a far parer umili fin le dame che serbavan gelose le
tradizioni dei tre Filippi di Spagna. Ma la Gaudenzi era la figliuola
schietta della natura, e l'animo suo versava allora in tal condizione
che, all'annuncio, d'una persona che avea a significarle cose di
rilievo, non poteva aver sì gelida calma da stare immobile
nella camera di ricevimento, posando accademicamente il corpo sul
seggiolone e mettendo in vista, impressa nel cuscino dello sgabello,
la punta delle scarpine di raso.
Signore, disse la Gaudenzi al conte Verri con una semplicità
piena di vezzo, si degni di restar servito; e precedendolo e
schiudendo ella stessa le porte, lo pregò ad entrar nella
sala, e gli presentò la sedia con quella disinvoltura onde un
uomo avrebbe potuto comportarsi con una donna. L'ingenuità
era pari tanto nel giovine Verri quanto nella Gaudenzi; ma il primo
era timidissimo, mentre la seconda, dall'abitudine ad affrontar le
mille pupille del pubblico, aveva contratta quella scioltezza, quasi
diremmo virile, che forse, a chi era avvezzo al profumato galateo
delle aule dorate, potea parer soverchia; ma che in quella giovinetta
così bella, e in quell'eleganza spontanea e quasi non voluta
d'ogni suo movimento, si vestiva di un incanto specialissimo. Pietro
Verri la contemplava muto, e andava pensando come non fosse sempre
vero quel che comunemente avea sentito dire, che cioè le beltà
da palco scenico non debbano mai esser vedute in camera.
Signora... disse poi, e stentava a trovar le parole, tanto era
impacciato dalla sua timidezza. Dovete dunque sapere, madamigella,
riprese tosto, che dall'eccellentissimo signor capitano di giustizia
fui prescelto all'onore...
Quell'onore
non era certamente la parola che più facesse al caso; ma
sovente chi ha l'abbondanza delle idee nella mente, affatica in certe
particolarissime circostanze a trovar la parola adatta, quella parola
che pur verrebbe sulle labbra di qualunque più meschino
sfrontato.
Io fui dunque prescelto a protettore del sig. Lorenzo Bruni, vostro
tutore...
Mio padre e benefattor mio, assai più che tutore, potete dire,
o signore... Ma in grazia, chi siete voi?...
Sono il conte Pietro Verri.
Per
quanto egli fosse sgombro da qualunque pregiudizio e da qualunque
benchè minimo orgoglio di sangue, pure provò un'interna
soddisfazione nel poter pronunciare quella parola conte; e
tutto ciò perchè sentiva come, mettendo innanzi quella
parola, egli veniva a liberarsi dall'importunità della propria
timidezza; mentre forse la ballerina che lo atterriva col suo fare
disimpacciato, a quel titolo sonoro si sarebbe potuta mettere in gran
riguardo, e avrebbe subita quella soggezione di cui egli s'accorgeva
d'aver gran bisogno. Quanti inesplicabili accidenti in questa nostra
povera natura umana!
Illustrissimo signor conte, io la ringrazio della degnazione per la
quale ha voluto venire da me; e ora, giacchè ella è il
protettore giuridico del signor Lorenzo, mi voglia dire la verità,
la verità schietta, la verità intera. Oh s'ella sapesse
da quante persone io mi recai in questi giorni, quante preghiere ho
fatte per vedere di poter conoscere come veramente stesse la
condizione del signor Lorenzo! ma non ho trovato che faccie arcigne e
parole fredde, e giri e rigiri di frasi, dalle quali appariva chiaro
che si voleva piuttosto ingannarmi che dirmi la verità.
I magistrati, cara mia, hanno il debito del segreto, e bisogna aver
loro un certo riguardo
D'altra parte il signor Lorenzo Bruni è
in una condizione speciale per aver insultato in pubblico il decoro
di una delle più cospicue case di Milano...
Ma guardi, signor conte, che tentazione fatalissima è venuta a
quel benedetto uomo di mettere, per amor mio, in così grave
pericolo sè stesso, e di far tanto male a quella povera
contessa... ch'io non conosco... e per la quale darei la metà
del mio sangue perchè non fosse avvenuto quel ch'è
avvenuto. Ma Lorenzo fu tratto di cervello dall'ingiustizia del
pubblico, e dal desiderio che lo tormentava di poter trovare il modo
di convincer tutti del quanto fosse assurda la diceria che il sig.
Amorevoli... E qui la Gaudenzi abbassò il capo, tutta
soffusa di rossore, e soggiunse tosto: Ma non è egli
vero, signor conte, che quando un uomo, quando una donna, quando una
fanciulla, trovandosi sola con se stessa, può giurare di non
aver cosa alcuna a rimproverarsi, non dovrebbe temer di sfidare tutte
le calunnie di questo mondo, anche in silenzio, perchè quel
che non si sa oggi si sa domani, e la verità esce in fine
all'aperto per sua propria virtù?... Devo però
confessarle, signor conte, che quando il pubblico mi ricevette,
schiamazzando e insultandomi, anch'io non so quel che avrei fatto
allora per vendicarmi... e la mia disperazione in quel momento
nessuno se la può imaginare, e forse fu per avermi veduta in
quella condizione, che Lorenzo non badò più ai mezzi, e
giurò di far balzar fuori la verità ad ogni modo, e il
modo fu de' peggiori, perchè, ecco a che s'è ridotto,
pover'uomo!...
E
due lagrime lente le rigaron la guancie.
Ma io, continuava, non so farmi capace, signor conte, che vi possa
essere così grave delitto nell'aver messo una maschera ad una
festa da ballo... In fin de' conti, che intenzione era la sua? Quella
di far vedere che il pubblico aveva torto e che io era innocente...
Ben è vero che offese gravissimamente una nobil donna, ma, per
quanto sento a dire, pare che questa nobil donna... fosse davvero
la... e allora... di chi è la colpa?...
Pietro
Verri sorrideva e compiacevasi di sentir quel discorso vivo e
animato, e reso più attraente dall'accento veneto, chè,
se non lo abbiam mai detto, lo diciamo adesso, la Gaudenzi parlava il
dialetto veneziano, quantunque, pel tramutarsi ch'ella faceva
continuamente di luogo in luogo, lo avesse tant'o quanto alterato.
Cara mia, sapete voi che cos'è la legge?
Cosa so io? ma la legge dovrebb'essere tutto ciò che è
giusto.
Ed ella infatti si propone la giustizia... ma non sempre la
raggiunge, nè lo può; perchè la legge
bisognerebbe che potesse trasformarsi all'infinito come tutti gli
accidenti umani, e tener dietro a tutte le bizzarrie della fortuna.
E così qualche volta chi ha ragione paga i debiti di chi ha
torto... È questo l'intercalare del signor Lorenzo. Ma mi
vorrebb'ella dire di grazia, signor conte, per qual motivo il metter
maschere ad una festa da ballo fu posto nel numero dei delitti?
Per i cattivi usi che se ne fecero troppo spesso dagli uomini
cattivi.
Ma allora si dovrebbe punire il cattivo uso e non l'uso delle cose:
sarebbe bella che fosse proibito a parlare, perchè parlando si
possono dire delle calunnie!
Oh che sapienza è l'ignoranza! pensava tra sè Pietro
Verri, mentre sorrideva alla Gaudenzi. Attendete dunque,
soggiunse poi, a mettere il vostro bel cuore in pace; poichè
se la legge fu fatta per un fine ragionevole, non è poi detto
che non si debba tener conto della buona intenzione di chi l'ha
trasgredita, trasportato da un nobile riguardo e da una nobile
passione...
E di chi l'ha trasgredita, continuò vivacissimamente la
Gaudenzi, perchè in quel momento non c'era altro mezzo di far
cessare una perfida calunnia.
E per questo io mi confido di poter riuscire ad alleggerire al
possibile la condizione del vostro signor Lorenzo.
Come ad alleggerirla? domandò piena di dolorosa meraviglia la
Gaudenzi... Ma non è a sperare che lo possan mandare assolto
in su due piedi?...
Tranquillatevi, cara mia, ma per bene che vadan le cose, converrà
pure che voi siate disposta a un lieve sacrificio...
Qual sacrificio?... dite, dica, io son parata a tutto.
È un sacrificio che non dipende dalla vostra volontà,
ma solo dalla vostra pazienza; perché mi rincresce a dirvelo,
cara mia, ma per un sei mesi almanco converrà che vi adattiate
a restar priva della vista del signor Lorenzo
Oh
questo non sarà mai, signor conte; io mi scioglierò
in lagrime ai piedi del signor governatore, e otterrò la
grazia. E se il governatore starà inflessibile, metterò
sossopra mezzo mondo.
Tranquillatevi, e prima di far passi, lasciate che io faccia i miei;
che se fosse necessaria la vostra cooperazione immediata, ho io la
persona che, se è possibile far miracoli, ella li sa fare
davvero...
Ma
la Gaudenzi più non badava a quelle parole, e, alzatasi,
misurava in lungo e in largo e concitata la camera, cogli occhi pieni
di lagrime e col labbro inetto a proferir parola, perchè un
tremito convulso stava per farla dare in uno scoppio dirotto di
pianto... Il Verri le teneva dietro coll'occhio, pieno di commozione
anch'esso e d'ammirazione, e assalito da un sospetto, come da un
lampo che baleni improvviso.
Le
anime squisite, anche senza lo scaltrimento di una lunga esperienza,
tengono il filo d'Arianna per misurare, senza smarrirsi, il labirinto
del cuore umano. Diciamo questo, perchè di fatto, quel ch'egli
sospettò, era vero. Un mese prima, chi avesse detto a
quella cara e semplice ragazza: scommettiamo che voi siete innamorata
del signor Bruni, ella non avrebbe data altra risposta che una delle
sue consuete risate baccanti e sonore... Ma il giorno in cui Lorenzo
venne arrestato, e i giorni in cui ella provò, per quel
distacco, una costernazione che mai non aveva provato in vita sua,
non si potrebbe dir bene in che modo, ma le si depose inavvertito
nell'animo un lieve germe di amore, che fruttificò di dì
in dì, a seconda della natura appunto dei germi. Ben è
vero che ella non sapeva ancor nulla, e a chi di nuovo le avesse
chiesto, se era innamorata, di nuovo ella avrebbe risposto, se non
con una risata, certamente con un sorriso accompagnato da un lieve
agitar della testa; ma, in conclusione, l'amore lavorava e limava
nell'animo suo con tutta la forza di un amore a cui non manca più
nessuna delle sue attribuzioni.
Sentite...
Interruppe
il Verri con questa parola il passo concitato della Gaudenzi. Ella si
fermò in faccia a lui, attirata da quel sentite, e come
chi spera sempre qualche consolazione da tutti gli accidenti del
discorso.
Da quanti anni, egli continuò, il sig. Lorenzo Bruni veglia
alla tutela della vostra giovinezza?
Oh da moltissimi anni! Io era una ragazzina senza padre e senza
madre, e ballavo a Venezia al teatro di San Moisè... Chi mi
curava non era allora che questa buona e paziente mia zia... Ma si
viveva a discrezione degli impresarj che guadagnavano, non tocca a me
il dirlo, alle nostre spalle, eppur non ci facevano che soprusi e
angherie, n'è vero, zia? Il signor Lorenzo Bruni volle
difenderci una volta da un appaltatore usurajo e ottenne di farlo
stare al dovere... onde ci fece tener tanti danari, quanti certamente
non potevo dire d'aver meritati. Ma questo è poco, perch'egli
si prese cura della mia educazione; e siccome ei veniva da Parigi, ed
avea vedute tutte le più celebri ballerine e conosceva la
danza più di chi ne fa professione, tanto fece e consigliò,
che riuscì a tirarmi indietro dall'arte viziata... Onde quel
poco che sono, lo voglia credere, illustrissimo signor conte, non lo
debbo che a lui.
E tutto, entrò a dire la zia, senza neppure un'ombra
d'interesse, perché i mettimale che vedevan con dispetto quel
suo tanto adoperarsi in pro della ragazza, mi andavan susurrando
all'orecchio che lo avrebbe fatto per arricchirsi... Ma invece, se
non ci ha perduto, non ci ha guadagnato, perchè la bilancia
non è più giusta di lui: e i quartali ei non volle
nemmen toccarli, e collo scrupolo va tanto in là, ch'ei vuole
che dalle mani dellimpresario passino nelle mie; e se provvede
a collocarli a buon frutto, desidera ch'io medesima vada a
consegnarli
Oh
ci creda, signor conte, che per noi è
una gran disgrazia a rimanere senza quelluomo d'oro.
Ho caro d'aver sentito tante lodi di quel bravo uomo; così mi
lusingo di farle comparire opportunamente nella difesa...
E può aggiungere, signor conte, i discorsi pieni di consigli,
di sapienza e di virtù onde il signor Lorenzo era instancabile
a vantaggio di questa ragazza... perchè lo creda, signor
conte, ma quel signor Lorenzo, se è un uomo probo, è
anche un uomo di gran talento.
E
la bella Gaudenzi stava per venire in ajuto della zia; ma in quel
punto ch'ella stava per parlare, giunsero all'orecchio del conte
Pietro Verri, il quale era là quasi in attitudine di
magistrato, i primi tocchi della campana della piazza de' Mercanti.
Il giovane patrizio si alzò, come scosso disgustosamente da
quel suono, e, tagliando di colpo tutte le fila sospese del discorso,
si licenziò, e fu molto se ebbe l'animo di rinnovare alcune
parole di consolazione alla fanciulla. Ma che mai c'era di tragico in
quella campana della piazza de' Mercanti, dirà il lettore, da
mettere i brividi al giovine Verri? Cari miei, saranno inezie,
ma l'eccellentissimo senatore conte Gabriele era un uomo di ferro, e
guai se avesse saputo che suo figlio non era già rincasato
prima della campana; che una sera in cui il giovane Pietro,
trattenuto in certe calde discussioni al caffè Demetrio,
giunse a casa un'ora dopo... Filippo II non guatò così
bieco il grand'ammiraglio, quando gli tornò innanzi
coll'annunzio d'una battaglia navale perduta e della flotta
distrutta, come fece allora il conte Gabriele con suo figlio Pietro,
il quale per rientrare nelle grazie del signor padre dovette metter
sossopra tutto il parentado. S'affrettò egli dunque a
saltelloni giù per le scale, divorò la strada, e tutto
trafelato giunse a casa quando la campana non aveva ancor finito di
dare i suoi tocchi; si recò a far riverenza e a dar la
felicissima notte al signor papà, poi si chiuse in camera per
stendere la difesa di Lorenzo Bruni.
IV
Là
chiuso, si diede a passeggiare tutto pieno e invasato del suo
argomento, lodandosi seco stesso dell'aver fatto visita alla
ballerina Gaudenzi, perché dall'osservazione attenta di quella
beltà, di quella virtù, di quella schiettezza, di quel
dolore, e dai particolari che in sì caldo accento erano usciti
dalla bocca stessa di lei, e costituivano il più completo e
appariscente ritratto di Lorenzo Bruni, s'accorgeva che gli eran
venute nuove idee e nuovi fervori; però gli pareva di poter
alla fine scrivere una difesa tale da conquidere trionfalmente
l'animo dei giudici, pur senza omettere nessuna verità nuova e
coraggiosa. L'animo e lingegno del Verri era di quella tempra
saldissima, che dal momento che una cosa vera o creduta vera gli
facea forza, non gli era più possibile, per nessun conto, nè
dissimularla nè tacerla, non che falsarla. Poteva adattarsi
alla più sommessa obbedienza in casa, a non star fuori oltre i
tocchi della campana della piazza de' Mercanti, a non andare in
teatro solo, a non frequentare certe conversazioni; ma non poteva
piegarsi a far proprie le idee e le convinzioni di suo padre, dal
momento ch'egli ne aveva di assolutamente contrarie.
Si
mise dunque a tavolino, e con velocità animata dalla
concitazione empì tre o quattro fogli di carta. Noi abbiam
veduto un ritratto giovanile di Pietro Verri, che press'a poco
potrebbe dar l'idea della sua faccia quand'egli era preoccupato di
qualche forte pensiero: occhio vivace, arguto e tanto quanto espanso,
che sembra inseguire un'idea balenata d'improvviso; guancia calma e
fiorente, naso breve e bocca soavissima, la quale quasi sempre si
osserva in coloro che hanno squisitezza e di mente e di cuore.
Quand'ebbe
finita quella non breve scrittura, se la lesse tutta ad alta voce, e
si stropicciò le mani come pago d'aver detto tutto quello che
voleva dire; se la rilesse poscia... e cominciò e
pentirsi di alcune espressioni troppo ardite, e di quelle
segnatamente dove metteva quasi in istato di accusa l'autorità
giudiziale. Volle rimediarvi, e cancellò tutto quel brano; ma
poi s'accorse che ad ometterlo si distruggeva tutto l'edificio, e si
taceva la sola verità insolita e coraggiosa che poteva dare
alcun merito a quella difesa; onde rifece il periodo, ammorbidendo
soltanto le frasi, decorandole di vocativi pieni di sommessione, e
conservando intatto il concetto. Infine pensò che il miglior
partito era di far la versione di quella difesa in lingua latina; e
ciò per due ragioni: la prima, che l'idioma del Lazio,
costringendo l'intelletto degli ascoltatori a fare un breve lavoro,
prima di averlo tutto quanto tradotto in parole schiette e lampanti,
la verità si ammorbidiva nel trapasso dal latino all'italiano,
e le toglieva di far l'effetto di un sasso scagliato altrui senza
pietà; la seconda ragione consisteva in ciò, che suo
padre era innamorato della lingua latina, e le poche volte che lo
aveva veduto sorridere con insolita compiacenza fu sempre nelle
occasioni che egli stesso aveagli dato a leggere qualche proprio
scritto latino. Così dunque pensò, e così fece.
Ma ci voleva ben altro. Lavorò buona parte della notte e il
giorno successivo a far la traduzione; poi al terzo dì la
presentò al Capitano di giustizia. Non ci pare qui il luogo
opportuno di riportare per intero quella lunga difesa, nè
tampoco di darla tradotta, nel nostro italiano; chè troppe
cose sono in essa riassunte, le quali già furon dette e
ripetute da noi in più luoghi; soltanto diremo come l'esordio
toccasse alcune idee generalissime intorno alla genesi ed allo scopo
della legge, nel quale intese a far campeggiare il concetto, che
tutti debbono essere eguali in faccia ad essa; poi venne a parlare
delle leggi statutarie, poi delle gride e ordinanze suggerite da casi
speciali; poi si fermò all'ordinanza del ministro
plenipotenziario governatore di Milano, conte Palavicino, relativa
alle maschere-ritratti, lodandone assai l'opportunità e la
saviezza.
Ma
qui parlò dell'intento che aveva quell'ordinanza, la quale
proibiva le maschere non per sè stesse, ma per i gravi e
deplorabili danni che, adoperate da uomini iniqui, avevano prodotto;
faceva allora acutamente intendere come la prava intenzione e il
delitto consumato per mezzo di essa erano i soli elementi che
costituivano il caso della penalità e della sua misura. E poi,
piegando la parola al fatto speciale del Bruni, mostrava che non
avendo egli avuto nessuna prava intenzione, anzi l'intenzione essendo
stata lodevole come di chi protegge e difende chi sopporta
ingiustamente una calunnia; e, per risultato, non esibendo la
consumazione di nessun delitto, ma sibbene lo scoprimento di una
verità che ridondava a vantaggio dell'innocente e a danno di
chi veramente era in colpa; venivasi con ciò a costituire un
caso specialissimo, pel quale quell'ordinanza doveva cessare dalla
sua forza attiva, e, in ogni modo, doveva consigliar d'interpellare
il voto dell'eccellentissimo governatore per una grazia
straordinaria. Ai quali argomenti che mettevano in chiaro l'assenza
d'ogni colpa per parte del Bruni, di cui tesse l'elogio riferendo le
attestazioni della stessa Gaudenzi, della quale pure lodò la
vita senza rimprovero, come portava la pubblica opinione; fece
osservare che non sarebbe avvenuta nemmeno la materiale
contravvenzione alla legge, se la magistratura non si fosse imposta
un obbligo che veniva a ferire il diritto comune, l'obbligo cioè
di considerare come intangibile dalla legge e persino dai sospetti la
nobiltà di una persona, dalla quale precisamente si dovevano
incominciare le indagini. E qui riferiamo un passo, che ci pare assai
squisito: «Nè io credo nemmeno che potesse andar offeso
il carattere della nobile contessa se fosse stata interpellata in
giudizio; chè forse quelle voci vituperose che or circolano in
pubblico contro di lei, sarebbero state trattenute da una parola
detta in tempo al giudice; così invece, tanto più
l'opinione si compiace a denudare e ad esagerare le colpe di
una persona, quanto più s'accorge che la magistratura discende
dal suo nobile seggio, al punto di tentar di scambiarle le carte in
mano e d'ingannarla.»
Questa
difesa, quando fu letta, fece l'effetto che naturalmente doveva fare,
quello cioè di tirar addosso al giovane Verri tutta
l'iracondia della magistratura.
Quasi
contemporaneamente a questo scritto, fu presentata al Capitano di
giustizia la difesa di Benedetto Arese, una cosettina magra e che per
se stessa non poteva certamente essere il tocca e sana per le
disgrazie del cantante di camera di S. M. il re di Spagna. Ma
quanto lo scritto del giovane Verri aveva provocata la collera e lo
spirito di contraddizione e negli attuari e negli assessori e nel
vicario e nell'eccellentissimo capitano marchese Recalcati; e,
allorchè fece il suo passaggio d'ufficio al Senato, anche in
tutti i senatori e nel loro presidente; altrettanto trovò lode
e fautori quella dell'Arese. In simile maniera noi vediamo
nelle accademie e letterarie e scientifiche e artistiche, le quali,
per consueto, portano inalberato sul frontone il vessillo del Così
faceva mio padre, accordarsi la medaglia d'onore a colui
che nell'opera prodotta lusinga l'amor proprio de' giudici e sta
ligio ai sistemi invalsi, e non avendo la forza di camminar colle
proprie gambe, s'appoggia al braccio altrui.
Quella
difesa dell'Arese fu dunque tale, che dispose gli animi a far
maturare una sentenza d'assoluzione a favore del signor Amorevoli. Se
non che un bel giorno fu presentato d'urgenza un libello
dell'avvocato Carl'Antonio Agudio, patrocinatore del figliuolo della
signora Celestina Baroggi, nel qual libello si esponeva il fatto del
testamento olografo stato scritto dal marchese F
dietro
dettatura del dottor Macchi notaio, a favore del figlio suddetto
della Baroggi; riferiva che tra le carte del detto marchese non s'era
più trovato il testamento in discorso; si conchiudeva, che
essendo noto il trafugamento delle carte che stavano nello scrittoio
di esso, l'avvocato patrocinatore e il reverendo proposto di S.
Nazaro, tutore del figliuolo della Baroggi, facevano istanza perchè
si rinnovassero le indagini più severe, allo scopo di
rinvenire il trafugatore; e nel tempo istesso facevan rispettosamente
intendere che, sebbene le presunzioni a danno del costituito signor
Amorevoli paressero prive di fondamento, l'eccellentissimo capitano
di giustizia, quando mai nell'alta sua saviezza credesse di mandarlo
assolto, adoperasse tuttavia in modo che non potesse evadere dalle
ulteriori possibili inquisizioni dell'autorità criminale.
Aveva
in pubblico fatto gran senso che, in quel non breve tempo trascorso
dalla cattura dell'Amorevoli, non si fosse proceduto con tutti i
mezzi reclamati dall'importanza del caso, segnatamente per
l'interesse del figlio della Baroggi, che dicevasi essere stato
istituito erede universale dal marchese F...; e però il
reverendo proposto di san Nazaro aveva ricorso all'avvocato Agudio,
il quale godeva fama di gran legista, e quel che più importa,
di gran galantuomo, e ciò che meglio preme ancora, di grande
ostinato; e il solerte proposto avea fatto capo a lui come a quello
che potea aver la forza di conservare nella sua dritta strada la
trattazione d'un affare che per mille circostanze poteva essere
deviato.
Tornando
ora all'Amorevoli, s'egli non avea motivo di lodarsi troppo della
fortuna, venne però chi dovea trarlo d'imbarazzo. Allorchè
donna Paola Pietra ricevette l'ultima lettera dalla contessa Clelia,
dove, colla raccomandazione del segreto, le era fatta la rivelazione
intorno al lacchè Suardi; ella nella sua saviezza pensò
che non era a tener conto nessuno di quella raccomandazione di
segretezza; invece, senza por tempo in mezzo, fece una seconda visita
al marchese Recalcati, al quale raccontò il fatto del
Galantino, e della vita sfoggiata che colui conduceva a Venezia, e
come eranvi tutte le ragionevoli presunzioni che il trafugatore fosse
stato colui medesimo.
Quel
nome del lacchè Galantino fu per il marchese Recalcati come
uno di quei lampi, che, solcando di tratto il fitto bujo, lasciano
vedere la posizione degli oggetti circostanti; tanto che uno che
abbia smarrita la via, si raccapezza, ed esclama: Ora
comprendo per qual parte si dee camminare. Laonde non sono
a dire le feste e le accoglienze ch'egli fece e i ringraziamenti che
espresse a donna Paola per quella improvvisa e non aspettata
rivelazione. Lasciandolo ora nel pieno godimento di quella
scoperta, saltiam via due giorni, che in faccia a cento anni sono
un bicchier d'acqua in faccia al mare, e rechiamoci in casa
Verri, in un giorno che l'illustrissimo signor conte Gabriele dava un
pranzo quasi diplomatico.
La
sfera dell'orologio percorreva l'arco di quella mezz'ora o di quel
quarto d'ora che precede il momento solenne, in cui il cameriere in
gran livrea diventa un personaggio importante, vogliamo dire, in cui
grida dalla soglia: In tavola. In una sala d'aspetto,
ferveva, o diremo meglio, languiva la conversazione tra molte persone
divise in varj gruppi, ciascun de' quali constava di elementi tra
loro affini. Gravi personaggi di toga e di spada, conti e
marchesi e cavalieri che non avevano altro peso da portare che il
diploma d'accademico Trasformato, dame e matrone e giovani donne e
spose non una fanciulla. Il conte Gabriele Verri stava
parlando in un angolo della sala col marchese Beccaria, lo zio di
Cesare.
Vedo pur troppo, caro marchese, diceva il conte Gabriele, che questo
mio figliuolo, pel quale non ho risparmiato nè cure nè
dispendj, vorrà essere la mia croce.
Ve l'ho detto più volte; bisognava lasciarlo a Roma maggior
tempo, o a Parma; la sua vivacità fu sempre eccessiva e
bisognava metter acqua e cenere sul fuoco. Vi sono certi
temperamenti, che, a lasciarli svampare prima del tempo, diventan
acidi come il vino mal turato.
Ma... volevate che a ventidue anni lo tenessi ancora in collegio?...
In collegio no... ma mettergli accanto un uomo di proposito, un
sacerdote di vaglia...
Se la mia severità non è valsa a nulla, che cosa
volevate che facesse un prete?
Voi vedrete quel che ne farò io di Cesarino, perchè
bisogna che ne prenda io stesso la cura. Suo padre è troppo
dolce. Se si vuole, il fanciullo è pieno d'ingegno, e in
collegio lo chiamano il piccolo Newton; ma quanto è maggiore
l'ingegno, tanto son maggiori i pericoli; ond'io veglierò...
così avessi vegliato ne' giorni che da Parma venne a Milano
questo carnevale; perchè si trovò spesse volte col
vostro Pietro... il quale non so che malefizj abbia fatti a quel
ragazzo, che mi venne fuori un giorno con certi propositi, i quali
non mi piacquero niente affatto.
Davvero?
Per l'appunto.
È dunque bisogno di qualche provvedimento serio a riguardo di
mio figlio... Son dieci giorni che mi venne in mano quella difesa, e
quando l'ebbi letta non ho più permesso ch'ei mi comparisse
dinanzi. Ma quel che più mi fa dispiacere si è, che non
manca d'ingegno... e quello scritto... mi dà a divedere che,
se fosse meglio diretto, potrebbe...
Ma dove è andato a pescare tutte quelle idee, diciamolo pure,
rivoluzionarie contro i nobili e contro le autorità? Ma sapete
che c'è voluto un bel coraggio?
È questo appunto ciò che m'affligge, e tanto più
che... son cose che si pena a dirle... ma pur troppo s'è fatto
male a non far caso della contessa, in quel malaugurato processo... A
mio dispetto devo dirlo, e Pietro non sbagliò nell'affermare
che, conosciuta in tempo la verità, si poteva sopir tutto
senza che ne trapelasse nulla al di fuori. E così... un dì
un fatto, un dì un altro... ci ridurremo alla fine... ve lo
dico con crepacuore, a perdere la fiducia del popolo, e allora...
E
qui si fermò come colpito da una dolorosissima idea, indi
soggiunse dopo alcuni momenti:
E adesso c'è quest'affare del testamento del marchese F... e
del lacchè..., che è una spina acuta e pericolosa, la
quale può aprir piaghe profonde, e trarsi dietro cento
malanni. Ah, marchese, qui sotto c'è qualcosa di seriissimo, e
guai se... Il marchese Recalcati me ne fece or ora un motto... che
tosto gli ho troncato in bocca... perchè se una parola è
pronunciata fuor di tempo e a sproposito... ne scaturisce un'iliade
di sciagure...
Il
marchese Beccaria guardava fisso il conte come a sorprendergli
nell'occhio il segreto del pensiero; poi soggiunse:
Se un sospetto lo fa uno, lo può fare un altro, e lo ponno
fare cento; e tanto più quelli che patrocinano il
figliuolo della Baroggi... poichè, a dir la verità,
questo contrattempo del lacchè... qualcuno già deve
averlo pagato il lacchè a fare il colpo... e chi mai poteva
avere interesse a ciò, se non...
Zitto... la marchesa D*... è là, e ha intenzione di dar
la figliuola al figlio del conte e ci potrebbe sentire...
Ma in conclusione, che si pensa di fare?
Non ci possono essere due partiti in affare di tanta delicatezza...
La giustizia dee fare il suo debito senza essere impacciata da nessun
riguardo. Anzi si è già scritto al Senato della
serenissima Repubblica di Venezia perchè, se siamo in tempo,
passi tosto alla cattura del lacchè; soltanto è
mestieri che di tal fatto si mantenga un segreto profondissimo, e non
si facciano scandali; perchè guai se il popolo s'accorge che
il contagio viene da quel ceto a cui la provvidenza ha ordinato di
essere d'esempio e di edificazione a tutti gli altri. Ma c'è
un'altra cosa, marchese caro, che mi ha passato l'anima, ed è
che, ieri l'altro, Pietro, mentre stava supplicando sua madre a farsi
mediatrice di pace tra lui e me... d'uno in altro discorso vennero a
toccare, non so come, un tal tasto; e a Pietro scappò detta...
questa frase ribalda: Se il conte F... fosse un sensale di
piazza, a quest'ora il capitano di giustizia gli avrebbe già
fatto mettere le manette. Convien dunque che oggi teniamo con lui un
discorso serio e dolce nel tempo stesso. Oggi ho dato, posso dire,
questo pranzo d'invito per lui, perchè, necessariamente, non
ne potendo venir escluso per decoro, io avrò l'occasione di
volgermi a lui senza cedere; ed egli d'accorgersi che io non sono poi
un uomo inesorabile. Così dopo il pranzo, noi lo faremo
chiamare in un'altra camera, e gli terremo un discorso che valga ad
insegnargli la prudenza, ed a provargli che è sempre in via di
bene tutto quello che noi facciamo; e che finchè uno è
giovane, l'esperienza la deve apprendere dai vecchi. Ah pur troppo,
caro marchese, la gioventù ha preso aria in questi tempi, e
bisogna ricorrere all'astuzia perchè non sian crollate le basi
di una salda autorità paterna.
Ed
or lasciando che questi rigidi vecchi se la intendano col giovinetto
Pietro, ritorneremo a Venezia, e volgeremo i passi verso il calle del
Ridotto.
V
Rousseau,
il quale asserì che l'uomo lasciato in balia della sua vergine
natura, è una perla immacolata, e che dai bisogni fittizj
inventati dalla società fu tratto ad inventare egli stesso
quei delitti contingenti e convenzionali che, variando di tempo e di
luogo, possono persino esser chiamati virtù, come il furto in
Atene; non pare abbia voluto esaminare tutti i casi in cui l'uomo,
anche nel fitto della società, si trova in pieno arbitrio
della sua natura liberissima; tra le altre cose, non ha saputo
applicare la sua potente riflessione ai fenomeni d'una bisca.
Una
casa da giuoco è un microcosmo; in essa l'uomo appare in tutta
la nudità de' suoi istinti. Nella Francia contemporanea di
Rousseau, lo spettacolo di un gran re, intento a passar le notti, non
animato che dalla speranza di spogliare i ciambellani e i confidenti,
doveva bastare a far vedere al sublime lipemaniaco di Ginevra che non
sono sempre i bisogni quelli che fanno sviluppare sulla testa umana
il bernoccolo della rapacità.
Ma
ciò, anche prima della storia di Francia, era provato dalla
storia di Roma e dall'esempio d'Augusto che, padrone di tutto il
mondo, pure si compiaceva se l'oro di Mecenate passava nelle sue
mani; e dall'imperatore Claudio, che affidava ai dadi il destino
perfin di quattrocentomila sesterzj, e dai patrizj romani, che, ad
onta che il giuoco fosse multato d'infamia, giocavan persin nei
comizj, persino in Senato; tanto è vero che l'uomo, per
saziare il suo naturale istinto, combatte contro la medesima civiltà,
e fa il ladro per diporto; chè non a torto ha detto un acuto
scrittore inglese: Essere il giuoco un furto mascherato.
Queste
riflessioni le facciamo pensando al ridotto di San Moisè in
Venezia, dove, meno i giuochi d'azzardo che ad ogni momento venivan
proibiti dagli illustrissimi Correttori, indizio manifesto che
non eran sempre obbediti, tutto camminava di maniera da far credere
che gli uomini non avessero altra destinazione a questo mondo che
quella di passar la vita giuocando. Quel ridotto, che doveva diventar
celebre in conseguenza de' suoi peccati, e meritare di venir
soppresso, come vedremo, aveva una libreria al pari di un istituto di
scienze e lettere; una libreria, intendiamoci bene, tutta di opere
relative al giuoco; tra queste primeggiavano il Ludus chartarum
seu foliorum, di Lodovico Vives, stampata a Parigi nel 1545; Le
carte da giuoco, del P. Menestrier; La giurisprudenza del
giuoco, di Lucio Marineo Siculo; Il tarocco, di
Gebelin; L'invettiva contro il tarocco, di Lollio Ferrarese; i
numeri del Giornale di Trévoux, dov'erano le
ricerche storiche sulle carte da giuoco; il capitolo del Berni,
intitolato Il giuoco di primiera; Le carte parlanti,
di Pietro Aretino; Il trionfo del tresette; la Piazza
universale di tutte le professioni ed altre opere molte,
che venivano consultate nei gravissimi casi dubbj.
Quel
ridotto era zeppo d'illustrissimi della seconda e della terza
qualità, e in mezzo ad essi, da qualche giorno, aveva fermato
l'attenzione il giovane gentiluomo milanese, signor Andrea Suardi,
pel coraggio onde giuocava le più grosse somme e per la sua
meravigliosa virtù a vincere dieci volte su dodici. Ma come
potevano quegli illustrissimi patrizj di Venezia gettar le loro
notti, ed esser tuttavia parati alle gravi cure del governo, della
pace e della guerra? Non confondiamo le idee: a Venezia vi avevano
più qualità di patrizj, ovvero sia due qualità
ben distinte quella dei tutto facenti, e quella dei nulla
facenti. Dal dì che Gradenigo aveva decretato come statuto
fondamentale che niuno fosse mai più eletto nè
eleggibile a sedere nel gran consiglio, da quelli in fuori che allora
vi si trovavano; che il loro privilegio sarebbe eredità
ai loro discendenti in perpetuo; che eleggerebbe dal suo corpo
tutte le magistrature di Stato; dal dì che codesta
aristocrazia s'andò sempre più concentrando in
oligarchia, che persino ai figli del doge fu tolto di poter coprire
ogni magistratura: lasciato alle poche famiglie vetustissime il
monopolio del potere trasmissibile di padre in figlio in perpetuo,
tutta la rimanente nobiltà che era numerosa, e
alla quale in Venezia non rimaneva altro scopo alla vita che l'uso e
l'abuso di essa, e l'uso e l'abuso della ricchezza dov'era
gentilezza d'ingegno, ell'erasi data all'esercizio delle arti; dove
no, proruppe ai godimenti, e con tanta sfrenatezza spensierata con
quanta riflessiva e longanime rigidezza gli oligarchi si tenevan
saldi al potere; rigidezza riflessiva, e che fomentava quel viver
leggiero e svagato dei discendenti di coloro ch'erano stati chiamati
uomini nuovi al tempo della prepotenza di Pierazzo Gradenigo, pel
motivo che non erano più temibili quelli che per costume
s'indebolivano nell'inerzia. E tanto più si erano a questa
ragione di vita abituati i nulla facenti, sia che fossero discendenti
degli esclusi dal gran consiglio, o figliuoli dei vetusti pantaloni,
o piantaleoni nelle terre conquistate, o figli del doge esclusi dalla
magistratura, quanto più, comportandosi in tal guisa, vivevano
tranquilli della sospettosa vigilanza del tribunale segreto, che più
del capo di Buona Speranza e del Mediterraneo abbandonato e della
politica spostata, fu causa che si spegnesse la potenza espansiva di
Venezia; spenta la qual potenza si troncarono di colpo gli elementi
generatori della sua perpetuità. Fin da quando, dopo la
forzata abdicazione di Foscari, il tribunal segreto rese amarissimo e
pericoloso l'alto onore di recar servigj alla patria, da quel punto
cominciò davvero la sua decadenza. Temettero i sospettosi
oligarchi il possibile soverchiare del vero merito, temettero
l'eccessiva potenza del doge, e l'uno e l'altro circuirono di arcane
paure; ma non intravvidero la conseguenza finale di tutto ciò;
non intravvidero che se i patrizj e i non patrizj, divagati agli ozj
e alla voluttà, non potevano più far paura al Consiglio
segreto, per la medesima ragione avrebbero cessato di far paura anche
a tutta Europa, la quale non amò giammai Venezia, e la guardò
sempre gelosamente; e che se ciò le poteva stornare i pericoli
presenti, accumulava sovra di essa i pericoli futuri, rendendo bensì
più lenta la sua caduta, ma facendola inevitabile.
Era
dunque da quasi tre secoli che la vita interna di Venezia era una
vita continua di godimento, che l'allegria de' suoi carnevali era
divenuta proverbiale in tutt'Europa, che ai tavolini verdi delle case
patrizie e dei pubblici ridotti l'oro aveva imparato a trapassare di
mano in mano, con più velocità che altrove, pel decreto
di una carta e della cieca fortuna. Che il giuoco poi abbia trovato
accoglienza più forse a Venezia che in altri luoghi, sarebbe
dimostrato da ciò, che taluno dei così detti giuochi
d'azzardo fu invenzione di Veneziani; che un Giustiniani,
ambasciatore della Repubblica a Parigi, vi portò per la prima
volta la cognizione del giuoco della bassetta, il quale fu poi
accolto trionfalmente a quella Corte, e onorato colà dagli
uomini della scienza, che pubblicarono considerazioni e calcoli e
intrapresero ricerche pazientissime su quel giuoco, sulle probabilità
del guadagno e delle perdite.
Il
Galantino aveva dunque fatto suo pro di quelle abitudini veneziane; e
ricevuto al ridotto qual gentiluomo milanese da quell'ospitalità
cortese che sempre distinse i Veneziani tanto d'allora che d'adesso,
passava colà le sue notti. Ma siccome i giuochi che vi si
tenevano non eran d'azzardo, essendo recentissima un'ammonizione dei
signori Correttori; così a una cert'ora, in compagnia di molti
gentiluomini, lasciava il tavoliere del tresette e il ridotto per
trasferirsi al di là di Rialto, nelle stanze di un umile caffè
detto di Costantinopoli; e là, fuori d'ogni sospetto, aperta
la voragine del faraone e della bassetta, ei passava il resto della
notte. Munito, quando recossi a Venezia, di molto danaro contante, il
Galantino, giocatore tanto esperto che pareva aver gli occhi nelle
dita, governavasi però prudentemente al ridotto, e in modo da
lusingare con mille attrattive i suoi compagni di giuoco, perchè,
rilasciato il freno all'avidità, non potessero andare a letto
senza prima tuffarsi a piene voglie nel flusso e riflusso
dell'azzardo.
Fornito
d'oro, egli conduceva le cose in modo da tenere il banco di
sovente; ed era un tagliatore di tanta destrezza che in pochi
giorni erasi messo insieme una bella sommetta. La notte a cui
ci troviamo con questa narrazione, era la terza d'aprile, ed egli più
del consueto era stato favorito dall'audacia e dalla fortuna: onde,
in sull'alba, quando uscì da quell'umile caffè, dopo
aver bevuto una tazza d'appio, volle assaporare il piacere d'una
passeggiata solitaria, spingendo uno sguardo allegro in seno
all'avvenire, e scorgendovi già, di mezzo alla nebbia rosata,
prospettive di palazzi con macchiette di parassiti intorno a sè,
e cocchi e cavalli e tutte le grandezze della vita. Se ne veniva così
per ponti e per calli, guardando sbadatamente case ed altane, e
sogguardando alla sfuggita le portatrici d'acqua pienotte, già
in volta a quell'ora; fin che riuscito al campo Santo Stefano, volse
il passo alla casa ove dimorava; ma in quel punto scorse due uomini
appoggiati al muro, due uomini che non avrebbe voluto vedere, perchè
eran due cappe nere del palazzo Ducale. Diede una rapida occhiata
all'intorno, e vide non molto lungi due guardie che passeggiavano,
facendo d'occhio di tanto in tanto alle due cappe. Così
queste come le guardie potevano trovarsi là per tutt'altro, ma
il Galantino sentì la certezza che aspettavano lui; gli era
come quando uno si sente colto da un malore anche lieve durante un
morbo contagioso; che in quel malore, provato spesso senza turbarsi,
sente con isgomento il sintomo fatale. Galantino si fermò un
istante su due piedi, come per fare una rapidissima consulta fra sè
e sè; poi, considerato che non c'era a far nulla, mosse
difilato, sebbene con placida lentezza, verso la porta della sua
casa. Fu allora che le cappe, venutegli incontro:
È ella, domandarono, il signor Suardi Andrea di Milano?
Sono io per l'appunto; in che posso ubbidirle?
Voglia venir con noi un momento a palazzo.
Subito?
Senza perder tempo. Questo è l'ordine.
Il
Galantino, con viso calmo, con occhio blando, guardò alle due
cappe, e:
Io sono pronto, disse, quantunque non abbia dormito la notte... Ma
vogliano permettere ch'io mi serva della mia gondola...
La gondola è già pronta.
Allora eccomi qui.
Vennero
al rio; la gondola e i gondolieri avevano lo stemma di palazzo. Il
Galantino fu pregato di mettersi a sedere sotto il felze; le cappe
nere stettero fuori. I remi toccarono l'acqua, e via.
VI
Disceso
al palazzo Ducale, il Suardi fu condotto negli ufficj del Consiglio
dei Dieci, dove da un segretario gli venne fatta lettura d'una nota
del Senato milanese che lo riguardava; dopo di che gli fu soggiunto
essere stato deliberato dai signori Dieci di esaudire l'inchiesta del
Senato di Milano, facendo scortare il Suardi fino al confine, dove lo
si sarebbe consegnato alle autorità competenti del ducato di
Milano. Galantino a quell'intimazione, senza smarrirsi in apparenza,
quantunque fosse oltremodo percosso nell'intimo suo, rispose:
Riuscirgli inesplicabile una tale inchiesta; non aver esso fatto atto
veruno pel quale potesse aver timore di chicchessia; che però
si sottometteva obbediente al decreto e della Repubblica e del Senato
di Milano, certissimo che in poco tempo ai signori Dieci sarebbesi
fatta conoscere la causa dell'errore di cui egli in quel punto era
vittima. Il segretario non rispose nulla, e soltanto chiesto al
Suardi se voleva mandare a prendere le sue robe, se aveva affari
lasciati in tronco in Venezia che volesse adempire; e sentito il suo
desiderio, provvide a che fosse esaudito. Così in quello
stesso giorno venne sotto buona scorta mandato a Milano.
Il
Galantino, lo abbiamo già detto, aveva una tal tempra
adamantina di corpo, che per il rapporto necessario che è tra
materia e spirito, gli rendeva l'animo saldissimo e imperterrito,
anche nel più fiero conflitto di quelle circostanze che
avrebbero bastato ad abbattere qualunque altro. Avea pure, abbiam
detto anche questo, una tal prontezza di veduta, da fargli pigliare
di volo la misura esatta delle cose; ne sia prova il non esser
fuggito innanzi alle cappe della Repubblica.
Sebbene
dunque quell'arresto impreveduto lo avesse a tutta prima sconcertato,
come avviene di un uomo robusto colto all'impensata da un colpo
violento, tuttavia si riebbe dopo la prima scossa, e si bilanciò
per non perdere l'abituale saldezza.
Chi ne fa una ne fa due, pensava intanto fra sè nel fare il
viaggio. E chi non ci mise nè pepe nè sale a tradire il
marito, doveva ben tradire un lacchè. Ma va pur là,
contessa... Se il diavolo mi toglie da questa trappola... voglio bene
che ci rivediamo, e... allora tu sentirai cosa fa il Galantino quando
pensa a vendicarsi. Prima però bisognerà scappar dalla
trappola... questo lo capisco anch'io. In quanto a me, mi aiuterò...
ma sarà sempre bene che gli altri non faccian l'asino...
perchè di ragione, se io taccio, essi dovrebbero strapparsi la
lingua piuttosto che parlare. Ah signor conte... io penso che la mia
salute gli debba star a cuore più che a me... perchè se
io cado, anch'esso ha a cadere... e da che altezza! Ben è vero
che il conte non mi ha mai nè veduto nè parlato, e
potrebbe, in un bisogno, lasciarmi solo nell'intrigo... Ma allora,
quand'io sappia stare ben sodo nel dir di no... il malanno svanirà
da sè. E qui a codesti pensieri abbastanza gai in mezzo
al disastro, succedevano altri pensieri, tutt'altro che lieti; e si
presentavano alla fantasia conturbata del Galantino le parti
squallide della sua condizione, malediva il giorno e l'ora che si era
lasciato pigliare allamo da chi non conosceva, per tentare una
impresa delle più pericolose; perchè alle cose che già
sa il lettore, aggiunga ora avere il Galantino aderito a trafugar le
carte, tra le quali era il testamento del marchese F..., per
insinuazione di un uomo che a lui volle tenersi ignoto. Che se egli
aveva tosto pensato al conte F..., in quella circostanza, e per
alcune parole scappate di bocca allo sconosciuto e per altri indizj,
ciò non era stato che in conseguenza della sua straordinaria
acutezza. Pensando così lungo il viaggio ad un tale
sconosciuto, si turbò alquanto nel sospetto che colui, nel
frattempo, avesse mai potuto commettere qualche imprudenza; o, per un
giuoco non previdibile della maledetta fortuna, anche senza sua
colpa, fosse caduto in qualche agguato. Più dunque l'ex-lacchè
e l'ex-gentiluomo avvicinavasi a Milano, più smarriva la
baldanza e non per il timore di dover passare troppo tempo in
prigione, chè a questo, in suo pensiero, si lusingava di anche
abituarsi; ma ciò che lo cruciava veramente si era che aveva
con sè molt'oro e ricapiti di danaro; oro e ricapiti che
avrebbe consegnato al diavolo piuttosto che alla giustizia. Ma a
questo punto, per la solita legge del flusso e riflusso, gli vennero
i terzi pensieri, che lo rimisero in calma nel punto che fu in veduta
di Milano. Il tarocco l'ho io, riflettè, e bene io fui
destro nè a cederlo nè ad abbruciarlo, ed è
riposto in tal luogo, che sfido il diavolo a scovarlo fuori; e prima
converrà parlare con me. Ma per quanto codesta
riflessione lo avesse alquanto consolato, quando venne in piazza
fontana e guardando per la contrada Nuova vide la facciata negra e
burbera del palazzo di Giustizia, uno dei pochi edificj
architettonici di Milano che abbiano il di fuori come il di dentro,
la sua faccia rosea diventò color di piombo.
Il
Senato di Milano, poche ore prima, aveva ricevuto una nota da quello
di Venezia, nella quale gli si annunziava la cattura fatta
dell'Andrea Suardi e la sua partenza per Milano; però quando
il Galantino entrò nel palazzo del capitano di giustizia, la
sua venuta era attesa da qualche ora, e già gli era stato
preparato l'alloggio. Il più generoso degli avventori non
poteva venir trattato con maggior sollecitudine da nessun
albergatore. La notizia intanto che le presunzioni pel fatto di casa
F... erano cadute sul Suardi, lacchè notissimo a tutta Milano,
era già corsa per la città, come avveniva sempre ad
onta di tutte le precauzioni di segretezza; parimenti eran note a
tutti le misure prese contro di lui, e questa volta pare che il
Senato non abbia desiderato un soverchio segreto, e meno ancora
quando il reo convenuto fu catturato; perchè un tal
avvenimento accresceva presso il pubblico la riputazione
dell'autorità criminale. Tutta la città di Milano fu
dunque piena di un tal fatto, e l'aspettazione delle sue conseguenze
erasi convertita in un'ansia impazientissima, perchè da un
lato in tutti gli animi era spontaneamente penetrata la
persuasione che il reo doveva precisamente essere il lacchè; e
dall'altro era universale l'opinione che quel giovane furfante doveva
aver lavorato per mandato altrui. Ma d'un nuovo fatto era in attesa
la città, ed era la liberazione del tenore Amorevoli; a cui
sapevasi già dover essere favorevole la sentenza del Senato.
Questo, infatti, appena seppe che il lacchè era nelle mani del
barigello, si raccolse a consulta e, ad una gran maggioranza,
sentenziò per la liberazione del costituito Amorevoli; con
ingiunzione però che non dovesse uscire dalla città di
Milano fino a tanto che non si fosse iniziato il processo del Suardi,
onde poterlo, all'uopo, sentire in giudizio a constatare la
somiglianza o meno tra il costituito Suardi e l'uomo che il tenore
Amorevoli aveva sempre asserito di aver veduto a fuggire.
Ma
se per il cantante di camera del re di Spagna, dopo aver fatto per la
prima volta in sua vita una quaresima di tutto rigore in carcere, a
un tratto era comparso il sereno; per Lorenzo Bruni le cose
camminavano diversamente, e tale e tanta era la mala prevenzione
della magistratura contro di lui, che non solo venne chiamata assurda
la difesa del Verri, la quale aveva proposto di mandarlo assolto
d'ogni pena; ma contro la verità palmare, contro la
deposizione di donna Paola, contro la irrecusabile prova esibita
dalla lettera stessa della contessa Clelia, prodotta in giudizio, si
volle capziosamente persistere nell'accusa di tentato trafugamento a
danno della contessa medesima, o pel manco, trarre le cose in lungo,
quasi in attesa di nuovi indizj contro il costituito Bruni. Pietro
Verri, a cui la cosa fieramente cuoceva, e voleva pure, benchè
solo e giovane e avversato dal padre, riuscire a far trionfare la
giustizia assoluta contro la giustizia convenzionale, pensò di
recarsi ad impetrare per quel fatto la valida cooperazione di donna
Paola Pietra di cui era ammiratore sviscerato. Nemico per istinto e
per ragionamento d'ogni pregiudizio e d'ogni schiavitù alle
consuetudini tiranniche, aveva ammirato in colei quella potenza di
ragione e di volontà, per cui, convinta del vero, era stata
fortissima contro l'arbitrio; e per cui, avendo fatto ciò che,
tra gli spiriti pinzocheri e il vulgo impregnato di idee false,
doveva pure generare scandali e persecuzioni, non per tanto s'era
comportata di maniera, da produrre gli effetti contrarj; onde
fuggendo dal convento, ed essendo passata dalla vita claustrale a
quella del secolo, aveva tuttavia fatto forza all'opinione vulgare ed
era salita in tanta venerazione, che la maggiore non avrebbe potuto
conseguirsi in verun altro modo. Il qual caso singolarissimo della
vita di donna Paola aveva fatto più volte considerare al
giovane Verri come non fosse poi, siccome altri opinava, impossibile
il distruggere i pregiudizj e le male abitudini inveterate del
pubblico costume; e come se tutti gli uomini che vedono il giusto
avessero vero coraggio e costanza vera, gli errori non avrebbero mai
avuto nel mondo una vita eccessivamente lunga. Fanciullo e
giovinetto, essendo stato più volte insieme colla contessa
madre a far visita a quella venerabile donna, pensò dunque che
gli tornasse bene parlarle adesso che aveva una cosa importante ad
affidarle. Per verità che la casa di donna Paola Pietra era
frequentata giornalmente da un numero così strabocchevole di
persone, e le cose a cui ella era supplicata di provvedere erano
tante e così continue e intricate, che non basterebbe il
portafoglio di due ministri per darne un'idea. Però il lettore
potrà credere che una tal ragione di vita dovesse riuscire
molto incomoda e penosa a quell'egregia donna, e che a' dar spaccio a
tutto non le potessero bastare le ventiquattr'ore del giorno. Una tal
cosa infatti l'abbiamo pensata anche noi, e al punto da sentirci
mancare il respiro, quel respiro che qualche volta avrà dovuto
mancare alla stessa donna Paola. Ma a tutto si risponde col dire che
ella vi aveva il suo genio, e che recava l'entusiasmo nel pensiero di
poter essere utile altrui. Certo che una donna di tal tempra è
una eccezione fuor d'ogni ordine comune; ma è perciò
appunto che l'abbiam messa innanzi ai lettori; che gli uomini e le
donne di tutti i giorni non meritano sempre di essere oggetto alle
elaborazioni dell'arte. Fra Cristoforo, ideale sublime, si
rifuggì al chiostro, perchè il mondo lo sgomentò,
e non vide che fuori del mondo il da ubi consistam per far
fruttare la sua calda virtù a pro de' fratelli. Donna
Paola Pietra fuggì invece dal monastero, perchè non
sentiva come nel claustro ella potesse esercitare un'azione benefica
a pro dell'umanità, e volle ritornare nel tumulto della vita e
nel fitto della battaglia, felicissima di affrontar pericoli e di
medicare ferite.
Pietro
Verri si volse dunque alla casa di lei, e fattosi annunziare, senza
tanti preamboli così le disse:
Molte volte, in compagnia di mia madre, io venni qui, senz'altro fine
che di vedere dappresso chi, anche fanciullo, io ammiravo tanto; ora
vengo per una delle solite cagioni per cui vengon tutti: voglio dire,
per interessarla ad ajutare delle buone persone, maltrattate dagli
uomini. A me è riuscito di sapere come V. S. siasi già
interessata a pro del costituito Lorenzo Bruni, del quale io fui
eletto protettore per sua disgrazia.
Per sua disgrazia? in che modo?
È presto detto: per avere espressa la verità intera, e
senza le solite astuzie della prudenza. Perciò sarebbe
necessario che V. S. parlasse di ciò al signor
ministro-plenipotenziario, il conte Pallavicini, il quale è
l'autore appunto dell'ordinanza sulle maschere-ritratti, contro la
quale il Bruni non ha altra colpa che della materiale
contravvenzione. Ma siccome V. S. sa bene che si vuol persistere nel
ritenerlo, se non colpevole, per lo meno sospetto d'aver fatto rapire
la contessa... così...
Donna
Paola Pietra si alzò a queste parole indignata, e:
Ciò non è possibile, esclamò; io stessa
produssi la lettera della contessa, che toglieva ogni dubbio.
La luce non c'è, tanto per chi non ci vede, come per chi non
ci vuol vedere...
Parlerò al ministro...
Prima però sarà bene preparare il Senato, che di
ragione verrà interpellato: e i cavilli non mancano, e i
sofismi e i soliti giuochi delle carte tramutate e dei bussolotti.
C'è poi di più, che la contessa, a rigore di processo,
dovrebb'essere sentita personalmente in giudizio... perchè una
lettera... la S. V. capisce bene... può essere stata dettata e
imposta dalla violenza, e la legge, quando vuole, tiene
calcolo di tutto... onde a queste rimostranze il governatore
potrebbe... Ella, che ha tanto senno ed esperienza, vede bene come
vanno il più delle volte a finir queste cose, allorchè
c'entra di mezzo il puntiglio.
Voi dite benissimo... ma allora che si fa?
V. S. mi perdoni, ma mi lasci parlare con libertà.
Io sono qui ad ascoltarvi.
È necessario che la S. V. senta la ballerina Gaudenzi alla
quale io ho già parlato... Questa ragazza è la pupilla
del Bruni, ed è la fanciulla più semplice e più
virtuosa che dar si possa in seno a qualunque onesta famiglia, non
che in mezzo alla polvere d'un palco scenico... ed è tanto
sconcertata per la prigionia di quel bravo uomo di Bruni, che darebbe
la vita onde vederlo rimesso in libertà. A costei ho dunque
detto di venire a raccomandarsi alla S. V.
Non c'era nessun bisogno, io sono disposta a far tutto quello che c'è
da fare... anche senza che questa fanciulla s'incomodi a venire da
me...
Questo lo so anch'io, ma è un'altra la ragione per cui è
necessario che questa buona ragazza venga consolata dalle parole e
dai consigli della S. V.
Ma di che dunque si tratta?
È un affare assai delicato.
Sentiamo.
V. S. sa che il Senato... voglio dire i Senatori, almeno alcuni di
loro, non sono quelli che precisamente dovrebbero essere... e che
taluno, son cose che fa pena a dirle, ha, per esempio, l'abitudine di
fare, benchè di nascosto... bottega dell'alto suo ministero...
Oh!!...
Io non credo d'aver detto cosa che le possa riuscire assolutamente
nuova; ella ha provato di peggio.
Pur troppo. Continuate.
Il caso poi ha voluto che quelli precisamente che trattan la
giustizia colle ganascie più che colla mente e col cuore, sono
i più aperti d'ingegno.... e quel che più fa, sono i
più ostinati e violenti, e hanno l'arte di tirar la maggior
parte a votare con loro... V. S. vede dunque che...
Vedo tutto e non vedo nulla.
Converrebbe che la ballerina Gaudenzi in compagnia d'una sua zia
facesse una visita a questi tali... e dopo le suppliche e i sospiri e
i pianti... trovasse il modo di lanciar gentilmente deposto sul
tavolino verde, tra la penna e il calamajo, qualche rotoletto
onnipotente di zecchini. I nomi dei signori senatori a cui l'oro fa
dir Toma per Roma son questi e questi (e pronunciò nomi che
noi non possiamo ripetere). Ma, continuava il Verri, come si fa a dir
tutto questo alla fanciulla, dal momento che a me, per mille
rispetti, è impedito di toccar un tal tasto?... Nè lo
avrei fatto oggi, se non fosse qui ad ascoltarmi la vostra saviezza.
In conclusione, a che volete riuscire con queste parole?...
La vostra sapienza m'illumini; ma se, a mettere in salvo gli
innocenti, non ci fosse proprio nessun altro mezzo che il sacrificio
di cinque o sei rotoletti... che sono una bazzecola per chi saltando
in teatro guadagna più di un ministro, converrebbe forse, per
soverchio rispetto alla giustizia, lasciar offendere la giustizia?
Donna
Paola Pietra si alzò, e:
Mandate da me codesta fanciulla. Sentirò e vedrò... ma,
caro mio, la cosa è così estremamente delicata ch'io
non so quel che sarò per fare. Son propositi che solo a
toccarli contaminano la ragione e l'onestà... Un tempo erano
crudeli e feroci. Ora han mitigate le apparenze, e son diventati...
Oh tempi infelici! Mandatemi dunque la fanciulla.
Pietro
Verri partì.
Il
dialogo surriferito del conte avrà fatto senso al lettore, e
anche noi fummo per gran tempo in dubbio di mettere a nudo cotali
piaghe. Ma pensando poi che tutto serve a lezione, e che il fatto
solo della possibile pubblicità che tosto o tardi viene a
svelare le colpe state commesse nella creduta sicurezza del segreto,
può utilmente fare il suo effetto in tutti i tempi e in tutti
i luoghi; abbiamo creduto opportuno di affidare per la prima volta
alla stampa la notizia di alcuni accidenti della vita pubblica e
privata del secolo passato, che finora non ottennero che di passar di
bocca in bocca dall'una altra generazione, e di non deviare e
perdersi nel trapasso. Ma dove sono i documenti orali di quanto fu
riferito? Essi sono scarsi e succinti, ma fedeli; essi sono sfoghi
repentini della satira plateale, ma che ottennero di perpetuarsi
quasi come l'epigrafe della storia in tavola di bronzo. Chè il
popolo avea l'abitudine di nominare alcuni senatori intinti nella
pece della venalità con motti proverbiali; e per citarne uno,
aveva condannato a subire il disonore della strofa seguente due che
in ciò avevan passato il segno:
Divora
il C
erro
L'oro,
l'argento e il ferro;
Il
senator M
tone
Divora
anche l'ottone.
Che
più? In un vivacissimo diverbio avvenuto nelle aule stesse del
Senato, un Morosini, il quale era svizzero (in Senato confluiva la
nobiltà non solo del ducato di Milano, ma anche d'altri Stati,
della Toscana, per esempio, della Romagna, ecc.), ebbe a dire ad un
senatore che avea gran voce in capitolo, ma che facilmente si
lasciava pigliare all'amo, Ch'egli non aveva i suoi possedimenti a
Biassonno, ossia che non biasciava o non mangiava alle
spalle altrui. Se non che quello stesso Morosini che avea la virtù
d'essere incorruttibile, assaporava poi con truce diletto i tormenti
fatti subire agl'imputati, e assisteva alla tortura sorseggiando la
cioccolata.
Ed
ora andiamo a trovare il tenore Amorevoli.
VII
La
letteratura sarebbe assai più feconda se avesse il comodissimo
privilegio della musica, nella quale, allorchè un maestro si
trova a contatto di una bella situazione drammatica, e si ricorda
d'aver letto in qualche vecchio spartito un bel motivo che gli paja
ben adatto alla situazione stessa, se lo appropria senza molti
scrupoli e senza timore che gli si possan fare i conti addosso. Il
sommo, l'unico, l'immortale Rossini, allorchè un amico gli
fece osservare, a proposito d'un suo celeberrimo quartetto, che
quella musica trovavasi già in un vecchio spartito di Meyer,
il maestrone non fece altro che crollare il capo, ed esprimere la sua
compassione per la mellonaggine dell'amico scrupoloso, soggiungendo,
per un di più, queste parole: Dal momento che a quella
situazione non c'era e non ci poteva essere musica più
acconcia di quella già fatta da Meyer, perchè correr
pericolo di guastare una situazione per la smania puerile di fare una
musica nuova? Oh così potessimo godere anche noi di un
tal privilegio, e tanto più che vi avremmo un diritto maggiore
per la nostra condizione di non immortali! In virtù di questo
privilegio noi oggi non avremmo fatto altro che riportare come cosa
nostra quella bella variazione che Goethe mise in bocca al suo Fausto
sul tèma eterno della primavera: «I ruscelli e i
torrenti si disvolgono sotto il soave, vitale sguardo della
primavera; il vecchio e debole inverno si va ritraendo sull'ispide
cime dei monti. Di lassù ci manda ancora, nella sua fuga,
qualche spruzzaglie di gelo, ecc., ecc.,» e così, senza
molta fatica e colla sicurezza d'un gran successo, avremmo fatto
l'istrumentale d'introduzione all'aria di sortita del tenore
Amorevoli, che uscì di fatto di prigione in primavera, mentre
faceva una splendida mattina del mese d'aprile, un aprile che avrebbe
ben potuto chiamarsi fiorile anche prima della nuova nomenclatura
della repubblica francese. Oh dev'essere bene esuberante la gioja che
prova un galantuomo il primo istante che, preso commiato dall'amico
secondino, esce all'aperto, libero, tra gente libera...
vogliamo dire senza manette. E una tal gioja non possiamo gustarla
che per intuito, dal momento che non abbiam mai avuto, non sappiamo
se la disgrazia o la fortuna, d'andare in prigione; diciamo la
fortuna, perchè da quel Giuseppe che disprezzò la
moglie di Putifarre, al violinista Tartini, pare che la prigionia
talvolta faccia l'effetto d'un di que' sogni per la cui virtù
discendono infallibili ai mortali i numeri del lotto. Ma, per tornare
a fatti nostri, Amorevoli uscì tutto attillato, dalla
prigione; chè i secondini pagati lautamente da lui, gli
avean sempre fatto i punti d'oro. Uscì, e venendo per contrada
Nuova e piazza fontana, s'avvide di esser presso alla contrada Larga,
e, per conseguenza, vicinissimo al teatro Ducale; però non
ebbe allora altro pensiero che di recarsi là, e presto si
trovò alla porta del teatro. Zampino, il servo del palco
scenico, fu il primo a raffigurarlo, quand'egli si mostrò
all'ingresso, e fu per cadere in deliquio per la gioja; non c'è
nè cane barbone, nè cane maltese, nè cane pinch,
che sappia fare smorfie e salti di consolazione alla vista d'un
padrone ritrovato, quanti ne fece quel caro nanerottolo di Zampino a
vedere la faccia del suo tenore, del signor Angelo Amorevoli, il
quale era stato la sua risorsa durante la stagione di carnevale.
Nè Zampino si fermò lì, ma sempre, come un buon
cane amoroso che corre abbajando in casa per annunciare alla famiglia
la venuta del padrone aspettato, corse in teatro, dove si facean le
prove per la stagione di primavera, e ad onta che la nuova prima
donna signora Amarillide Bagnoli stesse sfoggiando una cadenza di
parata, gridò con quanta voce aveva in corpo: Signori, è
qui il signor Amorevoli! è qui finalmente il signor Amorevoli!
Tutti
i professori d'orchestra, i cantanti, i coristi, le comparse non
ebber più l'animo alle prove, e furon tutti intorno
all'Amorevoli a tempestarlo di domande e di congratulazioni; tanto
che egli si vide obbligato ad invitarli tutti a pranzo all'albergo
dei Tre Re, dov'egli era alloggiato e dove, pochi momenti dopo, si
recò in compagnia di Zampino, de' cui servigj in quella
giornata aveva grande bisogno. E là non è a dire
la festa che gli fecero loste, i camerieri, il cuoco, il quale
andava superbo della confidenza che gli aveva accordato il primo
tenore del teatrino, quel tenore tanto affabile che più volte
erasi recato in cucina, con insolita degnazione, per ordinargli dopo
il teatro il solito brodo a gelatina. Ma il nostro Amorevoli
entrò finalmente nel suo alloggio, rimasto vuoto da tanto
tempo, e che l'oste aveva voluto a buoni conti chiudere a
chiave nel tempo della cattura, pensando che qualcuno
avrebbe pagato, e quando non si fosse presentato nessuno, si sarebbe
pagato egli stesso col baule e coi tre cassoni, zeppi di roba e di
vestiarj. A proposito dei quali, Zampino fu tosto in faccende per far
loro pigliar aria, chè questa era sempre stata la sua
incombenza; e intanto che il tenore attendeva a dare udienza alle
visite, delle quali, dopo alcun'ora, cominciò la processione,
era bello vederlo a togliere da un cassone un elmo che aveva servito
nella parte d'Alessandro nelle Indie, e pulirlo colla seppia;
toglier da un altro una daga con lama di damasco, che aveva brillato
nell'Artaserse, e strofinarla con panno lano; sprigionare e
spiegazzare un manto rosso tutto ricamato in oro, dicevasi, da una
principessa incapricciatasi del signor Amorevoli (manto prezioso, che
molto aveva contribuito al successo del Ciro in Babilonia),
e metterlo a pigliar aria sulla ringhiera; e
tirar fuori stili e stiletti d'ogni sorta con foderi di velluto di
tutti i colori e prepararli per dar loro la polvere di pomice, e
disporre tutte in giro a cavalcione della stessa ringhiera quelle
dieci o dodici paja di maglie, color carne, bianche, rosse, azzurre.
Oh com'era felice Zampino di aver ripigliato quell'operazione
importante!
Quando
le visite, fra le quali, oltre ai nobili ispettori del palco scenico,
vi furono molti giovani cavalieri delle primarie famiglie,
singolarmente innamorati della musica, concessero un po' di respiro
al nostro tenore, divenuto in quel dì il personaggio più
considerevole della città, al punto che se avesse fatto pagare
il biglietto d'ingresso per farsi vedere, avrebbe guadagnato una
bella somma; allorchè dunque tutti coloro lo lasciarono
respirare, ed ei si trovò solo un istante, colse il momento
opportuno, ed uscì per recarsi egli stesso a fare un atto di
dovere con sua eccellenza il governatore conte Pallavicini, alle cui
feste aveva cantato più d'una volta, e che, per quanto gli era
stato riferito, aveva messa una valida parola a di lui vantaggio.
Quando dall'usciere fu introdotto nell'anticamera magna, dove da
qualche ora stavano in aspettazione i molti che si erano dati in nota
per parlare a sua eccellenza, vide uscire dalla stanza del
governatore la Gaudenzi appunto, insieme con la quale trovavasi donna
Paola Pietra, ch'egli non conosceva. Si riconobbero tosto e
l'una e l'altra, e pari essendo stata la meraviglia in ambidue, si
corsero incontro interrogandosi a vicenda:
Voi qui?
Qui voi?...
E
tosto la Gaudenzi volgendosi a donna Paola:
È il signor Amorevoli, disse.
Che oggi per la prima volta respira un po' d'aria libera, soggiunse
tosto egli stesso.
Donna
Paola, sentendo quel nome, non potè a meno di guardare il
tenore con grande curiosità, ma non disse nulla.
Continuava
intanto la Gaudenzi:
Sono qui, come vedete, perchè la nobile signora (e additava
donna Paola) che si è degnata di accordarmi la sua protezione,
ha avuta la compiacenza di presentarmi ella medesima a S. E., per
impetrare la grazia del signor Lorenzo Bruni.
Scusate, disse Amorevoli, io vengo dal bujo, e veggo ancor bujo;
qualcosa ho sentito dire, ma di preciso non so nulla; intanto che
aspetto, vogliatemi dunque raccontare ogni cosa; e con atto di
cortesia presentava una sedia a donna Paola.
Non vi pigliate incomodo, ella disse, mi attende la carrozza che mi
dee condurre dove sono aspettata. Voi intanto, cara mia, soggiunse
volta alla Gaudenzi, indugiatevi qui fin che il segretario vi porga
il biglietto confidenziale di S. E. per il presidente del Senato... E
in quanto al resto, vivete di buon animo, chè presto, mi
lusingo, sarete uscita da ogni fastidio; che Iddio vi benedica!
E partì.
Oh che santa donna, oh che donna amorevole è quella che ora ci
ha lasciati! disse la Gaudenzi. Senza di lei sa Iddio che mai sarebbe
avvenuto di Lorenzo! E si fece a raccontare all'Amorevoli
tutto l'imbroglio storico che noi sappiamo. Amorevoli, che in
prigione non aveva raccolto che qualche frammento di notizia dai
secondini, il quale gli avea cresciuto la confusione delle idee,
mentre poi coloro che lo avean visitato all'albergo non
l'avevano intrattenuto che di complimenti, credette di sognare quando
sentì la storia della maschera, del deliquio, della fuga,
dell'arresto.
Dunque la contessa è fuggita?
Fuggita, sicuro.
Ma dove?
Si dice a Venezia.
Oh!!!...
Amorevoli
tacque...; la Gaudenzi non parlò. Un eloquentissimo silenzio
durò per qualche momento.
Ma voi dovete ballare al san Moisè questa primavera, soggiunse
poi Amorevoli.
Sì... e devo partire a giorni, e faccia la fortuna che Lorenzo
ci abbia ad accompagnare. Ma ho sentito che anche voi...
Io sono scritturato, a stagione, pel carnevale venturo...; in quanto
alla primavera, non sono obbligato che per sei recite, e non ho
potuto dir di no, perchè quei signori patrizj mi hanno mandato
una cambiale colla cifra in bianco; perciò vedete bene che ho
dovuto lasciarmi vincere.
La
Gaudenzi sorrise, e non rispose nulla. In quella entrò un
segretario di S. E., e le consegnò una carta, ricevuta la
quale partì di là, insieme colla zia che l'attendeva in
un angolo dell'anticamera.
Amorevoli
stette aspettando che venisse la sua volta di essere introdotto al
governatore; per il che dovette lasciar passar quasi un'ora avendo
cangiata la noja dellaspettare nell'altra noja non meno pesante
di dover subire mille interrogazioni da quanti erano là ad
aspettare con lui.
Entrò
finalmente dal governatore, trovò affabile accoglienza, parlò,
ebbe lusinghiera risposta, prese commiato, e, partito di palazzo, e
adempiute alcune altre faccende, ritornò finalmente
all'albergo dei Tre Re, dov'era già preparata una gran tavola
per più di quaranta posate, la quale era la tassa che
Amorevoli doveva pagare per essere stato liberato dalla prigione.
Il
numero dei convitati l'avea dato Zampino, che in quel giorno fu
cameriere soprannumerario e sovrintendente. Poco prima delle due
tutti i commensali eran raccolti all'albergo. Alle due fu dato in
tavola. Vi sedevano la nuova prima donna, il nuovo primo tenore, il
nuovo primo basso. Il primo violino direttore d'orchestra, il maestro
Giambattista Lampugnani, compositore e concertatore; i rappresentanti
di tutti gli ordini della gerarchia teatrale. Il pranzo principiò
in silenzio, si animò a mezzo, si riscaldò poscia;
prima cominciarono a parlare alcuni, poi ad uno ad uno entrarono
tutti gli altri col sistema precisamente degli stromenti d'orchestra;
e col sistema del crescendo rossiniano, allora nemmen sospettato dai
maestri, quantunque fosse un modo spontaneo della combinazione dei
suoni, tutti si confusero finalmente in quel poderoso e strepitoso
unisono che compromette il timpano degli orecchi delicati. Quando poi
corse il moscadello e il monterobbio, e le idee nei cervelli
riscaldati cominciarono a far la ruota, non vi fu più ritegno
nè di parole nè d'allegria.
Viva il tenore Amorevoli!
Viva il re dei tenori!
La simpatia delle platee.
Dite piuttosto dei palchetti.
Ah mio caro Amorevoli amoroso, saltò su un tal Frontino,
secondo tenore, un po' esaltato, tu porti il nome con te e dovunque
tu vada, quando non fai da Giasone, fai da Paride e fai da Enea... Ah
diavolo che tu sei, ti ho seguito un pezzo per tutti i primi teatri e
d'Italia e di fuori... e dappertutto hai sempre fatto l'effetto d'un
tizzone gettato in una polveriera... Ti ricordi a Roma... ti ricordi
a Napoli... Oh, a Napoli... quello fu un contrattempo!... E a
Madrid... a proposito, sei guarito da quella puntura nel collo?...
Ah... ecco qui...
Chi
si guarda dal guarnello,
Più
si guarda dal coltello....
Ah!
ah! ah!
Poveri mariti, dove tu bazzichi... È però
anche vero che non sei de' più fortunati... Là il collo
fasciato, qui le mani legate. Ah! ah! ah!, e rideva un po' perchè
aveva ragione, un po' perchè il vino rideva per lui.
Taci, taci, Frontino, disse Amorevoli, e lasciami in pace, e se sei
allegro più del solito, sta in carattere almeno e parla di
cose allegre.
Ho detto così per dire, e anche per darti un consiglio, il mio
Amorevoli, perchè so che tu vai a Venezia... e quella è
la città dei pericoli e dei trabocchetti amorosi. Però
sta in guardia.
Ma
gli altri compagnoni, sebbene allegri come il secondo tenore signor
Frontino, diedero di svolta a quel discorso malsano, e trovati altri
propositi, prolungarono sin quasi a sera lo sturamento del
monterobbio; e se ne uscirono tutt'altro che responsabili della
conservazione del loro centro di gravità. E fu davvero un
mezzo prodigio se, verso mezzanotte, i suonatori del teatro
raccapezzarono tanto di lena e di fiato da mettersi a sedere ad una
orchestra posticcia innanzi alla porta dell'albergo dei Tre Re, per
fare una serenata di congratulazione e d'addio al celebre tenore che
il giorno dopo doveva partir per Venezia; perchè, se il
lettore non lo sa, lo sappia adesso, che prima di abbandonare il
Capitano di giustizia, condotto a guardar la faccia di Galantino,
protestò di non ravvisarlo affatto; onde ebbe licenza, se
voleva, di partire anche dalla città di Milano.
La
parte giovane e vivace e tanto quanto musicale della popolazione di
Milano, che aveva subodorata quell'accademia a ciel sereno, affollò
la contrada dei Tre Re, e, secondo il costume imperscrivibile dei
giovinotti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, fecero un baccano
del diavolo, e chiamarono a gran voce il tenore, che dovette più
volte mostrarsi sul poggiolo dell'albergo a ringraziare, come se
fosse una testa coronata, il buon popolo delle attestazioni di
benevolenza onde gli era cortese; e finalmente potè andar a
dormire quando i violini cominciarono a sentir l'aria umida della
notte, e gli strumenti da fiato cessarono di ricever fiato dai loro
proprietarj, che sonnecchiavano coi corni e i clarinetti in bocca.
Ma
v'è chi dorme di notte, e v'è chi veglia; e
precisamente quando il tenore Amorevoli potè pigliar sonno,
vegliava ancora... chi? un uomo di cui il lettore si è forse
dimenticato: il conte ex colonnello V..., il marito della contessa
Clelia.
Noi
lo abbiamo lasciato in un tristo momento, in cui l'ira gli era stata
dimezzata in petto dalla pietà... Dopo, dovette cedere alle
circostanze... ai pianti della madre di donna Clelia, a quelli della
sorella, ai consigli del fratello... D'altra parte, fuggita la
contessa, imprigionato il reo tenore, quand'anche avesse voluto far
mulinelli collo spadone che aveva portato al reggimento, non avrebbe
potuto che farli all'aria: si contenne dunque fremendo, al punto che
potè aderire al suggerimento di suo fratello, uno del nobile
collegio dei giureconsulti, e presentar la petizione formale per
ottenere contro la moglie la divisione giuridica di letto e di mensa.
Essendo poi noto sì a lui come al parentado che la
contessa erasi rifuggita a Venezia, dopo il falso gioco tentato per
far credere ch'ell'era stata rapita, più volte ei fu in
procinto di recarsi colà, e solo si trattenne al pensiero che
poteva nascere uno scandalo nuovo, superiore al disonore. Oltre a
ciò, il fatto che l'Amorevoli era in prigione, e trovavasi chi
sa per quanto tempo fuor d'ogni libertà d'azione, gli ammorzò
il furore per quella parte che bastava onde non lasciarlo partir da
Milano.
