Seconda parte
Indice

Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Parte prima






L'agonia di un villaggio


«Bollettino dell'eruzione! Il fuoco a Nicolosi!»


La folla accorreva dai dintorni, a piedi, a cavallo, in carrozza, come poteva. Lungo la salita, fra il verde delle vigne, un denso polverone disegnava il zig-zag della strada. Ad ogni passo s'incontravano carri che scendevano dal villaggio minacciato, carichi di masserizie, di derrate, di legnami, perfino d'imposte e di ringhiere di balconi, tutto lo sgombero di un villaggio che sta per scomparire. E colla roba, sui carri, a piedi, uomini e donne taciturni, recandosi in collo dei bambini sonnolenti, coi volti accesi dalla caldura e dall'ambascia. Pei casolari, nelle borgate, lungo la via, gli abitanti affacciati per vedere, colle mani sul ventre; qualche vecchierella che attaccava un'immagine miracolosa allo stipite della porta o al cancello dell'orto; i monelli che ruzzavano per terra festanti; e sulle porte spalancate delle chiesuole, la statua del santo patrono, luccicante sotto il baldacchino, come un fantasma atterrito, colle candele spente, e i fiori di carta dinanzi.

A Torre del Grifo scaricavano carrate intere di assi e di tavole sulla piazzetta, per le baracche dei fuggiaschi. Le pompe d'incendio tornavano indietro di gran trotto, col fracasso di carri d'artiglieria; e in alto, dirimpetto, il vulcano tenebroso, dietro un gran tendone di cenere, lanciava in aria, con un rombo sotterraneo, getti di fiamme alti cinquecento metri.


All'ingresso del paesetto era un ingombro straordinario di carri, cavalli, gente che gridava, e soldati col fucile ad armacollo, quasi l'avanguardia di un esercito in rotta. Si camminava su di una sabbia nera, fra due file di case smantellate, irregolari, cogli usci e le finestre divelte. La gente ancora affaccendata a portare via roba. Dal balcone di una casa nuova calavano gridando - Largo! - un armadio monumentale. Una vecchierella stava a custodia di alcune galline, seduta su di un cesto, in un cortile ingombro di doghe e cerchi di botte. E qua e là, sulle porte senza uscio, vedevasi qualche povero diavolo che voltava le spalle alle stanzucce nude, aspettando colle mani in mano e il viso lungo, in silenzio, come nell'anticamera di un moribondo. Sul marciapiede del casino di compagnia erano schierate su due file di sedie alcune signore venute a vedere lo spettacolo, che si facevano vento, degli uomini che fumavano, un sorbettiere portava in giro dell'acqua fresca, il baldacchino del Santissimo appoggiato al muro, colle aste in fascio, e di faccia la chiesa spalancata, senza lumi, solo un luccichìo di santi dorati in fondo all'altare in lutto. - Lassù dal campanile, sul chiacchierìo, sul frastuono, sui boati del vulcano, la campana che sonava a processione, senza cessare un istante.

Al Nord, verso l'Etna, lo stradone si allungava in mezzo a due file di ginestre arboree, formicolante di curiosi che andavano a vedere, ridendo, schiamazzando, chiamandosi da lontano, e gli strilli soffocati delle signore barcollanti sul basto malfermo delle mule, e il vociare di quelli che vendevano gasosa, birra, uova e limoni, sotto le baracche improvvisate. Via via che i più lontani giungevano sull'erta udivasi gridare:
- Ecco! ecco! - con un grido quasi giulivo; di faccia, a destra e a sinistra, fin dove arrivava l'occhio, come il ciglione alto di una ripa scoscesa, nera, fumante, solcata qua e là da screpolature incandescenti, dalle quali la corrente di lava rovinava con un acciottolìo secco di mucchi immensi di cocci che franassero.


A due passi le ginestre in fiore si agitavano ancora alla brezza della sera; delle signore si stringevano al braccio del loro compagno di viaggio, con un fremito delizioso; altri si sbandavano per le vigne, lungo la linea della corrente minacciosa, scavalcando muricciuoli, saltando fossatelli, le donne colle sottane in mano, con un ondeggiare infinito di veli e d'ombrellini, mentre il crepuscolo moriva nell'occidente, e la marina in fondo dileguava lontana, nel tempo istesso che l'immensa fiumana di lava sembrava accendersi nell'orizzonte tetro. Dal paesetto perduto nell'oscurità giungeva sempre il suono delle campane, e un mormorìo confuso e lamentevole, un formicolìo di lumi che si avvicinavano, quasi delle lucciole in viaggio. Poi, dalle tenebre della via, sbucò una processione strana, uomini e donne scalzi, picchiandosi il petto, salmodiando sottovoce, con una nota insistente e lamentosa della quale non si sentiva altro che:
- Misericordia! misericordia! - E sul brulicame nero e indistinto di quei penitenti, fra quattro torce a vento fumose, un Cristo di legno, affumicato, rigido, quasi sinistro, barcollante sulle spalle degli uomini che affondavano nella sabbia.




Amore senza benda


Battista, il ciabattino, era morto col crepacuore che Tonio, suo eguale, fosse arrivato a metter bottega in Cordusio, e lui no: la vedova seguitava ad arrabattarsi facendo la levatrice in Borgo degli Ortolani, magra come un'acciuga, con delle mani spolpate che sembrava se le fosse fatte apposta pel suo mestiere. Tutta pel figliuolo, Sandro, un ragazzo promettente, che «l'avrebbe fatta morire nelle lenzuola di tela fine, se Dio voleva, com'era nata», diceva la sora Antonietta a tutto il vicinato; e si turava il naso colle dita gialle quando saliva certe scale. Dell'altra figlia non parlava mai: che era portinaia in San Pietro all'Orto, e il marito le faceva provar la fame.


Sandrino aveva la sua ambizione anche lui, e gli era venuta una volta che il padrone l'aveva condotto a vedere il ballo del Dal Verme, in galleria. Volle essere artista, comparsa o tramagnino.


La sora Antonietta chiudeva gli occhi perché Sandrino era il più bel brunetto di Milano, - non lo diceva perché l'avesse fatto lei! - ed anche pei cinquanta centesimi che si buscava ogni sera a quel mestiere. Quando ballava la tarantella del Masaniello, vestito da lazzarone, la contessa del palchetto a sinistra se lo mangiava con gli occhi, dicevano.


A lui non glie ne importava della contessa, perché era fatta come un salame nella carta inargentata; ma ci aveva gusto pei suoi compagni di bottega, che si martellavano d'invidia a batter la suola tutto il giorno, lo canzonavano e lo chiamavano «sor conte» per gelosia.


La domenica, colla giacchetta attillata, e il virginia da sette all'aria, se ne andava girelloni sul corso, più alto un palmo del solito, a veder le contesse.


All'occorrenza parlava di tanti che erano cominciati ballerini, tramagnini al pari di lui, o anche semplici comparse, per arrivare ad essere coreografi, cavalieri, ricchi sfondolati, artisti insomma, tale e quale come il maestro Verdi. - Artisti da piedi! - rispondeva la mamma. - No, no, ci vuol altro! - Ella aveva messo gli occhi addosso alla figlia unica del padrone di casa, carbonaio, una grassona col naso a trombetta, e le mani piene di geloni sino a tutto aprile. - Con quella lì, quando fosse morto il vecchio, c'era da mettere carrozza e cavalli. Perciò teneva l'orfanella come la pupilla degli occhi suoi, le faceva da madre, la lisciava e l'accarezzava. Nelle serate a benefizio della famiglia artistica, quando la Scala rimaneva quasi vuota, si faceva dare gratis dei biglietti di piccionaia, e conduceva al ballo tutta la famiglia, il carbonaio colla camicia di bucato e la ragazza strizzata nello spenserino di seta celeste, per mostrare il suo Sandro, là, quello colle lenticchie d'oro sulle mutande, che faceva girare il lanternone! Un ragazzo di talento! Purché non si fosse indotto a far qualche scioccheria colle contesse che sapeva lei! Il carbonaio spalancava gli occhi al veder le ballerine, e diventava rosso che pareva gli stesse per venire un accidente.


Ma Sandrino non voleva saperne della carbonaia. Egli s'era innamorato di Olga, una ragazza del corpo di ballo, dal musino di gatta con tanto di pèsche sotto gli occhi, che non aveva ancora sedici anni. La mamma di lei, ortolana in via della Vetra, soleva dire alle vicine:

- Non volevo che facesse la ballerina; ma quella ragazza si sentiva il mestiere nel sangue -.


La Olga quando ammazzolava le carote colle mani sudice, chiamavasi Giovanna, e aveva una vesticciuola sbrindellata indosso. Allorché la Carlotta, lì vicino, le regalava un nastro vecchio, e poteva scappar da lei a infarinarsi il viso, borbottava tutta contenta:

- Vedete, se fossi come la Carlotta! Qui mi si rovinano le mani, ogni anno! - E tutta sola, davanti allo specchio della ballerina, tirava su le gonnelle, e studiava i passi e le smorfie, e a dimenare i fianchi.


Alla Scala da principio se ne stava lì grulla, ritta sulle zampe come il pellicano, non sapendo cosa farne. Sandrino prese a proteggerla perché le altre ragazze la tormentavano coi motteggi.


- Non dia retta, sora Giovannina. Son canaglia, che hanno la superbia nel vestito; ma se vedesse che camicie, nello spogliatoio! - Ella, per riconoscenza, gli piantava addosso quegli occhi che facevano girare il capo.


La prima volta che si lasciò rubare un bacio, al buio nel corridoio, gli si attaccò al collo, come una sanguisuga, e giurarono di amarsi sempre. La sora Antonietta inferocita, non voleva sentirne parlare; e sbuffava ogni volta che Sandrino gliela conduceva a casa la domenica. Solo il carbonaio l'accoglieva amorevolmente, e le prendeva il ganascino, colle mani sudice che lasciavano il segno.


Sandro duro come un mulo. Infine sua madre andò a dire il fatto suo a quella di via della Vetra:
- Cosa s'erano messi in testa quei presuntuosi? Volevano far sposare a Sandrino una che mostrava le gambe per cinquanta lire al mese? Meglio di quella glie ne erano passate tante per le mani, che erano cadute per l'ambizione di chiappare il sole e la luna! - Il sole e la luna! - rimbeccò l'ortolana - col bel mestiere che fa la mamma, che ogni momento vi chiamano in questura e dinanzi al giudice! - Sandrino, quella volta, s'era presi degli schiaffi nel mettere pace; e la Olga, causa innocente, per consolarlo alla prova gli saltò in mutandine sulle ginocchia, come una bambina.


- Quando quella ragazza si farà - dicevano le più esperte della scuola - vedrete! - Intanto cominciarono a ronzarle attorno i mosconi delle sedie d'orchestra, e la Nana, a cui Sandrino giurava di voler raddrizzar le gambe storte, portava i bigliettini e i mazzi di fiori. La Olga resisteva. Ma quando il barone delle poltrone le piantava addosso l'occhialetto, la ragazza tendeva il garretto, e lasciava correre in platea delle occhiate nere come il diavolo.


La Carlotta, vedendo che quella pitocca raccolta da lei stessa, alla sua porta, voleva levargli il pane, sputava veleno contro Sandrino che vedeva e taceva.

- No che non taccio! - sclamava Sandrino. - Sentirete quel che farò se me ne accorgo io! -

Una sera stava vestendosi pel ballo, col cappellaccio a piume, e il mantello ricamato d'oro quando vide passare la Nana, con un mazzo di fiori, che infilava arrancando il corridoio delle ballerine.


- Sangue di!... corpo di!... - cominciò a sbraitare; ma pel momento non poté far altro, ché di fuori chiamavano pel ballo.


Olga comparve l'ultima, infarinata come un pesce, sculettolando più che mai, e col garretto teso, quasi avesse preso un terno secco quella sera.


- Olga, - le disse Sandrino sotto la fontana di carta, mentre le ragazze si schieravano scalpicciando e sciorinando le gonnelline.


- Olga, non mi fare la civetta, o guai a te!... - La Olga avrebbe potuto stare nella prima quadriglia, tanto si sbracciava e dimenava i fianchi, che bisognava scorgerla per forza. - O che non l'abbassa mai l'occhialetto quello sfacciato! - borbottava lui, mentre sgambettava con grazia reggendo la ghirlanda di fiori di tela, sotto la quale Olga passava e ripassava luccicante e con tutte le vele al vento. Ella, per togliersi la seccatura, gli rispose che quel signore voleva godersi i denari che spendeva. - E tu ci hai gusto! - insisteva Sandro. - Lo fai apposta! Quando hai a passare sotto la ghirlanda, ti chini come se io fossi nano. - Mi chino come mi piace! - rispose lei alfine. E per giunta il direttore assestò a lui la multa.


Al vederla così caparbia, con quegli occhi indiavolati, che buttava all'aria ogni cosa, egli se la mangiava con gli sguardi come quell'altro, e ballava fuori tempo dalla rabbia. La Olga pareva che lo facesse apposta a girargli intorno senza farsi cogliere. Infine, nel galoppo finale, poté balbettarle ansante sulla nuca:

- Se tu cerchi l'amoroso nelle poltrone, troverò anch'io qualcosa nei palchi.


- Bravo! - rispose lei. - Ingégnati! - Egli si strappava i pizzi e i ricami di dosso, buttandoli sul tavolaccio unto, e sbuffava e giurava che voleva aspettar davvero la contessa. Ma questa gli passò accanto sotto il portico senza vederlo nemmeno, e il cocchiere, impellicciato sino al naso, gli andava quasi addosso coi cavalli, senza dir:
- ehi! - Sandrino tornò mogio mogio in via Filodrammatici, donde le ragazze uscivano in frotta, e la Irma strapazzava per bene il suo banchiere che non l'aveva aspettata come al solito sotto il portico dell'Accademia. Olga veniva l'ultima, lemme lemme, col suo scialletto bianco che metteva freddo a vederlo, e un bel mazzo di rose sotto il naso.