Ma
durante quella giornata seppe che il tenore era stato messo in
libertà; seppe inoltre (e a una tal notizia poco bastò
non uscisse di cervello affatto), che il tenore era stato scritturato
dai messeri ispettori del teatro di Venezia per sei recite. Un
uomo placido e di buon senso e di spirito, che fosse nato, per
esempio, a Parigi e fosse un seguace del sistema onde colà
trattavansi le infedeltà conjugali, non avrebbe fatto altro
che recarsi a domandar consigli di prudenza a una mezza dozzina di
ballerine voluttuose del teatro del Re... Ma egli era
ispano-italico. E questo fu il contrattempo.
Perciò, dopo il primo subbollimento del sangue, si contenne in
apparenza, e si finse tranquillissimo coi parenti, col fratello,
cogli amici; e tutto questo per potere annunciar loro, senza generare
sospetti, che voleva lasciar per qualche tempo la città, e
uscire a diporto... Partì dunque due giorni dopo, quasi
contemporaneamente all'Amorevoli... e, pur troppo, alla volta di
Venezia. Abbiamo pertanto, lettori amici e nemici, tutte le ragioni
di credere che la guerra sia tutt'altro che finita, e che soltanto
siasi trasportato altrove il quartier generale.
LIBRO
QUARTO
Il
giovane Parini. Una lezione intorno ad Orazio. I due
figli di donna Paola Pietra. Venezia ed il suo maggio.
La contessa Clelia, ed il gondolierepoeta Antonio Bianchi.
Il conte V... Preliminari del processo del lacchè
Galantino. Gli statuti criminali di Milano. Il diritto
romano e comune. I giurisperiti interpreti. Il giovane
Angelo Emo. Il palazzo Pisani e l'architettura a Venezia.
Il conte Algarotti. Letterati, pittori e architetti veneziani.
Il padre Vallotti e il violinista Tartini. La contessa
Clelia V..., e il recitativo del maestro Vinci. La suonata del
diavolo. Il duello e i suoi commentatori del secolo XV.
Il conte V... Il tenore Amorevoli e il gondolierepoeta.
I
..............Si
et vivo carus amicis,
Causa
fuit pater his; qui macro pauper agello
Noluit
in Flavi ludum me mittere, magni
Quo
pueri, magnis e centuribus orti,
Lævo
suspensi loculos tabulamque lacerto,
Ibant
octonis referentes idibus aera;
Sed
puerum est ausus Romam portare docendum
Artes,
quas doceat quivis eques atque Senator
Semet
prognatos..............
Così
è, cari miei; espressamente vi ho fatto tradurre questo passo
d'Orazio della satira VI del libro primo, perchè impariate a
conoscere questo poeta, osservato in tutte le sue facce... Il vostro
professore di rettorica, il quale fu anche mio professore può
aver ragione... ma non mi par giusto che si debba chiamar vizioso chi
del suo padre serba così onorata memoria; e ad ogni momento
non cessa di esprimergli la sua gratitudine, e vivendo tra cavalieri
e accanto a Mecenate, esalta il padre liberto, e dice:
.......at
hoc nunc...
Leggete
qui:
Laus
illi debetur et a me gratia maior.
Nil
me pniteat sanum patris hujus.
Costui
non poteva dunque essere nè cortigiano mai nè vile.
Ci
vuol altro che richiamar sempre l'epistola Cum tot sustineas,
ecc., dove Flacco per la prima ed unica volta esagerò le
lodi d'Augusto, e della quale fu cagione una lettera minacciosa
scritta dallo stesso principe a lui; ci vuol altro che dimenticare a
bello studio il coraggio onde Orazio non dubitò di ricordare i
suoi legami con Bruto, e di lodare gli ultimi eroi della repubblica
agonizzante, e di rifiutare il posto di segretario presso Augusto
medesimo. Così è, i miei ragazzi; tuttavia io non
voglio già dire che Orazio fosse senza peccato; chi lo è
in questo mondo? chi lo poteva essere in que' tempi? ma dico e
sostengo, e ad ogni occasione vi mostrerò, che egli fu uno
degli uomini più virtuosi e più schivi e modesti e più
liberi di quel tempo e di tutti i tempi. Nè se non fossi
convinto di ciò, mi sarebbe sì cara la sua poesia, nè
io sprecherei il mio tempo a spiegarla a voi con tanto amore e
costanza, se credessi quello che il padre Branda dice di lui. Io non
posso scompagnare quel che si pensa da quel che si fa, nè
posso dividere la ragione della vita dalla ragione dell'arte, perchè
chi conduce torbidi i giorni non può aver limpido il pensiero;
onde, se io pensassi d'Orazio quel che ne pensa il padre Branda,
getterei le sue odi e le sue satire da questa finestra; nè
voi, cari ragazzi, mi avreste vostro ripetitore, se fossi condannato
a magnificarvi la potenza dell'ingegno di un uomo di cui disprezzassi
la vita. Intanto da questo passo vi è mestieri apprendere come
dobbiate onorare la memoria paterna, come dobbiate venerare la vostra
madre santa.
Che cosa ha il nostro signor abate, disse in quella donna Paola
Pietra che entrava, nella stanza di studio dei suoi figliuoli....
Cos'avete, mio caro, che tuonate come un predicatore dal pulpito? e
sorridendo amabilmente, strinse la mano al giovane abate, che tutti i
giorni veniva a far la ripetizione ai suoi ragazzi, i quali
frequentavano le scuole Arcimboldi.
Nulla, o signora, ma in talune cose non posso andar d'accordo col
reverendo padre Branda, che onoro moltissimo, e al quale mi lega
gratitudine di scolaro. E non lo potendo, ho l'obbligo di parlar
chiaro e di dir tutto il mio pensiero anche a questi cari giovinetti.
La questione riguardava Orazio, di cui, contro il padre Branda,
sostengo che non solo era un grande poeta, ma era anche un poeta
galantuomo, perchè se non fosse così e se intorno a ciò
non avessi tranquillissima la mia coscienza, non sarei mai a
permettere che dei ragazzi avessero a correre pericolo di
contaminarsi a leggere le opere di tale, di cui non si potesse
vantare una vita complessivamente onesta; perchè è una
mia opinione che, pur di sotto alle avvenenze della forma,
serpeggerebbe il veleno funestissimo ai giovani.
L'abate
che parlava in tal modo, alto, scarno, che nell'esprimersi mandava
lampi dai grandi occhi neri, e spirava un'aura solenne dall'arco
maestoso del ciglio e dalle forme del volto già austero, per
quanto fosse giovane, tanto giovane che gli mancavano 25 giorni a
compire gli anni ventuno, era Giuseppe Parini. Donna Paola si
compiaceva ad assistere ella stessa alle ripetizioni che il Parini
dava a' suoi figli, e perchè si dilettava di quelle
animosissime digressioni, e perchè alquanto ne serbava in
mente per venire, all'uopo, in ajuto dei figliuoli, quando soli
attendevano ad eseguire il còmpito che dava loro il
professore. In quanto al Parini, ei s'infervorava per tal modo nella
spiegazione de' classici latini, e segnatamente del suo prediletto
Orazio, che il più delle volte bisognava che donna Paola lo
pregasse a desistere, ed aversi qualche riguardo; e gli facesse
presente dover esso dare altre ripetizioni in altre case prima che
terminasse la giornata.
Ciò
che può fare grandissimo un uomo in quelle arti dove la forma
e il gusto sono indispensabili a rendere efficace ed evidente ed
amabile il concetto, e segnatamente poi s'egli è nato per
esser genio di perfezione più che d'originalità, è,
diremo, la fortuna di trovare fra i grandi autori colui che abbia
quasi identiche alle sue, oltre alle qualità primitive
dell'intelletto, anche talune circostanze della vita. Il Parini, nel
suo presago orgoglio giovanile, si compiaceva forse di quel concorso
fortuito di accidenti pel quale, siccome Orazio dalla natia Venosa
era stato condotto a Roma dal padre liberto; così a lui era
toccato un padre tanto amoroso, che non dubitò di vendere
l'umile poderetto presso l'Eupili, pel desiderio ch'ei potesse
attendere agli studj nella capitale del Ducato di Milano.
Applicatosi
a questi e passato alle lettere umane, quando il Parini conobbe
Orazio, forse credette conoscer di più sè stesso, e
poter misurare con maggior sicurezza le naturali e caratteristiche
qualità del proprio ingegno. Fu quello adunque il suo
autore; lo studiò, lo tradusse, lo sottopose alla più
minuta analisi, disfacendolo, a dir così, per rifarlo; come
chi nato, per esempio, alla meccanica, si prova a scompaginare e
sciogliere ad uno ad uno tutti i congegni d'un movimento d'orologio,
per provarsi a ricostruirlo poi da capo. Egli è a questo modo
che lo studioso diventa padrone di una disciplina o di una parte di
essa, al punto ch'ella si faccia obbediente e docile alla sua
volontà, e possa così ampliarsi e fruttificare in nuovi
aspetti. Egli è di tal modo che nella scienza succedono le
scoperte, e nelle arti le innovazioni e le riforme del gusto. Ma
codesta indagine insistente intorno agli autori latini e ad Orazio,
era appunto giovata al Parini dal bisogno inesorabile per cui doveva
salir tante scale al giorno a dar lezioni e ripetizioni a dieci soldi
l'una, onde soccorrere alla madre poverissima non che a sè
stesso. Dovendo spiegare ad altri un oggetto, nel
bisogno di far passare nell'altrui mente le idee e le cognizioni che
stanno nella nostra, sotto l'assiduo martello dell'analisi, si
svelano interi e ad uno ad uno tutti gli elementi costitutivi di
quell'oggetto stesso. È così che il sapere si trasmuta
in sangue, come un cibo sano assimilato da uno stomaco perfetto.
In
quelle lezioni e ripetizioni che il Parini dava a non pochi
suoi allievi, senza ch'egli se ne fosse fatto un sistema
premeditato e discusso, bensì per la spontanea felicità
del suo ingegno, era riposto il metodo più sicuro e più
amabile d'istruzione. La bellezza fatta gustare dalla
vivacità dell'espositore attraeva i giovani ingegni, i quali,
una volta fermati nella contemplazione di quella bellezza medesima,
s'infervoravano negli studj, dei quali s'appigliavano poi a taluna
delle molteplici diramazioni a cui si volgeva col tempo la speciale
loro vocazione. Parini spiegando un'ode d'Orazio, per l'associazione
spontanea delle idee e per la sua naturale facondia, divagava a più
cose; e gli scolari in quelle divagazioni imparavano ad interrogare
sè stessi per determinarsi poi ad una disciplina speciale.
Però anche nel maggior progresso de' tempi sarebbe sempre
stato avverso il Parini a quella infesta enciclopedia onde si
condannano a stanchezza anticipata le menti giovanili nel punto
medesimo che si profumano d'orgoglio; chè, per codesta
enciclopedia, si trascura, quasi come accessoria, l'arte prima di
dare ordine logico e forma decorosa al pensiero, la quale, appresa
nei classici prosatori e poeti, cosparge di gentilezza perpetua tutta
la vita, e da essa scaturisce poi il desiderio di riparare a scienze
più sode, ma in quella età che è robustissima a
comprenderle, a trattarle e a dominarle. Da fanciulli imbrattati di
polvere enciclopedica, che hanno ridotto l'intelletto come una pietra
lavagna continuamente scritta e continuamente cancellata dallo
sfregatojo, e ammaestrati a disprezzare la forma del pensiero, quasi
che la forma non fosse un modo del pensiero stesso, non potranno
uscire uomini capaci a far progredire nè un'arte nè una
scienza mai.
Ma,
più che codesta nostra incompleta e nel tempo stesso troppo
lunga digressione, a mostrare come dovrebb'essere governata
l'istruzione letteraria, basterebbe che si potesse riprodurre qui al
vero e al vivo una di quelle lezioni che il Parini faceva a'
giovinetti a lui affidati. Donna Paola, assistendovi quotidianamente,
aveva imparato a stimare di giorno in giorno sempre più il
giovine maestro, e tanto più che di mezzo all'esercitazioni
letterarie, quando il tema lo eccitava, egli usciva in certi
schianti, diremo così, di bile generosa e di caldissima
eloquenza, a cui era fomento la nativa severità del suo
costume.
Donna
Paola lo ammirava, e sentiva pietà del suo povero stato, e
avrebbe voluto in qualche modo poterlo soccorrere, se non vi si fosse
opposta la dignitosa fierezza del giovine.
Questi
intanto continuava la sua lezione, ed ella ascoltava in silenzio. Se
non che pareva preoccupata da qualche altro pensiero e quasi le
tardasse che non si desse fine alla lezione; perciò quando il
Parini fece una lunga pausa al discorso:
Badate che si fa tardi, ella disse, e voi, come di solito, trascinato
dall'amore degli studj e dallo zelo per l'educazione de' giovani,
trascurate il vostro interesse. Per oggi dunque può bastare...
e voi, disse poi rivolta ai figli, potete fare una passeggiata col
domestico.
I
due giovinetti si alzarono, fecero un saluto gentile al Parini,
baciarono la mamma, e uscirono.
E così, che vi pare di questi miei figliuoli?
Io ne spero assai bene. Carlo ha più rapida perspicacia;
Arrigo è più tardo. Ma non dubiterei che il secondo non
fosse per lasciarsi indietro il maggiore nell'età del più
completo sviluppo... Ma cos'ha ella oggi, che mi sembra turbata?...
perdoni l'osservazione.
Lo sono di fatto... anzi... ho bisogno di voi...
Mi comandi.
Siete già stato oggi a far lezione al figliuolo della contessa
Marliani?
Ci fui.
Avete parlato colla contessa, col conte, con qualcheduno di là?...
Io sì... ma....
Ascoltate. Io so che la casa Marliani è in gran dimestichezza
colla casa V... Mi bisognerebbe dunque di sapere se il conte è
realmente partito da Milano, come ho sentito dire ...
È partito... ed anzi vi dirò che la cosa non è
liscia
; la madre della contessa Clelia venne stamattina in
casa Marliani... ed era tutta sconcertata... in conclusione si teme
che il conte sia andato a Venezia...
Donna
Paola balzò in piedi a queste parole, esclamando:
Ah il mio sospetto! Ma, cosa pensano di fare coloro... Madre,
sorella, fratello... i quali non so se abbian sangue in corpo o
stoppa?... Io non ci capisco nulla. Aspettar tanto per accorgersi di
ciò; e lasciarlo partire senza pensare, senza temere, senza
prevedere... Ah gente stolida e senza cuore!
Il
Parini facevasi attento.
Sentite, continuava donna Paola, vorreste voi assumervi un
incarico?... È d'uopo che qualcuno apra loro gli occhi... che
uno della famiglia.... Se non può la madre, c'è il
fratello... cosa fa qui il fratello?
chè non vola a
Venezia a difender la sorella? Stolido!!
Cosa dunque avrei a far io?
Parlar alla contessa Marliani, senza nominar me in verun modo,
mostrarle la gravezza del caso, interessarla a voler determinare il
fratello della contessa Clelia perchè si rechi a Venezia senza
perder tempo. Io ho già scritto alla contessa, ma che può
mai fare una lettera? Ah, caro mio, voi non potete imaginarvi in che
tormentoso affanno io mi trovi... io che, nell'intento di stornare
de' mali gravi, ne ho forse accumulati di gravissimi... Ma che potevo
far di più?...
Ella non doveva e non poteva essere responsabile delle azioni
altrui...
Fui io stessa a consigliarla di riparare a Venezia, perchè là
conoscevo una famiglia d'oro a cui affidarla.
Dunque?
Chi poteva sospettare e prevedere che l'uomo per cui ella si trovò
in così grave intrigo, per cui lasciò marito, parenti,
patria, doveva precisamente trasferirsi a Venezia anch'esso?... Ora
dunque potete comprendere di che si tratta... e come sia possibile e
probabile e, Dio non lo voglia, forse vicina una tragedia
domestica... Fate dunque presente tutto ciò alla Marliani,
giacchè la contessa ama qualche volta intrattenersi con voi;
sopratutto mi premerebbe che la raccomandazione fosse fatta in modo
che paresse una vostra inspirazione.
Io farò in maniera che possiate esser contenta...
Un momento fa vi raccomandava di attender meglio al vostro interesse,
e di non abusare lo zelo a danno vostro e di vostra madre... Ma ora
debbo dirvi tutto il contrario... che bisogna mettiate per oggi da
parte tutte le cose vostre... Del rimanente, chi perde il tempo, dee
esser compensato... e...
Che! gridò il Parini, vorrebb'ella togliermi la mia parte di
merito, quando, sotto a' suoi ordini, avessi potuto cooperare a
vantaggio altrui?
Non mi guardate così, anima fiera, disse donna Paola
sorridendo lievemente; e giacchè so che avete tanto entusiasmo
nel fare il bene... andate e siate sollecito, e Iddio vi benedica.
Il
Parini partì; donna Paola si gettò a sedere in gran
pensiero. E noi mettiamoci sui passi di coloro per cui la pietosa
donna tanto si affannava.
II
Se
Amorevoli avesse dovuto partire da Milano, lasciandovi quella per
cui, avendo sopportato un malanno non indifferente, gli era cresciuto
in cuore l'affetto; certo che il contento di trovarsi finalmente
libero e in piena balia di sè stesso, gli sarebbe stato
amareggiato dal pensiero che forse non avrebbe veduta mai più
colei che abbandonava; ma invece, alla gioja della libertà, a
quella che gli veniva dalle attestazioni di stima di un pubblico
intero, da una salute perfetta, dalla gloria presente e dalla futura
(tutte le professioni dall'astronomo al ciabattino hanno la loro
gloria), e dalla ricchezza già in parte accumulata e che
prometteva di crescere, e per sè stessa e pel frutto
de' capitali, si aggiungevano le speranze agilissime e l'esaltazione
cerebrale di chi move, per un felice concorso di circostanze, là
precisamente dove si trova la persona che in quel momento è,
fra tutte, la più desiderata; e per la quale, tanto si è
prodighi quando l'affetto è in tumulto, si darebbero in
compenso alcuni anni della vita onde toglier gli ostacoli che si
frappongono al completo suo possesso. Ma per questa gioja, per queste
speranze appunto, il viaggio di cent'ottanta miglia gli riuscì
nojosissimo, e s'impazientò più volte col lento
postiglione e colle ardue e tortuose e fangose e ciottolose strade
che facevan bestemmiare alla sua volta anche il postiglione, e che
invocavano quel sistema a cui, siccome vedremo, fu provveduto
finalmente molti anni dopo, per opera di que' nostri concittadini
sapienti, che misero coraggiosamente la mano ad estirpare tutti gli
avanzi della vetusta barbarie. Ma egli giunse finalmente al Dolo e
toccò Mestre, e là, coll'ansia che gli cresceva in
petto in ragione che si avvicinava all'isola incantata, noleggiò
una gondola non avendo voluto entrare nel barcone del procaccio; e
sentì finalmente sotto di sè il gorgoglìo
dell'onde di quella tanto decantata e tanto da lui vagheggiata
laguna; chè delle molte città d'Europa che avevano un
teatro celebre, soltanto Venezia gli rimaneva a conoscere, la città
musicale per eccellenza, quella i cui giudizj in fatto di musica e di
canto, avevano meritamente allora la preferenza su tutti quelli delle
altre città. Però, egli era sollecitato da un'altra
ansia, che gli derivava dall'amore dell'arte e dal desiderio che
anche Venezia suggellasse la di lui celebrità col suo voto
autorevole e co' suoi applausi. Chi professa un'arte qualunque per
vocazione e con entusiasmo, non può mai scompagnare il
pensiero di essa da qualunque altro pensiero. Del rimanente, il
gondoliere, giacchè trattavasi di un viaggiatore, e d'un ricco
viaggiatore, per quel che gli pareva, non prese nessuna scorciatoia
quando fu presso Venezia, e volle fargli gustare lo spettacolo
innanzi al quale avea veduti tutti quanti i foresti, com'essi
dicono, ad inarcare le ciglia. È commovente e poetico
quell'amore veramente figliale che hanno per la loro bella patria
anche gli uomini più incolti e più rozzi di Venezia. Il
gondoliere gode e si compiace della meraviglia che vede dipinta sul
volto del forastiero che per la prima volta, entrando nel Canal
grande, non sa farsi capace di una così interminabile schiera
di palazzi insigni, tre o quattro de' quali basterebbero a far onore
a qualunque città; del forastiero che s'imagina di trovarsi al
cospetto di una scena incantata quando la gondola si ferma al molo,
ed egli uscendone si trova in faccia la piazzetta.
Ghe piasela sior? disse il gondoliere quando vide il nostro Amorevoli
fermarsi estatico sulla scalea. No la xe mai stada a Venezia, ela?
No, caro mio.
E ben, la fazza conto che no i xe qua tuti i so tesori, come se
vorave da qualche foresto invidioso... Me credela, sior?
Perchè non ho da crederti?
Se vostra zelenza me permetese, gh'avarave vogia de compagnarla mi a
veder le maravege de la zittà.
E vieni, alla buon'ora... ma prima accompagnami all'albergo... al
migliore... capisci tu?...
Il
gondoliere invitò il suo viaggiatore a rientrare in gondola, e
lo condusse allo Scudo di Francia.
Vieni a pigliarmi colla gondola fra un pajo d'ore, che intanto debbo
dar sesto alle mie robe. Tu mi hai faccia da galantuomo, e avrò
bisogno dei tuoi buoni servigj... e così dicendo diede al
gondoliere una mancia oltre al convenuto.
Il
gondoliere vi gettò un occhio di traverso; fu contentissimo e
partì.
E
tosto Amorevoli, da un cameriere che non era di Venezia, ma parlava
l'italiano coll'accento di chi è nato in Francia, fu condotto
in una bella camera al primo piano che rispondea sul rio...
Le piace quest'alloggio?
Va bene sì... ma...
Che?
C'è qualcosa qui presso che non manda buon odore... Io ho le
nari, caro mio, assai delicate e permalose... e vorrei...
Signore, mi permetta di dirle una cosa... A Venezia c'è tutto
di grande, di bello, di buono, ma bisogna avvezzarsi all'odore della
laguna. Tutte le città hanno il loro difetto... vorrebb'ella
che Venezia ne fosse senza?... A Roma vien la terzana a chi va fuori
sulle ventiquattro... A Milano c'è l'aria grossa... A Parigi
c'è il fango che imbratta le vesti... A Cadice, di notte, vola
nell'aria un verme assassino che intacca il polmone. Io ho servito in
più città di Europa... e non v'è luogo che non
abbia il suo malanno. Però mi permetta, signore, ch'io le dia
un consiglio.
Che consiglio?
Non tocchi un tal tasto ai Veneziani, perchè c'è
pericolo di perdere la loro amicizia. Ella può lasciarsi
andare a criticare il loro teatro, la piazza, il ponte di Rialto, il
corno del Doge... tutto... ma non tocchi il cattivo odore de' suoi
rii... Per questo lato è convenuto che debbano esalare essenza
di rose.
Noi
non sappiamo se quel cameriere, che non era di Venezia, dicesse la
verità, ma in ogni modo si vede che le città son come
gli uomini. Canova s'indispettiva se altri non dava alcuna importanza
alle sue povere tele; e non teneva gran conto dell'ammirazione che
tutta Italia prodigava alle sue grandi opere statuarie.
In
quanto ad Amorevoli, egli non trovò da replicar nulla col
cameriere, e dato sesto alle sue robe e rimbionditosi con ogni cura,
discese a mangiare; dopo di che aspettò che venisse l'uomo
della gondola, il quale venne in fatto sull'imbrunire.
Ormai si fa tardi, caro mio, e ci resta ben poco a vedere...
Ma no sala, zelenza, che Venezia la xe megio de notte che de zorno...
La se contenta de lassarse guidar da mi, e la vederà che cosse
grandi, sior!
Dopo
pochi minuti erano al largo verso la Zueca. Il felze era stato
levato, e Amorevoli appiccò conversazione col gondoliere, da
cui sperava di raccogliere tutto quello che gli abbisognava.
Lasciamoli
dunque andare. E noi vediam d'abbandonarci a qualche digressioncina,
secondo il solito.
Noi
siamo dunque ammiratori entusiasti della città di Venezia.
Basta il dire che la nostra fortuna è che Venezia non sia una
donna; diversamente chi sa che tremende pazzie avremmo commesso per
amor suo. A dare una prova di codesto amore sviscerato, chi, per
esempio, a voce e in scritto ha lodato più di noi il suo mese
di maggio? Dappertutto questo mese è tenuto in grande
riputazione, e i devoti lo chiamano perfino il mese di Maria, tanto è
soave e benefico. Con tutto ciò a Milano il mese di maggio,
nel suo carattere verace e completo, non lo si conosce che per
relazione e in teoria, e per quelle nozioni che si attingono dai
poeti classici greci e latini, i quali, imbalsamati come erano dal
vento che soffiava dal mare Argolico o dal porto di Ostia, poteron
gustare il maggio in tutto il suo splendore; ma in pratica, almeno
per quanto ci consta, Milano non sa che cosa sia un tal mese, e non
trova in esso che la più completa contraddizione alle
descrizioni dei poeti. Invece a Venezia è tutt'altro. Venezia
è la madre adottiva non solo del chiaro di luna, ma sì
anche del maggio; e noi possiam dire d'aver fatto la conoscenza di
lui soltanto sotto il suo cielo! Almeno, nei due anni che vi
passammo, quel mese fu d'una eleganza così greca, d'una
mollezza così orientale, che non potremo dimenticarlo così
facilmente. Se non che, mescendosi all'eleganza, come dicemmo, la
mollezza, il maggio di Venezia è un mese pericoloso. Lord
Byron, che faceva i suoi computi a seconda del meridiano di Londra,
trovò essere il giugno il men puritano dei mesi; ma noi,
cresciuti in plaga più mite, siamo stati obbligati a fare il
trasporto di trenta giorni. È a Venezia, pur troppo, almeno
secondo la nostra esperienza, è nel mese di maggio che l'uomo,
riscaldato dal sole di una primavera orientale, e circonfuso dalle
molli aspergini marine, prende somiglianza del baco, il quale
pasciuto e sazio di foglia, s'irretisce lieve lieve nel serico filo,
aspettando di eromperne farfalla. In quanto poi all'anno 1750, il
mese di maggio veneziano cominciò appunto co' più lieti
pronostici del suo limpido sole, del suo cielo trasparente e
dell'aure sue mitissime, attraversate di quando in quando
dall'afrodisiaco scirocco.
Però
anche alla contessa Clelia, non avvezza al clima veneziano, più
che mai parve balsamica in quell'anno la stagione primaverile; e
confrontandola alla consueta di Milano, le sembrò tutt'altra
cosa; di modo che parlandone ai signori che la ospitavano:
A Milano, ella diceva, la primavera è la stagione in cui
s'accumulano tutti i disastri delle altre, e sebbene anche laggiù
la si debba chiamare la gioventù dell'anno, è una
gioventù infelice, travagliata e disperata. Quasi quasi, se
non fosse per le buone speranze che dà, sarebbe da posporsi
alla vecchiaja.
Da
queste parole si vede che, anche prima del taglio delle foreste, le
primavere milanesi non eran le più accreditate neppure nel
secolo passato; tale almeno era l'opinione e l'esperienza della
contessa Clelia. Ma ella, siccome spirava il vento più molle,
più carezzoso e più tepido sull'espansa laguna, sentiva
così a circolare in sè più rapido il sangue e
più caldo, il che le comunicava all'intelletto, e più
alla fantasia, che è una sezione di quello, una indefinibile
esaltazione e un tumulto di desiderj vaghi, che le impedivano persino
di dar tutto il peso all'infelice situazione in cui versava. Per
molti e molti giorni. avea saputo essere costante a non uscir mai dal
proprio appartamento, e ad imporsi tutti gli obblighi di una
volontaria prigione; ma un dì cominciò a creder
ragionevole di poter far parte della serale conversazione che
tenevasi in casa Salomon; e siccome eravi stata accolta con que'
segni di stima e di amorevolezza che troppo rare volte avea trovato a
Milano, così non fu per nulla restìa a passare da
quella conversazione ristretta, tranquilla e casalinga, alle altre di
case più cospicue ed affollate del bel mondo. E là, fra
tanti giovani che le fecero cerchio intorno, trovò persino
entusiasmo. I romanzi dell'abate Chiari eran letti avidamente allora,
e avean messo in tutti gli animi giovanili il desiderio del
maraviglioso e dello strano; onde la contessa V... di Milano,
giovane, bella, dotta, avvezza a trattare con dimestichezza i corpi
celesti (chè di ciò era corsa la voce anche là...),
infedele al marito, la qual cosa, in un secolo corrotto, facea
stupendo giuoco più ancora dell'astronomia; per di più,
innamorata del più bravo e del più bel tenore del
secolo, personaggio che in una città musicale dovea produrre
l'effetto di un giovane e prode capitano dei dragoni, in tempo
desaltazione guerriera; e, per il non plus ultra del
romanzesco, autrice di una fuga disperata (le fughe hanno sempre
trovato entusiasti in tutti i tempi, ad eccezione di quelle in
musica); tutte queste cose avean dunque fatto sorgere intorno a lei
un'atmosfera di splendori così abbaglianti, che l'ammirazione
per lei, in un periodo in cui le pesanti parrucche ajutavano a
riscaldare i cervelli, diventò, come dicemmo, entusiasmo,
diventò delirio. Se poi la contessa Clelia si compiacesse di
ciò, non tocca a noi a dirlo. Era la prima volta che provava
quel genere nuovo di soddisfazioni; laonde del non aver essa voluto o
saputo ritrarsi da quel vortice, noi non ci sentiamo il coraggio di
condannarla. Per giunta aveva trovata accoglienza e cortesia
straordinaria persin nelle donne, fatto piuttosto unico che raro; ma
bisogna considerare che, in virtù di tanto intreccio di cose,
ell'era salita a quel fastigio che toglie perfino il sentimento
dell'invidia. Ell'era insomma una specie di lord Byron vestito da
donna e in guardinfante. Però se le altre patrizie bellissime
e argutissime, chè di tali Venezia ebbe a tutte l'epoche forse
la più eletta schiera, esercitavano tra di loro, e come a dire
in famiglia, le loro gare, le loro invidie, le loro guerre più
o meno astute, più o meno perfide, tutte si trovavan poi
d'accordo nel festeggiare l'ammirabile lombarda.
Ma,
come sappiamo, il sole era entrato in gemelli, e verso notte le
gondole avevan cominciato a vogare a diporto. Però anche donna
Clelia, ch'era stata chiusa tanto tempo, ebbe volontà di
uscire all'aperto; e per non incomodare la famiglia dov'era ospitata,
e anche perchè amava di figurare sola (non c'è nè
donna nè uomo, compromessi da qualche po' di fama, i quali
sappiano resister sempre all'assalto della vanità), si fece
noleggiare per qualche tempo gondola e gondoliere. I signori della
casa credettero farle una grata sorpresa mettendo a' suoi servigj il
più celebre allora dei gondolieri di Venezia. Ed era quel
Bianchi Antonio ammirato pel suo raro talento poetico, di cui lasciò
prova in due poemi, nei quali tra molti errori di scienza e di
lingua, v'è imaginazione straordinaria ed estro vivacissimo.
Il
titolo di essi, nelle edizioni da noi vedute, è: Davide re
d'Israele, poema eroico sagro di Antonio Bianchi, servitor di
gondola, veneziano (Canti XII, Venezia 1751 in fol.); Il
tempio, ovvero Salomone (Canti X, Venezia 1753 in 4.°). Vi
sono poi altri poemetti comici, quali La cuccagna distrutta,
La formica contro il leone, oltre l'oratorio drammatico Elia
sul Carmelo. Quando al Bianchi che ad onta della sua condizione
di poeta, non cessò mai in tutta la sua vita di far il
gondoliere, fu proposto quel servigio e gli fu nominata la gentil
donna lombarda, non istette in sulle pretese, e fu tosto a comandi
della contessa Clelia. Così, quando Amorevoli capitò in
Venezia, era già da tre giorni che la contessa usciva a
diporto in gondola tutta sola col suo gondoliere-poeta; e nella sera,
quasi nel punto stesso che Amorevoli lasciò lo Scudo di
Francia, essa discendeva la scalea di casa Salomon ed entrava in
gondola. Antonio Bianchi era un giovane di trent'anni appena,
veneziano di sangue puro, tra' più valenti al remo, e onorato
di più bandiere nelle celebri regate veneziane; natura
schietta di poeta, esso era entusiasta e fantastico, di modo che,
avendo saputo anch'esso le avventure della contessa, ed essendogli
stato detto come fosse una gran dotta, si compiaceva che gli fosse
toccato in sorte di poterle presentare i proprj servigj. Siccome poi
in quel periodo di tempo egli stava dando l'ultima mano al poema
Davide, così aveva pensato di pregarla a legger que'
canti, e di consultarla in quelle parti del poema in cui egli sentiva
che l'ignoranza faceva impaccio all'ardua fantasia.
Appena
lasciata la casa, donna Clelia amava recarsi a diporto in sul Canal
grande, scorrendo sola tra l'altre gondole patrizie che le si
avvicinavano a gara, e dalle quali cadevano su di lei sguardi curiosi
e ammiratori: e per dir la verità, ella era tale che per
forza doveva fermar l'attenzione. Abbiamo più volte
espressa la nostra predilezione per la bellezza delle donne
veneziane, ma nel tempo stesso dobbiamo far luogo ad una nostra
opinione che parrà strana, ma forse traduce il vero, ed è:
che il fondo della città stessa di Venezia, così
pittoresco e così colorito, è il più opportuno a
far spiccare una beltà. Non per nulla i pittori vanno
in cerca di quella tal luce, di quel tal raggio azzurro, persino di
quella tal cornice per dare il miglior risalto all'opera del loro
pennello; può darsi pertanto che la specialità della
parte materiale di Venezia giovi alle figure che staccano su di essa.
Molte
donne che altrove non ci avevan fatto nè freddo nè
caldo, vedute a Venezia ci parvero ammirabili. Quale ne possa essere
la vera cagione non è provato a rigore, ma certo che una
ragione ci dev'essere. Intanto anche la contessa Clelia è un
altro argomento in nostro favore. Oh qual mirabile effetto faceva
quel suo corpo maestoso, gettato a sdraio sui cuscini della gondola,
e avvolto in una veste di broccato di stoffa turchina a liste
d'argento, che, pel lavoro interno del guardinfante, usciva e
galleggiava quasi sugli orli della gondola stessa! come incorniciava
bene quella sua testa di Minerva l'indispensabile puff di
sentimento, foggiato a cimiero, ch'era una delle cento
forme allora in voga!... come, di sotto alla polvere bianca onde quel
puff era cosparso e quasi inargentato, spiccava il nerissimo arco del
sopracciglio e i grandi occhi lucenti! Già il
vero non si può nascondere, noi abbiamo qualche debolezza per
donna Clelia; e se in teoria e coi trattati d'estetica alla mano
combattiamo e combatteremo sempre per gli occhi azzurri, in pratica
abbiam sempre usato i dovuti riguardi agli occhi neri, e quelli di
donna Clelia poi sono la nostra morte... Ma in prova che non siamo di
cattivo gusto, si è che piacevano fieramente a tutti i
giovinotti veneziani; che piacevano persino al nostro
gondoliere-poeta, pieno di fantasia qual era, e di fervori
sentimentali, e di passione caldissima per la bellezza, che è
la febbre terzana dei poeti.
Spinto
dal naturale desiderio di parlare di sè stesso e delle proprie
opere, difetto che rende qualche volta importuni gli uomini
dell'arte, il nostro Bianchi gondoliere, dopo aver lentamente
condotta come in trionfo lungo il canal Grande la contessa padrona,
venuto a santa Chiara, svoltato nell'aperta laguna, e là
fermando talora il remo, compiacevasi a intrattenere de' propositi
proprj la contessa, che affabilmente l'ascoltava e rispondeva alle
sue interrogazioni; al punto che, in que' tre giorni, poteva dire
d'aver dato tre lunghe lezioni d'astronomia elementare all'autore del
Re Davide. Se non che la contessa lasciava poi cadere il
dialogo, per riconcentrarsi ne' proprj pensieri. Ella sapeva che il
tenore Amorevoli doveva venire a cantare a Venezia. Il residente
veneto di Milano aveva scritto che il processo di lui era compiuto,
ch'ei sarebbe uscito presto per venire a tenere il patto ai signori
ispettori dell'opera. L'effetto che fece la prima volta una tale
notizia sull'animo di donna Clelia, che non aveva saputo mai nulla di
quelle sei sere di recite straordinarie, ognuno se lo può
imaginare. I fervori erotici le salirono al viso, e mentre la ragione
le facea vedere tutti i pericoli che poteano conseguire da quel
fatto, sentiva certi soprassalti di gioja insolita, di gioja non
voluta; e mentre vedeva che il destino stava forse per tenderle una
mala insidia, si fermava con delizia nell'idea che la fortuna avesse
voluto espressamente avvolgerle intorno le inestricabili sue reti. Se
non che ricordavasi di donna Paola e delle sue ammonizioni; e al
vedere coll'occhio della mente quasi impaurita quella santa figura,
si vergognava di que' pensieri, di que' desiderj, di quella gioja...
Amorevoli era atteso di giorno in giorno... ella ne aveva sentito a
parlare di volo ad una conversazione serale, da un gruppo di
giovinotti spensierati che, speranzosi di far breccia nel cuore della
mirabile lombarda, aveano dimenticato quel ch'era passato tra essa e
il tenore.
Intanto
la notte stava per calare affatto... smoriva sempre più
all'orizzonte la luce crepuscolare... i colli Euganei, ch'ella
vedeva, si erano scolorati e come confusi col cielo.
Erano
uscite le stelle rare e sparse... era uscito un quarto di luna...
suonava l'avemmaria a tutte le chiese; il campanone grave e profondo
di san Marco parea facesse sentir la voce storica e veneranda della
vetusta Vinegia. Taceva il gondoliere-poeta, intento a poter ritrarre
quel poetico vero. Tacea donna Clelia, assorta e mesta, e coll'animo
sollevato da una commozione ineffabile. Il gondoliere, avvisato
dell'ora tarda, girò la gondola per tornare in canale. Poco
prima era passata per di là anche la gondola ove, e fu un
punto se non vi si scontrò, trovavasi Amorevoli... di modo che
donna Clelia potè vederla materialmente, ma senza provare
veruno dei soliti sospetti presaghi e dei soliti palpiti arcani; nel
punto medesimo poi ella vide alla sfuggita il lume di un fanaletto
che probabilmente doveva essere di una gondola che s'era spiccata
allora allora da Mestre, e soltanto il notò pel giuoco che
faceva col suo luccicore tremulo e intermittente; ned ella da nessun
genio dell'aria, segretario delle belle donne, venne avvisata che se
innanzi le correva in gondola la vita, di dietro potea forse venire
in gondola la morte.
III
Abbiamo
accennato che, quasi contemporaneamente al tenore Amorevoli, era
partito da Milano il conte colonnello V... Esso infatti lasciò
la città all'alba del giorno successivo a quello nella cui
sera Amorevoli erasi messo in viaggio. Il conte V... avea detto di
voler fare una gita nelle sue terre; i servi però poterono
accorgersi, pei preparativi che loro vennero ingiunti, che trattavasi
invece d'un viaggio di qualche importanza e non breve; così
quel che allora pensarono nel far le valigie lo avesser subito
detto!... ma, come avviene di consueto, parlarono quando non c'era
più l'opportunità. E il conte si mise davvero in
viaggio per Venezia, ed essendo partito dodici ore dopo il tenore,
tanto martellò e pagò i postiglioni, ch'ei potè
guadagnare su chi lo precedeva più di mezza giornata. Ma che
intenzioni aveva il conte? che voleva? che pretendeva? In verità
esso non ne sapea più di quello che ne sanno in questo punto i
nostri lettori.
Noi
non abbiamo avuto mai il tempo di fare uno studio fisiologico di
questo personaggio, perchè ogni qualvolta ci capitò
innanzi, si aveva tanta carne a bollire, che appena appena lo abbiam
guardato di traverso; ma oggi convien pure che ne tiriamo il profilo,
almen col carbone, se non colla matita o col pennello. Quell'uomo,
pigliato in natura, non era un cattiv'uomo; e prima dell'invenzione
degli stemmi e dei quarti di nobiltà e de' pregiudizj,
probabilmente non sarebbe stato nemmeno il più orgoglioso tra
i membri dell'umana razza; sebbene la sua testa fosse molto grossa,
il che, stando coi cranioscopi, è indizio di gran mente, pure
convien che lo spessore della crosta ossea avesse occupato una buona
metà dello spazio che bisogna concedere al cervello perchè
adempia passabilmente alle sue funzioni. Non vogliamo dire con ciò
che esso mancasse al tutto d'intelligenza, no. La sua testa avea più
d'uno spiraglio per cui poteva penetrare, sebbene a stento, qualche
raggio dal di fuori. Ma le poche idee che erano entrate là
dentro vi si fermarono con tenacità pari allo stento onde vi
si erano introdotte, generandovi una durezza ed una ostinazione
indomabile. Se fosse lecito imitare i caricaturisti parigini, che
cercano nella struttura delle bestie le forme più adatte a dar
idea di alcune varietà di tipi umani, a quel conte noi
troveremmo il riscontro piuttosto in un bisonte, in un ariete, in un
merinos che in altro animale. Apparteneva insomma alla razza delle
bestie cozzanti, la meno intelligente e la men domabile di tutte.
Però, a lasciarlo tranquillo, era un buon diavolone d'uomo; e
soltanto ad aizzarlo, ad inquietarlo, lo si riduceva nella condizione
d'un toro, che punzecchiato, arrota gli occhi sanguigni, alza la
coda, curva il collo, abbassa la testa, e vibra cornate a tutti
quelli che gli si fanno incontro. Cresciuto in seno ad una famiglia
il cui sangue, per parte di padre, era un fiume reale che aveva avuto
le sue prime scaturigini da un ramo del gran ceppo dei re di
Spagna; e per parte di madre, da colui che portò dalla terra
santa lo scudo colla biscia; l'idea del suo alto lignaggio fu
introdotta e ribadita per tal modo nella sua testa colle sue idee
concomitanti e conseguenti, che non per sè, ma per quello, si
sarebbe fatto mettere in pezzi. A codesta idea convenzionale
dell'onor del sangue, veniva poi a confederarsi l'altra idea pur
convenzionale e parimente indomabile, e per la sua natura, più
pericolosa, dell'onore del soldato. Esso era stato, come sappiamo,
colonnello di cavalleria, e le sue fazioni di guerra le avea fatte
con coraggio e con fede; e perciò all'assisa, agli stivali,
allo squadrone, in certi momenti, dava assai più importanza
che alle nove stelle della corona sormontante il suo stemma. Però
al suo cospetto e quando si parlava con lui, siccome era pieno di
sospetti e non sempre intendeva le cose nel loro vero senso,
bisognava comportarsi con mille riguardi e precauzioni, perchè
non pigliasse le parole in mala parte, e adombrasse al punto di
chiamarsi offeso colle formole dell'etichetta militare; chè
allora non c'era più rimedio, bisognava battersi con lui. Ben
è vero che in molti di tali duelli provocati da lui, egli
aveva quasi sempre risparmiato l'avversario, pago che fosse salvo il
decoro cavalleresco. Ma intanto era un incomodo a trattarlo; onde
molti lo scansavano volontieri, e quando si trovavano seco per
necessità, discorrendo, giravan largo per istornare querele;
poichè, torniamo a ripeterlo, nel frantendere le questioni e
nel prendere un violino per un trave, quell'ex colonnello era un
portento. Se dunque, conservando però sempre nell'aspetto una
compostezza ed una severità castigliana, esso pigliavasi tanto
caldo per una mezza offesa, figuriamoci se l'offesa era evidente ed
era grave; peggio ancora se l'offesa era di quelle che stanno in
prima lista fra i casi contemplati anche dagli indifferenti e dai
filosofi della pace; fra i casi per cui anche l'uomo timido diventa
feroce, com'era il suo caso precisamente! O fortuna tutt'altro che
cieca ma perfida, o fortuna con occhi di lince e piena di sagacia
omicida, che attendi a pigliar fuori della folla gli uomini fatti
apposta e lasci cader la scintilla dov'è la polveriera!
Proprio tra le gambe del conte V... doveva capitare quel fatal
romano, fatale così per le prime donne del libretto d'opera,
come per tutte le belle donne che gli piacevano! Tuttavia nemmeno il
tenore, nato espressamente nel secolo più comodo per gli
uomini della sua professione e della sua tempra, poteva chiamarsi il
beniamino della fortuna per essersi incontrato in chi facea terrore a
tutti, il quale non è a dire che furore sentisse contro il
tenore; un miscuglio di furore e insieme di disprezzo che gli facean
desiderare di avere dinanzi il rivale, non per battersi con lui, chi
mai poteva imaginarsi una simile ignominia! ma per pagarlo, a misura,
come suol dirsi, di carbone, a colpi di scudiscio, di frusta, di
bastone e di peggio, se di peggio ci fosse stato perchè
più che contro la propria moglie infedele, l'ira sua soffiava
tutta come una fornace animata da un mantice contro il tenore; e se
l'adagio vulgare che in tali frangenti assegna maggior colpa alla
donna che all'uomo, era sulla bocca di tutti anche allora, egli
tuttavia non voleva saper nulla di quel diritto per cui l'uomo può
fare impunemente il cacciatore; non ne voleva sapere e
strepitava. Del rimanente un'altra ragione per cui era sì poco
inclinato alla pietà verso di Amorevoli stava in ciò,
ch'ei non era filarmonico punto, e aveva un orecchio così mal
costrutto e anti-musicale, che per lui non c'era differenza tra una
cadenza di Caffariello e lo zufolo d'un merlo. A dir tutto, non è
certissimo che, pur andando pazzo per la musica, avesse potuto aprir
le braccia al tenore protervo; ma in ogni modo, quella sarebbe
sempre stata una ragione mitigante la collera. Infiammato
continuamente da questa, egli erasi messo in viaggio per
Venezia, senza veramente un progetto deliberato; ma con più
propositi in mente, il più umano de' quali, aveva per
intercalare scudisciate e bastonate.
Ma
lasciando il conte, dieci ore dopo la partenza di lui, partì
da Milano per Venezia la lettera di donna Paola Pietra, quella
appunto ch'essa accennò al Parini. La contessa Clelia
la ricevette la mattina del giorno successivo a quello dell'arrivo
d'Amorevoli, e fu spaventata quando lesse quelle parole: Credo che
il conte V... abbia intenzione di venire a Venezia; e fu
maravigliata, e nel tempo stesso consolata, quando pure vi lesse: A
quest'ora il signor Amorevoli dev'essere a Venezia. La
sera prima ella non aveva sentito a parlare di lui in nessun
modo, talchè in quel momento ignorava tuttora il suo arrivo.
Ed
ora dobbiamo tornare a Milano, e dar conto di più cose. La
visita e le parole di Parini alla contessa Marliani aveano ottenuto
il loro effetto, quello cioè di determinare il fratello di
donna Clelia a recarsi a Venezia. Il partito, il lettore se ne
avvedrà facilmente, era stato preso un po' tardi, se mai il
destino avea fermato di far succedere qualche sventura, ma la
presenza di lui potea però tornar sempre di vantaggio. In ogni
modo, per l'onore della famiglia, quel viaggio del giovine conte A...
era un atto di dovere, e ciò bastava per far tacere il mondo e
perchè egli fosse creduto un uomo di cuore.
Ma
intanto che il giovine conte A... si affretta verso Venezia abbiam
l'obbligo di recarci a prendere informazioni sullo stato delle cose
relative al fatto di Lorenzo Bruni.
Il
governatore conte Palavicino, messo in cognizione dell'indole genuina
del fatto, mandò a chiamare il presidente del Senato; questi
espose al ministro che essendo messo ad arbitrio del Senato stesso la
misura della pena per la contravvenzione all'ordinanza sulle
maschere-ritratti, e una tale misura essendo tassativamente
determinata nell'ordinanza stessa dai sei mesi agli anni due, a
seconda del caso; per quanto, disse il presidente, tutte le
circostanze depongano a favore del costituito, pure non si poteva
mandarlo assolto perchè la contravvenzione era stata compiuta;
e solo era il caso di applicare al costituito la minor pena di sei
mesi, che, giusta la più ragionevole interpretazione, era
precisamente la misura voluta per la semplice contravvenzione
materiale della legge senza intenzione criminosa. Il conte
governatore parve soddisfatto di ciò, ma non già la
Gaudenzi; la quale, allorchè le fu annunciata una tale
determinazione, diede in lagrime disperate e si recò
nuovamente da donna Paola, onde si degnasse accompagnarla di nuovo
dal governatore. Era il caso di domandare non già la
scrupolosa giustizia, ma una sentenza in via di grazia. Donna Paola
parlò con eloquenza, la Gaudenzi sparse lagrime abbondanti; il
conte Palavicino si sentì commosso, e quantunque veramente
uscisse dalle sue attribuzioni, perchè l'autorità del
Senato nelle vertenze civili e criminali era superiore a tutti, pure,
trattandosi che l'ordinanza era sua, che forse aveva abbondato nella
pena, mandò per un di più a chiamar di nuovo il
Presidente del Senato e lo interrogò, ma affermativamente, se
si potevano ridurre i sei mesi a due soli, e senza aspettar risposta,
gli mise tra mano il rescritto, e lo pregò a dargli corso
incontanente. Il presidente mostrò il rescritto in Senato,
alcuni senatori strepitarono; altri, e forse n'avevano la loro
ragione, applaudirono; il conte Gabriele Verri, che secondo l'indole
sua avrebbe dovuto strepitare più di tutti, perchè guai
a toccargli l'onnipotenza dell'autorità senatoria, non disse
nè sì nè no, e finse d'aver tutt'altro per la
testa; onde trionfò il partito dell'indulgenza e, invece di
protestare contro quel rescritto com'era stato il pensiero di alcuni
senatori, ne fu tosto spedito al Criminale la determinazione in
estratto, perchè il capitano provvedesse a darle esecuzione.
E
giacchè abbiamo toccato del Capitano di giustizia, non
possiamo tralasciare di tener dietro ai preliminari del processo
contro il lacchè Andrea Suardi, detto il Galantino, e ciò
innanzi di gettarci fra i personaggi che da Milano passarono a
Venezia; perchè abbiam bisogno di dar prima qualche cenno
intorno alla pratica criminale nel ducato di Milano e di conoscere
qualche accidente dell'interrogatorio fatto subire al lacchè,
per essere poi in grado di dare giusto valore a ciò che
accadrà in seguito.
IV
Alessandro
Manzoni, nella Colonna infame, lavoro di breve mole, ma
d'importanza grandissima, illustrò per tal modo la condizione
della teoria e della pratica criminale nel ducato di Milano, che dopo
di lui non è più possibile dir cosa nuova su tale
argomento; e soltanto ci rimane a far le meraviglie, quando in taluni
fatti avvenuti e prima e dopo l'epoca sulla quale ei scrisse il
profondo suo commento, si scoprono le riprove di quanto per la prima
volta egli annunciò agli studiosi della giurisprudenza e della
storia, al fine di distruggere una credenza invalsa per l'autorità
di uomini riputatissimi; la credenza, vogliamo dire, che le atrocità
assunte per antica e troppo lunga consuetudine nella procedura
criminale fossero suggerimenti de' così detti interpreti del
diritto romano. Questa verità dimostrata dal grande scrittore,
costituisce quel che si dice una scoperta; chè, è come
una necessità naturale a quel sommo intelletto di far dono di
nuove forme a tutte le sfere dell'arte a cui si è applicato, e
di verità non sospettate prima, e di notizie peregrine o, per
lo meno, di questioni nuove a quelle parti della scienza a cui ha
voluto dare opera. Cento e più anni dopo l'iniquissima
condanna degli untori, ovvero sia nel 1750 e per altri molti anni
ancora, vigevano gli Statuta criminalia Mediolani;
ed erano consultati ancora e studiati quei medesimi
interpreti del diritto romano e del diritto comune che erano celebri
al tempo della peste di Milano del 1630. Non v'era dunque nulla di
mutato nè nella scienza, nè nella pratica; la prima non
aveva avuto nessun uomo di genio e di coraggio che avesse potuto
scoprire la verità tutta intera e prefinire colla sapienza
della filosofia e collo scrupolo della morale i confini della
giustizia; nella seconda non era penetrata nessuna ordinanza speciale
a frenare la mano pesante del giudice; tuttavia, guardando i processi
posteriori a quel troppo famoso della Colonna infame, se gli arbitrj
sono sempre eccessivi e il poter discrezionale appar troppo corrivo
in molte parti della procedura, non ricompajono più, per
quanto almeno ne sappiamo noi, negli atti preparatorj della
tortura... Vogliamo dire che non ricompajono più in quella
maniera che si riscontra nel processo degli untori; chè, dopo,
le formalità vennero seguite; e bene spesso appare essere
stati consultati ed obbediti gl'interpreti, consultando ed obbedendo
i quali, il Senato del 1630 avrebbe dovuto mandare assolti i presunti
untori. Chi volesse dunque conoscere quali norme doveva tenere nel
secolo scorso un giudice prima di sottomettere un imputato alla
tortura, e tutte le condizioni che, non volendo varcare i limiti del
dovere, si avevano a seguire per obbedire gl'interpreti della legge,
assunti, per consuetudine diuturna ma pur sempre provvisoria, in
autorità quasi di legislatori, non deve far altro che leggere
il capo II dell'Appendice sulla Colonna infame. Là è
dimostrato come la folla degli scrittori criminalisti non abbiano
avuto altra intenzione che di restringere l'arbitrio del giudice, e
di guidarlo secondo la ragione e verso la giustizia; là son
riportate le generose invettive de' più celebri giureconsulti
contro i giudici crudeli che si arrogavano il diritto dinventar
nuovi tormenti; là, per conseguenza, è provato come non
solo debbasi togliere dalla testa dei giureconsulti interpreti
l'odiosità che per tanto tempo le fu lasciata pesar sopra; ma
si debbano anzi riguardare come i primi che iniziarono la via
lunghissima delle riforme; i primi che, costretti a render ragione
delle loro decisioni, richiamaron la materia a principj generali,
raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi nelle leggi romane, e
cercandone altri nell'idea universale del diritto; i primi che
prepararono il concetto, indicarono la possibilità e, in
parte, l'ordine d'una legislazione criminale intera ed una.
Le
cose nuove, e le cose vere, e quelle che costringono la ragione a dir
di sì, dopo averla collocata nel più giusto punto di
veduta, sono tali e tante in quell'opuscolo, che lo si legge con
sempre crescente meraviglia; alla quale vien compagna un'altra
meraviglia, quando si considera che un tale opuscolo, perchè
non conta molte centinaja di pagine, fu poco letto e peggio
sentenziato; mentre altre opere d'altri autori, le quali assomigliano
a' magazzini di Lambro pirata, pieni zeppi di roba rubata, sono
spacciate per tutta Italia, anzi per tutta Europa, a togliere lo
spazio che, pur troppo, manca ai libri ottimi! Ma questa digressione
ha tanto a che fare col nostro libro, quanto col regno della luna,
onde rientrando in casa, diremo ai nostri lettori, per dilucidare
quel passo della stessa Colonna infame, dove,
richiamando gli Statuti di Milano, è detto che essi non
prescrivevano altre norme alla facoltà di mettere un uomo alla
tortura, se non che l'accusa fosse confermata dalla fama, e il
delitto portasse pena di sangue; diremo dunque che da queste
ultime parole non bisogna lasciarsi trarre a credere che la tortura
non si potesse infliggere che agli imputati di omicidio o d'alto
tradimento: no, le categorie dei delitti portanti pena di sangue
erano molte, anzi erano troppe, prova ne siano gli statuti criminali,
dove alla rubrica De forma citationis, ecc., e al capo
De tormentis, espressamente si dichiara che la tortura può
essere ministrata «in Casibus infrascriptis videlicet:
in crimine haeresis, sodomiae, turbationis pacifici Status domini
nostri... crimine homicidii, assassinamenti, adulterii, veneficii,
privati carceris falsitatis; schachi, seu robariae,
furti, ecc.». Il che basta per dimostrare che il delitto
ond'era imputato il lacchè Suardi era di quelli per cui gli
statuti avevan decretato, all'uopo, l'uso della tortura.
Dalla
materia giuridica venendo ora agli uomini che la professavano:
dottissimo fra i giureconsulti milanesi era il conte Gabriele Verri,
il padre del nostro Pietro. Il diritto romano, gli statuti, le
opere dei più autorevoli interpreti eran talmente famigliari a
lui, che, nei casi dubbj, nelle controversie, egli citava a memoria e
si diffondeva con facondia e con tutti i saliscendi della dialettica.
Però gli ammiratori lo chiamavano la biblioteca ambulante del
Senato; gli avversi lo chiamavano il sofista. Una testimonianza della
di lui dottrina sono le Constitutiones decretis et
senatusconsultis illustrata curante Comite Gabriele Verro; quibus
accessit Prodromus de origine et progressu Juris Mediol., eodem Verro
auctore, stampate a Milano dal Malatesta nel 1747. Ma è
cosa strana a pensarsi che quell'uomo così dotto, e che aveva
sotto mano, a dir così, il processo lungo e lento del tempo e
i lavori interminabili dei legisti per cui la verità e
l'assoluta giustizia si sforzavano a tentar il varco per uscire
all'aperto, pur si mantenne sempre stazionario ostinato e quasi
feroce nelle consuetudini vecchie; mentre il figlio suo, che
applicatosi ad altri rami della scienza e dell'amministrazione
pubblica, era di tanto men profondo di lui nella materia
giuridica, ebbe tuttavia lo spontaneo intuito del vero e del giusto;
tanto nelle cose che interessano il bene dell'umanità,
basta il sentimento a far trovare i rimedj! tanto, spesse volte, la
dottrina soverchia e frammentaria, non rischiarita nè da un
vasto concetto, nè dall'amore degli uomini, è impaccio
alla scoperta del vero!
Per
la sua qualità adunque di biblioteca legale ambulante, il
senatore Verri, ogni qualvolta trattavasi di qualche fatto fuor
dell'ordinario, complicato, inestricabile, veniva sempre consultato
confidenzialmente, e come suol dirsi, in camera charitatis.
Però se già era stato interrogato in prevenzione dal
pretore e dal capitano di giustizia relativamente ai costituiti
Amorevoli e Bruni, tanto più lo si volle sentire quando il
lacchè venne catturato, e prima che lo si sottomettesse
all'interrogatorio. Il nome del conte F... era già corso, il
lettore lo sa, sulle labbra e del capitano e del conte Gabriele. Ma
questi s'affannò a dimostrare che del conte non era punto a
far parola, come se nemmeno fosse esistito, e ciò fino a
tanto, ei soggiungeva, che ei non fosse stato messo innanzi
espressamente dal costituito Suardi. Prima di aprire la procedura
contro il quale, credette bene di sfoderare tutte le sentenze dei
trattatisti, e specialmente quelle relative alla qualità ed
alla quantità degli indizj necessarj per poter mettere un
imputato alla tortura, ed ai limiti onde si doveva intendere
ristretto l'arbitrio del giudice dall'osservanza scrupolosa del
diritto comune; insistendo segnatamente sull'autorità del
Farinaccio, dove questo legista raccomandava che il giudice deve
inclinare alla parte più mite, e regolare l'arbitrio colla
disposizione generale della legge e con la dottrina dei dotti
approvati; e riferendo molti passi di quei giurisperiti che
avevano stabilita la regola contraria a quella più comunemente
ammessa sull'arbitrarietà dei giudizj. Il Claro, il
Bartolo, il Pozzo, il Bossi, il Marsiglio, il Casoni, oltre al
Farinaccio, autore prediletto del conte Gabriele, furono fatti
passare tutti innanzi alla memoria del marchese Recalcati, in via di
conversazione amichevole e affatto casalinga, ma col fine di
predisporlo all'indulgenza, all'indulgenza, s'intende, compatibile
colla giustizia, e ciò con tanto più d'insistenza
quanto più forte era la sua convinzione che il Galantino fosse
il vero e materiale autore del delitto, e che un altro, interessato
all'eredità del marchese defunto, fosse stato necessariamente
la volontà occulta che aveva guidato i movimenti del lacchè.
Se
il conte Gabriele Verri avesse vissuto cento venti anni prima, e
fosse stato senatore, e fosse stato interpellato in prevenzione sul
fatto degli untori; avrebbe sfoggiata quella medesima dottrina?
avrebbe inculcata la scrupolosa osservanza del diritto comune?
l'obbedienza alle norme raccomandate da' giurisperiti interpreti?
avrebbe insinuata l'indulgenza? Non è facile a rispondere, se
non aderendo a quanto fa osservare il Manzoni, che cioè nel
1630 l'universalità del pubblico credeva e voleva le unzioni,
e pretendeva che l'autorità scoprisse il delitto; che per ciò
era comune e prepotente l'interesse e del pubblico e della
magistratura di trovare i rei laddove nel caso nostro
l'interesse non è più comune; anzi da parte del Senato
e della classe patrizia è quello di non trovare il colpevole;
è una preoccupazione gelosa di far scomparire, se fosse
possibile, tutte le pedate, a dir così, impresse nel terreno,
seguendo le quali, si può giungere al punto donde il vero
colpevole s'è mosso; è dunque il caso in cui
l'osservanza scrupolosa di tutte le formalità degli statuti
criminali, dei principj del diritto comune, della mitezza
raccomandata dai giuristi; l'indulgenza, in una parola, può
soltanto far sperare di raggiungere quell'intento... E in
tal caso, c'è l'uomo di buona memoria e di gran dottrina che
fa conoscere tutto ciò che la teoria legale raccomanda alla
pratica, e che converte, dove precisamente meno occorre, in un
sistema di prudenza guardinga e mite, un sistema di procedura che
generalmente, pel modo onde il più delle volte veniva
adottato, faceva spavento a tutti. Tanto è necessario che la
lettera della legge sia precisa, inesorabile, geometrica, e
che i codici scansino al possibile il bisogno dell'interpretazione,
se si vuole che la giustizia non sia il balocco della dialettica
ambidestra. Ma veniamo al Galantino.
V
Abbiamo
accennato che prima di lasciare in libertà il tenore Amorevoli
si volle ch'ei vedesse il lacchè Galantino, dato il caso che
ravvisasse l'uomo che egli aveva asserito di aver veduto fuggire e
saltare il muricciuolo di cinta del giardino di casa V... Come ognuno
può pensare, codesta non era che una misura di formalità,
perchè non era probabile che Amorevoli potesse ricordarsi
della figura d'un uomo che di notte gli era passato innanzi a gran
fuga; nè, quando avesse dichiarato di riconoscerlo, la sua
deposizione poteva essere attendibile. Del rimanente poi, Amorevoli,
che aveva una gran smania in corpo di uscire all'aperto, non avrebbe
mai dichiarato di ravvisarlo, anche se ne avesse avute in memoria le
sembianze al pari di quelle di donna Clelia, come fece in fatti.
Compiuto dunque quell'atto, s'incominciarono gl'interrogatorj, de'
quali non sappiamo se di proprio senno, o per consiglio d'altri, il
capitano di giustizia incaricò un nobile Paolo Tradati,
auditore di mezzana capacità e notoriamente sprovveduto di
quella acutezza legale e segnatamente criminale, onde una domanda
gettata opportunamente al costituito, è come un randello
scagliato a tempo tra le gambe di chi vorrebbe fuggire.
Quell'auditore, onesto, corto, senza fiele, docile, era uno di quel
felici mortali, che di quel tempo ed anche in altri tempi, e forse,
chi sa mai, anche nel tempo nostro, sono destinati a far carriera, e
d'uno in altro posto salgono, non si sa come nè perchè,
provocando continuamente le dicerie del pubblico, il quale non sa che
l'incapacità costituisce una preziosa capacità sui
generis e un arme a più tagli, eccellente nelle mani di
chi la sa adoperare. Tuttavia, in quanto all'auditore incaricato
d'esaminare il lacchè, non creda il lettore che fosse privo
d'ogni sapere e di qualche pratica forense; tutt'altro; vogliamo dire
soltanto che tutti gli altri assessori ed auditori del capitano di
giustizia ne sapevano più di lui ed erano acuti più di
lui.
Chiamato
adunque il costituito Galantino innanzi all'auditore criminale nobile
Paolo Tradati, presente l'illustr. signor capitano di giustizia, gli
fu domandato se sapeva la cagione per la quale era stato arrestato a
Venezia per ordine dei Dieci.
Il
Galantino rispose di no..., perchè il signor segretario del
Consiglio non gli avea fatto motto nessuno, fuorchè
dell'inchiesta dell'eccelso Senato di Milano.
Gli
fu replicato, se almeno egli congetturava alcuna cagione.
No, ripetè di nuovo il Galantino... perchè se avessi
potuto aver motivo di temere per me... non sarei andato incontro ai
fanti del Consiglio dei Dieci, quando gli ho veduti star fermi sulla
porta della mia casa. Tuttavia, facendo il viaggio, m'è
passato per la mente che m'abbian voluto arrestare a motivo dei
giuochi d'azzardo, a cui mi recavo tutte le notti in un caffè
remoto di Venezia.
Come v'è potuto passare in mente un simile sospetto, se il
segretario v'aveva detto che l'inchiesta veniva da Milano?
Il come non lo so... ma il fatto è che mi passò per la
mente... Del resto oggi capisco benissimo che ero pazzo a pensarlo...
ma, quando non s'è fatto nulla per cui si abbia a temere la
giustizia, nell'andare a tentone per cercare un motivo qualunque, si
dà dentro spesso in una pazzia...
Voi dunque potete ripetere che non sapete nulla affatto del motivo
del vostro arresto?
Lo ripeto, disse asseverantemente il lacchè.
Qui
succedette un momento di pausa. L'auditore guardò il capitano
di giustizia, il quale, disse solamente:
Continuate.
In che giorno voi vi siete recato a Venezia per la prima volta?
continuò l'auditore.
Questa
domanda era un colpo maestro... Il capitano stupì... come uno
che vede un fiacco giuocatore di bigliardo a tentare un colpo
riservato, e coglier bene la palla, e pensò fra sè
stesso: Sta a vedere che costui oggi mi sfalsa per la prima volta...
Rispondete, quando siete partito da Milano per Venezia?
Il dì preciso non me lo ricordo bene... ma so che del
carnevale di Venezia ho passato nove giorni, e là finisce al
martedì, quattro giorni prima di Milano.
La
risposta era più ancora da maestro. L'auditore guardò
il capitano di giustizia.
Come potete provare che voi eravate a Venezia prima del mercoledì
grasso?
Che cosa so io?... Da Milano sono partito solo, perchè avendo
guadagnato assai al giuoco, m'è venuta la tentazione di
recarmi in una città dove il giuoco si fa più
largamente che qui... Sono partito senza dir niente a nessuno... e
sono arrivato dove non conoscevo nessuno... Però io non saprei
come trovare i testimonj...
Che somma vi trovavate in saccoccia quando partiste da Milano?
Cento zecchini veneti...
In che luogo avete giuocato... con chi li avete vinti?
In che luogo? in più luoghi... ai Tre Re, al caffè
Demetrio, al Gallo... in Ridotto. In quanto alle persone... posso
nominare il figlio dell'oste dei Tre Re, al quale ho guadagnato dieci
zecchini; posso nominare il lacchè di Casa Isimbardi, al quale
vinsi sei mesate, ossia l'importo di cent'ottanta lire milanesi;
posso nominare il mastro di scuderia di casa Litta, al quale ho vinto
quindici partite al tresette l'una dopo l'altra, ossia quindici
zecchini... Ma la somma più grossa l'ho presa al Ridotto del
teatrino... Non mi domandi però nè il nome nè il
cognome di chi ha giuocato con me... perchè non lo so.... e
chi mai domanda il nome a un forestiero che in teatro c'invita a
giuocare?... Pure se costui fosse ancora a Milano, non c'è
dubbio che lo riconoscerei, e sarebbe una fortuna per me, che così
potrei far persuasa la signoria vostra illustrissima.
Perchè vi preme tanto di persuadermi? Chi vi ha detto ch'io
voglia farvi colpa dei denari che avevate indosso?... Queste
parole mi fanno nascere dei sospetti.
Vostra signoria illustrissima mi ha chiesto quanti denari avevo
quando sono partito... Io ho risposto il vero, punto per punto... e
siccome chi dice il vero, vuol essere creduto... così vorrei
che alla S. V. ripetesse tale verità quello stesso che ha
giuocato con me e che mi lasciò sul tavoliere sessantasei
zecchini, ecco tutto.
Voi, a Venezia, i rapporti parlan chiaro, vi eravate dato a far il
ricco gentiluomo, con gondola e livrea e il resto. Come si poteva far
tutto ciò con mille cinquecento lire di Milano?
Molti dei nostri più ricchi patrizj non hanno più di
duecento, più di trecento lire al giorno. Vostra signoria
illustrissima vede bene che per dieci o dodici giorni chicchessia che
voglia assaggiare la vita del gran signore ci può riuscire con
mille cinquecento lire... Tutto sta a continuare... Questo è
il difficile.
E
l'auditore proseguiva:
Voi asserite di non aver avuto che cento zecchini in tasca quando
partiste per Venezia... ma da questi ricapiti e chirografi che il
barigello si fece consegnare da voi, appare che sui banchi di Venezia
voi avete messo a frutto più di trenta mila lire.
Queste le ho guadagnate a Venezia, dove mi sono recato espressamente
per moltiplicare al giuoco la somma che già teneva presso di
me. Vostra signoria sa che il conte Barbò in una sera guadagnò
quaranta mila talleri di Carlo VI. Al giuoco si fa presto...
Ma perchè dunque mi dicevate che avete voluto provarvi a far
il gentiluomo con cento zecchini; mentre potevate dirmi addirittura
che non si trattava più di cento zecchini ma di trenta mila
lire?
Ho detto così per dire... Del resto vostra signoria non può
credere ch'io volessi nascondere il fatto dei recapiti che tenevo
presso di me, dal momento che ho dovuto consegnarli al barigello, e
che sapevo ch'erano stati consegnati nelle mani dell'eccellentissimo
signor capitano di giustizia... Ma ora domanderei licenza a vostra
signoria illustrissima di fare una domanda?
L'auditore
guardò in viso al signor capitano, il quale accennò di
lasciar fare e dire.
Parlate liberamente.
Vostra signoria mi domandava un momento fa se io conoscevo la cagione
per cui venni arrestato ed ho risposto che non ne sapevo niente, come
non ne so niente; ora si contenti, signore, di lasciarmi domandare il
motivo per cui oggi sono qui.
L'auditore
finse di non intendere, fece pausa... e frugò in un fascio di
carte da cui trasse un foglio che pareva una lettera spiegazzata, e
la rilesse tutta attentamente senza dir verbo, poi continuò:
Con quali persone del ducato o della città di Milano vi siete
voi trovato nel tempo della vostra dimora in Venezia?...
Con una sola.
Con chi?
Colla signora contessa V...
Per quali ragioni vi siete recato a farle visita?
Dirò tutto; per supplicarla ad avere la bontà di non
interrompere una mia tresca che avevo con una giovinetta che le
abitava dirimpetto.
Come avete saputo che la contessa V... trovavasi , in Venezia?
Era più difficile a non saperlo che a saperlo; tutti ne
parlavano.
Ma perchè avete voluto mascherare la vostra condizione in
Venezia, e supplicare per ciò la contessa a non palesarvi?
La mia condizione di lacchè non era favorevole per farmi aprir
le porte delle prime case di Venezia, e nemmeno per entrar nelle sale
del ridotto di san Moisè. Se la contessa mi avesse palesato,
io avrei dovuto sottostare ad un avvilimento vergognoso; perciò
la pregai di tacere, e di non mettermi in piazza e di lasciar vivere,
se anch'essa voleva vivere.
Perchè dite: se anch'essa voleva vivere?
Ma chi non sa la storia della contessa, dal momento che tutta Venezia
n'era piena? e appunto per questo le ho fatto intendere,
rispettosamente, che badasse piuttosto a' fatti proprj, che non a
guastare i fatti altrui. Anzi, sul proposito della signora contessa,
giacchè essa ha tentato di rovinarmi...
Qui
il Galantino si fermò di punto in bianco, spaventato dalla
propria imprudenza, e diventò pallido come un panno lavato.
Il
capitano di giustizia fece un atto di sorpresa; l'auditore guardò
il capitano contento, come un pilota che dopo una lunga bonaccia,
odora finalmente un fil di vento, e s'accorge che si può
spiegar la vela.
Come sapete voi che la contessa abbia tentato di rovinarvi, scrivendo
sul conto vostro ad una persona fidata di Milano, e mettendo innanzi
i sospetti che voi gli avete ispirati?
Io non so nulla.
Come non sapete nulla? Cosa vi disse la contessa quando vi siete
trovato seco? badate a non dir la bugia, perchè qui c'è
tutto... e mostrò una lettera.
Cosa mi disse? molte cose mi disse.
Dite tutto, alla buon'ora, continuò l'auditore che in quel
giorno era più coraggioso del solito.
Io non ho difficoltà nessuna a ripetere tutto il discorso...
Le cose inutili mettetele da parte e rispondete a me. La contessa vi
parlò del trafugamento di carte commesso nella casa del
marchese F... nella notte del mercoledì grasso?...
Il
lettore si accorgerà che l'auditore, se fosse stato più
acuto e sagace, avrebbe potuto scansar tante lungaggini, e cominciare
l'interrogatorio da questo punto principale... Buon per lui che il
Galantino, per quanto astuto e destro, si lasciò accecare
dall'ira momentanea e perdette la scherma: tanto è difficile a
navigar sicuri nell'arduo mare delle bricconate.
Sì, avete detto? continuava l'auditore... Come dunque avete
potuto affermare, e, interrogato di nuovo, avete avuto la franchezza
di ripetere che eravi ignota la causa per cui siete stato arrestato a
Venezia e tradotto a Milano?
Il
Galantino aspettò un momento a rispondere, poi disse:
Torno a ripetere che quando V. S. mi domandò se conosceva la
causa del mio arresto, in quel punto era lontano le miglia
dall'immaginarla, e soltanto adesso comincio a capire qualche cosa
...
Ciò è affatto inverosimile... e nelle vostre parole mal
si cela una bugia.
Una bugia? perchè? V. S. illustrissima mi perdoni.
Se la contessa vi manifestò com'era caduto su di voi il
sospetto del furto tentato e consumato in casa F
in che modo
non avete pensato a questa circostanza allorchè foste
arrestato?
In che modo non lo so... Ma il fatto è che non ci ho pensato;
perchè le parole e i sospetti della signora contessa non mi
fecero nè freddo nè caldo. Chi è mai a questo
mondo che può temere le conseguenze di quel che non ha mai
fatto? E, a proposito della signora contessa, io mi sento in dovere
di annunciare un fatto. Un fatto che potrebbe dare un filo, a chi ci
ha l'interesse, di scoprire l'autore del delitto commesso in casa
F...
Che?
V. S. mi permetta di parlare liberamente.
Ve lo impongo.
Sappia dunque la S. V. che la contessa V... era l'amante occulta del
marchese defunto.
Qui
ci fu un momento di pausa; il capitano e lauditore si
guardarono maravigliati.
Come potete asserir questo? La contessa ebbe sempre fama di donna
onesta, austera...
Della fama io non so niente; guardo ai fatti, io; però chi ha
potuto avere una tresca con un tenore... non c'è da restare
balordi se potè intendersela prima con un marchese.
Il
capitano e l'auditore si guardarono di nuovo e raddoppiarono
d'attenzione.
Io era lacchè in casa F... e queste cose posso saperle... Ma
non è ciò che importa... Una sera, prima ch'io partissi
da Milano, voglio dire molti giorni prima della settimana grassa...
io passeggiavo a notte tarda, in Rugabella... due uomini camminavano
innanzi a me
intenti a discorrere, e credendosi affatto soli...
non abbastanza a voce bassa; diceva dunque l'un di essi: Io so che il
marchese F... (il marchese F... allora era gravemente ammalato) ha
lasciato nel testamento alla contessa V... la sontuosa villa che ha
in Brianza. L'altro che ascoltava si fermò su due piedi, e
disse: A questo modo è un mettere in piazza la contessa...
Quasi quasi ci sarebbe da sospettare che ciò possa esser mai
una vendetta del marchese contro il conte V... dal quale, per un
alterco, venne insultato e ferito in duello. Ma qui non ho sentito
altro, perchè que' due, accortisi d'una pedata, si tacquero
tosto.
Ma e che fa tutto questo?
V. S. mi perdoni... ma se alla contessa potè mai trapelar
qualcosa del testamento... è naturale ch'ella dovette
desiderare che il testamento sfumasse per aria. La contessa non aveva
bisogno delle ville del marchese... ma bensì che a tutti
rimanesse celata la sua tresca vergognosa... Se dunque le signorie
loro vogliono venire a capo di qualcosa... giacchè hanno
voluto mandare ad arrestar me, sino a Venezia... me che non poteva
avere, come non ho interesse nessuno nelle cose del marchese
defunto... sicchè un tale sospetto mi fa venir voglia di
ridere; mandino ad arrestare la signora contessa, e salterà
fuori, lo scommetto, quel che si vorrà. La mia condizione è
tale anzi, V. S. mi perdoni, che mi dà il diritto di
pretendere che la contessa venga chiamata a Milano... Io che ho
sopportato e sopporto la pena delle colpe altrui, il che non è
giusto... V. S. perdoni questo sfogo alla mia infelice posizione...
L'auditore
non disse nulla, e si volse al capitano, il quale dopo alcuni momenti
di silenzio:
Potete rimandarlo in carcere, disse. Per oggi basta.
Il
Galantino fu ricondotto in prigione; il capitano e l'auditore, quando
furono soli:
A me par di sognare, disse l'uno. Io casco dalle nuvole, disse
l'altro...
Ma
intanto che l'uno e l'altro attendono a riaversi dallo stupore, noi
siamo sollecitati dall'amore che portiamo a donna Clelia, a
dichiarare al lettore che tutto ciò che disse il Galantino era
una sua perfida invenzione per vendicarsi della contessa...
Invenzione però che fe' presa in giudizio, e fu occasione di
una stranissima combinazione di cose, nella quale il costituito
Suardi, tanto esperto giuocatore, non giuocò, di certo, la sua
carta più fortunata.
VI
La
condizione degli avvenimenti che abbiamo a raccontare è tale,
che ci conviene viaggiare innanzi e indietro da Venezia a Milano e da
Milano a Venezia, come un conduttore di diligenza. Intanto adunque
che a Milano il Galantino sottoponevasi al primo interrogatorio, a
Venezia il tenore Amorevoli aveva raccolte dal suo gondoliere quante
notizie gli bastavano sul conto della contessa Clelia. Siccome il
Bianchi, gondoliere, quando non era al servizio di lei, stava di
consueto al traghetto del molo alla punta dell'isola della Zueca,
così i suoi compagni del traghetto medesimo sapevan benissimo
chi egli serviva di gondola in quegli ultimi giorni. Amorevoli
adunque, per quanto avesse fatto interrogazioni prudenti e velate,
venne pure a conoscere ogni cosa, e della casa ove essa alloggiava, e
della famiglia che la ospitava ed anche delle corse che da qualche
giorno ella solea fare a diporto lungo il Canal grande; perchè
il Bianchi, spiccandosi ad ora tarda dal suo posto, ove stava il più
della giornata facendo versi sotto il felze negli intervalli di
riposo, aveva detto più volte:
Ora andiamo a prendere la nostra bella lombarda.
Però
volle anch'egli il tenore recarsi tra l'altre gondole in canale per
vedere se mai gli venisse fatto d'incontrarsi in quella della
contessa. Lo scontro potea benissimo succedere, senza che fossero
turbate le leggi del possibile o del probabile, ma il caso volle che
per quel giorno non se ne facesse nulla, e giuocassero quasi a chi si
fuggiva; e anche allora che furono a pochi tratti di distanza, là
verso santa Chiara, l'uno non avesse sentore dell'altra, e buona
notte. Tornò dunque all'albergo e là, messosi in tutta
gala, si portò poi, sempre intendesi in gondola, a far
visita al corregidore Pisani, che aveva la sorveglianza de' teatri di
musica, e dal quale eragli stato fermato il patto di sei sere di
recita a quello di san Moisè, perchè solea tenersi
chiuso in primavera ed estate l'inallora maggior teatro di san
Cassiano. Recatosi da quel ricco patrizio, fu accolto come si poteva
accogliere un celeberrimo artista di canto in un tempo in cui la
musica era tenuta necessaria come l'aria e lacqua. Il tenore si
scusò del ritardo, dandone cagione a' fatti imperiosi, che il
patrizio veneziano, sorridendo, accennò di sapere benissimo, e
si dichiarò pronto ad incominciare i suoi impegni.
Il
corregidore gli disse che il teatro sarebbesi aperto fra poco perchè
dovevasi attendere anche la ballerina Gaudenzi, la quale avea fatto
scrivere, le si concedessero alcuni giorni prima di partire da
Milano.
Ed ora, caro mio, ho a supplicarvi di un favore, soggiunse il conte.
Vostra eccellenza mi comandi.
Domani sera, a festeggiar l'arrivo del conte Algarotti, do
un'accademia di musica a cui interverrà tutto il bello e il
buono che abbiamo in Venezia, e molte preziosità che ci son
capitate di fuori. Voi avete ad essere tra queste, e dovreste, se non
pretendo troppo, cantare una scena, un'aria, che so io, un
madrigaletto, qualche cosa insomma; v'è qui Luchino Fabris,
l'imitatore di Egiziello, che vuol sentirvi; e nientemeno che la
moglie di Hasse, la celebre Faustina, venuta per certe sue faccende
di famiglia dalla Germania; la Faustina, ora matura fin troppo, ma
che, cantando di agilità, è ancora capace di passar
sedici crome in una battuta. V'è qui poi la Turcotti, che voi
dovete conoscere perchè mi parlò di voi con entusiasmo
tale che parrebbe oltrepassare persino i confini delle crome; e il
conte sorrideva. E poi c'è il mago, il gran mago
dell'archetto, quel diavolo di Tartini, che v'ha sentito e
vuol risentirvi. Dunque, se mai vi bastasse l'animo di dir no, dovrei
credervi un uomo ben inflessibile...
Il vostro desiderio, eccellenza, basta perch'io m'induca a far ciò
che di solito non faccio di buona voglia; perchè, prima di
farmi sentire in camera, amo che mi si conosca in teatro...
Vi comprendo benissimo, e tanto più vi ringrazio; ma io so, e
me lo disse più d'uno, che voi siete padrone dell'arte in
modo, che la governate a vostro arbitrio e in camera e in teatro.
Dunque v'attendo domani, così verso le quattro di notte...
Io vi sarò senz'altro... e Amorevoli si licenziava, il quale
non avrebbe certo accettato di far la sua prima comparsa in Venezia a
quel modo, se non lo avesse sollecitato la brama di vedervi la
contessa. In questo pensiero, giacchè erasi fatto tardi e per
quella notte ei non sapeva in che luogo ridursi di Venezia, ritornò
al suo alloggio allo Scudo di Francia. Là, giacchè
l'albergatore gli aveva fatto portare in camera, siccome ne avea
avuto l'ordine, una spinetta da nolo; trasse dal baule la sua
biblioteca musicale portatile, e si mise a sfogliazzarla, onde
cercarvi qualche cosa che potesse fare all'uopo per l'accademia del
giorno successivo. Un'aria della Merope di Jomelli, per
la quale il celebre napoletano tre anni prima aveva fatto impazzire
tutta Venezia e gli era stato offerto un posto di direttore nel
Conservatorio delle fanciulle povere; un'altr'aria dell'Achille
in Sciro dello stesso maestro; l'aria celeberrima
dell'Olimpiade di Pergolese, che già l'udimmo cantare
nelle carceri del Pretorio a Milano. Un grande recitativo
dell'Artaserse del Vinci, il maestro perfezionatore dei
recitativi obbligati. Alcuni madrigali dell'abate Steffani, passato
da Venezia in Germania ad educarvi Haendel, il quale si assimilò
le più care imagini melodiche del maestro, e infuse per tal
modo la psiche italica nell'astrusa compagine germanica; alcuni altri
celeberrimi madrigaletti dell'abate Clari, sposati per lo più
a giuocherelli di poesia erotica, ma squisitissimi di stile melodico.
D'una in altra cosa, Amorevoli cominciò a provare qualche
frase sottovoce, accompagnandosi alla spinetta; ma quando dalle arie
passò al recitativo di Vinci, la musica declamata eccitandolo
ad entusiasmo, gli fece mandar fuori tutta la sua voce piena, come se
fosse alla ribalta d'un grande teatro.
Era
la terza volta che Amorevoli riprovava una nota tenuta, un
sibemolle prodigioso, alla risoluzione del sublime
recitativo di Vinci, quando sentì batter crudamente alla porta
della camera. Interrompere chicchessia, foss'anco l'uomo il più
placido, nel fitto d'un'occupazione a cui mette tutto l'interesse e
tutta l'anima, è il vero segreto di farlo prorompere in atti
d'ira, di quell'ira che è deposta in petto a tutti i mortali
anche i più linfatici, non essendovi differenza che nella
dose. Amorevoli aveva avuto dalla natura una dose d'ira, come suol
dirsi, normale, ma gli era stata accresciuta dalle
suscettività teatrali e dalle diverse liti cogli impresarj, e
dalle controversie coi vestiaristi, sempre incapaci ad accontentare
un cantante; per di più essendo romano, da Transtevere,
dov'era nato, aveva portato seco ne' suoi viaggi tutti que' modi
risoluti e troppo espressivi onde quella frazione di popolo sa
imprecare più di tutti i popoli del mondo. Quando adunque si
sentì rotto in due il suo preziosissimo sibemolle da
quell'importuna picchiata, mandò fuori una di quelle tali
frasi, e in quel tono acuto e vibrato che gli era rimasto in gola...
e nel tempo stesso andò ad aprire. Era un servo in livrea, con
baffi, distintivo rarissimo in quel tempo, e che per lo più
soleano portar coloro che, dopo aver servito a lungo nella milizia,
si riducevano a mestieri ed a servigj comuni della vita, press'a poco
come al tempo nostro, in cui quanti hanno portato sciabola o fucile
al reggimento, o hanno inforcato un arcione, serbano nell'aspetto
qualche marchio indelebile, pel quale si può quasi indovinare
se furon soldati di cavalleria o di fanteria. Quel servo pertanto,
con un accentaccio lombardo e con parole nelle quali, per
indefinibili combinazioni, si sentiva un'incondita fusione di Milano,
di Spagna e di Veneto:
Il mio padrone, disse, è stracco, e vorrebbe dormire, e gli
danno gran noia i vostri gridi. Però uomo avvisato, mezzo
salvato.
A
quell'intemerata così improvvisa e così villana,
Amorevoli s'accontentò in prima di guardare quel servitore con
tutto il veleno che gli potea schizzare dagli occhi, poi soggiunse:
E chi è codesto capo di popone che ti dà simili
incarichi? Esci tosto, o non avrai tempo di contare i gradini di
questa scala, tanto di fretta io te li farò fare.
E senza più, richiuse i battenti dell'uscio sulla faccia del
servitore, e rimessosi alla spinetta, tornò al suo recitativo,
azzardando un do sopracuto di petto, che parea voler
trapassare il soffitto della camera...
Ma
chi era quel servo, e a nome di chi veniva? Già noi non
intendiamo di fare una sorpresa; son cose presto indovinate. Lo Scudo
di Francia era allora tra' più sontuosi alberghi di Venezia.
Il conte V... ch'era entrato la sera in città, in quella barca
precisamente della quale la contessa Clelia, non presaga di nulla,
aveva veduto alla lontana luccicare il fanale, era disceso a prendere
alloggio a quell'albergo appunto, e in compagnia del suo più
fido servo, il quale era già stato suo caporale al reggimento.
Preso uno degli appartamenti più ricchi dellalbergo,
abitava il piano superiore a quello ove Amorevoli s'era acconciato.
La combinazione può parere strana per coloro a cui tutto
riesce improbabile. Ma il tenore non era poi obbligato a prendere
alloggio in una bettola, e il conte, per quanto fosse conte e
colonnello, non aveva diritto nessuno di alloggiare nelle camere del
Doge. Onde se si trovarono ambedue in quell'albergo, la cosa è
tanto verosimile, che quasi sarebbe inverosimile la sua contraria. Ma
di ciò non è questione. Il conte V... era dunque venuto
a Venezia con intenzioni terribili... in questo almeno era logico: o
non muoversi affatto da Milano e bever l'onda di Lete, ciò che
invero sarebbe stato atto prudentissimo, chè il suo decoro,
non ne andava di mezzo per nulla; o, giacchè erasi
mosso, doveva averlo fatto per qualche cosa. Lungo il viaggio aveva
meditati, come sappiamo, o almeno come si può
congetturare, cento progetti, che tutti gli pareano eseguibili e
tosto: ma appena furon tolte le distanze, che a lui erano sembrate il
solo ostacolo all'ira sua ed alla sua vendetta, se gli rimase l'ira,
si trovò impacciato sul modo di scaricarla agli altrui danni.
Bastonare, frustare, sfregiare in qualche modo l'effeminato e
petulante e plebeo cantore, com'esso lo chiamava, era il voto supremo
della sua mente in ebollizione, ma bisognava pure che si presentasse
un'occasione. Bene si ricordava dello sfregio fatto a Voltaire da
quel tal duca irritato dalle sue punture; ma cogliere un uomo
all'impensata e farlo bastonare da mani prezzolate gli pareva
un'azione vilissima, e indegna di cavaliere e di soldato. Dovevasi
pertanto cogliere un'occasione plausibile; ma per coglierla era
necessario che l'occasione venisse e spontanea e tale, che il mondo
potesse dire: È giusto che colui sia stato bastonato.
E in quanto alla contessa?... Ahimè, che pensando a lei il
colonnello si smarriva in un abisso di dubbj.
Ei
non era nè determinato, nè focoso, nè
innamorato, nè geloso come Otello. Non era assassino come
Pietro de' Medici; non efferato come il duca di Guisa; non era cupo e
taciturno come Nello della Pietra; non longanime come il Lopez dalla
vendetta segreta; bensì in quel suo testone di ceppo e in
quel suo cuoraccio da galantuomo era una miscela di tutti questi
ingredienti. Ma val più una goccia di acido prussico a
produrre i subiti effetti, che dodici elementi che si faccian guerra
a vicenda; onde egli si affannava senza costrutto e senza mai sapersi
determinare a cosa nessuna; al pari del tenore Amorevoli aveva
anch'esso, in quella sera, pagato lautamente, se non un gondoliere,
un servitore di piazza, per sapere tutto quello che gli occorreva di
sapere; nè per questo i denari erano stati mal spesi; col
verboso cicerone era stato in gondola a visitare i luoghi, il rio san
Polo, il palazzo Salomon, la scalea, la finestra, la porta del lato
della calle, tutto. Ma più raccoglieva notizie e mezzi,
insomma più innoltrava nella via chegli aveva cercato, e
più crescevano le sue irresoluzioni. Se non che, nel fitto
appunto di quelle sue accalorate consulte, sente un suono di spinetta
di sotto a sè, poi un cantare sommesso, poi una voce che si
snoda e si alza, e si diffonde in vibrazioni acute.
Gli
pare e non gli pare; chiede a sè stesso: chi è mai
costui? e, chiamato il servitore, fa domandare il cameriere.
Chi è costui che a quest'ora grida come se fosse in teatro?...
Il
cameriere mal comprende, non tanto le parole del conte, quanto il
piglio sdegnoso onde le pronuncia.
Eccellenza... è uno dei più celebri cantanti del
giorno... Tutti i forestieri che alloggiano qui... son discesi tutti
nel salone che è presso le sue camere, per sentirlo più
dappresso, e tutti fanno le meraviglie e vanno in solluchero, e si
chiamano fortunati d'essere venuti ad alloggiare qui, e poterlo udire
prima che canti in teatro, chè egli è la prima volta
ch'ei ci capita a Venezia.
Ma chi è dunque?
È il tenore Amorevoli, per servirla.
E
il conte che già ne avea un sentore, non fece atto di
meraviglia nessuna; e rivolto al servo-caporale ch'era lì
presente:
Va tosto abbasso, gli disse, e di' a costui che a quest'ora altri
dorme qui, e non vuol essere messo in soprassalto da' suoi strilli.
Il
cameriere s'intrometteva per impedire un tale atto, ma il
conte-colonnello:
Va dunque, ruggì al servo-caporale, e bada di non far
complimenti. Parla chiaro e risoluto... e se non obbedisce la
vedremo.
Il
servo, come sappiamo, fece quel che fece, ma quando venne respinto
dal tenore, non sapendo che risolvere, perchè di fuori erano
molti camerieri che adocchiavano, risalì agli appartamenti del
padrone a riferirgli la risposta... Il conte stava in ascolto...
quando gli giunse all'orecchio quel do di petto sopracuto che
lo fece spiritare, onde, senza rispondere, discese precipitoso e
formidabile, come un orso che affamato si rotola dal monte se mai gli
venga veduto un giovenco sbandato alla campagna. Discese e bussò
sì forte, che Amorevoli dovette aprire... e si vide innanzi,
non certamente aspettato... il conte grande e grosso e fiero, il
conte che molte volte dalla ribalta aveva veduto in palchetto.
VII
Che
la vista improvvisa del conte V... facesse un'ingratissima sorpresa
ad Amorevoli, ognuno lo può credere senza fatica. Si scolorò
nel viso, fece un passo indietro perplesso, e, in una parola, mostrò
di fuori tutti i segni di chi si lascia cogliere dal timore; ma tutto
dipendeva dalla sorpresa.
Or che si fa? gli disse il conte.
È
così vero che l'effetto della musica deriva tutto dal
colorito, che quella domanda del conte, per sè stessa così
semplice, fece avvicinare di qualche passo all'uscio della camera
d'Amorevoli i camerieri che si trovavano là presso e i
forestieri ch'eran discesi, chè l'inflessione della voce e
l'accento fece parer terribili quelle pur così insignificanti
parole.
Un
momento di riflessione però era bastato perchè
Amorevoli si rimettesse, come suol dirsi, in sella, onde a quella
domanda del conte:
Si canta e si suona, rispose.
Fango salito in scanno, al cospetto di chi credi tu di trovarti?
Al cospetto di chi meriterebbe discendere dallo scanno nel fango.
Il
conte fece un passo innanzi, e la mossa fu tale, che i camerieri
accorsero e lo trattennero.
Ma, disse allora Amorevoli, che pretendete da me, signor conte? Con
che diritto vi siete fatto lecito di mandare ad insultare un uomo
dabbene? Io sto nella mia camera, io attendo a' fatti miei e all'arte
mia, e se momenti fa colla voce potevo ferire l'orecchio altrui,
pregovi a pensare che non è mezzanotte e siamo in Venezia, e
di quest'ora gli è come si fosse di mezzodì, in
un'altra città. Le costumanze, i convenevoli, i riguardi li
conosco al pari di chicchessia. Se mi aveste mandato a pregare coi
modi del gentiluomo, meno male, vi avrei esaudito; ma invece quel
vostro domestico si comportò di maniera, che fu assai se non
l'ho spinto rotolone giù per la scala. Del rimanente, se in
poco o in nulla vi credete offeso, io son qui pronto a darvi
qualunque soddisfazione.
E quali soddisfazioni mi puoi dare tu?
Quelle dell'uomo onesto in faccia a chi vuol dar spettacolo di
coraggio.
Ma giacchè ti vanti di conoscere i convenevoli e le
prammatiche, non sai tu, istrione vilissimo, ch'altri offende se
stesso misurandosi co' pari tuoi?
Pari o no pari, questa la xe ona prepotenza da sior Lelio...
Chi
diceva queste parole era un giovane di vent'anni, poco su poco giù,
il quale vestiva l'assisa di soldato di marina. S'era trovato là
ad udire insieme cogli altri forestieri; ed avendo preso notizia del
fatto, e parendogli quella del conte un'insopportabile soperchieria,
non potè più contenersi, e strillò quelle sue
parole con fremebonda concitazione. Il conte si volse, e:
Chi m'interrompe? disse.
Angelo Emo, nobile di nave, disse il giovine uscendo dal crocchio, e
saettando la sua giovane pupilla nella pupilla torva del conte.
Era
esso davvero quell'Angelo Emo, il futuro assediatore di Tunisi, colui
che gloriosamente doveva chiudere la serie degli ammiragli della
serenissima repubblica. Di quel tempo, uscito appena dalla
istituzione del Bilesimo consultore della Repubblica, del padre
Lodoli, altro consultore, e del celebre Stellini, era entrato da
pochi giorni nella carriera marittima, nella qualità appunto
di nobile di nave, tirocinio che si faceva durare quattr'anni, col
saggio intendimento che i giovani alunni unissero la pratica alla
teoria. Di que' giorni egli stava coll'equipaggio lungo le coste
dell'Adriatico, e avendo sentito com'era aspettato a Venezia il conte
Algarotti, che fanciullo egli aveva conosciuto nella casa paterna,
impetrò dal capitano di nave il permesso di venire a Venezia;
e siccome il padre, per essere riformatore degli studi, stavasi a
Padova colla famiglia, egli avea preso alloggio all'albergo
dello Scudo di Francia.
Or come c'entrate ne' fatti altrui? disse il conte al giovine
soldato.
Quand'uno offende un altro senza ragione e con violenza, tutti hanno
diritto d'immischiarsi ne' fatti dell'uno e dell'altro. In
conclusione, che v'ha fatto quel signore? Chi mai poteva imaginarsi
che la musica vi dovesse far abbaiare alla luna come un cane da
presa? O quel signore v'ha offeso, o voi avete offeso lui... Fin qui
non c'è nulla di straordinario. Ciò che v'ha di strano
si è ch'egli si dichiari disposto a darvi ogni
soddisfazione... e voi la rifiutate. E che vorreste dunque?...
ch'egli si ammazzasse per rispetto alla vostra corona di conte?
Ragazzo, bada, ch'io non torca su di te l'ira che mi venne da lui!
Ed ora son io che vi chiedo soddisfazione, signor conte!... Or non vi
può soccorrere la scusa della mancanza di parità fra
noi... Voi siete conte ... lo credo perchè lo sento a dire, e
poco me ne importa ... In quanto a me... i miei avi furon reggitori
di quest'isole quando primamente si congiunsero a città. Piero
Emo fece prodigi di valore nella battaglia di Chiozza. Altri si
onorarono in ambasciate e in magistrature. Molti di quelli che sono
qui presenti sanno chi sono, e ponno fare testimonianza di ciò...
però raccogliete questo guanto.
E
il giovinetto generoso, levatosi il guanto di daino, lo gettò
al piede del conte V... che lo raccolse e soggiunse:
Sta bene. Or pensate al resto, perch'io non son di Venezia, e non
posso scegliermi i padrini in una città che non conosco.
Il
lettore si ricorderà d'aver veduto qualche volta addensarsi un
terribile temporale al di sopra di un tratto di territorio, e d'aver
detto in cuor suo: non vorrei aver io il mio grano e le mie vigne
colà; ma d'improvviso il vento cangiar direzione alla procella
stessa, e portar lo schianto della gragnuola in quelle parti invece
su cui alcuni momenti prima il cielo si distendeva sgombro e
tranquillo.
Quando
il conte V... feroce e bestiale discese precipitoso a percuotere
con violenza la porta della camera d'Amorevoli, scommettiamo che
la metà almeno dei nostri lettori avranno ripreso fiato per
assistere alla truculenta scena del tenore fracassato e morto. E di
fatto, una parola, un gesto di più, qualche cameriere di meno,
più radi forestieri e più placidi e prudenti, una sola
insomma di tali cause potea bastare a far iscattare la molla d'una
catastrofe tragica...
Ma
invece un fil di vento e poche parole in dialetto veneziano valsero a
cambiar la direzione delle cose. Omnia sunt hominum tenui
pendentia filo; e se Amorevoli potè scampare dal pericolo,
per verità che quasi aveva l'obbligo di far cantare un Te
Deum in San Marco.
Del
resto, in una relazione storica, scritta nel secolo passato da un
Cadorin padovano, dove è parlato di Angelo Emo, è
riferito codesto fatto del duello ch'egli ebbe nella sua prima
giovinezza con un nobile lombardo.
Ed
ora tornando a noi, quando il conte V... ebbe raccolto il guanto, il
giovine Emo, con quella delicata cortesia che accusava in lui e mente
e cuore fuor dell'ordine comune, disse, rivolto ad Amorevoli:
Mi perdonerete, signore, se io ho voluto per ora togliervi di mano il
fioretto. Ma al tempo non manca mai il tempo.
Per me sono sempre disposto a ripigliare il vostro, quando l'abbiate
adoperato. La mia nobiltà sta nell'arte mia e nella mia vita
senza rimproveri. Quando il conte accetti, io sono sempre qui ad
attenderlo.
Il
conte non fece motto. Angelo Emo soggiunse qualche altra gentilezza
ad Amorevoli, poi scambiate alcune parole con alcuni amici che gli
stavano intorno, due di questi si mossero ed accostatisi al conte
V...
Adesso, gli dissero, giacchè noi per parte del nobile Emo lo
assisteremo sul terreno come padrini, voi sceglierete i vostri fra
que' quattro gentiluomini là, che sono parati ai vostri
comandi, e intanto ci ritireremo a trattare del come e del dove.
Così
tutti si ritrassero, mentre Amorevoli si rinchiuse nel suo camerino.
E
intanto noi balzeremo da questa notte alla notte successiva
per assistere, nel palazzo Pisani, alla lanterna magica, dove si
vedranno a passare l'un dopo l'altro i letterati, poeti, i pittori, i
musici,
Le
donne, i cavalier, l'armi, gli amori
onde
in quel tempo Venezia brillava fra le città d'Italia. Nè
ciò sarà fatto a caso, perchè colà si
offriranno forse le occasioni per isciogliere nodi a cui il lettore
probabilmente tien l'occhio.
VIII
Due
palazzi egualmente celebri, che portano il nome dei Pisani, vi sono
in Venezia; quello a San Paolo, che ha la facciata rispondente sul
Canal grande; e quello in Campo San Stefano. Il primo, appartenente a
quello stile archi-acuto veneziano che ha per distintivo
caratteristico il foro quadrilobato interposto agli archi, ma che nei
pilastri bugnati e nel basamento accenna alle prime transazioni tra
l'arte del medio evo e il ritorno dello stile romano, è lodato
per leleganza nativa dell'ordinamento generale del primo stile
e la felice libertà degli innesti del secondo. Ma il palazzo
Pisani di San Stefano è bestemmiato dalla critica più
recente, che lo chiamò un'insignificante montagna di pietre
sagomate. Ognuno ha i suoi gusti, e noi, sebbene troviamo pessima di
stile la facciata di questo palazzo, giudichiam d'altra parte
degnissima di meraviglia la gigantesca grandiosità di tutto
l'edificio; i cortili a molti piani di poderosa struttura, le scale,
gli appartamenti, le sale che ancora oggi, pur nel tristo abbandono
in cui giaciono, fanno rimpiangere allo spettatore quell'avito
splendore ove al tempo nostro è infranta affatto la
tradizione. Nelle opere dell'arte, segnatamente dell'architettura, la
grandiosità dell'impianto e l'audacia del concetto sono
elementi che non ponno essere disprezzati, bastando soli a dare
importanza agli edifizj. La miscela di più forme, i giuochi di
parole, i bisticci, le freddure onde pur sono offese le composizioni
drammatiche di Shakespeare, non tolgono ch'egli giganteggi su
tutti coloro che non straripano perchè non hanno fantasia che
rigurgita. D'altra parte quella miscela ha un valore, se non per
l'arte almeno per la storia di essa, almeno per le significanze
ch'ella serba in molte parti della storia generale. I drammi di
Shakespeare sono l'enciclopedia storica della grammatica inglese, chè
cento autori portarono le diverse loro acque a quell'oceano; e il
medesimo può dirsi di alcune opere dell'edilizia, fatte
innalzare da più volontà e da ingegni diversi, che
serbano le varie impronte dei tempi in cui hanno operato; onde se il
gusto squisito, contemplando il tutto, si offende, non essendo
preoccupato che delle linee e delle forme; l'intelletto abbracciando
invece più elementi, non resta offeso dalle forme imperfette,
perchè si lascia preoccupare dai varj significati che offre
l'edificio. Nel vetusto San Marco, la meraviglia massima delle
meraviglie veneziane, è una mescolanza di tutti gli stili e di
tutte le idee che quegli stili, secondo alcuni, dovrebbero
rappresentare l'arte cristiana vi transige colla pagana, le
incondite stranezze dell'impero basso contaminano spesso i simboli
cristiani, la cupola orientale gira sugli archi latini, la colonna
greca posa sulle costruzioni bizantine. La critica inesorabile
che è fida al bello assoluto e lo trova nella sola unità
poderosa, s'indispettisce di tali mescolanze; ma v'è
quell'altra critica più grande, più intellettuale, più
liberale, che trova quell'edificio d'un valore inestimabile, per le
sue varietà appunto, e perchè l'architettura essendo un
libro di granito, come disse il poeta, tanto più quel libro è
prezioso, quanto più fatti ricorda della storia di un popolo.
Tutte queste nostre chiacchiere vorrebbero dire che anche il
grandioso palazzo Pisani, imperfetto, difettoso, senza carattere
deciso, ha un merito, se non in faccia alla critica dell'arte, in
faccia a quella della storia, e che per ciò i Pisani che lo
hanno fatto innalzare e continuare, non hanno mal speso i denari,
come taluno ha detto. Cominciato alla metà del 1500 dal
Sansovino, fu compiuto quasi due secoli dopo dal vicentino
Frigimelica, onde codesto edificio, esaminato in tutte le sue parti,
presenta tutte le vicende della grandezza veneziana negli ultimi suoi
secoli, e dei trapassi del gusto, rappresentati da vari
architetti. Che se anche oggi, pur nell'abbandono in cui è
lasciato, serba ancora qualche significato, si figura il lettore quel
che nel secolo passato dovesse parere al visitatore intelligente, in
uno di quei giorni in cui la ricchezza del proprietario Alvise Pisani
lo apriva alla folla dei patrizj e delle altre classi distinte; quel
che dovesse parer nella notte in cui lo dischiuse per festeggiare
l'arrivo del conte Algarotti, il quale in quel tempo, per
straordinario beneficio di fortuna, sedeva re di tutti i regni delle
scienze e delle arti. Erano le tre ore di notte; risplendevano tutte
le finestre della facciata che guarda il Campo San Stefano. Le due
statue oziose, che stanno a' fianchi della maggior porta, avevano
avuto anch'esse in quella sera lincarico di portare un gran
fanale sulla testa; risplendeva tutto il lato del palazzo che guarda
il rio; e più servi con torcie a vento stavano sulle due
scalee per cui si ha accesso al palazzo da quella parte appunto; era
tutta illuminata la lunga calletta per la quale il palazzo ha una
comunicazione col Canal grande, sulla scalea della quale stavano pure
altri servi con torcie a vento per ajutare lo sbarco dalle gondole
accorrenti. Dalla parte del campo venivano a frotte di due, di tre,
di quattro gentiluomini e gentildonne, preceduti dai servi col
lampione. Il Canal grande, per quanto spazio misura la linea di due o
tre palazzi, era tutto pieno di gondole con gondolieri schiamazzanti
ad aprirsi la via, chi verso l'approdo della calletta, chi verso il
rio interno. Gl'invitati che veniano dal campo, s'incontravano
nell'atrio con quelli che arrivavano dal rio; e quand'erano
forestieri o veneti di terra ferma, si soffermavano a guardare il
leone rampante scolpito, che era lo stemma di casa Pisani, colla
spada da un lato, la mazza e l'elmo dall'altro; e i fanò delle
galeazze che già avevano rischiarate le vittorie del glorioso
Vittor Pisani. Tutti costoro poi si incontravano nell'ultimo cortile
con quanti vi approdavano dal canale, e insieme salivano lo scalone
e, d'una in altra anticamera, entravano nella maggior sala, la cui
vôlta, dipinta dal Guarana, è sorretta da molte colonne
corinzie, oggi mostranti il gretto legno, allora tutte splendide
doro nel capitello, nelle scanalature, nella base.
In
quella sala v'era uno scompartimento apposito per lorchestra e
pei clavicembali.
Laccademia,
dovendosi incominciare ad ora più tarda, la folla dei
visitatori traeva di sala in sala ad ammirare gli sfoggi straordinarj
di quel palazzo e di quegli appartamenti: i dipinti di Tiepolo, del
Tiepoletto, del Canal, del Rizzi, del Cignaroli; i damaschi, i
sopraricci, gli arazzi della fabbrica privilegiata, allora
celebratissima, delle sorelle Dini, le quali ritraevano un assegno
annuo dalla stessa Repubblica. E segnatamente si trattenevano ad
esaminare a parte a parte le ricchezze d'ogni guisa che risplendevano
nella così detta sala d'Apollo dipinta a chiaroscuro
dall'Amigoni bergamasco. Se non ci tormentasse la noja delle
descrizioni, onde amiamo dipingere a sguazzo con pennello
scenografico e in istile piazzoso, piuttosto che col pennello minuto
dei Fiamminghi, vorremmo riprodurre così al vivo il palazzo
Pisani di dentro e di fuori in quella serata musicale, che il lettore
dovrebbe confessare che oggidì per questo lato la ricchezza
par miseria; e quando pure dà il caso che taluno voglia
sfidare il passato per superarlo, non riesce che ad essere la scimia
che imita il padrone, e provoca il riso invece della meraviglia;
perchè c'è una cosa, che distingueva i nostri buoni
vecchi, ed è l'armonia che univa la loro persona e i loro
vestiti colle proprie abitazioni, le suppellettili, gli addobbi, le
tappezzerie, gli ornati, le pitture onde si circondavano. Oggi invece
il cilindro del secolo decimonono copre una testa colla barba di
Carlo V, o i mustacchi a coda di topo di Tamerlano. Oggi il monotono
e gretto frack di panno nero, e i calzoni attillati del marito, si
smarriscono nelle volute e nelle sinuosità del guardinfante
risuscitato dalla moglie ingrossata. Oggi il signore sotto i soli
d'Italia porta il soprabito di guttaperca, che ci fa sentire il
ribrezzo delle nebbie inglesi impregnate di filigine; mentre poi sul
serpe della carrozza parigina il cocchiere reca l'impronta di una
vecchiezza anticipata sotto la parrucca a tre giri del senator
Tredenti; e nelle case la stessa sconcordanza perpetua, e negli
addobbi e negli ornati sempre una ricchezza senza logica e che
rinnova l'immagine oraziana del mostro equino.
Rifacendoci
coi nostri personaggi, a tre ore di notte Amorevoli portossi al
palazzo Pisani, dove s'incontrò in Luchino Fabris, musico di
gran merito, imitatore fortunato del celebre Egiziello. Essi eransi
trovati insieme viaggiando più volte, e avevano stretta
amicizia; ma, per combinazione, non eran mai stati scritturati a
cantare insieme nè in un medesimo teatro nè in una
città medesima, onde si conoscevano per fama, e avevano il
desiderio di sentirsi a vicenda.
Ho caro assai di vederti qui, disse il Fabris ad Amorevoli, e
finalmente udrò la tua voce.
Ed io avrò il dispiacere di fartela sentire in un cattivo
momento, disse Amorevoli. Non sto niente di lena, e cento cose mi dan
noja.
So tutto, amico mio, ma sono ingredienti quelli che non scemano punto
il colorito al canto. Tu vedrai la contessa, e...
Amorevoli
finse di aver preoccupata l'attenzione a qualche oggetto, e non
rispose.
Credo bene che la bella lombarda verrà stanotte qui,
come s'è mostrata altrove in questi giorni addietro... Ma tu
guardi Apollo in quadriga, e non ci senti da quest'orecchio. Pure, se
tu taci, tutti parlano. Dammi dunque retta. Sento che c'è qui
il marito della contessa...
Anche questo si sa?
E che mai? pretenderesti forse che del duello col giovine Emo non
fosse trapelato nulla, quando cameriere e cuoco e guattero sono stati
testimonj della scena?
E come si racconta la cosa?
Sta tranquillo; tu ci fai buonissima figura. Ma ora si vuol sapere
come riuscì il duello... è il discorso di tutti... Non
sai nulla tu?
Nulla affatto. Sono andati in Terra Ferma, fuori un tratto del
territorio della Serenissima per scansare certa legge che li avrebbe
colpiti. Però non se ne sa nulla ancora. Lasciamo dunque che
tutto vada a beneficio o maleficio di fortuna; e dimmi chi è
quel cosino là smilzo e pallido, colla collana e il medaglione
e la croce in petto... Tu hai cantato per due stagioni l'una dopo
l'altra a Venezia... e questa che s'innoltra sarà la terza...
Devi dunque avere la città tutta quanta in sul palmo, e saper
vita e miracoli di ciascuno come un barbiere.
Davvero che di questa città ormai conosco il dritto e il
rovescio come se fosse la mia giubba. Ma non domandarmi chi sia
colui, perchè non l'ho mai veduto nè qui, nè
altrove, nè in piazza.
Dicendo
questo il Fabris si volse a chi gli passava presso, e chiese il nome
di quel gentiluomo.
Chi è colui? rispose l'interrogato con un sorriso secco e
amaro. Ma gli è forse permesso ignorarlo? Esso è
nientemeno che il re della festa.
Chi? il conte Algarotti?
L'Algarotti... sì signori... plebeo di Venezia, conte
di Prussia, ciambellano di S. M. il Re Federico, cavaliere del
Merito, consigliere intimo del Re di Polonia, consultore del duca di
Savoja, di quello di Parma, del Papa; membro di tutte le università,
socio di tutte le accademie che furono, che sono e che saranno:
astronomo, poeta, pittore, architetto, suonatore di violino... Di
molti si suol dire che cosa è... di costui bisogna dire che
cosa non è... Tuttavia quel ch'ei valga davvero, lo si
conoscerà da qui a cinquanta e meglio ancora da qui a cento
anni. Intanto ha la tosse, e un polmone che si rifiuta a fare il suo
solito servizio. Padroni riveriti.
Così
dicendo, quel gentiluomo si mescolava tra folla e folla.
Che costui sia un qualche letterato o poeta, razza invidiosa e
malefica? disse il musico Fabris, il quale scontrandosi in quel punto
faccia faccia con un uomo tutto vestito di nero, alto e magro, ch'ei
ben conosceva:
Signor abate, disse, vorrei sapere il nome di quel giovinotto lì
alto e stecchito, con cui testè ho parlato e che or sorride a
quella dama.
Se non amate ch'altri vi tagli i panni addosso, fate di scansarlo...
Egli è il conte Carlo Gozzi, il quale ha il cervello fatto di
fegato, onde se schizza fiele e bile ad ogni parola, la cosa è
naturale.
Addio Luchino, e via.
Chi è questo prete? domandò Amorevoli al Fabris.
È il celebre abate Chiari.
Ma perchè non presentarmi a lui, che lo avrei ringraziato?
Di che?
Del favore che da qualche anno mi fa tutte le notti. Sullo stipo
accanto al letto io tengo sempre una tazza d'acqua di gomma e un
romanzo dell'abate. Prima di dormire bevo due goccie di gomma, e
leggo due pagine di romanzo. La gomma mi fa morbida la gola, le
pagine mi fan morbido il sonno. Se mi sveglio, bevo altre due goccie
di gomma e leggo due altre pagine di romanzo; così conservo la
voce e la salute, rintuzzando la veglia. Se c'incontriamo ancora in
lui, ti prego di presentarmi. È un mio benefattore.
Se tu metti i suoi romanzi insieme coll'acqua di gomma, buon padrone.
Ma non si fa così a Venezia; parlo delle donne e del pubblico
che legge avidamente i suoi libri; che corre in folla alle sue
commedie, e schiamazza d'entusiasmo; e lo supplica a dar sempre
qualcosa di nuovo; e sì che l'abate sembra una fontana
intermittente, che cala per crescer sempre, e annaffia tutti
quanti; eppure tutti si senton arsi.
A
questo punto un maggiordomo della casa s'accostò al Fabris,
significandogli che il signor conte padrone chiedeva di lui e
dell'amico suo. Questi lo seguirono nella massima sala, dove il conte
Alvise Pisani sedeva accanto al conte Algarotti, intorno al quale
facevano ampia corona molte persone.
V'era
il Canaletto, a lui particolarmente devoto per la protezione che ne
aveva avuto. Esso tornava allora dall'Inghilterra, dove aveva
raccolto molto danaro; e dalla Sassonia, dov'erasi recato a portarvi
due suoi quadri per interposizione appunto dell'Algarotti, il quale
aveva avuto incumbenza dall'Elettore di acquistar opere ad
arricchire la galleria di Dresda. Con lui stava discorrendo l'amico
suo Tiepolo, quegli che di stupende macchiette gli ornava le
prospettive animandole di vita e rendendole più importanti per
lo studio dei costumi e delle foggie. Il Tiepolo era tornato di
fresco da Milano, dove avea dipinta la vôlta della maggior sala
in casa Clerici. De' letterati, v'era il Gozzi Gaspare, e il senatore
Seghezzi, il quale stava in quel punto presentando all'Algarotti un
fanciullo di undici anni, autore in quella così giovane età
di due o tre poesie in dialetto veneziano, che aveano fatto il giro
della città. Ed era quel Gritti che doveva poi riuscire nel
vernacolo veneziano ciò che il Maggi era stato nel milanese.
Ma di tutti mancava il primo, mancava il Goldoni, il quale era andato
a Torino a mettere in iscena il Molière. L'Algarotti
dava belle e graziose parole a tutti, ma con quel fare di affabilità
convenzionale che, se indispettiva fieramente Carlo Gozzi, non
piaceva troppo nemmeno al più mite Gaspare, che giuocava di
scherma coi complimenti onde il conte gli era cortese riguardo alla
fondazione di quell'accademia de' Granelleschi che, fin dal 1740
iniziata per celia e portando sempre la maschera della matta
giovialità, nel fatto era però diventata il
conservatorio della buona lingua italiana.
Ella, signor conte, mi dà lodi che son dovute ad altri, così
diceva Gaspare Gozzi. Ecco il vero fondatore dell'accademia, il suo
massimo sostegno, il suo principe perpetuo; e dalla schiera
circostante, pigliando pel braccio un pretino rachitico, lo presentò
al conte dicendogli:
Questi è il celebre abate Sachellari, l'arcigranellone; si
provi, signor conte, a interrogarlo, e sentirà parole di
sapienza.
Quel
Sachellari era un originale curiosissimo, pieno di goffaggine e di
orgoglio. Quando parlava faceva smascellar tutti dalle risa, e più
quando recitava gli stolidissimi suoi scritti. Tuttavia quello
scimunito aveva data l'occasione perchè si adunassero le
migliori intelligenze di Venezia. In prima era stata una gara a chi
lodavalo di più con componimenti berneschi; poi da quella gara
nacque la celebre accademia in cui risplendette più che mai
l'ingegno, la vena poetica, il brio, lo spirito satirico di Gaspare
Gozzi.
La testa di costui, caro Algarotti, è come quella de' miei
detrattori.
Chi
diceva tali parole era il padre Carlo Lodoli, che nel convento di san
Francesco della Vigna teneva aperta scuola privata a molti giovani
patrizj e facoltosi, ed era stato maestro anche all'Algarotti.
Istrutto in molte scienze e lingue e nell'arte architettonica, egli
aveva ottenuta grande rinomanza per avere tentato di distruggere
tutti i principj fin allora invalsi nell'architettura, negando
obbedienza all'autorità, detronizzando Vitruvio, e
introducendo quella filosofia architettonica, che turbò di
sottigliezze e astruserie le menti, onde per libidine di opposizione
fece poi più tenaci dell'imitazione gli architetti pratici.
Del resto, quelle parole ch'esso aveva pronunciate erano dirette a
due architetti là presenti: il Poleni che avrebbe battuto
moneta falsa per Vitruvio, e il Temanza che aveva scritto un opuscolo
contro di lui e di quelle, secondo il parer suo, dementi dottrine.
Il Temanza non rispondeva, e ammiccava allo zio Scalfurotto,
l'architettore di san Simone Maggiore, mentre ridevan tra loro il
Massari, che stava in quel tempo edificando i Gesuati, ed il
Lucchesi che eresse san Giovanni in Oleo e l'Ospedaletto di san
Giovanni e Paolo. Per altro se il Temanza s'accontentava d'ammiccare
e tacere e lasciar che svampasse l'iracondo e dotto frate, dipendeva
da ciò, ch'ei sapea assai bene come nessuno desse ragione al
suo avversario, mentr'egli era lodato ed ammirato dai più
celebri architetti ed archeologhi d'Italia, ed invitato dai più
facoltosi patrizj di Venezia, delle cui mense ei teneva gran conto,
perchè s'egli era celebre come architetto civile e idraulico,
lo era pure come insaziabile mangiatore. Ma il conte Pisani, visti il
Fabris ed Amorevoli, li presentò in prima all'Algarotti, poi
al P. Vallotti, il celebre maestro suonator d'organo del Santo di
Padova, ed a Tartini, e disse loro:
Or tocca a voi. A momenti sarà qui il doge e il procuratore
Foscarini e i signori Dieci, e converrà incominciare.
Il
maestro Galuppi, che in que' giorni era passato a Venezia a
concertarvi l'opera in musica, si alzò, e volgendosi con
grande rispetto al P. Vallotti, il quale allora era stimato nell'arte
dei suoni quel che oggi il professor Bordoni è stimato nella
scienza dei numeri, lo supplicò a volere esaminare i pezzi di
musica da eseguirsi in quella sera.
Vallotti
si volse a Tartini, e:
Avete visto, voi? gli disse.
Io conosco la musica che devo eseguir io, dell'altra non so. Ma chi
ha a cantare dee far quello che più gli piace.
Però sarebbe ottimo, soggiunse il P. Vallotti, che alla musica
di camera non si mescolasse mai la musica di teatro.
Io ho alcuni madrigali dell'abate Clari e dell'abate Stefani, disse
Amorevoli.
Ecco un artista di buon senso.
Per metà, maestro. Perchè ho anche un recitativo di
Vinci, e due arie del Pergolese e di Jomelli; il pubblico vuol essere
accontentato anch'esso, e se dieci gustano Clari e Stefani, mille
comprendono la musica teatrale, anche perchè l'hanno sentita
ad eseguire più volte, e vi recano un giudizio più
ammaestrato dall'esperienza.
È questa un'ottima ragione, disse l'Algarotti.
Pessima, entrò a rispondere il P. Vallotti che aveva la stizza
del frate, del vecchio e del profondo scienziato, disprezzatore degli
uomini superficiali e che, in quanto all'Algarotti, non avea potuto
sopportar la lettura di quel suo trattatello sulla musica.
Ma
l'Algarotti non si scontorse punto a quella cruda opposizione, ma
sorridendo blandamente:
Ognuno porta l'opinione sua, disse. Bensì mi rincresce di
averne una che sia opposta a quella di un sì grand'uomo qual
siete voi.
L'Algarotti
era stato, già ognun lo sa, alla Corte del Re filosofo, la cui
filosofia consisteva nel volere all'ultimo essere adulato. Era stato
col Re di Polonia, il quale non amava certo di essere strapazzato dai
letterati. S'era trovato in Francia con Voltaire, con Diderot, con
tutte le altre colonne della Francia nuova, e seppe sì ben
fare che quei grandi uomini avevano lui in conto d'uomo grandissimo.
La società di mutuo incensamento non è una invenzione
di questi ultimi anni. Essa fioriva anche nel secolo passato, e
l'Algarotti ne poteva a buon diritto essere il presidente.
Ma
intanto che i signori virtuosi maschi e femmine, e i signori maestri
di musica e i signori professori di violino, di viola, di
violoncello, di contrabasso, di clarino, di clarone, di fluta,
d'oboè, ecc., recavansi nello scompartimento a loro assegnato
nella gran sala delle colonne; il maggiordomo e i camerieri facevano
un giro per gli appartamenti dov'erano disperse le dame co' loro
cavalieri, onde invitarle a sedere nella gran sala.
E
in poco tempo s'eran tutte infatti messe a seder là in più
file disposte a semicerchio intorno al seggiolone del doge e della
dogaressa, press'a poco come le deità dell'Olimpo intorno al
Giove nel quadro d'Appiani. E per verità ch'era quello un
nuovo olimpo, olimpo terrestre e palpabile, migliore assai del
mitologico. Olimpo di ricchezza, di splendore, di gioventù e
di bellezza.
Amorevoli,
che stava più in alto sulla gradinata dell'orchestra, innanzi
al clavicembalo, volse lo sguardo in quella via lattea di pupille
tremule; ma nella patria dei grandi occhi lucenti non vide gli occhi
che cercava. La contessa Clelia non c'era. L'estro, che un momento
prima lo aveva eccitato, leggendo col P. Vallotti un madrigale
erotico del Clari, gli svampò in quell'infelice ricerca e
chinò la testa avvilito. In quel punto entrava il doge che,
girata intorno la testa e messosi a sedere vicino al conte Alvise,
tosto gli domandò con grande sollecitudine:
Non avete ancora veduta la contessa Clelia V... di Milano?
Or
che relazioni potesse avere il doge Grimani colla contessa e qual
cosa lo sollecitasse a di lei riguardo vedremo fra poco.
IX
Se
il labirinto dedaleo in cui, senza sua colpa, si trovò
impigliata la contessa Clelia, non fosse un fatto incontrastabile,
che fece parlar tanto i nostri buoni vecchi cento anni fa, e che una
secca mano registrò in carta grossa; perchè il tempo e
l'umido de' muri solitari non bastasse a distruggerla, e così
potesse pervenire alle mani di un postero incapace di custodire i
segreti; se tal fatto adunque non fosse una verità
irrefragabile, noi gli avremmo negata ogni fede quando lo avessimo
udito da uno di quegli uomini avvezzi a inventar frottole. Perchè,
passi pure tutto quello che fin qui è avvenuto a Milano, passi
la maledetta fortuna per cui un semplice dialogo tagliato in mezzo da
un cancello e, fino ad un certo punto, anche innocente, mise in
piazza i pudibondi arcani di una gentildonna; mentre più
spesso quella stessa iniqua fortuna sa conservare intangibile
l'aureola penelopea a chi s'intrattiene a lungo in dialoghi senza
cancello; passi dunque tutto ciò, e passi la fuga, e passi il
ricovero di Venezia: ma ciò che veramente ci fa intolleranti e
fremebondi per quella sventurata contessa, è l'infesta
combinazione della scrittura teatrale del tenore che cambiò la
sede della malattia senza distruggerla, anzi aumentandola a più
doppj.
Povera
Clelia, seduta presso la finestra della sua camera, colla faccia
mestissima e gli sguardi profondi rivolti macchinalmente al cielo,
anzi alla luna, alla luna fredda e incapace d'intenerirsi per
nessuno, mentre pure da tempo immemorabile si gode la fama di
pietosa.
Povera
infelice Clelia, gettata e trattenuta dalla fortuna tra un amante
fatale e un marito funesto, in una terribile vicinanza e dell'uno e
dell'altro; dell'uno e dell'altro, che pure coraggiosamente e
fortemente avea fuggiti.
Almeno
coloro che si picchiano il costato per ogni nonnulla, e sono
inesorabili accusatori delle debolezze altrui, le vogliano
tener conto, per tutto quello che potrebbe succedere in
avvenire, di questa prima violenza usata contro sè stessa!
Chè
anzi, nel punto ch'ella guardava la luna, stava precisamente
compiendo contro sè medesima una seconda violenza. Se donna
Clelia fosse cotta e stracotta dal desiderio di rivedere Amorevoli,
lo pensino i giovinotti che non hanno ancora venticinque anni e che,
per un occhiata, sì, per un'occhiata (anche noi abbiamo avuto
i nostri verd'anni!) farebbero due volte di notte, non che una, il
traverso dell'Ellesponto; lo pensino le fanciulle che non hanno
innanzi agli occhi che un unico oggetto; lo pensino anche le donne
che hanno più di venticinque anni e son compromesse in qualche
pericoloso contrabbando, mentre la guardia di finanza batte la
campagna. Donna Clelia dunque, ci rincresce dirlo, ma la verità
è una sola, desiderava di vedere Amorevoli con un ardore, con
tale ardore, che noi amanti della buona bottiglia e della coppa di
manzo, non possiamo nemmeno concepire. Tuttavia, con sì
smisurato ardore nell'animo, non si mosse dalla sua camera, e
resistette agli inviti della moglie dell'illustrissimo conte Alvise
Pisani. Non si mosse per non incontrarsi in colui, negli occhi suoi,
per non sentir la sua voce, per non provocare nuovi parlari, per non
essere cagione di nuovi scandali; nè si creda che la paura del
marito abbia potuto influire sulle sue deliberazioni. No, al marito
non pensava, nè poco nè assai; lo fuggiva colla mente,
come allorquando si torcono gli occhi da una imagine disgustosa, e
passava ad altro; onde il timore non potè mai padroneggiarla.
Solo pertanto il fermo proposito di non voler vedere Amorevoli la
trattenne in casa. Però se questa non è virtù,
noi non sapremmo invero dove andarla a pescare. Seduta a canto a
quella finestra, ella sentì suonar due, tre, quattr'ore al
campanile di S. Polo, quando un cameriere venne ad annunciarle che il
conte Alvise Pisani domandava d'essere introdotto.
Introdotto
ch'esso fu:
Mi rincresce, contessa, egli disse, d'essere stato costretto a
rompere il silenzio della vostra camera. Ma
voi non avete voluto appagare il desiderio vivissimo che avevamo
della vostra presenza nella mia casa in questa sera; vi supplico a
voler essere cortese all'invito che per mia bocca vi manda il doge.
Il doge?... e che... non ho io nessuna volontà, caro conte, di
occuparmi stasera in discorsi d'astronomia.
Perchè
il lettore possa comprendere queste parole, dee sapere che il doge
Grimani, uomo dottissimo, era particolarmente versato
nell'astronomia, e però la prima volta che gli venne
presentata, in un'altra serata musicale, la contessa Clelia, sapendo
quant'ella fosse istrutta in codesta scienza, s'era compiaciuto di
intrattenersi con lei in argomenti affini; e per quel discorso, che
s'era prolungato più di quello che parea comportare una
conversazione di diporto, esso avea fatto una così alta stima
della contessa, che parlandone poi a molti, avea contribuito ad
accrescere più che mai la voga in che era venuta la bella
lombarda.
Mi pare che non si tratti d'astronomia, rispose il conte Pisani. Il
doge ha bisogno di parlarvi per cosa d'importanza.
Il doge? ma perchè il doge? domandò allora la contessa
alquanto turbata, e alzandosi da sedere.
Vogliate essere tranquilla, contessa. Il doge non mi disse veramente
di che si trattasse, ma il suo aspetto era calmo. Onde non è a
temere di nulla. Forse, chi sa, sarebbe occorso che vi presentaste ai
Dieci. Ma i Dieci e il doge hanno forse voluto cogliere l'occasione
di un ritrovo quasi pubblico e di una spontanea intervista per
potervi parlare. Del rimanente un tale desiderio del doge è
noto a me solo. A voi pertanto non resta che di accettare l'invito
della contessa mia moglie, e onorare l'accademia della vostra
presenza, come naturalmente avreste dovuto fare se foste stata un po'
più amica di noi.
La
contessa stette un istante in silenzio, poi disse:
Ebbene, verrò...
E
un impeto di gioja occultamente le innondò l'animo; la gioja
del trovarsi costretta a far quello che assolutamente non avrebbe mai
fatto per sè stessa, ma che aveva desiderato con ansia
affannosa.
Il
conte Alvise partì. Ella chiamò le cameriere, e:
Mi è forza andare in casa Pisani; ajutatemi come si può
meglio e di gran fretta a vestirmi.
Ella
tremava in tutta la persona, e il fuoco dalle membra convulse le era
salito sul volto. La pupilla erasele fatta ardente più del
consueto, e un raggio insolito le lampeggiava tra ciglio e ciglio.
A
recarsi in casa Pisani per volontà propria erale in prima
sembrato una colpa gravissima, onde s'era trattenuta in casa; ma le
parole del conte Pisani le avean fatto parer quella visita un atto
indispensabile; sicchè il desiderio le fece afferrare con
cieca fidanza quel pretesto per illudersi da sè medesima. Non
rifletteva, no, che, fermamente volendo, non aveva nessun obbligo di
piegare nemmeno all'invito del doge. Ma provava un'esaltazione piena
d'ebbrezza e quasi voluttuosa nel pensare d'aver quell'obbligo, e
d'essere costretta a rivedere colui; d'altra parte, per le consuete
arcane fantasie della mente, le pareva quello un decreto espresso del
destino, e si consolava come di un presagio felice.
Non
bastandole il tempo e mancandole la voglia, si scelse vesti e
acconciatura semplicissima. Avvolse i capelli, che aveva in gran
disordine e non potevansi così presto disporre a parata, in
molti giri di una ciarpa di pizzo bianco di Gand, foggia allora
parimenti usata; puntandola davanti in sul confine della fronte, con
un grosso diamante che solo bastava a dar splendore ed aura d'Olimpo
a tutta la figura, e senza più se ne uscì.
Venuta
in Canal grande, erano affollate tante gondole nello spazio che
correva presso al luogo dell'approdo dalla parte del canale, che il
suo gondoliere piegò verso il rio e si fermò alla prima
scalea.
La
contessa discese, preceduta dal servo, e sindugiò
perplessa sotto l'atrio che mette allo scalone...
E
soffrirò che sia
Sì
barbara mercede
Premio
della tua fede, anima mia?
Tanto
amor, tanti doni!
Ah!
pria ch'io t'abbandoni
Pera
l'Italia, il mondo.
La
prima sillaba della parola mondo del celebre recitativo della
Didone di Vinci, usciva dalle finestre del piano superiore,
portata a volo da quel medesimo do sopracuto onde Amorevoli la
sera prima aveva fatto salire in furore il conte V... La contessa
subì la sorte di chi s'affaccia per veder la battaglia, e
senza più è colto nel petto da una palla che fischia.
Fu per cadere, sì le forze le mancarono, a quella vibrazione
sonora, e dovette appoggiarsi al servo.
Applausi
frenetici seguirono quel do privilegiato, che aveva il dono
della forza insieme e della soavità. E il recitativo continuò,
e venne la cadenza alle parole Numi, consiglio, in cui
la nota tenuta di un si bemolle di prodigiosa limpidezza e,
come dicono i maestri, di argentina sonorità, attraversò
gli spazi dell'aria, e non pareva voce da uomo, no, ma quella bensì
di un essere soprannaturale, incaricato di dar qualche buona notizia
ai mortali.
Insistiamo
su codeste qualità della voce d'Amorevoli, in prima perchè
i suoi contemporanei ne parlano come d'un fenomeno non mai più
udito; poi per far comprendere ai lettori che non v'è nulla al
mondo di più penetrante negli umani petti di una voce in
quella chiave; intendasi sempre quando è bella, perchè
non bastano i soli suoni a renderla pregevole. Molti uomini storici
denno ascrivere la loro fortuna all'avere avuto in dono una voce in
chiave di tenore. Il re Davide sarebbe stato trapassato dalla lancia
di Saulle impazzito, s'egli non lo avesse placato col sol, col
la e col si d'una soavità arcangelica. Eginardo
lo storico fu per la stessa ragione se invaghì Emma, la figlia
di Carlo Magno. Rizio e Monaldeschi erano tenori di mezzo carattere,
e innamorarono due regine. Sarebbe però stato meglio per loro
l'aver avuto tutt'altra voce, chè probabilmente sarebber morti
in pace al loro letto. Ma ciò non significa nulla contro il
nostro assunto. La voce di soprano sfogato ferisce le orecchie, ma
non lascia nulla nel cuore; la voce di basso provoca il rispetto ma
non l'affetto; ci sarebbe la voce di contralto, ma nei sùbiti
trabalzi dai suoni gravi agli acuti compromette troppo sovente i
buoni successi. Soltanto la voce di tenore impera sugli animi. Il
gobbo Tacchinardi, gobbo e nano, ed arieggiante più il
mandrillo che l'uomo, potè ai suoi bei tempi dispiegare la
lista di Don Giovanni, tanti capi femminili ei fece girare! chè
l'orecchio, lusingato dal suono maliardo della sua voce, lavorava
insidiosamente sugli occhi, innanzi a' quali, come a' tempi del mago
Merlino, usciva il silfo dal nano, il genio alato dal diavolo colle
corna. Dopo tutto, vogliam dire con ciò, che se una donna
s'innamora d'un tenore, non pretenda di poter bere l'oblio nemmeno in
Acheronte; e se qualche giovinotto ha per rivale un tenore, faccia
conto d'esser tisico in quarto grado, e di dovergli senza più
far la regolare cessione del suo tesoro.
Non
creda però il lettore che codesta sia una malizia di chi
scrive, per far le lodi della propria voce; tutt'altro; chi scrive
ebbe in sorte la voce di basso; soltanto gli toccò in dono,
quasi a titolo di compenso, un fa diesis squillante, di cui si
giova per aver ragione nelle dispute fracassose cogli amici.
Ma
tornando a donna Clelia, conquisa dalla voce d'Amorevoli, ella si
trattenne sotto l'atrio premendosi il cuore, finchè il
recitativo si svolse nell'aria:
Se
resto sul lido,
Se
sciolgo le vele,
Infido,
crudele
Mi
sento chiamar.
E
intanto, confuso
Nel
dubbio funesto,
Non
parto, non resto
Ma
provo il martire
Che
avrei nel partire,
Che
avrei nel restar.
Dove
appar chiaro come i fervori della passione congelassero nell'anima
fredda di Metastasio in tante formole precise e quasi aritmetiche,
avverse al genio della poesia e del dramma.
Ma
la musica di Vinci aveva l'abbandono e lo slancio e il sentimento che
mancava a quelle strofe; e Amorevoli vi mise nel renderla la duplice
virtù dell'arte più squisita e dell'animo il più
ardente.
Donna
Clelia, come i battimani rintuonarono nei cortili:
Or si può ascendere, pensò, e fatto lo scalone, entrò
nelle sale.
I
servi di casa Pisani, che la stavano aspettando, mossero a dimandare
il conte padrone, che accorse tosto a riceverla.
Preceduta
da lui fece l'ingresso nella maggior sala. Il fremito dell'applauso e
dell'entusiasmo recente che ancor durava là entro, cessò
di colpo alla sua comparsa, e vi successe un profondissimo silenzio.
Tutti gli occhi furono fissi in lei. Il conte Pisani, per toglierla
dall'imbarazzo in cui la vedeva impigliata, si volse tosto al conte
Algarotti dicendogli:
Ecco la contessa Clelia V..., de' cui talenti avete sentito a
parlare. E l'Algarotti si alzò e venne a sedersi vicino a lei.
Anche il doge la guardò da lunge, con atto di affabilissima
cortesia, e parve dirle:
Ci parleremo dopo con maggior comodo.
La
contessa intanto, rispondendo macchinalmente alle gentilezze del
conte Algarotti, guardava di furto allo scompartimento
dell'orchestra, dove Amorevoli era investito dalle congratulazioni
de' suoi colleghi: da Luchino Fabris, dall'Aschieri, dalla Turcotti,
dal P. Vallotti, che nella sua severità gli batteva una spalla
in atto di protezione; dal violinista Tartini, uomo di febbrile
vivacità, che ad attestargli la sua soddisfazione gli andava
squassando un braccio. Nè Amorevoli erasi ancora accorto della
comparsa di donna Clelia. Bensì il musico Fabris gli parlò
allorecchio, e l'avvisò dell'arrivo di lei.
Amorevoli
si volse lentamente, quasi che non fosse fatto suo...
Medesimamente
la contessa Clelia non fece atto nessuno, e stette immobile come
un simulacro marmoreo. Solo incontraronsi i raggi delle loro pupille,
e benchè gli astanti, che da quell'incontro s'erano atteso una
catastrofe, dicessero fra loro: Bada ch'ei pare, non si
conoscano nemmeno, pure l'effetto dell'incontro di que' raggi non
può esser reso che in parte da quella strofa fremebonda della
Parisina,
Un
sospiro, un senso arcano
D'un
amor maggior d'amore
Trapassò
da cuore a cuore
E
di gioja l'inondò.
Intanto
il conte Algarotti andava circuendo di domande scientifiche la
contessa, e d'una in altra notizia, rispondendogli ella pure alcun
che macchinalmente, la intrattenne dell'astronomo Lieberkam
conosciuto da lui a Dresda, quegli che nel 1743 aveva
inventato il microscopio solare; e le parlò del celebre
Clairut, colui che avea fatta la dimostrazione dello schiacciamento
della terra, mediante l'attrazione e la forza centrifuga. E la
contessa, alla sua volta, si trovò costretta a chiedergli
conto di Bouger, l'inventore dell'astrometro, e ad informarlo d'un
lavoro che in que' giorni il P. Frisi di Milano stava meditando sul
moto diurno della terra, facendo uso dell'analisi geometrica di
Newton, per mostrare che un tal moto non poteva essere impedito dalle
maree. Ma se il microscopio e l'astrometro e la forza centrifuga e
l'analisi geometrica di Newton fossero compatibili collo stato
dell'animo di donna Clelia, ognuno lo può pensare.
X
Intanto
che il conte Algarotti e la contessa attendevano a parlar di scienze
esatte, passava quel quarto d'ora o quella mezz'ora di riposo, in cui
i vecchi pigliano il tabacco, i giovani susurrano qualche parola
all'orecchio delle giovani, e queste pigliano il sorbetto o l'acqua
cedrata.
Tartini,
cessato di scrollare il braccio ad Amorevoli in segno d'entusiasmo:
Senti, disse, qui il nostro Luchino Fabris, questa seconda edizione
di Egiziello, m'ha raccontato le tue storie e i tuoi amori, e sono
contentissimo di te. Così va fatto. Anch'io a vent'anni misi
gli occhi addosso ad una fanciulla dell'alto cielo. Hanno tanto
orgoglio questi signori che si chiaman lustrissimi, e
son così persuasi d'esser fatti di tutt'altra pasta della
nostra, che di tanto in tanto conviene che qualcuno metta loro il
cervello a partito, e li faccia persuasi che è più
nobile di tutti chi è più giovane, più bello e
più bravo. Ecco i tre quarti della nobiltà vera; quello
che manca a fare i quattro quarti sta nella ricchezza che col merito
uno s'acquista. Dunque tu sei un nobile degno del tosone; e giacchè
a Milano non avevi amori, hai fatto benissimo a sceglierti qualche
stella del cielo superno, e a dar dentro in un marito borioso. Qui
Luchino mi ha detto che jeri tu eri prontissimo a batterti con lui,
ed egli ha rifiutato per orgoglio, ond'altri ha preso le tue veci. Ma
ciò non va bene; voglio conoscerlo io questo signor conte
lombardo. Già tu sai che la mia prima professione fu quella
dello schermidore, e fu un tempo in cui volevo metter sala d'armi, e
anche oggi non so chi abbia occhio più acuto e braccio più
fermo del mio. Dunque lascia fare a me a trarre in ballo questo
signor conte; che se ricuserà, lo assalirò di tratto,
senza dirgli nè asino, nè bestia; onde, se gli è
cara la vita, dovrà pur mettersi in sulla parata. Chi sa mai,
caro Amorevoli, ch'io debba farti il piatto a dovere, e che il conte
sia venuto a Venezia per trovarvi una tomba fatta d'acqua salsa e
d'alghe marine? Ma a proposito, dov'è questa signora contessa?
Io sto scrivendo qualcosa intorno ai principj dell'armonia musicale
contenuta nel genere diatonico, e in questo lavoro non posso
disimpacciarmi da certe formole numeriche. A lei dunque, ch'è
gran matematichessa, come sento dire, vo' dare a leggere il
manoscritto. Così farò la sua conoscenza. Io già
ho cinquantott' anni, e tu non devi aver gelosia di me.
Ma
il maestro Galuppi, a fermare codesta velocissima parlantina del
celebre violinista:
Ora è venuto il momento, signor mago, gli disse scherzando, di
evocare il vostro diavolo, e di mettere lo spavento in tutte queste
leggiadre gentildonne.
Per
comprendere queste parole del maestro Galuppi, dee sapere il lettore
che in quella sera Tartini doveva eseguito appunto quella sua
celeberrima sonata, così detta del Diavolo da uno
strano sogno ch'esso avea fatto, e che gli aveva messo il pensiero di
trarne una composizione musicale.
Avendo
il Tartini, a queste parole di Galuppi, preso il proprio violino,
l'Algarotti dalle matematiche balzò di tratto a parlar di
musica; che era una sua speciale ambizione, quando trovavasi con
qualche persona nuova, di percorrere tutto quanto l'ambito delle
scienze e delle arti, per far maravigliare chi l'ascoltava, della sua
straordinaria versatilità.
Non avete mai, contessa, sentito questo prodigioso violinista?
Non ancora; bensì ho sentito il Veracini, dal quale dicesi che
costui abbia molto appreso.
E il Giardini torinese? Il Giardini cantava col violino; ma costui lo
fa palpitare e fremere e piangere. Si direbbe che il suo strumento
sia un essere animato e dal quale, più che suoni, si debbano
attender parole e discorsi. Quando venne a Praga, dove io mi trovava
col principe di Prussia, ch'ora è il re Federico II, per
l'incoronazione di Carlo VI, nessuno sapeva spiegare il modo con
cui traeva dal violino tanta pienezza e rotondità di
suono. Chi pensava fossero qualità speciali della costruzione
e del legno del suo violino, chi dell'animale che avea date le corde.
E nessuno s'accorgeva che il gran segreto era nell'arco, nel modo di
governarlo, nella sua pressione sulle corde. Mi diceva il medesimo
Tartini, che il suo lungo esercizio in gioventù nel tirare di
scherma gli ha comunicata una tal vigoria nel braccio e nel polso, la
quale gli tornò poi utilissima a tenere l'archetto. Ma or ora
l'udrete e lo giudicherete nella suonata del Diavolo;
perchè tutto dev'essere strano e straordinario in costui.
La sua vita, le sue vicende, tutto, persino i titoli delle sue
composizioni. Doveva essere un frate, e rubò una fanciulla
patrizia. Studiava a Padova per fare il giureconsulto, e dì e
notte tirava di scherma e ingiuriava or l'uno or l'altro, e li
sfidava e li ammazzava a titolo d'esercizio. Va a sentir Veracini a
Firenze, e ne ha tanto avvilimento che si nasconde in Ancona per
sette anni a crearsi uno stile nuovo d'esecuzione, e fare la famosa
scoperta del fenomeno del terzo suono, a scrivervi suonate a
centinaja, e un trattato sulle amenità del canto. Infine,
venuto maestro di cappella al Santo di Padova, vi fa un sogno che lo
esalta sino alla pazzia e gli fa scrivere questa suonata che or ora
udrete, e che si chiama del Diavolo.
Ma come fu?
Sognò d'aver fatto un patto, e che il diavolo era al suo
servizio. Però gli diede a suonare il proprio violino,
per vedere quel che il diavolo ne avrebbe saputo fare, e ne udì
tal cosa che lo fece trasalire. Risvegliato per così violenta
sensazione, dà di piglio al violino per ripetere quel che
aveva udito, ma non seppe riprodurre, com'egli asserisce, che il
trillo del diavolo a piè del letto. Il resto non è che
una composizione di sua fantasia, e una variazione su quel tema, ma è
certo la più bella di quante ne ha scritte sin qui.
A
questo punto il maestro Galuppi si mise al pianoforte, e facendo
scorrere due o tre volte le dita sulla tastiera, richiamò
l'attenzione dell'uditorio, il quale fece un silenzio profondo,
quando Tartini col violino e coll'arco comparve al parapetto
dell'orchestra.
Nel
tempo che Tartini faceva correr l'arco sulle corde e regolava i
bischeri, l'Algarotti ebbe campo di sfoggiare la sua dottrina
archeologica sulla genesi del violino, confutando Aristofane e Ateneo
che fecero il violino coevo ad Orfeo, e confutando quelli che lo
vollero inventato dagli Indiani e donato all'Italia dalle crociate; e
piantandosi nell'opinione che vuole il violino figliuolo
dell'occidente, e probabilmente del principato di Galles, e
trascorrendo sui varj tramutamenti della sua forma, dalla viola
primitiva, alla viola da braccio, a quella da gamba; i quali a lungo
andare generarono poi in Francia il piccolo violino.
Oh che noja, caro signor conte Algarotti. Per fortuna che
Tartini cominciò l'adagio d'introduzione, e il conte dovette
permettere che la contessa, trasportata dalla seduzione di quello
stile incantato, s'immergesse con tutta l'anima nell'onda voluttuosa
della sua passione. Dall'adagio d'introduzione passò il
Tartini al secondo pezzo che è a due tempi e da questo alla
terza parte, la quale consiste appunto nel trillo del diavolo.
La
forza, la soavità, il fremito, la grazia, l'estensione
incalcolabile della voce che usciva dal suo violino, erano cose che
non si erano mai udite anteriormente a lui, e infatti egli era stato
il primo a trovare come la forza che deve spingere l'arco debba
radunarsi tutta nelle falangi delle dita; e a far in modo che la
mano, all'attaccatura, sia così pieghevole che sembri slogata.
Da questi segreti venne senza limite accresciuta la potenza del
violino, il quale, allorchè viene sotto la pressione di una
mano così ammaestrata, ma che riceva l'impulso da un gran
talento musicale, da una fibra nervosa e da un cuore agitato dalla
tempesta delle passioni, come avveniva appunto in Tartini, e come lo
fu poi in Viotti alcuni anni dopo, e al grado massimo, e fuori quasi
dei limiti naturali, in Paganini mezzo secolo dopo, è lo
strumento che più fruga ne' precordj a mettere in esaltazione
lo spirito. Non era dunque codesto il farmaco migliore pei nervi in
parossismo della contessa!
Dopo
il pezzo di Tartini, Luchino Fabris, l'imitatore di Egiziello, ebbe
la disgrazia di cantare l'arione dell'Euridice, che
per verità era il suo cavallo di battaglia, ma dopo, non
diremo l'entusiasmo, ma le convulsioni provocate dalla suonata del
Diavolo non fece nè freddo nè caldo. Tant'è
vero che a questo mondo le cose bisogna saperle fare a tempo. Se la
sua voce di musico fosse stata sentita in quella sera prima delle
oscillazioni tremende delle minugie incantate del violino di Tartini,
avrebbe fatto l'effetto che di solito produceva in teatro; ma pur
troppo dovette restarsene avvilito e pieno di dispetto.
E
qui un altro riposo succedette all'esecuzione di que' due pezzi,
durante il quale il doge Grimani si alzò, e recossi vicino
alla contessa Clelia.
Io attendeva, serenissimo principe, che l'accademia terminasse, e
questi egregi signori si dilungassero in altre sale, per potervi
parlare, e sentir dal vostro labbro per che grave cagione mi avete
mandata a chiamare.
Io spero che mi vorrete perdonare, contessa, se vi ho fatta venir qui
forse contro vostro genio. Ma d'altra parte, anche per adesione dei
signori Dieci, ho creduto di non dover farvi chiamare a Palazzo, come
pure avrebbe portato il debito. L'eccellentissimo Senato di Milano
scrisse al Senato di qui, e supplicandoci ad usar con voi tutti i
riguardi a che la vostra alta condizione e i vostri meriti speciali
hanno diritto, ci diede incumbenza di provvedere, come ci sarebbe
parso meglio, a mandarvi tosto a Milano.
Io non comprendo, altezza. Chi mi può impedire di vivere in
Venezia?
Noi no; ma il Senato di Milano dev'essere stato costretto a questa
determinazione da qualche circostanza straordinaria che noi
ignoriamo, e che non potete forse congetturare nemmeno voi. Il Senato
di Milano, serbando il silenzio anche colla nostra Repubblica,
quantunque per verità avrebbe dovuto parlar più chiaro,
ci ha fatto intendere, essere insorta così grave circostanza,
per cui è necessario che voi siate sentita in giudizio.
In giudizio io?
Dalla lettera dell'eccellentissimo Senato appare che la necessità
di sentirvi in giudizio sia una conseguenza della cattura fatta di
quel lacchè che voi ben sapete aver dimorato per troppo lungo
tempo a Venezia. Non crederei che si tratti di cagione più
grave. In ogni modo è bene che non se ne sappia nulla qui...
Se noi vi avessimo fatta chiamare a Palazzo, la città tutta
quanta sarebbesi tosto gettata in un mare di congetture e di dicerie,
e non crediamo che questo v'avrebbe potuto far piacere. Però
abbiateci per iscusati se abbiamo colta l'occasione di questa
accademia musicale, per mettervi a parte del fatto, e per
significarvi che domani occorre che vi mettiate subito in viaggio per
Milano. Per verità che, ad adempiere al mandato in modo che
non vengano frustrate le intenzioni del Senato di Milano, sarebbe
obbligo nostro, dovete perdonarci l'amara parola, di assicurarci
della vostra persona. Ma giacchè il Senato milanese ci prega
di avervi ogni riguardo, così interpretiamo la cosa più
ampiamente che sia possibile, e mettiamo la nostra fede in voi. Il
Senato veneto è così persuaso, contessa,
dell'incomparabile vostra lealtà che vi lascia in piena balìa
di voi stessa.
La
contessa Clelia stette per qualche tempo in silenzio, percossa da
quelle parole del doge, poi rispose:
Non mi sarebbe difficile, serenità, indovinare la cagione di
tutto ciò, se il Senato di Milano mi avesse scritto
direttamente. La cattura del lacchè dev'essere successa per
una lettera ch'io scrissi a Milano; onde parrebbe probabile che il
Senato volesse sentirmi per raccogliere indizj in una questione
gravissima, che adesso non occorre menzionare; ma l'avere incaricato
di ciò il Senato di Venezia, senza far scrivere nulla a me
stessa, distrugge al tutto una tale congettura. Però, altezza,
mi pare come di essere caduta in un abisso, senza sapere chi m'abbia
dato la spinta. Abbiate però la mia fede che io sarò a
Milano religiosamente nel più breve tempo possibile, per
quanto dipende da me.
Può
parere strano come in questo breve dialogo nè la contessa
abbia mai parlato del conte marito, adducendo al doge il fatto ch'ei
trovavasi in Venezia; nè il doge, che pur sapeva tutto, non le
abbia mai toccato un tal tasto. Ma la contessa naturalmente scansò
di nominare chi poteva farla arrossire. E il doge a cui era stato
riferito il fatto del duello, tacque perchè e l'autorità
suprema di Venezia e tutte le altre autorità subalterne avevan
l'obbligo di ignorare una cosa che, nota, doveva provocare una pena a
danno degli infrattori di una legge della Repubblica contro il
duello. Chè tanto allora, come prima, e come dopo, e come ora,
non possiam dire come sempre, il duello costituiva un fenomeno sui
generis del codice criminale, pel quale era esso proibito e
punito; e nel tempo stesso era punito e svergognato chi non lo
accettava, e non adempiva agli obblighi assurdi che traeva seco. Onde
l'autorità, come una mamma innamorata dei figli, chiudeva un
occhio, quando sapeva che un Veneziano dava od accettava un duello, e
si compiaceva del suo coraggio; mentre poi esagerava nelle ordinanze
pubbliche la severità delle frasi contro i trasgressori delle
leggi.
Un'altra
cosa poi dobbiamo far osservare ai lettori che della Repubblica di
Venezia e dei Dieci si son fatti un'idea convenzionale, tutta nera e
tutta cupa. Essi avran fatto le maraviglie a vedere il doge parlare
in tanta dimestichezza, e quasi da privato, alla contessa. Ma delle
terribili apparenze dell'autorità la Repubblica facea conto
nelle gravi bisogne della patria, e non in tutte le circostanze della
vita pubblica e privata. D'altra parte la serenissima, è forza
confessarlo, non era più quella de' secoli antecedenti. La
lettera degli statuti era intangibile, ma le costumanze s'erano
venute attiepidendo. In una parola, s'era messa anch'ella in cipria e
parrucca ad onta del canal Orfano e del Ponte de' Sospiri, che sono
gli spauracchi perpetui de' drammaturghi stranieri e de' nostrali che
scrivono per gli anfiteatri.
Tornando
ora al doge e alla contessa, essendosi mostrato il P. Vallotti a
batter la solfa, perchè doveva aver luogo, a chiuder
l'accademia, un suo coro fugato, si disgiunsero con atto di reciproco
rispetto.
E
il coro fugato venne eseguito tra gli sbadigli dell'adunanza, chè
esso stava alla musica come il Pape Satan Aleppe alla poesia,
sebbene Tartini lo ammirasse e ne fosse compunto.
A
notte alta le sale a poco a poco si vuotarono. Quando Tartini si
volse per cercare Amorevoli, questi era già scomparso;
scomparso prima che la contessa uscisse dalla sala.
XI
Abbiamo
lasciato il conte V... e il giovane Angelo Emo intenti ad adempire
alle prammatiche preliminari di un duello: di questo mezzo assurdo di
riparare le ingiurie, il quale, nato in seno alla barbarie, si è
prolungato insino a noi, e vi s'è piantato in guisa che
moralisti e filosofi e legisti non arriveranno forse mai a sradicarlo
del tutto. Almeno i Barbari erano più logici di noi.