- Vedi come la Irma sa farsi aspettare? - disse a Sandro. - Ed è un signore con cavalli e carrozza! - Sandrino pretendeva invece che gli dicesse chi le aveva date quelle rose. Ma ella non volle dirglielo. Poi gli inventò che gliele aveva regalate la Bionda.


- Vengono da Genova, - osservò. - E costan molto! - In questa li raggiunse una carrozza, all'angolo di via Torino, e il signore delle poltrone si affacciò allo sportello per buttare un bacio alla ragazza. Sandrino gridava e sacramentava che voleva correr dietro al legno. Ma lei lo trattenne per le falde del soprabito un po' malandato, sicché Sandrino si chetò subito.


- Perché hanno dei denari!... Ma Dio Madonna!...


- Se mi accompagni per far di queste scene preferisco andarmene tutta sola, - disse lei.


- Lo so che sei già stufa! Se sei stufa, dimmelo che me ne vado! - Ella non rispondeva, a capo chino, dimenando i fianchi, talché Sandrino si ammansò da lì a poco. Quando era colla Olga non sentiva né il freddo, né la stanchezza, e l'avrebbe accompagnata in capo al mondo.


- Però, - brontolò lei, - qualche volta potresti pigliare un brum, col freddo che fa. Sento la neve dai buchi delle scarpe.


- Vuoi che pigliamo il brum?

- No, adesso è inutile, adesso! - E seguitava a brontolare.


- Del resto, pel gusto che c'è... sono due anni che ho questo scialletto, e pare una tela di ragno! Come se tua madre non fosse venuta sino a casa mia per dire che volevano rubargli il figliuolo! Non siamo mica dei pezzenti, sai!

- Lascia stare, lascia stare - rispondeva lui, ma vedendo che infilava già la chiave nella toppa:
- Così mi lasci, senza darmi un bacio?... - La Olga si volse e glielo diede. Poi entrò nell'andito e chiuse l'uscio.


Il domani, Sandrino si fece anticipare quindici lire dal principale, e comperò un manicotto e una pellegrina di pelle di gatto. Ma la Olga non venne alla prova. Il giorno dopo le appiopparono la multa, ed ella snocciolò le lirette una sull'altra, sorridendo come niente fosse.


- Grandezze! - esclamò Sandrino, masticando veleno. - Ha preso l'ambo, sora Olga! - Giurò che voleva darle due schiaffi se la incontrava col barone, in parola d'onore! E glieli diede davvero, al caffè Merlo dei Giardini Pubblici, una domenica mentre pigliava il sorbetto coi guanti sino al gomito, sotto un cappellone tutto piume. Pinf!

panf! Il barone, pallido come un cencio, voleva compromettersi.


Però la Olga se lo condusse via, gridandogli di non sporcarsi le mani con quello straccione.


- Straccione! - borbottava lui. - Ora che ci hai di meglio son diventato uno straccione! E par tisico in terzo grado il tuo barone! È vero che a questo mondo tutto sta nei denari! - Ed ora faceva l'occhio di triglia alla sora Mariettina, la figlia del padrone di casa, dalla finestra del cortiletto puzzolente. - La sta bene, sora Mariettina? Gran bella giornata oggi! - La mamma sottomano aggiungeva:
- Quel ragazzo è innamorato morto di lei. Ne farà una malattia, ne farà! - E si asciugava gli occhi col grembiule. La sora Marietta si sentiva gonfiare il petto sino al naso. Scendeva nel cortile, a pigliar aria, e si perdevano per la scaletta col giovane. Il babbo, sempre in mezzo al suo carbone non si accorgeva di nulla. Quando la sora Antonietta vide i ferri ben scaldati, annunziò che avrebbe fatto San Michele e se ne sarebbe andata via di quella casa per impedire il male, se era tempo.


Sandrino sospirava, guardando la ragazza; e tutti e due volevano buttarsi nel Naviglio, se avevano a lasciarsi. - Non te l'avevo detto? - esclamava la madre; e tremava che non avesse a succedere qualche guaio grosso. Quello scrupolo non le faceva chiuder occhio nella notte, e se ne confessava col sor prevosto perché ne parlasse al padre della ragazza. Ma il carbonaio, che aveva l'anima nera come la pece, non volle sentir ragione.


- Bugie! Tutta invenzione della levatrice, che non si contenta di fare quel mestiere solo -.


Allora la Mariettina, a provare ch'era vero, scappò via con Sandro. Egli le aveva detto come alla Olga:
- O lei, o nessun'altra! - In tal modo Sandrino ebbe la Mariettina, ma senza dote. E la levatrice dovette adattarvisi pel decoro dell'impiego. Allora il suocero si riconciliò con tutta la brigata, e andava dicendo che il veder quelle due tortorelle gli metteva il pizzicore di fare come loro, benedetti! Già, gli avevano preso la figliuola, e solo non poteva starci.


La sora Antonietta, abbaiando come un cane da caccia, venne a scoprire che il vecchio «impostore» gira e rigira era andato a cascare nella Olga, a Porta Renza, e gli costava un occhio del capo all'avaraccio: appartamento, donna di servizio, e mobili di mogano. Il vecchio adesso voleva sposarla per fare economia, e mettersi in grazia di Dio. La Olga non era più una ragazzina, pensava all'avvenire, e si lasciava sposare.


Sandrino, al sentire che gli portavano in casa quella poco di buono, montò sulle furie, e voleva anche piantar la moglie; tanto, colla figlia unica o senza, gli toccava sempre tirar lo spago, nella bottega del calzolaio. Sua madre più giudiziosa lo calmò dicendogli che era meglio avere la suocera sott'occhio, per poterla sorvegliare. - Il peggio è se gli appioppa qualche figliuolo! - osservava lei che se ne intendeva. - E se il vecchio non c'era cascato sino a quel giorno, non voleva dire; che il sacramento del matrimonio fa dei miracoli peggio di quello.


La Olga, credendo diventar signora, fece il suo malanno col mettersi in grazia di Dio, e gli toccò subirsi il marito, il quale intendeva fare economia dei denari spesi prima, e per giunta la sora Antonietta, tornata in pace, che non la lasciava un momento solo, onde dimostrarle che non aveva fiele in corpo.


- Tutti quei dissapori devono aver fine. - diceva alla Olga ed al Sandro. - Adesso siete quasi come madre e figlio -.


La Olga dalla noia di non veder altri in casa sua, si era riconciliata col Sandrino. Gli pareva di tornare a quei bei tempi, quando non era così grassa; e anche lui si scordava della Marietta che s'era messa sulle spalle proprio per nulla. L'altra negli occhi ci aveva sempre quella guardatura che a lui gli metteva le pulci nel sangue, e quando la baciò per far la pace, gli parve come quando l'accompagnava ogni sera in via della Vetra. - Bei tempi, eh? sora Olga? - Ella raccontava che la Irma s'era fatta sposare dal banchiere, e la Carlotta era andata a cercar fortuna in America.


- Io sola non ho sorte!

- Bada a quel che fai! - predicava la sora Antonietta; - se affibbia un figliuolo al vecchio, dell'eredità vi leccherete i baffi -.


La Marietta, lì presente, approvava del capo.


- Siete matte? - rispondeva Sandro. - La roba di mia moglie! O per chi mi pigliate? - Egli corteggiava la madrigna allo scopo di tenerla d'occhio, né più né meno, come faceva la sora Antonietta. L'accompagnava in via della Vetra, ché la Olga non aveva ombra di superbia, e gli piaceva stare nella bottega come quand'era ragazza. L'ortolana diceva ai due ragazzi:

- Vedete! chi l'avrebbe detto? Eppure ci siete tornati! Ma la sua mamma è pure una gran linguaccia, sor Sandrino! - Lasci stare, lasci stare! - ripeteva lui. E nell'andarsene, la sora Olga gli pigiava il gomito, come a dire:
- Si ricorda? - Era là, in quella stessa stradicciuola scura e tortuosa. Una volta che non passava gente, egli la strinse fra le braccia. D'allora non ebbero più pace; il sangue bolliva nelle vene a tutti e due, e si correvano dietro come due gatti in febbraio. La sora Antonietta predicava:
- Bada a quel che fai! Bada veh! - Lui turbato, coi capelli arruffati e gli occhi fuori del capo, rispondeva sempre:

- No! No! siete matta? Quello no. State tranquilla! - Il vecchio era geloso delle visite alla mamma e della gente che ci aveva sempre fra i piedi. Lagnavasi che gli avevano fatto la chiave falsa, e l'ortolana si pappava i suoi denari; la levatrice s'era tirata anche in casa la figliuola, quella di San Pietro all'Orto, e mangiavano tutti alle sue spalle, diceva. Quei dispiaceri gli accorciarono la vita. La Olga stava chiacchierando con Sandrino allato alla tromba, colla secchia in mano, poiché arrivavano anche a quei pretesti per vedersi, e non sapevano più stare alle mosse. Egli voleva toglierle la secchia dalle mani, tutto tremante. - No! No! - rispondeva lei, a capo chino, col petto ansante, perché era gelosa della Marietta. E Sandro balbettava che la Marietta era un'altra cosa. Lo giurava anche.


Volergli bene sì, ma...


In questo momento alla finestra gridarono che al marito della Olga era venuto un accidente. Sandrino scappò a chiamare la moglie e la suocera. E tutti si piantarono dinanzi al letto, col viso arcigno.


Appena il vecchio poté dar segno di vita, prima che venisse il prete, mandarono pel notaio. Il moribondo nel punto di comparire al giudizio di Dio, biascicò: - La roba a chi tocca -. E se ne andò in santa pace.


Quanto all'Olga la cacciarono fuori a pedate, e Sandrino giurò che voleva tenerle gli occhi addosso anche se si mutava di camicia, per impedirle di portar via la roba della sua Mariettina. Lei, sulle scale, gridava che il vecchio ladro gli aveva rubata la gioventù, e voleva litigare e dir tutte le porcherie di quella casa. Ma Sandrino, trattenendo la moglie per le sottane l'accarezzava e le diceva:
- Non dar retta! Lasciala sgolare! Sai che donnaccia! Non ti guastare il sangue per colei! Ora vogliamo stare allegri -.





Il bell'Armando


Ecco quel che gli toccò passare al Crippa, parrucchiere, detto anche il bell'Armando, Dio ce ne scampi e liberi!

Fu un giovedì grasso, nel bel mezzo della mascherata, che la Mora gli venne incontro sulla piazza, vestita da uomo - già non aveva più nulla da perdere colei! - e gli disse, cogli occhi fuori della testa:

- Dì, Mando. È vero che non vuoi saperne più di me?

- No, no! quante volte te l'ho a dire?

- Pensaci, Mando! Pensa che è impossibile finirla del tutto a questo modo!

- Lasciami in pace. Ora sono ammogliato. Non voglio aver storie con mia moglie, intendi?

- Ah, tua moglie? Essa però lo sapeva quello che siamo stati, prima di sposarti. E oggi, quando t'ho incontrato a braccetto con lei, mi ha riso in faccia, là, in mezzo alla gente. E tu, che l'hai lasciata fare, vuol dire che non ci hai né cuore, né nulla, lì!

- Be', lasciamo andare. Buona sera!

- Dì, Mando? È proprio così?

- No, ti dico! Non voglio più!

- Ah, non vuoi più? No? - E il Crippa, colpito lì dove la Mora diceva che non ci aveva né cuore né nulla, andò annaspando dietro a lei, come un ubriaco, e gridando:
- Chiappatela! chiappatela! - Poi cadde come un masso, davanti alla bottega del farmacista.


Le guardie e la folla a inseguirla, strillando anche loro:
- Piglia! piglia! - Finché un giovane di caffè la fece stramazzare con un colpo di sedia sul capo; e tutti quanti l'accerchiarono, stralunata e grondante di sangue, col seno che gli faceva scoppiare il gilè dall'ansimare, balbettando:

- Lasciatemi! lasciatemi! - Appena la riconobbero, così rabbuffata, a quel po' di luce del lampione, scoppiarono improperi e parolacce:

- È la Mora! quella donnaccia! l'amante del Crippa! - Come se gli avesse parlato il cuore, al disgraziato! Giusto in quei giorni, era stato dal maresciallo a denunziargli la sua amante, che voleva giocargli qualche brutto tiro: - La Mora non vuole lasciarmi tranquillo, ora che ho preso moglie, signor maresciallo -. E il maresciallo aveva risposto:
- Va bene - al solito, senza pensare a ciò che potesse covare dentro di sé una donna come quella. Ora le guardie arrivavano dopo che la frittata era fatta, sbracciandosi a gridare:
- Largo! Largo! - In quel momento si udì un urlo straziante, e si vide correre verso la bottega del farmacista, dove stavano medicando il ferito, una donna colle mani nei capelli. Era l'altra, la moglie vera, che piangeva e si disperava, gridando:
- Giustizia! Giustizia, signori miei! Me l'ha ucciso, quell'infame, vedete! - Il Crippa, abbandonato su di una seggiola, tutto rosso di sangue, col viso bianco e stravolto, la guardava senza vederla, come stesse per lasciarla dopo soli due mesi di matrimonio, poveretta! La folla voleva far giustizia sommaria della Mora, ch'era rimasta accasciata sul marciapiedi, in mezzo agli urli e alle minacce della folla, come una lupa. Arrivarono sino a darle delle pedate nel ventre; tanto che le guardie dovettero sguainare le daghe per menarla in prigione, in mezzo ai fischi, che sembrava una frotta di maschere.


Dopo, al cospetto dei giudici, quando le mostrarono i panni insanguinati della sua vittima, non seppe che cosa rispondere.


- Ouesta donna ch'è stata di tutti, - tonava il pubblico accusatore, coll'indice appuntato verso di lei, come la spada della giustizia; - questa donna che, per ogni trivio, fece infame mercato della propria abbiezione, e della cecità, voglio anche concedere alla difesa, della acquiescenza del suo amante, questa donna, o signori, osò arrogarsi il diritto delle affezioni pure e delle anime più oneste; osò esser gelosa, il giorno in cui il suo complice apriva gli occhi sulla propria vergogna, e si sottraeva al turpe vincolo, per rientrare nel consorzio dei buoni, ritemprandosi colla santità del matrimonio! - Ella udì pronunziare la sua condanna, disfatta, cogli occhi sbarrati e fissi, senza dir verbo. Si alzò traballando, come ubbriaca, e nell'uscire dalla gabbia di ferro, batté il viso contro la grata.