Dipartivano bensì da una falsa premessa nell'assegnare i
motivi a tale costumanza, ma, dopo la premessa, cessava l'assurdo e
le deduzioni camminavano regolarmente. Nel duello, che per loro non
era altro che un modo dei giudizj di Dio, essi ponevano per principio
che la divinità avrebbe data la vittoria a chi aveva la
ragione. Codesta credenza spiega la causa primitiva del duello, il
quale poteva sussistere fin che le menti rimanevano acciecate dal
pregiudizio; ma non si sa più conciliarlo con verun fine
logico dal giorno che tutti furono persuasi che la vittoria dipende
dalla fortuna e dalla vigoria, non mai nè dalla giustizia, nè
dall'intervento divino. Anzi il fatto diventa ancora più
inesplicabile quando si pensa che, precisamente allora che il mondo
fu persuaso che Dio non interveniva in codeste prove a fiaccare il
braccio di chi aveva torto, e a dar forza al debole che aveva
ragione; precisamente allora, ossia nel secolo decimoquinto, quando
la civiltà sembrò avviata verso la sua massima altezza,
sorsero scrittori a decine per comporre quella che chiamarono scienza
dell'onore e del duello.
I
legisti di quel secolo, volendo giustificare il duello, si piantarono
sull'idea dell'onore convenzionale, senza riguardo nessuno alle leggi
invariabili della morale; onde i celebri giureconsulti Passevino,
Paride del Pozzo, Baldi, Grimaldi e gli altri seguaci, offrono il
miserando spettacolo della scienza intenta ad accrescere occasione
alle aberrazioni dello spirito umano. Così il duello, nato
spontaneamente in seno a popoli barbari, come un mal frutto d'una
mala pianta, fu innalzato all'onore di sistema scientifico dalla
civiltà, per cui l'errore insegnato dalle cattedre
accrebbe i modi e i mezzi delle offese. Bensì quarant'anni
prima del tempo in cui il nostro conte colonnello dovette accettare
il guanto dal giovane Angelo Emo, quell'autorità dei vecchi
legisti era stata messa in brani da un grande e coraggiosissimo
ingegno, dal marchese Scipione Maffei, col suo libro della scienza
cavalleresca, a cui appose il bel motto nos nostra corrigimus;
e quel libro fece senso in Italia e fece senso in Francia, e trovò
sostenitore del nuovo assunto Rousseau; e forse Luigi XIV, forte
della sapienza dell'uno e dell'altro, multò il duello colla
pena di morte, e instituì il tribunale de' marescialli; e il
suo successore accrebbe nell'applicazione la severità alla
lettera stessa dell'editto. Ma per quanto in quegli otto lustri si
fosse fulminato e scritto e parlato contro il duello, il duello era
tuttavia all'ordine del giorno; chè il prestigio del coraggio
e dello spregio della morte consigliava indulgenza agli stessi
esecutori della legge; e più spesso, non potendosi infrangerne
il dettato, se un duello avveniva a dritta, lautorità,
come vedemmo, guardava a sinistra.
Nè
pur in codesto fatto, nei cento anni che sono decorsi, non si può
dire che siasi fatto un progresso. Sussiste ancora il prestigio del
coraggio, sussiste ancora la falsa idea dell'onore. Ed anzi crebbero
i sofismi e le sottigliezze e i sotterfugi della mente nel cercare i
modi di salvare lonore senza nemmeno fare appello al coraggio.
Son noti i molti duelli a' dì nostri, dovuti indire ed
accettare, per far pago il rispettabile pubblico che chiama vile chi
non discende sul terreno, foss'anco per un nonnulla; duelli così
ben preparati dai pietosi padrini, che la vita de' duellanti fu tanto
al sicuro sul terreno della battaglia, quanto sull'origliere dei
placidi riposi; onde contemporaneamente alla misura delle pistole e
all'assaggio della polvere, e al giuoco de' bussolotti onde si facean
scomparire le palle micidiali, il più celebre ristoratore
della città stava ammannendo il più lauto asciolvere, e
apprestando sulla mensa lieta lo spumante sciampagna. E ciò
tuttavia fu decretato potesse bastare per l'onore. Però,
stando così le cose, ed essendovi nell'umanità malattie
del cervello croniche e incurabili, si può ben profetare un
completo fallimento alle società che in Francia, in Germania,
in Inghilterra s'instituirono contro il duello; a meno che non vi si
consocii l'autorità costituita fondando i tribunali
d'onore, onde provvedano a riparare coi loro placiti a quelle
ingiurie speciali che fin qui non si credettero vendicabili che dal
duello.
Ma
comunque fosse e comunque sia di codesta faccenda, Angelo Emo lo
propose e il conte V... lo accettò, senza darsi un pensiero al
mondo di quel che se ne giudicava e diceva e scriveva dai loro dotti
e onesti contemporanei. Anzi, se non il giovane Emo, che era
istruttissimo, è probabile che il conte V... non sapesse nulla
nè di Scipione Maffei, nè di Rousseau, nè di
tutta la parte teorica relativa all'abolizione del duello e solo
avesse contezza così in digrosso degli editti dei due ultimi
Luigi di Francia.
Si
recarono dunque in compagnia dei loro padrini al confine
dell'estuario veneto, e là da veri gentiluomini che dovevan
ferirsi senza aver nemmeno nè il bene nè il male di
conoscersi, si apprestarono a incrociar le spade, fermo dagli arbitri
che la sfida dovesse essere, secondo la più generale
consuetudine, a primo sangue; il quale, secondo Rousseau, è
il modo più assurdo di duello, più assurdo del medesimo
duello all'ultimo sangue. Perchè, diceva esso in uno di
que' suoi impeti di generosa facondia, al primo sangue?...
gran Dio! e che vuoi dunque tu fare di questo sangue?
beverlo forse, o bestia feroce? Ma questo primo sangue eruppe
con un lieve zampillo dalla clavicola sinistra del conte V... a
fargli rossa la bianca lattuga che gli usciva dal panciotto; zampillo
lieve di più lieve ferita e che fu giudicata un nonnulla dal
chirurgo ch'era presente.
Ma
non può immaginarsi il lettore come riuscisse profondissima la
ferita che ricevette l'orgoglio del conte, e l'ira che provò
contro la fortuna, la quale diede la vittoria al suo giovane
avversario, di gran lunga inferiore a lui nel maneggio della
spada. Quell'ira però dovette chiudersela in petto, perchè
le leggi della cavalleria non permettevano che, compiuta la prova
dell'armi, si facesse il viso dell'armi all'avversario, al quale
doveva anzi cordialmente stringersi la mano.
Adempiuto
pertanto alle prammatiche posteriori al combattimento, il conte V...
e il giovane Emo e i padrini e il chirurgo ritornarono tutti a
Venezia.
Il
conte entrava nella laguna che facevano le tre ore di notte. Torbido
com'era, e pur non avendo nessun proposito bene deliberato in testa,
discese all'albergo, e, ripartito, andò alla casa Salomon dove
aveva in animo di recarsi fin dalla prima sera, ed erasi indugiato,
assalito, come il lettore sa, da cento pensieri in battaglia. Nè
cosa volesse fare, ei lo sapeva nemmeno, dopo ventiquattr'ore; bensì,
per determinarsi, quando fu là, percosse due o tre volte col
martello la porta che rispondeva alla parte di terra.
Le
imposte si spalancarono, e si mostrò il guardaportone.
Non è in casa nessuno, diss'egli, senz'attendere che il
nuovo venuto parlasse.
Nessuno?
L'ho già detto.
Allora aspetterò fin che venga qualcuno.
Quando non c'è nessuno in casa, ho l'ordine di non lasciar
entrar anima viva, signore.
Non c'è nemmeno l'illustrissima contessa V... di Milano?
Nemmeno. Ma anche allora ch'ella è in palazzo, gli è
come se non ci fosse; e non riceve nessuno, nessuno affatto.
Ciò va bene. Ma io sono il conte suo marito, venuto
espressamente da Milano, e devo e voglio e ho il diritto d'entrare.
V. S. illustrissima mi perdoni, ma debbo tenere gli ordini. Io poi
non so che V. S. illustrissima sia davvero...
E credi tu ch'io voglia vendermi per quello che non sono? Va là
in malora e lasciami entrare, ch'io stesso parlerà a' tuoi
padroni e alla contessa. E così dicendo sforzò, a così
dire, l'ingresso; ed entrò in quel lungo androne che, nelle
case di Venezia, mette in comunicazione la parte di terra con quella
del rio.
Signore, questa è una violenza di cui il padrone, che è
senatore...
Taci, e bada a te, che nemmeno il diavolo basterebbe a farmi uscire
di qui, non che un senatore; e ho nelle valigie il tuo padrone e la
tua Repubblica e il Senato e il doge e il corno.
Così
dicendo, calcato in testa il cappello a tre punte filettato in oro,
abbottonatosi il soprabito turchino da viaggio, ch'era lungo fino
agli orli degli stivali e aveva il bavaro pur filettato in oro che
copriva le spalle, misurava a gran passi quell'androne colla grande e
grossa figura; spingendosi di tanto in tanto fin sul primo gradino
della scalea verso il rio a guardare a dritta, a sinistra, a porger
l'orecchio, a stare in ascolto se mai venisse qualcuno; poi tornava a
passeggiare innanzi e indietro, facendo risuonare sotto la vôlta
lo sgarbato scricchiolio de' suoi stivali forti.
Ed
or lasciamolo passeggiare a sua posta, chè noi dobbiamo
ritornare al palazzo Pisani fra i gondolieri schiamazzanti, a piedi
delle scalee, nei cortili interni, ad assistere al passaggio delle
belle veneziane, e a dare il braccio alla contessa Clelia per
ajutarla ad entrare in gondola e ad adagiarsi sotto il felze.
Scendevano
dunque tutte a quell'ora dallo scalone di casa Pisani le ultime e più
cospicue beltà patrizie convenute all'accademia. E
precisamente s'eran trattenute le ultime per un tacito accordo della
loro ambizione e della loro civetteria ad accrescer l'ansia de'
giovani cavalieri, aspettanti in due schiere sotto l'atrio che
esse facessero loro la carità di qualche occhiata. Discendeva
la contessa A..., quella che possedeva gli occhi più grandi e
più glauchi in tutto l'estuario veneto. Beltà
calcolatrice e perfida, che si compiaceva della interminabil schiera
delle sue vittime, e che bisognava ostentar di sprezzarla, per farle
spuntare in cuore, se non l'amore, almeno qualche velleità di
simpatia. Discendeva la M..., bruna beltà capricciosa, dalla
pelle di raso, e dall'occhio andaluso, lucente e tremulo come l'astro
di Venere, e che precisamente, pari alla dea che imprestò
questo nome a Lucifero, trattava lo sposo come Vulcano, quantunque
non fosse zoppo, e lo sagrificava a Marte, anzi a un drappello di
semidei più o meno guerrieri che si movevano in evoluzione in
faccia a lei, e ch'ella cangiava e sprecava come i guanti e le
pantofole. Discendeva la B
, bellezza epigrammatica e mordace,
che già navigava cogli anni verso l'equatore della vita
femminile, e copriva di nèi le incipienti rughe, che un suo
amante corbellato e tradito chiamava i solchi del peccato. Discendeva
la S
, beltà perfetta, ma più carnale che
spirituale, dall'occhio di capra, dal collo della Diana efesia, dalle
membra in cui trionfava la linea curva; sparpagliante a tutti sorrisi
ed occhiate, e che era la delizia dei giovinotti in pensione, che,
varcati i trentacinque, galoppavano verso i quarant'anni.
Discesero
altre più o meno desiderate, più o meno belle, più
o meno alte, più o meno grasse; sebbene il guardinfante dal
cinto in giù le facesse tutte d'una circonferenza... e tra
l'ultime discese la contessa Clelia, che Alvise Pisani e il
procurator Foscarini accompagnarono alla scalea, presso alla quale,
sotto l'atrio, successe come un ingorgo d'uomini e donne, mentre al
di fuori era una confusione inestricabile di gondole e di gondolieri,
i quali rispondevano, Vengo, Son qua, al servo colla
torcia che gridava i nomi dei signori che si presentavano per andar
via: Casa Mocenigo, conte Erizzo, senator Barbaro, Polcastro,
Caotorta, Zen, contessa Rezzonico, contessa V..., e questa, dopo un
quarto d'ora d'aspettazione, sentì la voce del
gondoliere Bianchi, ch'era scivolato tra gondola e gondola fin lì.
Il conte Pisani diede il braccio alla contessa, che discese
finalmente i gradini, e si adagiò sotto il felze.
Intanto
da più di mezz'ora Amorevoli stava nella sua gondola ferma in
Canal grande, importunando di continuo il gondoliere:
Ma bada che non ti sfugga.
La se fida de mi...
Ma sai tu ch'è già passata un'ora...
Gnanca mezz'ora, sior.
In tante gondole, come vuoi tu conoscere?...
La lassa far a mi. Nu altri semo come bracchi
se ghe ze el
salvadego... nol scapa... La se meta intanto a dormir.
Ho già visto a passare più di trenta e di quaranta
gondole.
De zento che ghe ne ze... la fazza conto, patron, che semo indrio...
Ma la guarda che la ze là... ch'el se consola, sior. E
spingendo la gondola codiò dalla lunga quella della contessa
per qualche tempo, poi, quando gli parve seconda l'occasione, le si
portò ai fianchi.
Buon dì... compare, disse il gondoliere al Bianchi.
La
finestra del felze d'Amorevoli era a due dita dalla finestra del
felze della contessa.
Donna Clelia, egli disse...
Ella
trasalì a quella voce, e non rispose; Amorevoli seguì a
dire altre parole, ma la contessa non parlò.
Allora
il gondoliere Bianchi che, stando in poppa, s'accorse del silenzio
della contessa, sospettando ch'ella fosse in un malo impaccio...
diede due o tre colpi di remi
e si portò innanzi di
tutto lo spazio che misura appunto una gondola, e disse anche qualche
mala parola al gondoliere di Amorevoli; e siccome era di tanto più
robusto di colui... lo sopravanzò di sì lungo tratto
che l'altro indarno s'attentava di raggiungerlo; mentre come un fuoco
d'artifizio Amorevoli sagrava al lento gondoliere. Infine, la gondola
della contessa svoltò nel rio San Polo. Amorevoli dice al
gondoliere: Va là e t'affretta che la raggiungeremo. Ma
il Bianchi era già pervenuto alla casa della contessa, che
Amorevoli procedeva ancora discosto. Se non che, in quel punto, ode
la voce della contessa, anzi un grido, poi una voce d'uomo, e un
rumore di parapiglia. È vicino alla scalea della casa. È
presso alla gondola della contessa; vede il gondoliere Bianchi che
appoggia un colpo di remo sul cappello a tre punte di un uomo d'alta
statura, ch'ei ravvisa pel conte marito. Il cappello a tre punte,
inconscio di tutto, fa tre giri grotteschi come un paléo, e
cade in laguna. Il conte sfodera la spada e si fa addosso al
gondoliere, e l'uno e l'altro cadono a fascio nella gondola, intanto
che la contessa piega come in deliquio sulla prora... Tutto questo
avvenne in men tempo che noi abbiamo impiegato a dirlo... e
Amorevoli, inspirato non si sa da che, ma pronto come una molla che
scatti, prende la contessa e, ajutato dal gondoliere, la porta di
peso nella propria gondola
mentre dice: Or t'affretta e
non farmi il poltrone.
Nè
il conte, nè il gondoliere Bianchi che stavano a fascio nella
gondola, non feriti per fortuna, ma bensì martellandosi senza
distinzione di rango, poterono veder quel ch'era avvenuto; nè
il guardaportone accorso, intento al parapiglia; onde il gondoliere
d'Amorevoli si partì senz'impicci... e dopo cinque minuti era
già in Canal grande.
Quando
furono colà, Amorevoli respirò; ma non era ancora
tranquillo, sicchè fece intendere al gondoliere che vogasse
più al largo... e il gondoliere si spinse infatti verso
il canal de' Marani. Intanto la contessa fu scossa dagli aliti
freschissimi della notte e tanto quanto si riebbe; e vedendosi faccia
a faccia con Amorevoli, raccolse gli sparsi pensieri e, fatto alla
meglio il riepilogo di tutto, gli strinse la mano. Certo che non
avrebbe fatto nemmeno quest'atto, per sè al tutto innocente,
se fosse stata pienamente in sè stessa; ma dal recente
turbinìo dei sensi, la ragione non essendosi ancora tutta
quanta sviluppata, l'istinto teneva il suo posto; e l'istinto, il men
che potè fare, fu di permettere che la sua mano stringesse
quella d'Amorevoli, in segno di gratitudine.
E
dopo quella stretta di mano, che lasciò un'impressione
indefinibile sulla mano di Amorevoli, vennero le parole tronche,
breviloquenti, infuocate, che non ripetiamo perchè per noi non
avrebbero senso, tanto ne avevano per quei due! parole che,
nell'enfasi erotica, per quelli che le profferiscono hanno un
significato che non è inteso da chi le ascolta nella calma di
un cuore senza passione. Bensì nella pienezza luminosa di
quella gioja istantanea, sapean pur penetrare colla loro acutissima
fitta i pensieri del passato e del futuro, e i laceranti rimorsi.
Ma
vi sono momenti della vita in cui, al cospetto di un bene presente
insperato e supremo, non possono prevalere tutti gli altri pensieri e
tutti gli altri dolori. Momenti in cui persino il colmo della
sciagura, che pur troppo si presagisce dover essere duratura,
comunica al piacere fuggitivo un'esaltazione senza pari.
E
qui ci vorrebbero le essenze di rosa, di mirra e belgioino distillate
già nella fabbrica di Tomaso Moore di Londra, e passate poi in
Italia nella casa figliale di Prati; qui ci vorrebbero le flebili
eleganze di Aleardi, di Maffei, di Gazzoletti, per cantare il
cantante Amorevoli che muto e pensoso, stava contemplando l'inclita
donna pensosa e muta; qui ci vorrebbe qualche svolazzo degli altri
poeti minori, che appartengono alla famiglia dei pettirossi, dei
canarj e dei capineri, perchè aliassero e gorgheggiassero e
pipilassero in segno di festa intorno a costoro, che usufruttano un
quarto d'ora di gioja ineffabile, a dispetto della loro falsa
posizione.
Notte,
cielo stellato, chiaro di luna, Venezia, canal Orfano, canti lontani
smorenti nell'aria, gondolieri colle sventure d'Erminia in bocca. Due
esseri nell'infelicità felici, un marito terribile lasciato
sotto il pugno e il remo d'un gondoliere poeta, eccitabile e
fantastico; un passato con de' rimorsi, un avvenire tenebroso: ecco,
o signori, consommé di poesia e di romanticismo.
Or
qui venite, o giovani fantasiosi e teneri, e voi tutti, che se foste
fiori, non potreste esser altro che l'erba sensitiva, venite e
volteggiate a vostra posta e in tutti i modi in codesta azzurra sfera
che vi appartiene in diritto. Quanto a noi, non abbiamo a far altro;
chè il nostro cuore è ruvido oggimai come la
pelle di un postiglione.
Ma
dove eran diretti que' due felici infelici?... Ma in che ora il
gondoliere rivolse il ferro dentato verso la città?
La
risposta a queste domande il lettore potrà averla assistendo
in seguito a strane cose che avverranno nella città di Milano
nell'anno 1766. Per ora,
Galeotto
fu il libro e chi lo scrisse,
nè
più vi possiam leggere innanzi.
LIBRO
QUINTO
Il
conte F... e il suo bisavolo. I medici Moscati, Patrini e
Gallaroli. L'agente Rotigno e don Alberico F... Donna
Paola e la contessa Clelia V... L'avvocato Agudio. Un
rotolo di cento zecchini e l'avviso a stampa di casa Morosini.
Il Capitano di Giustizia e la contessa Clelia. Il Viatico
Il confessore e l'erede. Storia del Senato di Milano.
La tortura, il Galantino e il senatore Morosini.
I
Il
giorno ventitrè o ventiquattro maggio salv'errore, un lungo
strato di paglia copriva quasi tutto il selciato della via*...
Peccato che gl'importuni riguardi ci proibiscano d'indicarla.
Le
carrozze, i carri, le carrette cessavano di far rumore appena
impigliavano le ruote in quello strame. La qual cosa, tanto allora
come adesso, voleva dire che giaceva là presso gravemente
ammalato un beneficiato della fortuna. La ricchezza, lo sfarzo, la
vita gaudente, persino l'orgoglio e la prepotenza fanno men crudo
senso sulla moltitudine di tale insegna di ricchezza, la quale in
fine non è che un'insegna di paglia; e la povera plebe
che ha consumata per sè stessa tutta la sua pietà, si
ricatta spesso, e nel passare, lanciando all'illustrissimo infermo
crudeli epigrammi. Però, se noi fossimo ricchi, faremmo
collocare verso corte o verso i giardini il nostro letto, e
lasceremmo la paglia a suo luogo, a placare così la pubblica
maldicenza, e ad aspettare in segreto che la dea salute tornasse a
confortarci, senza fare oggetto di spettacolo pomposo persin la
febbre e il vomito e il secesso.
Ma
chi giaceva allora a letto obbligato da questi tre incomodi era il
conte F..., fratello del defunto marchese.
Come sta il signor conte? diceva un tale al guardaportone, il quale
stava dondolandosi sulla soglia del palazzo.
Male, sempre male, anzi peggio: oggi a mezzodì si terrà
consulto tra gl'illustrissimi signori dottori Bernardino Moscati,
Guglielmo Patrini e il dottor Bartolomeo Gallaroli, che è il
medico della casa.
Che Dio vi scampi dai consulti... ma già questo di solito è
il malanno di chi ha il diritto di levar colla paglia il rumore delle
ruote... Più crescon le cure e le premure, più crescono
i pericoli.
E
a queste parole s'attraversava la domanda d'un altro, che passava:
Come sta il signor conte?
Trattasi di un consulto...
Più che la medicina sarebbe meglio consultare la carità,
la medicina dell'anima, la quale non tarderebbe a dirgli che, per
guarire, bisognerebbe fare qualche atto di beneficenza, e non lasciar
nella miseria la madre del figlio di suo fratello...
Queste cose andate a dirle a chi vi piace, non a me che mangio il suo
pane...
Voi parlate bene... ma il vostro padrone opera male. Però
state di buon animo, che se mai venisse a morire, come pare che
voglia succedere a tutti gli indizj, non saranno pochi quelli che in
Milano berranno alla salute dei medici che lo hanno accoppato.
Come
dunque ora ha sentito il lettore, il conte F... non avea nessuna
buona fama presso i suoi concittadini. Di lui e delle sue qualità
caratteristiche non si conoscevano che l'avarizia fastosa e
l'orgoglio. Era tradizionale il cattivo credito in cui era tenuto il
suo casato, fin dal bisavolo che aveva tormentati i figli cadetti per
concentrare nel primogenito tutte le ricchezze. Codesta, come sanno i
nostri lettori a sazietà, costituiva allora un modo
impreteribile nell'economia della ricchezza patrizia; ma v'erano
tuttavia diversi mezzi di farla valere, e i mezzi adottati da quel
bisavolo furono de' più disumani. Bensì un ricchissimo
parente, il quale non aveva avuto buon sangue con quel tristo
antenato, per fargli dispetto, lasciò erede di tutto il
proprio un suo figlio secondogenito; (chè troppo spesso nei
testamenti, i quali, essendo fatti in fin di morte, dovrebbero pure
essere atti di purificazione di tutta la vita, si condensa invece
tutta l'acredine morbosa d'una mala esistenza). E colui vincolò
la cosa in maniera che, rimanendo senza figli il suo erede, la
sostanza dovesse passar sempre al secondogenito. In virtù di
questa disposizione, il conte F..., dopo avere, nella sua qualità
di secondogenito, odiato per cinque anni il primogenito marchese, e
vissuto in continuo timore che lo zio non morisse abbastanza in
tempo, e potesse mai congiungersi ad una moglie feconda, ebbe
finalmente la consolazione di sentirsi annunciata la morte dello zio,
e di andare al possesso di quelle sostanze che gli si competevano per
diritto.
Questo
fatto, togliendo di mezzo le funeste disuguaglianze, avrebbe dovuto
scemargli l'avversione ch'egli avea pel fratello marchese; ma fosse
che, duratagli in petto tanti anni, quella fosse passata in istato
cronico, o il pingue cibo gli avesse cresciuta la fame; dal giorno
precisamente in cui diventò ricchissimo, cominciò a
pensare, struggendosi di desiderio, come il casato F... sarebbe stato
il più ricco di Lombardia... se le sostanze del marchese e le
proprie si fossero unite in una facoltà sola. E a questa
considerazione tormentosa dava ansa il fatto che il marchese viveva
una vita scostumata e discola, e non aveva un pensiero al mondo
d'accasarsi con nessuna patrizia nè di Milano nè di
fuori. I luoghi comuni e le tirate sulla virtuale ferocia
dell'ambizione si trovano in tanta copia presso tutti gli autori di
commedie e di tragedie e di racconti morali, che torna affatto
inutile una nuova dimostrazione delle sue attitudini spaventose,
segnatamente dopo la famosa parlata del convenzionale Aristodemo;
però, il lettore può farsi capace dello stato
dell'animo del conte F..., e come avesse tremato ad ogni annuncio che
il marchese prolungasse di troppo i suoi amori colla tale e colla
tal'altra; e come si fosse consolato alla novella ch'erasi finalmente
risoluto di mandar al diavolo colei che avea tenuto il segreto di
dominarlo più di tutte; e come avesse provato gli effetti di
un colpo apopletico quando sentì che una amante di colui
aveagli partorito un figliuolo, ed egli erasi acconciato a conviver
con essa e con esso; e come un contraccolpo apopletico gli fosse
minacciato dal giubilo che lo fece trasalire alla notizia che il suo
fratello, come Abramo, avea finalmente ripudiata quell'Agar in uno
col suo Ismaele; e come poi gl'imperversasse nell'animo una vicenda
tormentosa di timori e di speranze, quando, percosso il fratello
marchese da lunga e penosa malattia, il conte sentì a
vociferarsi d'intorno che il prevosto di San Nazaro, cogliendo al
varco la di lui natura, fatta più mite dal malore, lo avesse
consigliato a non lasciare in balìa della fortuna l'innocente
fanciullo ch'esso ebbe dalla infelice Baroggi, e come anzi per
dettatura del notajo Macchi avesse scritto di proprio pugno un
testamento a favore di quel fanciullo medesimo.
Tutto
il resto è già noto al lettore. Gli rimane però
a sapere che l'agente di casa F... il quale fu l'uomo adoperato dal
conte per tentare il lacchè Suardi, era un tal Giorgio
Rotigno, che conosceremo meglio a suo tempo. Ora, se il marchese F...
erasi messo a letto molti mesi prima, per lasciarsi consumar
lentamente dalla ricomparsa di un antico morbo ribelle ad ogni cura,
il conte s'era messo giù invece alquanti giorni prima della
partenza per Venezia del conte V... e del fratello della contessa
Clelia, per malattia violenta sopraggiuntagli in giorno di venerdì,
dopo aver fatto un lauto pranzo di magro.
Ma
il mezzogiorno stabilito pel consulto non era lontano, e alquanti
servitori di casa F... stavano sulla porta attendendo che venissero i
due medici consultori e il medico della cura. Ed ecco che non
si tardò a sentire il lontano rumore di una carrozza, la quale
dal lastrico e dall'acciottolato svoltando nella via sullo strato di
paglia, smorì in un fruscìo lento e maestoso, e si
fermò davanti al palazzo. Era la carrozza del dottor
Gallaroli, che dopo pochi minuti venne raggiunta da quella del dottor
Bernardino Moscati, e infine da quella del medico chirurgo
Patrini. I passeggieri si erano fermati a veder discendere quelle tre
celebrità mediche. Il dottor Moscati, padre di Pietro, era un
vecchio alto, secco, arcigno, angoloso. La moltitudine lo guardava
con venerazione insieme e con spavento.
Esso
era professore d'anatomia nell'ospedale maggiore, e veniva chiesto a
consulto in molte città anche fuori del Ducato nei casi
gravissimi di malattie. Patrini era professore di chirurgia pratica,
temuto anch'esso per l'imperterrita asprezza, ond'era fama che
sgomentasse gli amputandi per averli docili e immobili sotto al ferro
operatore. Dalla scuola di lui e del Moscati doveva poi uscire il
celebre Paletta. Il dottor Gallaroli era un ometto rubicondo e
allegro, ricercatissimo in tutte le case cospicue e un po' agiate
della città, perchè dicevasi che guariva spesso gli
ammalati colla sola sua presenza e col buon umore onde purgava l'aria
mefitica delle stanze da letto. Smontati i dottori dalle carrozze, e
scomparsi dalla vista del pubblico, la ragazzaglia, com'è
consueto, si fermò a vedere le rispettive carrozze e i
cavalli.
È
difficile a spiegare il fenomeno, ma le bestie domestiche ritraggono
assai del carattere dei loro padroni, o diremo più giusto,
della professione dei loro padroni; segnatamente i cavalli da tiro
che stanno lungo tempo al loro servizio. Il cavallo di un medico,
inquartato e ben pasciuto, ha qualcosa di solido, di posato, di
severo, che impone alle moltitudini press'a poco come il cavallo d'un
arciprete. Un occhio avvezzo, senza conoscere il padrone, può
distinguere al corso e tra la furia delle carrozze il cavallo del
medico dal cavallo del sensale, da quello del patrizio titolato, e
perfino può distinguere le gradazioni d'indole e d'età
di coloro che stanno in carrozza. E i tre cavalli dei tre dottori, a
cui la ragazzaglia facea circolo, confermavano più che mai
codesta nostra opinione. Tutti e tre dell'altezza di più che
trent'once, tutti e tre gravi e vecchiotti e un po' meditabondi,
parevano dire, in loro tenore, al vulgo profano: rispettateci che
siamo al servizio della scienza. Oggidì chi volesse fare tali
studj sui cavalli dei medici non troverebbe quasi più gli
animali da studiare. Non sappiamo perchè, ma oggi la medicina
va tutta a piedi. Non vi sono che i cavalli dei medici condotti,
ma essi partecipando della condizione de' loro padroni, non sono
più riconoscibili, tanto sono maltrattati; e i cavalli di quei
medici che, essendo nati ricchi, sarebbero andati in carrozza anche
senza la medicina, sfuggono all'analisi ed alla fisiologia. Sarebbe
dunque un problema nuovo e curioso: «Valutare la condizione
attuale della medicina, non come scienza, ma come professione, dal
semplice punto di vista dei cavalli da tiro, ed esibire
considerazioni e suggerimenti in proposito.»
Ma
lasciamo i cavalli a scalpitare dignitosamente sulla paglia
accumulata, e vediamo di poter assistere, per nostra istruzione, al
consulto medico.
II
Entrati
nella stanza da letto del conte F..., la regola generale vorrebbe che
ne facessimo la descrizione esatta, minuta, circostanziata, come si
usava una volta dai romanzieri che facevano l'esercizio comandati dal
generale Walter Scott, o meglio, come si pratica negli inventarj e
negli atti di consegna. Noi però lasceremo una tale
descrizione a chi vuol fare uno studio di stile, e collocare a loro
posto le parole registrate nel dizionario domestico del chiaro
professor Carena; e d'altra parte lasceremo ai pittori la libertà
di volteggiare con tutta la loro fantasia per rinvenire una degna
cornice al signor conte F..., per sua disgrazia gravemente ammalato,
tanto gravemente che il dottor Gallaroli ebbe e scrollare più
volte la testa, e in fine a trovare la necessità di domandare
un consulto per togliersi dalle spalle l'intera responsabilità
della troppo possibil morte dell'illustrissimo suo cliente. Venuto al
letto del quale, il dottor Moscati, che ci vedeva poco e allora non
ci vedeva punto perchè la stanza era fatta quasi buja dalle
persiane semichiuse e dalle tendine di seta verde, ordinò
sgarbatamente alla vecchia cameriera, che stava al capezzale, di
aprire e di lasciar entrar nella stanza tutta la luce che era
disponibile.
I
tre dottori gettarono allora un'occhiata acuta e profonda sulla
faccia dell'ammalato, che la teneva sprofondata nel cuscino
sovrapposto ad altri quattro, tutti messi a merletti e a trine; ma i
merletti e le trine facean parere più cruda l'antitesi di
quella faccia ossuta, gialla, solcata, distrutta.
I
tre medici, a questa prima esplorazione, si guardarono senza far
motto, ma si compresero; tanto che il Gallaroli, il dottor della
cura:
Eppure, disse, non è decombente che da otto giorni.
Il
Moscati, vecchio cinico, bisbetico e senza prudenza, crollò la
testa e passò a toccare il polso dell'ammalato; atto che fu
susseguito da un'altra scrollata di testa.
Che un tale stato, soggiunse poi, possa essere la conseguenza di una
replezione, lo credo, perchè lo dite voi; se foste un medico
novizio vi direi che quello di toccar polsi non è il vostro
mestiere. Cosa m'avete detto ch'egli abbia mangiato?...
Anguilla di Comacchio, professore; un suo cibo prediletto. Ma egli è
solito di mangiarne a dismisura, per quanto io ne lo abbia tante e
tante volte sconsigliato. Tutti i venerdì, per sua degnazione,
io pranzo qui... e tutti i venerdì mi è toccato dirgli:
badi che è troppo, e le farà male; e quel che previdi è
avvenuto. Onde, che questo sia un caso gravissimo di replezione, non
è possibile negarlo, professore. Prima di pranzo il conte
stava bene, non è vero, conte?
Il
conte accennò di sì, e, facendo cenno al dottore che
gli si accostasse, soggiunse a voce bassa:
Tant'è vero che ho mangiato troppo, perchè credevo di
poter mangiare.
Stia zitto, signor conte... Ma tornando a noi, egli stava bene
prima di pranzo, e continuò a star bene anche dopo; anzi vi
dirò che, quando il cameriere che portava lo sciampagna, entrò
a dar la notizia che ci fece strabiliar tutti, che il lacchè
Galantino, catturato a Venezia e fatto viaggiare sotto buona scorta,
era stato consegnato un momento prima al Capitano di giustizia, il
conte stava tanto bene che, a questa notizia, balzò in piedi e
disse: Sono assai contento di questo; da quella canaglia Dio sa che
sarà per saltar fuori adesso che è nelle mani della
giustizia... Io poi ho uno speciale interesse perchè parli e
sia fatto parlare... e qui bevve due o tre bicchieri di
sciampagna l'uno dopo l'altro, e si cacciò poscia a
motteggiare e a ridere in modo tale che non è del suo
temperamento... Figuratevi, professore, quanto il conte stesse
bene... Se non che egli uscì, e alcuni momenti dopo... qui,
questa donna entrò in sala tutta scalmanata a dirmi: Venga un
po' là, dottore, che il signor conte sta male, male assai, e
par che gli manchi il respiro e voglia morire. Io accorsi. Era
gettato a stramazzone sulla poltrona, fuggita la pupilla, fuggito il
polso. Come vedono, signori professori, non era il caso di una
cacciata di sangue. Gli feci dunque servire una limonata acidissima e
tepida, dopo la quale, quando si riebbe, lo feci porre a letto, e
sebbene la giornata fosse calda per sè, provvidi a farlo
ristorare con panni caldi; e così attesi il beneficio del
sonno e delle dodici ore della notte.
Ben pensato, ben provveduto. Non c'era a far altro...
Così
diceva il professore Patrini.
Tutto va bene, soggiungeva il Moscati, ma il giorno dopo, come lo
avete trovato il giorno dopo?
Peggio che mai. Era bensì tornato in sè stesso, ma
accusava dolore profondo alla testa, dolore insopportabile allo
stomaco. Il polso era duro e inerte... Passammo a' purganti... non se
ne ottenne nulla. Ed ora sono scorsi otto giorni, e quasi son venuto
in sospetto che l'impedimento sia meccanico. In tanti anni di cura
non mi è mai capitato un caso tanto ribelle alla scienza...
chè tutto quello che essa può consigliare fu
amministrato. Cosa ne pensa il professore Moscati?
Penso che bisognerebbe conoscere la causa per cui l'anguilla di
Comacchio gli ostruì il ventricolo.
La causa è il cibo medesimo mangiato, anzi divorato in
eccesso.
Va bene... ma questa causa essendo conosciuta, non dovrebb'essere poi
tanto intrattabile alla mano risoluta della scienza. Secondo il mio
parere, quando gli effetti sono permanenti, e non si modificano nè
in più nè in meno sotto al lavoro medico, è
indizio che la causa è ignota; ora il nostro studio
dovrebb'essere di rintracciar questa causa, per conoscere s'ella sia
di tal natura da esser poi governata colla medicina.
Il
dottor Gallaroli e il chirurgo Patrini si guardarono in faccia come
se non avessero ben afferrato il concetto del professore Moscati.
Ma
a questo punto l'ammalato, con voce fonda e intercalata da riposi
asmatici, e tuttavia piena di fremito e d'ira:
Che cosa dunque si conchiude? disse, posso guarire o no? Di che
natura è questa malattia?
Il dottor Gallaroli non ha sbagliato, rispose Moscati. La cura a cui
ha sottoposta la signoria vostra illustrissima era l'unica e
ragionevole. Ma se il corpo del signor conte non risponde ai
trattamenti medici, i medici non possono fare miracoli. Tuttavia
speri; e qui tornò a tastargli il polso.
La febbre è feroce, soggiunse. Il dottor Gallaroli non può
che continuare nell'intrapresa cura. D'impedimenti meccanici non
credo che sia nemmeno a parlare. Che ne dice il professor Patrini?
Non c'è sintomo di sorta che accusi un tale impedimento; onde
in questo caso non c'è altro che attenersi ad una cura
d'aspettativa.
Qui
il dottor Gallaroli scrisse una ricetta, toccò anch'esso
un'altra volta il polso dell'ammalato, lo tasteggiò alle
regioni dello stomaco, poi conchiuse:
Tornerò sul finire della giornata. E partì insieme coi
due medici consulenti.
Quando
aprirono l'uscio della stanza, urtarono in un gruppo di persone che
stavan tutte origliando, servitori e cameriere, e confuso con loro
l'agente della casa, signor Rotigno. Il figlio del signor
conte, giovinetto di vent'anni, che in casa era chiamato don
Alberico, passeggiava innanzi e indietro per quell'antisala, tristo
in volto, ma vestito con attillatura soverchia, e che certo
contrastava e colla gravezza della circostanza e col suo volto
medesimo. Ma più di quella medesima attillatura, ciò
che facea meraviglia era la preoccupazione ch'esso aveva del proprio
aspetto, fermandosi di tanto in tanto a contemplare sè stesso
nei due specchioni che dall'alto al basso ornavano due pareti della
sala.
Quando
i tre medici uscirono, il signor Rotigno tenne loro dietro.
E così? come si mette, dottore? chiese al Gallaroli.
Male, male assai.
Tanto male, soggiunse il dottor Moscati, che, per ogni buon conto,
sarebbe opportuno mandare pel prete.
Don
Alberico, che, intento a guardar l'effetto d'un neo applicato per la
prima volta in quella mattina dal parrucchiere all'angolo del suo
occhio destro, non s'era accorto dei tre consulenti ch'erano usciti
in quel punto, fu scosso a quella parola prete, e si volse e domandò:
Come dunque hanno trovato il conte mio padre?..
Fatevi coraggio, don Alberico, ma non a caso ha detto il dottor
Moscati... che c'è bisogno del prete.
Quando
i medici si trovaron soli sotto all'atrio del Palazzo:
Ora ci spiegherete, dottore, disse Patrini a Moscati, quel che avete
voluto intendere quando avete parlato della causa della malattia...
Il
dottor Moscati crollò allora la testa, e rispose:
Mi accorgo che nel libro della vita si legge meglio quanti più
anni si hanno; e siccome io sono ancora più vecchio di voi
altri due, così mi sono accorto di ciò che voi non
avete intraveduto. Tuttavia, caro dottor Gallaroli, voi che
siete della famiglia, avevate l'obbligo di accorgervi di qualche
cosa. Quando mi avete detto, che il malore scoppiò subito dopo
l'annuncio della cattura del lacchè, ho tosto compreso da che
tutto deriva.
Il
dottor Gallaroli e Patrini tornarono a guardare in faccia al
dottor Moscati con quell'atto di chi non comprende nulla.
E
il Moscati:
Va benissimo che i preparati anatomici e le lezioni di chirurgia
pratica e quelle di medicina non ci devan lasciare il tempo di
pensare alle cose di questo mondo. Ma il sole e la luna si vedono,
come il freddo e il caldo si sentono anche senza volerlo, perchè
sono essi medesimi che si fan vedere e sentire. E così è
del fatto presente. Non sapete dunque quel che si dice in tutta
Milano, che cioè il lacchè Suardi deve aver trafugato
un testamento per insinuazione del... sì, signori, del conte?
Che? cosa dite?
Oibò!!...
Oibò? perchè oibò? vediamo. L'accusa per cui il
lacchè Suardi è ora al Capitano di giustizia, è
precisamente ch'esso abbia rubate delle carte preziose al marchese
defunto, tra le quali un testamento, e un testamento a favore d'un
suo figlio naturale. Questo testamento a danno di chi era? Del conte.
La scomparsa di questo testamento a vantaggio di chi era? Del conte.
Il lacchè a trafugare delle carte cosa poteva guadagnare per
sè? Niente. Qualcuno dunque lo dee avere istigato. Chi dunque?
Colui solo che ci ha interesse. E chi può essere questo colui?
Il conte. Vi parrebbe ancora di sbagliare a credere che non può
essere che il conte?... Suvvia dunque... già io non vado
dall'illustrissimo signor capitano a ripetere queste parole, che del
resto sono in bocca a tutta Milano. Nè io voglio dire in
giudizio che la causa per cui l'anguilla di Comacchio si fermò
sullo stomaco del signor conte, fu l'annuncio improvviso della
cattura del lacchè, nel punto precisamente che i fluidi
gastrici lavoravano a manipolare il suo chilo. Fate che domani il
lacchè possa escire innocente o dichiarato tale dal Senato...
e allora vi accorgerete che siamo ancora in tempo a salvare la vita
del signor conte; perchè tolta la causa permanente che non gli
lascia aver tregua, è salvo. Son morti degli uomini sul colpo
per un eccesso di paura, di collera, d'affanno. È dunque già
molto che il conte sia ancor vivo... perchè, colleghi miei
carissimi, il caso è serio; e se il lacchè dà
fuori il nome del conte, vedete che scandalo, che onta, che
vitupero!! Ma torniamo all'Ospedale il quale in certi casi è
più allegro del Capitano di giustizia e del Senato, e spesso
un forcipe fa meno paura d'un articolo delle istituzioni criminali.
Dicendo
questo, aprì lo sportello della sua carrozza, traendoselo
dietro a richiudersi romorosamente. Gli altri fecero lo stesso, e i
cavalli si mossero con trotto dignitoso e scientifico.
III
Ed
ora tornando nella camera del conte, ci accorgiamo che è
necessario di spiegar nettamente molte cose che lo risguardano, in
continuazione a quel po' di schizzo che, qualche pagina addietro,
abbiam dato della sua vita e dell'indole sua. Non sappiamo perchè
ogni qualvolta ci occorse di parlare del conte F... e della parte che
ebbe nel trafugamento delle carte di suo fratello, lo abbiamo sempre
fatto con una circospezione che non potremmo nemmen spiegare a noi
stessi. Parrebbe quasi che il desiderio onde il senatore Gabriele
Verri e gli altri, i quali erano più o meno in parentela, più
o meno in dimestichezza col conte, e che, meglio ancora che per
l'onore di lui, spasimavano per il decoro e la buona fama della
casta, sia passato nel nostro sangue come un male attaccaticcio;
tanto che, se il lettore si ricorda, abbiam sempre parlato a mezza
bocca, e gettatigli innanzi in cumulo i fatti senza divisarli bene,
quasi timorosi che il conte potesse risuscitare a farci pagar cara la
nostra imprudenza. Ci vergogniamo dunque di questo nostro modo di
procedere, e vogliamo parlar chiaro, e senza l'ajuto de' personaggi,
ma per la nostra bocca medesima. Il conte F... avendo dunque saputo
qualche giorno prima che morisse il marchese, che il prevosto di San
Nazaro era riuscito a fargli stendere un testamento a favore del
figlio della Baroggi; avendo saputo inoltre che il testamento non era
stato consegnato a nessuno, e che anzi il marchese aveva dichiarato
al prevosto stesso: trovarsi nello scrittojo del suo studio, in mezzo
a molti documenti di famiglia, anche le disposizioni dell'ultima sua
volontà; il dì medesimo che esso morì e che i
notai del Pretorio apposero i suggelli allo scrigno, parlò col
suo agente signor Rotigno (che per lui aveva il merito d'avergli
ridotto, con un'amministrazione inesorabile, a un terzo di più
il valore de' suoi possedimenti), parlò un lungo discorso che
condusse il Rotigno a fargli la proposta di tentare il lacchè
Suardi, stato tanti anni al servizio del marchese, e che, per essere
respinto da tutti e non aver più nè dove dormire nè
di che mangiare, dalla disperazione facilmente sarebbe stato persuaso
ad accettare buoni patti. La sostanza, in palazzi, case, ville,
terreni, capitali, diritti d'acqua, ecc. del marchese F... era
valutata a circa dieci milioni di lire milanesi. Il conte promise al
Rotigno lire 200 mila di regalo, quando l'impresa fosse riuscita
bene; in quanto al lacchè, avrebbe dovuto ricevere sessanta
mila lire di compenso, compiuta ogni vertenza; quando cioè
fosse tolto di mezzo ogni pericolo d'investigazione criminale, e dopo
un lasso di sei mesi; delle quali sessanta mila lire se gliene
dovevano anticipare due mila prima di tentare il fatto; altre
vent'otto mila subito dopo consumato il trafugamento; il resto, come
dicemmo, maturati i sei mesi.
Queste
cose, secondo le regole della drammatica e de' suoi sospensorj, il
lettore avrebbe dovuto saperle in altro luogo e tempo, quando cioè,
dopo un lungo ordine di anni e di vicende, ogni segreto dovrà
saltar fuori all'aperto per uno di quegli accidenti che non sanno
uscire che dalla bisaccia agitata dalla cieca fortuna. Ma siccome
queste cose noi le sappiamo già, avendo sott'occhio tre
quinterni di carta gialla e tarlata, tutta nera d'inchiostro svanito,
dove la storia del processo c'è tutt'intera, così ne
facciamo una graziosa anticipazione ai nostri lettori, anche perchè
possano così valutar meglio la portata di questi due
personaggi: il conte F... e l'agente Rotigno.
Compiuto
il fatto, seppellito il marchese, pagato il lacchè, il conte e
l'agente respirarono. Del qui pro quo provocato dagli amori di donna
Clelia col tenore gioirono in segreto di una gioja profonda, di una
di quelle gioje onde nelle vecchie leggende della nubilosa Germania
vediamo esaltato il maligno spirito quando riesce a trarre a
perdizione qualche innocente; gioirono in segreto, vogliamo dire che
non si comunicarono le loro gioje; perchè e l'uno e l'altro
evitarono sempre di parlare di quant'era avvenuto, e per qualche
giorno parve anzi che si scansassero. Un'avversione misteriosa grado
grado era nata tra di essi; e tanto più implacabile quanto
l'uno era più avvinto all'altro, e quanto più dovevano
dissimularla con degnazione cortese per un lato, e con profondo
rispetto per l'altro. Sul resto erano tranquilli, meno però
sul fatto del lacchè, il quale, dopo aver mostrato il
testamento originale al signor Rotigno, ostinatamente volle tenerlo
per sè, limitandosi a trarne di proprio pugno la copia. Tanto
il conte che il Rotigno avevano conosciuto il Galantino per una
faccia sola, per quella della ribalderia, dell'audacia e della
miseria; ma non sospettarono affatto quella dell'ingegno, dell'acume
e dell'astuzia naturale. Davvero che non s'era adempiuto per parte
del lacchè alla più grave delle condizioni. Ma dieci
milioni erano guadagnati, il fatto era corso tanto bene, che pareva
espressamente comandato dalla fortuna. Il capriccio del lacchè
poteva essere un capriccio senza pericolo di conseguenze gravi, e del
resto anch'esso era interessato a tacere. Non si pensò dunque
ad altro che a dar corso alle faccende domestiche, e giacchè
solo il conte era chiamato all'eredità, a procacciare gli
opportuni provvedimenti per andare al possesso di essa.
Per
tutte queste circostanze adunque, ci pare sia facile a capacitarsi
del terribile effetto che dee aver fatto sull'animo del conte F... la
notizia inaspettata della cattura; ella veniva a dire in conclusione,
secondo le consuete risultanze de' processi, che fra pochi giorni
tutto sarebbe stato palese, e, insieme coll'edificio che veniva a
crollare dalle fondamenta, il decoro del casato, il decoro apparente,
già s'intende, veniva ad essere oscurato per sempre. La
vivacità lieta che il conte mostrò a' commensali quando
la notizia venne annunciata, e le parole che pronunciò non
erano state che un effetto dell'esaltazione della paura e
dell'astuzia istintiva e quasi meccanica che ha chiunque per trarre
in inganno gli astanti intorno a cosa che vuolsi tenere nascosta e si
trema possa venir palesata pur dal menomo turbamento esterno, dal
colore mutato, dalla voce indebolita. L'uomo allora finge ed esagera
sentimenti in tutto opposti a quelli che gli si agitano in petto, di
modo che talvolta ei si rivela per l'eccesso appunto della finzione
medesima; e il conte si rivelò in fatti a molti de' commensali
che notarono ogni cosa e tacquero; si rivelò persino, chi mai
lo crederebbe, allo stesso dottor Gallaroli, uomo naturalmente acuto
e scaltrito da una lunga esperienza, tanto acuto e tanto scaltro, che
finse di esser caduto dalle nuvole quando il sincero e sciolto e
burbero dottor Moscati non dubitò di dire quel che pensava. Ma
se quella notizia fu tanto micidiale al conte, da fargli l'effetto
dell'acqua dei Borgia e dell'arsenico, non lasciò intatto
nemmeno l'agente Rotigno, come è facile a credere. Benchè
fornito com'era dalla natura di un corpo robusto e inquartato come
quello d'un cavallo da stanga, e avendo colorito il volto da quel
colore permanente che par vernice metallica e che non permette di
distinguere un uomo in deliquio da uno che ha ben bevuto, non ne
lasciava trapelar nulla all'esterno. Nessuno però dei nostri
lettori più infelici e malcontenti della vita avrebbe potuto
invidiarlo; chè in otto giorni e otto notti, se riuscì
a sfiorare tre o quattr'ore di dormiveglia, s'arrischia a dir troppo.
Ben
è vero ch'egli aveva prese tutte le precauzioni, onde, anche
nel caso che il Galantino fosse stato posto alle strette, non potesse
nominare l'uomo da cui aveva tenuto il mandato, perchè egli
non gli s'era dato a conoscere; ma nel tempo stesso avea potuto
accertarsi che il lacchè avea, come suol dirsi, mangiata la
foglia, e nel caso di un buon tratto di corda che gli avesse fatte
veder le stelle anche di giorno, avrebbe presto dato fuori i nomi per
cercar sollievo o trarre altrui nel laccio. Il fatto però
d'una malattia grave e pericolosa del conte gli aveva messo in cuore
qualche speranza. Se mai fosse per morire, pensava, prima che
il lacchè ci tiri in ballo, a me non riuscirebbe difficile
trarmi d'impaccio. Il lacchè nominerà il conte... ma il
conte morto non potendo comparire in giudizio... il tutto finirà
colla restituzione del testamento... e chi deve esser ricco sarà
ricco, e buona notte, e don Alberico s'accontenti di quello che ha.
Per tali considerazioni, il signor Rotigno si consolava ogni
qualvolta il dottor Gallaroli gli dava pessime informazioni
dell'ammalato; e arrivò perfino a stropicciarsi le mani per un
soprassalto repentino di giubilo quando sentì annunciato il
consulto, tanto avea buona opinione dei consulti medici!!! Se non che
questo fresco venticello che gli soffiò sull'animo agitato
venne respinto da una frase sola del dottor Moscati: È
mestieri del prete. Egli non avea pensato che alla morte del
conte, e non all'agonia nè a' suoi preliminari, talchè
non avea mai considerata la necessità della confessione e
dell'olio santo. Però quella parola prete gli penetrò
nel cuore coll'effetto di un cuneo che squaglia un ceppo, chè,
pensava egli: La vita eterna farà parere al conte un nonnulla
i dieci milioni del marchese... e per alleggerir l'anima verserà
tutto nelle orecchie del prete... Insomma lo spavento che
gl'indusse quella parola fu tale che se in quel punto avesse mangiato
anch'esso due o tre rocchj d'anguilla, l'indigestione lo avrebbe
soffocato. Tant'è vero che fare il galantuomo è la
migliore speculazione di questo mondo.
IV
Lasciando
adesso le nostre digressioni, e venendo a' fatti; quando il signor
agente Rotigno e don Alberico tornarono nell'antisala:
Bisognerà dunque, disse il secondo, mandare a chiamar don
Giacinto.
Don
Giacinto era il vicario di Santa Maria Podone, dipendente dal curato
di Santa Maria Porta; era il prete di casa, ossia quello che più
frequentemente aveva a che fare col signor conte padrone; non tanto,
a dir la verità, per le faccende dell'anima, ma per le
vertenze di un beneficio di jus patronale, pel quale il conte F...
aveva diritto di nomina.
Don Giacinto è stato qui sin dall'altro jeri, rispose il
signor Rotigno, ma ho creduto bene di rinviarlo. Queste sottane nere,
caro don Alberico, fanno un tristo effetto sugli ammalati. Dopo i
purganti e gli altri argomenti, ciò che procura la guarigione
di un ammalato è la faccia gioviale del medico e la speranza.
Ma a che amministrar purganti e conforti, quando un prete dee venire
a mettere spavento? Che effetto farebbe a lei, don Alberico, se dopo
il quarto o quinto giorno di malattia, il prete venisse a farle
visita subito dopo il medico?
Che effetto? si sa... Ma quando il medico lo consiglia...
Il dottor Gallaroli è un furbo che vuol darsi importanza e ama
far correr la voce per Milano ch'egli è l'uomo dei miracoli...
e sa, anche dopo l'olio santo, rinnovare la vita; gli altri due, è
naturale... son della professione, e una mano lava l'altra, e il
mestiere non vuol essere rovinato però son venuti, come
succede sempre, per dar ragione al medico della cura, il quale, a dir
la verità, mi par il prete che canta messa, mentre gli altri
due fan da diacono e gli tengono il piviale. È sempre la
stessa storia, però bisogna saperli interpretare, e non
seguirli testualmente questi signori.
Basta, fate voi. Badate però che stasera il dottor Gallaroli
non faccia strepito del non essere stato obbedito.
Vedrà che il dottore non dirà nulla... E poi io vivo
certo che il conte debba migliorare...
Fate pure, fate pure... Ora sentite ...
Che cosa?
Fatemi contar dal cassiere un cento talleri di Carlo Sesto.
Siam sempre a queste, don Alberico.
Sono otto giorni che ne ho di bisogno.
Il signor conte mi proibì di darle altro danaro prima che
incominci il mese di giugno.
Il giugno è qui presto... è un'anticipazione di pochi
giorni...
Eppoi?
Eppoi, fate presto. Non mancano usuraj a Milano, e se batto di piede
saltan fuori talleri da tutte le parti. Non è la prima volta.
Ma che maledetto gusto è questo di costringermi a pigliar
dieci per restituir venti! Non c'è al mondo uomo più
avaro e più sucido di mio padre; e voi gli tenete la staffa. È
tempo di finirla. Ho ventun'anni, e colla nuova eredità sono
il figlio unico più ricco di Lombardia. Venti milioni... una
piccola bagattella... e sempre aver bisogno di denari come se fossi
un pezzente, e domandar la carità a voi. Ma chi siete voi?
L'agente
sorrise, e:
Sono il suo umile servitore, che ama lo splendore della casa, e
desidera che l'unico erede di tanta facoltà non trovi d'aver
decimato nulla quando sarà egli il capo della casa e il
padrone assoluto di tutto. Però, giacché veramente le
occorrono, vado a farle contare i cento talleri.
Sentite, se fossero centocinquanta non mi lamenterò; anzi, ora
che ci penso, mi lamenterei se fossero appena cento.
Il
signor Rotigno discese nello studio dov'erano molti impiegati
subalterni, cassiere, ragioniere e scrivani, perché
l'amministrazione della casa era vasta e complicata. Si fece contare
dal cassiere i centocinquanta talleri, li fece notare alla partita di
don Alberico, incaricando uno scrivano di stendere una ricevuta che
il figlio del padrone avrebbe firmata per la necessaria regolarità,
e perchè voleva così il signor conte padrone.
Mentre
il signor Rotigno s'indugiava là per tale occorrenza, entrò
un commesso di studio seguito da un facchino portante un sacco di
denaro; entrò e disse:
Gran novità.
Che cosa?
È tornata, pochi momenti sono, la signora contessa Clelia V...
Tornata?... ma perchè?
S'ella voleva tornar così presto, tanto aveva a non fuggire.
Oh bella! il conte marito volle andare dov'ella si trovava, ed ella
ritornò dove non si trova più suo marito. Fin qui non
ci vedo nulla di strano, ed è facile a capire.
Che cosa è facile a capire?
Quello che voi non sapete, soggiunse il commesso. La contessa è
tornata perchè fu fatta ritornare.
Da chi?
Da chi ha l'autorità, s'intende; voglio dire, dal Senato. Ma
sapete il motivo? è il motivo che vi farà strabiliare
tutti.
Sentiamo, parla, di' presto.
Il motivo è che il Galantino ha dato fuori il suo nome; e in
conclusione, è dessa che lo ha pagato a rubare il testamento.
E si sa anche com'era il testamento. Erede, già s'intende, il
nostro illustrissimo signor padrone, e diversi legati, tra' quali
uno, e il più vistoso, all'egregia contessa... in compenso
di... mi capite... Altro che Urania e Minerva e che so io, come la
chiamava il vicario don Giacinto: ah! ah! ah!... a dire che mi
divertono tali intrighi, è dir poco.
Ed ella deve aver fatto trafugare un testamento, perchè il
testatore ha voluto regalarla? Ma c'è sale in zucca a creder
queste fandonie?
Altro che sale! Il testatore assegnò il premio... ma assegnò
anche i servigi... vedete che scandalo. Ah ah ah... Ma già è
sempre stato un po' matto il signor marchese. Non somiglia per niente
al nostro illustrissimo signor padrone.
Il
signor Rotigno intanto ascoltava e taceva; e siccome era informato in
parte del processo del Galantino, e già avea sentito toccare
un tasto di una simile deposizione, credette a mezzo, e quasi quasi
si sarebbe confortato, se non gli fossero tosto sorgiunti i secondi
pensieri a fargli capire che l'inganno poteva durare per poco e non
per sempre. Tuttavia pensò di farne parola al conte. Prese
allora i centocinquanta scudi, salì, entrò nella sala
dove ancora stava passeggiando don Alberico, gli consegnò i
denari colla ricevuta che don Alberico sottoscrisse; e quando questi
partì, pensò di entrare nella camera da letto del
conte... Se non che, allorquando fu per aprire, si fermò e
disse tra sè, anzi pensò... perchè certe cose,
nemmeno i bricconi di cartello le osano dire neppure in soliloquio:
Questa notizia potrebbe consolarlo un po' troppo, e aprire il varco
alla salute... un'inezia accoppa, un'inezia fa rinascere. È
dunque meglio tacere. E così ridiscese nello studio,
prese il cappellino a tre punte e la sua canna d'India, e uscì
ad appurare le notizie della giornata.
Intanto
che il Rotigno se ne va pe' fatti suoi, facciamoci colla contessa
Clelia. Il commesso di studio, raccontando che era tornata a Milano,
avea detto il vero. Al serenissimo doge Grimani, nelle sale del
nobile Alvise Pisani, ella avea promesso che il giorno successivo
impreteribilmente sarebbe partita da Venezia; e il doge aveale detto:
confidare interamente nella sua parola e non volere per verun conto
commetterla a scorta nessuna. Queste furono le parole: ma i fatti non
vi corrisposero esattamente. Chè alla contessa Clelia il dì
dopo fu reso al tutto impossibile di lasciar Venezia, per varj
accidenti sorvenuti all'impensata, e che, scorsi che saranno sedici
anni dal tempo in cui versa il nostro racconto, il lettore
probabilmente saprà indovinare. In quanto al doge incaricò
l'ufficio de' corregidori di far tener dietro ai passi della
contessa; e allorchè seppe, con sua grande meraviglia, ch'ella
trovavasi ancora in Venezia, alla promessa che donna Clelia rinnovò
di partire fra breve tempo, non fu tanto credulo; e sotto specie
d'onorarla, la fece accompagnare sino al confine del ducato di Milano
da messer Zuane Pizzamano, camerlengo di Comune, e dalla nobile sua
moglie. Onore che, giunto al confine, le fu rinnovato dal signor
luogotenente di Pretorio, dottor Rocco Orlandi, il quale,
espressamente a ciò incaricato da lettera senatoria, le
domandò con rispettosa deferenza, ma con quel modo
d'interrogare che significa essere il provvedimento già stato
ventilato e ingiunto dall'autorità, le domandò adunque
se ella desiderava, giungendo a Milano, d'essere alloggiata nella
casa dell'egregia donna Paola Pietra sua conoscente.
Ma
in che modo l'autorità provvide a far alloggiare la contessa
presso donna Paola Pietra? Il fatto è chiaro. Dopo che il
Senato fu istrutto della strana deposizione del lacchè Suardi,
e riputò indispensabile di sentire di presenza in giudizio la
contessa V..., l'illustrissimo capitano di giustizia, dopo una
conferenza col presidente del Senato e col senatore Gabriele Verri,
mandò a chiamare donna Paola, a cui fece palese la deposizione
del Galantino, e insieme la risoluzione in che era venuto
l'eccellentissimo Senato d'interessare il Consiglio Veneto a mandare
a Milano la contessa.
Che
terribile colpo facesse una tale notizia sull'animo di donna Paola è
facile immaginare.
Dopo
il primo turbamento e dopo quella tremenda confusione in cui le
persone educate da una lunghissima esperienza son gettate al sentire
imputato di una colpa detestabile chi si ama e si protegge, appunto
perchè alla predilezione ed alla stima si mesce sempre il
dubbio dell'umana perversità e delle apparenze ingannatrici;
donna Paola, nel fondo dell'animo suo, rifiutossi a prestar
fede all'oscena accusa. Disse poi tali cose al signor capitano, e le
espose con tanta eloquenza e fervore, che lo stesso marchese
Recalcati, ch'era un eccellente galantuomo, fu presto dell'avviso,
essere infondata l'accusa del Galantino, e dovere anzi l'accusa
medesima servir col tempo alla riprova della di lui ribalderia.
Perciò, alla profferta che donna Paola gli fece di ricevere in
casa la sventurata contessa sotto la sua protezione e sorveglianza
non potè che accondiscendere, onde al luogotenente di Pretorio
al confine del Ducato furono inviate istruzioni in proposito. Nè
qui si fermò la caritatevole donna, ma affannata di avere col
proprio consiglio peggiorata la condizione della contessa, pensò
di non omettere cosa nessuna, la quale potesse giovare alla causa di
quella sventurata e, in ogni modo, dovesse giovare al trionfo della
verità. A tale oggetto si recò dall'avvocato
patrocinatore del figlio della Baroggi, perchè vedesse di
poter raccogliere una o più testimonianze ad indicare e
provare, non essere altrimenti vero che il lacchè Galantino si
trovasse già a Venezia prima degli ultimi otto giorni del
carnevale di Milano. E l'avvocato si prese l'assunto, e in pochi dì
fu sulla via di far qualche preziosa scoperta.
Se
dunque queste ultime pagine furono noiose anzi che no, ci lusinghiamo
che il ritorno della contessa, e la sua chiamata in giudizio, e le
sue confidenze a donna Paola e le sue ansie: come pure la scoperta
dell'avvocato patrocinatore, e i nuovi interrogatorj imposti al
Galantino, e le lotte in Senato sul proposito della tortura, e i
risultamenti provvisorj di codesta matassa, saranno
Vasta
materia di sermon futuro.
V
Il
giorno stesso in cui si tenne il consulto medico in casa F..., donna
Paola Pietra, con lettera confidenziale, venne avvisata
dall'illustrissimo signor marchese Recalcati, che il giorno dopo,
accompagnata dal luogotenente del Pretorio di confine, sarebbe giunta
a Milano la contessa Clelia V... Per ciò ella si trattenne in
casa onde adempire all'ufficio cui si era spontaneamente offerta.
Le
persone che, sollecitate da una stragrande bontà di cuore e
dall'amore degli uomini, s'interessano con operosità alle cose
altrui, quando le loro premure non hanno riuscita, si sentono
travagliate da insopportabili inquietudini, e talora, per quanto
invase dallo spirito di carità, provano il pentimento
d'essersi volute adoperare a vantaggio degli altri. In una tale
condizione d'animo trovavasi appunto donna Paola nelle ore che stava
aspettando la sua protetta, e tanto più si affannava, quanto
più, ripensando le cose avvenute (e non conosceva il peggio),
vedeva che i buoni consigli non assicurano sempre la felice riuscita
delle cose, e talvolta, pur troppo, come nel caso suo, partoriscono
effetti al tutto opposti ai desiderati. A taluno de' nostri lettori
parrà strano che siasi voluta mettere innanzi donna Paola
siccome l'ideale della carità, un surrogato in terra alla
Provvidenza, quando poi, in sulle prime operazioni, doveva fallire
agli intenti desiderati. Ma innanzi tutto, quando un fatto è
realmente avvenuto con quelle circostanze speciali, impreteribili al
raccontatore, un personaggio non può sempre appagare i
desiderj di chi legge. D'altra parte una storia come la nostra non è
che uno specchio più o meno terso, più o meno ondulato,
in cui si riflette la prospettiva della vita. Ci può essere
qualche deviazione di linea, qualche raggio che s'interseca o prima o
dopo, ma l'immagine riflessa in poco può variare dal vero. C'è
di più, che un personaggio, tanto nei lavori dell'arte come
nella vita reale, il quale si distingua per carattere segnalato di
virtù, si fa manifesto per l'intenzione ed il fervore della
volontà di operare il bene, non già per l'ultima
riuscita, la quale non è mai la vera misura onde valutare il
grado della virtù stessa. Coloro che pretendessero dovere la
comparsa di donna Paola Pietra stornare sciagure e peccati e cadute,
mostrerebbero di non conoscere la differenza che passa tra i
personaggi della vita vera e gli dei d'Omero. A questi era permesso
far scomparire Paride in una nube e involarlo all'ira di Menelao per
stornar l'asta del Telamonio dallo scudo di Ettore; ma ai nostri
personaggi, vogliam dire ai buoni, non sono obbligatorj che il
desiderio del bene e la facoltà di sudare per correre sulla
sua traccia; non già la sicurezza di conseguirlo.
Ma
ciò non toglie che donna Paola fosse afflittissima e si
riputasse quasi colpevole di quanto era avvenuto. Tuttavia, quel che
più le cuoceva, era il dubbio che di tanto in tanto veniva a
galla delle sue medesime persuasioni e de' suoi raziocinj; il dubbio,
vogliam dire, che donna Clelia fosse ben altra da quella ch'essa
aveva creduto; e che quanto potè sembrare un trascorso
accidentale, fosse invece un'abitudine perversa dell'intera vita.
Inoltre la passione violenta ond'era stata assalita al cospetto di un
cantante, circondato dal fascino della gioventù, della
bellezza, dell'eccellenza dell'arte, lasciava trovar scusa e perdono
pur nell'animo del più inesorabile censore; ma le relazioni
col defunto marchese, perduto di costumi, nè giovane, nè
attraente, rendeva turpe e non perdonabile la colpa. Se non che, nel
punto che donna Paola stava dibattendosi fra cotali pensieri, il
servo entrò a dire che la contessa V... era discesa dalla
carrozza.
Donna
Paola alzossi quando quella entrò.
Il
lettore si ricorderà delle caldissime espansioni di affetto,
dell'abbraccio tenero e commosso onde queste due donne si lasciarono
dopo il primo loro dialogo. Chi ora dunque crederebbe che,
rivedendosi, dovessero tanto l'una che l'altra mostrare una freddezza
riguardosa, e proferir parole e saluti a cui non corrispondeva la
gelida espressione del volto e degli occhi! Ma nell'una era un
sospetto, nell'altra era una recente memoria che la faceva timorosa
della presenza di quella venerabile donna. E codesta peritosa
freddezza della contessa, accrebbe in quel punto i dubbj di donna
Paola, di maniera che, per un movimento istantaneo, il suo volto
assunse l'espressione della più severa austerità.
Partito
il servo, rimaste sole, aspettando la contessa, altre parole, e
vedendo perdurare donna Paola in quella gravità ch'ella non
sapeva spiegare:
E che cosa è avvenuto, esclamò, perchè io non
veda più il sorriso benevolo su quella vostra santa faccia?
Dir
queste parole, gettar le braccia al collo di donna Paola e prorompere
in pianto fu un punto solo. La mestizia acerbissima del viaggio
solitario, i timori, le rimembranze che da molte ore le avean fatto
nodo insopportabile al cuore, si sciolsero in quello scoppio di
lagrime.
Donna
Paola sentì sottentrar tosto la commozione alla severità,
e riabbracciando la sventurata:
Oh, fate animo, disse, io sono sempre la stessa per voi. Sedete e
tranquillatevi... e faccia Iddio che...
E
qui s'interruppe, perchè non le parve il momento opportuno di
uscire con disgustose interrogazioni.
Ma
se donna Paola per allora aveva creduto bene di tacere, la contessa
dopo qualche momento:
Or io vorrei sapere, disse, la cagione per cui, con gravissimo
scandalo, il Senato sollecitò il doge di Venezia a farmi
partire da quella città e, sebbene con apparenze onorifiche, a
mandarmi qui custodita e guardata, in conclusione, come si pratica
coi malfattori.
Ma non sapete nulla, contessa? disse donna Paola, veramente nulla? e
la mirava fissa, quasi a passarla fuor fuori, come dicono i
Fiorentini.
Nulla io so, bensì mi perdo inutilmente in un mare di
congetture. Il doge Grimani non sapeva nemmeno esso la causa di tale
misura, ed anzi ebbe a lamentarsene. Il camerlengo di Comune che
insieme colla nobile sua moglie mi accompagnò sino al confine
del Ducato, com'è naturale, ne sapeva meno del doge. In quanto
al signor luogotenente di Pretorio, che dal confine mi accompagnò
sino alla porta di questa stanza, mi sembrò bene che fosse al
fatto della cagione vera, ma scansò sempre le mie domande, e
quando gli manifestai il mio sospetto di una qualche falsa
deposizione di quello scellerato lacchè: Potrebbe darsi
benissimo, disse; che il Galantino non sia straniero a questa
faccenda, ma io non so nulla; e dicendo questo si capiva troppo bene
ch'ei sapeva tutto, ma gli era stato ingiunto di tacere. Intanto,
appena m'ebbe lasciata alla porta di questa stanza, si recò
dal capitano per annunziare il mio arrivo, e presto sarà di
ritorno. Ora ditemi voi in che consiste questo mistero.
Donna
Paola tornò a guardar fissamente la contessa; poscia,
prendendola per mano, le disse affettuosamente :
Sedete e ascoltate;... e, prima ch'io parli, fatemi una promessa.
Che promessa?
Di non tacere il vero, di non mentire (perdonatemi questa parola), di
confessar tutto, quando pure si trattasse di cosa, che, a
pronunciarla, vi dovesse abbruciare la lingua.
Ma parlate, in nome del cielo; voi mi spaventate. Di che dunque si
tratta?... Io non conosco fatto nessuno che possa recar tali effetti.
E
qui donna Paola, con voce bassa, manifestò alla contessa la
deposizione del Galantino.
Donna
Paola, proferita ch'ebbe la trista parola, avvezza a leggere nei
repentini guizzi del volto quel che passava nell'animo altrui,
allorchè la contessa balzò in piedi saettando lei d'uno
sguardo che dell'orgoglio offeso avea persino la ferocia; d'uno
sguardo che, incredibile a dirsi, esprimeva quasi un iracondo
disprezzo per lei medesima; d'uno sguardo che sembrava persino
minacciare un atto violento; si alzò di colpo, tanto si tenne
sicura dell'innocenza della contessa, le buttò le braccia al
collo, la baciò e la ribaciò in volto, poi disse:
Che voi siate mille volte benedetta, cara la mia donna, ho avuto
torto di credere a una tale accusa, or vogliate perdonarmi. Ma, pur
troppo, dovevo parlar chiaro e così.
La
contessa si buttò allora a sedere, come spossata. Successe un
lungo silenzio... Cadevano intanto le lagrime a dirotta sulle pallide
guancie della contessa, che il suo labbro convulso beveva, quasi a
tentar di nasconderle. E donna Paola s'era volta altrove per non
turbare quel profondissimo dolore... e quando macchinalmente prese e
aprì un libro, ne bagnò le pagine di due grosse lagrime
repentinamente sgorgate anche a lei.
In
questa fu bussato alla porta, e, senz'attender altro, entrò un
vecchietto colla zazzera del tempo del senator Filicaja e con una
giubba stata già rossa color fuoco, ma pel lavoro degli anni
diventata color zenzuino. Egli, senza cavarsi il cappellino a tre
punte e appoggiato alla canna d'India, come stesse in casa propria o
sulla pubblica via:
Buone nuove, donna Paola, disse, buone nuove!
Era
l'avvocato Agudio, il patrocinatore officioso del figlio della
Baroggi. Uomo burbero, bisbetico, cinico, ma galantuomo, una specie
di Paletta applicato al ceto legale. Rigido di una rettitudine
insolita, che traeva all'ideale e si spingeva fino al cavillo;
affettava trascuratezza di tutte le convenienze sociali, andando in
ciò fino alla caricatura ed alle aperte lesioni del più
dozzinale galateo. Vestiva male e all'antica, quasi ad attestar
disprezzo al tempo che correva; magro, sano, forte, come se fosse
d'acciajo, era di una operosità prodigiosa; tenace del suo
proposito fino ad esser caparbio, inasprito inoltre da quel demonio
interno che si chiama spirito di contraddizione, faceva paura al
Collegio dei dottori, al Pretorio, al Capitano di giustizia, al
Senato medesimo, che aveva in esso un controllore indomabile; e
siccome a tali qualità congiungeva una gran dottrina
giuridica, così era il più riputato e temuto del fòro
milanese.
Alla
sua improvvisa comparsa, la contessa Clelia balzò in piedi, e
vergognosa delle proprie lagrime, si ritrasse in un'altra camera.
Donna
Paola Pietra si volse e vide lui che ripeteva:
Buone nuove!!...
Buone nuove davvero? chiese donna Paola.
Buone vi dico.
Or raccontate e sedete...
Non ho tempo da perdere, e vo via subito; uno de' miei giovani di
studio, che ha trovato il modo di essere astuto insieme e onesto, s'è
messo al punto di far saltar fuori la verità, perchè
dice d'averlo veduto egli stesso, il Galantino all'albergo dei Tre
Re, precisamente un giorno della settimana grassa, quantunque non
sappia giurarlo. Però l'altro jeri andò a mangiare un
boccone a quell'albergo e là, d'una in altra parola ebbe il
piacere di sentire confermato il suo sospetto da un cameriere.
Questo cameriere venne da me stamattina e ripetè quanto avea
detto al giovane di studio... Ben è vero che, allorquando gli
domandai s'ei sarebbe disposto a ridire le stesse cose al signor
capitano di giustizia, parve tentennare e voler ritirarsi... Ma la
fortuna ha voluto ch'egli nominasse un altro cameriere, il quale per
combinazione cangiò in questi giorni osteria e città,
ed è andato a Cremona; lo nominò dicendo che colui
aveva giuocato in una di quelle notti col Galantino, e siccome era
amicissimo del lacchè così avrebbe facilmente saputo
ogni affar suo... Intanto il cameriere di qui sarà sentito
oggi stesso dal capitano... Spero che non saprà ritrattarsi,
perch'io gli ho fatto paura, mettendogli innanzi tutte le conseguenze
del non dire la verità... Egli è bensì a
considerare che la sola sua testimonianza non basta all'intento... Ma
ho mandato or ora a Cremona il giovane di studio, e ritornerà,
spero, col cameriere che passò in quel luogo... Se i due vanno
d'accordo... la volpe è presa... e il Senato dovrà
decretare la tortura... Sino a questo punto, per verità, non
si verificarono gli estremi, ed il senator Verri, che conosce il
diritto, ha messo a tacere, com'io seppi, il senator Morosini che
vorrebbe cominciar sempre dalla tortura, tanto ci si guazza dentro...
e il Verri ha tirato dalla sua tutti gli altri, perchè la sua
chiacchiera quando ha preso il vento è una tempesta che dove
tocca lascia il segno. Bensì il Morosini tentò rifarsi
producendo casi criminali a dozzine in cui la tortura venne inflitta
anche senza quegli estremi dai quali il Verri non decampa, e il Verri
a ripetere che gli errori passati non devono essere esempio a nuovi
errori, e qui ha ragione, ma sibbene un salutar avviso per scansarli.
E intanto c'è un altro fatto, di cui la città è
piena. Sentite, che questa è nuova, e giudicate voi... È
un avviso a stampa su tutti gli angoli della città, col quale
il maggiordomo di casa Morosini invita il proprietario di un rotolo
di cento zecchini veneti stati mandati all'indirizzo del senatore, a
voler rimandarli a pigliare. La folla è stipata a tutti i
canti e chi ne dice una e chi un'altra... Il Morosini, se non è
un gran giureconsulto, è un furbo matricolato... e... odia
tutti i suoi colleghi, segnatamente il Verri, e... voi già
capite dove va a parar la cosa. Or io vo, e voi state di buon animo e
dite lì alla... (e qui fece un lezio curioso accennando la
porta della camera per cui la contessa era dileguata) che dopo il
temporale viene il sereno... È ben la contessa V.... non è
vero? soggiunse poi subito.
Sì, la contessa, arrivata or ora da Venezia.
Povera donna, è la vittima di un assurdo arbitrio... Ma lo
studio fu di gettar la polvere negli occhi, e di rivolgere
l'attenzione altrove... Però non ci riusciranno. No, non ci
riusciranno... Far venir con violenza una persona che sta altrove di
pien diritto, perchè un ladro briccone inventa una frottola a
suo danno... e pazienza avesse detto, il ladro bugiardo, d'aver visto
egli stesso, d'essere stato testimonio, mezzano, che so io... Ma no,
tutt'altro... Ora basta... la verità dee balzar fuori...
Intanto buon dì e buon anno e l'avvocato Agudio uscì.
Quando
l'avvocato attraversò il cortile, incontrossi nel luogotenente
del Pretorio che tornava dal palazzo del Capitano di giustizia.
Questi
lo inchinò con atto di profonda devozione, esclamando:
Signor avvocato, i miei rispetti...
Oh addio... non ti conoscevo... Or dove sei tu?
Luogotenente di Pretorio al confine.
Bravo, ma cosa fai qui?