Prima l'aveva fatta cadere il signorino - se ne rammentava ancora come un bel sogno lontano, svanito. - Aveva pianto e supplicato.


Indi, a poco a poco, vinta dal rispetto, dalla lusinga di quella tenerezza prepotente, dalla collera di quel ragazzo abituato a fare il suo volere in casa, s'era abbandonata timorosa e felice.


Era stato un bel sogno, ch'era durato un mese. Egli saliva furtivo nella cameretta di lei, colle scarpe in mano, e si abbracciavano tremanti, al buio. Il giorno in cui il giovanetto dovette far ritorno all'Università, pioveva a dirotto; essa si rammentava pure dello scrosciare malinconico e continuo di quella grondaia.


L'avevano sentito tutta la notte, colle braccia al collo l'una dell'altro, cogli occhi sbarrati nelle tenebre, contando le ore che sfilavano lente sui tetti. Poi lo vide partire coll'ombrello sotto l'ascella e la cappelliera in mano, senza dirle una parola davanti ai suoi. La signora però, coll'istinto della gelosia materna, indovinò le lacrime che doveva soffocare la ragazza in quel momento, e si diede a sorvegliarla. Un giorno, dopo averla mandata fuori con un pretesto, salì nella cameretta di lei, si chiuse dentro, e quando la Lena fu di ritorno colla spesa, trovò la padrona seria e accigliata, che le aggiustò il conto su due piedi, le ordinò di far fagotto, e la mise alla porta con una brutta parola.


La povera Lena, non sapendo che fare, schiacciata sotto la vergogna, prese la diligenza per la città, e andò a trovare il suo amante. Egli non era in casa. L'aspettò sulla porta, seduta sul marciapiede, col fagottino accanto. Dopo la mezzanotte lo vide che rientrava insieme a un'altra. Allora si alzò, colle gambe rotte dal viaggio, e si allontanò rasente al muro zitta zitta. Il giovane non ne seppe mai nulla.


Era sopravvenuto un altro guaio, il suo fallo che era visibile a tutti. Cercò inutilmente di collocarsi. Spese quei pochi quattrini che le avanzavano, e infine, per vivere, fu costretta a prendere alloggio in un albergaccio dove la Questura veniva, di tanto in tanto, a far le sue retate. Lì ebbe a fare la prima volta con quella gente. Padrona e avventori ridevano delle paure sciocche di lei, quando le guardie entravano all'improvviso di notte, e frugavano sotto i letti. Uno di quegli avventori, detto il Bulo, uomo sulla cinquantina, colla faccia dura, il quale arrivava ogni quindici o venti giorni, senza bagaglio, ed era sempre in moto di qua e di là, s'innamorò di lei. Ella disse di no. Allora egli le offerse di sposarla. Lena disse ancor di no, sbigottita da quella faccia, e vergognosa di dover confessare il suo passato. Poscia, quando fu all'ospedale, e che lui soltanto venne a trovarla, colle mani piene d'arance, vinta da una gran debolezza, chinò il capo piangendo, e gli confessò il suo fallo.


Il Bulo protestava che non gliene importava nulla - acqua passata - purché non si ricominciasse da capo - e così si accordarono. Il Bulo non era affatto geloso; la lasciava sola per mesi e settimane, e continuava ad andare sempre in giro pel suo mestiere, che non si sapeva quale fosse. Il Crippa, suo compagno, bazzicava solo in casa, aiutandolo nei negozi ai quali ei solo aveva mano, aspettandolo quando non c'era, avendo sempre qualche cosa da dirgli sottovoce, prima che il Bulo si mettesse in viaggio.


Nel medesimo tempo faceva l'asino alla comare, s'irritava alla resistenza di lei, abituato a fare il gallo della Checca, sempre vestito come un figurino, coi capelli arricciati e lucenti. Le portava dei vasetti di pomata, delle boccette di profumeria. Ella ribatteva che suo marito non se lo meritava. - Era stato tanto buono con lei! - Il Crippa, che certe storie non le capiva, badava a ripetere:
- Or bene, giacché vostro marito ha chiuso gli occhi una prima volta... - Fu un giorno che il marito tardava a venire, e il Crippa la colse nella stanza di sopra, col pretesto di cercare un pacchettino che il compare gli aveva scritto di mandargli. La Lena, china sul cassetto del mobile, cercava insieme a lui, col seno gonfio, quando il bell'Armando tutt'a un tratto l'afferrò pei fianchi e le accoccò un bacio alla nuca.


- No! no! - balbettava essa tutta tremante, bianca come cera; ma il sangue le avvampò all'improvviso in faccia; arrovesciò il capo, cogli occhi chiusi, le labbra convulse, che scoprivano i denti.


Dopo rimase tutta sottosopra, tenendosi la testa fra le mani, quasi fuori di sé.


- Cosa ho fatto, Dio mio! Cosa m'avete fatto fare! - Il Crippa, contento come una Pasqua, cercava di chetarla.


Oramai... suo marito non ne avrebbe saputo mai nulla, parola di galantuomo, se avesse avuto giudizio anche lei.


Il Bulo però lo seppe o lo indovinò, al vedere l'aria smarrita della Lena, che ancora non aveva fatto il callo a certe cose.


Crippa, il bell'Armando, più sfacciato, gli faceva le solite accoglienze da fratello, buttandogli le braccia al collo, dandogli conto dei loro negozi per filo e per segno.


Il Bulo lo guardò colla faccia dura, e gli rispose secco secco:

- Vi ringrazio, compare, di tutto quello che avete fatto per me, e un giorno o l'altro ve lo renderò -.


La Lena sentì gelarsi il sangue a quelle parole. Ma il Crippa, che aveva mangiato la foglia anche lui, le disse all'orecchio, mentre il compare era andato di sopra un momento, a mutarsi i panni:

- Stai tranquilla, che ci penso io! - La notte stessa vennero le guardie ad arrestare il Bulo, e misero sottosopra tutta la casa, rimovendo perfino i mattoni del pavimento per vedere quel che c'era sotto. Il Bulo, mentre lo menavano via ammanettato, le lasciò detto per ultimo addio:

- Salutami il compare, e digli che ci rivedremo al mio ritorno -.


Il giorno dopo arrivò il Crippa, fresco come una rosa. La Lena, che aveva qualche sospetto, non seppe nascondergli la brutta impressione. Però egli si scolpò subito giurando colle braccia in croce. Due giorni dopo arrestarono anche lui, come complice del Bulo, mettendoli a confronto l'uno con l'altro. Ma prove non ce n'erano; il Crippa dimostrò ch'era innocente come Dio, e per ribattere l'accusa spiattellò innanzi ai giudici la storia della comare, un tiro che cercava di giocargli il marito per gelosia. - Pelle per pelle, cara mia!... - disse poi alla Lena. - Da mio compare non me l'aspettavo questo servizio!... Quante ne ho passate, vedi, per causa tua!... - Ormai non c'era più rimedio. Tutto il paese lo sapeva. Perciò ella si mise col Crippa apertamente.


E si rammentava anche di questo - che un giorno, dopo che gli si era data tutta, anima e corpo, dopo che per amor suo aveva sofferto ogni cosa, la fame, gli strapazzi, la vergogna del suo stato, dopo che per lui era arrivata a vendere sin la lana delle materasse, il bell'Armando l'aveva piantata per correre dietro a una stracciona che gli spillava quei pochi soldi strappati a lei.


E quando, pazza di dolore e di gelosia, cercava di trattenerlo, cogli occhi arsi di lagrime, dicendogli:
- Guarda, Mando!...


Guarda che ti rendo la pariglia!... - egli si stringeva nelle spalle, per tutta risposta.


Poi, allorché s'incontrarono di nuovo, era passato tanto tempo!

tanto tempo! e tante vicende! Anch'essa era mutata, tanto mutata!

Ma quell'uomo non se l'era potuto levare mai dal cuore, e adesso, la sciagurata, chinava il capo e si sentiva venir rossa come una volta.


Fu una sera tardi, che ella tornava a casa tutta sola, per combinazione. Egli la chiamò per nome, guardandola negli occhi con un certo fare, con un risolino che la rimescolava tutta. Lei voleva scusarsi balbettando, tentando di giustificarsi umilmente, mentre sentiva che il cuore le balzava verso quell'uomo. Lui le tappò la confessione in bocca con un bel bacio, un bacio che la fece impallidire, e le passò il cuore come un ferro.


Avrebbe preferito una coltellata addirittura. Ma egli non era geloso, no. Ormai!...


Un giorno le capitò dinanzi tutto rabbuffato. Aveva bisogno di denari; ma si fece pregare un bel pezzo prima di confidarglielo.


Lena glieli diede il giorno dopo. D'allora in poi tornò spesso a domandargliene, senza farsi più pregare. E infine quando la poveretta, colla nausea alla gola, come una costretta a mandar giù delle porcherie, si arrischiò a dirgli:
- Ma dove vuoi che li pigli questi denari? - per tutta risposta Mando le voltò le spalle.


- Senti, - esclamò la Lena con un impeto di tenerezza selvaggia, buttandoglisi al collo; - se li vuoi... se li vuoi proprio questi denari... Ma dimmi almeno che mi vorrai bene lo stesso... - Egli si lasciò abbracciare, ancora accigliato, brontolando fra i denti.


Lena glielo diceva spesso:

- Vedi, lo so che tu non mi vuoi bene. Ma non me ne importa; perché te ne voglio tanto io; tutto il male che ho fatto, l'ho fatto per te, intendi? - E il giorno in cui venne a sapere che egli prendeva moglie, l'ultima volta che ebbe ancora il coraggio di comparirle dinanzi col sorrisetto ironico e la giacchetta nuova, gli disse:

- Lo so che la sposi pei quattrini. Ma ora tu devi fare quel che io ho fatto per te -.


Il bell'Armando fingeva di non capire. Allora Lena lo afferrò pei capelli profumati, colle labbra bianche, e gli disse:

- Guarda, Mando! Guardami bene negli occhi! E dimmi s'è possibile finirla così, del tutto, dopo quel che abbiamo fatto tutti e due!

Dimmi se potresti dormire senza rimorsi nel letto di tua moglie...


- Il Crippa campò, per sua fortuna; mise giudizio, ed ebbe figliuoli e sonni tranquilli, in quel buon letto morbido e caldo, mentre la Mora scontava la pena sul tavolaccio dell'ergastolo.




Artisti da strapazzo


Su tutte le cantonate immensi cartelloni a tre colori annunziavano:


CAFFÈ-CONCERTO NAZIONALE QUESTA SERA DEBUTTO DI MADAMIGELLA EDVIGE GRAN SUCCESSO DEL GIORNO SENZA AUMENTO SUL PREZZO DELLE CONSUMAZIONI


I pochi avventori mattutini del «Caffè-Concerto Nazionale», già avvezzi ai grandi successi, non degnavano neppure di un'occhiata il lenzuolo bianco, verde e rosso, sciorinato dietro il banco, sul capo della padrona, la quale stava discutendo con una ragazza alta e magra, che la supplicava a voce bassa, in atteggiamento umile, infagottata nella cappa lisa. In un canto il lavapiatti sbracciato scopava un tavolone che la sera faceva da palco, parato a drappelloni bianchi, verdi e rossi; ornato di corone d'alloro di carta, che pendevano malinconiche.


La padrona scrollava il capo ostinatamente, stringendosi nelle spalle. L'altra insisteva sempre a mani giunte, facendosi rossa, quasi piangendo. Infine, come entrò un forestiero stracco a bere un moka da venti centesimi, col naso sul giornale del giorno innanzi, la ragazza si rassegnò ad intascare i pochi soldi che la padrona le contava ad uno ad uno sul marmo, con un fare d'elemosina.


Alle otto in punto di sera, accesi i lumi del pianoforte, il maestro, un giovanotto allampanato sotto una gran barba e uno zazzerone che se lo mangiavano, dopo un grande inchino alla sala quasi vuota, incominciò timidamente una ouverture di propria fabbrica, mentre il «Caffè-Concerto Nazionale» andavasi popolando a poco a poco. Dopo montò sul tavolone un pezzo d'uomo, vestito tutto di rosso come un gambero cotto, con due enormi sopracciglia alla chinese, per darsi un'aria satanica, e dei cornetti inargentati. Egli si mise ad urlare «la canzone dell'oro» come un ossesso, allargando le gambe sul tavolato, stendendo gli artigli minacciosi verso l'uditorio, con certi occhi terribili e certe boccacce sardoniche che volevano incutere terrore. Al «dio dell'oro» mescolavasi l'acciottolìo dei piattini, lo sbattere dell'usciale e la voce dei tavoleggianti, i quali gridavano:
- Panna e cioccolata! - oppure: - Tazza Vienna! - Mefistofele salutò lo scarso pubblico, che non gli badava, e scese adagio adagio la scaletta col mantelletto ad ali di pipistrello che gli sventolava dietro.


- Stasera avremo il gran debutto, - osservò un avventore che centellava da tre quarti d'ora una chicchera di levante.


- Il successo del giorno! - grugnì il vicino, ch'era sempre lì a quell'ora, colla coppa di Vienna vuota dinanzi, un mucchio di giornali sotto la mano, e la moglie addormentata accanto.


Infatti, dopo il pezzo con variazioni per pianoforte sulla Stella confidente venne il duetto dell'Ernani, e comparve un'altra volta dalla cucina il baritono vestito alla spagnuola, con un medaglione d'ottone che gli ballava sul ventre, e un cappello piumato in testa, facendo largo a madamigella Edvige, tutta di bianco come un fantasma, sotto la polvere d'amido e la veste di raso del rigattiere.


- Che braccia magre! - osservò un dilettante, fiutandole quasi sotto i guanti lunghi e duri di benzina.


Carlo V offrì cavallerescamente la mano ad Elvira per montare sul palco malfermo, e lì, nella gran sala piena di fumo, il duetto incominciò. Ahimé! una vera delusione pel pubblico e pel Caffettiere. Madamigella Edvige aveva una voce stridente che faceva voltare arrabbiati anche i tranquilli lettori di giornali; e la poveretta, pallida come una morta, aveva un bell'annaspare colle mani, e dimenare i fianchi, rizzandosi sulla punta delle scarpette di raso troppo larghe, per acchiappare le note. Una voce, dal fondo della sala gridò:
- Presto! un bicchier d'acqua! - E tutto l'uditorio scoppiò a ridere. Carlo V invece se la cavava magnificamente, avendo le signore dalla sua, pei suoi effetti di polpa, sotto le maglie di colore incerto, e le sue note alte che assordavano perfino i camerieri, e facevano tintinnare le gocciole delle lumiere. La debuttante scese dal palco più morta che viva, incespicando, colle sottane in mano, fra gli spintoni dei tavoleggianti che correvano di qua e di là, portando i vassoi in aria.


Il dilettante di prima osservò pure:

- Che piedi! - Seduta in un cantuccio della cucina, fra i lazzi degli sguatteri, e il fumo delle casseruole, la debuttante aspettava scorata la sua sentenza, ed anche la cena, ch'era compresa nell'onorario, alla tavola comune, insieme al cuoco, il baritono, i camerieri ed il maestro, ancora in cravatta bianca. Quest'ultimo, un gran buon diavolo, malgrado la sua barbona, cercava di confortarla come poteva:
- La sala era tanto sorda! Chissà, una seconda volta, quando fosse stata più sicura dei suoi mezzi... - La poveretta rispondeva di tanto in tanto con un'occhiata umile e riconoscente a quelle buone parole. Il baritono intanto, con un pastrano peloso gettato sul giustacuore di Carlo V, e un tovagliuolo al collo, divorava in silenzio. - Artisti bisogna nascere! - osservò infine a bocca piena.


La padrona, chiuso il libro e spenti i lumi del Caffè, era scesa in cucina a dare un'occhiata. Alla povera ragazza, che aspettava col viso ansioso, disse bruscamente:

- Cara mia, me ne dispiace, ma non ne facciamo nulla. Avete visto che fiasco? - L'altra rimaneva a capo chino, coi fiori di carta nei capelli, e le spalle infarinate. - Mangiate, mangiate pure! - ripigliava la padrona, una buona donna. - Che diamine! Non voglio che la gente vada via a pancia vuota da casa mia -. Il maestro, che pensava al poi, le spingeva il piatto sotto il naso. Ma la poveretta non aveva più fame; si sentiva la gola come stretta dai singhiozzi; andava riponendo adagio adagio nella borsetta i guanti lavati, i fiori di carta, e le scarpette di raso; senza però potersi risolvere ad andarsene. Due ragazzacci, che parlavano forse di tutt'altro, si misero a sghignazzare. Allora essa salutò umilmente tutti, e s'avviò.


Sulla porta un cameriere in giubba stava spengendo i lumi, e staccava il cartellone del Concerto, canticchiando:
- Gran successo del giorno! - Per la via buia e deserta da stringere il cuore, correvano le prime raffiche d'autunno. Il maestro, mosso a compassione, le era corso dietro.


- Vuol essere accompagnata a casa?... Senza complimenti.


- No, grazie, sto lontano assai.


- Diamine! diamine! Anch'io sono aspettato a casa... Ma non posso lasciarla andare sola come un cane... Vuol dire che affretteremo il passo.


- Davvero... Non vorrei abusare.


- No, no, spicciamoci piuttosto! Anche per me è tardi... Ci ha qualcuno che l'aspetti?

- Nossignore, nessuno.


- Almeno ci avrà qualche conoscente qui?

- Neppure, signore; sono arrivata la settimana scorsa, con una lettera pel Caffè Nazionale: una corista, mia compagna che vi era stata questa primavera, mi disse che ci avrei trovato qualche cosa, non molto, è vero, ma nella stagione morta, sa bene...


Laggiù, alla piazza, erano rimaste cinquanta persone sulla strada, dopo la fuga dell'impresario. Dicono che anche lui, poveraccio, ci abbia perso tutto il suo... - Il maestro pensava intanto a quei giorni terribili in cui una notizia simile era arrivata come un fulmine al Caffè, sulla faccia stravolta di un artista, e s'erano trovati tutti, raccolti dallo stesso terrore, davanti alla porta chiusa del teatro. Poi erano corsi in folla all'agenzia, come pazzi, in paese straniero, in mezzo a gente di cui non conoscevano la lingua, e che si fermava sorridendo al passaggio di quella turba affamata. E le lunghe ore dei giorni interminabili, passate al Caffè, il solo rifugio, con una tazza di birra dinanzi, le notti terribili d'inverno, le camicie portate tre settimane, il mozzicone di sigaro raccattato di nascosto. Sentiva perciò una grande simpatia per quell'altra derelitta, e le andava dicendo:

- Coraggio! coraggio! Bisogna farsi animo! L'aiuterò anch'io, come posso... È vero che non posso far molto... Son forestiero come lei... E non sono stato sempre fortunato... Ma vedrà che il buon tempo giungerà anche per lei... Diavolo! diavolo! Dov'è andata a scovarlo quest'albergo, così lontano?

- Me lo indicarono laggiù... perché spendessi meno... Mi rincresce per lei!...


- No, no... È che m'aspettano a casa... Sanno l'ora, press'a poco... Mi toccherà inventare qualche storiella... Ma lei non pensi a questo... Deve aver altro in testa, lei, poveretta! Ci dorma su, si faccia animo, che quanto potrò lo farò ben volentieri per lei.


- Oh, signore!... Com'è buono!...


- Niente, niente, una mano lava l'altra. Se non ci aiutiumo fra di noi! Il male è che non posso far molto!...


Infine ella disse:

- È qui -. Picchiò all'uscio di un albergaccio d'infima classe, e gli strinse la mano colle lagrime agli occhi. Aveva la faccia tanto buona, colla barba lunga, e il misero paletò che il vento gli incollava addosso come fosse di lustrino. Dalla finestra una vociaccia assonnata rispose brontolando:

- Vengo! vengo! Bell'ora di tornare a casa! - Anche lui, in quel momento, la guardò negli occhi, le strinse forte la mano due o tre volte, mosse le labbra, per dire qualche cosa, infine proruppe:
- Me ne vado, sono aspettato. Buona notte!

Buona notte! - E partì correndo.


La stanzuccia, che pigliava lume da un finestruolo sulla scala, costava cinquantacinque centesimi al giorno, tre soldi di pane e latte la mattina, trentacinque centesimi il desinare. La sera poi doveva spendere altri sei soldi per andare al Caffè Nazionale, dove era quasi certa di vedere il maestro, la sola persona che conoscesse nella città. Negli intermezzi, quando poteva, egli andava a salutarla; da lontano, prima di parlare, gli si vedeva in viso la stessa notizia scoraggiante:
- Nulla ancora! - Poi, al vederla così triste e rassegnata, colla chicchera di Caffè vuota sul tavolino, voleva pagar lui. Ma essa non permetteva, arrossendo fino ai capelli. - No, signore, un'altra volta! - Egli non osava insistere, ma avrebbe voluto che lei lo considerasse come un vero amico, come un fratello. Le confidava i suoi piccoli guai, anche lui, per incoraggiarla. Le narrò a poco a poco tutta la sua vita, proprio come a una sorella, oggi una cosa, domani l'altra: il fallimento dello zio che s'era preso cura di lui orfano, la vocazione strozzata dal bisogno, il pane trovato con mille stenti qua e là, tutta la sua giovinezza scolorita, scoraggiata, senza gioie, senza fede, senza amore. Essa allora sorrideva, scotendo il capo con una grazia giovanile che la faceva tornar bella. - No, no! Ve lo giuro! Mai! - Allora chinavano il viso, malinconici. Una volta i loro occhi s'incontrarono, e si fecero rossi tutti e due.


Ma spesso egli giungeva accompagnato da un donnone coi baffi come un uomo d'arme, la quale aveva il colorito acceso, con un gran cappellone di felpa ornato di piume rosse, ed era serrata in una veste di seta grigia che pareva dovesse scoppiare a ogni momento.


Quelle volte il maestro non osava muoversi neppure; il donnone, dal suo posto, non lo perdeva di vista un momento, sotto le piume rosse del cappellone. - È la mia padrona di casa, una buona donna, - le aveva detto lui. - Ma quando ci vede insieme faccia finta di niente, per carità! - Fu come una fitta al cuore. Il baritono che l'incontrò per la strada, tutta sottosopra, le propose di accompagnarla. - Permettereste voi, mia bella damigella, d'offrirvi il braccio mio, per far la strada insieme? - Ella ricusava. Andava molto lontano... Non voleva abusare... - Ma che! ma che! Bagattelle!

D'altronde son ben coperto. Con questa pelliccia qui, potrei andare sino al Polo! Senta! senta! Un regalo dei miei amici di Odessa. Tutta volpe di Siberia; una bestia che vende cara la sua pelle a quello che dicono!... Eh! eh! Comincia presto l'inverno quest'anno! Non c'è male, n'è vero?... Buona notte, maestro! - Questi passava rattrappito nel suo paletò, dando il braccio alla sua compagna, di cui la veste grigia luccicava come un'armatura sotto il lampione. - È la fiamma del maestro, - aggiunse il baritono. - Una pira, come vede! Però un buon diavolaccio anche lui! Un po' timido, un po' bagnato, come diciam noi, ma il mestiere lo conosce, ve lo dico io! Quando vi siete mangiate quelle note della cabaletta, la sera del vostro debutto, vi rammentate? do, sol, do, nessuno se n'è accorto. Peccato che non riempiano lo stomaco le note che si mangiano, eh! eh! eh! Capisco, capisco, l'emozione, la paura... Ma bisogna aver la faccia tosta, mia cara; e sputar fuori le vostre note pensando che quanti stanno ad ascoltarvi sono tutti una manica di cretini, se no non si fa nulla! Però vorrei sapere chi è quel boia che vi ha messo in questo mestiere, senza voce come siete!

- La voce ce l'avevo. Fui ammalata tanto tempo e d'allora in poi, in principio dell'inverno ci ho sempre come una spina qui...


- Ah! ah! Peccato! Alle volte, vedete, succedono di queste cose che si farebbe scendere gli dei del cielo!... - In fondo, del cuore ce ne aveva anche lui, sotto la pelliccia, e sapendo che era a spasso cercava di consolarla come poteva.


- Bisogna farsi animo, mia cara amica. Cent'anni di malinconia non ci danno una sola giornata buona. E poi son cose che abbiamo passate tutti quanti. La va così, per noi altri artisti. Oggi fame, domani fama! Non parlo per me, ché non posso lagnarmi, grazie a Dio! M'hanno sempre voluto bene da per tutto! Guardate questo anello di brillanti! E queste catenelle d'oro, oro di ventiquattro carati, garantito! Ma ogni santo ha la sua festa.


Vedrete che verrà la vostra festa, anche per voi! - Chiacchierava, chiacchierava, con una certa bonomia che gli veniva in quel momento dallo stomaco pieno, dalla pelliccia calda, dal bicchierino di cognac, e anche dalla vicinanza di quella giovane simpatica, che sentiva tremare di freddo sotto il suo braccio, nella via deserta. - Vedrete che verrà la vostra festa. Bisogna tentare un'altra volta; in un'altra piazza, ben inteso! Peccato che non abbiate voce! Avete provato se vi vanno le canzonette allegre? Per quelle si fa anche a meno della voce. Ma occorrono altri requisiti: del tupé, l'occhio ardito, i fianchi sciolti... e un po' più di polpa, che diavolo! È vero che questa può venire...


siete giovane!... - Così dicendo l'esaminava dalla testa ai piedi, ogni volta che passavano sotto un lampione, col fare allegro e senza cerimonie di buon camerata. - E non bisogna fare tante smorfie, cara mia. Colle smorfie non si mangia. E non aver neppure dei grilli in capo. Io, come mi vedete, ho fatto i primi teatri del mondo; potete dimandare a chi volete di Arturo Gennaroni; eppure quando vennero ad offrirmi la scrittura pel Concerto del Caffè Nazionale non mi feci tirar le orecchi. Si piglia quel che capita. Oggi qui, domani là. Come? ci siamo di già? Avrei fatto altri due passi, per avere il piacere di stare con voi ancora. Il tempo passa presto. Che bella serata, in così buona compagnia eh? Un freddo secco che fa bene allo stomaco. È quello il vostro albergo? Hum! hum! Quasi quasi v'offrivo ospitalità in casa mia! - E com'essa si stringeva all'uscio:
- Eh, non abbiate paura! Che non voglio mica mangiarvi per forza. Non volete? Buona notte! - Il maestro le aveva procurato due o tre indirizzi d'agenti teatrali ai quali l'aveva raccomandata. La presentò ad un impresario che montava un'operetta. Tutti rispondevano:
- Pel momento non c'è nulla -. L'impresario soggiunge:
- Bisogna vedere se vi è rimasta qualche altra cosa di bello, figliuola mia, perché la voce se n'è andata. Be', be', se avete di questi scrupoli non ne parliamo più! - Ella tornava indietro così avvilita che il maestro si fece animo per dirle:
- Sentite... È un pezzo che volevo dirvelo... Se avete bisogno di denaro... forestiera come siete... senza amici... senza aver altri conoscenti... Non son ricco, è vero... Ma quel poco che ho. No! no! non vi offendete. In imprestito, vedete! Come tra fratello e sorella!... - Ella scoppiò a piangere.


- Dio mio! Vi ho forse offesa? Non intendevo offendervi, vi giuro.