Ho accompagnato a Milano l'illustrissima signora contessa V..., ed
ora, per commissione dell'egregio signor capitano di giustizia, vengo
a portarle l'ordine scritto di recarsi domani per essere sentita in
giudizio... E stasera torno donde sono venuto... Presto poi spero di
venir traslocato a Milano... Mi conservi la sua protezione...
Addio... E l'avvocato uscì sulla via, e attraversata la piazza
Borromeo e santa Maria Podone, se ne venne al Broletto, al Cordusio e
alla piazza de' Mercanti, salutato per via rispettosamente da
molte persone di cappa e di spada, come suol dirsi, ai quali egli non
corrispondeva che il più confidenziale saluto, e tirava via
parlando fra sè e borbottando tra' denti.
Quando
fu in piazza de' Mercanti, la folla non era scemata innanzi ad uno
de' pilastroni del palazzo, in oggi dell'Archivio, sul quale era
impastato l'avviso firmato dal maggiordomo di casa Morosini,
che diceva così:
«Il
sottoscritto, d'ordine dell'illustrissimo senatore Morosini, suo
padrone, invita il proprietario di un rotolo di cento zecchini veneti
mandati, certo in isbaglio, all'indirizzo del sullodato suo padrone,
a voler recarsi dalle ore 12 alle ore 3 nello studio della casa per
ritirare il detto rotolo.
«Milano,
di casa Morosini, 28 maggio 1750.»
L'avvocato
si fermò perchè si dilettava dei discorsi del pubblico.
Credi, tu che sia stato per isbaglio? diceva un giovinotto ad un
altro.
Se è stato uno sbaglio, certo che non è stato l'unico,
e usciranno altri avvisi.
Può bastare anche un solo, diceva un terzo. Ma invece del
maggiordomo di casa Morosini dovrà sottoscriversi il custode
del palazzo del Senato.
Non ti capisco...
Oh bella... Vuoi tu che chi ha fatto il dono sia così dolce da
credere che possa bastare l'aver pensato a un senatore solo?...
Poteva anche bastare... giacchè si trattava di rompere il
sasso più duro...
Io per me credo che non usciranno altri avvisi. Intanto l'affar si fa
serio... e comincio a dire che il conte F... ha perduto la
prudenza...
Che prudenza! è moribondo... eppoi non si può dire...
Che?... bisognerebbe esser orbi... od esser qualcuno di coloro che
hanno l'obbligo di veder più degli altri... Altro che
fandonie, amico caro!
L'avvocato
si partì ghignando e proferendo tra sè e sè:
Sciocchi, i quali credete di menar il mondo per il naso... costui
v'ha già letto in fondo all'anima... però a
rivederci al sabato; ed entrò sono i portici del nobile
Collegio dei giureconsulti.
VI
Com'è
facile a credere, il pubblico, che, nel caso nostro, era
l'aggregato di tutti coloro i quali non aveano parte veruna nella
magistratura e molto meno nella giudiziaria, e che senza nessuno
studio preparatorio, nè teorie discusse, procedeva avanti
coraggioso nel giudizio delle cose colla sola guida del senso comune,
erasi fatto un concetto a modo suo dei fatti che abbiamo raccontati e
delle conseguenti tesi criminali; e, cosa strana, il concetto del
pubblico riuscì precisamente la camicia del vero. Vogliamo
dire che esso opinava per la reità del Galantino, come opinava
per la reità del conte F...; anzi, quando mai avesse dovuto
essere indulgente con uno dei due, propendeva piuttosto a favore del
primo che del secondo; in quanto poi all'accusa che il lacchè
avea gettata contro la contessa, mentre e capitano e vicario e
attuario e auditori e assessori e senatori, a primo colpo ne furono
influenzati al punto da ammetterla, e in conseguenza da trovar
necessario il sentir di presenza la contessa in giudizio; il
pubblico, vogliamo dire la maggioranza, non credette nulla affatto;
chè il senso comune rifiutavasi a vedere tresche amorose là
dove correva un divario di più che trent'anni d'età,
tresche venali dove la ricchezza era pareggiata, tresche turpissime
dove, cessa anche la fragilità umana, era però
innegabile l'ottima fama della contessa, l'ottima fama del casato
cospicuo a cui apparteneva, l'educazione avuta, la specialità
sublime degli studj fatti. Però quelle ragioni medesime per
cui il pubblico non avea sospettato mai che Amorevoli si fosse
trovato nel giardino per lei, tornarono a ricomparire, quasi
indignate della prima sconfitta, a ricomparire per difendere
fervorosamente la sventurata contessa, e per isparlare con iracondia
del procedere della giustizia.
E
c'è di più, che al pubblico si confederò per la
prima volta, nel desiderio di difendere la contessa, indovinate chi?
tutte le donne più o meno cattive, più o meno giovani,
più o meno belle del ceto patrizio e anche del ceto solamente
ricco, che un tempo erano sempre state le naturali nemiche della
superba contessa. Fu una specie di diserzione inattesa, un cambiar
repentino di propositi e d'opinioni, un mettersi tutti da un lato a
protestare in favor suo, e in modo di far salire in orgoglio coloro
che hanno buon concetto dell'indole femminina.
Donna
Paola che, nel tempo dell'assenza della contessa, mediatore il
giovane Parini, era andata a visitare la madre di lei, partiti che
furono per Venezia il conte V... e il conte fratello, credette bene,
qualche ora dopo l'arrivo di donna Clelia, di rinnovar la visita alla
contessa madre, e d'invitarla a venire ad abbracciar la figlia per
confortarla. Molte dame trovavansi per caso colà... e tutte
furono intorno alla contessa madre, la quale, nei dì della
fuga e dell'assenza di donna Clelia, avea protestato di non voler mai
più riconoscerla per sua figlia; tutte adunque le furono
intorno per supplicarla a cedere alle preghiere di donna Paola. Che
più!.... talune espressero persino un desiderio vivissimo
d'andare a far visita alla fuggitiva ripatriata.
In
quel giorno adunque madre e figlia si riabbracciarono; in quel giorno
la contessa del Grillo andò a far visita a donna Clelia, e le
rasciugò il pianto e la consolò riferendole quel che si
diceva di lei per la città, e come avesse mille difensori, ed
esortandola a star lieta. E donna Clelia infatti, se non lieta,
almeno placida, dormì la notte; e soltanto quando si risvegliò
fu percossa acerbissimamente dal pensiero che in quel giorno doveva
comparire innanzi al Capitano di giustizia.
È
un pregiudizio e un errore della mente, ma i luoghi dove si
amministra la giustizia criminale incutono un vago sgomento anche
nelle persone più intemerate, se per caso son esse chiamate a
presentarsi ai giudici, sia pure per una semplice testimonianza, per
un'informazione di poco conto, fin anco pel proprio vantaggio. Se
dunque la contessa Clelia non potea sopportare il pensiero di doversi
presentare al Capitano di giustizia per un'accusa e una presunzione
gravissima, quantunque ella si sentisse innocente, la cosa è
ragionevole. Confortata però dal reintegrato amore della
contessa madre, sostenuta da donna Paola, si ricompose, e pensò
ad assumere quel contegno che dovesse comandare alla sua volta un
gran rispetto ai giudici medesimi.
Verso
mezzodì la contessa madre le mandò un carrozzone di
casa. Di concerto coll'illustrissimo marchese Recalcati, erasi
stabilito che donna Paola avrebbe accompagnata la contessa, e
l'avrebbe assistita di presenza anche nella sala degli interrogatorj.
Partirono dunque di casa e l'una e l'altra poco dopo il mezzogiorno,
e presto il carrozzone entrò nel cortile del Palazzo di
Giustizia. La livrea pavonazza coi galloni gialli del cocchiere e dei
due servitori, fece tosto conoscere a quanti trovavansi colà
ch'era la carrozza di casa A..., chè la stessa donna Paola
avea consigliata quella specie di pubblicità fastosa, perchè
in simile circostanza doveva riuscire assai significante.
Il
capitano marchese Recalcati, che stava in aspettazione di esse,
quando sentì il loro arrivo, credette bene di uscire insieme
col vicario e cogli assessori a riceverle in capo allo scalone. Era
una degnazione insolita, ma che all'ottimo Recalcati era stata
suggerita dalla specialità del caso, e, dopo i discorsi tenuti
con donna Paola e le pubbliche dicerie pervenutegli all'orecchio,
dalla persuasione che la contessa meritava il suo rispetto più
che la sua severità. Dopo que' primi atti di ricevimento, ai
quali però non fu straniero un certo sussiego di cerimoniale
tutt'altro che adatto a mettere altri di buon umore, le signore
furono fatte entrare in una sala, nella quale comparvero poco dopo il
capitano, il vicario, un attuario, due auditori e due assessori,
ponendosi a sedere presso una gran tavola coperta dal tappeto verde e
su cui stava una croce d'ebano col Cristo d'avorio. I due assessori,
pregando la contessa ad accostarsi, essi medesimi le portarono il
seggiolone a bracciuoli.
Donna
Clelia era vestita con austera semplicità, per quanto poteva
esser permesso dalle foggie del tempo. Quand'ella si mosse tenendo
dietro agli assessori che le portavano il seggiolone, la severissima
regolarità del suo volto, fatta allora più grave dalla
condizione dell'animo, la fronte che, per l'azione dell'orgoglio
offeso, le si aggrondava in quel punto, raccostandole i neri
sopraccigli al vertice del suo naso romano, i labbri e il mento che,
modificati dai muscoli in soprassalto, parvero assumere
fuggitivamente il disegno della bocca e del mento del giovane
Bonaparte cogitabondo e cupo; tutto ciò, anzi che farla
credere una donna chiamata a rispondere in tribunale, le avea
comunicato l'aspetto della istessa dea Temide convenzionale,
persuadente col severo simulacro l'inesorabile giustizia.
Quando
la contessa fu seduta, l'attuario, dopo avere scorse alcune carte e
guardato con significazione in faccia all'illustrissimo signor
capitano, quasi a dire, siamo a tempo? incominciò
l'interrogatorio dal consueto punto di partenza, domandando cioè
alla contessa se ella sapeva la cagione per cui era stata citata in
giudizio.
La cagione, rispose donna Clelia, l'ho saputa ieri dalla venerabil
donna Paola qui presente, ed è tale che mai non avrebbe potuto
esser materia di una congettura a chiunque non sia offeso nella
mente.
(Dal
costituto che abbiam sott'occhio crediamo bene trascrivere le precise
parole pronunciate dalla contessa, le quali, per una nota apposta in
calce dall'attuaro signor Bignami, siamo avvertiti essersi voluto
trasportarle e conservarle per intero nel processo verbale.)
Dopo
quell'esordio, rivoltasi la contessa al signor capitano:
Or io domando a vostra signoria illustrissima, soggiunse, se mi dà
licenza di parlare con libertà.
Il
capitano con atto benevolo accennò che dicesse. Allora la
contessa incominciò; e un auditore, intinta la penna nel
calamajo, si mise a scrivere come sotto dettatura.
Più vo pensando al fatto per cui sono qui, disse la contessa,
meno so farmi capace delle cagioni che possono avere spinto questo
tribunale a credere, anche per un momento, alle deposizioni infondate
di un costituito notoriamente malvagio, già più volte
venuto nelle mani della giustizia e più volte, credo, punito.
L'illustrissimo
signor capitano interruppe a tal punto la contessa. dimostrando come
la deposizione a cui essa alludeva non aveva già ottenuta
fede, ma bensì aveva costretta la giustizia a non trascurare
nemmeno quel filo, per quanto potesse parere assurdo, trattandosi di
una causa della più grande e delicata importanza.
Di nuovo mi trovo costretta, replicò allora la contessa, a
domandare se mi si dà licenza di continuare a parlar con
libertà.
E
di nuovo accennatole dal capitano affermativamente:
Io non mi lagno, continuò la contessa, che la giustizia abbia
fatto quel che doveva fare; mi lamento bensì che nell'intento
di rintracciare il capo di quel filo assurdo che venne messo fuori
dal costituito Suardi, siasi incominciato di là dove, al
peggio, avrebbesi dovuto finire. Comprendo assai bene quanto possano
parere e siano ardite e, ciò che più monta,
intempestive e dannose le parole di chi, invitato a difendersi in
giudizio, vuol farsi censore dell'autorità; ma ci sono tali
ingiurie, che, da qualunque parte vengano, non è permesso non
respingerle con coraggio. La colpa di che obliquamente mi si vuole
imputare, e che in uomini gravissimi e sapienti come voi potè
pure prendere stanza, è di tale natura che ogni prudenza si
ribella; e l'onestà, crudamente offesa, si rivolta iraconda
non solo contro l'accusatore, ma anche contro chi ha potuto credere
all'accusa, e così procedere di conformità... Questa è
forse la prima volta che da chi sta al mio posto è tenuto un
linguaggio di tal natura a chi sta al vostro, ma io confido che
l'illustrissimo capitano vorrà tener conto della specialissima
condizione in cui mi trovo.
Vi ho lasciato parlare, contessa, prese a dire allora il capitano,
perchè ve ne avevo dato licenza, e perchè è a
tener conto della condizion vostra appunto. Ma la giustizia non può
avere de' speciali riguardi per nessuno, nemmeno per l'innocenza,
fosse pur veduta con certezza, quando da circostanze
eccezionali è tratta a comparire come rea convenuta innanzi
alla legge. Però la signoria vostra or si compiaccia di
rispondere alle domande che le farà l'attuaro, per rispondere
alle quali era necessario, illustrissima contessa, la vostra
presenza; onde l'autorità non poteva operare diversamente da
quel che ha fatto. Del resto, sia un attestato codesto della buona
stima che si ha di voi, illustrissima contessa, se l'autorità
medesima si degna di venire alla giustificazione de' proprj atti.
La
contessa si rimise in calma, e:
Vi ringrazio, disse, eccellentissimo signor capitano, di questa
degnazione.
Qui
ci fu un po' di pausa.... indi l'attuaro continuò:
L'illustrissima signora contessa ha conosciuto il defunto marchese
F...?
L'ho conosciuto ... ma, quasi potrei dire, soltanto di nome e di
vista... dico quasi, perchè a una festa in casa Borromeo, tre
anni fa, esso mi rivolse la parola, ed io di conformità gli
risposi... e d'allora in poi, se l'ho visto spesse volte e spesse
volte ho risposto al suo saluto stando in carrozza al corso della
strada Marina, non gli ho parlato mai più, nè mi sono
trovata mai con lui nè tanto nè poco nè punto.
L'auditore
allora chiese alla contessa: quale a suo giudizio, doveva essere la
cagione per la quale il costituito Suardi fu tentato di scaricare su
di essa la colpa ond'egli era imputato.
Nella lettera che scrissi alla venerabile donna Paola qui presente, e
che so essere stata deposta nelle mani delle signorie vostre, mi pare
risulti evidente la cagione per cui il costituito Suardi ha messo
innanzi il mio nome. È questa una cagione di vendetta e di
rappresaglia, come suol dirsi. La sua cattura essendo avvenuta subito
dopo la visita ch'egli venne a farmi, per indurmi con impudenza
inaudita quasi a rendermi complice dell'insidia in cui egli stava per
trarre una inesperta fanciulla veneziana di casato patrizio, ch'io
per avventura potei giungere in tempo a salvare dalle scellerate sue
mani; dovette necessariamente fargli credere che l'accusa potesse
essere venuta da me, essendosi egli smarrito contro la natura sua, e
avendo perduto la sfrontatezza e l'audacia quand'io, con sua
sorpresa, gli toccai del sospetto che si aveva di lui pel fatto del
defunto marchese. Chiunque avesse osservata la faccia di quel
ribaldo, quando io lo colpii all'impensata, non potrebbe oggi
dubitare nemmen per ombra della sua reità... Per tutte le
quali cose persuaso il costituito Suardi che da me gli sia venuto il
colpo, ha voluto vendicarsi e, ingegnosissimo qual è e
astutissimo, ha saputo sì ben fare e sì ben dire, ch'è
riuscito a trarre in inganno anche voi. Del rimanente, quand'io
scrissi quella lettera alla venerabile donna Paola, la pregai di non
farne motto con veruno, perch'io non intendevo di farmi accusatrice
di nessuno al mondo, nemmen de' ribaldi; ma ella, che ha più
sapienza di me, ha pensato che, quando l'indulgenza verso i tristi
torna a danno, e a gravissimo danno di sventurati innocenti, tosto si
converte in colpa; e però di quella mia lettera fece un atto
d'accusa.... accusa che oggi maturatamente io rinnovo, supplicando
l'alta giustizia di questo tribunale a non intralasciare indagine
nessuna, a non fermarsi alle ingannevoli apparenze, a inseguire il
vero con insistenza, perchè trattasi di un povero fanciullo
derelitto, trattasi di una sventuratissima donna lasciata nella
miseria a macerarsi della colpa altrui. Il testamento fu dettato dal
notajo Macchi, e scritto dal defunto, e deposto fra le sue carte più
preziose; jeri la contessa del Grillo mi assicurava di ciò,
avendone parlato collo stesso notajo. De' riguardi troppo giusti alla
fama di famiglie cospicue possono far peritosa la giustizia nel
frugare colà dove precisamente dev'essersi appiattata la
colpa... Ma testè, con sapienza, l'illustrissimo signor
capitano dicevami che nemmen l'innocenza può lasciarsi in
riposo quando da fatti eccezionali è chiamata siccome rea
convenuta innanzi alla legge: tant'è vero ch'io sono qui...
Per tutte le quali cose codesto tribunale voglia provvedere,
nell'alta sua saviezza, perchè la giustizia abbia l'intero suo
corso. Al qual fine io sono qui sempre disposta a dar ragione d'ogni
mio fatto... Dirò di più, tanto sono persuasa di poter
essere utile a degli sventurati, che io sono disposta, giacchè
ho superato il primo ribrezzo di venire a questi scanni, a sopportare
la vista del costituito lacchè... Io porto opinione che la mia
presenza e le mie parole e la ricordanza de' fatti avvenuti gli
faranno smarrire l'audacia, e la verità balzerà fuori.
E
la contessa tacque in mezzo al silenzio de' giudici.
VII
Ella,
vedendo che l'auditore scrivente aveva deposta la penna, aspettava di
essere di nuovo interrogata dall'attuaro. Ma questo invece si fece
dare il processo verbale, e lo passò all'illustrissimo signor
capitano, il quale, dopo averlo letto attentamente, si alzò e
così disse alla contessa :
Il tribunale ha compiuto l'ufficio; dolente per un lato di avervi
sottoposta a gravi disturbi, felice per l'altro di aver consolato
queste aule dove risuona di continuo la voce della colpa, d'averle
consolate, dico, colla vostra presenza, colla vostra coraggiosa
franchezza, coi vostri savj ragionamenti, colle vostre calde
preghiere. Spero che vi sarete fatta capace della necessità
che si aveva di sentirvi in giudizio di presenza. Se il vostro senno
e le vostre fervide sollecitazioni potranno far sì che la
giustizia, per quanto spontaneamente solerte, pure accresca il suo
zelo, e, messa in guardia dai vostri consigli, scopra il lato giusto
e sorprenda il varco che mette alla scoperta della verità, voi
stessa dovrete ringraziare l'eccellentissimo nostro Senato se da
Venezia vi ha obbligata a venire tra noi.
Così
dicendo, si mosse dalla seggiola, si accostò a quella dove
stava donna Clelia, le porse il braccio a sorgere, e insieme con lei
venne a donna Paola, la quale strinse affettuosamente la mano alla
contessa.
Così
e l'una e l'altra furono accompagnate fino al capo dello scalone,
dove il signor capitano marchese Recalcati, con un profondo inchino,
le lasciò. E donna Clelia, che nel punto in cui la carrozza
entrò nel palazzo s'era sentita a coprire il cuore per
ribrezzo, provò in quel momento una soddisfazione insolita,
una compiacenza, di cui da molto tempo non aveva provata l'eguale.
Così avviene spesso nelle cose di questo mondo; e in quel modo
che dagli indizj di felicità scaturisce talvolta l'affanno, le
paurose aspettazioni si convertono sovente in occasioni di contento.
Intanto uno de' servi, già salito con esse, discese a far
venire la carrozza ai pie' dello scalone e a tener aperto lo
sportello. Le donne salirono, adocchiate da cento curiosi che s'erano
affollati lì presso; e tosto lo scalino fu ripiegato con
rumore, lo sportello si richiuse con solennità, il servitore
salì a far compagnia al collega. Il cocchiere sollecitò
i cavalli, e di rumor di ruote e di scalpiti risuonò tutto il
palazzo all'uscire del carrozzone patrizio.
Ma
quello non era giunto in piazza fontana, che tosto svoltò nel
cortile un altro carrozzone non patrizio, ma che era un
rappresentante legittimo del popolo; un carrozzone da nolo, dalla
cassetta del quale, dove s'era assiso baldanzosamente insieme al
cocchiere, discese un domestico colle gambe arcuate, portante una
livrea azzurra passamantata di rosso fuoco, la quale gli scendeva
fino ai piedi, ad attestare come essa, senza fargli carico della
statura, apparteneva, nè più nè meno del
carrozzone, a tutto il rispettabile pubblico pagante.
E
il domestico disceso ad aprir la portiera era nientemeno che l'amico
Zampino del teatrino Ducale, e la signora che ne uscì era la
ballerina Gaudenzi, a cui tenne dietro l'indispensabile zia.
Alla
celebre danzatrice trattenutasi a Milano con permesso scritto e
sottoscritto dagl'ispettori del teatro di san Moisè di
Venezia, scadeva in quel dì appunto il termine estremo, onde
il giorno dopo doveva partire per Venezia. Ella veniva a trovare il
signor Lorenzo Bruni, che stava adempiendo alla sua quarantena là
dentro, e raccomandato dal ministro governatore, vi era anche
ben trattato, avuto riguardo alla qualità della locanda.
Quelle visite della Gaudenzi si rinnovavano spesso, e siccome essa
largheggiava di mancie a dritta e a sinistra, così accorse il
custode del palazzo appena ella discese; accorsero gli uscieri appena
ella salì; accorsero i secondini appena ella si mostrò
all'anticamera del signor carceriere in capo. Ed or lasciamola andare
al suo destino, chè la raggiungeremo tra poco.
Nel
cortile trovavasi contemporaneamente una mano di giovinotti
buontemponi, con cui ci siam già affiatati altra volta al
caffè del Greco, ci pare al mercoledì grasso; e che, se
non è assolutamente necessario, non è nemmeno tempo
gettato a sentirli anch'essi, e tanto più che ci troviamo
avere a' nostri comodi un quarticello di ricreazione.
Era
dunque la solita compagnia del caffè del Greco, trascinata
dall'ozio e dalla curiosità fino al Capitano di Giustizia per
appurare le notizie del giorno indietro e per raccogliere quelle
della giornata, un po' tempestando il custode, un po' qualche usciere
che per caso discendesse; un po' qualche assessore, o auditore, o
notajo, o scrivano amico. Tra quella schiera di buontemponi felici,
si trovava, già s'intende, anzi stava a capo di tutti, quel
chiacchierone indomabile che già vedemmo seduto colla paletta
in mano al braciere d'inverno del caffè.
Ma sapete che è una giornata curiosa questa! (era esso che
parlava). Il palazzo del Capitano di giustizia ha cambiato faccia...
e se la va innanzi di tal passo, il teatrino si trasloca qui.
Carrozzoni con tre livree, contesse in gran gala, conti e contini e
baroncini e marchesini che passeggiano su e giù per gli atri e
per le scale. (Erano infatti i nobili praticanti e i patrocinatori
dei carcerati). Per ultimo ballerine col carrozzone del teatro... è
qui Zampino in persona, Zampino in livrea... Sta a vedere che fra
poco questo cortile sarà la platea, e le celle dei detenuti
saranno i palchetti. Ma va benissimo così. È assai
meglio che il palazzo di Giustizia metta il parrucchino e il belletto
e diventi allegro come il palco scenico di quello che presentano le
tragedie asmatiche di Corneille; men male quelle di Racine, il quale
par che faccia il disperato o pianga per diporto, tanto è
calcolato in tutto, onde si direbbe che paga il fiaschetto delle
lagrime un tanto all'oncia.
Ma cosa fai qui, Zampino, e come puoi abbandonare il teatro?
Meglio servitore di carrozza, che servitore di palco scenico, quando
non è stagione di carnevale. Allora gli artisti son tutti di
cartello, e pagano senza contare... Adesso sono straccioni che non
han di proprio nemmen le maglie; perciò di giorno servo il
carrozzone del comune e conduco in giro i forestieri... Men male però
stavolta che s'è fermata a Milano... questa cara bionda, la
quale non guarda pel sottile... e insieme coi denari vien anche roba
e cibo e vino... Ah... questa ragazza e il signor Amorevoli, per far
star bene chi li serve, non c'è chi li somigli.
A proposito, che è avvenuto del tenore?...
È a Venezia... ed or sa Dio quando tornerà, perchè
quando un tenore di quella vaglia, piglia il volo, chi può
sapere dove andrà a finire? Inviti di qua, inviti di là,
se poi vanno alla Corte di Francia, o alla Corte di Spagna, o alla
Corte di Vienna... a rivederci all'altro mondo... E dire che m'aveva
promesso di condurmi con lui... perchè gli piaceva il mio
servizio... ma... È stato un tal diavolo a quattro questo
carnovale passato, con tante disgrazie... che... basta!... Ora son
qui.
Povero Zampino, e cosa viene a fare in questi luoghi la tua bionda?
Bella domanda! a trovar il signor Bruni, il violino di spalla... e lo
sposerà, appena uscirà all'aperto. Sì, signori.
Così rimarranno con tanto di naso quei cari cicisbei
spasimanti che credevano abbagliarla collo specchietto degli anelli
di brillante e coi titoloni; e va benissimo, e mi fanno ridere questi
ruba occhiate... Ma il signor Bruni è un altro galantuomo che
paga bene.... e che è quel che si direbbe una mosca bianca fra
i suonatori... bollettoni eterni che portano in deposito al
pignoratario persino il contrabasso e il corno quando non c'è
teatro, e non sono chiamati a far baldoria a qualche festa di chiesa
di campagna.
Tutta
la brigata volle smascellarsi dal ridere a codesta espansione
furibonda del nano Zampino contro gli stracci teatrali; ma vedendo
che scendeva dallo scalone un auditore, il quale era uno degli amici,
furon tutti colà a tempestarlo di domande:
E così? non si sa nulla della contessa che fu lasciata partire
com'è entrata?
E che diavolo! volevate che le si mettessero le manette come a un
borsaiuolo?
Chi ha mai pensato e detto questo? entrava lesto il chiacchierone; io
anzi ho sempre detto che a mandar a prender la contessa per forza, la
giustizia avrebbe fatto un buco nell'acqua.
E se non la si fosse mandata a pigliare, avreste detto che erano i
soliti riguardi paurosi che l'autorità ha verso i titolati.
E voi altri dottoroni della legge, per far vedere che siete uomini
integerrimi, avete cominciato a dar prova d'imparzialità
precisamente dove non occorreva... Così siete caduti dalla
padella nella brace!
Che brace e che padella?
Brace e padella, sì... Prima si poteva dire che eravate
maligni ma acuti, oggi si può dire che siete galantuomini ma
balordi... Ma già è un destino che non abbiate a
imbroccarne mai una.
Taci, taci, buontempone... che se il mondo dovesse regolarsi a
chiacchiere.... tu saresti il Giove in cipria; fortuna che ti si
lascia dire e dire... e chi deve fare fa, senza il tuo parere...
E per questo le cose camminano come camminano; piuttosto è che
ad un bisogno sapete essere e bricconi e balordi così
si pigliano più piccioni a un favo... bravissimi! e mentre
s'importuna la Repubblica di Venezia per importunare la contessa che
stava benissimo là col suo bel tenore... qui non si pensa che
il conte F... è il fratello del marchese; e che, data pure per
assurda e impossibile la presunzione, sentirlo in giudizio, bisognava
ben sentirlo... Ma invece... se il conte F... fosse morto da cento
anni non si potrebbe dimenticarlo meglio...
E puoi tu dire di sapere quel che si farà?
Che cosa so io?... Quand'anche si finisse coll'impiccarlo, la
giustizia avrebbe sempre il torto di avere aspettato troppo tardi...
E poi che bel merito... Di qui soffia uno e discopre gli altarini, di
là l'avvocato Agudio spicca un libello e mette sossopra la
città, e cerca e trova testimonj. Capisco anch'io che a questo
modo, a calci nel sedere, dee camminar la giustizia anche a Milano...
Oh ci vuol proprio un gran merito...
Ma intanto il cameriere dei Tre Re....
Che cameriere?
Diavolo, tu che sai tutto... non sai che il testimonio ingaggiato
dall'avvocato Agudio è il cameriere dei Tre Re? e domani sarà
messo agli interrogatorj un altro cameriere che si mandò a
pigliare fino a Cremona?
Oh ora va bene... e questo primo cameriere?...
Fu messo alle strette... e disse che il lacchè Suardi
trovavasi in Milano e bazzicò più volte all'albergo
nella settimana grassa. Questo basta perchè il Galantino sia
trovato in mendacio... basta, cioè, sino ad un certo segno...
perchè poi c'è un altro guajo...
Che guajo?
Che nel punto in cui il cameriere doveva confermar tutto con
giuramento, ei fece di tratto un gran passo indietro e protestò
che la memoria poteva forse ingannarlo... e in ogni modo non sapea
risolversi a giurare a danno altrui... e qui non c'è nè
che dire nè che fare... Ma domani si sentirà l'altro...
e se mai parlasse come questo... e per soprappiù giurasse...
e, messo in confronto col Galantino... Basta, vedremo... Ora tu
continua a dire che noi vogliamo chiuder la porta al vero, e tener
mano a' birbanti. Il contrattempo sai tu piuttosto in che consiste?
consiste in ciò che il conte F... è a malissimo
partito. Ma voi... mi fate perder tempo, mentre sono aspettato in
Pretorio. Addio, buone lane.
E
l'auditore partì, e la brigata, salutato il Zampino, se ne
andò, indovinate dove?... verso le parti di Santa Maria
Podone, per raccogliere notizie intorno alla salute del conte F... Ma
non avevan voltato il canto di Santa Maria Fulcorina, che sentirono a
qualche distanza i suoni intermittenti di un campanello scosso a
mano, una voce acuta che spiccava nel silenzio, per esser tosto
seguita dal rumore di cento voci. Sancta Maria, acclamava la
voce bianca; ora pro eo, rispondeano le altre in sordo
brontolìo. E il campanello intercalavasi a quelle voci: Salus
infirmorum, ora pro eo Refugium peccatorum, ora pro eo
Consolatrix afflictorum, ora pro eo... e così
finchè i nostri compagni giunsero in veduta del santissimo
Viatico, il quale entrò nel portone di casa F...
Si vede che il conte non sta benissimo di salute, disse ridendo il
più assiduo interlocutore. Ora guardate, che, allorquando un
uomo è nato sotto la protezione della ruffiana fortuna, muore
nel punto preciso che la morte è un colpo orbo alla bassetta.
Ma
per vedere in qual condizione si trovi precisamente il moribondo
conte, entriamo anche noi in casa F... insieme col Viatico.
VIII
Quello
che don Alberico avea pronosticato al maggiordomo di casa, che cioè
il dottor Gallaroli avrebbe fatto, tornando alla visita della sera,
un grande scalpore al sentire che non s'era ancor mandato a chiamare
il prete, avvenne per l'appunto.
Il
conte F..., in quelle sei o sette ore che erano passate dal consulto
al suono della campana serale, aveva peggiorato a furia; onde il
bisogno del prete erasi fatto più necessario che mai. Come
dunque montasse in collera il medico della cura, sebbene per
abitudine gioviale e cortese ed anche un po' adulatore, è
facile imaginarsi. Si trattava di spargere di sè e delle sue
osservanze religiose un'opinione favorevole, la quale lo avrebbe
ingraziato al clero in cura d'anime, certo che un medico dee
necessariamente tenersi confederato; e il dottor Gallaroli tanto più
salì sulle furie, quanto più era straordinaria e
cospicua l'occasione. Data pertanto una buona sgridata al
maggiordomo, perchè in quel momento la collera serviva al suo
intento, come altre volte la giovialità e la condiscendenza,
partì facendosi promettere obbedienza intera, e
raccomandandosi in ispecial modo, e qui cangiando tono e frasi e
faccia, a don Alberico. Non però cessarono le dispute tra
questo e il maggiordomo, dopo che il medico si fu partito. E il
Rotigno non faceva che ripetere i paralogismi sfoderati fin dal
mattino col figlio del signor conte, difendendo il suo proposito con
tanto maggiore insistenza e caparbietà, quanto più
disperava della possibilità di potervisi mantenere; anzi
l'insistenza e la caparbietà crebbe al punto che diventò
iraconda petulanza; tanto la considerazione del pericolo vicino lo
avea fatto uscire da quelle misure di rispettosa convenienza che pur
gli erano comandate dalla sua condizione e da quella di don Alberico.
Ma ciò gli partorì appunto l'effetto contrario a quello
per cui si crucciava; che don Alberico, inasprito da quella così
audace contraddizione, ordinò a' domestici che tosto andassero
a chiamare don Giacinto di Santa Maria Podone.
I
domestici di casa F... non erano mai stati i più pronti
esecutori degli ordini di don Alberico, perchè il conte padre
e il maggiordomo erano sempre stati i soli a far paura alla servitù;
ma in quel momento successe una repentina diversione. Il conte
padrone potea morire; e allora il maggiordomo, cessando a un tratto
di essere dopo di lui la persona più autorevole della casa,
doveva diventare invece il servitore devoto di don Alberico, non
rimanendo, in quanto al resto, che l'uomo il più abborrito dai
dipendenti; perchè questi, se lo avean sempre obbedito con
prontezza, lo avevano anche sempre odiato con effusione, per quelle
relazioni di sudditanza oppressa e di tirannia che intercedono quasi
sempre tra un maggiordomo e le livree d'una casa. Don Giacinto fu
dunque mandato a chiamare. Il vicario di Santa Maria Podone,
indignato di essere stato messo alla porta dal maggiordomo quando
erasi presentato a visitare il conte, non s'era più mosso, ma
sentendo peggiorar sempre le notizie della salute del conte,
aspettava di venir invitato. Quando pertanto il servo di casa fu a
dirgli, che venisse subito perchè il conte padrone stava a
malissimi termini, tosto accorse.
Il
maggiordomo, allorchè vide il prete entrar nella stanza da
letto del conte F..., provò quell'oppressione di cuore e
quello sgomento onde è assalita una moglie infedele che,
sorpresa dal marito, lo veda entrar nella stanza dove avea creduto di
poter nascondere il furtivo amante.
Don
Giacinto il quale, per una lunga abitudine al letto degli ammalati,
aveva fatto, come suol dirsi, l'occhio medico, avvistosi tosto del
massimo pericolo in cui versava il conte, senza por tempo in mezzo
gli propose la confessione, che dall'ammalato incadaverito fu
accettata.
Quando
la vecchia cameriera uscì per lasciare il padrone da solo a
solo col prete, trovò il maggiordomo che s'indugiava nella
sala vicina.
Or come sta il padrone? quegli le chiese.
Sta con don Giacinto e si confessa. Usciamo tutti di qui, e non si
lasci entrar nessuno.
Io mi fermerò, e non entrerà alcuno; disse il
maggiordomo preoccupato; e, uscita la vecchia, in prima egli si diede
a passeggiare per la camera, rallentando di tratto in tratto il
passo, per finire a fermarsi poi del tutto in un angolo della sala,
raggruppato in un atteggiamento che significava la più
profonda concentrazione in un pensiero unico. Ma a riscuoterlo entrò
improvviso don Alberico che gli disse con accento di meraviglia:
Or che fate lì rincantucciato? E la sua voce risuonò in
quel profondo silenzio: chè tutti i servi si erano
allontanati.
Alla
voce di don Alberico, la quale distintamente arrivò fin
all'orecchio dell'ammalato, rispose un sospiro grave, anzi un gemito
rantoloso dell'ammalato stesso. I due, scossi da quel gemito,
stettero un momento immobili e senza quasi tirare il fiato.
Or su, coraggio, dica pur tutto.
Era
il prete che parlava; ma il prete quasi nel punto medesimo usciva, e
vedendo i due:
Presto, si chiami qualcuno, che al padrone è sorvenuto un
deliquio. E diede egli stesso una strappata al campanello, e
s'udì lungo le sale silenziose l'oscillazione prolungata del
filo metallico.
Accorse
incontanente la vecchia cameriera, ed entrò col
prete nella stanza del conte.
Or vedete, disse allora il Rotigno a don Alberico, i buoni effetti da
me pronosticati di queste negre sottane.
E che si doveva fare? rispose il giovane.
Dopo
una mezz'ora il conte erasi tanto quanto riavuto, onde don Giacinto,
fatta di nuovo uscir la vecchia, ripigliò la confessione.
Ma
ora non creda il lettore di potere, introdotto da noi in quella
stanza di morte, mettere la testa tra le orecchie del prete e la
bocca del conte. No; di quella confessione noi non sappiamo nè
principio, nè mezzo, nè fine. Chè il sacramento
della penitenza non è costituto criminale, e non si traduce in
processo verbale a saziare la curiosità dei posteri curiosi.
Soltanto possiamo dire che, allorquando il prete uscì, il
maggiordomo che lo attendeva alla porta per leggergli in volto e
penetrargli l'anima, non vi potè legger nulla; o, diremo più
giusto, non vi notò altro che quell'abituale tranquillità
del sacerdote che ha fatto il suo dovere; ed anzi quella tranquillità
era tale che se la sentì trasfusa in se medesimo. In quanto a
noi, volendo avventurare qualche congettura, regolandoci con quello
che avvenne dopo, ci pare di poter sospettare, che il conte fosse al
punto di fare al sacerdote la rivelazione intera d'ogni cosa; ma la
combinazione fatale avendo voluto che in quel punto la voce
dell'unico erede gli suonasse all'orecchio, quella bastò per
impietrargli il segreto in gola. L'indomita ambizione e il pensiero
della grandezza del casato perpetuata nel figliuolo, fu più
forte d'ogni altra angustia, e tacque; vogliamo dire, è assai
probabile che sia avvenuto così, perchè, del rimanente,
ripetiamo, non sappiam nulla di preciso.
La
mattina successiva, sacerdote e dottore furono al letto del conte; e
il malore, durante la giornata, progredì al punto che, nel
dopo pranzo, fu indispensabile accorrere col Viatico, in vista del
quale, coi cappelli devotamente levati, ci staccammo da quella
schiera di giovinotti avventori del caffè del Greco. Ma come
essi per raccoglier novelle della salute del conte F... lasciarono il
palazzo del Capitano di Giustizia; a noi conviene invece ritornare di
necessità in quel luogo, nell'aula degli interrogatorj. E
dobbiamo ricordarci anche della Gaudenzi, venuta colà a
visitare Lorenzo Bruni. Se non che il dialogo che s'impegnò
tra questo e la bellissima danzatrice, e il terzetto a cui si allargò
il duetto, al sorgiungere di Pietro Verri, interessa un ordine di
fatti che qui potrebbero far sbadigliare il lettore, tutt'altro che
disposto a tener dietro al corso generale delle cose di quel secolo
in un punto che più ci attirano le particolarità del
processo; per la qual cosa omettiamo un tal dialogo, reclamando il
diritto ai ringraziamenti.
Dall'auditore
che parlò nel cortile del palazzo di Giustizia cogli amici del
caffè del Greco, abbiamo sentito come il primo cameriere
dell'albergo dei Tre Re messo agli interrogatorj abbia, in prima,
deposto contro il lacchè Suardi, dicendo di aver giuocato con
lui in una delle sere della settimana grassa; poscia, interpellato se
fosse disposto a raffermare la deposizione col giuramento, siasi
ritratto di un passo, accusando la possibilità che la memoria
avesse mai potuto tradirlo. In tal guisa veniva a riuscire secondo
l'espressione dell'attuaro, irrita affatto la sua prima
dichiarazione, e però a risolversi in un indizio, più
che insufficiente, nullo. Se non che il causidico praticante nello
studio dell'avvocato Agudio, che era un tal Gerolamo Benaglia,
recatosi a Cremona, aveva trovato all'albergo del Sole il secondo
cameriere, e interrogatolo, lo aveva sentito confermare l'asserzione
del primo, dichiarandosi inoltre pronto e a giurare e a sostenere il
confronto col medesimo Galantino; perciò, senza por tempo in
mezzo, avealo condotto seco a Milano; del che avendo dato avviso al
signor capitano di giustizia, questi avea ordinato che il dì
dopo dovesse comparire per essere sentito in giudizio.
Il
marchese Recalcati, se per le molte circostanze sorvenute era
disposto a lasciar corso liberissimo alla giustizia senza riguardi
obliqui per nessuno, e nel bisogno a parlare anche in Senato, dove il
capitano spesso era chiamato e sentito; non però aveva mai
avuto gran voglia di comunicare una velocità straordinaria
all'andamento del processo. La sua natura onestissima era pur sempre
alle prese con quella sommessa deferenza ch'egli sentiva per chi
voleva virare il naviglio in modo, che finisse per perdersi in alto
mare, lontano dalla vista del pubblico.
Ma
l'esame fatto alla contessa Clelia V..., le franchissime parole di
lei, le calde sue sollecitazioni raddoppiarono la sua onestà e
scemaron la deferenza ch'egli avea per altri. Però venne in
pensiero di dar corso più rapido al processo, e a tal fine
volle, che il secondo cameriere venuto a Milano col causidico
praticante Benaglia dovesse comparire in giudizio quel dì
medesimo, senza attendere il giorno successivo; e siccome l'ora erasi
fatta tarda, così dispose che l'esame si avesse a fare dopo i
vespri a chiaro di lucerna, e gli esaminatori dovessero, al bisogno,
vegliar la notte perchè «col sorgere del sole
(togliamo queste parole dal processo) qualche lume di
verità dovesse rischiarare la casa della giustizia».
IX
Per
l'ora prima di notte fu dunque invitato a comparire innanzi al signor
capitano di giustizia, come testimonio contro il costituito Suardi,
detto il Galantino, il già cameriere nell'albergo dei Tre Re,
Cipriano Barisone.
Questi
comparve di fatto in un col causidico praticante Benaglia. Aperto il
costituto, l'attuaro domandò al Barisone se conosceva il
Suardi.
Lo conosco fin da due anni, fin da quando esso era al servizio del
marchese F...
In quali relazioni vi siete trovato con lui?...
Io ero cameriere all'albergo... e, quando lo conobbi per la prima
volta, esso era un avventore che scialava e mangiava i migliori
bocconi, e beveva il vin migliore... Di poi, allorchè venne
scacciato da quella casa, si astenne per qualche tempo di venire
all'osteria; e quando ci tornò, se prima faceva il signore e
non giuocava che cogli avventori, dopo ha dovuto, di necessità,
se voleva trovare un compagno, mettersi a far comunella con noi gente
di servizio... e a notte tarda, quando i più degli avventori
eran partiti, giuocava con noi alle carte; e siccome a quell'ora si
cenava, egli non aveva schifo di mangiare nei nostri piatti, perchè
si capiva benissimo che capitava all'Osteria senza che nè una
crosta di pane gli avesse toccato un dente. Si rifece però un
poco, e lo vedemmo con de' zecchini d'oro assai in quell'occasione
che vinse la corsa co' lacchè di Brescia e di Cremona. Ma fu
un'allegria corta, perchè presto tornò ad aver bisogno
degli avanzi della nostra cucina.
Qui
l'auditore l'interruppe.
Di qualche cosa però avrà dovuto vivere; con che dunque
esso mantenevasi?...
A dormir sul fenile dell'osteria, a mangiare nell'altrui piatto, ad
avere i piedi fuor delle scarpe, mi pare a me, che non debba
occorrere gran cosa per vivere. Tuttavia, se mai capitava ch'egli
avesse qualche lira tra le mani, le guadagnava al giuoco delle carte
nel quale aveva sempre ragione, e quando non era la fortuna, egli
stesso faceva le parti di lei.
Spiegatevi meglio.
È presto spiegato: s'egli faceva il mazzo, le buone carte eran
sempre le sue, e in ciò nemmen chi giuoca ai bussolotti in
piazza poteva essere più svelto di lui.
Ma conoscendo questo, perchè avete continuato a giuocare con
esso?
Che cosa vuole? ci sono a questo mondo de' buoni semplicioni coi
quali non si vuol aver a che fare per la ragione dell'antipatia.
Parimenti vi sono de' mariuoli che più te ne fanno, più
ti innamorano di loro. E il lacchè era uno di questi... Ci
rubava i punti, faceva scomparir le carte, ci mangiava il boccon
migliore, talvolta ci portava via qualche camicia, qualche calza...
che so io.... e tuttavia, quando non lo si vedeva a comparir
all'osteria, si pareva senza una mano... Era pieno di piacevolezze,
di pazzie, di invenzioni... e perfino il padrone dell'albergo che è
un uomo col viso sempre aggrondato e che non ride mai, arrivava a
domandar conto di quel briccone se passava una giornata senza
vederlo. In quanto a me però, ultimamente, ne avrei fatto
anche senza.
Or dunque, venendo al fatto, quando fu l'ultima volta che voi avete
giuocato seco all'albergo dei Tre Re?
L'ultima volta fu la domenica grassa.
Come potete provarlo?
Provarlo? colla buona memoria... io non ho altro... perchè mi
ricordo benissimo come se fosse adesso, che la domenica grassa ho
giuocato con lui, ed era quasi la mattina del lunedì... E il
far tanto tardi non succede che in tali giornate di gran faccende...
E poi c'è un altro fatto... Giuocavano con noi due camerieri
soprannumerarj, i quali non sono venuti che in settimana grassa, e
precisamente alla domenica. Ma chi li va a prendere adesso questi
camerieri i quali ora sono qua, ora sono là... e spesso se
fanno il cameriere in settimana grassa, fanno il facchino a san
Michele... e non si riconoscon più nè al viso né
al vestito?...
Ma voi sapreste sostenere tutto quello che avete detto fin qui anche
in confronto del lacchè?
Perchè no?... s'io parlo... è perchè trattasi di
dir la verità... e se dico la verità... è perchè
il signor causidico, che venne a pigliarmi a Cremona, mi ha
assicurato che a dir la verità tutta quanta si reca vantaggio
a delle persone oneste e povere..., e a tacerla, si tiene invece il
piatto a' birbanti.
L'attuaro,
che avendo proposto il giuramento al primo cameriere, lo aveva
sentito a ritirar la parola per ispavento della solennità
dell'atto; credette di non farne motto al secondo testimonio, e di
provocar prima il confronto di lui col Galantino. Di fatto avrebbe
dovuto incominciare anche coll'altro da questo atto, preterendo il
giuramento; ma sbaglia anche il prete a dir la messa.
Il
cameriere Barisone fu dunque fatto uscire, pel momento, dalla sala
degli interrogatorj, e fu mandato a prendere il costituito Suardi.
Questi comparve nella sala un quarto d'ora dopo, in mezzo a due
secondini, o come chiamavansi allora più comunemente, sbirri.
La
faccia del Galantino, quando si mostrò, era sorridente; lo
sguardo di lui lampeggiava a dritta e a sinistra con vivacità
gioviale. Un occhio esperto però avrebbe dovuto comprendere
ch'ei sorrideva vivacemente, perchè la sua forte volontà
moveva i muscoli del viso e degli occhi. Era, se ci si passa la
similitudine, come un caratterista brillante di una compagnia comica,
il quale ha i creditori alle calcagna e gli arresti personali
intimati per debiti, e tuttavia, sul palco scenico, ride e fa ridere,
e par l'uomo più allegro del mondo. Del rimanente, quel roseo
incarnato che avea sempre colorito il volto bellissimo del Galantino,
era scomparso per dar luogo a un lieve pallore, insolito su quella
faccia trionfante di sfrontatezza e di salute.
L'attuaro,
fatta una lunga pausa, durante la quale guardò il Galantino
con una significazione severissima, rilesse ad alta voce il primo
costituto stato già sottoscritto dal Suardi, poi soggiunse:
Avete ancora il coraggio di sostenere tutto quello che avete detto e
deposto qui in processo verbale sottoscritto?
La verità è una sola, e io non posso già dire
che non è avvenuto quello che realmente è avvenuto.
Voi sapete che chi spontaneamente confessa la propria colpa alla
giustizia, ha meritato che la giustizia alla sua volta gli si mostri
indulgente. Vi esorto adunque di nuovo a dire la verità, se
volete che la giustizia non faccia uso contro di voi di tutto il suo
rigore.
La giustizia può fare quello che vuole; ma io non posso
cambiare quello che è stato.
Ebbene, sappiate che abbiamo assunte testimonianze, dalle quali
risulta che voi avete mentito. La domenica grassa, a notte tarda,
avete giuocato alle carte all'albergo dei Tre Re... Vedete dunque che
non è verosimile che voi foste allora a Venezia già da
otto giorni.
Il
Galantino, benchè fosse di bronzo, non potè a meno di
commuoversi a quelle parole, e fu una sua fortuna s'egli era
illuminato dalla fiamma della lucerna piuttosto che dai raggi del
sole; si ricompose però sull'istante, come un cavaliero, fatto
piegare indietro da una lancia, che tosto si rimette in sella; e
rispose con asprezza:
Non sarà mai vero che alcuno possa dire, ch'io mi trovassi a
Milano la domenica grassa. Torno a ripetere ch'io andai a Venezia
otto giorni prima. E quegli che a loro signori avesse detto il
contrario è un bugiardo infame.
L'attuaro
tacque un momento, poi disse ad un usciere:
Fate entrare il testimonio.
L'usciere
entrò col Cipriano Barisone cameriere.
Il
Galantino, che nel frattempo aveva almanaccato per indovinare chi mai
poteva essere venuto a deporre in giudizio contro di lui, e quasi
erasi accostato al vero, si trovò parato a sostenere la prima
vista del cameriere Cipriano, e tanto che, dalle difese, con una
sfrontatezza senza uguale, passò alle offese.
Ah è costui, disse, quegli che viene a inventar fandonie per
farmi danno. Ma non mi fa meraviglia. No... È naturale... però
bisognava essere un birbone come lui. Sappiano dunque loro signori
che costui ha parlato per vendetta... perchè più volte
ha detto che volea vendicarsi di me... Or di' un po' tu se questo non
è vero, o ribaldo.
L'attuaro,
assalito anch'esso e sorpreso da quell'inattesa franchezza del
costituto:
È vero, chiese al Barisone, che voi avete potuto dire altre
volte di voler vendicarvi di lui?
Sì, signori, è vero, e ne ho le ragioni, e gravi. Prima
di tutto costui... che regala del proprio agli altri... e non è
mai stato innocente nemmen quando poppava, perchè vi son dei
serpenti che avvelenano appena usciti al sole... costui dunque non mi
restituì mai cinquanta lire che gli ho prestate, e una sera
che gliele richiesi, in faccia agli avventori, mi appoggiò un
pugno qui... che, ecco, mi spezzò questo dente. Poi... ma...
Taci lì, che continuerò io, aggiunse il Galantino
cacciandosi a ridere nel profferir quelle parole.
Il
Barisone fremeva...
Sappiano dunque, signori... e innanzi tutto già si sa che si è
di carne, e dove c'è carne c'è sangue. Ebbene, questo
bel pappione s'è fitto in testa di sposare la figlia della
lavandaja dell'albergo. Un fior di ragazzotta, giovane e fresca...
una gioncata colle fragole. Il marito dunque era costui... ma...
Taci...
Dopo qualche mese la bella sposa... si guardò dunque intorno e
vide che, in conclusione, ci voleva qualche cosa dolce per far
passare l'amaro dell'aloè. Il caso ha voluto che io gli
capitassi innanzi nel momento appunto che era presa dalla nausea di
questo gabbiano... Ora chi non lo sa? l'uomo è cacciatore... e
quando l'allodola è novella... va presto nel carniere... Del
resto la colpa... (e qui si diede a sghignazzare come se fosse in
piazza) è di costui che una notte, invece di stare
all'osteria, è venuto a casa due ore prima del consueto... e
si cacciò a strepitare come uno spiritato ed io a dar giù
botte da orbi... perchè questi mariti gelosi van tenuti in
soggezione. Così la bella lavandaja tornò a picchiar
sulla pietra, e costui giurò di vendicarsi di me. Ecco tutto.
A
queste parole del Galantino, e il viso tra il goffo e l'iracondo che
faceva il Barisone, sulla faccia dell'attuaro guizzò un
sorriso fuggitivo, ch'esso respinse a forza aggrondando il
sopracciglio; l'illustrissimo signor capitano guardò con
severità l'attuaro, quasi ad ammonirlo perchè desse
sulla voce al Galantino e lo richiamasse al dovere ed al rispetto; ma
due giovani scrivani, che, per fatalità, s'erano adocchiati,
si comunicarono a vicenda quella volontà contagiosa di ridere,
che cresce in ragione diretta della sconvenienza, della gravità
della circostanza e della severità dei superiori. Ben la
nascosero in prima con tali conati da meritare ogni maggior elogio da
chi tien conto dell'intenzione; ma i conati e gl'impedimenti non
fecero altro che accrescere gl'impeti convulsi, di modo che, dopo
essersi soffocati per qualche tempo, come si fa colla tosse quando
potrebbe tradire un segreto pericoloso, alla fine scoppiarono in uno
schianto così scandaloso e indecente, che la terribilità
del luogo, la gravità del signor capitano, l'aggrondatura
artificiale dell'attuaro, l'inerte serietà dei due sbirri non
valsero a salvare la solennità della dea Temide.
Accorse
però al riparo l'attuaro, gridando bieco al Galantino:
Basta così, e attendete a rispondere ai giudici voi quando
sarete interrogato; indi voltossi al testimonio:
È vero quanto ora fu detto?
È vero.
Perchè dunque non lo avete esposto prima?
Vostra signoria mi perdoni, ma quando io era per continuare e dir
tutto, ho dovuto rispondere ad altre domande.
È egli vero altresì che siete stato eccitato contro il
costituito qui presente da spirito di vendetta?...
Ho detto più volte di voler vendicarmi di lui, questo è
vero, ma non furono che parole, e sarebbero sempre state tali. Ciò
però non ha nulla a che fare con tutto quello che ho deposto
circa il fatto di aver giuocato con esso la domenica grassa, perchè
questa è la pura verità, e quando io stavo a Cremona e
fui chiamato e interpellato dal signor causidico Benaglia, era
lontano mille miglia dal credere ch'io dovessi venire a Milano,
ond'essere sentito in giudizio per cosa che risguardava costui.
Ma come avete potuto, col malanimo che avete seco, giuocare ancora
con lui?
Chi si poteva salvare dalla sua importunità, e anche dalle sue
prepotenze? d'altra parte i compagni ridevano di me quando facevo il
dispettoso con esso... onde, pel quieto vivere... bisognava adattarsi
a giuocare e a lasciarsi incantare anche le carte... Ma se V. S. non
crede alle mie semplici parole, io sono disposto a giurare tutto
quello che ho detto, perchè non sarà mai che per
malanimo io voglia inventar storie a danno di chicchessia.
Ora parlate voi, disse l'attuaro al lacché.
Quel che ho detto, lo ripeto. La domenica grassa io stava a
Venezia... e costui è un bugiardo... e s'egli è
disposto a confermare le sue fandonie col giuramento, non è la
prima volta che a questo mondo si sente a giurare il falso con
indifferenza.
L'attuaro,
a queste parole, guardò al signor capitano di giustizia, che a
quella tacita interpellazione:
Or si rimandi in prigione, disse.
E
gli sbirri condussero fuori il Galantino.
Che vi rimane adesso da aggiungere? disse l'attuaro al cameriere.
Io non ho niente da aggiungere; son uomini questi che farebbero
perdere la testa a chicchessia. Del resto io vivevo tranquillo in
Cremona, all'albergo del Sole, e non avrei mai voluto recar danno nè
a lui nè ad altri nè a nessuno, se non fossero venuti
espressamente a cavarmi di là e a tirarmi a Milano per forza.
Questo io dico perchè V. S. si persuada della verità
delle mie parole, e che non ho mai ingannato nessuno al mondo, e
vorrei che il Signore Iddio mi castigasse qui se mai ho detto il
falso.
A
queste parole venne rimandato anche il testimonio Barisone, fattagli
intimazione di non uscire da Milano fin che non ne avesse avuto il
permesso dall'autorità; per la qual cosa venne chiamato nella
sala anche il giovane causidico Benaglia, a cui fu parimente intimato
che, sotto la sua responsabilità, il cameriere dovesse restare
a Milano sino a nuove disposizioni.
E
il capitano di giustizia, che si attendeva di venire al chiaro d'ogni
mistero in quella notte, trovò invece d'aver raggruppato di
più il nodo nel tentare di scioglierlo, avendo bensì la
convinzione morale invincibile della reità del Galantino, ma
non avendo le prove legali per condannarlo; anzi non avendo raccolto,
a rigore, nemmeno gl'indizj legittimi per metterlo alla tortura, come
egli avrebbe creduto opportuno, e come e l'attuaro e gli assessori e
gli auditori consigliavano ad una voce.
Però
ad onta che gl'indizj non fossero a rigore di scrupolo i più
legittimi, perchè dei due testimoni necessarj, uno erasi
ritirato, e il secondo aveva infirmata la sua deposizione col
sospetto di malanimo contro il costituito; e prescindendo anche da
ciò, non potea bastare come testimonio solo, non verificandosi
in lui gli estremi voluti dagli statuti e confermati dagli
interpreti, perchè la sua condizione non era tale che si
potesse dichiararlo superiore ad ogni eccezione; tuttavia, avuto
riguardo che i due camerieri in massima erano andati d'accordo, che
il secondo era disposto a giurare, avuto riguardo inoltre alle
deposizioni della contessa Clelia V... e all'abito criminoso del
Suardi, l'illustrissimo signor capitano marchese Recalcati pensò
di portar la cosa in Senato, affinchè quella suprema
magistratura provvedesse in proposito; e il referato che fu
steso e spedito il giorno dopo, venne chiuso col voto espresso che
appoggiava l'applicazione della tortura al costituito di cui si
trattava.
X
Quando
codesta relazione, col voto dell'illustrissimo capitano
di giustizia e colla nota d'urgenza fu
portata in Senato, correva il primo di giugno. Essendo giorno di
mercoledì, che, al pari del lunedì e del venerdì,
era riservato alle cause civili, i segretarj del Senato la misero fra
le cause da trattarsi in consiglio il giorno dopo (chè nei
giorni di martedì, giovedì e sabato si discutevano
esclusivamente le cause criminali). Ed ora giacchè si ha ad
assistere allo spettacolo di questo Senato in sessione, di questo
Senato che sta vivendo gli ultimi anni della sua vita (e dovremo
assistere fra non troppo lungo tempo al suo totale scioglimento); per
coloro che non hanno letto la sua storia scritta da Orazio Landi, nè
il commentario del Garoni, nè le memorie di don Martino de
Colla, nè il Lattuada; o che, anche avendoli letti, non li
serbano tutti in memoria, è bene che riassumiamo qui con
breviloquenza da telegrafo: che l'origine del Senato di Milano risale
al primo duca Giovanni Galeazzo Visconti, quando, nel 1390, ottenne
titolo e dignità ducale dall'imperatore Venceslao, non avendo
allora che l'appellazione di Consiglio; che, nel 1499, questo
Consiglio ebbe titolo di Senato da Lodovico XII di Francia ed era un
Consiglio di diciasette Senatori presieduti dal Gran Cancelliere;
che, nel 1522, ritornato Francesco II Sforza in Milano, un nuovo
regolamento portò a 27 il numero dei padri coscritti;
che, nel 1527, venuto a pigliar possesso del Ducato di Milano il
Borbone in nome di Carlo V, venne sconvolto il regolamento sforzesco,
e fu costituito il Senato da un presidente, quattro cavalieri, dodici
giureconsulti con sette segretarj, per tramutarsi poscia e stabilirsi
nel presidente con quattordici giureconsulti; di modo che al tempo in
cui ci troviamo colla nostra storia, il Senato constava del
presidente e di quattordici senatori, uno de' quali aveva titolo di
senatore reggente o vicepresidente, come decano. Di quattordici però
non risiedevano che dodici, perchè due venivano sempre
impiegati nelle preture della città di Pavia e di Cremona. A
questo illustre corpo si univano sei segretarj e nove portieri,
vestiti di divisa color violetto cupo e portanti collane d'oro al
collo nelle pubbliche comparse. Giova inoltre sapere, per coloro
almeno che pel momento non hanno cosa di maggior importanza da
imparare, che i senatori cambiarono due volte il vestito, perchè
sotto i duchi e i re di Francia portavano berretta o giubbone colle
divise bianco rosse; e al tempo del dominio spagnuolo assunsero
le toghe foderate, in tempo d'inverno, colle pelli di zibellino
(ponticus mus), come lo chiama il Garoni, il qual
zibellino distingueva i senatori dagli altri magistrati togati, onde
è probabile che i più vanitosi dovessero nutrire una
certa avversione per l'estate.
E
come l'eccellentissimo Senato cambiò titolo, numero,
ingredienti, vestito, più d'una volta, medesimamente dovette
cangiare spesso il luogo delle sue adunanze; onde sotto il primo duca
probabilmente, e, di certo, sotto l'ultimo, si radunava in porta
Vercellina presso la parrocchia di san Protaso al Foro; poi, sotto i
re di Francia, nella casa pure in porta Vercellina assegnata al gran
cancelliere: infine si traslocò in una parte del medesimo
reale palazzo.
Ed
è in questo luogo che noi adesso dobbiamo recarci. Un'ora dopo
mezzogiorno del primo giovedì del mese di giugno, il
presidente e i senatori intervenuti, che in quel giorno erano in
numero di otto (non era necessario che tutti quanti intervenissero),
dopo avere ascoltato la santa messa nella cappella del palazzo
medesimo, come voleva la consuetudine, entrarono nella gran sala, che
nel 1750 si denominava ancora delle udienze, perchè sotto i
duchi e i re di Francia vi si tenevano infatti le udienze pubbliche;
entrarono e si posero a sedere intorno ad una gran tavola con tappeto
verde; i senatori si assisero quattro per parte, nelle cattedre che
si chiamavano ancora de' padri coscritti; il presidente nella più
rilevata cattedra posta in capo alla tavola. Dietro di lui, ad una
tavola più piccola sedette uno de' sei segretarj. Tutto era
augusto e solenne in quell'aula. Al disotto dei dipinti a fresco
della metà superiore delle pareti si vedevano cinque grandi
quadri, dov'erano dipinte ad olio le proprietà della
giustizia, portanti al disotto dell'ampia cornice i titoli latini a
caratteri cubitali, cioè Æquitas, Legislatrix,
Distributiva, Commutativa, Vindicativa, del che ha lasciato
memoria il Lattuada. Intercalati a queste tele si vedevano i ritratti
di Giovanni Galeazzo Visconti, di Francesco II Sforza, di Carlo V,
Filippo II, Filippo III, Filippo IV, Carlo II di Spagna, e
dell'imperatore Carlo VI, che stava in faccia alla cattedra del
presidente. Più basso, a coprire in parte i magnifici arazzi,
rigiravan l'aula alcuni quadri con cornici ad intaglio messo ad oro,
rappresentanti i principali misteri della passione di Gesù
Cristo, tra' quali spiccava per eccellenza d'arte quello di Gesù
portante la Croce sul Calvario, dipinto dal Daniel Crespi, e regalato
al Senato dall'arcivescovo di Milano, cardinale Monti successore di
Federico Borromeo. Vedevasi pure un altro gran quadro rappresentante
il trionfo di san Michele sopra Lucifero, quasi a simboleggiare la
trionfante giustizia.
Aperta
dall'eccellentissimo signor presidente la seduta, il segretario mise
in prima sul tappeto due o tre cause criminali estranee affatto al
nostro argomento, di quelle cause che non provocano discussione, e in
cui le opinioni e tutti i sistemi si mettono d'accordo; indi pose
innanzi all'eccellentissimo signor presidente le carte relative al
processo del lacchè Suardi, dichiarando ad una ad una le
pezze, a dir così, di tutto il costituto, e domandando se
doveva far lettura del rapporto presentato dal signor capitano. Il
presidente, com'era di pratica, accennò che facesse; e il
segretario lesse adagio adagio il rapporto, facendo, quel che in
musica si direbbe, delle appoggiature sui punti che costituivano le
saglienze della tesi; ed esponendo il voto del capitano con una
chiarezza particolare, che potea significare la deferenza
dell'egregio signor segretario per quel voto medesimo.
Finita
che fu una tale lettura, prese la parola il senator M ...tone che era
decano.
Dopo
il senator Morosini, svizzero ticinese (perchè i senatori,
come già notammo, si eleggevano da tutte le città e
capiluoghi del Ducato ed anche da altre città fuori del Ducato
stesso), il M...tone era il più caldo partigiano della
giustizia armata di cavalletto e di scure, onde propendeva al rigore,
non per l'indole perversa, ma per quell'impulso che viene da ciò
che oggi si chiamerebbe l'arte per l'arte. Per di più
non essendo di Milano, non era in gran dimestichezza col patriziato
milanese e però non era nè intrinsico nè
conoscente del conte F... Questi elementi dovevan dunque farlo
presumere più propenso che mai al voto del capitano di
giustizia. Ma forse perchè non avea avuto torto il popolo
milanese, quando col suo senso comune vendicatore lo aveva ferito,
avventandogli l'aculeo di quella strofa che già abbiamo
accennato in addietro; v'era probabilmente una ragione per cui la
spinta naturale in lui si trovava in lizza con una controspinta
avventizia. Del resto, comunque fosse la cosa, egli cominciò a
parlare cercando di giustificare i motivi che dovevano aver provocato
il voto del capitano, ma conchiuse, dichiarando che non trovava gli
estremi per decretar la tortura al costituito Suardi.
Se
non che, non aveva esso finito di parlare, che il senatore Morosini,
di temperamento impetuoso e bilioso, pronunciò, affoltandole,
molte parole che parevano schiuma, quand'esce a dirotta da una
bottiglia dove ha dovuto per troppo tempo fremere chiusa. Nè
in prima quelle parole parevano aver senso, ma a poco a poco,
rallentandosi, si disposero in ordine e il discorso procedette
perfettamente intonato colla solennità del luogo.
I sommi capi, così egli proseguì, pei quali non si
troverebbe di sottomettere alla tortura il costituito Suardi, si
ridurrebbero dunque al non aver avuto il Suardi per proprio vantaggio
un eccitamento al furto; all'avere nel primo interrogatorio risposto
con tale aggiustatezza e conseguenza alle domande del giudice, da far
presumere in uomo indotto quella tranquillità d'esposizione
che deriva dal non aver altro a fare che ripetere la pura verità;
alla ritrattazione del primo testimonio, alla proposta del
giuramento; al non poter bastare le sole deposizioni del secondo, per
non verificarsi in lui la qualità dell'essere superiore a
qualunque eccezione; e, quand'anche vi si verificassero, all'essere
state infirmate dalle cagioni di vendetta che dovevano
presuntivamente aver eccitato il secondo testimonio a danno del
costituito. Ora dunque, in quanto al primo punto mi meraviglio come
ancora possa mettersi in campo la mancanza d'una causa che,
direttamente e spontaneamente sorta in lui stesso, doveva eccitare il
lacchè al furto; quasi che non fosser noti a migliaja i casi
di sicarj prezzolati, i quali assassinaron persone da essi nemmen
conosciute. Il vantaggio che doveva raccogliere il costituito Suardi
dal furto, non deve cercarsi nel furto in sè stesso e per sè
stesso, ma nel premio che presuntivamente deve essergli stato dato o
promesso da chi poteva avere interesse a far scomparire le carte più
preziose del defunto marchese. In quanto al secondo punto, se nel
primo interrogatorio appare l'astuzia del costituito, faccio
osservare che non ci appar sempre la coerenza là dove,
eccitato dall'ira, esce a dire che la contessa lo ha tradito...
(prego l'egregio segretario di leggere quel passo, ch'io notai,
appena le carte furono portate in Senato e di cui non ricordo bene le
parole).
Il
segretario cercò, trovò e lesse il passo.
Or mi pare che sia difficile il dimostrare esserci coerenza qui,
quantunque subito dopo il costituito, con arte diabolica, torca le
parole a diverso significato. Ora la mancanza di coerenza in un uomo
di sì manifesta astuzia, fa presunzione che vi sia colpa.
Venendo ora ai testimonj: se il primo si è ritrattato
accusando una memoria infida, per la paura che nelle persone
ignoranti desta l'idea di dover giurare; pure le sue deposizioni
fatte prima vanno d'accordo colle deposizioni del secondo testimonio,
il quale, per soprappiù, spontaneamente dichiara di volere
confermare gli asserti con giuramento. Bene io sento a dire che il
secondo, essendo solo a testimoniare, non basta a formare un indizio,
perchè non si verifica in lui la qualità di essere
superiore a qualunque eccezione. Ma perchè, domando io, non si
verifica? Ma quand'è che un uomo è superiore a
qualunque eccezione in faccia a un tribunal criminale? Io credo,
allorquando la sua vita è senza macchie criminali di sorta. È
la vita senza rimproveri che costituisce la qualità
dell'essere superiore a qualunque eccezione; non la condizione alta,
nè la ricchezza, nè i titoli. Il marchese Alfieri, che
l'anno scorso ebbe il bando dalla Repubblica di Venezia per attentato
di veleno contro il marito della sua amante, non è più
oggi superiore a qualunque eccezione, sebbene sia titolato e
ricchissimo. Due anni or sono, il sagrestano di San Satiro, solo
testimonio contro il Faldella che rubò la lampada dell'altare
maggiore, bastò a formare legale indizio, perchè fu
dichiarato superiore ad ogni eccezione. Perchè dunque non lo
potrà essere anche questo Barisone Cipriano? In ogni modo, non
merita si dica neppure una parola a dimostrare l'assurdità
dell'essere egli stato mosso da spirito di vendetta; sopratutto è
a considerare, eccellentissimi colleghi, che egli trovavasi a
Cremona, dove tanto era lontano dal pensare a vendicarsi, che
si dovette andarlo a chiamare e pregarlo per farlo venire a Milano. È
a considerare, finalmente, se mentre questo Cipriano Barisone non ha
note criminali di sorta, il costituito ha contro di sè la
pessima sua fama, e il fatto d'aver già commesso un furto
nella casa stessa del suo padrone che, notoriamente, pur lo amava e
lo proteggeva.
Il
senatore Morosini avendo a tal punto fatto pausa:
Se bastasse, gli subentrò tosto il senatore conte Gabriele
Verri, la morale convinzione di un giudice a determinare la
legittimità degli indizj per mettere un uomo alla tortura, io
per il primo non esiterei a farla applicare al costituito Suardi. Ma
questa convinzione non basta, perchè può procedere da
errore di giudizio, da false parvenze, dall'impossibilità di
vedere tutti i lati delle cose. È dunque necessità
l'aderire in tali casi quasi passivamente alla legge.
E sia fatto, osservò il Morosini, giacchè la legge
rimette gl'indizj all'arbitrio del giudice.
Ma il nostro predecessore senator conte Bossi, ribatteva il Verri,
nel suo aureo trattato, al titolo De indiciis ante torturam
assegna all'arbitrio del giudice l'obbligo di esaminare con coscienza
la verisimiglianza e la probabilità (indicium verosimile et
probabile sit). Ora la coscienza ci ammonisce di non prestar fede
soverchia alle convinzioni morali, e, torno a ripetere, di aderir
positivamente alla legge. Ma giacchè la legge nuda e nel
diritto romano e negli statuti criminali di Milano lascia questi
indizj all'arbitrio del giudice, bisogna chieder consiglio a coloro
che hanno continuata la legge stessa, interpretandola.
Ma la parola degli interpreti, interruppe il Morosini, non è
Vangelo, e tanto si può esser tratti in errore dalle loro
convinzioni come dalle nostre.
C'è un divario notabile. Essi, interpretando la legge, non
erano circoscritti da un fatto speciale; bensì erano
rischiarati da un complesso di fatti molteplici che hanno la virtù
di costituire una norma assoluta. Noi invece, al cospetto di un fatto
solitario, siamo tratti, non volendolo, a decisioni condizionate e
relative. Gl'interpreti hanno questo vantaggio su di noi, di aver
meditato e scritto in circostanze lontane dall'influenza
pervertitrice della passione fuggitiva del momento, dalle opinioni
correnti e dai pericoli che presenta all'intelletto un fatto unico;
epperò essi hanno il diritto di essere ascoltati, noi
l'obbligo di ubbidire; di modo che assumono virtù di legge in
mancanza d'una legge scritta, determinata, sanzionata, comandata; e
come avviene delle gride, che le ultime possono derogar le prime e
sostituirle, e però, come tali, sono le sole che devono essere
seguite; così avvien degli interpreti, de' quali gli ultimi
più acclamati dal consenso universale dei giurisperiti e dei
magistrati, devono essere di preferenza consultati e seguiti. Ora il
consenso più generale è pei due celebri giureconsulti,
il Casoni e il Farinaccio; e costoro, spaventati dagli eccessi a cui
nell'amministrar la tortura furon tratti giudici o troppo crudeli o
troppo confidenti nelle loro convinzioni, o troppo ciechi, sono
giunti a conchiudere, il primo: che la tortura non è
arbitraria; il secondo, che non sono arbitrarj nemmeno gli indizj.
Communis error judicum putantium torturam esse arbitralem
dice il primo, e non sbaglia; Non immerito
audivi plures jurisperitos dicentes posse melius formari regulam,
inditia ad torquendum, non esse judici arbitraria, dice il
Farinaccio chiarissimamente. Però dal processo verbale
relativo al costituito Suardi non risulta provata la bugia
dell'accusato, che sarebbe uno degli indizj legittimi; perchè
mancano i due testimoni, quali son voluti dal Farinaccio che qui fa
testo di legge. Può esser vero che il primo testimonio non
abbia giurato per sgomento. Ma può essere, non vuol dire è.
Può esser vero che il secondo testimonio abbia abito di
onestà, ma intanto sussistono presunzioni contro di lui
provocate da gravi disgusti passati prima del preteso furto tra
accusato e testimonio. E, anche qui, il può essere non
vuol dire è poichè la giustizia è
come l'aritmetica, nella quale, se manca la verificazione, non può
asserirsi che il calcolo sia giusto.
Dette
queste parole, il conte Verri si tacque; e quasi nel momento istesso,
entrato nell'aula uno de' segretarj, s'accostò al segretario
in seduta, che, alzatosi, parlò all'orecchio
dell'eccellentissimo signor presidente, il quale, rivoltosi ai
signori senatori :
Un'ora fa, disse, ha cessato di vivere l'illustrissimo conte F...
Come l'egregio segretario Carlo fu sollecito di portarne l'avviso,
così io lo ripeto ai senatori qui congregati; faccio presente
che la morte del conte F... nella causa che ora qui si sta
discutendo... può essere forse un fatto significante.
Questo
annuncio fece l'effetto di quei congegni dell'arte nautica, che di
punto in bianco fanno galleggiar ritto e baldanzoso un naviglio che,
appena uscito dal cantiere dell'arsenale, procedeva impacciato e
piegato sull'un dei fianchi.
I
diversi pareri degli otto senatori tacitamente si armonizzarono in un
consiglio unico, quantunque due o tre altri senatori prendessero la
parola, parlando con varia sentenza. Se non che, mentre il Morosini,
in quel giorno, tornò impetuoso a ribattere gli argomenti
degli avversari, il conte Gabriele Verri parve minor di sè
stesso, e lasciò dir gli altri; nè più parlò
il senator M...tone. Per le quali circostanze, venuta la votazione,
la determinazione del Senato fu che il costituito Suardi,
soprannominato il Galantino, si dovesse sottoporre alla tortura lieve
e semplice. La voce pubblica che cominciava a parlar alto contro la
lentezza onde si procedeva verso il Galantino, e dicea chiaro che si
voleva salvare il lacchè, per non compromettere la riputazione
del conte F..., fu per il momento placata dal decreto del Senato, di
che tosto gli eccellentissimi membri, al cui orecchio eran giunte le
pubbliche querele, fecero divulgar la notizia. E per quel giorno e
pel successivo tutta la città di Milano non s'interessò
che a quell'unico tema della tortura del Galantino e della morte del
conte F...
Il
giorno 3 giugno la piazza Borromeo era tutta gremita di popolo, chè
si celebrarono le solenni esequie del defunto nella chiesa di Santa
Maria Podone, sulla cui facciata, tutta coperta a nero e ad oro, si
leggeva il seguente cartellone sormontato dalla corona e incorniciato
dagli stemmi:
comiti
a
f
eq.
hierosol
pio
munifico
charitate
in egenos ex corde
domesticam
gerenti felicitatem
excesso
anno lv
ætatis
suæ
filius
comes albericus moerens
fidelium
preces poscit
Due
giorni dopo, al costituito Andrea Suardi, chiamato a nuovo esame,
venne intimato si risolvesse a dire la verità, altrimenti
verrebbe messo alla corda, così portando la determinazione
dell'eccellentissimo Senato, pel concorso di molte circostanze atte a
formare indizio; segnatamente per le deposizioni del Barisone
Cipriano, confermate con giuramento. Nel rescritto del Senato era
stato ingiunto al capitano di giustizia di far adempire al secondo
testimonio l'atto formale del giuramento prima d'esaminar di nuovo il
costituito.
Questi,
che nel confronto col Barisone avea creduto di essere riuscito a
togliere ogni forza alle di lui deposizioni; che, per soprappiù,
stando in prigione e tastando gli sbirri e mettendo insieme le sparse
parole che loro eran cadute di bocca, come chi si affanna di riunire
i minuti pezzetti di un foglio lacerato, era riuscito a sapere che il
conte F... era morto, e però erasi lasciato andare alle più
allegre speranze; rimase come sbalordito a quegli inattesi propositi
del giudice; e lo sbalordimento fu di tal natura, da preparar la via
ad una susseguente indignazione, anzi ad una esasperazione così
aperta e dichiarata, che potea benissimo parer quella di un innocente
calunniato. Le parole pertanto che rispose al giudice furono quelle
della collera che non ha nè ritegno nè riguardi; e
questa volta non già pel calcolo consueto del suo ingegno
lungoveggente e scaltro, ma per l'accensione spontanea del sentimento
offeso. Erasi messo al posto dell'innocente, s'era lusingato d'aver
fatto per potersi fermare a quel posto usurpato; di più
attendeva a raccogliere il frutto dei suoi calcoli e della sua
fortuna, allorchè di punto in bianco e crudissimamente si vide
frustrato nella sua aspettazione; l'ira sua doveva dunque essere
naturale e spontanea.
Se
un ladro giunge a involare con fortuna una somma di denaro, e
avendola nascosta in luogo da lui creduto sicuro, allorchè va
per riprenderla non la trova più, il dolore ch'ei ne prova, è
simile in tutto a quello del legittimo proprietario stato derubato. E
così nè più nè meno avvenne del Galantino
al cospetto dell'accusa e del giudice; egli sentì ed espresse
tutti i fenomeni dell'innocenza oltraggiata; li sentì anzi e
li espresse in modo che il capitano di giustizia ne fu colpito.