Se mi volete un po' di bene anche voi!... Io ve ne voglio tanto!... Basta, basta, perdonatemi! Sia per non detto! Ma promettetemi almeno che se mai... il giorno in cui... Pensate che vi voglio bene... come un fratello... E vorrei che anche voi... - Ella gli stringeva le mani, colle lagrime agli occhi, per dirgli di sì... che anche lei... che gli prometteva...


Ma piuttosto sarebbe morta. Da tutti, da tutti, prima che da lui!

Glien'era riconoscente, sì! Avrebbe voluto anzi dirgli tante cose, per provarglielo, che non ci aveva più nessun altro in cuore...


che quell'altro a poco a poco se n'era andato via, com'era andato lontano; e domandargli della donna che spesso veniva con lui al Caffè, e le dava una stretta al cuore... Delle sciocchezze, via!

ma non sapeva da che parte incominciare. Egli sembrava sulle spine, ogni volta che erano insieme, guardava intorno, con aria inquieta; evitando d'incontrarla, nelle vie frequentate, scappando subito con un pretesto se c'era gente.


Uno dopo l'altro aveva prima impegnato i pochi oggetti che avessero qualche valore: gli orecchini, il braccialetto d'argento dorato, la poca roba d'estate, fino il baule dove la teneva. Tanto non poteva più andarsene. Poscia vendette le polizze dei pegni.


Alla posta, l'ultima speranza degli sventurati in paese straniero, le rispondevano invariabilmente, due volte al giorno:

- Nulla! - Una sera che ne usciva barcollante, incontrò il baritono, Arturo Gennaroni, sempre impellicciato, che le fece un gran saluto cerimonioso, levando in alto il cappello come se volesse dire evviva! Giusto voleva presentarle l'amico che era con lui - Temistocle Marangoni, il primo basso del mondo! - un uomo di mezza età, tutto capelli e barba, con un cappellone a cono, drappeggiato in un mantello grigio, e che sembrava che parlasse di sottoterra.


- E dove corre, signora Edvige? Voleva sfuggirmi? Non è mica in collera con me, spero! - Ella si scusava di non aver udito perché credeva che non dicesse a lei:
- Io mi chiamo Assunta. Ma sul cartellone la padrona del Caffè pretendeva che quel nome non facesse...


- È vero, è vero. Anche il mio è un nome di guerra, per riguardi di famiglia, sa bene. Mio padre è il primo negoziante di Napoli.


Laggiù hanno ancora dei pregiudizi... Sa bene... Veniamo con lei, se non le dispiace -.


Strada facendo aggiunse che era libero quella sera, perché la padrona del Caffè Nazionale l'aveva licenziato - una cabala che gli avevano inventato contro per gelosia di donne. Temistocle, lì, poteva dirlo. - Il basso agitava il barbone per attestarlo. Anche a lui avevano rubato la scrittura, quell'animale di Gigi Lotti, una scrittura di seimila franchi, viaggio intero pagato, col pretesto che la conferma al telegramma non era venuta. Ma gli voleva rompere il muso, la prima volta che l'incontrava alla birreria! Gennaroni, intanto che il suo amico si sfogava, chiedeva ad Assunta cosa avrebbe fatto della sua serata. - Si voleva andare al Concerto del Caffè Nazionale? Sentirebbero che porcherie! Lui se le sarebbe godute mezzo mondo, e si sarebbe fregate le mani magari se quella carogna della padrona fosse venuta ginocchioni a supplicarlo e ad offrirgli doppia paga. - Andiamo, andiamo. Pago io, Temistocle! Dei soldi, grazie a Dio, ce n'è sempre qui.


Veniteci anche voi, bella Assuntina. Chissà che non troverete il fatto vostro? - Sul tavolato, in mezzo al gran fumo della sala, una donna cogli occhi neri come avesse il colèra, e i pomelli color cinabro, nuda fino allo stomaco, strillava con voce rauca delle canzonette che facevano andare in visibilio l'uditorio, schioccando le dita, e con una mossa dei fianchi che faceva svolazzare la sua gonnella corta sino ai legaccioli. Un vecchiotto, seduto in prima fila, col mento sul pomo dell'ombrello, si crogiolava dal piacere, ammiccando ai vicini, ridendo nella bazza, applaudendo anche col cranio calvo sino alle orecchie. Una modesta famigliuola, padre, madre e figliuoli in abbondanza, era venuta a solennizzare la festa al Caffè, ridendo saporitamente; solo la maggiore, una ragazzina magra e nera come un tizzone, dimenticava persino il sorbetto per ascoltare la cantatrice, sgranando degli occhi enormi, seria seria. Altri, nella sala, vociavano, picchiavano colle mazze ed i pugni sui tavolini, facevano un chiasso indiavolato, accompagnando il ritornello, interrompendolo con esclamazioni da trivio. Gennaroni ripeteva:
- Ditemi poi se questa è arte! Ditemi se non è vera porcheria! - Tutt'a un tratto si vide la gente affollarsi davanti al palco, intorno a un omettino in tuba il quale gesticolava colle mani in aria. La donna invece si ostinava, col viso sfacciato, cercando cogli occhi nella folla i suoi protettori. Un tale, vestito da operaio, coi baffi grossi e la faccia dura, si arrampicò sul tavolato in mezzo ai fischi che assordavano, e prese la cantante per le spalle, spingendola verso due questurini in uniforme che s'erano fatti largo a furia di spintoni, e agitavano le braccia. Il gruppo scomparve nella folla, verso la cucina, fra un uragano di fischi, d'urli e di risate. Il baritono si dimenava come un ossesso, smanacciando, gridando:
- Bravo! bis! - poi corse a stringere la mano al maestro, ancora sbalordito dinanzi al pianoforte.


- Che cagnara, eh! Ma la colpa non è tua, poveretto! Ci ho gusto per quella carogna della padrona, la quale pretendeva di averne le tasche piene di musica seria, lei e il suo pubblico. Come se non glielo avessimo fatto noi questo pubblico. E non le avessi fatto guadagnare più quattrini che non abbia capelli nella parrucca, quella strega! - Intanto si sbracciava per farsi scorgere, gesticolando, gridando forte, calcandosi ogni momento la tuba sull'orecchio, posando di tre quarti, col bavero della pelliccia rialzato sino alle orecchie, malgrado il gran caldo, e un fazzoletto di seta al collo, come avesse avuto un tesoro da custodirvi.


- Dovresti farle intendere ragione, a quella stupida. Dovresti metterti in mezzo. S'è quistione di soldi, si può aggiustarsi. Non ho mai fatto questione di quattrini per l'arte. Ma bisogna concludere subito. Sì o no! Ho delle offerte magnifiche per l'estero. Domattina devo dare una risposta -.


Poi tornò al suo posto trionfante, facendosi largo nella folla. - Ah! ah! ve lo dicevo io! Ora tornano a pregarmi! Mi hanno offerto carta bianca. Hanno bisogno di me per fare andare la baracca! - Il basso gongolava, come se si fosse trattato di lui, picchiava sul tavolino per ordinare altra birra. - Ogni conoscente che entrava nel Caffè lo invitava a prendere qualche cosa, facendo segno coll'ombrello, chiamando ad alta voce. - Tienti sulla tua, sai, Gennaroni! Fatti tirar le orecchie, prima di dir di sì! - L'altro scrollava il capo, minaccioso, come a dire:
- Vedrete!

vedrete! - Poi si alzava in piedi e faceva le presentazioni in regola:
- Romolo Silvani, primo ballerino. - Augusto Baracconi, primo tenore assoluto, e suo fratello. - Ernesto Lupi, distinto pittore. - Fiasco completo, amici miei! Peccato che siate venuti tardi! - Essi, per cortesia, tornavano a pregarlo che narrasse. Ma Baracconi fratello stava col naso nel bicchiere, tutto intento a godersi il trattamento; Lupi disegnava delle caricature sul marmo del tavolino; il tenore diceva roba da chiodi di un collega sottovoce con Marangoni, e Silvani, dall'altro lato, domandava se quella bella giovane appartenesse all'amico Gennaroni, lisciandosi i baffettini neri come la pece, accarezzando la chioma inanellata, componendo la faccetta incartapecorita a un risolino seduttore.


Tutti quanti però, a ogni pezzo nuovo, quando Gennaroni atteggiava il viso a una boccaccia di disgusto, facevano coro per sdebitarsi coll'amico, battendo in terra coi tacchi e coi bastoni, vociando - basta! basta! - mettendosi a sghignazzare. Il baritono infine, vedendo che il maestro non osava prendere le sue parti, quasi fosse inchiodato al pianoforte, andò a salutare la padrona del caffè, colla scappellata alta, tutto gentilezze, mentre essa cambiava i gettoni e teneva d'occhio i garzoni che uscivano dalla cucina. In quella entrò il donnone del maestro, più accesa in viso che mai. Aveva udito il baccano dalla strada, mentre veniva a prendere Bebè.


- No, no, lui non ci ha colpa, - le dicevano gli amici.


Gennaroni, che tornava dal banco fuori di sé, aggiunse ch'era proprio un bebè, un pulcino bagnato, uno che non era capace di dir due parole per un amico. Le domandava ridendo se le capitava di dargli le sculacciate, qualche volta.


L'altra continuava a ridere, scrollando le piume del cappello. - No, no, era così buono il poveretto! proprio come un fanciullo! A lasciarlo fare se lo sarebbero mangiato vivo, certe sgualdrinelle che sapeva lei! - Infine se lo prese sotto il braccio, e se lo portò via. Gli altri se n'erano andati pure ad uno ad uno. Il basso protestò che correva a vedere se era giunto il telegramma, e piantò lì il bicchierone vuoto su di una pila di piattelli.


Assunta rimaneva sbalordita, colla tazza a metà piena, il cappellino di paglia e la eterna cappa grigia che la facevano sembrare più misera. Nell'uscire barcollava perché non aveva preso altro tutto il giorno, quasi il chiasso le avesse dato alla testa.


- Che avete? - chiese Gennaroni. - Eh, la birra! Non ci sarete avvezza! - Essa invece pensava a quella disgraziata che l'avevano mandata via coi questurini. - Non temete, no; che il pane non gli manca a quella lì... e il letto neppure! - conchiuse il baritono.


Tirava vento, e cominciavano a cadere i primi goccioloni della pioggia. - Sentite, cara Assunta. Adesso dovreste fare una bella cosa: venirvene a casa mia a scacciare insieme la malinconia!

Avete visto come fanno gli altri? Ciascuno colla sua ciascuna! Ci avete il vostro ciascuno voi? - Ella non rispondeva, colla testa sconvolta, il cuore stretto da un'angoscia vaga, un senso di sconcerto nello stomaco, davanti agli occhi una visione confusa dell'albergatrice arcigna che voleva esser pagata, dell'impiegato postale che le rispondeva - nulla! -, dei visi sconosciuti in mezzo ai quali andava e veniva tutto il giorno, della donna enorme che si era portato il maestro sotto il braccio - intirizzita dalla tramontana, coi ginocchi che le si piegavano sotto. L'altro seguitava a stordirla chiacchierando, soffiandole sul viso le sue parole calde e il fumo del sigaro, stringendole forte il braccio sotto la pelliccia. Allo svoltare di un'altra via essa alzava gli occhi, e si guardava intorno, balbettando:
- Dove andiamo? Dove andiamo? - come fuori di sé. Gennaroni le diceva adesso delle parole dolci e sonore che la stordivano:
- vieni meco! Sol di rose, intrecciar ti vo' la vita... - colla chiave che s'era levata di tasca aveva aperto un usciolino sgangherato. Nell'androne buio, prima d'accendere un fiammifero, se la strinse sul costato come nel melodramma, di tre quarti, un braccio sulla spalla e l'altro sotto l'ascella.


Là nel lettuccio magro e cencioso della cameraccia nuda che prendeva lume da un cortiletto puzzolente, ella gli narrò il povero romanzo della sua vita, per quel bisogno d'abbandono con cui gli si era data, mentre egli sbadigliava, cogli occhi gonfi, e l'alba insudiciava le pareti untuose, da cui pendevano appesi ai chiodi i costumi stinti da teatro. - Aveva amato un giovane che usciva dal Conservatorio, con due o tre spartiti pronti, e intanto s'era messo a dozzina in casa loro, per sessanta lire al mese, tutto compreso. Gli altri pigionali erano un professore, un impiegato al dazio, e due studenti. Sua sorella lavorava in un magazzino di guanti; il babbo era guardia municipale; lei gli avevano consigliato d'imparare il canto, che sarebbe stata una fortuna per tutti, e le avevano fatto lasciare anche il mestiere d'orlatrice, col quale si sciupava le mani, per novanta centesimi al giorno. Finché giungevano le vacanze, nove mesi dell'anno, si stava piuttosto bene. Poi quando gli studenti se ne partivano, il professore andava a fare i bagni, e l'impiegato desinava in un'osteria fuori porta per risparmiare i soldi dell'omnibus, si restringevano un po' nelle spese, e il giovane del Conservatorio s'adattava con loro, proprio come uno della famiglia.


Le domeniche andavano a spasso insieme; qualche volta egli portava un bel cocomero, e si faceva festa, nel terrazzino. Soleva dire scherzando:
- Ce ne ricorderemo poi, quando saremo ricchi, sora Assunta! - Era così buono! aveva negli occhi un non so che, come vedesse lontano tante cose, e diceva che l'arte gli spingeva delle nuvole d'oro sconfinate nel pezzettino di cielo che si vedeva al di sopra del vicoletto, allungando il collo. La sera si metteva a sonare al buio, pratico com'era della tastiera, ed essa stava ad ascoltare più che poteva, dietro l'uscio, quella bella musica che le penetrava al cuore come una dolcezza.


Egli che se n'era accorto infine, le diceva di tanto in tanto:
- Le piace? dice davvero? - Voleva pure che Assunta gli cantasse la sua musica. Un giorno che la sua voce gli era piaciuta tanto, tanto che a lei stessa le sembrava fosse un'altra che cantasse, egli si alzò all'improvviso dal pianoforte, e la strinse fra le braccia, tutta tremante anche lei, senza sapere quel che si facessero.


La mamma, povera e santa donna, non ne seppe nulla. Allorché fu impossibile nascondere quello che era avvenuto, il giovane scappò al suo paese, per paura del babbo municipale. Ella ne fece una malattia mortale, durante la quale la mamma sola veniva a trovarla di nascosto. Un giorno le disse piangendo che lui se n'era andato via lontano, in Grecia, in Turchia, molto lontano insomma! Era svanita l'ultima speranza. All'ospedale, appena fu guarita, non vollero lasciarla. Il babbo aveva giurato che non l'avrebbe più ricevuta in casa sua. Un avventore della guantaia dove lavorava sua sorella le aveva procurato una scrittura di corista al Politeama. D'allora aveva girato il mondo, da un teatro all'altro, viaggiando in terza classe, dormendo in alberghi dove la notte venivano a bussarle all'uscio e a minacciarla, digiunando spesso per mantenersi onesta, passando lunghe ore nell'anticamera di un'agenzia, assediando il camerino dell'impresa per essere pagata, impegnando la roba d'estate per coprirsi l'inverno. A Mantova s'era ammalata d'angina, mentre provavano il 'Ruy Blas', e aveva perso la voce. La mamma era morta giusto mentre era all'ospedale. Il babbo s'era rimaritato. La sorella era andata via di casa per non stare colla matrigna.


- Un bel porco, quel tuo allievo del Conservatorio! te lo dico io!- conchiuse Gennaroni, stirandosi le braccia.


Ora pur troppo gli era cascata addosso quella tegola sul capo! per un momento di debolezza, per aver troppo cuore, e non trovare il verso di dirle:
- Cara mia, ogni bel giuoco vuol durar poco! - Ella non se ne dava per intesa, aveva fatto lì il nido come una rondine. Una che non era neanche buona a stirargli i solini, o a fargli uno stufatino con patate. Giusto in quel momento poi che si trovava a spasso, e i soldi volavano come avessero le ali! Vero che la poveretta non si lagnava mai, fossero carezze o schiaffi, mangiava poco, e non chiedeva neppure un paio di scarpe. Ma, tanto, era un altro peso. Agli amici, che le facevano l'occhietto, Gennaroni, fra burbero e scherzoso, soleva dire:
- Da cedere con ribasso, per liquidazione! - Avevano preso a frequentare un caffeuzzo oscuro annesso al teatro, una specie di succursale dell'agenzia, dove bazzicavano soltanto gli artisti a spasso, che vi facevano un gran consumo di virginia ai ferri e d'acqua fresca, sparlando dei colleghi assenti, portandovi le prime notizie dei fiaschi, sempre a caccia di cinque lire, e giocando alle carte sulla parola. Gennaroni vi conduceva la sua amante di prima sera, per risparmiare il lume; la faceva sedere nel suo cantuccio, lì vicino alla stufa, dove nessuno andava a disturbarla, giacché il garzone del caffè era avvezzo a non seccar la gente se prima non lo chiamavano, e si meneva a giocare a scopone, oppure se ne andava pei suoi affari. Spesso le diceva:
- Sai, mia cara, io non sono geloso! - Ma il primo ballerino si limitava a strizzarle l'occhio da lontano, col gomito appoggiato al banco, e il busto inarcato sotto la giacchetta bisunta. Marangoni, all'ombra del suo enorme cappellaccio, facendole il solletico colla barbona nel parlarle all'orecchio, le chiedeva, colla sua bella voce che sembrava venire di sotto il tavolino:
- Quando verrà il mio quarto d'ora? - E Lupi diceva che voleva farle il ritratto, «se era tutt'oro quello che riluceva». - Oro di coppella, com'è vero iddio! - sghignazzava Gennaroni. Il tenore invece non parlava d'altro che di scritture e di telegrammi che aspettava; di cabale che gli montavano contro tutti i giorni; di gente a cui voleva rompere il muso. Dell'amore, lui, non sapeva che farne: era buono da mettere in musica soltanto; più d'una volta cogli amici aveva detto chiaro e tondo quel che pensava di Gennaroni, lui stupido che si era appiccicato quel cerotto, una che tossiva sempre, come se gli fossero mancate altre donne, a quel macaco!

Una sera capitò anche il maestro, il quale aveva fatto san Michele lui pure, ora che al Caffè Nazionale c'era un giocatore di bussolotti. Gennaroni si fregava le mani sbraitando:
- Vedrete che chiuderanno fra due mesi! Ve lo dico io! - Assunta si sentì come un tuffo nel sangue appena vide entrare il maestro, e avrebbe desiderato che egli non si accorgesse di lei, nel suo cantuccio presso la stufa. Il poveraccio era così disfatto e scombussolato che non sapeva nemmeno come rispondere a tutti coloro che gli facevano ressa intorno. Poi, come la scorse, cogli occhi addosso a lui, andò a salutarla, domandandole come stava, se aveva trovato qualche cosa, nel tempo che non s'erano più visti. Pur troppo, anche lui non aveva trovato nulla!... se no glielo avrebbe fatto subito sapere!... Dopo che il maestro ebbe voltate le spalle, incominciarono le osservazione sul conto di lui. - Quello lì se ne rideva! - Era ben appoggiato! - Appoggiato a un vero pilastro! - Baracconi disse una parolaccia.


Verso la fine di dicembre gli avventori del Caffè del teatro sembravano ammattiti, formando dei crocchi animati, disputandosi fra di loro, cavando ogni momento dal portafogli lettere e telegrammi sudici, correndo sull'uscio, ogni volta che s'apriva, per vedere se giungeva un fattorino del telegrafo. Il domani di san Stefano erano tutti lì dalle sette, davanti la porta del Caffè, sotto la pioggia, coll'ombrello aperto, ansiosi, guardandosi in cagnesco fra di loro - delle facce nuove che si vedevano soltanto nelle grandi occasioni, pastrani senza pelo e stivaloni infangati, scialli messi a guisa di pled, cappelloni di donna e sottane che sgocciolavano sul marciapiedi.


Alcuni dei vecchi mancavano: il tenore, un basso, rimorchiatovi da poco dal Silvani, e due o tre altri, di cui i rimasti dicevano corna. Attraverso l'usciale si udiva come un brontolìo sordo di rivoluzione nello stanzone vuoto, dove il Lupi beveva a piccoli sorsi un Caffè caldo, schizzando la testata di un giornale davanti al garzone in maniche di camicia che gli si buttava addosso per vedere, col ventre sul tavolino.


Assunta, rimasta a casa, stava facendo cuocere due uova in una caffettiera posata sullo scaldino, quando udì picchiare all'uscio, e le comparve dinanzi il maestro all'improvviso - così in camiciuola com'era e ancor spettinata. Egli pure era sossopra, talché non si avvide nemmeno dell'imbarazzo di lei.


- Lei!... Lei qui! Come ha saputo?... - Gennaroni stesso. Siamo stati insieme -. Ella avvampò in viso, cercando macchinalmente i bottoni della camiciuola. - Venivo a portarle una buona notizia...


Un mio amico che è incaricato di formare una compagnia pel Cairo... m'ha promesso di scritturarla.


- Ma... Non saprei... così lontano...


- No, no, bisogna risolversi piuttosto... Bisogna accettare.


- È che... dovrei parlarne prima a un'altra persona... Non potrei risolvermi da sola... così su due piedi... - Il maestro le afferrò le mani, quasi per forza:

- Bisogna accettare! Dica di sì... È pel suo meglio! - Essa non l'aveva mai visto a quel mondo. Allora, colla gola stretta da un'angoscia vaga, si fece animo per interrogarlo...


Voleva sapere... - Gennaroni partirà stasera col diretto. Deve imbarcarsi a Genova domani, - disse infine il maestro. - Chi gliel'ha detto? - Lui stesso; lo sanno tutti -. La poveretta cercò una seggiola brancolando. - No! no!... Non può essere! Non mi ha detto nulla!... Stamattina ancora!... - Glielo dirà poi, quand'è il momento di partire... A che scopo tormentarla avanti tempo? - È vero! è vero!... - Allora si mise a piangere cheta cheta nel grembiule. Poscia, quando fu un po' più calma, si asciugò gli occhi, senza dir nulla, e si mise a preparargli la valigia, un bauletto di cuoio nero tutto strappi e scontrini di ferrovia: le camicie di flanella, la scatola dei polsini, le pantofole slabbrate, la pipa nella quale egli soleva fumare, il berretto di pelo che teneva in casa, i costumi da teatro appesi ai chiodi - ogni oggetto che toglieva dal solito posto si sentiva staccare pure dal seno qualche cosa, dinanzi a quelle pareti nude. Il maestro l'aiutava. Gennaroni, tornando a casa, li trovò in quelle faccende. - Bravi! Bravi!

Gliel'hai detto? - In fondo era davvero un buon diavolaccio, penetrato sino al cuore dalla dolcezza con cui Assunta s'era rassegnata.


- Così buona! così giudiziosa, povera ragazza! Tutto l'opposto del tuo carabiniere, eh! - Egli voleva anche abbracciarla dinanzi al maestro, strizzava l'occhio a costui perché li lasciasse soli. Ma Assunta gli faceva segno di non andarsene, cogli occhi gonfi di lagrime. - Non l'avrebbe dimenticata, no, finch'era al mondo! Del resto le montagne sole non s'incontrano. Intanto dava una mano anche lui per aiutarla, correndole dietro dal cassettone al letto, su cui era il baule, colle braccia piene di roba; voleva che andassero tutti e tre insieme a desinare al Caffè, l'ultima volta, e finir la giornata bene.


Il maestro si scusò. - Ah! ah! il carabiniere! - Però promise di trovarsi alla stazione. - Sì, sì, benone! le farai un po' di compagnia. Poi mi affido a te per trovarle la scrittura. È un pulcino bagnato questa poverina, se non c'è chi l'aiuti! - Voleva lasciarle anche una ventina di lire, caso mai le abbisognassero...


Ma essa si ribellò, per la prima volta. - Scusa! scusa! Dicevo caso mai non firmassi subito la scrittura... Ma non c'è bisogno d'andare in collera. L'ho fatto a fin di bene -. Ella si intenerì piuttosto. Per lei aveva fatto anche troppo! per tanto tempo! Al Caffè poi non le riescì di mandar giù un solo boccone, mentre egli mangiava per due e cercava di tenerla allegra. Le offerse anche di farle una sigaretta per scioglierle quel gruppo alla gola - roba d'isterismo.


Alla stazione c'era tutta la compagnia che partiva con lui. Dei poveri diavoli che litigavano coi facchini, due o tre prime parti che pigliavano i posti di seconda, colla borsetta ad armacollo, e le mamme dietro, cariche di fagotti e di scatole di cartone.


Gennaroni disse alla sua amica:

- Tienti un po' in disparte, come tu fossi col maestro -.


Così lo vide per l'ultima volta, col biglietto nel nastro del cappello, allegro e chiassone come al solito, salutando questo e quello. - Addio! Ciao! Buona fortuna! - S'era preso anche in mano la gabbia del pappagallo di una compagna di viaggio. Dalla cancellata fuori la stazione lo videro sbracciarsi a collocare tutto il loro arsenale di scatole e cappellini mentre il treno fuggiva.


Di lui le rimase un bel ritratto in fotografia, formato gabinetto, in posa di tre quarti, colla bocca sorridente, la pelliccia sbottonata, un mazzetto di ciondoli sul ventre - e la sua brava dedica sotto: «Ricordo imperituro!».


In quanto alla scrittura non se ne fece nulla. L'impresario anzitutto, voleva belle ragazze e non dei cerotti come quella lì.


- Le pare, caro maestro? - Il poveraccio non si diede vinto ancora; continuò ad arrabattarsi come un disperato per lei, correndo di qua e di là, raccomandandola a quanti conosceva. Ma ciascuno pensava ai propri casi in quel momento. Ora che Gennaroni aveva piantata la ragazza senza voce e senza quattrini, doveva essere un affar serio levarsi da quella pece, uno che vi si lasciasse prendere, per buon cuore o per altro.


Gli amici, quando essa capitava al Caffè per aspettare il maestro che doveva portare la risposta, se la battevano uno dopo l'altro, primo di tutti il Silvani, colla giacchetta più stretta che mai.


Il garzone stesso, così prudente di solito, veniva ogni momento a strofinare il marmo del tavolino con un cencio, vedendo che non ordinava nulla. Fino il maestro, a poco a poco, scoraggiato di portarle sempre la stessa cattiva nuova, non si era fatto più vedere. Però essa gli aveva detto:
- Non si affanni tanto, poveretto, ché qualcosa ho già trovato -.


E quando egli, facendosi rosso, era tornato sull'offerta di denaro, essa gli aveva risposto che non occorreva. A lui glielo avrebbe detto, davvero, di tutto cuore!

Una domenica, verso la fine di luglio, il maestro incontrò Assunta che usciva dalla bottega di un calzolaio. Essa avrebbe voluto evitarlo, ma l'altro già le si accostava col cappelluccio di paglia ritinto in mano. - Come va? Tanto tempo che non ci siamo più visti! - Assunta balbettava, cercando di nascondere un fagottino che portava, fattasi di brace in viso.


Il maestro cercava le parole anche lui:
- Almeno un vermuttino.


Qui a due passi, al solito Caffè!... - Essa non voleva, vestita a quel modo!... Infine si lascò condurre a un tavolinetto fuori dell'uscio, all'ombra del tendone. Dapprincipio stettero un po' in silenzio, guardandosi in viso. Ella sembrava più grassa, disfatta, bianca come cera, con due enormi pèsche sotto gli occhi, e le mani pallide colle vene gonfie. Il giovanotto aveva la barba lunga, la biancheria sudicia, i calzoni sfrangiati che cercava di nascondere sotto il tavolino. A poco a poco Assunta gli narrò che s'era acconciata colla padrona stessa della casa; pensava alle spese, riguardava la biancheria, teneva d'occhio la pensione, e ci aveva in compenso vitto e alloggio.