Il
marchese Recalcati, d'indole mite, aveva avversione a quella barbara
eredità del diritto romano, la tortura; tanto è ciò
vero che al Suardi la volle decretata dal Senato, mentre egli stesso
avrebbe potuto infliggerla; e qui, di passaggio, dobbiamo notare, che
la maggior parte dei giudici del suo tempo che avevan viscere,
avevano cominciato a detestarla. Viveva essa gli ultimi anni, a dir
così, della sua vita feroce, e lo spirito pubblico, senza
dichiararlo manifestamente, le s'era rivoltato contro, a preparare e
ad accelerare quella morte che le doveva poi venire dal colpo
meditato e risoluto di un grand'uomo.
I
medesimi sostenitori d'essa, a forza di commentarla e confortarla e
mostrarne la validità, facendo passare e ripassare innanzi
alla mente degli ascoltatori non propensi, nei momenti più
caldi della disputa, la lettera del diritto romano e quella dello
statutario e quella dei criminalisti, avean fatte balenare molte
verità che dimostrarono la fallacia; verità inchiuse in
quegli articoli medesimi stati scritti per darle vigore.
Molte
volte il senator Gabriele Verri, che era un partigiano della tortura,
aveva detto e ripetuto in Senato quel titolo cospicuo del Digesto,
dove è parlato della fragilità e del pericolo della
tortura; esso lo aveva ripetuto perchè, avendo fede in quel
mezzo, pretendeva che si adempissero tutti i suoi preliminari con
rigore di scrupolo; persuaso com'egli era, che, adempiendo con
esattezza a tutti i dettami della legge, prima di decretar la
tortura, questa non poteva infliggersi che al veramente reo, la cui
ostinazione poi era presumibile potesse domarsi solo coi tormenti.
L'uomo dialettico e preoccupato, correndo con precipitazione alle
conseguenze ultime, non aveva mai saputo fermarsi un momento di più
su quel titolo, ch'ei non adduceva che per provare la necessità
dell'esattezza aritmetica nel raccogliere indizj; ma che, in realtà,
inchiudeva già tutta quanta la condanna della tortura nel
punto stesso che le dava sanzione; bensì vi s'erano fermati
gli uomini meno preoccupati e meno oppressi dal cumulo della dottrina
e più illuminati dal raggio del sentimento, e ne eran rimasti
colpiti, e tra questi il marchese Recalcati appunto, il quale, per
consueto, andava sempre a rilento e come di malavoglia quando
trattavasi di ministrare la tortura.
Se
dunque stette perplesso e quasi pauroso di quanto egli stesso aveva
fatto allorchè sentì prorompere il Galantino con tanta
sincerità di sdegno, è facile a comprendersi. Se non
che, a confortarlo ne' suoi dubbj e nelle sue ansie, entrò
qualche momento dopo nella sala stessa degli interrogatorj il senator
Morosini; colui che propugnava la tortura, non per una convinzione
scientifica al pari di Gabriele Verri, nè per considerarla una
fatale necessità della procedura criminale, ma per una di
quelle arcane voluttà della mente, anzi del senso viziato, che
pur talvolta si riscontrano in individui non affatto pervertiti e
talvolta, come nel caso nostro, persino onesti; una di quelle arcane
voluttà onde si spiega il fenomeno di qualche fanciullo che si
gode a denudar la farfalla delle sue ali, o a spennare il pulcino
vivo, o a percuotere fieramente in sull'aja il pollo in fuga. Tale
era il senator Morosini. Egli veniva in carrozza al palazzo del
Capitano di giustizia ogni qualvolta trattavasi di qualche bel
caso di tortura. Compiacevasi a far egli stesso le parti
d'auditore e d'attuaro, abilissimo come era a gettar scaltre insidie
negli interrogatorj; più abile a farle riuscire, accennando
agli stessi aguzzini i modi dell'atroce arte loro; press'a poco al
pari di un maestro di musica (ci fa ribrezzo l'apatica e spietata
similitudine, ma un carattere dev'essere messo a nudo tutto quanto),
al pari dunque di un maestro compositore che all'orchestra imponga e
faccia sentire gli accelerati e i rallentati. E tanto
dilettavasi quel senatore di sì feroce passatempo, che si
faceva portar la cioccolata, già lo abbiam detto, nelle aule
medesime del capitano, e l'assorbiva lentamente dove s'interrogava,
dove davasi la corda.
Quando
il senator Morosini entrò, tutti, compreso l'illustrissimo
signor capitano, si alzarono; ed egli, nella seggiola che gli fu
messa innanzi, si calò, a dir così, con quella
pesantezza convenzionale che quasi sempre affettano gli uomini
costituiti in una gran carica, anche allorquando non hanno a portare
nè il peso degli anni nè quello dell'adipe. Si assise
dunque, e nel punto che dal panciotto cavò la scatola d'oro,
tutta a figure ed ornamenti in rilievo e a smalto, e porse il tabacco
all'illustrissimo signor capitano:
È il lacchè? domandò; e al cenno del marchese
Recalcati non rispose che caricando a più riprese di rapato
vecchio le ampie narici di un naso abbastanza senatoriale.
Il
Galantino intanto s'era fatto tranquillo, squadrando solo il nuovo
venuto (che non era in toga, ma in giubba rosso fuoco gallonata,
e panciotto di teletta d'oro) con certe occhiate fra l'iracondo e il
beffardo, che parea dicesse:
Oh se fossimo noi due a quattr'occhi, non so come l'andrebbe, caro
nasone, con quella carta d'oro che hai sulla trippa, eccellente per
avvolgere il mandolato di Cremona!
Ma
l'attuaro, come tutto tacque e il senatore ebbe rimessa la scatola
nell'ampia saccoccia del panciotto:
Ancora dunque, così parlò al Galantino, vi esorto a
dire la verità; e a risparmiarci il dolore di dovervi far
mettere alla corda.
Quello che ho detto ripeterò sempre, rispose il costituito,
perchè è la pura verità, e sfido qualunque
prepotenza a farmi dire quello che non è.
Prepotenza di chi? domandò blandamente il senatore, sebbene
fosse per indole focoso.
Di chi ha la forza, e l'adopera per tormentare chi non l'ha.
Ma che ostinazione è la vostra, soggiunse allora con lentezza
quasi soave il senatore, di non voler confessare quel che
manifestamente risulta dai fatti e dalle deposizioni di testimoni
giurati?
Che cosa risulta? vostra signoria illustrissima mi illumini, perchè
da quello che io so e ho l'obbligo di sapere non risulta nulla, nulla
affatto contro di me, e sino ad ora non sono che la vittima di una
maledetta calunnia. Io sono accusato d'aver rubate delle carte al
marchese F... ma chi può asserirlo? chi m'ha visto a
rubarle?... Dove sono questi pretesi testimonj?
Se qualcuno v'avesse veduto, caro mio, non farebbe bisogno di
mettervi alla tortura. Sareste condannato addirittura come convinto.
Ma voi avete detto una bugia... asserendo di trovarvi altrove nella
notte del furto mentre eravate a Milano. Però se avete negato
questa verità secondaria, vuol dire che avevate interesse a
negarla
Dunque se si procede oltre, è perchè
colla vostra ostinazione voi stesso comandate la severità alla
giustizia.
Io ero a Venezia otto giorni prima della settimana grassa, e ripeto
che chi dice di no è un bugiardo infame.
E questo è quel che si vedrà, soggiunse l'attuaro.
Allora
il senator Morosini parlò sottovoce al capitano. Questi si
alzò. L'attuaro fece un cenno ai due sbirri che stavano dietro
le spalle del Galantino; ed essi, presolo per le braccia, lo trassero
fuori di quella sala per condurlo nella vicina, dove soleva darsi la
corda. Il senator Morosini, il capitano, gli altri entrarono
anch'essi in quel tristo camerone, e si posero a sedere, rinnovando
in prima l'attuaro al Galantino l'esortazione di dire la verità,
poscia accennando agli sbirri di fare il loro dovere.
Questi,
avendolo pigliato di sorpresa, gli levarono il vestito e il
panciotto, e l'afferrarono per le braccia, traendolo presso la corda
che pendeva dalla carrucola.
Il
volto del Galantino che, siccome dicemmo, s'era da qualche tempo
fatto pallido, si caricò allora improvvisamente di un rosso
cupo che gl'invase la fronte e gli orecchi; e l'occhio, naturalmente
bieco e serpentino, vibrò sugli sbirri uno sguardo così
infuocato di furore, che fece un'impressione strana sugli astanti;
poscia, flessuoso e forte come un leopardo, diede uno squasso
irresistibile ai manigoldi, avventando loro bestemmie a furia. Per un
istante fuggevolissimo ei si tenne disciolto, ma i manigoldi lo
ripresero e, ad un cenno dell'attuaro, altri due sorvennero ad
ajutare i primi. Ned egli perciò si ristava dal dare squassi
formidabili. La camicia, slacciata e laceratasi in que' forti
sbattimenti, metteva a nudo collo, petto, braccia. La chioma,
sollevata e scomposta e gettata or da un lato or dall'altro della
testa in movimento assiduo, or copriva or lasciavagli scoperto il
viso. L'animale uomo non comparve mai così bello, così
sfolgorante, così formidabile nella sua giovinezza come in
quel punto. Nella pelle e nella tinta v'era la delicatezza di una
fanciulla; nelle forme, ne' muscoli, nelle proporzioni perfettissime
l'aitanza di un gladiatore giovinetto. Il medesimo senator Morosini,
rivoltosi al capitano, non si potè trattener dall'esclamare:
Che bel ragazzo!
Ma
il bel ragazzo fu incontanente tratto in alto come un fascio di
fieno; e un gemito ferino che sordamente gli muggì in gola,
perchè una volontà di ferro avea tentato di
trattenerlo, accusò il dolor fisico derivatogli dalle braccia
squassate.
Così
sospeso per aria, all'attuaro che gli ripeteva se risolvevasi a dire
la verità:
La verità l'ho detta, rispose, anzi urlò.
Il
senator Morosini suggerì allora ai quattro manigoldi di alzare
la vittima più presso la carrucola, e accompagnò le
parole caricando di nuovo le nari di rapato, e scuotendo colla punta
del pollice e dell'indice la cadente polvere dalle ampie lattughe di
pizzo di Fiandra della camicia, asperse di oscura goccia.
Rialzato
così il Galantino, potè sentirsi lo stridere della
carrucola e il fruscìo della corda; non però un lamento
di lui, che, alla sempre uguale domanda rinnovatagli, rispose sempre
le stesse parole.
A
tal punto, per ingiunzione del capitano, venne calato giù.
Sotto al labbro inferiore del Galantino i giudici videro una striscia
rossa. A respingere il dolore col dolore s'era ficcati i denti
superiori nel labbro inferiore, al punto di farne sprizzar vivo
sangue.
Allora
venne di nuovo ammonito con mitissimo linguaggio dal marchese
Recalcati, il quale gli mise innanzi il pericolo che, per la sua
ostinazione, si sarebbe dovuto passare alla tortura grave col canape;
ma di nuovo rispose il Galantino che, giacchè essi volevano
sapere la verità, questa l'aveva già detta; e nemmeno
abbruciandolo a fuoco lento, sarebbero riusciti a fargli dir la
bugia. Nè il capitano avrebbe insistito più oltre; ma
il senatore Morosini lo interrogò di nuovo, e di nuovo lo fece
mettere alla corda, sempre però infruttuosamente; laonde
quando il Galantino fu rimandato in prigione, il capitano e l'attuaro
e gli auditori espressero il dubbio che il costituito potesse per
avventura essere innocente.
È giovane e forte, forte di corpo e d'animo, disse il senator
Morosini. La tortura semplice non basta. Vedrete che confesserà
tutto alla tortura grave.
E
al Senato fu spedita relazione del fatto, con interpellanza se si
dovesse passare alla tortura grave appunto.
Ma
il senatore Gabriele Verri parlò e parlò forte e mostrò
come tutti gli interpreti andassero d'accordo nel proibire di passare
alla tortura grave, se non fossero sopravvenuti altri indizj; onde,
per mancanza di essi, la giustizia dovette accontentarsi del
risultato della prima tortura.
E
qui ci conviene tagliar crudelmente il filo del racconto, e dare un
addio all'anno 1750; perchè un altro periodo, secondo noi,
abbastanza curioso della storia della città nostra, c'intima
di affrettarci, essendo ben lungo il còmpito che ci
siamo assunto.
LIBRO
SESTO
Gli
attori del secondo atto. I due mondi. Il Galantino.
Gli appalti delle Regalìe. Ferma generale. I
fermieri Greppi, Pezzolio, Rotigno, Mellerio. Strana
risoluzione del popolo milanese. La contrada delle Quattro
ganasce. Editto del 7 aprile 1766. Il tabacco di
contrabbando e la beltà adolescente. Il monastero di S.
Filippo.
I
Sono
trascorsi sedici anni. Saltano fanciulli e parlano adolescenti di cui
i genitori nel 1750 o non si conoscevan tra loro affatto, o non
sapevano di dover diventare marito e moglie, o i loro nomi non erano
stati ancor gridati da nessuna balaustra di altar maggiore; son
giovinotti maturi quelli che alla metà del secolo, non avendo
che venti anni, eran chiamati fanciulli dai giovinotti maturi del
loro tempo. Le belle donne che, allora nella canicola dei venticinque
anni, facevano girar la testa a chi le avvicinava, ora hanno varcato
il quarantesimo anno, e qualche ruga incipiente ha
fatto cadere, a loro dispetto, il termometro fin quasi a zero; e non
osano più sfidare le lucide e bianche mattine, e molto meno il
perfido sole di mezzogiorno, ma amano di preferenza le luci
artificiali, modificate dalle seriche cortine piuttosto color rosso o
rosa o violaceo, che gialle e verdi; e, se escono a passeggi
sollazzevoli, benedicono gli smorenti crepuscoli, incaricati di
gettare una benefica confusione tra i confini che dividono la
gioventù dalla maturanza! E chi era maturo ora è
vecchio e chi vecchio è decrepito: l'avvocato Agudio, per
esempio, non può più recarsi nemmeno in carrozza nè
in lettiga al collegio dei giureconsulti, e, obbligato al letto dal
femore cronicamente offeso, serba però ancora lucidissima la
mente e inesauribile la dottrina legale, e dà consulti a chi
ne vuole. Il dottor Bernardino Moscati si fa ajutare dal figlio
Pietro e il giovinetto Giambattista Paletta lascia la giurisprudenza
per la chirurgia superiore. Il pittor Londonio ha sparpagliato per
tutta Lombardia una popolazione di vacche e buoi e asini e capre con
tanta verità e in tale quantità, da essere chiamato in
questo genere il primo pittore del suo tempo. Pietro Verri non è
più il destituito patrocinatore dei carcerati, ma un
ex-ufficiale ripatriato, e, da cinque mesi, consigliere del consiglio
supremo d'economia; e Beccaria non è più fanciullo, ma
un giovane di trent'anni, già rinomato in tutt'Italia e in
tutt'Europa per un libro che fu alla scienza del diritto quello che
molti anni dopo fu la pila di Volta alle scienze fisiche. E giacchè
l'accennare a questo libro, insieme col libro ci fa uscire da Milano
e dall'Italia, voglia ricordarsi il lettore che poco oltre la metà
dei tre lustri decorsi erasi pubblicata a Parigi l'Enciclopedia,
a gettare in tutto il mondo un filo di congiunzione e di
fratellanza tra tutti gli uomini del pensiero, quel pensiero che
irretì e dominò e generò poi l'azione. Federico
II aveva fatto le sue grandi prove di valore nella guerra de' sette
anni; ma la preponderanza del pensiero cominciava ad essere così
invadente, che il re soldato pareva spesse volte un suddito al
cospetto dell'ironia dissolvente di Voltaire, il Mefistofele in carne
ed ossa, al cui confronto impallidisce e si dilegua il postumo ideale
del poeta di Weimar. E il genio del sentimento, intinto di pazzia e
armato di sofisma, aveva già dettato a Rousseau tutti i suoi
capolavori e il Contratto sociale, in cui stava il
germe di Robespierre e la profezia della rivoluzione francese; ed era
morto papa Lambertini, l'epigrammatica sapienza, ed eragli successo
colui che doveva essere perpetuato dal genio di Canova; e giacchè
la chiesa ci allarga a tutto il mondo, voglia ricordarsi il lettore,
per farsi un'idea del colore e della densità dell'atmosfera
ond'è tutt'all'intorno vastamente circondata la nostra piccola
sfera drammatica, voglia ricordarsi che, nel frattempo da noi
saltato, l'Inghilterra aveva già fondata la sua compagnia
nelle Indie, e cercato di sottrarre le mogli indiane al rogo
volontario, e i fanatici al carro di Jaggernath; mentre Spagna aveva
ordinato il battesimo ai Cinesi delle Manille, quasi nel tempo stesso
che scopriva il nuovo Messico ed ordinava il censimento delle
Filippine; e voglia ricordarsi che Caterina II era successa a Pietro
III sul trono di Russia, ed erasi fatta la pace tra la Svezia, la
Prussia e la Russia; e un'altra ne facevano Austria, Prussia e
Sassonia, e un'altra ancora Inghilterra, Francia e Spagna; e a
proposito di Spagna e Francia, i gesuiti della seconda avean deposto
l'abito regolare, mentre quelli della prima erano stati mandati per
mare nelle terre del papa; che nell'anno anteriore a quello a cui ci
troviamo oggi colla nostra storia, cominciò l'insurrezione
delle Colonie Inglesi nell'America settentrionale quando appunto era
uscita l'opera Dei Delitti e delle Pene. Due fatti che non
hanno in apparenza parentela nessuna, ma che pure, in così
diverso modo, vengono a mostrare la scienza dell'uomo solitario e
l'istinto delle moltitudini, anelanti alla riconquista del diritto
razionale e naturale. Ma se il nome di Beccaria ci fece uscir da
Milano, ora con lui dalle lontane regioni dei due mondi, colla
velocità quasi della luce, rivoliamo in casa nostra, a tener
dietro ai personaggi a noi già famigliari, che cangiarono età,
aspetto, condizione, fortuna; e a far la conoscenza dei nuovi, per
dominare così gli atteggiamenti di due generazioni.
Ed
ora si ripigli il filo del quale abbiam reciso un capo.
È
probabile che taluno dei più fantasiosi tra i nostri lettori
qualche volta abbia pensato, come sarebbe vario e bizzarro e
proficuo, se fosse possibile, lo spettacolo che si presenterebbe a
chi avesse facoltà in un dato punto di simultaneamente girar
l'occhio e penetrare nell'interno di più luoghi e di più
dimore, ad assistere dall'alto alla varietà delle scene e
delle azioni di molti uomini intenti a disparate cose in uno stesso
momento. Tale spettacolo, che è e fu sempre un assurdo
impossibile se non nelle ballate nordiche o nelle leggende del medio
evo, noi vogliamo presentarlo a' nostri lettori oggi, senza essere
maghi e senz'avere nessuna scopa ai nostri comandi; e questo ne
giova, perchè sorprendendo alcuni de' nostri personaggi di
antica conoscenza e alcuni de' personaggi nuovi in quell'attitudine
onde ci si mostreranno, vedremo, senza perder tempo, che intenzioni
hanno e da che punto prendon le mosse, e a che accennino.
Collochiamoci
dunque in alto, e volgiamo l'occhio ad osservare le molteplici
macchiette delle figure che stanno e s'agitano e formicolano al
basso.
Gettiamo
lo sguardo nella camera di ricevimento di donna Paola, e la vedremo
impegnata in un dialogo seriissimo con una dama, dell'età
press'a poco come la sua, e che è la contessa Arese,
conservatrice del monastero di san Filippo Neri.
E
se dopo gli occhi, vogliamo far lavorare gli orecchi, ecco quel che
al lettore potrà giovare per conoscere di che si tratta. Così
dunque sta parlando la contessa Arese:
Io ho creduto bene, donna Paola, di renderla avvisata di questa grave
circostanza. La fanciulla è troppo bella, vivace e troppo
ardente, perchè la si possa trattenere più oltre in
mezzo alle altre educande, e tanto più con quell'inconveniente
che le ho detto. D'altra parte, proibirle di passeggiare in giardino
insieme colle sue compagne, prendere per lei misure particolari,
sarebbe un gettare lo scandalo nel convento, sarebbe mettere in
allarme tutti i parenti delle fanciulle... Giacchè dunque la
ragazza è già per varcare i quindici anni, io sarei di
parere che vostra signoria, nella sua saviezza, la levasse di là,
e la tenesse qui sotto ai suoi occhi.
La ringrazio, contessa, dell'avviso e del consiglio, risponde donna
Paola; ma non è cosa che si possa fare con precipitazione. Se
colui, ch'ella dice, ha fatto acquisto della casa e del giardino
contiguo al convento con manifesta intenzione di gettare insidie alla
ragazza, mi pare che all'amministrazione del convento, pel pericolo a
cui potrebbero essere esposte tutte le monache e le educande in
conseguenza di questa comunicazione immediata coll'altrui dimora,
potrebbe far murare una cinta ed isolare il monastero affatto. Io
stessa ne farà parola... Intanto, domani che è giovedì,
parlerò alla ragazza; sentirò, e vedrò poi, di
pieno accordo colla signoria vostra, quello che si dovrà fare.
Ma
in questo punto, in cui la nobile conservatrice del monastero di san
Filippo sta parlando con donna Paola, noi, girando l'occhio e
facendolo penetrare entro al monastero stesso, possiamo vedere una
fanciulla trattenersi nel dormitorio, mentre le sue compagne educande
ne escono a coppie; indugiarsi un momento davanti uno specchio,
accarezzarsi le chiome quasi a migliorare la gretta acconciatura del
convento, levarsi il grembialetto di levantina nera, assottigliarsi
la vita stringendo la cintura oltre il punto voluto dalla governante
del dormitorio; e, fatto questo, accostarsi al proprio letto, tirar
la stringa della fodera del guanciale, levarne un gelsomino
appassito, odorarlo, con una inspirazione lenta, estatica,
voluttuosa, che finisce in un lungo sospiro; poi rimetterlo di furto,
guardandosi in torno, sotto la copertina del guanciale, e con passo
lieve lieve e quasi trasvolante uscir dal dormitorio, discender le
scale e farsi colle compagne, baciando sulla guancia la prima che le
si fa incontro, ma con un trasporto e con un atto così
particolare e curioso, che sembra quasi che, baciando materialmente
quella faccia, coll'intelletto del senso ne baci un'altra.
Tentare
di tradurre al vivo il profumo incantevole, la vaghezza, diremo,
trasparente, ma che parrebbe voler dissimulare i tratti più
risentiti di quell'adolescente beltà; rendere quella grazia
lieve e quasi fuggitiva e che lascia indovinare come, scorrendo
qualche lustro, ella potrebbe forse ritrarsi per lasciar luogo a
forme più compiute, più sode, più solenni;
tentare adunque di tradurre ciò in sembianza di verità
viva, è impossibile. Anche ai pittori è malagevole più
che mai il far ritratto della beltà femminile adolescente;
forse perchè presenta il fenomeno d'un'assidua ineguaglianza.
Ma
nel punto che questo lavoro ineffabile della natura artefice bacia il
volto della fanciulla compagna, lungi da Milano, a Bologna, in una
delle aule assegnate alla facoltà matematica, la laureata
contessa Clelia V..., seduta nella cattedra, sta leggendo ad un
uditorio di trentacinque giovani studenti le seguenti parole:
«Galilæus
ad Magni Verulamii votum deterso scholarum situ veterum geometrarum
severitate ratiocinari homines edocuit, et quadam veluti expeditione
in lunam, venerem, solem, jovem, et fixas usque feliciter absoluta,
ad reformandam physicam et mechanicam delapsus genuina principia
aperuit, quibus problemata motus omnia expedirentur, ecc.»
E
intanto che la laureata contessa sta recitando la sua prolusione, a
Monaco, nella casa vicina al teatro, il tenore Amorevoli, in
variopinta veste da camera, sta scorrendo questo brano di lettera del
signor Bruni, marito della signora Gaudenzi, il quale brano dice
così:
«Lasciando
per ora il discorso della mia Gaudenzi, che ha fatto furore a Napoli,
quantunque, per verità, non sia più giovane, vi dirò
che essendo io venuto a Milano per trattare con questi signori
interessati all'appalto del regio Ducale Teatro la scrittura di mia
moglie pel prossimo carnevale 1766 67, ho raccolte le notizie
che m'avete raccomandato. La fanciulla è tra le educande del
monastero di san Filippo Neri, e porta il nome del conte V..., e come
tale anzi fu collocata colà; il conte che vive ancora qui, ha
fatto causa per declinare la legittimità di detta sua
figliuola... La causa dura da quindici anni, avendo il conte
rinnovata la lite più volte per essergli sorvenuti sempre
nuovi documenti e testimonianze da persone di Milano e di Venezia. Ma
il Senato ha rigettato le sue domande ed ha pronunciato sentenza
contraria, dichiarando sua figlia legittima quella che voi sapete, e
avente per conseguenza pieno diritto al nome del casato del conte,
all'eredità, alla successione.»
Scorsa
la qual lettera, il tenore non fa altro che sorridere e dalla
poltrona passare alla spinetta a ripetere de' vocalizzi per tenere in
esercizio la sua trachea oramai di quarantadue anni.
E
dalla casa attigua al teatro di Monaco, piegando ancora l'ala
dell'occhio verso Milano, e fermandola al disopra di una casa in
contrada di Pantano, dopo aver percorsa una fuga di stanze a
pianterreno, in ciascuna delle quali stanno seduti giovani scrivani
col capo chino su grossi libri maestri, vediamo in un salotto un
bellissimo giovane di trentacinque anni, vestito riccamente,
ovverosia vediamo il signor Andrea Suardi, detto il Galantino, ora
banchiere, successore al signor Rocco Rotigno, quale altro degli
impresari della Ferma generale del sale, del tabacco e delle
mercanzie del ducato di Milano, intento a dir queste parole ad un suo
commesso:
In forza dell'articolo ottavo della grida del 7 aprile di quest'anno,
farete oggi, anche per ordine del presidente camerale, come appare da
questo foglio che terrete con voi, una rigorosa perquisizione nel
monastero di san Filippo Neri, dove sappiamo essersi nascosta una
gran quantità di tabacco di Spagna. Nel fare tale
perquisizione, trattandosi d'un luogo privilegiato e godente del
sacro asilo, per vostra norma vi farete leggere prima dal capo dello
studio il disposto nell'ultimo concordato colla santa sede.
Licenziato
il qual commesso, il nostro ex lacchè tira il campanello,
e al servo gallonato che gli compare innanzi:
Fa mettere la sella al cavallo, dice, che voglio uscire a fare una
galoppata.
E
una galoppata in questo medesimo istante la sta facendo un giovane di
ventisette anni, il quale chi ha veduto il ritratto di Shelley, il
fantastico amico di Byron, è costretto a dire che gli somiglia
in tutto e per tutto.
E
di fatto il giovane è figlio di padre inglese, ossia è
lord Guglielmo Crall, ossia è il figlio maggiore di donna
Paola Pietra. E il giovine caccia il cavallo a furia, avendo
probabilmente per isprone e per iscudiscio un pensiero che lo esalta,
e dopo aver fatto il giro di tutte le mura della città, se ne
vien giù per porta Romana, e d'una in altra via, fa sentire lo
scalpito suonante del suo cavallo nella contrada Nuova, dov'era
situato il monastero di san Filippo, e nella quale, venendo dal
naviglio di porta Tosa, entra, pur galoppando, il signor Andrea
Suardi, incontrandosi in lord Crall appunto, e voltando subito dopo
nella porta d'una casa.
Ed
ora che abbiam fatto sfilare la maggior parte degli attori del
secondo atto, imitando i direttori delle compagnie equestri che,
allorchè danno spettacoli nell'arena, prima d'incominciare
fanno caracollare in giro i così detti artisti che devono
prodursi sulla corda, sui cavalli e sulle bighe; ora dunque, previe
alcune spiegazioni troppo necessarie al lettore, per comprendere
talune inaspettate trasformazioni, stiamo attendendo quel che sarà
per succedere, giacchè pare che il celebre sestetto della
Cenerentola O che nodo avviluppato sia stato
scritto espressamente dal maestrone per essere poi applicato come
epigrafe al nostro libro.
II
E
intanto ci rimetteremo in compagnia del sig. Andrea Suardi che fu
l'ultimo rimasto sul palco scenico. Il lettore, dopo aver lasciato
costui nelle stanze del Capitano di Giustizia, in una condizione
tanto prossima alla berlina, avrà fatto le maraviglie nel
vederlo, sedici anni dopo, libero e sano e più bello di prima,
e colle apparenze della ricchezza, e avente un servitore coi galloni
al proprio servizio, e un cavallo da sella per le passeggiate di
diporto. Ma la fortuna e il diavolo, in tutti i tempi, han sempre
dato il braccio a' furfanti.
Ed
ora è probabile che il lettore si lamenti dell'aver noi
troncato il processo del nostro eroe. Però, a confortarlo, lo
consigliamo a pensare alla noja che avrebbe dovuto subire se avessimo
riprodotto qui tutto quello che fu scritto dagli attuari e dagli
auditori del criminale dopo l'ultimo tratto di corda dato al
costituito lacchè; lo preghiamo a considerare che, da tanta
carta e tanto inchiostro il solo fatto importante che ne risulta, è
che, non essendo sorvenuti nuovi indizj, si dovette desistere dalla
tortura grave; e che dopo sei mesi di indagini, requisizioni,
interpellanze, di esami fatti a gentiluomini, servi, camerieri, ecc.,
non essendo saltato fuori neppure un appiglio importante a danno del
costituito, esposta in ultimo ogni cosa al Senato, questo sentenziò
che il reo convenuto Andrea Suardi, detto il Galantino, dovesse
rimandarsi in libertà, mancando le prove reali del delitto
ond'era stato imputato.
Il
Suardi, appena uscito dalle carceri del Capitano, dal quale gli furon
consegnati i chirografi del denaro che esso aveva depositato sul
banco di San Marco a Venezia, non pensò che ad abboccarsi col
signor Rotigno, agente della casa F...
Dopo
la morte del conte, che nel testamento gli ebbe assegnato un legato
di milanesi lire 200 mila, l'ex-agente avea abbandonato la casa F...,
e si era congiunto al suo fratello Rocco per intraprese commerciali.
Ora
si venne maturando un fatto pubblico che diede poi un avviamento
speciale e curioso ai fatti privati. In quell'anno medesimo 1750,
anno fatale a quelle persone di cui abbiamo fatto la conoscenza, il
generale Pallavicini, ministro plenipotenziario a Milano, come sa il
lettore, abolì i separati appalti delle regalie del sale, del
tabacco, della polvere, ecc., e formò la così detta
Ferma generale, riunendo tutte le suddette regalie in un sol corpo,
ed affidandole ad una società costituita in prima da tre
Bergamaschi, quali erano Antonio Greppi, Giuseppe Pezzolio e il detto
Rocco Rotigno, a' quali in seguito si aggiunsero Giacomo Mellerio di
val Vegezzo, Francesco Antonio Bettinelli, cremonese, ed altri, fra
cui il fratello di Rocco Rotigno.
Premessa
questa notizia, e tornando ai nostri personaggi, se il Galantino,
appena uscito di prigione, pensò all'agente di casa F...;
questi non era mai stato un giorno solo senza pensare al detenuto,
chiara ragione che dalle risultanze del processo dipendevano quasi
immediatamente le condizioni della sua vita. Ben è vero che,
appena venne in possesso della somma legatagli dal conte F...,
domandò licenza all'erede di ritirarsi dall'amministrazione
della casa, accusando il desiderio di voler ridursi a vivere a
Bergamo, presso il fratello Rocco, che vi teneva commercio di seta;
ma in realtà per trovarsi lontano dal ducato di Milano, di cui
fin che gli pendeva sul capo la spada di Damocle, gli bruciava sotto
il terreno.
Ma
un dì gli giunse la notizia che il lacchè Suardi era
stato rimesso in libertà per mancanza di prove legali, e per
avere, anche sotto la duplice prova della tortura semplice,
costantemente respinta ogni accusa. Il Rotigno respirò, com'è
ben naturale, e per tal fatto gli si mise una tale bonarietà
nel sangue e s'atteggiò a tanta condiscendenza, che quando il
fratello Rocco, che spendeva più di quello che guadagnava e
che trovavasi in qualche disordine commerciale, gli propose d'entrare
secolui in una impresa, che doveva essere lucrosissima, purchè
egli fosse disposto ad esporre alla fortuna la metà almeno de'
suoi capitali, egli vi annuì senz'altro.
Codesta
impresa così vantaggiosa era appunto l'accessione che egli, il
Rotigno, come altro de' socj, doveva fare alla Ferma generale del
tabacco, sale e merci, ecc., istituita dal conte Pallavicini. L'anno
1750 era in sullo scorcio quando i tre fermieri generali Greppi,
Pezzolio e Rotigno vennero a trattare i patti col ministro
plenipotenziario. Entrava l'anno 1751 quando i loro nomi furono
pubblicati quali assuntori dell'impresa. E in quel torno appunto il
Suardi s'era, dopo sette mesi di detenzione, trovato sotto il libero
cielo.
Questi
fermieri, intanto che scadeva il termine imposto dall'abolizione
delle regalie, e prima d'entrare, a così dire, in carica, si
trovarono aver bisogno d'un gran numero d'impiegati, di commessi, di
esattori, ed anche di socj ausiliarj, i quali, congiungendosi ad essi
con qualche piccolo capitale, ricevessero da' fermieri principali un
salario congruo e una data quota sugli utili annui.
Quando
si pensa ai miracoli che sa far la fortuna, allorchè ha
fermamente deliberato di prendere alcuno a proteggere, si rimane
percossi di maraviglia vedendo come quegli accidenti stessi che per
la maggior parte degli uomini sono colpi mortali e ostacoli
insormontabili, diventino per i suoi beniamini occasioni di
felicissimi avviamenti. E così avvenne del Galantino. Cercato
del signor Rotigno, come sentì ch'esso erasi ritirato a
Bergamo, andò colà, trovollo senza difficoltà,
ebbe lunghi abboccamenti seco; e il fine di questi abboccamenti
essendo, per parte del Galantino, quello di riscuotere da lui il
residuo della somma di compenso che gli era stata promessa, il
Rotigno di necessità lo soddisfece, e per soprappiù,
importandogli, come se si trattasse di salvar gli occhi e la vita, di
mettere a tacere per sempre quel serpe velenoso da cui, volere o non
volere, egli dipendeva; gli propose appunto di entrare come esattore
a servizio della Ferma generale, investendo in quella una parte del
suo danaro, ond'essere accettato come uno de' soci secondarj.
Il
Suardi, alla cui intelligenza balenò tutta l'importanza di
quella vasta azienda, accolse il partito, siccome suol dirsi, a bocca
baciata, e impiegate nella Ferma lire quindici mila milanesi, entrò
in carica quale altro degli esattori. Essendo uscito innocente persin
dalla prova della tortura, egli non provò rossore nessuno a
tornare a fermar stanza a Milano. D'altra parte, comunque fossero le
cose, il pudore era un elemento del tutto straniero alla natura sua.
Venne dunque a Milano, si diede al suo ufficio con alacrità
insolita e con un'attività, quasi diremmo, febbrile. La spinta
prepotente d'ogni suo atto, fin da quando era fanciullo, era sempre
stato l'amore del denaro. Venuto pertanto al posto di esattore, fu
tanta la sua abilità e scaltrezza nel trovar modo di cavar
sangue anche dalle rape, che, mentre riuscì il più
pronto e il più efficace degli esattori della Ferma, tanto da
recare a questa vantaggio grandissimo; indirettamente, con astuzie
speculative che a nessun altro sarebbero venute in pensiero,
intascava lautissimamente anche per sè. Col tempo impiegò
nella Ferma altre lire ventimila, dalle quali e dalle altre
quindicimila ritraeva il cinquanta, il cento per cento. Pietro Verri,
in una memoria inedita di cui è riferito un brano dal barone
Custodi, parlando dei fermieri, dice che «costoro avevano poco
o nulla al mondo, ma affrontarono arditamente la fortuna. Essi
pagavano alla Camera cinque milioni all'anno e ne ritraevano di netto
prodotto sei milioni e mezzo. Indirettamente poi essi avevano poste
tali angarie alla filanda delle sete, che buona parte della raccolta
dei bozzoli del paese cadeva nelle loro filande, le quali erano
sparse nello Stato, e comparivano col nome di supposti proprietarj.»
Avvenne pertanto che, non volendo figurare il Rotigno Rocco quale
acquirente di una vastissima filanda di seta, sul confine del
Bergamasco, per le ragioni addotte sopra dal Verri, il Suardi ne
fosse investito apparentemente; ed anche da ciò, alla sua
maniera, ritrasse vantaggi quanti ne volle. Avvenne inoltre che il
fratello del Rotigno Rocco venne a morire nel gennajo dell'anno 1752,
la qual cosa produsse altre conseguenze vantaggiosissime al Suardi:
ed eccone la ragione. L'impresario Rocco, che già era venuto,
allorchè attendeva al semplice commercio delle sete, a tristi
termini, per la sua abitudine allo spendere più delle entrate;
fatto fermiere e, in poco tempo, trovando di poter raccogliere
guadagni al di là d'ogni preventivo, erasi dato alla larga
vita, al banchettare, al signoreggiare, senza darsi più un
pensiero al mondo del governo della casa, perchè di ciò
era specialmente incaricato il fratello ex agente, prudente
amministratore. Di modo che pare che un giornale di quel tempo,
intitolato il Corriere Zoppo, alluda a lui in quel numero del
mese di dicembre dell'anno 1753, dove è stampato che i
fermieri, oltre i gran profitti che traono, pascono la propria
ambizione nel signoreggiare e nel farsi servire alla sovrana da una
truppa di commessi.
Mortogli
pertanto il fratello, e datosi a sfoggi, a bagordi, a giuochi, a
scialacqui, e non avendo più mente per governare il fatto
proprio, fece, come suol dirsi, carta bianca al Suardi, di cui quanto
le mani fossero fedeli, il lettore lo sa al pari di noi.
Dal
1752 pertanto al 1754, per parte del signor Rocco Rotigno, non fu
altro che un guadagno continuo e senza misura e uno spendere in
proporzione; e da parte del Suardi, occhio dritto e mano dritta del
signor Rocco, non fu altro che un usufruttare il capogiro del suo
principale, tanto da far entrare in casa propria, senza che nessuno
se ne accorgesse, o almeno senza che se ne accorgesse chi poteva
impedire tal fatto, buona parte dei redditi annuali di colui, a non
tener conto de' guadagni legittimi, e non legittimi, ch'egli, quale
esattore e cointeressato, faceva per se stesso. Questa cuccagna
continuò senza interruzione e senza importuni timori sino al
mese di agosto del 1754. Ma in questo tempo, il popolo milanese,
indignato dalle espilazioni sistematiche della Ferma generale, fece
tale risoluzione e la attuò con tale fermezza e concordia di
volontà, che le casse dei signori fermieri per qualche tempo
ne dovettero sopportare gran danno.
La
relazione manoscritta di questo fatto sussiste nella biblioteca di
Brera, e fa parte della raccolta di quel monaco Benvenuti di
sant'Ambrogio ad Nemus, da cui abbiamo tolta la storia di donna Paola
Pietra; e su questa relazione sarebbe stato nostro pensiero di
condurre un quadro disegnato e colorito in modo, che il lettore
fosse, come a dire, trasportato in mezzo a que' fatti. Ma un
istancabile scrittore, molti anni sono, avendo pubblicato gran parte
di quella cronaca, non ha lasciato che noi potessimo far cosa nuova.
Però ci limiteremo a riassumere i fatti principali di quella
relazione stessa con quegli intendimenti che non sono in essa e che
non si propose chi la diede in luce; riporteremo poi, sempre
riassumendo, quelle parti della cronaca stessa che il suo editore ha
creduto bene di omettere, ma che al fatto nostro riescono preziose e
caratteristiche. Nell'azione così di un astuto furfante (il
Suardi) infaticabile a frodare il danaro pubblico per la protezione
d'improvvide leggi, e nella reazione oculata, sapiente, ed ugualmente
infaticabile di un generoso e vigoroso intelletto (il Verri) che si
propose di difendere la pubblica ricchezza dalla mano rapace di
pochi, vedremo un atteggiamento curioso di quel tempo, e la crisi
benefica operarsi, come in quasi tutti i membri della società
d'allora, così anche in codesta parte della pubblica
amministrazione.
III
Più
dunque era il guadagno de' fermieri e degli interessati della Ferma,
più cresceva in essi, meglio che il desiderio, la libidine del
guadagno e la gelosia sospettosa che il pubblico frodasse loro
qualche cosa. In quell'anno 1754 erano diventate frequentissime e
vessatorie le perquisizioni nelle botteghe, ne' magazzini, nelle case
private, persino in quelle delle più cospicue famiglie,
persino ne' conventi e nei monasteri, i privilegi de' quali, in
faccia alle inesorabili esigenze della Ferma, venivano
transitoriamente sospesi dalla sacra Congregazione. L'avarizia e
l'auri sacra fames de' fermieri aveva loro consigliato un
sistema di prodigalità nella corruzione, vogliamo dire che
essi facevano regali così lauti e pesanti ai pochi nelle cui
mani stavan le redini principali della cosa pubblica, che questi,
interessati indirettamente negli utili, aprivano le mani per star
pronti a chiudere gli occhi, e a proteggere gli abusi, le prepotenze
e le esorbitanze colla legge e colla forza. A Ferragosto, a Natale,
ogni qualvolta era opportuno, si mandavano a coloro che potevano quel
che volevano, casse di cioccolata sopraffina di Caracca, i cui pani
dovevano far l'ufficio di coprire un sedimento di talleri, o di
zecchini, o di oggetti preziosi in oro, in argento, in gemme, a
seconda del grado e dell'indole dell'uomo. Una volta tra l'altre
e crediamo sia stata la sola perchè l'occasione e il bisogno
fu della massima importanza un servizio da tavola tutto d'oro,
del valore di circa ottantamila ducati, venne avvolto nella bambagia,
dissimulato appunto dalla fragranza del cacao, del thè e del
caffè; e così spedito al ministro Kaunitz. Nel torbido
adunque si pescava chiaro; e il sinedrio dei divoratori sedeva a
tavola con formidabili ganascie, mentre i loro commessi entravano
dappertutto insolentemente a metter sossopra merci, masserizie,
mobiglie, per cercare quel che talvolta non c'era, e spesso per avere
l'occasione di metter l'indulgenza a caro prezzo.
Una
tale tempesta imperversò, come dicemmo, in quell'anno 1754 più
ancora degli anni addietro, al punto da costringere i cittadini a
perdere la pazienza.
In
poco spazio di tempo, dice il cronista di sant'Ambrogio ad Nemus,
la città in ogni ordine di persone si vide tutta contro i
fermieri. Non potendo privarsi degli oggetti utili e
indispensabili per privare i fermieri del guadagno che ne ritraevano,
risolsero di smettere l'uso del tabacco, dal quale appunto ricavava
la Ferma il principale provento. Sembra incredibile ma fu vero,
continua il cronista, ed in poco più di quattro giorni, tanto
nella città capitale che in altre città del Ducato,
l'impresa del tabacco rimase quasi del tutto abbandonata. Si
bruciarono in piazza mucchi di tabacchiere di legno; quelle d'argento
furono mandate in offerta al sepolcro di san Carlo; si stamparono
patenti scherzevoli sopra il tabacco, e motti derisorj da mettersi
nelle scatole vuote e da inviarsi a chi si fosse pensato di non
obbedire al voler generale; si scrissero componimenti poetici,
sonetti, scherzi d'ogni sorta che rapidissimamente facevano il giro
di tutto il Ducato. All'ingresso dell'Impresa generale del tabacco,
situata in Pescheria Vecchia, fu appeso un cartello colle parole
cubitali: Bottega d'affittare fuori di tempo; fu gettato un
arcolajo tra gli assistenti della Ferma che sedevano in essa bottega,
per indicar loro che attendessero a far giù filo, non avendo
più occasione di vender tabacco; s'indirizzò da essi
una frotta di contadine, venute a Milano per vender filo; di notte
s'affiggevano in molte parti della città iscrizioni d'ogni
foggia, relative tutte al medesimo oggetto; fu fatta circolare una
leggenda erudita contro il tabacco, estratta dalla scuola del Buon
Cristiano, stampata nel 1733 dal Marelli; fu diretto un sonetto a sua
eccellenza il signor conte don Beltrame Cristiani, capo della Giunta
governativa, sostenitore de' fermieri, e mangiatore anch'esso alla
buona tavola comune, sebbene, del resto, fosse un egregio ed abile e
dotto uomo; le quartine del qual sonetto erano le seguenti:
Il
volere arricchir troppo le Imprese
È
un vero impoverir tutti i mercanti,
È
un voler che Milan fra stenti e pianti
Vada
il vitto a cercar fuor del paese.
Manca
il danaro e non si guarda a spese
Per
arruolare battidori e fanti;
Giuro,
se va così, per tutti i santi,
Che
Milan diverrà come Varese.
Sulla
nuova fabbrica del palazzo dello stesso conte Cristiani in Monforte
fu appesa l'iscrizione: Sumptibus Firmaræ generalis; la
qual contrada di Monforte, appunto per esservi il palazzo del conte
Cristiani, da qualche anno veniva chiamata dal buon popolo milanese:
Contrada delle Quattro ganasce, adoperando esso al solito
quella satira gioviale che è una qualità caratteristica
della sua indole e di cui è tutto quanto condizionato il suo
dialetto.
Per
sei mesi continuò così la popolazione ad astenersi dal
tabacco. Se non che i lamenti essendo stati rivolti anche alla
cattiva qualità di quello che si vendeva prima dell'anno 1754,
i fermieri cominciarono a introdursi con destrezza tra persona e
persona, a donare alcune prove di tabacco veramente perfetto a varie
delle più cospicue e nobili case, le quali a poco a poco si
arresero. E Andrea Suardi, con insolita scaltrezza, per ricattar
l'impresa e ricattar sè stesso del danno passeggiero, propose
ai capi della Ferma, al fine di rimuovere il popolo milanese dalla
risoluzione di non prender tabacco, di farlo venire da altrove, per
qualche tempo, come se fosse di contrabbando.
Ed
egli s'impegnò di governare il nuovo stratagemma, e di vincere
la universale fermezza coll'inganno. Di tal modo l'astuto ottenne di
gabbare e la popolazione e la stessa Ferma; chè l'una e
l'altra, prese come furono all'amo, lavorarono a tutto suo vantaggio.
Ed ecco in qual modo.
Da
molto tempo egli erasi accorto del quanto avrebbe guadagnato chi si
fosse posto a capo di un vasto contrabbando, mettendo in lizza l'odio
che la popolazione avea contro la Ferma; ma un tale assunto, oltre
che era pericolosissimo per chicchessia, a lui riusciva impossibile,
impegnato com'era colla ferma stessa; perchè necessariamente
avrebber dovuto dar nell'occhio le sue pratiche coi capi dei
contrabbandieri di confine, detti volgarmente spalloni. Quando
pertanto gli parve che il contrabbando poteva servire a far credere
al popolo che a prender tabacco frodato si perdurava nella
dimostrazione contro i fermieri, e che ciò intanto veniva
opportunissimo a far ripigliare un'usanza, che, per puntiglio, potea
facilmente andare in dissuetudine, egli lo propose ai capi, a cui il
nuovo trovato parve una scoperta mirabile. Il Suardi in tal modo,
sotto gli occhi e per volontà degli stessi fermieri, si mise
in relazione coi così detti spalloni di confine,
relazione che non abbandonò più, anche allorquando,
dopo un anno, ogni cosa tornò alla condizione primiera; per il
che e da una parte e dall'altra i guadagni fioccarono nella sua
cassa.
Mandava
inesorabilmente i suoi fanti a sequestrare nei magazzini e nelle
botteghe il tabacco e le altre mercanzie di contrabbando; ed era
spesso quel tabacco ed eran quelle mercanzie stesse de' cui
contrabbandi egli era il manutengolo supremo. Così era pagato
lautamente dai capi della Ferma, e nel tempo stesso era ringraziato
dagli spalloni che guadagnavano per lui e con lui. Faceva da Giasone
e facea da Medea, facea da Paride e Menelao. Tanto il diavolo poteva
parere un semplicione al suo confronto.
IV
Rimessasi
la popolazione milanese in tranquillità, sbolliti gli odj,
almeno in apparenza, ricomprate le tabacchiere, riscossi i nasi dal
semestrale riposo, i signori fermieri e compagnia tornarono ad
assidersi a tavola coll'appetito accresciuto e coi pilori
instancabili, e più il tempo fuggiva dal temuto agosto del 54,
più si facevano imperterriti alle espilazioni ed alle
vessazioni. La miniera dell'oro e dell'argento a loro medesimi pareva
così esorbitantemente ricca, che pel timore che da un giorno
all'altro loro potesse mai venir tolta, facevano in fretta e in
furia, a così dire, le scorte per ovviare ai pericoli
contingenti. Un tal timore crebbe nel 1758, in conseguenza
dell'abolizione de' fermieri, decretata negli Stati Pontificj il 12
dicembre 1757, e delle lodi che da tutte le gazzette e dai fogli
pubblici vennero al capo della chiesa, Benedetto XIV. Segnatamente
nel Corriere Zoppo o Mercurio storico di Lugano fu
stampato un lungo ed assennato articolo, che fece gran senso; e nel
quale, tra l'altre cose, dopo dimostrati i vantaggi che dovevano
conseguire negli Stati romani alla risoluzione pontificia, leggevansi
queste considerazioni:
«Chiunque
si fa a vedere que' paesi, ne' quali è libero tal genere
(ossia il commercio del tabacco dalla Ferma), a prova conosce che le
lusinghevoli esibizioni de' fermieri non finiscono poi che a
spopolare e ad inquietare le città, i cittadini e i
forestieri, a tutto loro profitto e con iscapito del principe a cui
servono.»
E
soggiunge (alludendo senza dubbio al ducato di Milano): «Si è
sperato in un luogo fioritissimo d'Europa poch'anni fa, che si
dovesse abbracciare l'opportuno partito preso ora dal Pontefice. Le
compensazioni proposte al Re per reintegrare le sue finanze del
prodotto di tale appalto e i beni che ne sarebbero avvenuti nello
Stato, erano posti in tal chiarezza da un gran personaggio, che i
popoli credevano da un giorno all'altro di sentirne l'abolimento.
«Ora
però, conchiude, che il capo della Chiesa ha dato un così
bell'esempio, è credibile che sarà da altri principi
imitato, e che essi approfitteranno dei vantaggi che può
produrre il dilatato commercio d'un genere reso tanto comune. Se il
tutto si riducesse ad appalti, le città più fiorite
diverrebbero solitudini, restringendosi a poche case quel che è
il sostegno di tante famiglie.»
Il
fatto adunque del decreto pontificio, la voce pubblica, le gazzette
misero in tale apprensione i signori fermieri, che questi presero il
partito di Wallenstein, il quale saccheggiava i paesi quando vedeva
di non poter fermarvisi a lungo coll'esercito.
Fra
tutti i fermieri e gli addetti alla Ferma, quel che viveva in minor
timore era pur sempre il Suardi, per le ragioni sopraccennate, ed
anche perchè in quell'anno medesimo il signor Rocco Rotigno,
in conseguenza di una prodigalità forsennata, dei colpi
maestri che egli il signor Suardi aveva dato al di lui naviglio
pericolante, carico di debiti enormi, sparì improvvisamente da
Milano nel mese di ottobre. La favola del cavalier Beltrame e di
Roberto il Diavolo s'era verificata nell'intimità del Suardi
col Rotigno; e questi dovette perder tutto, sollecitato dalle maligne
insinuazioni del suo amministratore, che comparve in prima lista fra'
creditori quando il fallimento venne pubblicato.
Riguardo
al detto Rotigno è curioso il Monitorio pubblicato
nelle parrocchie della città di Milano, segnato dal canonico
Bazetta, cancelliere arcivescovile, e stampato in Milano per
Beniamino Sirtori, tipografo arcivescovile. È diretto a tutti
i reverendi abati, priori, prevosti, arcipreti, rettori, curati e
vice curati delle chiese tanto regolari, quanto secolari, e
comincia così: «Ci è stato esposto per parte di
certi signori di questa città, che alcune persone, li nomi
delle quali non si sanno, in perdizione delle anime loro ed in gran
danno dei creditori del signor Rocco Rotigno, indebitamente
occultano, detengono, occupano o sanno chi indebitamente ha, detiene,
occupa ed usurpa oro ed argento, denari, ferro, legno, bronzo,
stagno, rame, lino, seta, suppellettili di casa, istromenti,
scritture, libri de' conti, ragioni, crediti ed altri beni spettanti
al detto signor Rocco Rotigno, non curandosi di restituire,
soddisfare e rivelare come devono...»; e continua, comandando
ai sopraddetti, «che in virtù di santa obbedienza e
sotto pena di sospensione a divinis nelle loro chiese in
presenza del popolo, avvisino pubblicamente le persone di
qualsivoglia stato, grado e condizione le quali occultano, usurpano,
ecc., che in termine di nove giorni debbano, sotto pena di scomunica,
aver interamente restituito a' detti creditori ciò che
detengono», ecc.; e conchiude invitando anche i soli aventi
notizie di qualche mal atto, a far le debite rivelazioni in mano del
cancelliere arcivescovile o del vicario foraneo, colla dichiarazione
che delle rivelazioni non si potesse agire che civilmente e per solo
interesse civile.
Per
verità non consta, ma ci pare che, tenuto conto dei fatti
precedenti, e avuto riguardo agli istinti rapaci del nostro ex lacchè
Galantino, egli avrà dovuto essere uno di quei tali detentori
minacciati di scomunica. Ma nessuno si occupò di far
rivelazioni a danno suo, nè egli si prese premura alcuna di
consegnare o al cancelliere arcivescovile o al vicario foraneo
oggetto di sorta; nè la scomunica lo colpì mai nè
allora nè dopo. Bensì fu notato com'esso, da una certa
magrezza accidentale, ma che non fu troppo fuggitiva, la quale aveva
alterato di qualche poco la sua bellezza giovanile, cominciò a
riaversi alquanto dopo la morte del primo Rotigno; se ne rifece quasi
del tutto dopo la scomparsa del Rotigno secondo, e trascorso un anno,
gli si soffusero di novello incarnato le belle guance, che
ritornarono tumidette e rigogliose di beata salute: press'a poco
siccome avvenne di alcuni famosi eroi delle antiche e delle moderne
storie, i quali dalla squallida magrezza onde furono investiti sotto
all'azione violenta dell'insaziato genio della conquista, si riebbero
quando poterono appagare la loro ambizione, e raggiunger l'ultimo
intento.
E
otto anni passarono così al Suardi tra la giovinezza che
baldanzosa gli maturava, e la salute che continuava, e l'allegria che
cresceva, e la ricchezza che s'accumulava. Ma a un tratto la
popolazione milanese sbuffò come nel 1754, e fu nell'occasione
in cui venne pubblicato l'editto del 7 aprile 1766, provocato
certamente dai fermieri, coi soliti mezzi onde sapevano ottenere
tutto quel che volevano, e forse da essi medesimi imaginato e
scritto, perchè l'assurda violenza che v'è comandata
non può spiegarsi se non facendone autrice la loro insaziabile
ingordigia. L'editto consta di ventotto articoli, ne' quali è
tenuto conto, con minutezza cavillosa, di tutti i casi, non soltanto
probabili, ma semplicemente possibili in cui la Ferma, rispetto alla
regalia del tabacco, potesse menomamente venir danneggiata. Le pene,
per la detenzione clandestina di tabacco frodato, varcano, senza
nessuna apparenza della benchè menoma giustizia legale, ogni
misura di proporzione colla colpa; poichè si estendono dalla
multa di scudi cento per ogni libbra di tabacco, a due tratti di
corda, a tre anni di galera, persino alla confisca dei beni; e, quel
che è incredibile a dirsi, questa pena veniva minacciata a'
padroni per la possibile colpa dei servi, ai padri per la colpa dei
figli, come dichiarava la lettera del capitolo primo. E la sola
detenzione di tabacco estero, pur in quella piccola quantità
che non potea passare il privato consumo, veniva punita colla frusta,
colla corda, col bando, e quando si trattasse di nobili, colla
relegazione in fortezza, a tenore dell'articolo terzo. E davasi
facoltà agli ufficiali e deputati della Ferma di entrare,
d'ogni ora e tempo, a loro beneplacito in casa di qualunque persona,
di qualsivoglia stato, grado e condizione... come in qualunque luogo
esente di rispetto e privilegiato, a sensi dell'articolo
ottavo; e persino di far perquisire nei castelli e nei quartieri
militari, infliggendo la pena dell'indennizzo del quadruplo del danno
e del sequestro del soldo ai castellani, capitani, tenenti ed
ufficiali, come ingiungeva l'articolo undecimo.
V
Or
piegando dai fatti pubblici ai privati, alcune pagine addietro
abbiamo udito il Suardi a dar gli ordini ad un suo commesso per una
perquisizione da farsi nel monastero di san Filippo Neri. Pare
adunque che il tabacco di contrabbando sia per aver qualche relazione
coll'adolescente beltà che già abbiamo delineato con
matita color di rosa, e che forse avrebbe avuto tutt'altro avviamento
nella vita se non ci fosse stata la Ferma generale del tabacco, e se
non fossero stati pubblicati i ventotto capitoli dell'editto del 66.
Gli amanti delle salsette piccanti, che odiano il tabacco ed
hanno in orrore i capitolati, vogliano compiacersi a credere
qualche volta che alle cose più scabre si connettono le più
vaghe e gentili, e che se un libro dovesse tutto quanto essere,
cosparso di amori e sospiri e baci, provocherebbe una sazietà,
da far desiderare l'abolizione dei baci, dei sospiri e degli amori.
Dopo
di ciò, il nome di quella beltà adolescente era Ada,
nome che, per quanto ci consta, non fu portato che da due donne
celebri, vale a dire dalla moglie giovinetta di Caino e da una
figliuola di lord Byron. Come poi le sia stato imposto quel nome,
pochissimo usato adesso e allora forse ignoto, non essendo ancora
uscito il mistero di Byron a renderlo popolare, bisogna
domandarlo a sua madre, che un dì, leggendo la Bibbia per
consigliarsi coi proverbj di Salomone, nello sfogliare il libro, le
corse all'occhio la parola Ada che è nella Genesi e fu così
colpita da quella parola soave pel duplice a e per la
consonante di greca mollezza, che ricercando da qualche tempo un bel
nome da imporre a chi ella doveva mettere in luce fra pochi dì:
Ecco quel che cercava, disse fra sè, pel caso che chi
nascesse avesse la fortuna sì poco benigna da essere piuttosto
femmina che maschio. E così avvenne di fatto, e la
fanciulla fu chiamata Ada. Portata al sacro fonte, la neonata, quando
l'inconscia sua testolina sentì il freddo battesimale, mandò
guaiti sì acuti, che pareano persino presaghi di futuri
affanni. Dopo, per tutto il tempo ch'ella pendette dalle poppe
materne, fragranti come quelle d'Andromaca, obbedì
saporitamente alle leggi fisiologiche di quel periodo di sedici mesi.
Indi subì le malattie inevitabili dell'infanzia; subì
un croup assalitore che mise in disperazione l'amor materno e
in moto tutta la facoltà medica di Milano; ebbe le ferse
che minacciarono di rientrare per un colpo d'aria infesto. Poi fu
divisa da sua madre che andò a Bologna, perchè sua
madre era donna Clelia, come il lettore sa sebbene non glielo abbiamo
ancor detto. Quando la contessa passò in quella città
(perchè, in conseguenza di talune bizzarrie del
conte colonnello, che non basterebbe chiamar tali, essendo state
piuttosto atti pericolosi di feroce escandescenza, ella dovette
abbandonare Milano), la fanciulla aveva cinque anni; quattro ne
scorsero prima che donna Clelia vi ritornasse, per rivederla di
passaggio e di gran premura, cogliendo la propizia occasione che il
conte V... era andato per diporto a Parigi. E allorchè la
vide, ammirò beata quel suo capolavoro di bellezza infantile;
tanto più beata quanto più le pareva di veder nel lume
di quegli occhi giovinetti balenare un raggio d'altri occhi, benchè
nell'insieme la fanciulla fosse tanto somigliante a sua madre come la
parte più piccola somiglierebbe alla parte maggiore di una
gemma preziosa che si potesse dividere in due. E la passione che, pel
lavoro del tempo, s'era in lei tanto quanto attiepidita rispetto a
colui che sa il lettore, riproruppe nell'intimo suo un dì che
la fanciulla, dandosi a ridere, riprodusse una lieve e fugace
alterazione delle linee del viso, che era caratteristica in suo
padre; diciamo in suo padre, non nel conte V...
È
cosa dolorosissima a pensarsi, ma, troppo spesso, ella è vera.
Le passioni nate e cresciute e alimentate in onta al grido
dell'opinione pubblica, e al decreto dell'assoluto dovere, e al
soliloquio assiduo della coscienza, sono le più ardue a
sradicarsi da un cuore, e spesso non si sradicano che colla vita. Un
amore invece che sia stato protetto anche dalle sospettose madri, e
benveduto dai padri perplessi, e che abbia meritato le
congratulazioni di tutto il parentorio, per quanto ei sia fervido
agli esordj, è destinato a svampare, ad addormirsi, a morire,
appena abbia percorso il suo periodo fisiologico; a morire in pace
bensì e a suo letto, come suol dirsi, ma pur sempre a morire;
press'a poco forse come i conforti incessanti di una vita agiata
afflosciano l'esistenza, e i leni tepori del caminetto ponno
addormentare dopo il pranzo anche uomini attivi e impazienti come
Giulio Cesare e Napoleone. Davvero che c'è da gettar via la
testa meditando su codesti arcani del cuore umano, ma la colpa non è
nostra se gli amori benedetti muojono in pace, mentre le maledette
passioni vivono in guerra. Ora quella indefinita alterazione nelle
vaghe linee della fanciulletta Ada, che riprodusse al vivo il sorriso
di Amorevoli, fece nel cuore della contessa l'effetto di un metallo
rovente che, immerso nell'acqua alquanto sbollita, ritorni a farla
stridere. O cara e sventurata Clelia, indarno protetta dai logaritmi
e dalle ipotenuse! Divisa da colui da otto anni, troncato ogni
carteggio seco per uno sforzo violento della sua volontà,
ossia per un atto di virtù vera..., che brividi ella sentì
corrersi pel sangue nel sorprendere il fuggitivo baleno di
quell'antico sorriso! Fu allora che l'affetto antico, risorto
tutt'intero, non trovò altra via di sfogo salutare che
nell'abbracciare e baciare e stringere a sè quella soave sua
Ada, per la quale in quel momento, sentì cresciuta la
tenerezza al punto, che l'amor materno sembrò quasi assumere,
per un istante, i fervori di una violenta passione! Ma ora dovevan
dividersi.
La
contessa tornò a Bologna; Ada fu ricondotta in monastero. Or
che lume d'intelletto risplendeva entro al leggiadro velo di quella
fanciulletta? che spontanea virtù di natura avea sortito? che
cuore, che sentimenti, che istinti? Ahi, nata di passione, pur
troppo, il germe di essa le si depose inavvertito nel sangue, quasi
come avviene de' malori gentilizj! germe destinato a dar subite
espansioni e precoci, a guisa di un fiore che, affidando all'aria
ancor fredda le sue prepostere fragranze, precorra, annunciandola, la
primavera; e all'occulto germe doveva dar forza e riceverne a
gara, per le consuete rispondenze arcane, una non comune svegliatezza
di mente, recando essa nell'ingegno un abito spontaneo a manifestarsi
col linguaggio dell'arte! Tutte queste cose, quando la fanciulla non
avea che otto anni, non furono intravedute che dalla penetrazione
profonda di donna Paola; ma a dieci anni vennero considerate, e con
inquietudine sospettosa, anche dalla madre superiora del monastero di
san Filippo. L'ingegno straripava in insolita vivacità, e
certe baldanzose interrogazioni della fanciulletta turbarono spesso
l'insipienza bigotta delle monache maestre. Per di più, come
voleva l'uso del tempo e la consuetudine dei monasteri, alla
fanciulla fu insegnata la musica; domandando ella stessa un tale
studio, perchè un naturale istinto ve la portava, e
desiderandolo anche donna Paola Pietra, per essere ella medesima,
come sa il lettore, tanto insigne in quest'arte.
Un
bello e acuto ingegno, ma piuttosto amico del paradosso, s'è
messo in testa di voler provare che la musica, fra tutte, sia l'arte
religiosa per eccellenza. Il valent'uomo ha sfoggiata a ciò
molta dialettica e maggior dottrina, ma non è riuscito a
persuaderci, quantunque abbia santa Cecilia per sua naturale
protettrice. La musica, onde giungere all'intelletto, deve
attraversare necessariamente i sensi; e non rendendo essa nessun
concetto preciso e determinato che attragga l'intelletto con
velocità, spesso avviene che, indugiandosi troppo a lungo coi
sensi stessi, smarrisca poi la via di pervenire allo spirito. Però
non a caso ha detto un savio dell'antichità, che la musica
feconda il senso prima del tempo; onde, stando così le cose,
non vediamo come la teologia possa giovarsi troppo del suo ajuto. Ma,
comunque sieno per sentenziare i saggi su di ciò, e limitando
la questione ad un solo esempio, a quello esibitoci dalla giovinetta
Ada, ella mostrò in sè stessa che quel savio
dell'antichità aveva pronunciato il vero. Anzi, or che ci
rammenta, ella non vien nè sola nè prima a dar ragione
a colui; ma vien seconda a una certa duchessa Elena, di nostra
intrinseca conoscenza. Al pari di questa adunque, come la fanciulla
Ada toccò i tredici anni, ossia come le si dischiuse il
periglioso crepuscolo dell'adolescenza, allorchè per istudio e
per diporto facea scorrere la mano sui tasti dell'organo, più
non istette paga ai suoni tesi ed agli accompagnamenti solenni del
Tantum ergo; ma con estro inventivo traendone suoni della più
fantastica inspirazione, questi le rivelarono la confusa iride di una
vita di cui non aveva ancora notizia. Siamo sempre ai soliti misteri
della vita.
In
seguito a tali idee, la fanciulla, uscendo al giovedì dal
monastero per recarsi alla casa di donna Paola, cominciò a
guardare il mondo circostante con un occhio che non era più
quello dell'infanzia; così l'anno tredicesimo sfumò, e
spuntò il quattordicesimo; e trascorse anch'esso, e la
bellezza intanto cresceva e il lago del cuore non era più
calmo, e vennero gli anni quindici. Ahi! che un giorno il Suardi, il
quale già l'aveva adocchiata altre volte, e aveva notizia di
lei e dell'origine sua, si fermò a contemplarla con perfida
intenzione, guardandolo pur essa con innocenza mal presaga; chè
il volto e gli occhi del Suardi erano di quella fatale qualità
che dove cadono lasciano il segno, quantunque non fosse più
giovinetto; ma anche Adalgisa cantava:
E
tutta assorta in quel leggiadro aspetto
Un
altro ciel mirar credetti in lui.
pensando
a Pollione, il quale aveva trentacinque anni, giusta un computo
esattissimo. Del rimanente, guai se una giovinetta trova di riposar
l'occhio in un giovane che tramonta. Ella è perduta, se altri
non la strappano. Un giovane che quasi ha finito d'esser giovane, e
annuncia già la calva e bigia virilità, aduna tutte le
sue forze e i suoi prestigj in sull'estremo, e combatte come un
soldato il quale sa che il ponte gli fu tagliato alle spalle. Però
guardatevi, o giovinette care, dalle tentazioni di un giovane che a
momenti non sarà più tale. Il diavolo stesso vi potrà
essere men funesto. Fuggite, o fanciulle, i giovani vecchi. È
questo un parere da vero amico, che vi scongiuro di ascoltare.
VI
Molte
erano le ragioni per cui il Galantino, descritta che ebbe quella
strana parabola, per la quale, dopo essere nato da un cocchiere nelle
stalle del marchese F..., ed essersi dilettato a frugar nelle
saccocce del suo padrone protettore, e aver mostrato la gamba più
veloce tra quelle dei lacchè di tutto il Ducato, ed aver fatto
il ladro commissionario per compensi non vulgari, e avere indossata a
Venezia la serica velada di lustrissimo per frodare l'altrui
al giuoco, e aver subìto la tortura col coraggio onde
quell'antico Romano mise la mano ad ardere nel braciere, e averla
subìta e vinta per uscir dalle mani della legge netto e
purgato come un lebbroso da un bagno di zolfo, era pervenuto ad
essere uno degli addetti alla Ferma, a possedere tre case in Milano,
due grandi magazzini di varie merci nei Corpi Santi, due filande di
seta tra Palazzolo e Bergamo, una villa ridente e voluttuosa tra
Gorla e Crescenzago, un'altra villetta in Brianza; a nuotare in somma
nell'oro, a dormire sotto il moschetto di damasco violetto, a portare
uno splendido anellone di lapislazzuli sull'indice ed un altro di
diamante dalla più pura e bianca goccia sul medio, e due
orologi d'oro a ripetizione nel taschino, perchè, come allora
voleva il costume, l'uno facesse la controlleria dell'altro; a
calzare gli stivaletti di sommaco filettati d'oro, col fiocco d'oro e
gli speroni d'argento, per caracollare su d'un bellissimo puledro
normanno color isabella, a lunga criniera nera e coda lunghissima che
sommoveva la polvere del corso di via Marina; lungo il quale, tra le
file dei carrozzoni patrizj, faceva leggiadra mostra di sè,
mentre le giovani dame gli lanciavan guardi furtivi, e i mariti
bestemmie e dileggi che non trovavan eco nelle mogli (e qui ci sia
permesso tirar il fiato, perchè abbiam fatto un periodo alla
Guicciardini); molte dunque erano le ragioni per cui aveva messo
l'occhio sulla fanciulla Ada, educanda nel monastero di san Filippo.
Egli ricordavasi troppo del dialogo avuto colla contessa Clelia a
Venezia, e s'era fitto in capo che le rivelazioni di essa fossero
state la causa della sua cattura. Aveva pertanto fermato di trarne
vendetta, e se questa non gli riuscì la prima volta che l'ebbe
tentata, non vuol dire ch'ei dovesse deporne il pensiero. Ben è
vero ch'egli non era uomo da trascurare i propri affari per un tal
fine, e nemmeno di cercarne affannosamente le occasioni; ma tuttavia
avea sempre pensato che, se un'occasione qualunque gli si fosse
presentata spontanea e nei momenti d'ozio, egli sarebbe sempre stato
disposto a coltivarla. Oltre a ciò, e indipendentemente dai
rancori colla contessa Clelia, egli, sebbene avesse avuto un
protettore nel marchese F... e un compenso in danari non dispregevole
dal conte fratello di esso, portava un'avversione profonda alla casta
patrizia, pel semplice motivo, ma significantissimo, che dai crocchj
dei gentiluomini al teatro, al ridotto, alle case di giuoco, ai
pubblici convegni era sempre stato e veniva sfuggito con disprezzo
manifesto, in ispecial modo dal conte-colonnello. Poco curandosi del
resto del conte colonnello, gli era nato un desiderio vivissimo,
uno di quei desiderj che diventano irrequieti perchè nascono
di puntigli, di regolarsi in modo che, o una qualche dama vedova,
delle primissime famiglie, la quale per combinazione fosse straricca
e fosse ancora giovane e ancora bella, cadesse per avventura nelle
sue insidie amorose; oppure, e per lui era il disegno più
conveniente, invece della vedova, venisse a trovarsi nel laccio una
qualche contessina o marchesina giovinetta e inesperta, e le cose si
riducessero al punto che il matrimonio fosse reso indispensabile.
A
tutto questo pensò per lungo tempo, senza tuttavia darvi una
grande importanza, e solo in quei momenti, in cui beveva il caffè
dopo il pranzo, o cavalcava solitario, o stava così
sottocoltre alla mattina, aspettando che il servo gli recasse l'acqua
fresca inzuccherata. Se non che il destin volle che un giorno,
sedendo a pranzo in casa d'uno dei capi della Ferma, tra i varj
parlari, il discorso cadesse sulla contessa V... e da uno dei
commensali venissero dette queste precise parole: «a proposito,
ho visto jeri la figliuola di lei, quella che fu messa in San
Filippo; oh che bella e graziosa tosina!... È tutta sua madre,
se forse non ha una certa grazietta inesprimibile, che sua madre non
aveva!»
Non
ci ricorda in qual battaglia, ma in una delle più celebri,
Napoleone, il quale non vedeva ancora ben chiaro sull'esito di essa,
a un tratto, sentite le relazioni d'un suo ajutante che accorreva
sbuffante, balzò in piedi e gridò: La vittoria è
nostra. Ora il Suardi non balzò in piedi e non gridò,
ma pensò tra sè: Adesso vedo quel che si ha a fare,
e fermò un mezzo partito. Così, otto giorni dopo, ossia
quando ricorse l'altro giovedì, giacchè dal commensale
amico aveva sentito anche i particolari della giornata, si trovò
in luogo ed in ora opportuna, e vide, anzi guardò la
fanciulla. Gironzando poi là in vicinanza del monastero di San
Filippo, osservata un'ortaglia con casamento, entrò così
a caso a dimandare di chi fosse, e giacchè da qualche tempo
andava cercando un vasto luogo in Milano, non molto distante dal suo
studio in Pantano, per deposito di mercanzie, chiese se il
proprietario sarebbe disposto a vender quel luogo. Il proprietario
non era spontaneamente disposto, ma il Suardi esibì di pagarlo
qualcosa più del valore, e alcuni giorni dopo egli ne era
diventato il padrone. Quando lo comperò, non aveva per verità
altro fine che di farne un deposito di merci; dell'averlo poi scelto
invece d'un altro non aveva una ragione precisa, quantunque ne avesse
molte d'indeterminate. Ma nell'ora e nel luogo acconcio ei si mostrò
alla fanciulla un altro giovedì; e la fanciulla lo guardò
ancora più attenta, ed egli la ferì d'una di quelle
occhiate che, ogni qualvolta in simili contingenze le ebbe dirette
con ferma intenzione, al pari delle frecce di Guglielmo Tell, non gli
erano mai fallite; e sorse un quarto giovedì, e il Suardi si
comportò di maniera che la fanciulla s'accorgesse com'egli
uscisse da una casa accosto al monastero.
Entrava
l'estate dell'anno 1766, e quotidianamente cominciò a recarsi
colà, verso le ore in cui le monache e le educande
discendevano a passeggiar per diporto in giardino. Se si dovesse dire
che il Galantino, nella vaga confusione de' suoi disegni, non avesse
altro scopo che di soddisfare a' suoi rancori colla contessa, si
direbbe il falso. In realtà, quando vide la fanciulla, e
quando la fanciulla guardò lui, segnatamente alla seconda ed
alla terza volta, egli sentì nel sangue, se non precisamente
l'amore, qualcosa certo di molto affine ad esso, e l'avrebbe sentito
e coltivato quando pure non si trattasse della figlia della contessa.
Al
Suardi, il lettore già lo sa, era sempre piaciuta la bellezza
femminile, e, avvenente qual era, nella sua progressiva
trasformazione di lacchè in vagabondo, in fermiere, in
negoziante, in ricco possidente, ebbe tante avventure amorose quante
ne volle. S'era poi sempre mostrato, fin dall'età adolescente,
assai propenso a innamorarsi di chi era di qualche grado superiore
alla sua condizione. Ora, siccome le facce del poliedro umano sono
tante, e fu già dimostrato dalle prove e riprove de savj che
un uomo non è mai tutt'affatto cattivo nè tutt'affatto
buono, e che anche nel sangue più guasto, sapendo adoperare,
nell'analisi di esso, la virtù degli agenti e reagenti
chimici, si rinviene sempre qualche dose più o meno abbondante
di buon sangue, così il Suardi, nelle contingenze amorose,
recava spesso una gentilezza che, quasi, potea dirsi quella di un
gentiluomo squisito.
Amando
le donne, anzi idolatrandole, allorchè s'aveniva in quel
genere di beltà che aveva potenza di su di lui, lasciavasi
vincere da essa, dominare e, quasi diremmo, tramutare. Era forse
quella medesima cagione recondita per cui, fin dalla fanciullezza,
avendo sempre ambito il vestire elegante, avea frugato nelle saccocce
del padrone, vinto dalle tentazioni di parere in faccia alle donne
più di quello che era. Qualunque poi fosse la cagione,
serbando esso un abito di gentilezza nel fare all'amore, trovandosi
là solo, all'ora dei miti crepuscoli estivi, su d'un balcone
che rispondeva sul muro di cinta dell'ortaglia del monastero, la
quale non frequentata che dall'ortolano, serviva come d'antemurale al
giardino stesso dove passeggiavano le monache e le educande, ei si
deliziava nel sentire le voci fresche, che l'aria gli portava, delle
giovinette convenute là a sollazzarsi; e si compiaceva nel
tentar d'indovinare e distinguere, fra tutte le altre, la voce della
fanciulla che da qualche tempo gli si era piantata immobile in
fantasia. Del resto, per astuto che fosse e ricchissimo di trovati,
egli veniva là tutti i giorni, senza saper ancora perchè,
e quasi per aspettar dalla fortuna il premio dell'insistenza; press'a
poco come un astronomo che tutte le notti appunti il telescopio in
qualche plaga sospettata del cielo, nella fiducia che un astro
novello ci cada dentro a dargli il vanto di scopritore. Ma che
volete, o lettori? È tanto vero che la fortuna è
l'alleata più fida del genio del male, che un dì
l'astro aspettato brillò veramente agli occhi del Suardi.
Ed
ecco in qual modo. Se il Suardi, scaltrito da lunghissima esperienza,
preoccupato da tanti affari, sacerdote anziano del tempio di Gnido,
col cuore fatto a squama di coccodrillo, per quanto, come dicemmo, lo
spettacolo della bellezza avesse scoperto il suo lato molle e
penetrabile, erasi tuttavia lasciato dominar tanto dal pensiero di
quella fanciulla; è troppo facile imaginare come stesse il
cuore e come tumultuasse la fantasia della quindicenne Ada, appena
l'occhio maliardo del bellissimo Suardi la ebbe penetrata.