Il tempo che avanzava poi s'era rimessa al suo mestiere d'orlatrice. - Con lei non mi vergogno, guardi! - Anche lui fece delle vaghe confidenze: le cose non gli erano andate sempre bene; la stagione morta si portava via quelle poche lezioni... - Accennò pure di aver cambiato alloggio... - Del resto i suoi abiti parlavano per lui. Assunta non volle altro che un caffè di quattro soldi. Egli invece ordinò un giornale, un giornale qualunque, tanto, seguitavano a discorrere con un senso invincibile di malinconia, che pure aveva la sua dolcezza. Di tratto in tratto si guardavano negli occhi, e ripetevano con un sorriso triste:
- Guarda che piacere! - Si udiva parlare a voce alta nel Caffè; e degli scoppi di risa, delle discussioni tempestose, accompagnate dalla stessa nota bassa del Marangoni che trinciava da caporione.


Assunta, allungando il collo dentro l'usciale, lo vide seduto in mezzo a un crocchio di sfaccendati, dinanzi ad un vassoio di bicchieri vuoti e una bottiglia d'acqua di seltz, con un vestito nuovo del Bocconi e la barba tagliata a punta come un damerino. Da lì a un po' se ne uscì fuori, seguìto dagli amici che gli facevano codazzo. Silvani persino lo tirò in disparte sul marciapiede opposto, supplicandolo sottovoce con tutta la persona umile. Il basso scrollava le spalle e il capo, colla barba dura come una spazzola. Infine volse un'occhiata sprezzante verso il maestro, il quale s'era fatto pallido al vederlo, e non l'aveva salutato, e cavò fuori il borsellino, scantonando seguìto dal ballerino piegato in due. Passava della gente in abito da festa; delle famigliuole intere che andavano a sentir la musica al giardino pubblico. Poscia, di tratto in tratto, succedeva il silenzio grave delle ore calde della domenica.


Infine Assunta e il maestro lasciarono il Caffè, e si avviarono ai Boschetti, rasente al muro, nella striscia d'ombra che orlava il marciapiedi. Assunta aveva detto ch'era libera fino a sera, e anch'esso non temeva più di farsi vedere insieme a lei. Il largo viale ombroso era deserto. Di tanto in tanto solo qualche coppia d'innamorati che passeggiavano sotto i platani, cercando i sedili più remoti. Anch'essi... Le ore scorrevano e non sapevano risolversi a lasciarsi. - Ah! se ci fossimo conosciuti prima! - esclamò infine il maestro.


Ella alzò gli occhi su di lui, si fece rossa, e li chinò di nuovo.


Il maestro giocherellava col fagottino che Assunta teneva sulle ginocchia.


- O piuttosto se avessi fatto il calzolaio!... No... dico così...


Son delle giornate nere... Passeranno! - Chiamò uno che andava vendendo dell'acqua fresca, in un barilotto attorniato di bicchieri, e offrì da bere anche a lei. L'uomo andò a mettersi in fondo al viale, col barilotto posato a terra, come una macchietta nera nel verde. Sembrava di essere a cento miglia dalla città, nell'ombra e nel silenzio. Poco per volta il maestro le disse che l'aveva amata, sì, proprio! tante volte quel segreto gli era spirato sulle labbra! Essa lo sapeva, accennando col capo che teneva chino in aria di rassegnazione dolorosa, la quale scorgevasi anche dall'abbandono di tutta la persona, dalla treccia allentata che le si allungava sul collo. - Allora perché... perché ci siamo taciuti?... - La poveretta lo guardò in tal modo, attraverso le lagrime che le scendevano chete chete per le gote, ch'egli abbassò gli occhi.


- Sì, è vero, fu il destino! Quell'altra non sa neppur il sacrificio che le ho fatto... per debolezza, per bontà di cuore...


e c'è chi dice per un tozzo di pane! Me lo merito. Ora essa m'ha piantato pel Marangoni che la batte e fa lo strozzino coi suoi denari. Come ho dovuto sembrarle spregevole, dica!...


- No... no... Era destino!... Anch'io!...


Però sentivano entrambi una gran dolcezza nel dirsi tutto ciò, seduti accanto sullo stesso banco. Egli aprì la bocca due o tre volte per farle una domanda che non osava. Poi strappò un ramoscello che pendeva, e si mise a sminuzzarlo in silenzio.


Assunta più di una volta s'era mossa per andarsene, senza averne la forza.


La sera era venuta prima che se ne fossero accorti, una sera tepida e dolce. Assunta stava col capo chino, col seno gonfio, le mani pallide e venate d'azzurro sulle ginocchia, come ascoltando le parole che lui non osava pronunziare. Infine egli le prese in silenzio una di quelle mani, in un modo eloquente. Per tutta risposta ella aprì le braccia che si teneva sulle ginocchia, con un gesto desolato, e scotendo il capo:
- No, guardi... non posso!

- A quell'atto, per la prima volta, il maestro la fissò in un certo modo che diceva d'aver capito ogni cosa, e glielo disse nell'occhiata ingenua e desolata che le posò in grembo.


- Almeno le ha scritto? - balbettò infine.


Ella rispose di no chinando il capo rassegnato.


Gennaroni ricomparve al Caffè verso il principio dell'inverno, masticando delle pastiglie, col fez come un turco, e le tasche piene di bottigline di marsala, per le quali ebbe a dire agli amici che volevano fargli festa:

- Adagio! adagio, miei cari! Questi qui sono campioni! Voialtri non mi darete certo delle commissioni, eh!... - To'! il maestro!

Ben trovato! So, so, briccone! So che me l'hai portata via, traditore! Dico per scherzo, sai! Non sono in collera con te, tutt'altro! Non siamo mica dei piccioni per far sempre lo stesso paio! Specie uno come me che ha da girare il mondo, ora che mi son dato al commercio. Non c'è altro per guadagnar quattrini, te lo dico io! Tutto il resto... roba da pezzenti! Tanti saluti ad Assunta. Oppure, no, non le dir nulla. A buon rendere -.




Storia dell'asino di S. Giuseppe


L'avevano comperato alla fiera di Buccheri ch'era ancor puledro, e appena vedeva una ciuca, andava a frugarle le poppe; per questo si buscava testate e botte da orbi sul groppone, e avevano un bel gridargli:
- Arriccà! -. Compare Neli, come lo vide vispo e cocciuto a quel modo, che si leccava il muso alle legnate, mettendoci su una scrollatina d'orecchie, disse:
- Questo è il fatto mio -. E andò diritto al padrone, tenendo nella tasca la mano colle trentacinque lire.


- Il puledro è bello - diceva il padrone - e val più di trentacinque lire. Non ci badate se ha quel pelame bianco e nero come una gazza. Ora vi faccio vedere sua madre, che la teniamo lì nel boschetto perché il puledro ha sempre la testa alla poppa.


Vedrete la bella bestia morella! che mi lavora meglio di una mula e mi ha fatti più figli che non abbia peli addosso. In coscienza mia! non so d'onde sia venuto quel mantello di gazza al puledro.


Ma l'ossatura è buona, ve lo dico io! Già gli uomini non valgono pel mostaccio. Guardate che petto! e che pilastri di gambe!

Guardate come tiene le orecchie! Un asino che tiene le orecchie ritte a quel modo lo potete mettere sotto il carro o sotto l'aratro come volete, e fargli portare quattro tumoli di farro meglio di un mulo, per la santa giornata che corre oggi! Sentite questa coda, che vi ci potete appendere voi con tutto il vostro parentado! - Compare Neli lo sapeva meglio di lui; ma non era minchione per dir di sì, e stava sulla sua colla mano in tasca, alzando le spalle e arricciando il naso, mentre il padrone gli faceva girare il puledro dinanzi.


- Uhm! - borbottava compare Neli. - Con quel pelame lì, che par l'asino di san Giuseppe! Le bestie di quel colore sono tutte 'vigliacche', e quando passate a cavallo pel paese, la gente vi ride in faccia. Cosa devo regalarvi per l'asino di san Giuseppe? - Il padrone allora gli voltò le spalle infuriato, gridando che se non conoscevano le bestie, o se non avevano denari per comprare, era meglio non venire alla fiera, e non far perdere il tempo ai cristiani, nella santa giornata che era.


Compare Neli lo lasciò a bestemmiare, e se ne andò con suo fratello, il quale lo tirava per la manica del giubbone, e gli diceva che se voleva buttare i denari per quella brutta bestia, l'avrebbe preso a pedate.


Però di sottecchi non perdevano di vista l'asino di san Giuseppe, e il suo padrone che fingeva di sbucciare delle fave verdi, colla fune della cavezza fra le gambe, mentre compare Neli andava girandolando fra le groppe dei muli e dei cavalli, e si fermava a guardare, e contrattava ora questa ed ora quella delle bestie migliori, senza aprire il pugno che teneva in tasca colle trentacinque lire, come se ci avesse avuto da comprare mezza fiera. Ma suo fratello gli diceva all'orecchio, accennandogli l'asino di san Giuseppe:

- Quello è il fatto nostro -.


La padrona dell'asino di tanto in tanto correva a vedere cosa s'era fatto, e al trovare suo marito colla cavezza in mani, gli diceva:

- Che non lo manda oggi la Madonna uno che compri il puledro? - E il marito rispondeva ogni volta:

- Ancora niente! C'è stato uno a contrattare, e gli piaceva. Ma è ritirato allo spendere, e se n'è andato coi suoi denari. Vedi, quello là, colla berretta bianca, dietro il branco delle pecore.


Però, sinora non ha comperato nulla, e vuol dire che tornerà -.


La donna avrebbe voluto mettersi a sedere su due sassi, là vicino al suo asino, per vedere se si vendeva. Ma il marito le disse:

- Vattene! Se vedono che aspetti, non conchiudono il negozio -.


Il puledro intanto badava a frugare col muso fra le gambe delle somare che passavano, massime che aveva fame, tanto che il padrone, appena apriva bocca per ragliare, lo faceva tacere a bastonate, perché non l'avevano voluto.


- È ancora là - diceva compare Neli all'orecchio del fratello, fingendo di tornare a passare per cercare quello dei ceci abbrustoliti. - Se aspettiamo sino all'avemaria, potremo averlo per cinque lire in meno del prezzo che abbiamo offerto -.


Il sole di maggio era caldo, sicché di tratto in tratto, in mezzo al vocìo e al brulichio della fiera, succedeva per tutto il campo un gran silenzio, come non ci fosse più nessuno; e allora la padrona dell'asino tornava a dire a suo marito:

- Non ti ostinare per cinque lire di più o di meno; che stasera non c'è da far la spesa; e poi sai che cinque lire il puledro se le mangia in un mese, se ci resta sulla pancia.


- Se non te ne vai - rispondeva suo marito - ti assesto una pedata di quelle buone! - Così passavano le ore alla fiera; ma nessuno di coloro che passavano davanti all'asino di san Giuseppe si fermava a guardarlo; e sì che il padrone aveva scelto il posto più umile, accanto alle bestie di poco prezzo, onde non farlo sfigurare col suo pelame di gazza accanto alle belle mule baie ed ai cavalli lucenti! Ci voleva uno come compare Neli per andare a contrattare l'asino di san Giuseppe, che tutta la fiera si metteva a ridere al vederlo. Il puledro, dal tanto aspettare al sole, lasciava ciondolare il capo e le orecchie, e il suo padrone s'era messo a sedere tristamente sui sassi, colle mani penzoloni anch'esso fra le ginocchia e la cavezza nelle mani, guardando di qua e di là le ombre lunghe che cominciavano a fare nel piano, al sole che tramontava, le gambe di tutte quelle bestie che non avevano trovato un compratore.


Compare Neli allora e suo fratello, e un altro amico che aveva raccattato per la circostanza, vennero a passare di là, guardando in aria, che il padrone dell'asino torse il capo anche lui per non far vedere di star lì ad aspettarli; e l'amico di compare Neli disse così, stralunato, come l'idea fosse venuta a lui:

- O guarda l'asino di san Giuseppe! perché non comprate questo qui, compare Neli?

- L'ho contrattato stamattina; ma è troppo caro. Poi farei ridere la gente con quell'asino bianco e nero. Vedete che nessuno l'ha voluto fino adesso!

- È vero, ma il colore non fa nulla, per quello che vi serve -.


E domandò al padrone:

- Quanto vi dobbiamo regalare per l'asino di san Giuseppe? - La padrona dell'asino di san Giuseppe, vedendo che si ripigliava il negozio, andava riaccostandosi quatta quatta, colle mani giunte sotto la mantellina.


- Non me ne parlate! - cominciò a gridare compare Neli, scappando per il piano. - Non me ne parlate che non ne voglio sentir parlare!

- Se non lo vuole, lasciatelo stare - rispose il padrone. - Se non lo piglia lui, lo piglierà un altro «Tristo chi non ha più nulla da vendere dopo la fiera!» - Ed io voglio essere ascoltato, santo diavolone! - strillava l'amico. - Che non posso dire la mia bestialità anch'io! - E correva ad afferrare compare Neli pel giubbone; poi tornava a parlare all'orecchio del padrone dell'asino, il quale voleva tornarsene a casa per forza coll'asinello, e gli buttava le braccia al collo, susurrandogli:

- Sentite! cinque lire più o meno, se non lo vendete oggi, un minchione come mio compare non lo trovate più da comprarvi la vostra bestia che non vale un sigaro -.


Ed abbracciava anche la padrona dell'asino, le parlava all'orecchio, per tirarla dalla sua. Ma ella si stringeva nelle spalle, e rispondeva col viso torvo:

- Sono affari del mio uomo. Io non c'entro. Ma se ve lo dà per meno di quaranta lire è un minchione, in coscienza! Ci costa di più a noi!

- Stamattina era pazzo ad offrire trentacinque lire! - ripicchiava compare Neli. - Vedete se ha trovato un altro compratore per quel prezzo? In tutta la fiera non c'è più che quattro montoni rognosi e l'asino di san Giuseppe. Adesso trenta lire, se le vuole!

- Pigliatele! - suggeriva piano al marito la padrona dell'asino colle lagrime agli occhi. - Stasera non abbiamo da fare la spesa, e a Turiddu gli è tornata la febbre; ci vuole il solfato.