Nova
in quella nova regione dell'amore, sebbene da lei presentita in
confuso per la misteriosa intuizione del senso precocemente
riscaldato dall'ingegno e dallo studio di un'arte che recava in sè
stessa la seduzione, ella provò tosto quell'intima gioja,
mista di compiacenza e persino d'orgoglio, che non si confonde con
nessun'altra gioja al mondo, e quell'irrequietudine particolare e
senza riposo la quale spesso converte l'amore in ciò che può
chiamarsi, già lo dicemmo, il tetano morale. Sapeva che
colui abitava, o, almeno, veniva spesso in un sito contiguo al
monastero, chè in questo il Suardi aveva ottenuto il suo
intento. Passeggiando ella dunque nel giardino, cominciò a
dilungarsi dalla giovinetta schiera delle compagne alunne, e ad
esplorare d'ogni intorno per iscoprire se mai le potesse pervenire
qualche sentore di colui. Quando facevasi sommesso o taceva del tutto
il cicaleccio delle amiche, stava, come suol dirsi, in sull'ale,
quasi sperasse che quell'insolito silenzio venisse mai rotto da
qualche voce che non fosse quella delle amiche o delle maestre;
allorchè un giorno, pervenuta all'ultimo lembo del giardino,
dov'era come una baracca, la quale serviva di legnaja e di
ripostiglio per gli strumenti rurali dell'ortolano, penetrò in
essa come un viaggiatore sempre in cerca di una terra inesplorata, e
s'affacciò così a caso ad una rozza finestretta con
inferriata. S'affacciò e fuggì e cadde a sedere su dei
covoni di paglia, quasi svenuta. Il Suardi era al balcone, e vide
quel raggio balenare di tratto, e svanire come una stella di
sant'Elmo.
LIBRO
SETTIMO
Ada.
Il Galantino e l'ortolano del monastero di San Filippo Neri.
Guglielmo lord Crall. La casa Ottoboni Serbelloni.
Pietro Verri e il bilancio dello stato del commercio nel ducato di
Milano. I commissarj della Ferma. Una loggia di Liberi
Muratori nella contrada di san Vittorello. Il Galantino e il
figlio della Baroggi. La madre priora di San Filippo. I
commessi della Ferma e i Liberi Muratori.
I
Il
giorno dopo (e correva la prima metà del mese di giugno, del
che non a caso facciamo avvertito il lettore) il Galantino ritornò,
com'è naturale, a quella sua vedetta.
Ritornò,
ma non uscì sul balcone, bensì stette nascosto dietro
le griglie. Per quanto ei fosse fiducioso di sè e della
propria avvenenza, e fosse reso baldo dalle molte e continue e facili
sue vittorie, pure non avrebbe saputo giurare a se stesso d'aver
fatto nella fanciulla quella profonda impressione, da cui dovesse poi
prorompere la necessità d'una corrispondenza. Era ingegnoso e
acuto, lo abbiam detto cento volte, e conoceva le anomalie dei cuori
femminili; ma d'altra parte, nella interminabil lista delle sue
avventure, non ancora era comparsa una figura sì giovane, sì
olezzante di fragranza virginea.
Era
quella la prima volta ch'ei trovavasi al cospetto d'una innocenza
tanto pura, mentre egli era di tanto più provetto di lei, che
avrebbe potuto essere suo padre. E congetturava che l'innocenza può
parere audace, può sembrar perfino d'esprimere desideri non
puri, e ciò per l'eccesso appunto della illibatezza, la quale
procede spensierata e confidente; e pensava che poteva essersi
ingannato, e l'apparizione repentina della fanciulla e la repentina
sua scomparsa riuscirne una prova fedele. Però disse tra sè,
quando si pose ad aspettare in silenzio dietro le griglie: Se
ella oggi ritorna, allora non c'è dubbio, sarà quel che
sarà, e nessuno m'incolpi se farò quel che sarò
per fare. Se poi non ritorna...
E
la fanciulla Ada ritornò e s'affacciò: s'affacciò
e si ritrasse, per affacciarsi e ritrarsi ancora, come fa la
capriuola che, irresoluta, sporge la testa dalla rupe, quasi odorando
il vento se gli porta rumor di cacciatori, e fugge precipitosa, per
ritornar tosto a rigirar l'occhio sospettoso finchè,
rassicurata, spicca il salto e procede. E anche Ada ritornò
là, e girato l'occhio intorno e non vedendo nessuno, si fermò
e alzò lentamente lo sguardo al balcone poco discosto
lasciandovelo riposare a lungo, e quasi dimenticandolo su di esso,
assorta in una immobile contemplazione! Oh divino spettacolo della
giovinezza, della beltà e della innocenza! Oh spettacolo
doloroso della tentazione, che sorge lenta lenta, e inavvertita si
associa a così dolci compagne!
O
voi che avete i cuori fatti d'agata, e dal gelo del sangue vi fu reso
arcigno e spietato il giudizio, non vogliate abborrire in
anticipazione, quasi fosse una figliuola del diavolo, questa
leggiadra figura che, senza sua colpa, portò dalla natura
strani fervori nel sangue. Costei, credo bene di dirvelo anche a
costo di prevenire gli eventi, perchè se avete degli odj a
usufruttare, ne scagliate altrove il veleno; costei, pur attraverso a
un doloroso tramite di pericoli, è predestinata alla sincera
virtù, se la virtù sta nel far violenza a se stessi, e
non nel portarne la maschera senza volere il vero bene, anzi senza
nemmeno comprenderlo. Questo sia detto senza andare in collera,
perchè non veniate a turbarci coi vostri obliqui affanni, o
lividi farisei, e coi sospetti di chi non vede che colpa e
maledizione in ogni spontanea effervescenza dell'affetto.
Or
continuando, il Suardi uscì sul balcone, e contemporaneamente
alla sua comparsa gettò una carta entro alla finestra, dove
Ada stava in contemplazione; ed ella, arrossendo, ancora si ritirò,
raccogliendo però la carta, nella quale era quel fiore, quel
fiore che noi l'abbiam già vista a levare di sotto alla tela
del guanciale del suo lettuccio collegiale, ed a fiutarlo,
coll'olfatto, diremo, dell'anima. Allora il Suardi si tenne certo di
essere rimasto nel cuore della fanciulla, e su tale certezza ordì
un disegno che mai non gli era venuto in mente sino a quel punto. E,
uscito di là, e recatosi alla sua casa civile in Pantano,
mandò, senza perder tempo, un suo uomo di studio a cercare
dell'ortolano del monastero di San Filippo, con ordine che gli desse
qualche danaro a persuadergli d'andare a lui, quando per caso si
fosse mostrato restìo. Ma l'uomo di studio si portò
bene, e l'ortolano, senza farsi troppo pregare, si accompagnò
con esso, e venne alla presenza del Suardi, nel suo gabinetto
segreto.
Oh bravo! così disse il Suardi seduto all'ortolano che stava
in piedi, quando l'uomo di studio uscì dal gabinetto; ti
ringrazio dell'essere stato così sollecito. Ma prima di
tutto... ti piace il vin di Cipro?
Per dire che mi piace penso che bisogna aver buona memoria. Me ne ha
dato un bicchiere tre anni fa il cameriere della marchesa Ottoboni,
quando portai in quella casa un mazzo di fiori, nell'occasione che si
faceva sposa la marchesina ch'era stata educata in convento.
Rinfresca dunque la memoria e riscalda lo stomaco con questo.
Obbligato alle sue grazie... buono! Ma ora posso sapere per cosa
vossignoria mi ha fatto chiamare?
Dimmi un po', il mio uomo, sei tu ammogliato?
Mancherebbe anche questa, caro signore, con quella miseria di salario
che si ha in convento. È già molto se posso provvedere
a me e alla mia vecchia madre. Per la moglie e per i figliuoli non
c'è posto davvero.
Guarda mo, il mio uomo, io credevo che tu stessi benissimo colà...
perchè conosco molti altri ortolani e giardinieri che hanno il
tuo e poi ancora il tuo. Ma come va dunque la cosa?
Come vada ora lo so io... come è andata una volta non lo so...
Ma pare che non si sia pensato all'ortolano, quando si fondò
il monastero... Tanto che la dama conservatrice mi dà qualche
cosa del suo... e del resto vivo d'incerti che capitano quando
capitano; e se mai dà il caso d'un'annata in cui le educande
non escano in molte dal convento, per ritornare, fatte grandi e brave
nelle loro famiglie, non c'è nemmeno il pretesto di far loro
qualche bel regalo coi fiori del giardino che è il solo mio
vantaggio, dal momento che, non per superbia, ma son più
giardiniere che ortolano, ed è questa ancora una fortuna;
perchè fagiuoli, cavoli, carote e cipolle van tutte a finire
nella cucina del convento, dove il cuoco par che mangi anche la parte
delle reverende e delle educande.
Quand'è così, va benone. La mia paura era che colà
tu stessi troppo bene.
Paura? ma perchè paura?
Perchè, per una villa che ho in Brianza, ho bisogno di un
giardiniere, ma di un bravo giardiniere. Io lo pagherei bene. Oltre a
ciò avrebbe i proventi dell'ortaglia per lui, e le mance de'
mazzi di fiori che di tanto in tanto si mandano a regalare alle belle
che escono a villeggiare. Io t'ho visto, e mi sei parso il mio uomo.
Non vecchio, non giovane, buone spalle, cera lustra, occhio furbo ma
galantuomo. E allora potresti prendere anche moglie. Scommetto che
più di una volta t'è venuto il ghiribizzo di prender
moglie...
Il signore scherza.
Io non ischerzo, il mio uomo. Ma se ti piacciono i patti, domani o
dopo esci in campagna con me... ed oggi, anzi adesso, prima che tu
esca di qui, ti do, a titolo di caparra, una mezza dozzina di
zecchini. Ti piacciono i zecchini?
Più ancora del vin di Cipro.
Dunque ci stai?
Ci sto.
Ecco i zecchini. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Va bene?
E
licenziò l'ortolano; nè per quel dì gli disse
altro; ch'ella è astuzia antica e greca il non parlar mai in
sulle prime della cosa che più importa.
Intanto
il giorno successivo, all'ora consueta, il Suardi fu al balcone
consueto, o, per dir meglio, stette ancora nascosto, per vedere se la
fanciulla ricompariva, e per non darle soggezione, quando mai
ricomparisse. E Ada ricomparve, e si fermò, e il Galantino le
rivolse una parola, una parola vaga e insignificante, tanto per
provar la voce; e Ada rispose una parola anche essa, ma non
intera; e soltanto per far sentir la voce; una voce di
mezzo contralto vellutata, la quale compì l'opera,
mettendo alla massima bollitura il sangue di Galantino.
E
in quel dì stesso egli fece chiamare di nuovo l'ortolano del
convento, e:
Senti, gli disse, prima che ce n'andiamo in campagna, ho bisogno che
tu mi faccia un piacere.
Vossignoria non ha che a comandarmi.
Prima di tutto, hai tu accesso libero in convento?
Fino ad un certo punto, sì.
Già s'intende, sino ad un certo punto. Ma fin dove, per
esempio?
In cucina, in legnaja, in cantina... e qualche volta, quando le
monache sono in refettorio o in giardino, si va a far pulizia ne'
dormitoj; e quando le ragazze sono a letto, si va a farla in
refettorio.
Sei tu solo a far questo?
Io e il facchino del convento.
Ma va benone. Or vedi che si ha a fare. Vieni intanto con me.
E
l'ortolano seguì il Suardi in un camerone terreno.
Vedi tu tutta questa roba?
Vedo e sento. È un tale odor di tabacco che si starnuta anche
senza annasare.
Ebbene, ho bisogno che tutta questa roba, già non è poi
gran cosa, tu la distribuisca, un po' per giorno, in molte parti del
convento, in quelle parti che sono fuori della vista giornaliera.
Oh... questo è impossibile.
Per chi ha buona volontà non c'è niente di impossibile.
Anche questo può esser vero... ma...
Che ma?
Vossignoria sa cosa c'è di nuovo.
Vuoi tu che non lo sappia? Sono uno di quelli che hanno fatta la
legge.
Capisco.
Non c'è dunque per me nessun pericolo a contravvenirvi.
Per vossignoria, no; ma per quelle del convento...
Ma sei forse innamorato delle monache?
Io? oh!...
Lascia dunque andare, e piglia questi due zecchini che cogli altri
faranno otto... Finita la cosa, te ne darò altri quattro, e
così faranno dodici. Trovami fuori or tu un ortolano in tutto
il Ducato che in ventiquattro ore guadagni dodici zecchini.
A far l'ortolano, no; ma nemmeno io ci riesco, perchè mi pare
ch'oggi non si tratti nè di cipolle nè di lattughe.
Dunque...
Eh... basta... quando si tratta di cambiar stato, si può fare
un tiro anche alle monache.
Sicchè?
Sicchè... se vossignoria ha altri affari a cui pensare, ci
pensi pure... che in quanto a questo è bell'e spicciato.
L'ho detto io. Cera lustra, occhio furbo e galantuomo.
Furbo sì... galantuomo non si può sempre viver sicuri
di esserlo...
Va là, va là... e non farmi lo scrupoloso, chè
son tutte inezie, e già non si ha a far male a nessuno. Del
resto, fatta la cosa, tu viaggi in collina, e un altro verrà
al tuo posto. Anzi, dovresti pensare fin d'ora al sostituto.
Oh non occorre pensarci. Ci sono aspiranti a trentine, chè
tutti credono che il convento ingrassi e l'orto delle monache sia un
bel zapparlo...
Ah furbo che tu sei... dunque siamo intesi.
E
l'ortolano partì.
Ora
per non trarre il lettore per le lunghe, gli basti sapere che,
siccome il Suardi volle, così venne fatto; chè
l'ortolano distribuì il tabacco tanto equabilmente in tutte le
parti del convento, che non ne andarono senza nè il refettorio
nè i dormitoj.
E
il lettore durerebbe fatica a prestar fede a questo, se non lo
avessimo informato appuntino degli abusi e delle enormezze ribalde
che si commettevano in Milano per mettere i cittadini in
contravvenzione rispetto al nuovo editto sulla Ferma. Nè
soltanto si faceva entrar di soppiatto il tabacco nelle case de' gran
signori e dovunque si presentava una facile occasione, o un servo
venale o un portinajo più venale ancora che facesse il
manutengolo; ma ne' giardini si buttavan da' muricciuoli di cinta
anche sacchetti di sale, onde poter così gettar la colpa sul
padrone di casa, sul prevosto della parrocchia, sul priore del
convento: perchè la voracità de' fermieri s'era diffusa
a tutta la folla de' loro satelliti, i quali, anche senza averne il
comando, commettevano inaudite nefandità per intascare le
quote che loro eran dovute sulla esazione delle multe; e, sovente
ancora, per altri fini indiretti che sapevano iniquamente dissimulare
sotto colore di dover fare inesorabili perquisizioni nelle interne
dimore; delle quali esorbitanze or appunto ci porse un saggio il
Galantino. Ma che intenzioni aveva egli? ma perchè, sotto
pretesto di frugare onde cercare il tabacco di contrabbando, aveva
pensato di mandar volpi e faine nell'ovile intemerato?
Questo
è ciò che vedremo in seguito. Intanto ci convien
recarci in casa di donna Paola, negli appartamenti del suo figlio
maggiore, di quel Guglielmo lord Crall che noi abbiamo già
visto a venir di gran trotto per via Nuova, verso le parti appunto
del monastero di San Filippo. E ci convien far la sua conoscenza
intima, perchè non dobbiamo attenderci cose indifferenti da
questo bel giovane biondo, costituito dalla duplice natura d'italiano
e d'inglese, nato da genitori di tempra fuor dell'ordine comune,
caldo di mente, caldo di cuore, scolaro di Parini, lettore di
Rousseau, entusiasta, misantropo, che dovea presentire quella
melanconia destinata dal secolo a certi spiriti eccezionali, donde
poi scaturì il concetto del Werther di Goethe, e quella
che si potrebbe chiamare la moda del suicidio.
II
Questo
Guglielmo lord Crall lo abbiam già veduto adolescente di dieci
in undici anni a tradurre, in compagnia del suo minor fratello, una
satira d'Orazio, essendone istitutore ripetitore il giovane
abate Parini.
Ora
devesi sapere che il marito di donna Paola lasciò morendo una
ricca facoltà ai due figli; che mancato a Londra nel 1762 un
fratello di esso, accrebbe di tanto gli averi dei due suoi nipoti,
che questi potevano stare a fare coi più ricchi di Milano; che
il minore di loro, due anni prima del tempo a cui ci troviamo, si
recò a Londra per compiacere alla tendenza che sentiva in sè
irresistibile per i viaggi e la vita avventurosa; e che il maggiore
prescelse di starsi invece con sua madre a Milano, tutto infervorato
com'era di lettere e poesia e speculazioni filosofiche. Di questo
Guglielmo lord Crall abbiamo anzi sott'occhio un volumetto, stampato
del Galeazzi, di poesie latine (Carmina Latina Domini
Gulielmi Cralii E Londino oriundi Mediolani, typ.
Jos. Galeatii 1765), poesie tibulliane assai più che oraziane,
sebbene di mestissima vena, e qua e là soffuse di una mistica
nebbia che non poteva appartenere al genio di nessun poeta pagano e
latino. Ma de' suoi versi tibulliani modificati dallo spleen
inglese, il quale dal sangue del padre era passato nel suo,
parleremo in altra circostanza. Per ora ne basti sapere che, mentre
egli attendeva alla stampa de' proprj versi, s'innamorò, come
può innamorarsi un italiano moltiplicato per un inglese, di
una fanciulla, la quale, e chi non l'ha indovinata prima? era appunto
la crescente Ada.
Vi
sono persone, per lo più femminili, qualche volta maschili, le
quali, trovandosi giovani in presenza di giovani dell'altro sesso,
non possono nè muoversi nè respirare nè guardare
senza nuocere all'altrui buon umore, ossia senza destare qualche
furente passione, la quale poi, allorquando non è corrisposta,
finisce per essere incomodissima e molesta, e qualche volta persino
pericolosa a chi l'ha innocentemente provocata. Egli è perciò
che sono talora degni d'invidia quelli che dalla natura fisica non
ricevettero tutt'intero nè perfetto il loro appannaggio, ed
ebbero qualche occhio di meno, o qualche protuberanza di più,
e dalla rachitide e dalla scrofola furono preparati in modo da
servire di controstimolo a chi è nato per amare. Costoro
almeno, se hanno il diritto di lagnarsi di molte cose, non hanno a
subire la sorte di esser vittima dell'altrui simpatia!
Tornando
ora al giovane Guglielmo e alla fanciulla Ada, la disgrazia fu che
egli stette assente da Milano, per essere stato alle più
celebri università d'Italia, una mezza dozzina di anni; e che
non potè assistere al graduato sviluppo della fanciulla;
bensì, lasciatala ragazzetta, la rivide adolescente, anzi con
tutti i prestigi d'un'adulta. Noi non pretendiamo che sia un rimedio
sicuro per non innamorarsi di una fanciulla, l'averla vista a
nascere, a crescere, a piangere colle lagrime dell'infanzia. Gli
uomini non vedono all'ultimo che il frutto maturo, e non rinunciano a
mangiarlo per averlo visto acerbo. Tuttavia, qualche volta, giovò
questa circostanza a serbare illesi de' giovani maturi dai tormentosi
affetti per fanciulle adolescenti, e forse avrebbe giovato anche al
giovane Guglielmo. Ma per fatalità quando ei ritornò, a
ventisei anni, vide Ada che ne aveva quattordici, con tutti gli
attributi esterni dei quindici e quasi anche dei sedici anni.
Allorchè la vide, e fu appunto un giovedì di vacanza,
la prima di lui sensazione fu di rimanere abbagliato e scosso; la
seconda, di non credere che fosse quella stessa Ada che l'avea spesso
frastornato co' suoi trastulli infantili. Se non che, passando il
tempo, e vedendola altre volte, e sentendola parlare con garbo assai,
e ascoltandola cantare e suonare, con quella voce di mezzo contralto
velata di voluttà, con quelle mani bianche, lunghe, sottili,
intellettuali, se può passar la parola, l'incanto cessò
di esser passeggiero. Per di più, movendo ella gli occhi con
una espressione di guardatura tenerissima, egli si confidò
d'interpretare quell'espressione a proprio vantaggio ogni qualvolta i
lenti e grandi occhi di Ada riposavano inconscj su di lui. Ma non
bisogna fidarsi dei begli occhi delle belle, chè il loro
linguaggio somiglia molto a quello della musica, la quale possiede un
linguaggio universale che può dir tutto e può dir
nulla, e guai se le parole del libretto non vengono in soccorso delle
note. Però, cari i miei giovinotti, che cantate vittoria
perchè un'occhiata v'ha lusingato, vogliate credere a chi ha
più esperienza di voi: Non vi fidate. E a buoni conti, per la
vostra tranquillità, fate venire in soccorso degli occhi una
esplicita dichiarazione, la quale, se sarà scritta e in carta
bollata, meglio.
Ma
se oggi possiamo venire in aiuto de' nostri giovani amici, ci stringe
il cuore di non aver potuto aiutare il cogitabondo Guglielmo lord
Crall, il quale prestò una fede così illimitata agli
occhi di Ada, che ne rimase ferito incurabilmente; gli occhi di Ada,
i quali erano ben lontani dal credere di doversi compromettere
adempiendo alla necessità del loro ufficio. Ned egli confidò
a nessuno il suo segreto; onde la passione tanto più fremeva
quanto più era compressa di dentro. Nè mai pensò
di farne motto alla fanciulla. Le pareva di troppo acerba. E quando
pure avess'egli saputo passar sopra a tal fatto, lo faceva ritroso la
condizione di educanda in cui Ada trovavasi ancora. Ma il suo
silenzio se valse con tutti non valse con donna Paola. Gli occhi
delle madri, quando trattasi di figli amatissimi, comprendono cose
che nessun occhio acuto non potrebbe mai decifrare. Ma ella pure, dal
canto suo, non solo non ne fece motto al figlio, ma dissimulò
profondamente d'essersene accorta. Ella non poteva veder di buon
occhio quest'affetto, e si crucciò amarissimamente appena ne
ebbe sentore. Le parea come di farsi rea di lesa delicatezza,
soltanto a pensare alla possibilità che, ritornando a Milano
la contessa Clelia, la quale con sì fiducioso abbandono le
avea lasciata la cura della figlia, trovasse poi nella casa medesima
di donna Paola già adulto un amore tra la propria figliuola e
il figlio di lei. Perciò taceva e sperava, e quando la nobil
donna conservatrice del monastero di San Filippo, le parlò
dell'indole troppo vivace e risentita dell'educanda Ada, e le propose
di ritirarla dal collegio, ella amò di lasciar cadere quel
discorso, perchè tutto avrebbe voluto anzichè tenersi
in casa quell'occasione di contrattempi e di sciagure possibili.
A
tal punto eran dunque le cose, quando Ada alle tentatrici parole del
Suardi ebbe risposto più col suono della voce che con altre
parole. Ma il dramma sollecitava il suo gran colpo di scena.
Tutti
i giorni, essendo entrata l'estate, il giovane Crall soleva recarsi
in sul tramontare della giornata in casa della marchesa
Serbelloni Ottoboni, dov'era il convegno di tutti i begli
spiriti della città di Milano. Il dì stesso in cui il
Suardi, per ingiunzione dei capi della Ferma, e per decreto della
magistratura, e con permesso della sacra congregazione, trattandosi
di luogo eccezionale, aveva stabilito di mandare la solita
sgherraglia a perquisire il monastero di San Filippo Neri; quel dì
stesso lord Crall non credette di rompere le sue abitudini e si recò
in casa Ottoboni. Era l'ora in cui cominciava, a dir così, la
processione delle carrozze patrizie dirette al corso di via Marina; e
dal terrazzo di casa Ottoboni vedendosi le carrozze che di tanto in
tanto si soffermavano, e i cavalcatori eleganti che facevano pompa di
sè e dei preziosi puledri, e i passeggieri pedestri, si traeva
partito da questa congiuntura per passare quelle ore che precedevan
la cena, dimezzando così il tempo tra la conversazione in sala
e lo spettacolo del pubblico che moveva a diporto.
In
quel giorno, tra gli altri, v'era là l'abate Parini, v'era
Pietro Verri, v'era il suo intrinsicissimo Padre Paolo Frisi, v'era
Cesare Beccaria, il segretario Cesare Larghi, v'era la sorella di
Gaetana Agnese, la non meno rinomata, almeno allora, Maria Agnese, la
sola compositrice di musica drammatica ricca di fantasia e di
dottrina che vanti ancora la storia dell'arte; v'era quel maestro
Galmini destinato a fare il quarto con Adamo, Matusalem e Noè;
chè di quel tempo aveva settantanove anni, e tenne dalla
natura un piloro di bronzo così poderosamente costrutto, che
per morire dovette aspettare altri cinquantanove anni ancora, essendo
morto nel 1825 di centotrentotto anni, e avendo così potuto
abbracciare in un amplesso quasi tutta la scala ascendente delle
vicende progressive dell'arte sua, dal rivoluzionario Monteverde al
rivoluzionario Rossini. V'era il pittor Londonio, il tormento dei
preti, dei frati, dei vecchi, di tutti, e che, per farlo stare
alquanto in riga a quella conversazione quotidiana, non ci voleva che
la graziosa dignità della marchesa padrona, e l'occhio
fulminante dell'austero Parini. Era quella insomma una bella e buona
compagnia, e non sapremmo se oggi se ne potrebbe mettere insieme una
migliore.
Il
Parini aveva allora trentasette anni, e quantunque, per mangiare,
dovesse ancora arrabbattarsi a dar lezione, chè assai poco gli
fruttava l'avere avuto dal conte Firmian l'incumbenza di stendere la
Gazzetta Ufficiale di Milano, pure era già la figura
più gloriosa della città. Erano usciti il Mattino e
il Mezzogiorno; e risuonava delle sue lodi tutta
Italia, ed avea già ottenuto di frenare il mal gusto che aveva
straripato a furia per un secolo e mezzo; di ricondurre l'arte alle
sue limpide e severe sorgenti, e di farsi odiare da una mezza dozzina
di nobilissimi milanesi, che ebbero l'orgoglio di voler vedere sè
stessi nell'ideale dipinto dell'immortale poemetto; tra' quali
spiccava quel conte Alberico F..., con cui ci troveremo; il qual
conte Alberico volle disputare al principe B... il vanto di aver
tentato di consacrare ad una vindice bastonatura le povere spalle
dell'abate scellerato.
Ma
l'abate impaziente, irrequieto e versatile, passava così
zoppicando da un crocchio all'altro, parlando di musica colla bella
Agnese, e digredendo, a proposito della mano di lei che scorreva sui
tasti di un gravicembalo, sulle qualità indispensabili,
costitutive d'una bella mano; e contraddicendo Londonio che voleva
sfoggiare la sua dottrina in ciò, e contraddicendolo con
apparenza di violentissima enfasi, per finir tutto in celia e lasciar
scornato l'avversario comico, il quale, quell'unica volta, avea
parlato sul serio; chè era codesto un modo caratteristico del
conversare di Parini, come ci vien riferito anche dal suo scolaro e
biografo Reina. E dalla musica e dall'estetica delle mani egli
passava a parlare col Larghi, schizzando spirito e bile in qualche
fuggitiva questione di letteratura e poesia; anche qui alzando la
sonora sua voce a far tacere quanti parlavano nella sala, i quali,
sebbene conoscessero quella sua abitudine bizzarra, si mettevano in
grave apprensione, non fosse mai per impegnarsi qualche lotta
violenta e scandalosa. Soltanto tra Parini e Pietro Verri i ragionari
correvano in un modo speciale. Quel venerabile vecchio Bruni, che
abbiam conosciuto a Pusiano, e che fu per noi il libro parlante che
più ci istruì intorno a buona parte delle cose già
descritte, ci disse più volte, parlando di Parini e Verri coi
quali e tra' quali si trovò sovente, ch'eglino si stimavano
assai vicendevolmente, ma si temevano forse più di quello che
si amassero, e che però ei sarebbe stato disposto a credere,
frugando in fondo a' penetrali della coscienza di ambidue, che
qualche spruzzo di celata antipatia avesse leggermente inacidito il
loro sangue. Parini primeggiava, e, avea il diritto di primeggiare.
Verri voleva primeggiare, e ne avea il diritto. Era dunque invidia,
era gelosia?... chi lo sa?... Ma anche gli uomini più
intemerati e santi sono uomini; e non ponno frugar ne' cuori de'
benemeriti mortali se non gli acuti contemporanei che hanno potuto
leggere attentamente ne' loro occhi. Or mentre Parini tuonava, il
conte Verri era impegnato in un discorso colla marchesa Ottoboni,
alla quale proponeva, essendo essa letteratissima, di tradurre il
teatro francese applaudito, e segnatamente le ottime commedie di
Molière, per tentare in tal guisa di purgare anche il teatro
comico a Milano dalle scipite laidezze ond'era contaminato, chiamando
così il Verri in ajuto delle sue idee innovatrici l'opera
altrui; applicando la sua immensa attività a infondere vita
nuova a tutto quello che invocava una riforma nella sua patria, e
amando che fosse applicato a sè quel passo di Sofocle:
Per
me, per voi, per tutta
La
città mi travaglio ......
In
altra parte poi, Cesare Beccaria, seduto solo, anzi sdrajato su d'un
canapè, già annojato del peso della sua precoce
corpulenza e della gloria che non aveva cercato, dissimulava, sotto
l'aspetto d'una indolenza invincibile, l'attività prodigiosa
ma intermittente di uno spirito che conflagrava a sbalzi, e
prorompeva poi come la lava; e, inerte, pareva non avesse nè
pensieri nè volontà di pensare, e non badasse a nessuno
dei discorsi che si facevano intorno a lui; chè girava
vagamente la semichiusa pupilla di cosa in cosa, come uno che abbia
piuttosto volontà di dormire che d'operare; ma in realtà
ascoltando tutto, e avvicinando le idee estreme che tumultuavano in
quella sala nel cicaleccio di tante persone, e di ciascuna idea che
gli paresse non rigettabile facendo base alla feconda generazione di
tutte le idee conseguenti, colla prontezza d'una facoltà
induttiva prodigiosa.
Ora
nel punto che codesto quadro animato si moveva in sala, sul
terrazzone agitavasi un altro quadro animato, più attraente di
quello che stava in sala, essendo costituito di belle e giovani
gentildonne.
I
discorsi che volavano all'aria dalle lor bocche leggiadre non
assomigliavano a quelli che facevansi al di dentro. Non un tèma
industriale, non un tèma scientifico, non uno di belle arti,
nemmeno di musica; se pure alle arti non si volessero ascrivere i bei
giovinotti attillatissimi che passavano a cavallo per di là.
Tenendo dunque dietro quelle care donne ai cari giovani, d'improvviso
chi stava in sala sentì esclamare da mezza dozzina di bocche:
Guarda, guarda guardate il Galantino. E tutti,
meno il Beccaria, che non avrebbe lasciato il molle canapè per
tutto l'oro del mondo, si fecero al terrazzo, ai balconi, alle
finestre, tanto quel Galantino era diventato un oggetto di moda, un
capo d'arbitrio, come suol dirsi; tanto era esso
presente alla memoria di tutti, poichè l'eccesso della sua
famigerata ribalderia, quasi redenta da una smodata fortuna, la quale
pareva si dilettasse a camminar sfacciatamente sul collo alla virtù;
e l'origine abbiettissima di lui, come veniva giudicata dalla casta
patrizia preponderante e trionfante in quel secolo, dissimulata dalla
più bella faccia di giovine che mai abbia adornato corpo di
duca o di marchese, e dalle più belle gambe che mai abbiano
fatto risaltar forme greche e guizzar muscoli gladiatorj sotto a
maglie di seta bianca, producevano un tale imbroglio e generavano una
confusione nelle teste di quelle giovani dame, le quali cavavano pure
il fazzoletto canforato se mai bottegajo o bracciante lor passasse
d'accosto, che a vantaggio del Galantino avrebbero rinnovate le
sommosse cruente di Roma antica per mettere la plebe sulla testa dei
patrizi.
Il
nostro vecchio amico Bruni, che conobbe il Galantino e lo vide più
volte in Milano tanto a cavallo che a piedi, un dì, mentre
stava raccontandoci i suoi fasti più celebri, ci fece il suo
fisico ritratto senza trascurare la ricchezza degli accessorj. «Io
non mi ricordo riportiamo le precise parole del Bruni
d'aver mai veduto più bell'uomo vestito più
sfarzosamente; e quando esso cavalcava per la città, preceduto
da un servo gallonato, il suo nobile aspetto, lo sfarzo de' suoi
abiti, la ragazzaglia che spesso gli traeva dietro, tutto questo, ad
un forastiero che lo avesse visto la prima volta senza conoscerlo,
potea facilmente darlo a credere pel governatore della città o
per qualche altro distinto personaggio. Eppure era quello che era, e
mio padre, col quale mi trovavo a Milano nel '66, mi disse d'averlo
veduto più volte aiutare il mozzo di stalla dell'albergo dei
Tre Re ad attaccare i cavalli alle vetture».
Venendo
ora al fatto nostro, la comparsa del Galantino sotto i balconi di
casa Ottoboni Serbelloni diede una repentina diversione a tutti
i discorsi che si facevano dalle persone là convenute,
associandole tutte in una discussione sola. Pochi momenti prima era
entrato in sala lord Crall. Il fasto del Suardi fece mettere sul
tappeto l'editto del '66. Parlò il Verri, parlò il
Parini, parlò Beccaria, parlò il giovane Guglielmo. E
il dibattimento fu tale, che merita la pena che noi lo riproduciamo,
tanto più che la conseguenza di esso fu una pericolosa
risoluzione presa dal figlio di donna Paola, risoluzione che
aggruppò, facendolo più serio, il dramma.
III
Bello eh?... disse ironicamente il segretario Cesare Larghi, il
celebre villottista, alla figlia maggiore della contessa Marliani che
somigliava alla madre.
Altro che bello, bellissimo... rispondeva la contessina; guardate là
il marchese Sannazzaro e don Glicerino Brebbìa che figura
fanno, cavalcando poco discosti da lui.
Io scommetto, entrava a dire una assai matura dama, la quale era però
stata molto giovane e molto bella, e s'era giovata troppo bene e
della gioventù e della bellezza; io scommetto che venne fatto
uno sbaglio o dalle comari o dalle balie, e che colui fu tramutato in
cuna con qualchedun altro... perchè il sangue sopraffino si
conosce alla sua pelle. Guardate là il conte V... che gli
passa accosto galoppando... Chi venisse oggi a Milano per la prima
volta, e non sapesse niente di niente, come mai potrebbe dire che
colui è un grande di Spagna, a dispetto di tutto quell'oro...
e che il Galantino è quello che è?
Sapete cosa c'è di nuovo, cara contessa?
Sentiamo.
C'è di nuovo che tanto il conte V... quanto il Sannazzaro e
don Glicerino e il conte Alberico che vedo laggiù e gli altri,
farebbero assai bene a studiare un certo epigramma che so io, e a
metterlo in pratica, già s'intende colle opportune varianti...
Sentiamo l'epigramma...
Scusate se vi richiamo un nome che puzza di scandalo... ma chi non ha
conosciuto la Valaperta?...
La
dama torse il viso con un lezio della bocca che significava schifo e
ribrezzo...
Eh, non occorre che mi facciate quel viso, amabile contessa. Ma
volere o non volere, se la Valaperta girò da una mano
all'altra per vent'anni e su tutte le piazze come una cambiale
tempestata di accetto e di firme; ciò non vuol
dire che non fosse molto bella e in ultimo molto ricca, e che
scarrozzasse su e giù per di qui e per il corso di via Marina
con gran treno e livree rosse...; ma un bel giorno si videro scritte
su tutte le cantonate della città queste parole chiare e
tonde:
La
Valaperta infame
Oggi
trionfa in cocchio.....
Andate
a piedi, o dame.
E
l'epigramma fu così efficace, che una grida, con minaccia di
multa e prigionia e corda, non poteva essere eseguita più
puntualmente; tanto che per una quindicina di giorni non si videro
più carrozze al corso, nè dame in volta... e la
Valaperta, vedutasi sola e saputa la congiura, lasciò Milano e
sparì... Ecco dunque quel che dovrebbero fare questi
cavalierini sciocchi...
Scusate, ma se le dame avevano ragione, i cavalieri avrebbero torto;
credereste forse voi che, scomparendo i cavalieri, il Galantino
volesse scomparire per puntiglio?...
Per puntiglio, no certo... non è un uomo tanto sottile di
pelle. Tuttavia la ribalderia scornata in pubblico farebbe sempre il
suo buon effetto...
Caro il mio Larghi, entrava a dire il Londonio pittore, non è
troppo facile a scornare la ribalderia quando mette gli speroni e va
a cavallo; e cavalca meglio della virtù....
Vi prego di andare adagio colla virtù, faceva osservare il
Parini, perchè non mi pare che nel conte V..., per esempio, e
nel conte Alberico F... e nel principe B... ella abbia dei
rappresentanti troppo legittimi. Quando si nasce sul materasso
trapuntato di zecchini, a non commettere ladrerie e trufferie non
occorre di essere nè sant'Ambrogio, nè san Carlo...
Sono anch'io del vostro parere... ma giacchè si parlava di
scornare i ribaldi... io li ho ben tratti nell'agguato l'altro
jeri... e senza pigliar le cose sul serio... anzi...
Il
vecchio Galmini, amicissimo di Londonio, proruppe in una risata a
queste parole, soggiungendo poi:
Questo l'ha proprio trovata fuori di conio; e dimostrò
l'inutilità delle dimostrazioni in pubblico
e la
sciocchezza dell'astenersi dal piacere di tirar tabacco per farla ai
fermieri.
Ma cos'ha fatto? dissero molti ad una voce, cos'ha fatto?... qualcuna
delle sue, già m'immagino... Orsù, raccontate...
Ma non san nulla... lor signori?...
Davvero che è stata bella, diceva il Larghi, ma non tutti
hanno il coraggio e la vena e il buon tempo di questo bel matto
qui...
Raccontate dunque...
Ma io stupisco, diceva il Londonio, che non se ne sappia ancora
niente... Però m'accorgo che quelli stessi che furono presi in
trappola sono andati d'accordo nel non lamentarsi in pubblico... Ah
ah ah!!
Sentiamo dunque...
Care damine gentili... abbiano pazienza, ma non son cose da dire a
loro... I loro nasi ne soffrirebbero più che i loro cuori; e
altro che canfora ci vorrebbe...
Ma
continuando il Galmini a sganasciarsi dal ridere, cresceva nelle dame
la volontà di ascoltare, mentre il Londonio si faceva serio,
di quella serietà comica che mette il buon umore negli
astanti, e accennava di non rompere il silenzio.
Suvvia, dunque, parlate...
Ma e poi, se mi fan mettere alla porta?
Non lo faremo.
E poi, se venendo per far loro una visita, ordineranno ai servi di
dirmi che non sono in casa?
Non lo faremo.
E poi, se non permetteranno mai più ch'io parli alla loro
presenza?...
Lo permetteremo sempre.
Sempre?
Sì.
Lo promettono?
Lo promettiamo.
Ebbene... si tratta di...
E
tutte le dame, a sentir la parola che noi non vogliamo trascrivere,
ma che uscì dalla bocca di Londonio, fuggirono chi in un lato,
chi in un altro della sala, gridando ad una voce: Uh!...
Or basta così, disse allora seriissima la marchesa Ottoboni,
ma nascondendo i guizzi del riso sotto a muscoli protesi a gravità.
Basta così...
Adesso poi, mi permetta, marchesa, ma voglio andare innanzi io...
Sappiano dunque che lunedì, la direzione dell'ufficio della
Ferma generale ricevette una lettera anonima, che io naturalmente
avevo letto prima che fosse ricapitata. Nella qual lettera era fatta
la denuncia «Qualmente che in casa del pittore Londonio fosse
nascosta una quantità considerevole di tabacco da naso,
tabacco di Spagna di prima qualità... e che era nascosta nei
tali e tali luoghi...» Ora la lettera anonima fece presa... e
tanto, che nell'ora in cui si stava a tavola, tre commissarj della
Ferma, due tenenti della giunta, due bargelli del capitano di
giustizia si presentano al portinajo di casa, il quale tutto
scalmanato entra e dice: È qui la forza... coll'ordine
di fare una perquisizione in tutti i locali della casa... Or
viene il buono. Dietro la scorta di una carta che avevano tra mano,
si dirigono a luogo sicuro... e in un sottoscala vicino al mio studio
trovano una dozzina di boette, o almeno d'involti che a loro
pareano boette forestiere; e insieme con quelle tre grandi
vasi coperti; e dal sottoscala passando in giardino trovano altre
boette e altri vasi in un ripostiglio del corridojo... e così
altrove. Scoperto il corpo del delitto, fatta portar penna, carta e
calamajo, due de' commissarj della Ferma e un tenente della giunta si
accingono a stendere il processo verbale... ma prima, a constatare la
qualità del tabacco, que' tre personaggi gravi, arcigni,
terribili, fatto scoperchiare un vaso, immergono le loro sei dita
contemporaneamente come se facessero l'esercizio, portando poi
ciascuno le due dita al loro naso magistrale; se non che, pur
contemporaneamente, si guardarono in faccia con un tale
scontorcimento del viso e tali smorfie strane, che per quanto io
fossi preparato, non potei trattenere gli scoppj del ridere...
Allora... quei tre minossi, compromessi nel decoro, proruppero in
basse villanie contro di me... ma io intimai loro il rispetto alla
casa altrui, mentre li invitava a spiegarmi il motivo della loro
venuta... E così, dopo molto tempestare, dovettero partire
scornati; chè in conclusione non era tabacco, ma fimo
polverizzato di stambecco e di bue e di cavallo, ecc., ecc., e quei
signori credo che avranno dovuto consumar molto ranno e sapone per
lavarsi le mani, e purgare le narici autorevoli. Del resto, la cosa
mi pare che abbia fatto un cert'effetto... perchè è da
tre giorni che non si sente a parlare di perquisizioni domiciliari.
Così
parlò il Londonio, tra il riso mal celato delle dame permalose
e curiose; e noi lo abbiamo lasciato dire perchè il lettore
sapesse un fatto che, propalato allora dal Londonio stesso, menò
rumore per tutto il Ducato. Del rimanente, quando mai avessimo offesa
la delicatezza squisita de' nostri lettori, la colpa non è
nostra, se dovendo porre in iscena la vena epigrammatica del pittor
Londonio, il quale fece tanto ridere il suo secolo, non abbiam potuto
far peccare quest'uomo per abuso di acque nanfe, mentre fu una sua
abitudine costante il non lasciar mancare mai l'odor d'ammoniaca
negli intingoli delle sue incessanti celie, che mettevano di buon
umore anche le dame più accigliate.
IV
Bravo il nostro pittore, disse lord Crall; il vostro spirito, per
maturare, ha bisogno, come i cavoli dell'agro lombardo, di essere
ingrassato dal concime. Voi avete trattato da pari vostro questa
faccenda, ma io la tratterei da par mio, ossia con tutta la serietà
di cui può essere capace un uomo che ride due o tre volte in
un anno; e vorrei che i signori commissarj della Ferma venissero una
qualche volta in casa mia; una volta sola, e vi assicuro che, senza
tener conto delle conseguenze, io farei tal cosa da insegnar la
giustizia col mezzo della violenza. Giacchè pur troppo mi
accorgo che contro a certi mali ci vogliono rimedj speciali. Ma
intanto mi scusi l'abate Parini, se questa volta me la piglio anche
con lei.
Con me?
Precisamente con lei per quanto io le sia obbligato da tanta
gratitudine. Prima di tutto, a che essere ammesso, pe' suoi meriti
straordinarj alla confidenza del conte Firmian, che mi dicono avere
l'istinto del bene, senza parlargli chiaro, e senza dimostrargli lo
scandalo dell'ultimo editto? In secondo luogo, a che avere tra le
mani l'arme onnipotente di una gazzetta, lasciata in suo arbitrio,
senza adoperarla quando più freme il bisogno? A Roma la Ferma
venne abolita in virtù delle gazzette; è una gazzetta
che fuori di qui scarica assiduamente le sue armi per ferire la
Ferma. Ma le armi degli ignoti valgono poco. Vuolsi che la verità
sia fatta risuonare da un uomo venerato dal pubblico e rispettato
dagli stessi uomini del potere, perchè sia riconosciuta
siccome tale da tutti; ed io sono certo che se nel gazzettino di
Milano uscisse una catilinaria dell'autore del Giorno contro
agli arbitrj de' fermieri, questi si conterrebbero alquanto, o
l'autorità penserebbe a contenerli.
Mi piace la vostra franchezza, giovane generoso, rispose il Parini,
ma quel che torna inutile non va fatto. L'autorità che un uomo
d'ingegno e di cuore s'è legittimamente acquistata, finisce a
spuntarsi quando il pubblico s'accorge che, per quanto ella sia
generosa, non viene ascoltata. Avete veduto che risultamenti ebbe la
notizia che ho spacciato sull'abolizione de' castroni. Lodi da
Voltaire, lodi da Federico di Prussia, lodi da tutte le teste quadre
d'Europa. Fin qui va benissimo. Ma gli elefanti canori continuano a
contaminare le scene; e tutti gli anni genitori spietati offrono sul
bacile, in sacrificio all'arte musicale, la parte migliore de' loro
figliuoli... ed io... io son posto nella schiera di coloro che
tengono, da quelli che in apparenza lodano l'ingegno, sprezzandolo in
fatto, il permesso di garrire a deserto. Del rimanente ho parlato al
conte Firmian di quello che tanto vi cuoce, e per consolarvi, vi dirò
che qualche cosa si farà, e l'editto verrà in gran
parte riformato; e poi c'è qui il consigliere Verri che...
Io spero, prese la parola il Verri, di poter venir in aiuto dello
scherzo serio del nostro pittor Londonio e della vostra giusta
indignazione, lord Crall. L'abate Parini, protestando sul gazzettino
e contro l'autorità di chi ha fatto l'editto e contro i
fermieri che lo usufruttano colla più schifosa
interpretazione, sapete che avrebbe raccolto gran lode dai buoni, e
basta lì... ma si sarebbe inimicato il governatore, e sarebbe
stato perseguitato, Dio sa in che modo, dagli interessati alla Ferma;
e il pubblico non ne avrebbe avuto nessun vantaggio. Queste cose,
caro mio, bisogna pigliarle blandamente; e poi quando si vuole
inoculare ai grandi e ai piccoli, a chi comanda e a chi obbedisce il
senso della giustizia e della moralità, sapete che cosa
bisogna fare? bisogna far sì che la giustizia e la moralità
trovi un posto sul libro mastro del dare e dell'avere, e farle
comparire non più austeramente vestite e colle mani vuote, ma
addobbate sfarzosamente, e col cornucopia versante dobloni nelle
casse dell'erario. Non è che la finanza, la
quale in certi casi, confederandosi colla giustizia, può,
facendo i proprj, far anche gl'interessi della povera compagna, quasi
sempre derelitta. È un pezzo che lavoro a queste cose, e già
ho aperto gli occhi a chi li aveva chiusi naturalmente e a chi li
teneva chiusi per convenienza. Persuaso di questo, ho cominciato a
fare indagini insistenti per redigere un bilancio dello stato del
commercio nel ducato milanese, che feci pubblicare senza perder
tempo. Io sapevo benissimo che, a discoprire gli altari e a togliere
il velo ai misteri, più di uno avrebbe guaito, e qualcheduno
anche di quelli che stanno più in su. Il che di fatto avvenne,
ed ebbi accusa d'avventato e d'imprudente; perchè non si
voleva che io mettessi il pubblico a parte delle mie rivelazioni; e
si amava piuttosto che dalla mia testa le versassi nella testa
altrui, senza che nemmen l'aria se ne accorgesse. Ma io sapevo quel
che mi facevo, prima di tutto perchè fatto palese il falso
movimento di un congegno della gran macchina civile, chi la governa è
costretto ad operare a suo dispetto, e a suo dispetto spesse volte
s'incammina a raccogliere gli applausi della moltitudine; poi, perchè
di questi applausi, giacchè avevo fatto la fatica, desideravo
averne anch'io la mia quota; e ciò mi pare che sia
ragionevole. Intanto sono riuscito a far comprendere che l'innocente
diletto di far strillare il pubblico sotto alle battiture dei
fermieri costava allo Stato due milioni all'anno, e che però
l'abolizione d'infinite vessazioni ne faceva entrar due nelle casse
erariali. Quando gli atti magnanimi fruttano danari è facile a
farli diventare contagiosi. Ecco perchè senza perdere gran
tempo, sono riuscito a insinuare l'idea della Ferma mista. Questo
è il primo passo, ed era il più difficile; il resto
verrà da sè.
Ma come avvenne, domandava il Parini, che i ventotto capitoli
dell'editto del mese d'aprile, i quali hanno messo la costernazione
in tutto il popolo, sono posteriori alla vostra nomina di consigliere
del Consiglio d'economia, e alla vostra elezione a rappresentare il
Governo nella Ferma mista?
L'editto era già steso, e per quanto io abbia strepitato, lo
si volle far impastare sulle cantonate della città, perchè
i fermieri furono più forti d'ogni più forte ragione.
E perchè, per il momento, soggiunse il Beccaria colla solita
sua aria sbadata, due mila ducati nelle saccocce di chi porta
l'armellino sotto la toga, pesano di più che due milioni nelle
casse forti della finanza. In ogni modo puoi chiamarti fortunato, il
mio Pietro, perchè appunto hai trattato una questione, in cui
l'amore per il pubblico bene si trasmuta in oro sonante. Così
potessi anch'io provare che la riforma del diritto penale è un
buon affare di commercio da convertirsi in danaro; che in
quarantott'ore scomparirebbero dai crocicchj gli squallidi apparati
della tortura... Così qui il nostro abate Parini avesse potuto
dimostrare che l'abolizione de' castroni è un lauto affare di
finanza; chè allora avremmo veduto un decreto del Ganganelli a
precedere gli encomi di Voltaire. Così il suo Giorno
e le sue Poesie... Ma che cos'è successo che lord Crall
grida come uno spiritato?
Codesta
repentina diversione del discorso di Beccaria era infatti provocata
dalla voce di lord Crall, che tuonò improvvisa, come allorchè
sorviene qualche disastro, o corre qualche ingiuria tra
gl'interlocutori.
Che
è, che non è, tutti si misero ad ascoltare. Un
giovinotto, entrato allora in casa Ottoboni, avea raccontato che,
cavalcando lungo il corso di porta Romana, e piegando, per la strada
del naviglio, verso san Barnaba e le vie lì presso, avea
veduta accorrere gran folla di gente per quei luoghi quasi sempre
abbandonati; ed egli per curiosità tenne dietro alla
moltitudine, e venuto al monastero di San Filippo, avea sentito come
i commissarj della Ferma colla sbirraglia erano entrati a perquisire
in convento; e siccome ad onta delle mille esorbitanze de' fermieri,
pur era quella la prima volta che si attentavano di introdursi in un
monastero, così la voce corsa v'avea chiamato e vi chiamava
gran gente.
Lord
Crall a quel racconto, in prima era rimasto immobile, poi non avea
potuto trattenersi dal rompere in parole della più violenta
esasperazione: e Spada e pistola ci sono, gridò... e
qualcuno oggi la pagherà per tutti, e così dicendo,
calcandosi il cappello a tre punte in testa, uscì come un
invasato dalla casa Ottoboni.
V
Il
giovane Crall, uscito dal Palazzo Ottoboni Serbelloni, fece la
via con quell'affannosa sollecitudine di chi non ha altro timore che
d'arrivar tardi. Passando a volo tra gente e gente, venuto alla
corsia de' Servi, svoltò a sinistra nella contrada de'
Pattari, passò per piazza fontana, venne in contrada Larga,
attraversò la contrada Velasca e, riuscito a Porta Romana,
piegò a destra, e svoltò infilando la viottola di san
Vittorello, giunto alla metà della quale entrò in una
porta larga e tozza, quella porta medesima su cui oggi si legge
Vettura per città e per campagna. Attraversato il
cortile, si fermò davanti ad un ingresso chiuso da due
imposte, nella destra delle quali era infisso un pendulo martello a
serpente. Diede due gran colpi, l'uno vicinissimo all'altro, poi
attese alquanti secondi, e diede un terzo colpo più deciso e
più sonoro dei due primi. Allora le imposte si spalancarono,
come se un nascosto congegno le avesse fatte girare, e com'egli fu
entrato, quelle si chiusero dietro lui. Il luogo dove lord Crall avea
inoltrato il piede, era un'aula vasta; tre lampade pendevano dalla
vôlta. Questa e le pareti eran tutte tappezzate di drappo nero;
scheletri interi e frammenti di scheletri umani, costati, braccia,
stinchi, teschi erano appesi intorno intorno come trofei. Una gran
tavola coperta di panno nero era ad un'estremità dell'aula.
Assiso innanzi ad essa stava un vecchio, d'aspetto grave, con due
altri seduti alla destra ed alla sinistra di lui. Sulla tavola,
davanti all'uomo seduto nel mezzo, era un teschio, uno squadro, una
cazzuola ed altri ordigni. Dietro a lui, molto in alto, pendeva dalla
parete un quadro che rappresentava i ruderi di un gran tempio, sulle
due colonne anteriori del quale si leggevano queste parole:
Iachin e Booz. Sotto ad esso era un tripode, e sul
tripode una lampada funeraria, da cui guizzava una gran fiamma
verde azzurra che rischiarava misteriosamente quel quadro e
tutta l'aula e le faccie dei tre che stavano innanzi alla tavola, e
le trenta o quaranta faccie degli altri, seduti in ampio cerchio
rimpetto ai tre. Quando il giovane Crall fu entrato, pronunciò
le stesse parole che si leggevano sul quadro Iachin e Booz,
e tutti si alzarono, ed egli prese posto tra gli altri. Ma
ora, perchè il lettore non sospetti che lo si voglia divertire
colle fantasmagorie della lanterna magica, sappia che era quella
un'adunanza di uomini appartenenti a quella società segreta, i
cui fasti, giusta la credenza di alcuni dei suoi più fanatici
seguaci, si sprofondavano nella più remota antichità,
società che si vantava discendente persin dai vetusti Bramini,
dai Ginnosofisti, dai Druidi remoti; che credeva procedere dai
misteri eleusini; che venerava qual suo gran maestro capostipite
l'architetto Hiram, il costruttore del tempio di Salomone; ed ecco
perchè sulle due colonne superstiti del portico del tempio
distrutto, cui figurava il quadro che abbiam descritto, vedevansi le
parole Iachin e Booz, le quali vennero fatte scolpire
da Hiram sul tempio di Gerusalemme, per accennare alle idee della
edificazione e della forza. Mentre però quella
società gloriavasi d'una nobiltà tanto antica, che
all'uopo non bastandole di fermarsi ad Hiram, risaliva a trovar le
sue origini fin nella torre di Babele, compiacevasi pure di procedere
da più umile ma più prossimo e più sicuro
stipite; chè dopo il secolo VIII e nei secoli XII e XIII,
nell'occasione segnatamente che fu innalzato il tempio di Strasburgo,
fu dessa rappresentata e diffusa vastissimamente da quella
confraternita di capimastri e muratori che lavorarono ai più
cospicui edificj di tutte le parti d'Europa, e impressero dappertutto
con opera continua ed uniforme, quello stile d'architettura che,
falsamente detto lombardo in Italia e falsamente gotico in
Francia, non fu altro che il neogreco, il quale, abbandonato il
Partenone, si era appreso al tempio cristiano. Se non che il fatto
dell'architettura murale s'era convertito in simbolo dell'idea di
civiltà e di progresso; epperò tutt'Europa avea
brulicato di tante figliazioni di quella società, quanti erano
uomini invaniti della persuasione di poter essere illuminatori del
loro secolo.
Una
tale società che, senza essersi mai spenta del tutto, ebbe
però de' periodi del più inerte languore, si ridestò
tutt'a un tratto verso la metà del secolo passato in
Inghilterra prima, poi in Francia, e colla più rapida
moltiplicazione poi in Italia. Nel 1732 avea stabilita una loggia a
Roma. Nel 1747 ne piantò una a Milano (si chiamavano logge i
luoghi delle sue adunanze). Nel 1766 ella viveva ancora ed avea
residenza appunto nella contrada di san Vittorello. L'autorità
conosceva l'esistenza sua, ma non ne pigliava gran fastidio perchè
da essa non era mai derivato danno di sorta; d'altra parte sapeva che
la moltitudine, alla quale era pur nota l'esistenza di lei, la
derideva manifestamente, e perchè non avea mai veduto
procedere da essa atto veruno che, in poco o in tanto, influisse sul
bene pubblico; e perchè sapeva come quelle serali e notturne
conventicole si sciogliessero spesso in pranzi lauti e cene
prolungate. Comunque del resto fosse di ciò, nel tempo a cui
ci troviamo colla nostra storia, quella società, ingrossata di
fresca schiera e sollecitata da qualche spirito fervoroso, avea preso
un avviamento un po' più determinato e serio. A noi non consta
che il Verri v'appartenesse. Il suo ingegno acuto e pratico e
consistente gli avrà fatto riconoscere e deridere l'inutilità
di tali riunioni. Ma vi appartenevano molti suoi amici, e di quelli
ch'egli stimava e che stimavano lui, tra' quali il giovane Crall,
ch'era il più caldo di tutti.
Questi,
domandata ed ottenuta la parola dal gran maestro presidente, così
parlò a quell'adunanza:
Venerabile maestro del grand'Oriente, maestri fratelli, compagni ed
iniziati, la causa che qui m'ha oggi mandato è della più
alta importanza, ed ha bisogno della vostra forte e pronta
cooperazione. Nelle ultime adunanze, a voti unanimi, fu determinato
che la nostra loggia sarebbe d'ora innanzi intervenuta immediatamente
a soccorrere il prossimo in pericolo, non soltanto coll'opera
del pensiero, ma anche con quella della mano, esponendo al bisogno
anche la vita, quando l'occasione fosse stata grande ed urgente.
Venerabili fratelli, quest'occasione è venuta! Tutte le case,
tutti i ceti, tutte le confraternite, tutti i corpi sacri e morali
della città di Milano sono da più giorni esposti alle
violenti soperchierie, ed alla rabida fame de' fermieri. Sono esposti
eziandio agli arbitrj, ai capricci, alle voglie talvolta oscene degli
sgherri della Ferma. Finora vennero risparmiati gli asili delle sacre
vergini, dove si raccolgono per educazione le fanciulle delle più
distinte famiglie della città. Ma oggi per la prima volta si
penetrò in essi. Il monastero di San Filippo Neri fu, momenti
sono, invaso dalla sbirraglia de' fermieri, sotto pretesto che vi sia
nascosta mercanzia di contrabbando. Propongo adunque che quanti siamo
qui tra i più giovani e i più avvezzi all'arme, usciam
tosto per recarci colà a respingere la violenza colla forza. È
necessario un esempio, è necessario che qualche vita si
sacrifichi alla giustizia, è necessario che qualche fatto
enorme scuota dal colpevole letargo coloro che pur tengono il mandato
del pubblico bene, ma che, impinguati dalle volpi, chiudono gli occhi
e lasciano fare. Quelli che sono del mio avviso, permettendolo il
maestro venerabile, si alzino dunque e mi seguano.
A
queste parole così determinate, proferite con voce sonora e
con accento caldissimo, successe un bisbiglio fra quanti erano là
radunati nell'aula. Il maestro venerabile, con placido discorso,
tentò dissuadere il fratello Crall da quell'impresa
arrischiata; il maestro oratore venne in soccorso del venerabile,
così pure il maestro tesoriere e il segretario, tutte persone
che probabilmente non volevano compromettere i pranzi e le cene
future con qualche passo arrischiato.
Ma a che, gridò allora il giovane Crall, abbiamo pronunciato
con tanta solennità il giuramento dell'ordine? Dimmi tu, e qui
si rivolse ad un giovane vicino, dimmi tu che l'altro giorno non eri
che un lupicino venuto a cercar qui la luce (si chiamavan
lupicini i candidati prima di essere ricevuti in quella società),
dimmi ora dunque: che cosa hai giurato quando fosti trovato degno di
essere ammesso fra gli adepti? Parla, che cosa hai giurato su questa
spada?
D'amare i miei fratelli, e soccorrerli a norma delle mie facoltà.
E a che hai acconsentito quando mai tu non sapessi mantenere il
giuramento?
Che mi sia troncato il capo, strappato il cuore, abbruciato il corpo
e gettate le ceneri al vento.
E perchè dunque una così atroce sentenza?
soltanto forse per togliere la possibilità che qualcuno di noi
manchi al convegno, quando si tratta di sedere a mensa per divorare
con formidabili ganasce le più saporite imbandigioni? È
forse ai cuochi soltanto o ai vinattieri che abbiam giurato di esser
utili? e per così poco mettere a repentaglio e testa e cuori e
ceneri? Suvvia, dunque, che si fa?
Al
venerabile mancò la parola, tacquero l'oratore e il tesoriere.
Una dozzina di giovinotti si alzarono, sfoderando le spade e
gridando: Noi siam tutti pronti, se lo permette il venerabile. Questi
crollò il capo, e disse: Andate, che la fortuna vi salvi, ma
ricordatevi del segreto. L'adunanza si sciolse, e ne uscirono una
decina di giovani armati di spada e di proposito deliberato.
Or
lasciamo che costoro s'avviino verso il monastero di San Filippo,
prontissimi a cavar dal fodero di pelle bianca inverniciata la spada
non ancor molto cruenta, e in procinto di produrre un tal disordine,
da far strillare di spavento la madre badessa, le monache e le
educande e da costringere le leggi tapine a dar la testa nelle
muraglie per la novità del caso. In questo frattempo noi
dobbiamo recarci altrove ad assistere a un dialogo tra il Galantino
ed un personaggio che comparirà per la prima volta in iscena,
ma che fu da noi tante volte nominato, e che, a tutto rigore,
potrebbe reputarsi il primo personaggio del dramma, o per lo meno il
personaggio indispensabile; perchè se costui non fosse nato,
non sarebbe avvenuto nulla affatto di tutto quanto abbiamo raccontato
e racconteremo. Egli è il figlio della Baroggi, il pupillo
patrocinato indarno dal galantuomo Agudio. Noi l'abbiamo nominato più
volte quand'esso non aveva che cinque anni, ed ora che dobbiamo
conoscerlo di presenza ha compiuti gli anni ventuno, ed è
sotto-tenente nelle guardie di confine della Ferma generale; carica
che press'a poco ora corrisponderebbe a quella di sergente nelle
guardie di finanza. Ma in che modo questo disgraziatissimo giovane,
che pure fu a due dita di essere uno tra i pochissimi benedetti dalla
fortuna e dalla ricchezza, passò i sedici anni dal 1750 al
1766? in che modo il Galantino, per le sue buone ragioni, andò
a soccorrere la povertà infelicissima della madre di lui e ad
offrire al figliuolo un posto tra le guardie della Ferma? a che cosa
or lo vuole adoperare, per usufruttuare il beneficio, nel colpo che
sta per tentare? che effetto sarà per fare in convento la
comparsa d'una dozzina di giovani guardie della Ferma, protette dalla
legge, prepotenti e viziate? che sarà per nascere dal
parapiglia guerresco tra i compagni della loggia di san Vittorello
capitanati da lord Crall, e che stranissimo qui pro quo potrà
generarsi da tutta questa arruffatissima matassa?
VI
Intanto,
prima di assistere al dialogo tra il Galantino e il figlio della
Baroggi, e a sapere in che modo incominci la relazione tra l'uno e
l'altro ed inoltre com'erano riuscite infruttuose le cure del
prevosto di san Nazaro e dell'avvocato Agudio per far constare la
paternità del defunto marchese F... a favore del fanciullo
stato battezzato nella parrocchia di san Nazaro sotto il nome della
madre; così avendo voluto il marchese stesso, previa una
dichiarazione orale fatta dal medesimo al prevosto, colla quale avea
promesso di volere a tempo migliore dargli il proprio nome. È
a sapere altresì come la testimonianza solitaria del prete non
avea avuto nessun peso in giudizio, perchè la consuetudine
voleva che insieme col parroco testimoniasse anche il padrino il
quale mancò; e nemmeno ebbe valore la testimonianza del notajo
Macchi, quello ch'era stato chiamato a stendere il testamento nel
quale veniva istituito erede il figlio della Baroggi, pur nominato
qual figlio dal marchese testatore, ed assunto al diritto e
all'obbligo di portarne la parentela; e tutto questo ad onta del
patrocinio dell'avvocato Agudio, che invano aveva adoperato tutta la
sua sapienza e sagacia legale per far che quelle due testimonianze
avessero valore a provare la paternità che si negava dagli
avversarj. Ma gli avversarj erano riusciti a convincere i giudici, o
almeno i giudici avevano avuto il loro interesse a lasciarsi
convincere, come quelle testimonianze dovessero valutarsi
separatamente e al cospetto di due circostanze diverse e che però,
prese isolatamente, non dovevano e non potevano avere nessuna forza
di prova; e tanto meno, in quanto il registro battesimale era il solo
atto scritto legittimo e pubblico a cui doveva aversi riguardo nella
trattazione di quella causa. Bene l'Agudio aveva insistito nella
dimostrazione che, sebbene fosse vero, per essere la testimonianza
del notajo Macchi relativa alla scritturazione d'un testamento, e
quella del parroco relativa ad una dichiarazione orale fatta dal
marchese in tutt'altra circostanza e per tutt'altro intento, che
dovessero prendersi isolatamente; non di meno venivano esse come a
confederarsi ed a costituire la validità della duplice
testimonianza quando si guardava al solo ed esclusivo fatto della
paternità.
Perduta
adunque la lite dalla Baroggi, sentenziate insussistenti le sue
pretese a favore del di lei figlio, ella si venne a trovare nella più
deplorabile condizione.
Il
prevosto che l'avea presa a proteggere, erale sempre stato liberale
di qualche soccorso, anche dopo svanita ogni speranza; ed avea
provveduto eziandio a far educare convenientemente il fanciullo. Ma,
per disgrazia, venuto a morte anch'esso, nel 1761, la Baroggi si
trovò derelitta del tutto, con un figlio che avea sedici anni,
non in posizione di continuare nell'educazione incominciata, non atto
a guadagnarsi tosto il vitto per sè e per la madre,
dimostrando bensì le più belle attitudini, ma
nell'incapacità di poterle far maturare e condurre a
perfezione.
Allora
la sventurata Baroggi erasi rivolta allo stesso conte Alberico, il
quale, per levarsi l'importuna d'attorno, ordinò che il
maggiordomo le contasse qualche danaro. Ma il maggiordomo, sborsato
per quella volta la somma di che aveva avuto l'ordine, provvide da
quell'ora in poi a sbarrar la porta alla sventurata, e a spuntare
gl'improvvisi affetti di quella pietà superficiale e sbadata
che pur sorgeva in petto al giovine conte ogni qualvolta gli
perveniva qualche supplica straziante di quella povera donna.
Questo
fatto provocò un certo rumore nella città, tanto che
giunse all'orecchio anche del Galantino, il quale di quella faccenda
ne sapeva qualche cosa più di tutti. Ora la notizia della
condizione deplorabile in cui versavano la Baroggi e il figlio di lei
(e difficile a dire se per un senso di pietà spontanea, o per
qualche altra causa meno generosa benchè più forte),
gli fece una profonda impressione, tanto profonda che pensò di
mandare un suo commesso dalla madre a proporle se voleva impiegare in
qualche modo il figlio presso gli ufficj della Ferma, che gli sarebbe
dato un salario sufficiente onde provvedere a sè ed alla
madre. In tal guisa il giovinetto Giulio Baroggi fu impiegato in
prima siccome scrivano; poi avendo mostrata assai svegliatezza e
solerzia, venne promosso a commesso delle esattorie, infine a
sotto-tenente nelle guardie della Ferma; carica che gli fruttava un
non dispregevole salario, una bella divisa, e molti di que' guadagni
che soglionsi chiamare incerti, sia per le quote che gli eran contate
sulle perquisizioni e contrabbandi, sia pel soprassoldo che toccava
quando aveva il mandato di percorrere alla testa di un numeroso
drappello di guardie tutta la linea del confine.
Se
non che la necessità di vegliare le notti, di vivere tra la
più rozza gentaglia, e più di tutto, i tristi pensieri
che gli derivavano dal confronto tra quello che era e quello che
avrebbe potuto essere, gli fecero contrarre la mala abitudine della
gozzoviglia, del bere, dell'uso e dell'abuso dell'acquavite, per dar
tono alla vita, per mettersi all'unisono e acquistar baldanza tra
quelli a cui comandava, e più ancora per scacciare i molesti
pensieri, che si facevano sempre più intensi quando la
reazione che succedeva all'esaltazione provocata dalle bevande
spiritose, gli lasciava infiacchita la fibra e più disposta a
subir l'influenza della tristezza. Codeste sue abitudini non
gl'impedivano però di essere zelantissimo alle sue incumbenze,
perchè la natura gli aveva pur concesso saldezza di mente e
saldezza di carattere. Bensì lo avevano condotto al punto
d'impegolarsi nei debiti e tanto, che non sempre i suoi guadagni
poteano bastare a conservare alla madre quella vita modestamente
provveduta che pure fervorosamente egli desiderava nella quiete
dell'animo suo, ma di cui si dimenticava tra i bicchieri e tra i
compagni. Da ciò dovettero originare disgusti e malumori e
alterchi tra lui e la madre, la quale finiva in pianto le sue
querele, lasciando il figlio desolato e pentito e pieno di
proponimenti di cangiar vita. Però la tristezza gli si era
confitta nell'anima al punto, che la giocondità anche
passeggiera non era più una condizione naturale del suo
spirito, ma un effetto artificiale delle bevande spiritose, delle
quali ormai non poteva più far senza, perchè erano il
solo mezzo che gli era rimasto a dar qualche istante di requie
all'anima travagliata, press'a a poco come chi fa tacere lo stridore
dei denti col versarvi sopra l'alcool addormentatore.
Insistendo
sul qual fatto, egli è a considerare come dall'infanzia alla
fanciullezza, alla giovinezza, avendo egli sempre avuta dinanzi la
figura turbata e piagnolosa della povera sua madre,
necessariamente gli si venne invelenando l'esistenza; sentendo a
parlar sempre di miserie, e vedendo sempre la disgrazia in casa, il
suo spirito avea, per questo lato, contratta quasi l'abitudine del
timore, come que' fanciulli che, percossi continuamente da madri
spietate, si rannicchiano tremanti ad ogni alzar di braccio che pur
si mova per tutt'altro. Così anche allora che non v'erano
occasioni che potessero presagire infortunj, egli viveva col sangue
agitato, e paventava miserie che non solo non eran probabili, ma
impossibili. Su questa condizione, diremo fondamentale, della sua
esistenza, si vennero poi radicando altri sentimenti profondi. Un
odio implacabile contro ai ricchi e ai nobili, che usciva affatto
dalla ragionevolezza e dalla giustizia, ma che pur troppo era
spiegabile in chi era stato ed era ancora la vittima d'uno di loro, e
pareva dovesse portarne le conseguenze in perpetuo. Il marchese F...
aveva ingannato sua madre, e sebbene il Baroggi credesse che colui
avesse testato a favor suo, temeva tuttavia non fosse stato anche
quello un giuoco ingannatore per togliersi d'attorno gl'importuni, i
quali volevano impedirgli di lasciar tutte le sue ricchezze al
fratello, e di appagar la boria coll'accrescer sempre più
l'importanza del casato. In quanto al conte Alberico, è
inutile a dire com'egli lo abborrisse con tutta l'esaltazione di un
sentimento implacabile. Se non che d'accosto a tant'odio contro di un
ceto in genere e di que' due uomini in ispecie, quasi per concedere
un po' di riposo al suo spirito, il quale sarebbe stato consumato da
quell'assidua acredine, venne spuntando, lo abbiamo già detto,
il sentimento della gratitudine per colui che solo fra tutti
egli poi ne ignorava la vera cagione aveva pur provveduto a
sostenerlo, ad ajutarlo, a beneficarlo. E questa potrebbe parere una
fortuna, se la disgrazia non avesse fatto che un tal protettore fosse
di quelli appunto che si chiamano piaghe e vituperi dell'umanità.
Questi
poi alla sua volta tenevasi caro il Baroggi, perchè si valeva
di lui in quelle circostanze dove era necessaria una stoffa d'uomo
più sopraffina del consueto, una cera più gentile e
modi più delicati di quelli che mostravano comunemente i bassi
impiegati e le guardie della Ferma. Dopo tutto alfine è a
confessare che il Suardi si compiaceva dei beneficj che faceva al suo
giovane protetto, e che in cuor suo lo compiangeva, e non pensava e
non guardava a quel giovine senza sentirsi tanto quanto commosso. La
natura del Galantino era tristissima, il lettore ne ha delle prove
per fin soverchie; ma avendo il dono di una mente svegliata, questa
di tanto in tanto mandava sul cuore di lui un raggio benefico, che lo
rendeva migliore. Si addomestica il leone e l'orso nero, perchè
un certo loro istinto d'intelligenza permette all'uomo di ammansarne
la ferocia. Ma l'orso bianco è implacabile, perchè è
il più torbido di tutte le fiere. Il Galantino tristissimo
aveva pur pensato a cercare e della Baroggi e del figlio suo. Il
conte Alberico invece, dopo un pugno d'oro concesso per forza, li
aveva lasciati alla loro miseria.
Ben
è vero che il Galantino più di tutti doveva misurare
l'infortunio di quella madre e di quel figlio. Ma il conte Alberico
sapeva pure che il defunto marchese ne era il padre, sapeva pure che
un testamento era stato scritto a suo favore, sapeva pure che quel
testamento era stato trafugato, e che credeva che fosse distrutto;
sapeva pure che la fortuna, il solo giuoco della fortuna aveva messe
a sua disposizione le ricchezze che avrebbero dovuto appartenere al
figlio Baroggi. Ma una volta che si sentì protetto e salvo e
assolto dalla legge, e che la legge avea alzato un muro di divisione
tra lui conte e il Baroggi finanziere, non pensò mai che dalle
sterminate sue rendite che ascendevano a lire milanesi
seicentotrentamila, poteva levarne, senz'accorgersi, una lievissima
annata, che pure avrebbe bastato a sostentar due vite e a stornare la
maledizione dal capo dello zio defunto, e da quello del padre e dal
proprio. Or chi dunque può dirsi più tristo, tra
l'ex-lacchè Galantino e il conte Alberico F...?
VII
Tornando
ora al racconto, quando il Galantino, passando a cavallo sotto al
balcone di casa Ottoboni, attrasse gli sguardi e provocò i
parlari delle donne allegre e voluttuose che vi stavano radunate; in
quel punto, agitando molti disegni in capo, pensava di volgere la
corsa verso la casa propria, dove avea fatto dire al sotto-tenente
della Ferma, Giulio Baroggi, che si trovasse in sul tramontare della
giornata, che egli avea gran bisogno di parlargli. E il Baroggi fu
pronto alla chiamata, tanto che, quando il Suardi scavalcò nel
cortile della propria casa, quello lo stava aspettando da quasi
mezz'ora. Il Suardi salì appena il portinajo gli nominò
il sotto-tenente, ed entrato nell'anticamera, e vistolo a passeggiare
innanzi e indietro:
Attendi un istante che vengo subito, gli disse.
Faccia i suoi comodi, rispose quegli, levandosi il cappellino, e
calcandoselo di nuovo in testa quando il Suardi si ritirò.
Vestito
della sua verde assisa, coi rivolti bianchi al petto, alle maniche ed
alle falde, colle uose di panno nero che gli giungevano a mezza
coscia, colla sciabola cinta non senza una certa trascuratezza che
aveva il suo vezzo, col cappellino a tre punte tanto piegato in sulla
banda destra, che il sopracciglio veniva quasi tagliato a metà;
nel passeggiare innanzi e indietro per l'anticamera presentava
quell'aspetto eteroclito che, assunto per una consuetudine
indeclinabile, sembra farsi quasi una seconda natura in tutti quelli
che, senza appartenere alla milizia regolare, portano divisa ed armi
in servizio degli ordini civili, e nelle frequenti scaramuccie coi
contrabbandieri, sono esposti ai pericoli della guerra, essendo
ascritti al men glorioso esercito della pace. Tuttavia le mosse ch'ei
faceva nel passeggiare, più che quelle di una guardia di
finanza vera e reale, parevano quelle di un attore che ne caricasse
le apparenze per rappresentare un personaggio. Chè di tanto in
tanto, e per atti fuggevolissimi, la trivialità, quasi assunta
per proposito, tradiva una certa eleganza nativa, avendo esso la
taglia spigliata e leggiadramente costituita, e la fisonomia e i
contorni e i tratti del volto belli e gentili. Bensì sul fondo
bianco e pallido della faccia, nella regione dei zigomatici
segnatamente, si vedea soffusa una tinta come di rosso di mattone, la
quale non pareva naturale, sibbene artificiosamente sovrapposta, ed
era infatti l'insegna dell'acquavite e del rack di cui faceva tanto
abuso. Esso non contava che ventun anni, ma ne dimostrava buonamente
una mezza dozzina di più, perch'era torbida la tinta
dell'occhio, il quale però, sotto all'ampio e puro arco del
sopracciglio, girava con guardatura intelligente ed espressiva e
soave, quando era in calma.
Dopo
brevissimi istanti rientrò il signor Suardi, e disse lesto e
sommesso al Baroggi:
Andiamo di là che t'ho a parlare di un affare urgentissimo...
Quante ore abbiamo? aspetta, e già tardi... e così
dicendo condusse il Baroggi in un gabinetto vicino.
Sai, continuava il Suardi, che in sull'imbrunire i commessi della
Ferma devono fare una minuta perquisizione nel convento di San
Filippo Neri, perchè, per sicurissime informazioni, sappiamo
che v'è nascosto in gran quantità del tabacco
forastiero.
Il
Baroggi guardò il Galantino con un lezio del volto
significantissimo.
Chi ve l'abbia gettato non si sa... perchè non par vero
nemmeno che la madre badessa, per il suo privato consumo e per quello
delle suore coadjutrici... basta... qualcuno sarà stato... e a
noi non importa nè di chi nè del come nè del
quando; quel che preme si è che la perquisizione non torni
inutile... E voglio che anche tu sii presente... essendo necessario
che quella gentaglia di commessi e guardie e sbirri sia tenuta in
freno... tu mi capisci.
Capisco benissimo. Ma capisco anche che si può fare un buco
nell'acqua.. e che questa volta era meglio chiudere un occhio e
lasciar che il tabacco marcisse in convento, anzichè liberare
il volo ai falchetti e gettarli tra quelle povere rondini. Il
malumore della città è al punto, che un minimo fatto di
più basta a convertirlo in una tempesta da ammaccar il capo di
chi si lascerà cogliere. Figuratevi poi questa bagattella. Fin
ad ora non fu mai fatta perquisizione in nessun monastero... Torno a
ripetere, mi pare che questo voglia essere un colpo falso, di quelli
che feriscono e fanno saltar le dita a chi tiene l'archibugio.
Il
Galantino tacque un momento, con un certo atto di preoccupazione, poi
soggiunse:
Ma, caro mio, la legge c'è, e se ci fu pel convento dei
Cappuccini, e per quello dei Barnabiti... e per casa Visconti e per
casa Arconati... ci può e ci dev'essere anche per la casa
delle monache. Chi sono infine quelle pettegole? i signori che hanno
fatta la legge dovevano pensarci loro...
Ma sapete, signor Galantino... già qui si può parlar
chiaro, che nessuno ci sente... sapete che quell'editto fu una grande
iniquità... e dacchè Milano è Milano non s'è
mai vista la magistratura a tenere il sacco ai... che cosa si ha da
dire?... ai birboni e ai ladri... come in quest'occasione?...
Come? ai birboni e ai ladri?
So quello che dico... e quand'esce una legge di quella conformità,
chi ha l'incarico di farla eseguire ha naturalmente il mandato di
fare il ladro e il birbone... Ed io dichiaro di aver dovuto essere e
l'uno e l'altro, quantunque a mio dispetto. E, giacchè si ha a
dire la verità tutta quanta, ho avuto caro che voi m'abbiate
fatto chiamare, dal momento che avevo un ardente desiderio di
parlarvi...
Parlarmi? e di che?
Di questo, che se fosse possibile farmi passare dal corpo delle
guardie negli ufficj d'amministrazione, a me parrebbe di toccare il
cielo col dito.
Io t'ho fatto nominar sotto-tenente perché sapevo che un tal
posto impingua le saccocce.
E ve ne ringrazio e tanto, chè, dopo mia madre, siete voi il
solo uomo a cui mi professi obbligato in tutta questa mia vita
maledetta...
Maledetta... perchè tu l'hai voluto... tu bevi, tu giuochi, tu
gozzovigli, tu spendi e spandi, e poi tua madre piange... ed io...
Voi mi avete sempre soccorso, e torno a ripetere che a voi solo io
sento l'obbligo della più profonda gratitudine... ma...
Che?
Quando un uomo è nato per correre ad un fine e riesce ad uno
opposto; quando un uomo si sente la mente e il cuore fatti per
riuscir bene in una certa vita, e dal bisogno è invece
costretto a far quello che gli ripugna... allora è necessitato
a violentar la natura propria, ubbriacandola, affinchè non si
risenta del peso insopportabile che gli è imposto. Quando ho
bevuto e la testa mi si esalta, posso vivere tra quella masnada di
briganti che ho d'attorno. Quando ho bevuto, e il mio cuore è
addormentato e i miei sentimenti sono soffocati, posso anch'io dar
mano alle nequizie che si compiono per obbedire la legge. Del
rimanente, sarebbe ora minor male se ci fosse il pericolo di
affrontarla: ci sarebbe almeno il merito del coraggio. Ma così
è una vigliaccheria senza esempio. Io so che il boja è
più abborrito dell'assassino... il mondo almeno la pensa così,
e c'è il suo perchè... Ora noi siamo ancor peggiori di
lui, chè, se non altro, egli uccide i colpevoli, mentre noi ci
facciamo il più tristo giuoco de' galantuomini.
Non so che dire, e può darsi benissimo che tu abbia ragione,
ma se domani vuoi lasciar giù questa giubba color pistacchio e
questa sciabola, bisogna che tu stasera, anzi fra pochi momenti, lor
faccia guadagnare il ben servito.
Vale a dire?... Non afferro bene.
Vale a dire che tu devi far parte della spedizione del monastero.
Io?
Tu.
Ma perchè?
Il
Galantino stette un momento perplesso, poi soggiunse:
Perchè voglio che il conte Alberico F... vada al diavolo e
crepi di bile.
Il
Baroggi si fece attento.
Caro Giulio, tu sei il primo al quale faccio una tale confidenza; ma
in conclusione ho stabilito di prender moglie...
Niente di più naturale e di più facile.
Naturale sì, facile no... Non per la moglie, ma per quella che
voglio io; e quella che voglio io è nientemeno che la promessa
sposa del conte Alberico (il lettore comprenderà come questa
fosse un'invenzione del Suardi), e tutto è pronto, e si dice
che il bello e leggiadro e profumato e viziato conte, messi da parte
i suoi cento amori, e lasciatine gli avanzi alla servitù come
si fa cogli stivali e colle calze smesse, siasi innamorato
perdutamente di quella che piace a me. Ma il conte non l'avrà
e non la sposerà... e tu mi devi ajutare.
Io?... Ma che cosa posso far io?
Sai tu dove sta di casa quella che piace al conte e piace a me?...
non lo sai? ebbene te lo dirò io: sta di casa nel monastero di
San Filippo, ed è piaciuta anche a te...
A me?
Tu l'hai veduta e guardata e lodata un giorno in cui, mentre
passeggiavi con me, ella mi passò vicino, accompagnata dalla
livrea di casa Pietra Incisa.
Chi?... quell'angelo?...
Quello appunto... ma oggi ha da volar via, e sei tu quello che gli
dee fare spiegar l'ali e farlo uscire, non dalle finestre... guai! ma
da un uscio che t'indicherò.
Ma che vi pensate? Io non sarò mai per far questo.
Tu lo farai.
E quand'anche avessi tutta la miglior volontà di obbedirvi,
non vedo nessuna via da poterne uscir fuori ... Prima non la conosco,
colei... ed ella non conosce me ... e poi una fanciulla non è
una puledra da farsela venir dietro passo passo soltanto col darle a
veder lo zuccaro.
Senti, Giulio; la cosa non è facile e, se vuoi, nemmen troppo
probabile; possibile però mi pare che sia. Forse, da che ci
sono al mondo conventi di monache, è la prima volta che un
decreto della magistratura ingiunge ad una truppa di giovinetti
armati e caldi d'acquavite, di entrare tra la santità e
l'innocenza, come se fosse in caserma; non s'è mai sentito che
il pastore il quale ha in custodia le pecore si confidi alle volpi ed
ai lupi per guardarle dai cani. Non c'è che dire. L'autorità
ha perduta la testa... ma conviene approfittare di questo capogiro,
di questa ubbriachezza non mai udita, perchè scommetto che ciò
non sarà mai per avvenire una seconda volta. Ora tornando a
noi, la novità del caso metterà una tal confusione
nella testa di quella povera badessa, e di quelle semplici e buone
suore maestre e coadjutrici e sorveglianti, che le monache e le
monachelle giovani e le educande si spanderanno per i corridoj e per
i cortili con un gusto matto. Tu un momento fa hai parlato di
puledre: ebbene... metti che il fuoco s'appigli ad un fenile, e da
quello ad una scuderia. È già molto che i palafrenieri
pensino a salvar la pelle, senza tener dietro ai cavalli che, rotta
la catena e la cavezza, si spanderanno per la città con trotto
vivace e allegro, e coi nitriti della libertà. Ho tenuto conto
di tutto, e il mio piano non è una pazzia.
Quasi.
La possibilità della riuscita c'è, e ciò mi
basta. Dunque cosa intendi di fare? Bada intanto che è un
affare d'urgenza e non c'è tempo da perdere.
Non so che dire... io non mi prendo questo impegno.
Che?
Dite quel che volete, chiamatemi ingrato... sconoscente. Dirò
che avete ragione, ma per quest'impresa io non mi movo. Mi son dato
alla crapula per stordire la testa e far il callo alle bricconate
legali....figuratevi se nel giorno stesso che voglio cangiar
professione e vita... posso commettere una vilissima scelleraggine...
posso ingannare... trafugare una povera ragazza... per metterla nelle
mani di chi... domando mille perdoni, ma di chi non è
certamente un santo.
Il
Suardi, a queste parole, guatò in prima torvamente il Baroggi,
poi fece due o tre passi per la camera concitato e convulso; poi si
piantò in faccia al sotto-tenente, pigliandolo per mano colla
sinistra, e mettendogli la destra sulla spalla.
Tu credi, Giulio, che di questa fanciulla io voglia farmi un giuoco
osceno e crudele. T'inganni. Pure mi piaci, e ti voglio bene ancor
più di prima, e ammiro il coraggio onde rifiutasti di dar mano
a un'azione, perchè temevi fosse per essere scellerata. Ma
t'inganni, Giulio. Io ho trentacinque anni... e in parte puoi
immaginarti e in parte lo sai, quante e quante donne mi corsero
dietro... semidee e semidonne; la lista di Don Giovanni potrebbe
parer la polizza del tuo pranzo in confronto. Ebbene... questa è
la prima volta ch'io mi sento innamorato, innamorato alla follia,
innamorato al punto da compromettere tutta la mia esistenza, e tutta
la mia ricchezza accumulata con tanti pericoli e con tanta fatica,
per il desiderio che mi tormenta di poter avere in moglie questo
angelo del paradiso, che è venuto quaggiù per fare il
miracolo di convertire al bene i demonj dell'inferno. Io non vanto
nessuna nobiltà, ma, siamo sinceri, il mio blasone potrebbe
sempre essere la coda del diavolo in campo rosso. Eppure, da qualche
tempo, io mi sento tutt'altr'uomo... e se questa fanciulla potesse
mai diventar mia moglie... certo che il mio avvenire sarebbe la più
luminosa ammenda del mio passato. Dunque?...
Posso ammirarvi, posso anche compiangervi, ma non posso ubbidirvi...
ve l'ho già detto. Sono stanco di fare il servitore
d'anticamera nel palazzo dell'iniquità. Io non nego che voi
abbiate delle buone intenzioni... ma ingannare, insidiare una
fanciulla... perchè, in fin dei conti, voi siete padrone di
essere innamorato di lei, ma ella non è poi obbligata a
diventar vostra moglie.
Quella fanciulla è innamorata di me, come non lo fu mai
nessuna delle tante donne e fanciulle che ho conosciute....
Quand'è così, andate voi stesso; la vostra presenza
farà certo più effetto della mia. Tutto quel che si può
fare... è che... indossiate la mia montura, e facciate suonar
questa sciabola sul lastrico del convento; giacchè mi sembra
che vi prema di non essere riconosciuto... e ciò è
troppo naturale.
Caro mio, tu hai studiato più di me, ma sei più giovane
di me... e sarai sempre men dritto, meno esperto e men ragionevole di
me. Sei contento a prestarmi sciabola e montura, e non vuoi prestarmi
la mano. Ma giacchè abborri il male, e non vuoi commetterlo
credendolo tale, se ritiri la mano devi ritirare anche la sciabola.
In conclusione hai paura di esporti per me.
Paura? lo sanno i contrabbandieri di confine... lo sanno gli spalloni
che sono armati di tutto punto, quasi come i soldati del reggimento
Clerici.
Se dunque non hai paura... prestami mano, chè a far riuscir
bene l'impresa non basto io solo; ma guarda come sei caparbio e a
torto. Tu facendo il mio piacere fai quello della fanciulla, fai
crepare di rabbia il conte Alberico; tu che l'hai tanto colla casta
dei nobili, fai sì che un ramo d'un loro antichissimo albero
s'innesti su d'un albero plebeo, benchè carico di frutti e di
fiori: tutto ciò tu fai ajutandomi.
E
qui si fermò come colpito da un forte pensiero, poi continuò:
Infine... sai tu quel ch'io posso fare per te?... sai che da un atto,
da un atto solo e rapido della mia volontà, dipende che tu
dall'oggi al domani diventi a un tratto uno de' più gran
ricchi del ducato di Milano...!
Il
Baroggi si scosse a tali parole, e lo guardò fisso, e colla
pupilla penetrativa parve addentrarsi in quella del Suardi, che si
fermò ad un tratto impallidendo, poi:
Vieni con me, soggiunse; e lo trasse in una camera attigua.
Il
Suardi si tolse allora una piccola chiave che aveva in uno dei due
taschini dei due orologi; salì su di un seggiolone di cuojo,
accostò la mano per alzare un lembo della tappezzeria di
damasco verde, foggiata a tenda; poi si rivolse ancora più
pallido di prima, e ridiscese... e accostò la bocca
all'orecchio del Baroggi. Questi era muto, e il cuore gli batteva per
l'affanno della curiosità e dell'aspettazione.
VIII
Quando
il Suardi ebbe messo il labbro all'orecchio dei Baroggi, si trattenne
di colpo, come se un secondo pensiero avesse istantaneamente
distrutto il primo; si trattenne, e a colui che stava in sull'ale:
Quel che ti volevo dire te lo dirò domani. Il tempo passa, e
se si giunge tardi non si fa nulla. Per ora, affinchè tu metta
il cuore in pace riguardo alla purezza di quella fanciulla, ti
propongo questo partito: se mai si riesce, come spero (chè
allorquando una cosa la si vuole la si ottiene, purchè la
volontà sia quella tale), se mai si riesce dunque a trarla dal
monastero, ella rimanga, finchè sarà bisogno, presso
tua madre. Tua madre che colle ginocchia logora i gradini degli
altari, e si macera, poveretta, nelle preghiere e nei digiuni,
pentita e strapentita e troppo pentita di avere... ma non richiamiamo
il tristo passato, che, del resto, s'ella fu ingannata, non ha
ragione di credersi colpevole, mentre non fu che una vittima. Tua
madre sia dunque la sua custodia. Così tu non potrai avere più
scrupoli... e mi presterai quell'ajuto, senza del quale non si può
far nulla. Suvvia, coraggio... e pensa al tuo avvenire.
Capitò
a molti, anche tra uomini i più tenaci del loro proposito, di
avere a lungo respinte le insidiose insinuazioni degli scaltri con
franchissimo coraggio, e che poi, o per qualche accidente inaspettato
o per la stanchezza della lotta, si sentiron costretti a lasciarsi
trarre nel laccio senza dir di sì e senza dir di no, e di
seguire, sebbene contro genio, la volontà altrui. È
sempre la storia del diavolo e delle sue tentazioni. Un tal fenomeno
lo dovette subire anche il Baroggi. Quella uscita inaspettata del
Suardi sulla facoltà che aveva detto d'avere, di poter
cambiare dall'oggi al domani la fortuna di lui; le parole e i modi
misteriosi onde egli avea toccato quel tasto, la tappezzeria rimossa
dalla sua mano, quasi fosse per discoprire cosa della più alta
importanza, e fino a quel punto gelosamente celata; tutto ciò
gli mise una tale agitazione nel sangue, una tal commozione nel
cuore, una tal confusione nella mente, che, in una parola, non si
trovava nella condizione di prima. Egli sapeva la storia del
Galantino, e la sua prigionia e la tortura subita e sopportata, e le
carte importanti trafugate al defunto marchese, sicchè a
queste cose egli corse di slancio col sospetto, appena il Galantino
gli parlò con quel piglio misterioso. Allorchè poi
quegli troncò il discorso, e, svoltandolo in un altro, propose
al Baroggi di affidar la fanciulla a sua madre; non ebbe in quel
momento il coraggio di costringerlo a palesar tutto, e d'altra parte
non seppe persistere nel rifiutargli il proprio ajuto, perchè
non voleva lasciarsi fuggir di mano l'occasione e il merito di poter
penetrare in quel segreto, che era stato ed era, e, sino a quel
punto, gli pareva che avesse dovuto continuare ad essere, il segreto
di tutta la sua vita. Non rispose dunque nulla all'ultimo eccitamento
del Suardi, bensì, come questi si mosse, gli tenne dietro
sbalordito e pensoso e disposto a far tutto quello che colui avrebbe
voluto in quel giorno. Così usciti dalla stanza, discesi in
cortile, salirono nella carrozza che li aspettava, dicendo il Suardi:
Strada facendo ti spiegherò il mio piano.
Mentre
il signor Suardi, al pari di un comandante in capo, insieme col suo
ajutante di campo, guardando di tratto in tratto l'orologio, si
recava al quartier generale, lontano dalla mischia, e nel tempo
stesso in situazione di accorrere al riparo, e d'improvvisare sul
medesimo campo di battaglia un nuovo colpo strategico, quando mai un
rovescio inaspettato fosse per mandare in dileguo il primo piano già
da lungo meditato; i commessi incaricati della perquisizione, le
guardie, gli sbirri, quelle col loro archibugio ad armacollo, questi
colla sola sciabola girata dietro le reni, erano usciti dal palazzo
della Ferma generale, e si avviavano difilati alla volta del
monastero di San Filippo Neri. Le ventiquattro erano passate, e già
stava per compirsi l'ora che ad esse succedeva. Il sole primaverile
illuminava per carità qualche camerotto al quinto piano, dove
degli estremi raggi stava approfittando con ansiosa sollecitudine
qualche povera cucitrice, la quale voleva compir l'orlo di qualche
camicia per risparmiare i tre soldi della popolana candela di sego.
In quell'ora, nella chiesuola del monastero di San Filippo, nella
parte ch'era segregata dal pubblico, erano discese la madre badessa,
le suore maestre, le monache semplici, le converse, le incipienti, e
il drappello delle educande. Il mantice dell'organo veniva caricato
d'aria da due grosse e ottuse converse; intanto che, quasi a provare
la quantità d'aria che era entrata nelle canne, e la propria
valentia nell'arte, una mano percorrendo agilissimamente i tasti, ai
profondi suoni della canna maggiore, con netta e rapidissima
decrescenza, faceva succedere il sibilo acuto e flautato della canna
ottavino. L'organo, come al solito, dava in sulla parte della
chiesa aperta al pubblico, e i pochi che a quell'ora erano
intervenuti, guardando attraverso la griglia di legno che dal
parapetto dell'organo si alzava fino a due terzi della canna
maggiore, vedevano per la luce di due ceri, i quali erano accesi al
disopra della tastiera, muoversi tre teste. Ed eran le teste della
suora maestra di canto fermo e d'organo, e di due fra le allieve più
distinte in quell'arte. Di queste due, quella che, seduta alla
tastiera, sbizzarriva colla mano velocissima, era la giovinetta Ada.
Poco dopo, dall'altare, collocato dietro al muro che divideva la
chiesa in due parti (e faceva riscontro all'altro posto oltre il
muro, ed al quale si ufficiava per il pubblico), una suora intuonava
le litanie della Beata Vergine; ad essa, le altre monache, le
educande, il pubblico rispondevano, mentre l'organo colle sue
echeggianti variazioni interpolava ogni tema di que' predicati, coi
quali la più sublime poesia sgorgata dall'entusiasmo della
fede e dell'amore decorò il nome di Maria.
Di
qui passando altrove, il lettore può accompagnare di nuovo i
commessi della Ferma, usciti dal palazzo dell'amministrazione
generale per recarsi al convento, quando le litanie potevano essere
al loro termine. Allorchè dunque il primo dei commessi,
lasciati i compagni nella via di san Barnaba, entrava nell'ortaglia
dov'era il nuovo casino del signor Suardi, per abboccarsi con lui,
come aveva avuto ordine; la suora inginocchiata all'altare cantava
già il concede nos famulos tuos, ecc., e quando,
dopo avergli parlato, il commesso usciva frettoloso, in compagnia del
sotto tenente Giulio Baroggi, aveva già rintronato sotto
alle vôlte della chiesa il sub tuum e l'a periculis
cunctis libera nos semper.
Una
mezz'ora dopo, il commesso e il Baroggi e gli altri erano già
entrati in monastero, e fu allora che quel gentiluomo amico di casa
Ottoboni, galoppando per diporto in quei luoghi, e saputa la cosa,
s'era affrettato a raccontarla agli amici, e innocentemente a mettere
la tempesta nell'anima del giovane Crall, che divorando e tempo e
strada, corse alla loggia dei compagni Frammassoni di San
Vittorello.
Il
sole era scomparso, da qualche tempo, e anche i luminosi crepuscoli
di quella serena giornata s'erano spenti affatto, e qua e là
lasciavasi veder nel cielo qualcuna delle stelle più
premurose, allorchè sboccò dalla contrada di San
Vittorello quella scelta schiera di Frammassoni giovani e
frementi, armati tutti di spade e qualcuno anche di pistola;
dispostissimi tutti a far nascere un tale scompiglio e un tal
disordine, che fosse poi atto a provocare un ordine. Ed ora dobbiamo
dire quello che, sebbene non sia indifferente, pur ci fuggì di
memoria allorchè parlammo di quella loggia di Muratori; ed è
che fra coloro i quali si trovavano presenti alla tornata, v'era un
uomo che abbiamo conosciuto fin dall'anno 1750, e che, se non fu il
primo, non fu nemmeno l'ultimo ad aver parte attiva negli avvenimenti
d'allora; vogliamo dire il signor Lorenzo Bruni, violino di spalla
per l'opera, e primo violino del ballo al teatro Ducale. Il lettore
deve ricordarsi e della lettera che lo stesso Bruni scrisse da Milano
al signor Amorevoli, tenore al teatro di Dresda, per dargli
informazioni intorno alla figliuola della contessa Clelia V...; e
com'egli fosse venuto a Milano onde conchiudere di presenza, co'
signori ispettori del teatro Ducale, la scrittura di sua moglie,
madama Gaudenzi-Bruni, per la prossima stagione di carnevale.
Or
dunque si aggiunga al resto che il Bruni, venuto a Milano solo, era
stato poi raggiunto dalla moglie e da un suo figlio giovinetto, il
quale non aveva ancora tre anni (Chi avrebbe detto a noi che questo
fanciullo, figlio di un tal uomo, dovevamo poi conoscerlo vecchio
novantenne in riva al lago di Pusiano, perchè ci fosse anello
di comunicazione tra il passato e il presente!) Aggiunga inoltre il
lettore, che il Bruni, per esser diventato marito e padre, non aveva
cangiato carattere, idee, aspirazioni, abitudini. Che anzi in quegli
anni, avendo percorso mezz'Europa, più e più s'era
infervorato nelle sue opinioni; che, siccome voleva la nuova onda
delle cose, s'era ascritto alla loggia dei Frammassoni di
Parigi, che s'era messo in comunicazione colle logge erette nelle
principali città d'Europa, e che arrivato a Milano, e saputo
della loggia milanese, avea sollecitato di mettersi in comunicazione
con essa; ch'era stato de' più caldi ad esortarla perchè
dall'inerte discussione passasse all'azione pratica. Infine che,
sebbene non avesse più trentacinque anni, ma cinquant'uno,
pure alla proposta di lord Crall, s'era messo in compagnia de'
giovani più deliberati, sfoderando anch'esso la spada, e
giurando su quella, come voleva il formulare.
Ed
or presto vedrà il lettore fino a che punto sappiano giungere
i maledetti ghiribizzi della fortuna e gli strani giuochi della
combinazione; e come il signor Bruni ogni qualvolta inciampava nei
ciottoli delle contrade di Milano, avesse a dar della testa anche
nelle corna del diavolo, occasionando trambusti serj, e dovendo alla
sua volta rimanerne vittima.
IX
Il
generale in capo, ossia il Galantino, che, al pari del duca di
Wallenstein, combatteva per proprio conto, aveva dato ordine al suo
ajutante di cogliere, senza sgarrare d'un minuto, quell'istante in
cui le monache e le educande, uscite appena dalla chiesuola, si
sbandavano per diporto, a sparsi gruppi, lungo i corridoj ed i
portichetti del monastero, aspettando che la campana le chiamasse in
refettorio per la cena. E un tal ordine venne di fatto eseguito
puntualmente; chè il giovine Baroggi era di quella tempra
d'uomini che ponno dubitare a lungo prima di accettare un incarico;
ponno anche averlo accettato contro la propria convinzione: ma una
volta che hanno promesso di mandarlo ad effetto, non disputano più
se sia buono o cattivo, onesto o turpe, utile o dannoso; si
dimenticano delle proprie persuasioni e di se stessi, non da altro
sollecitati che dal desiderio di farsi riconoscer degni dell'altrui
fiducia. Avea insomma le qualità d'un perfetto soldato, il
quale può disapprovare una battaglia, una mossa strategica, ma
si lascia tagliare a pezzi piuttosto che mancar menomamente ad un
comando ricevuto; con tali norme erasi comportato infatti nella sua
condizione di sotto tenente della Ferma; disapprovava
quell'istituzione, e vituperava le malversazioni legali; ma quando al
confine comandava un picchetto di guardie, i contrabbandieri avevano
con lui un malissimo giuoco. Allorchè dunque il piccolo
esercito che era sotto la sua direzione fu alla soglia della porta
del convento, la prima cosa fu di posare due guardie rappresentate
dal loro fucile, ai due lati di essa; poi il primo commesso, seguito
da tutti gli altri, entrò nel camerotto della vecchia custode
del convento, che trasalì nel veder quell'uomo seguito da
tanti altri armati. Ma il commesso, alla vecchia che, per un
movimento istintivo, si alzò da sedere e fece alcuni passi per
piantarsi in luogo da sbarrar loro l'entrata:
Siamo i commissarj della Ferma, precedeteci, chè vogliamo
parlare alla madre priora del convento. Fate presto e non temete, chè
non si vuol mangiarvi, nè voi nè la madre priora nè
le monache; e senza dir altro, sforzò, a così dire, il
passo e varcò la soglia, ed entrò procedendo fino al
secondo cortiletto del monastero, seguìto dal secondo
commesso, da un sergente, dalle guardie, dagli sbirri e dal
sotto tenente Baroggi che veniva ultimo e colla testa bassa.
Chi
avrebbe detto alla pia fondatrice di quelle sacre mura che doveva
venir giorno in cui, senza un rispetto al mondo, avevano ad essere
violate da uomini profani, anzi dalla più ribalda feccia degli
uomini profani? Ma la vecchia custode, volendo essere la prima a
comparire innanzi alla reverenda madre priora, stupita e barcollante
s'affannava a precedere que' giovinotti, di cui sentiva gli
sghignazzi protervi.
Le
monache e le fanciulle educande sfilavano in quel punto lungo un
portichetto, per dove avevasi a passare. La vecchia, con quello
spavento di chi ha in cura una nidiata di pulcini e osserva un gatto
che li guarda e li fiuta:
Aspettate! esclamò con un certo accento, nel quale si sentiva
che il tremito della paura materiale era confuso all'indignazione.
Aspettate! chè la reverenda madre priora viene in coda a
queste.
V'è
una certa specie di rispetto e di riguardo che è provato anche
da' più ribaldi, persino allora che sono ubbriachi. Tutti
adunque si fermarono, mentre il Baroggi, che stava dietro a tutti, si
portò anch'esso in linea per guardar le fanciulle che
passavano: e guardò infatti, e vide quella che cercava.
Intanto,
allo spettacolo nuovo e inaspettato di quelle faccie, di quelle armi,
di quelle canne lucenti d'archibugi, s'era messo uno strano bisbiglio
e scompiglio tra quella lunga fila di monache e ragazze; e s'udirono
anche esclamazioni di sgomento; e si videro anche alcune uscir dalla
fila, e affrettare il passo, e svoltare chi per una parte, chi per
l'altra.
Sostati
i commessi e il sotto tenente Baroggi alla testa delle guardie,
la vecchia portinaja volgendosi alla madre priora, che già
aveva intraveduto quegli uomini armati, con quel senso di stupore che
non era e non poteva essere sgomento, ma somigliava piuttosto al
turbamento confuso di un cattivo sogno:
Reverenda madre, le disse con voce gutturale e pecorina, questi
uomini sono entrati, perchè hanno voluto entrare e perchè
tengono un ordine da quelli che comandano.
La
madre priora, fattasi presso ai commessi della Ferma, che alla lor
volta si avanzarono verso di lei:
Che cosa vogliono, loro signori? disse.
Le
parole non erano che queste, ma le pronunciò con quel piglio
grave, severo, burbero, di chi, preposta da trent'anni al governo del
monastero, teneva l'abitudine del comando più assoluto e
inesorabile, ed era avvezza ad essere impreteribilmente ubbidita.
Se
la madre priora avesse avuto maggior pratica di mondo, è certo
che non avrebbe parlato con quell'accento a quei rozzi uomini, i
quali erano usi anch'essi a non sentirsi contraddetti.
Noi siamo i commissarj della Ferma, rispose con piglio più
rozzamente burbero il primo dei commessi; e se siamo qui, vuol dire
che ci possiamo stare; del resto, per un di più, veda vostra
maternità l'ordine che teniamo dai nostri padroni.
La
reverenda madre lesse l'ordine scritto, poi soggiunse: Questo non
sarà mai.
Il
primo commesso guardò in faccia al collega a quell'uscita
inaspettata della priora; il secondo commesso guardò al
sotto-tenente Baroggi, il quale, levatosi già da qualche tempo
il cappellino a tre punte, si avanzò facendo un profondo
inchino alla reverenda.
La
gioventù, il bell'aspetto e gli atti di cortesia costituiscono
sempre una buona raccomandazione in quasi tutti i casi della vita: e
tanto ciò fu vero in quell'occasione, che alla reverenda,
senza ch'ella il volesse, anzi senza che nemmeno pensasse a volerlo,
si spianarono di tratto gli aggrottamenti del ciglio, e si sciolsero
due profonde rughe che le si eran fatte ai lati della bocca contorta.
A vostra maternità, continuava il Baroggi, raddolcendo più
che poteva la voce, dev'essere noto l'editto pel quale è data
facoltà alla Ferma generale del tabacco di mandare i suoi
commessi anche nell'interno de' monasteri a fare perquisizioni,
quando vi sia presunzione che in qualcuno di essi siasi nascosto del
tabacco proibito.
Che... che cosa... cosa mi tocca di sentire?
Vostra maternità si degni ascoltarmi; la colpa non è nè
della Ferma nè di noi, e molto meno della vostra maternità
reverenda se fu riferito trovarsi appunto nascosta in questo convento
una grande quantità di tabacco proibito. Io sono persuaso che
questa possa essere stata una denuncia infondata... fors'anche la
calunnia di qualche malevolo: ma siccome la legge parla chiaro, e
parla chiaro e forte anche contro di noi se ci rifiutiamo a fare il
nostro dovere; così vostra maternità deve permettere
che la legge venga in tutto e per tutto eseguita.
Quantunque
il Baroggi parlasse a voce alta, veniva essa però soverchiata
dal bisbiglio e dalla pispilloria di tutte le monache e fanciulle che
si erano affollate sotto al portico, tanto che le arcate echeggiavano
di quell'insolito frastuono raccolto in un sol punto. Le monachelle
più paurose, in prima fuggite, eran tornate, attratte dalla
curiosità irresistibile; le più audaci s'erano stipate
in densa schiera presso ai nuovi venuti; le più adulte fra le
semplici educande facevano luccicare, mentre parlavano, i loro vivaci
e non più timidi occhi sul bello e giovane soldato che
parlava. E non si può nemmeno sgridarle, poverette, giacchè
dal momento che non erano destinate alla vita claustrale, la figura
del giovane colla sua assisa brillante e la sciabola lucente, che
staccava sovra di un fondo cupo occupato dalle figure severe della
priora e delle suore maestre e dalle nere loro vesti, quasi
somigliava all'effetto che un cielo azzurro, riflesso da un lago,
produrrebbe su chi uscisse da un luogo tenebroso, dove sia stato a
lungo per altrui volontà.
Ma
la reverenda, dopo aver girato un severissimo sguardo su quella
truppa di giovinette che facevano tanto rumore, e intimato loro il
silenzio:
Non nego la legge, disse, nè l'ordine che tenete da chi l'ha
fatta; ma prima che io vi permetta di passar oltre, dovrò
parlare alla nobil donna conservatrice di questo sacro asilo.
L'autorità sarà informata di tutto... e allora...
quando essa persista nel suo comando... voi potrete adempire al
debito vostro.
Il
primo commesso a queste parole si permise di ridere villanamente; e
per ispirito d'imitazione fecero lo stesso e il secondo commesso e le
guardie e gli sbirri. Per verità che la reverenda madre
l'aveva detta grossa; ma ella non era poi obbligata ad intendersi
molto dei diritti della finanza.
Madre reverenda, soggiunse allora il Baroggi, mentre saettava
un'occhiata come di rimprovero a quei profani irrisori, noi non siamo
obbligati ad aspettare altri ordini dell'autorità; anzi il
nostro obbligo preciso è di non aspettarne alcuno. Bensì
vostra maternità potrà sempre raccontar l'accaduto alla
nobile conservatrice del monastero, perchè essa provveda a far
mettere questo convento sotto la protezione di un privilegio
straordinario.
Il
sotto tenente non avea quasi finito di pronunciare queste
parole, che il commesso, perduta la pazienza:
Orsù, andiamo! disse al collega ed alle guardie. Noi sappiamo,
madre reverenda, dove fu nascosto il tabacco; non abbiamo nemmeno
bisogno di scorta; e così dicendo varcò l'arcata del
portico, seguito dai soldati.
Il
Baroggi lasciò fare, e si ritrasse in coda. La madre badessa,
coraggiosa della propria autorità e di quello zelo
ardentissimo di religione che mette agli ultimi gradi tutti gli altri
rispetti, fece, quantunque vecchia, due passi rapidi e si piantò
innanzi al commissario, e:
Nè voi nè i vostri passerete per di qui, disse. Ma in
quella le suore maestre e coadjutrici le si fecero intorno come per
trattenerla onde il commissario e le guardie passarono oltre,
fulminati dai solenni anatemi di lei, fino a che, nell'eccesso
dell'affannosa sua indignazione, ella cadde come spossata e svenuta
nelle braccia di quelle che la circondavano. Allora crebbe più
che mai il susurro delle suore atterrite e indignate; allora
s'udirono voci alte e querule; e persino qualche scoppio di pianto di
qualche fanciulla commossa; allora, chi si fosse trovato là,
avrebbe potuto assistere al vario modificarsi delle varie indoli
delle fanciulle ivi raccolte: chè alcune eran passivamente
atteggiate; altre, non trattenute da nessun riguardo, si sentivano
tratte a seguir quelle guardie per ispiare i loro passi; altre
osavano perfino di far sentire qualche mal compresso cachinno di
riso; ed eran forse le più riottose tra le educande, quelle
che più spesso avevan subita la severità della madre
superiora, ed erano incoercibili dai castighi, e sospiravano di
uscire a respirar l'aria libera del mondo.
Quando
i perquisitori si trovaron soli in un androne, il Baroggi li
trattenne, e disse:
Or che volete fare senza la presenza di tre o quattro di codeste
suore maestre, giacchè alla reverenda superiora è
venuto un deliquio? Sapete bene che, affinchè la perquisizione
sia legittima e non dia luogo a recriminazioni ed a gravami per parte
de' perquisiti, bisogna che il processo verbale venga sottosegnato da
qualcuno di loro. Perciò è necessario che faccian
testimonianza del nostro operato tre o quattro di codeste suore, le
quali, se sono ragionevoli, non devono ritenersi in pericolo per
trovarsi in mezzo a noi, protette come sono naturalmente dalla loro
vecchiaja e dalle grinze impresse nella loro faccia dalla devozione e
dalla penitenza. Or lasciate che io vada a supplicarle perchè
vogliano seguirci, intanto che la reverenda superiora attende a
ricuperare i sensi smarriti.
E
coloro, a tali parole, si fermarono, ed il Baroggi retrocesse per far
quanto aveva detto, ma più ancora per ripassare tra la schiera
delle giovinette educande, in mezzo alle quali il suo occhio acuto
aveva già scorto quella per cui era stata ordita una trama
tanta complicata e pericolosa. Ritornato così nell'atrio,
diede un'occhiata ai varj gruppi che s'eran sparpagliati qua e là
sotto ai portici; s'accostò a quello dove rivide l'Ada;
rispettosamente e col miglior garbo s'accostò, e:
Dove si son ritratte le reverende suore maestre? domandò.
Più
d'una rispose a quella domanda; e il Baroggi sentì anche la
voce della fanciulla Ada; e più d'una si mosse per andar a
cercare di quelle venerande che, nella confusione e nella
preoccupazione del deliquio della madre superiora, non avean pensato
a non lasciar sole le loro giovinette allieve; e si mosse anche Ada.
Se non che il Baroggi, colto il punto, lesto e sommesso: «Ella
aspetti... le disse; nell'ortaglia v'è chi dee parlarle. Si
volga per di là, la supplico...», e via ratto come se
nulla fosse, camminando sui passi delle giovinette che s'eran mosse
in cerca delle maestre.
Ada,
a quelle parole del Baroggi, trasalì e stette immobile alcuni
istanti, e pareva un leggiadro simulacro marmoreo che rappresentasse
l'incertezza. Se non che, allorchè vide ritornar il
Baroggi seguito da tre fra le venerande madri, ella uscì dalla
immobilità, senza però uscire dalla perplessità
affannosa.
In
quel punto la confusione nel convento era giunta a quel grado che non
pareva potersi dar la maggiore. Chi andava da una parte, chi
dall'altra; chi stava origliando presso l'androne dov'erano entrati i
perquisitori; chi, salito che fu il Baroggi coi compagni e colle tre
suore nella parte superiore del monastero, tenne lor dietro per non
saper vincere la curiosità; chi si recava a domandar della
salute della madre superiora; chi, tra le giovinette più
ottuse, più apatiche e più sensuali, giacchè era
l'ora della cena, aveva messo il piede in refettorio, sollecitata dal
giovanile appetito che non lasciava scorgere al mondo cosa veruna, la
quale avesse maggior importanza d'una buona minestra; chi tra le più
maliziose e ribaldelle s'ingegnava a far chiose astute ed
epigrammatiche sull'avvenuto. Solo Ada non faceva parte nè
dell'una nè dell'altra schiera.
Da
molti e molti giorni ella avea cessato di mettere in comune i proprj
coi pensieri, colle cure e colle abitudini infantili delle compagne.
Ella avea smarrita l'allegria delle amiche spensierate, avea perduto
l'appetito delle amiche prosperose e placide; non sentiva la
tentazione d'imitare le più astute e le più riottose;
in una parola, non trovavasi più in monastero che colla
presenza materiale, perchè col pensiero e col cuore trovavasi
assiduamente altrove.
Da
alquanti giorni non aveva potuto vedere il giovane Suardi, perchè,
siccome sa il lettore per le parole che la nobil conservatrice del
monastero disse già a donna Paola, era trapelato qualche vago
sospetto alle monache maestre, e queste, tenutala d'occhio, non
l'avean mai lasciata sola; però la fanciulla si crucciava, e
continuamente andava almanaccando sul modo di poter eludere
quell'assidua vigilanza. Nè mai si era attentata di affidare
il suo pericoloso segreto a nessuna delle compagne, nemmeno ad una
che, pari a lei d'età e sua vicina nella camerata, avea preso
ad amarla svisceratamennte, sebbene coll'amore più d'una madre
o d'una sorella maggiore che d'una compagna. Codesta sua amica,
figliuola d'un marchese Crivello, era piuttosto cagionevole di
salute, graziosa nel volto, ma tanto quanto deformata dalla
rachitide, fornita d'ingegno fuor dell'ordine comune, e infervorata
di così religioso zelo, che quasi parea tramutarsi in quello
che suol chiamarsi abito bigotto e scrupoloso. Essa erasi accorta del
segreto di Ada, ma avea taciuto. Amorosa, previdente e prudente,
pensava di vegliarla dappresso e di fare, per quanto era in lei, la
cura di quel male senza avvisarnela. Interrogata dalla superiora e
dalle maestre sul conto di Ada, quando s'eran messe in qualche
apprensione, e interrogata appunto perchè la conoscevano come
la miglior sua confidente, ella tacque, ed anzi cercò stornare
i sospetti, per stornare i castighi dall'amica. Bensì coi modi
più gentili nel discorso abituale, avea tentato distogliere i
pensieri di Ada da quella direzione che loro avea comunicata la
passione. Sempre adunque trovandosi seco, perché anche Ada la
ricambiava d'affetto sincero, e in que' giorni le stava più
del solito accosto, accadde che, nel momento in cui il Baroggi s'era
avvicinato al gruppo delle educande dove di volo avea veduto la
fanciulla Ada, questa parlasse precisamente colla Crivello. Bene
l'inchiesta del Baroggi aveva diviso quel gruppo di fanciulle, ed Ada
era rimasta sola un istante fuggevolissimo con lui, ma la Crivello
s'avvide che era corsa qualche parola. S'avvide e tacque, e si
dilungò facendo mille pensieri, e fermandosi non veduta a
guardare Ada rimasta immobile e concentrata.
A
questo punto eran le cose nel monastero, quando un sordo muggito di
voci confuse di popolo affollato e battimani e fischiate,
contemporaneamente rintronarono nel monastero; poi fu sentito un
colpo secco d'archibugio squarciar l'aria, ripercosso in degradate
oscillazioni.
X
Quelle
grida, quello scoppio di fucile giunsero fino al dormitorio delle
maggiori educande, dove i commessi della Ferma avevano già
trovato, lungo il cornicione che lo rigirava, buon numero di boette
di tabacco, con gran meraviglia delle tre suore vegliarde che
assistevano, dichiarando ad ogni minuto la loro assoluta ignoranza di
quella contravvenzione; e le grida e la detonazione inaspettata
colpirono di vario stupore i commissarj, le monache e il Baroggi,
che, senza dir parola, uscì e discese precipitoso nel cortile.
Accorreva in quel punto la vecchia portinaja, accorreva una delle due
guardie state collocate ai lati della porta del monastero. Sotto
l'androne della porta si sentiva un crescente frastuono, in mezzo al
quale spiccavano voci d'ira veementissime; e quasi contemporaneamente
fu invaso il cortile dalla folla. Il Baroggi stupefatto si guardò
intorno e cercò la via dell'ortaglia che gli era nota, e,
quando fu in quella, vide una fanciulla che fuggiva seguita da
un'altra che cercava trattenerla. Egli credeva che Ada si fosse già
recata nell'ortaglia, ma la ravvisò in quella che affannata
correva precipitosa, quasi si schermisse dall'altra, e la raggiunse.
Siete la signora Ada, disse quando le fu presso. Suvvia,
affrettatevi. Un gran precipizio vi sta sopra. Ma chi è
costei?
L'Ada
e la Crivello non parlavano. Allora il Baroggi prese la prima per
mano e la trasse con sè.
Che tentate di fare? disse allora la Crivello.
Zitto... voglio salvarla.
Allora
la Crivello afferrò con quanta forza aveva la veste
dell'amica. Questa tentò sciogliersi, esclamando sommessa:
Deh lasciami, per carita! Ma la Crivello si avvinghiò ad Ada
con invincibile tenacità, e:
Bada a te, diceva, la mia povera Ada. Ma, intanto, l'una fuggendo,
l'altra trattenendo, il terzo inseguendo, eran tutti pervenuti
nell'ortaglia. Una voce maschile fu udita in quel punto. Il Baroggi
la riconobbe; Ada ne trasalì.
Sei tu? ripeteva quella voce: era il Suardi.
Son io, rispondeva il Baroggi.
Or che avvenne di Ada?
Zitto. Ella è qui; e il Baroggi, non sapendo che fare, giacchè
la fanciulla a lui ignota teneva strettamente abbracciata Ada, le
prese ambedue in un fascio, e di peso le portò fino a quella
parte del muro di cinta dove era un uscio. Là stava in piedi
il Galantino, tra il muro e un'imposta semichiusa.
Siete voi? esclamò allora il Baroggi, ecco qui. Ma sono due
invece d'una sola. E dal peso mi pare che sieno svenute e
l'una e l'altra.
E che vuol dir ciò?
Che quando si vuol strappare una rosa di furto e in fretta, due o tre
se ne strappano in una volta, e si rovina l'arbusto. Ecco qui, ed or
prendete, chiudete, mettetele in carrozza e via come il fulmine; se
no va a succedere un gran precipizio.
Ma che vuol dire che ho sentito un colpo di fucile?
Vuol dire che la faccenda è seria più di quel che pare,
e v'è un mistero che non comprendo... m a sostenete queste
ragazze, e salite in carrozza, e sopratutto badate a non passare
innanzi alla porta del convento. Il popolo par che sia uscito dai
gangheri affatto, ed è penetrato in convento.
Il
Galantino non rispose, prese in braccio quel fascio di due fanciulle,
e quando fu per richiuder l'uscio di cui gli aveva data la chiave il
ribaldo ortolano:
Vieni anche tu, disse al Baroggi.
Non sarà mai, rispose questi; il Baroggi non è mai
fuggito innanzi al pericolo, e or vedo che si ha a menar le mani.
Addio dunque, e se nella mischia si dovesse lasciarci la pelle... chi
sa mai? fate che quella fanciulla non mi maledica... rispettatela e
fatela felice... Poveretta!... Addio dunque.
Il
Galantino non aggiunse verbo, e chiuse l'uscio del muro di cinta. Il
Baroggi stette fermo un istante ancora a quel posto. Tese
l'orecchio... e raccapricciò nell'udire una confusione di
strilli femminili; e gli parevano ululati di naufraghe che si
mescolassero al muggito di un mare tempestoso. Tese l'orecchio, e
sentì il precipitoso trotto di due cavalli e il rumore di una
carrozza. Allora volse gli occhi al cielo tutto stellato: Oh
Dio, esclamò, che mai feci? Oh povere ragazze! e ripetè
la via dell'ortaglia desolato e cupo.
Allorchè
poi dall'ortaglia ei mise piede entro il recinto del monastero, que'
dieci o dodici campioni della frammassoneria che, seguiti da una
densa onda di popolo, avevano forzata la porta del monastero e
atterrata, anzi uccisa quella guardia che aveva lasciato partire il
colpo d'archibugio, si trovarono dirimpetto alle guardie della Ferma,
le quali, partito il Baroggi e sentito crescere il tumulto, erano
discese a furia sotto il portico. Impegnatasi una fiera mischia, come
se il cortile del monastero fosse un campo di battaglia, le monache e
le fanciulle atterrite affacciandosi agli ingressi, fuggendo su e giù
per le scale, attraversando i corridoj continuavano ad assordar
l'aria di grida di spavento. Il Baroggi, vista quella scena e
osservando i proprj compagni impigliati in quella lotta disuguale,
chè il popolo ajutava gli assalitori, onde le guardie della
Ferma erano percosse da tutte le parti, sentì il sangue salire
alla testa, e cieco di furore, sfoderando la sciabola si fece largo
tra il popolo, dando giù a dritta e sinistra; ma qual fu la
sua meraviglia, quando si vide dirimpetto que' gentiluomini, dei
quali conosceva alcuni che erano delle prime famiglie di Milano! I
colpi erano corsi senza pietà, onde il sangue non mancava;
vide cadere due dei proprj, vide atterrati tre degli avversarj. Ed
egli, parando colla sciabola un colpo di spada che gli veniva calato
dal giovine lord Crall, ch'ei conosceva benissimo:
Ma che demonio v'ha inspirato? gridò. Che c'entrano le guardie
della Ferma se adempiscono gli ordini della superiorità?
Dovevate andare al palazzo dell'ammistrazione, se avevate senno e
coraggio e...
E
in quella si sentì gridare: «lasciate il passo, il
passo, il passo.» Poi una voce sgangherata che tuonava: «Fermi
tutti, o vi faccio abbruciare in questo cortile a schioppettate.»
Il
popolo naturalmente fece ala. Due padri cappuccini entravano insieme
con un grosso picchetto di soldati del reggimento Clerici, comandati
da un tenente, che era quello che gridava stentoreamente.
Quella
quarantina di soldati di milizia regolare, che i cappuccini, saputo
lo scompiglio, erano andati a prendere alla vicina caserma di San
Barnaba, circondarono le guardie assalite e i gentiluomini
assalitori, e i colpi cessarono, se non cessò il sangue di
scorrere. La folla che, allorquando i soldati fecero largo, ebbe
teste e stomachi e ventri percossi e scompigliati spietatamente dai
colpi di calcio, di necessità si fece più rada. Un po'
di calma sottentrò al tafferuglio inaudito di prima, un po' di
silenzio successe al frastuono che parve aver voluto far crollare le
mura del monastero. Cinque uomini erano stesi sul selciato del
cortile; nè in quel primo istante si ebbe tempo di vedere se
erano morti o feriti.
Che cosa dunque è stato tutto questo fracasso? domandò
il tenente a quelli ch'eran là accerchiati.
Noi non possiamo saper nulla, rispose il Baroggi. Noi siamo qui per
ordine della superiorità. E s'è scoperto molto tabacco
proibito in convento. Ecco tutto. Cosa poi sien venuti a fare questi
signori non si sa.
Siamo venuti a far giustizia noi, gridò lord Crall, giacchè
nessuno non sa più farla qui. Siamo venuti a dare un esempio,
e a lasciare un segno che faccia risensare gli stolidi che hanno
voluto sguinzagliar questa canaglia nell'asilo delle sante vergini.
Ecco cos'è stato.
Il
tenente del reggimento Clerici non rispose nulla nè al
Baroggi, che nella sua qualità di soldato urbano al servizio
della Ferma era tenuto in dispregio dagli ufficiali della milizia
regolare; nè a lord Crall, che conosceva e stimava, ma al
quale non poteva dar ragione, per la gran ragione che in faccia alla
legge colui aveva torto. Soltanto si limitò a dire:
Io non sono un auditore, nè un attuaro del Capitano di
Giustizia, e non c'entro a metter parole in questa faccenda. Bensì
è mio dovere di farli scortar tutti, illustrissimi signori, e
di farli consegnare al Capitano di Giustizia per l'appunto. Mi
rincresce che sia toccato a me un così odioso incarico. Ma lor
signori farebbero lo stesso se fossero ne' miei panni.
È giusto, disse lord Crall; e noi promettiamo di consegnarci
al Capitano, e diamo perciò la nostra parola d'onore. Soltanto
vi prego di prestare soccorso a questi carissimi miei amici che sono
lì distesi per terra. L'uno è don Giorgio Porro,
l'altro è un conte Rusca, quello là, che mi par morto,
è uno Stefano Pecchio.
I
Frammassoni superstiti partirono poco dopo, seguiti alla lontana da
una mano di soldati. Le guardie della Ferma, i commessi, il Baroggi
uscirono anch'essi, con promessa di esser pronti alla chiamata del
capitano.
I
cinque stesi per terra, assistiti dai due cappuccini, vennero fatti
porre su altrettante barelle, e trasportati nel loro convento.
Quella
medesima notte nel palazzo del Capitano di Giustizia furono esaminati
coloro che si consegnarono e fu steso il processo verbale, presente
il signor tenente del reggimento Clerici, che nel processo, veduto da
noi, è firmato tenente Angelo Birago di Casal Monferrato. Il
processo reca anche i nomi degli accusati, e sono i seguenti: don
Giorgio Brentani, Guglielmo lord Crall Pietra Incisa, Gaspare
Antolini avvocato, Carlambrogio Negri negoziante, Lorenzo Bruni
professore di violino, Amilcare de Brème, Vincenzo
Ghisalberti.
Nella
medesima notte, uno dei due cappuccini accorsi al trambusto, per
ordine della reverenda superiora del monastero di San Filippo Neri,
riferì al Capitano, con nota scritta e firmata dalla madre
priora e da tre suore maestre, come non s'eran più trovate in
convento due tra le maggiori educande del monastero. Donna Giacoma
Crivello dei marchesi Crivello, e donna Ada V..., figlia della
contessa Clelia V..., tutelata, per esser assente la madre, da donna
Paola Pietra Incisa.
Il
giomo dopo, tutta Milano, anzi tutto il Ducato, fu pieno di codesto
avvenimento, e, com'è naturale, fu portato a cielo il coraggio
di quelli che avevano affrontata la guardia della Ferma per dare un
esempio solenne. Ma insieme colle grandi lodi e coi lamenti pel loro
arresto, corse anche la voce che coloro erano frammassoni; perchè,
ad onta che il cardine fondamentale della frammassoneria fosse il
segreto, pure, nei tre periodi dell'esistenza di quella società
in Milano, anche per testimonianza di molti vecchi che vivono oggi,
il pubblico conosceva molti degli ascritti ad essa, ond'erano
additati comunemente siccome oggetti di speciale osservanza, a
dispetto del tanto raccomandato segreto. Se non che una tale notizia
fu un lampo che suggerì al Suardi il modo di gettar la
confusione nelle teste del pubblico e dell'autorità.
In
quel dì stesso trovatosi insieme col Baroggi, dopo aver
parlato molto di molte cose con esso lui, il Suardi, cacciandosi di
tratto a ridere:
Ma sai tu, disse, che quegli originali pare che siano stati pagati
espressamente da noi?
E in che modo?
È presto capito. All'autorità ora è noto che
coloro sono Frammassoni. Tu sai che se molti dicevano che la loro
esistenza avea per iscopo la propagazione dei lumi e il vantaggio del
popolo, altri assicuravano che celavano, sotto questa bella
apparenza, fini turpi e disonesti. Or è facile far pendere
tutti i sospetti da questa parte. A che sono venuti ad assalirci? per
cogliere l'occasione di gettar lo scompiglio in tutti e trafugar due
fanciulle. Va benissimo; ciò almeno par assai chiaro. Ma c'è
di più; e un sospetto ne genera sempre degli altri. Sappi
dunque, che quel lord Crall lo vedevo a galoppar di frequente nelle
vicinanze del monastero. Ora ho pensato che potesse essere innamorato
di Ada... e ciò è naturalissimo, essendosi egli trovato
seco spesse volte nella casa della propria madre. Del resto, che ciò
sia o non sia, non importa; basta che sembri, e che l'accusa lanciata
contro lui d'aver tese le insidie per farla trafugare, abbia tutte le
apparenze della verità... Una nota di tal genere, senza firma
di nessuno, sta da qualche ora nelle mani del signor Capitano... Ah!
ah! va benissimo... E a te, che ne pare? È bella sì o
no? Ma davvero che la fortuna è la mia schiava più
devota... e t'assicuro che darei del capo nel muro, quasi incredulo
di così strana combinazione! Or che fai tu che stai così
serio?
La rete è lunga e larga, rispose il Baroggi, e ci siam dentro
anche noi... e quella povera mia madre. Ah no, per Dio, che non c'è
tanto da ridere.
Sta tranquillo, Giulio, te l'ho già detto jeri: il mio blasone
è la coda del diavolo in campo rosso.
LIBRO
OTTAVO
I
discorsi di casa Ottoboni. Parole di donna Paola Pietra
intorno all'impresa dei Liberi Muratori contro i commessi della
Ferma. La contessa Arese e le dame del biscottino.
Dialogo tra l'Arese e donna Paola. La calunnia. Il
caffè Demetrio e il maggiordomo Carlantonio Baserga.
L'abate Parini. Il pubblico e il Galantino. Donna Ada
V... e donna Giacoma Crivello. Il conte V... e il decreto del
Senato. Un sermone morale. Il lago di Como. La
contessa Clelia V... L'abate Frugoni e Condillac. Da
Casal Pusterlengo a Lodi. Il figlio di Lorenzo Bruni. Suo
racconto. Donna Paola, la contessa Clelia e la Gaudenzi.
L'avvocato Strigelli. Cattura de' Liberi-Muratori. Il
Galantino e il Baroggi.
I
Nella
notte in cui avvennero i gravissimi disordini raccontati, la
conversazione di casa Ottoboni, che sul tramonto era sparpagliata in
varie sale e sui terrazzi, si raccolse tutta in due salotti, in uno
dei quali continuarono i discorsi; nell'altro gli abitudinarj si
unirono per giuocare all'ombretta spagnuola, all'arduo tarocco, allo
scientifico scacco.
A
quei convegni serali interveniva anche donna Paola Pietra, e nella
sua tarda età, per consueto, sedeva al tavoliere e giuocava a
tarocco col padre Frisi, col questore conte Pertusati, che allora era
il prefetto della nobilissima scuola di san Giovanni alle Case Rotte,
col maestro Galmini, ed altri; e qualche rarissima volta si faceva al
pianoforte colla contessa Agnese, la maestra di musica già da
noi nominata, sorella della celebre Gaetana, quando quella supplicava
d'eseguire qualche pezzo celebre o dell'abate Stefani, o di
Scarlatti, o dell'abate Clari, o di Hasse, o d'altri. Ci pare di aver
detto più d'una volta come tutta la città di Milano,
tanti anni addietro chiamata dalla valentia straordinaria di donna
Paola, aveva avuta l'abitudine di accorrere in folla alla chiesuola
del monastero di santa Radegonda, quand'ella monaca professa o
cantava mottetti e responsorj, o suonava l'organo. Però ella
non aveva dismessa affatto la pratica di quell'arte, e anche nella
sua vecchia età, nei ritrovi più intimi, si lasciava
indurre a dar saggio della sua ancor abile mano, quando ne veniva
pregata o importunata.
Quasi
dunque ogni sera ella interveniva in casa Ottoboni; vi si fermava
fino al tocco della campana, alla qual ora o veniva a prenderla la
carrozza, o se il tempo era bello e l'aria mite, veniva a pigliarla
il suo figlio Guglielmo, il quale viveva con essa nel più
ammirabile accordo; e così pedestri, seguiti dal servitore col
lampione, si rincasavano, per ritirarsi, ella a riposare, lord
Guglielmo a studiare fino a notte tardissima.
Anche
in quella sera donna Paola Pietra, sul tardi, come soleva, recossi in
casa Ottoboni. Essendo stata bellissima la giornata, lord Guglielmo
aveva detto al carrozziere di non attaccare per quella sera,
ch'egli stesso avrebbe accompagnato a casa sua madre. Spesse volte
poi il padre Frisi e il Parini e l'avvocato Fogliazzi si facevan con
loro, e così lentissimamente passeggiando e qualche volta
scegliendo apposta la strada più lunga, continuavano la
conversazione e qualche volta anche salivano tutti in casa
Pietra Incisa a bere l'acqua cedrata. La partenza precipitosa di
lord Crall, all'annuncio che il monastero di San Filippo era stato
invaso dalle guardie della Ferma aveva provocato i parlari e messo in
movimento le congetture fra quanti erano là radunati in casa
Ottoboni. Però, quando venne donna Paola, fu un accordo tacito
di tutti di non farle motto alcuno di quel ch'era successo.
Soltanto
quand'ella si fu adagiata nel salotto da giuoco a farvi una partita
al tarocco coi soliti suoi competitori, la ciarla continuò più
abbondante e più investigatrice e più fiscale di prima
nella sala della conversazione. In tal modo era trascorsa qualche ora
di notte, allorquando entrò l'avvocato Rejna, il padre,
crediamo, del noto bibliofilo, che di quando in quando aveva
l'abitudine di frequentare quella casa. Entrò circospetto e,
con un'aria di mistero che svegliò la curiosità in
tutti quanti, chiamò in disparte l'abate Parini, e:
Guai, caro abate, guai serj. Un disordine, un parapiglia da non
imaginarsi il secondo in mille anni.
Che cosa è successo? domandò il Parini.
Prima di tutto... è qui donna Paola?
È qui.
Male. Avrei voluto che fosse a casa sua.
Ma di che si tratta?
Una compagnia di cavalieri e d'uomini civili con spade e pistole sono
entrati nel monastero di San Filippo.
C'era lord Crall?
Sì... e sono entrati coll'intento di dare alle guardie della
Ferma una lezione che loro lasciasse il segno, e da far nascere un
tale scompiglio da costringere l'autorità ad abrogare l'editto
del mese di aprile; e lo scompiglio è nato in fatti, ma di tal
sorta che sono rimasti in terra cinque tra morti e feriti, e
dovettero accorrere i soldati del reggimento Clerici... e lord
Crall...
Che? È forse morto?
No, ma fu condotto, anzi scortato al Capitano di giustizia insieme
con altri sei o sette... tra cui vi sono due che furono vostri
scolari, e v'è il figlio del banchiere Negri...
quell'accattabrighe...
Oh che caso!
Or cosa credete di fare? Dobbiamo dire il fatto a donna Paola?...
Domando a voi come si fa a serbare il segreto con quella donna; con
quella donna che avanza gli uomini in consiglio e prudenza e
fermezza. E poi già... quello che non saprebbe stasera,
saprebbe domattina, e avrebbe ragione di lamentarsi con noi; e poi,
non vedendo a comparire suo figlio, passerebbe una notte di spasimo.
Un male che si conosce è sempre meglio di un disastro che si
teme e si ingrandisce coll'imaginazione.
La
faccia espressiva del Parini, e il suo grand'occhio, in quel punto
insolitamente espanso, e la fronte spaziosa e pura su cui appariva,
quasi a dir, la fuga dei veloci suoi pensieri; e ciò, dopo
quell'aria di mistero onde lo aveva chiamato in disparte l'avvocato
Rejna, provocò l'attenzione di quanti stavano parlando nella
sala; di modo che la marchesa Ottoboni s'accostò ai due
interlocutori, chiedendo che cosa era avvenuto; e quasi
contemporaneamente quanti eran seduti si alzarono, e alle loro
domande l'avvocato dovette ripetere quello che aveva detto al Parini.
Ah me l'era imaginato, diceva uno.
In quanto a me avrei sospettato qualunque cosa fuorchè
questa...
Ma che interesse... che desiderio... che smania... Non ci capisco
niente affatto io...
Quello che non avete capito voi aveva capito io da un pezzo... (e chi
parlava era una dama).
Che cosa avete capito?
Lord Guglielmo ha ventisei anni ed è letterato... ed è
fantastico... e in monastero c'è qualche ragazza che ha più
di quindici anni.
E che?... Volevate che fosse geloso delle guardie della Ferma?...
Altro che gelosia... paura e spavento... e fin qui non ha torto... Da
soldati in convento non c'è da attender nulla di buono.
Donna Gioconda egregia, disse il Parini con ironia severa alla bella
e giovane e maliziosa dama che parlava sommesso, ma non abbastanza
perchè non fosse intesa da quelli che le stavano vicino; donna
Gioconda egregia, abbiate la bontà di credere che qualche rara
volta gli uomini, e specialmente i giovani, affrontano il pericolo
per impulso spontaneo ad operare il bene e ad operarlo a vantaggio
altrui, anche senza il secondo fine di qualche interesse proprio che
toglie merito a qualunque bella e coraggiosa azione; e mi pare che
questo sia precisamente il caso. Vogliate dunque essere cortese con
lord Guglielmo, concedendogli la virtù del disinteresse.
Chi affronta il pericolo, foss'anco per il solo intento di proteggere
dall'altrui violenza qualche cara persona, mi pare sia degno
d'ammirazione anche senza andare a cercar altro, rispose donna
Gioconda punta, ed arrossendo di dispetto sotto il minio e i due nèi
posticci che, appiccicati all'angolo dell'occhio sinistro e sulla
pozzetta della sinistra guancia, le alteravano l'armonia del bel
volto, rendendolo però più piccante.
Donna Gioconda è tanto spiritosa, che mi obbliga a concedere
questa gentile interpretazione a' suoi arguti sospetti.
E
a questo punto successe nella sala un generale silenzio che lasciò
sentir le voci di quelli che giocavano nell'altra.
Abbiamo tempo di far la pace, diceva il padre Frisi. Lord Guglielmo
non è ancora venuto.
Come volete... ma non capisco perchè stasera tardi tanto.
Il
Parini sentì e, senza dir nulla, dignitosamente zoppicando,
attraversò la sala e si recò nell'altra dov'era donna
Paola Pietra.
La
marchesa Ottoboni gli tenne dietro.
Fattosi
presso al tavoliere, dove stava seduta donna Paola:
Lord Guglielmo, le disse il Parini, non può venire stasera per
essere trattenuto altrove da un affare urgentissimo, che le dirò
dopo.
Che novità? ha mandato qualche servitore?
No... ma finisca la partita e dopo le dirò di che si tratta.
Spicciatevi, il mio caro padre Paolo, che quand'anche foste per
commettere uno sbaglio, gettando giù una cattiva carta, non si
tratta di un calcolo matematico.
Un poeta non ci perde nulla se confonde il re di spade col re d'oro,
rispose il padre Frisi, colla sua consueta facezia; ma un professore
di matematica... ci va dell'onor suo... Ah!.... Donna Paola... non
avrei mai pensato ch'ella avesse il ventuno... Caro abate, mi sono
comportato da poeta questa volta...
La
partita finì, il padre Paolo Frisi si alzò, si alzarono
gli altri e donna Paola con essi, la quale voltasi impaziente al
Parini:
E che cos'è quest'affare di tanta urgenza?
Lord Guglielmo ha voluto impegnarsi, d'accordo con alcuni altri
gentiluomini, e metter mano in quella brutta pasta dei fermieri, per
l'utilissimo intento di convincere l'autorità, con qualche
atto clamoroso, dei pessimi provvedimenti da lei presi. Però,
trattandosi stasera di una perquisizione in luogo dove la Ferma non
aveva mai osato penetrare...
Ah... me l'aspettavo... Ho compreso tutto, si è dunque voluto
assolutamente far resistenza alla forza pubblica, e Guglielmo...
Guglielmo si trovò impegnato cogli amici e... già è
facile imaginarsi che queste cose non vanno via lisce... insomma...
hanno dovuto tutti quanti presentarsi al Capitano di giustizia.
Il
Parini che, in prima, aveva proceduto con lentezza guardinga nel dar
quel tristo annuncio alla madre di Guglielmo, continuò più
spedito e più franco quando si accorse che ella non ne era
gran che percossa. Tutti poi rimasero assai meravigliati allorchè
donna Paola, sentito il fatto, sul volto, conservatosi calmo e
sereno, mostrò gl'indizj di qualche cosa che somigliava alla
compiacenza.
Cari amici, soggiunse ella poi, giacchè le soperchierie eran
procedute al punto che, a sopportarle, potevano col tempo generar
malanni ancora più terribili, ed era necessario che qualche
uomo coraggioso e fermo protestasse forte e senza quelle benedette
mezze misure che finiscon quasi sempre a lasciar le cose peggio di
prima; così vi confesso la verità, sebbene qui questa
cara ed ottima marchesa mi guardi stupita, che ho gran piacere ci sia
entrato mio figlio. Prevedo, pur troppo, che ci saranno travagli
seriissimi da incontrare; ma... penso che il mondo sarebbe cento mila
volte peggio di quello che è, se di tant'in tanto non ci
fossero quelle felici e generose tempre d'uomini che danno da pensare
alla prepotenza e spaventano i pregiudizj. Così è...
sono contenta di Guglielmo... Pur troppo l'audacia gli costerà
cara... ma verrà il buon mercato... e gli altri godranno...
Così
esprimevasi quella donna forte e singolarissima, e tra ciglio e
ciglio le brillava quel raggio antico dell'intelligenza coraggiosa
che si conforta nella convinzione del giusto
quell'intelligenza coraggiosa onde aveva saputo vincere e far piegare
innanzi a sè consuetudini e pregiudizi inveterati, siccome sa
il lettore.
Ed ora, continuava donna Paola, è necessario ch'io mi riduca a
casa, perchè è probabile che là vi sia qualche
lettera del signor capitano di giustizia, o qualche avviso di
Guglielmo... Vedremo. Chi dunque mi accompagna?
Tutti
si offersero. Ma il Parini, il padre Frisi e il conte Pertusati,
prefetto della confraternita di san Giovanni alle Case Rotte, si
disposero a farle seguito di fatto, dandole braccio l'avvocato
Fogliazzi. Quando poi tutti furono per uscire, la marchesa Ottoboni,
la padrona di casa, che aveva coltissimo l'ingegno come ottimo il
cuore:
Donna Paola, permettete che v'accompagni anch'io. Verrà più
tardi a prendermi la carrozza a casa vostra.
E
così se ne partirono tutti, facendo la via lentissimamente:
donna Paola tra la marchesa Ottoboni e l'avvocato Fogliazzi, e il
Parini che incedeva lor presso, appoggiato al braccio del Padre
Frisi.
Quando,
venuti a santa Maria Podone, attraversarono la piazza, videro fermato
un carrozzone innanzi al portone di casa Pietra. Il lacchè,
col piede sullo scalino del cocchio, tenendo nella sinistra la torcia
accesa che rischiarava di una luce rossastra gran tratto di quella
buia contrada Borromeo, attendeva a far chiacchiere col cocchiere. I
servitori, che precedevano coi lampioni i nostri personaggi, furono i
primi a dire, ravvisandola a quel chiarore: È la livrea di
casa Arese.
Ahi, disse donna Paola, questo mi è di cattivo augurio. È
la contessa.
E
in fatti, quando furono al punto da svoltar nel portone, mettendosi
in fila, per passare tra la carrozza e il muro di casa Pietra, il
lacchè, ritraendo il piede dallo scalino, e cavandosi il
cappello a tre punte:
La signora contessa mia padrona è entrata, ed aspetta da quasi
mezz'ora...
Ahimè... replicò donna Paola... davvero che prevedo
disgrazie...
Se
il lettore si ricorda, la contessa Arese, dama della croce stellata,
priora di molte congregazioni, era la protettrice e conservatrice del
collegio di san Filippo Neri.
II
Questa
nobil dama, supplicata per lettera, qualche ora prima, dalla
reverenda badessa a recarsi al monastero, senza perdere un minuto di
tempo, aveva sentito con grande indignazione il gravissimo disordine
avvenuto, e con stupore la scomparsa delle due fanciulle educande.
E l'avea pur avvisata io quella signora donna Paola, esclamò
al racconto; l'avea pure avvisata a ritirare la fanciulla dal
convento. Ma colei vuol sempre fare a modo suo, e non m'ha dato
ascolto, ed ora ecco che cos'è avvenuto.
Questo può andare per donna Ada, nobilissima contessa, avea
risposto la madre badessa, ma chi può spiegare la scomparsa
della Crivello, la perla delle educande? Ah, che disonore, che smacco
per il convento, nobile contessa, per questo convento che godeva di
una così grande e meritata riputazione!
Pur troppo, madre reverenda, pur troppo! Ed or che si fa?... Quella
signora donna Paola, che entra dappertutto, che dà consigli a
tutti, che dispensa grazie e favori e soccorsi a tutti, vedremo,
vedremo ora quel che saprà fare. Senza perder tempo io mi
recherò da lei. Voi intanto, madre reverenda, spedite tosto
qualcuno del convento de' cappuccini ad avvisare i signori
Crivello... Oh che diranno mai quegli egregi signori, quell'ottima
marchesa! ah, è questo un grande scompiglio, madre reverenda!
E così dicendo, aveva lasciata la superiora e le altre suore
in lagrime; e messasi in carrozza, se ne venne alla casa Pietra.
Donna
Paola era veduta con segreto rancore dalla contessa Arese, e da tutte
quelle altre dame segnalate per titoli, e investite di qualche
importante incarico relativo alla carità od alla beneficenza
pubblica, priore di sacre congregazioni, protettrici d'orfanotrofj,
raccoglitrici di largizioni della carità privata, e che, in
virtù di tali incarichi, erano ossequiate, supplicate, temute.
La cagione di quel segreto rancore era che quella donna singolare non
aveva mai voluto appartenere a nessuno di quei corpi morali, avendo
sempre preferito di esercitare la beneficenza in un modo eccezionale
e ne' casi eccezionali, perchè soleva dir sempre: «ai
bisogni e alle disgrazie comuni e di tutti i giorni v'è chi ci
pensa; e perciò è necessario che qualcuno provveda a
quei casi a cui, per essere insoliti o per trovarsi in contrasto con
qualcuno dei pregiudizi più radicati nel mondo, nessuno vuol
pensare». Sin qui però quelle donne esimie si sarebbero
anche tranquillate, ma il loro dispetto più forte nasceva da
ciò, che sebbene donna Paola non avesse veste nessuna di
pubblico incarico, nè titolo sonoro che la distinguesse fra le
dame, nè croci stellate, nè altro, pure ogni qualvolta
si mostrava in pubblico o appariva tra la minuta gente, a preferenza
di tutte loro, raccoglieva le più segnalate dimostrazioni
d'affetto; e spesse volte i poveri e gl'infelici che ricorrevano ad
esse, se mai insorgeva qualche difficoltà di soccorso,
mettevano innanzi il nome di donna Paola, quasi lor domandando
consiglio, se era il caso di ricorrere a quella come a suprema
autorità. Codesto fatto era il colpo più crudo per
quelle esimie dame; e spesso i poveretti che, per inesperienza
ingenua, avevano proferito quel nome venerato, si sentivano
licenziati con solenni rabbuffi e peggio. Tanto s'infiltra ovunque il
perfido amor proprio, e, quand'è offeso, mette il turbamento
persino negli atti di carità!
Ma
tornando ai fatti, donna Paola, affannata ed ansiosa, salì le
scale preceduta da tutti gli altri. Il servo gallonato della contessa
Arese era in anticamera, e con esso un servo di donna Paola, alla
quale e l'uno e l'altro contemporaneamente dissero:
La signora contessa Arese è nella sala di ricevimento.
Il
rumore dei passi e delle voci fecero alzare la contessa dal
seggiolone, ove erasi messa per meditare la formola migliore da dare
al tristo annuncio, di modo che, quando donna Paola entrò,
quella gli moveva incontro:
Qual grave motivo vi ha costretta a venire da me in ora così
tarda?
La
voce di donna Paola, la qual non s'era per nulla turbata quando il
Parini le aveva narrato il fatto di suo figlio, tremava
nell'esprimere quella domanda.
Un
vago presentimento l'affannava e, per di più, vedevasi innanzi
una donna colla quale non s'era mai trovata d'accordo un momento
solo. V'hanno persone che, relativamente o assolutamente, nella
faccia, nei modi, nelle parole, serbano un'impronta indefinibile che
arrovescia l'anima di chi, senza volerlo, è costretto a
trovarsi con esse. E donna Paola era precisamente in questa
condizione al cospetto della contessa, e per quell'impulso naturale
ed invincibile dell'antipatia, la quale spesso è
un'ingiustizia, ma qualche volta è pur salutare come
l'istinto; ed anche perchè sapeva come l'Arese, di cheto e
sott'acqua, fosse la sua perpetua avversaria, e si adoperasse a
mantenere contro di lei i rancori delle dame vegliarde sue degne
consocie, e soffiasse astutamente nelle ire, velate di pretesti
devoti.
Quando
una persona versa in tali relazioni affettive con quella a cui deve
annunciare una disgrazia, non è possibile che trovi in quel
punto il modo da farsi ben volere.
Donna Paola si ricorderà dell'ultima mia visita, rispose dopo
qualche pausa la contessa.
Me ne ricordo, sì, soggiunse con impazienza donna Paola.
Si ricorderà anche del consiglio che rimessamente mi son
permessa di darle... Ahi!... perchè mai, nella sua saviezza,
donna Paola, non ha creduto bene di ascoltarmi! e mandò un
grave e lungo sospiro.
Davvero
che si potrebbe forse scommettere che in fondo all'animo della
contessa c'era un sentimento di compiacenza, che le faceva trovare
una, quasi diremo, vendetta nel dar quell'annunzio a donna Paola; un
sentimento irresistibile e che, per mancanza di espressioni più
proprie e precise, si potrebbe chiamar fisico. Infatti, se non fosse
così, perchè incominciare il suo discorso a quel modo?
Ma in nome di Dio, parlate, continuava donna Paola; che cosa c'entra
il vostro consiglio di tanti giorni fa, colla vostra visita di
quest'oggi?
Se quella fanciulla da voi protetta fosse stata ritirata dal
monastero in tempo...
Che?...
Quest'oggi non sarebbe scomparsa...
Scomparsa!... Ma chi scomparsa? ma da dove? ma parlate più
chiaro e più spiccio.
Donna Paola si tranquillizzi... Vi deve essere nota la visita de'
fermieri in convento e il parapiglia con alcuni... non dirò
cattivi, ma certo turbolenti e avventati giovinotti... Lord
Guglielmo, vostro figlio, ha voluto onorarli della propria
complicità... e ciò mi rincresce, mi rincresce
davvero... un così distinto giovane! Ma per non lasciarvi in
pene, vi dirò che, mentre avveniva il più strano e
terribile caso che mai abbia sconvolta e funestata la santa
tranquillità di un convento, scomparvero due educande; donna
Ada, figlia della contessa Clelia, e una Crivello... della quale poi
non mi so far capace in nessun modo... perchè era chiamata la
perla delle educande.
Scomparsa!!!... esclamò donna Paola, lasciandosi cadere sul
seggiolone, e girando lo sguardo attonito su tutti gli astanti che,
percossi e muti e immobili, guardavano lei.
Allora
il più profondo silenzio si prolungò sino al punto che
donna Paola, alzandosi da sedere e stringendo le mani della marchesa
Ottoboni colle proprie convulse e tremanti:
Povera infelice contessa proruppe... or che le diremo?... Ah! è
una disgrazia maggiore di tutte le disgrazie!
E
il silenzio continuò ancora, finchè fu rotto dalle
parole della contessa Arese:
Donna Paola, non v'è chi misuri e trovi giusto il vostro
dolore più di me... ma se è permessa una riflessione in
così tristo punto, lasciate ch'io ridica quello che ho sempre
pensato e detto. Non era conveniente, per nessun conto, che una donna
vostra pari si desse tanto pensiero della contessa, che Dio però
le perdoni; nè che vi pigliaste tanta cura di quella
fanciulla... molto meno poi fu conveniente il metterla ad educare nel
monastero... La nobil donna che m'antecedette come protettrice e
conservatrice di quel santo luogo... ha voluto fare a modo suo... ha
trovato giusto che voi... che la contessa... ma in conclusione fu uno
scandalo, uno scandalo inaudito che... e molti infatti dei nobili ed
ottimi genitori che misero ad educare le loro fanciulle là
dentro... se ne lamentarono e se ne lamentano.
Donna
Paola, sprofondata nel doloroso suo pensiero, a tutta prima non aveva
prestato orecchio alla contessa Arese; ma arrestata da quella parola
scandalo, si scosse e comprese e si mise a guardar fissa la
contessa, aspettando attonita la conclusione delle sue parole; se non
che non le bastò la pazienza di lasciarla finire, e:
Che mi tocca di sentire? proruppe; di che scandalo mi parlate, di che
lamenti? Vorrei che parlassero a me questi signori padri e queste
signore madri che voi mi nominate! Ma dov'è la legge del
perdono? ma che nuova dottrina è la vostra, ma chi ve
l'insegna? La contessa Clelia è oggi un esemplare di virtù
e di scienza. Ella ha provato al mondo che, se si può fallire,
ben si può rompere una mala pratica, ed oggi, esponendo altrui
il tesoro faticoso de' suoi studi severi, è più utile
al mondo che voi tutte colla vostra carità falsa, per la quale
vorreste messa alla gogna anche in fasce una creatura innocente
perchè... ma che perchè? La fanciulla Ada è la
figlia del conte V..., chi può negarlo? voi sole, egregie dame
della carità, siete state a far sorgere gli scandali, gettando
nel mondo le avventate congetture che la coscienza, l'onestà,
la bontà dovrebbero sempre respingere. Ma sta a vedere,
contessa, che voi sareste capace di pensare, e anche di volerlo far
credere a me, che questa sventura possa essere un indizio
dell'ammonizione, della punizione del cielo; perchè tra le
altre vostre abitudini avete anche quella di dar ad intendere di
essere confederata al cielo in tutto quello che dite e fate, e siete
per dire e per fare; così il cielo, al cospetto del povero
vulgo ingenuo, ingannato dalle false apparenze, quasi parrebbe
complice della cecità, per non dire del pervertimento del
vostro giudizio. Ed ora vi debbo dire, che, dacchè il
monastero di san Filippo Neri fu eretto dalla sua pia fondatrice, la
vigilanza fu sempre così esemplare che non è mai
avvenuto che scomparissero o vi si trafugassero fanciulle. L'esimia
signora che vi ha preceduto nell'incarico di proteggere quel sacro
asilo, lo mise in tanta floridezza, che da tutte le parti del Ducato
fu una gara il man