- Santo diavolone! - strillava suo marito. - Se non te ne vai, ti faccio assaggiare la cavezza! - Trentadue e mezzo, via! - gridò infine l'amico, scuotendoli forte per il colletto. - Né voi, né io! Stavolta deve valere la mia parola, per i santi del paradiso!

e non voglio neppure un bicchiere di vino! Vedete che il sole è tramontato? Cosa aspettate ancora tutt'e due? - E strappò di mano al padrone la cavezza, mentre compare Neli, bestemmiando, tirava fuori dalla tasca il pugno colle trentacinque lire, e gliele dava senza guardarle, come gli strappassero il fegato. L'amico si tirò in disparte colla padrona dell'asino, a contare i denari su di un sasso, mentre il padrone dell'asino scappava per la fiera come un puledro, bestemmiando e dandosi dei pugni.


Ma poi si lasciò raggiungere dalla moglie, la quale adagio adagio andava contando di nuovo i denari nel fazzoletto, e domandò:

- Ci sono?

- Sì, ci son tutti; sia lodato san Gaetano! Ora vado dallo speziale.


- Li ho minchionati! Io glieli avrei dato anche per venti lire; gli asini di quel colore lì sono 'vigliacchi' -.


E compare Neli, tirandosi dietro il ciuco per la scesa, diceva:

- Com'è vero Dio, glie l'ho rubato il puledro! Il colore non fa niente. Vedete che pilastri di gambe, compare? Questo vale quaranta lire ad occhi chiusi.


- Se non c'ero io - rispose l'amico - non ne facevate nulla. Qui ci ho ancora due lire e mezzo di vostro. E se volete, andremo a berle alla salute dell'asino -.


Adesso al puledro gli toccava di aver la salute per guadagnarsi le trentadue lire e cinquanta che era costato, e la paglia che si mangiava. Intanto badava a saltellare dietro a compare Neli, cercando di addentargli il giubbone per giuoco, quasi sapesse che era il giubbone del padrone nuovo, e non gliene importasse di lasciare per sempre la stalla dov'era stato al caldo, accanto alla madre, a fregarsi il muso sulla sponda della mangiatoia, o a fare a testate e a capriole col montone, e andare a stuzzicare il maiale nel suo cantuccio. E la padrona, che contava di nuovo i denari nel fazzoletto davanti al bancone dello speziale, non pensava nemmen lei che aveva visto nascere il puledro, tutto bianco e nero colla pelle lucida come seta, che non si reggeva ancora sulle gambe, e stava accovacciato al sole nel cortile, e tutta l'erba con cui s'era fatto grande e grosso le era passata per le mani. La sola che si rammentasse del puledro era la ciuca, che allungava il collo ragliando verso l'uscio della stalla; ma quando non ebbe più le poppe gonfie di latte, si scordò del puledro anch'essa.


- Ora questo qui - diceva compare Neli - vedrete che mi porta quattro tumoli di farro meglio di un mulo. E alla messe lo metto a trebbiare -.


Alla trebbiatura il puledro, legato in fila per il collo colle altre bestie, muli vecchi e cavalli sciancati, trotterellava sui covoni da mattina a sera, tanto che si riduceva stanco e senza voglia di abboccare nel mucchio della paglia, dove lo mettevano a riposare all'ombra, come si levava il venticello, mentre i contadini spagliavano, gridando:
- Viva 'Maria'! - Allora lasciava cascare il muso e le orecchie ciondoloni, come un asino fatto, coll'occhio spento, quasi fosse stanco di guardare quella vasta campagna bianca la quale fumava qua e là della polvere delle aie, e pareva non fosse fatta per altro che per lasciar morire di sete e far trottare sui covoni. Alla sera tornava al villaggio colle bisacce piene, e il ragazzo del padrone seguitava a pungerlo nel garrese, lungo le siepi del sentiero che parevano vive dal cinguettìo delle cingallegre e dall'odor di nepitella e di ramerino, e l'asino avrebbe voluto darci una boccata, se non l'avessero fatto trottare sempre, tanto che gli calò il sangue alle gambe, e dovettero portarlo dal maniscalco; ma il padrone non gliene importava nulla, perché la raccolta era stata buona, e il puledro si era buscate le sue trentadue lire e cinquanta. Il padrone diceva:
- Ora il lavoro l'ha fatto, e se lo vendo anche per venti lire, ci ho sempre il mio guadagno -.


Il solo che volesse bene al puledro era il ragazzo che lo faceva trotterellare pel sentiero, quando tornavano dall'aia; e piangeva mentre il maniscalco gli bruciava le gambe coi ferri roventi, che il puledro si contorceva, colla coda in aria, e le orecchie ritte come quando scorazzava pel campo della fiera, e tentava divincolarsi dalla fune attorcigliata che gli stringeva il labbro, e stralunava gli occhi dallo spasimo quasi avesse il giudizio, quando il garzone del maniscalco veniva a cambiare i ferri rossi qual fuoco, e la pelle fumava e friggeva come il pesce nella padella. Ma compare Neli gridava al suo ragazzo:
- Bestia! perché piangi? Ora il suo lavoro l'ha fatto, e giacché la raccolta è andata bene lo venderemo e compreremo un mulo, che è meglio -.


I ragazzi certe cose non le capiscono, e dopo che vendettero il puledro a massaro Cirino il Licodiano, il figlio di compare Neli andava a fargli visita nella stalla e ad accarezzarlo nel muso e sul collo, ché l'asino si voltava a fiutarlo come se gli fosse rimasto attaccato il cuore a lui, mentre gli asini son fatti per essere legati dove vuole il padrone, e mutano di sorte come cambiano di stalla. Massaro Cirino il Licodiano aveva comprato l'asino di san Giuseppe per poco, giacché aveva ancora la cicatrice al pasturale, che la moglie di compare Neli, quando vedeva passare l'asino col padrone nuovo, diceva:
- Quello era la nostra sorte; quel pelame bianco e nero porta allegria nell'aia; e adesso le annate vanno di male in peggio, talché abbiamo venduto anche il mulo -.


Massaro Cirino aveva aggiogato l'asino all'aratro, colla cavalla vecchia che ci andava come una pietra d'anello, e tirava via il suo bravo solco tutto il giorno per miglia e miglia, dacché le lodole cominciano a trillare nel cielo bianco dell'alba, sino a quando i pettirossi correvano a rannicchiarsi dietro gli sterpi nudi che tremavano di freddo, col volo breve e il sibilo malinconico, nella nebbia che montava come un mare. Soltanto, siccome l'asino era più piccolo della cavalla, ci avevano messo un cuscinetto di strame sul basto, sotto il giogo, e stentava di più a strappare le zolle indurite dal gelo, a furia di spallate:
- Questo mi risparmia la cavalla che è vecchia, - diceva massaro Cirino. - Ha il cuore grande come la Piana di Catania, quell'asino di san Giuseppe! e non si direbbe -.


E diceva pure a sua moglie, la quale veniva dietro raggomitolata nella mantellina, a spargere la semente con parsimonia:

- Se gli accadesse una disgrazia, mai sia! siamo rovinati, coll'annata che si prepara -.


La donna guardava l'annata che si preparava, nel campicello sassoso e desolato, dove la terra era bianca e screpolata, da tanto che non ci pioveva, e l'acqua veniva tutta in nebbia, di quella che si mangia la semente; e quando fu l'ora di zappare il seminato pareva la barba del diavolo, tanto era rado e giallo, come se l'avessero bruciato coi fiammiferi. - Malgrado quel maggese che ci avevo preparato! piagnucolava massaro Cirino strappandosi di dosso il giubbone. - Che quell'asino ci ha rimesso la pelle come un mulo! Quello è l'asino della malannata! - La sua donna aveva un gruppo alla gola dinanzi al seminato arso, e rispondeva coi goccioloni che le venivano giù dagli occhi:

- L'asino non fa nulla. A compare Neli ha portato la buon'annata.


Ma noi siamo sfortunati -.


Così l'asino di san Giuseppe cambiò di padrone un'altra volta, come massaro Cirino se ne tornò colla falce in spalla dal seminato, che non ci fu bisogno di mieterlo quell'anno, malgrado ci avessero messo le immagini dei santi infilate alle cannucce, e avessero speso due tarì per farlo benedire dal prete. - Il diavolo ci vuole! - andava bestemmiando massaro Cirino di faccia a quelle spighe tutte ritte come pennacchi, che non ne voleva neppur l'asino; e sputava in aria verso quel cielo turchino senza una goccia d'acqua. Allora compare Luciano il carrettiere, incontrando massaro Cirino il quale si tirava dietro l'asino colle bisacce vuote, gli chiese:

- Cosa volete che vi regali per l'asino di san Giuseppe?

- Datemi quel che volete. Maledetto sia lui e il santo che l'ha fatto! - rispose massaro Cirino. - Ora non abbiamo più pane da mangiare, né orzo da dare alle bestie.


- Io vi do quindici lire perché siete rovinato; ma l'asino non val tanto, che non tira avanti ancora più di sei mesi. Vedete com'è ridotto?

- Avreste potuto chieder di più! - si mise a brontolare la moglie di massaro Cirino dopo che il negozio fu conchiuso. - A compare Luciano gli è morta la mula, e non ha denari da comprarne un'altra. Adesso se non comprava quell'asino di san Giuseppe, non sapeva che farne del suo carro e degli arnesi; e vedrete che quell'asino sarà la sua ricchezza! - L'asino imparò anche a tirare il carro, che era troppo alto di stanghe per lui, e gli pesava tutto sulle spalle, sicché non avrebbe durato nemmeno sei mesi, arrancando per le salite, che ci volevano le legnate di compare Luciano per mettergli un po' di fiato in corpo; e quando andava per la discesa era peggio, perché tutto il carico gli cascava addosso, e lo spingeva in modo che doveva far forza colla schiena in arco, e con quelle povere gambe rose dal fuoco, che la gente vedendolo si metteva a ridere, e quando cascava ci volevano tutti gli angeli del paradiso a farlo rialzare. Ma compare Luciano sapeva che gli portava tre quintali di roba meglio di un mulo, e il carico glielo pagavano a cinque tarì il quintale. - Ogni giorno che campa l'asino di san Giuseppe son quindici tarì guadagnati, - diceva, - e quanto a mangiare mi costa meno d'un mulo -. Alle volte la gente che saliva a piedi lemme lemme dietro il carro, vedendo quella povera bestia che puntava le zampe senza forza, e inarcava la schiena, col fiato spesso e l'occhio scoraggiato, suggeriva:
- Metteteci un sasso sotto le ruote, e lasciategli ripigliar lena a quella povera bestia -. Ma compare Luciano rispondeva:
- Se lo lascio fare, quindici tarì al giorno non li guadagno. Col suo cuoio devo rifare il mio. Quando non ne potrà più del tutto lo venderò a quello del gesso, che la bestia è buona e fa per lui; e non è mica vero che gli asini di san Giuseppe sieno 'vigliacchi'. Gliel'ho preso per un pezzo di pane a massaro Cirino, ora che è impoverito -.


In tal modo l'asino di san Giuseppe capitò in mano di quello del gesso, il quale ne aveva una ventina di asini, tutti macilenti e moribondi, che gli portavano i suoi saccarelli di gesso, e campavano di quelle boccate di erbacce che potevano strappare lungo il cammino. Quello del gesso non lo voleva perché era tutto coperto di cicatrici peggio delle altre sue bestie, colle gambe solcate dal fuoco, e le spalle logorate dal pettorale, e il garrese roso dal basto dell'aratro, e i ginocchi rotti dalle cadute, e poi quel pelame bianco e nero gli pareva che non dicesse in mezzo alle altre sue bestie morelle:
- Questo non fa niente, - rispose compare Luciano. - Anzi servirà a riconoscere i vostri asini da lontano -. E ribassò ancora due tarì sulle sette lire che aveva domandato, per conchiudere il negozio. Ma l'asino di san Giuseppe non l'avrebbe riconosciuto più nemmeno la padrona che l'aveva visto nascere, tanto era mutato, quando andava col muso a terra e le orecchie a paracqua sotto i saccarelli del gesso, torcendo il groppone alle legnate del ragazzo che guidava il branco. Pure anche la padrona stessa era mutata a quell'ora, colla malannata che c'era stata, e la fame che aveva avuta, e le febbri che avevano preso tutti alla pianura, lei, suo marito e il suo Turiddu, senza danari per comprare il solfato, ché gli asini di san Giuseppe non se ne hanno da vendere tutti i giorni, nemmeno per trentacinque lire.


L'inverno, che il lavoro era più scarso, e la legna da far cuocere il gesso più rara e lontana, e i sentieri gelati non avevano una foglia nelle siepi, o una boccata di stoppia lungo il fossatello gelato, la vita era più dura per quelle povere bestie; e il padrone lo sapeva che l'inverno se ne mangiava la metà; sicché soleva comperarne una buona provvista in primavera. La notte il branco restava allo scoperto, accanto alla fornace, e le bestie si facevano schermo stringendosi fra di loro. Ma quelle stelle che luccicavano come spade li passavano da parte a parte, malgrado il loro cuoio duro, e tutti quei guidaleschi rabbrividivano e tremavano al freddo come avessero la parola.


Pure c'è tanti cristiani che non stanno meglio, e non hanno nemmeno quel cencio di tabarro nel quale il ragazzo che custodiva il branco dormiva raggomitolato davanti la fornace. Lì vicino abitava una povera vedova, in un casolare più sgangherato della fornace del gesso, dove le stelle penetravano dal tetto come spade, quasi fosse all'aperto, e il vento faceva svolazzare quei quattro cenci di coperta. Prima faceva la lavandaia, ma quello era un magro mestiere, ché la gente i suoi stracci se li lava da sé, quando li lava, ed ora che gli era cresciuto il suo ragazzo campava andando a vendere della legna al villaggio. Ma nessuno aveva conosciuto suo marito, e nessuno sapeva d'onde prendesse la legna che vendeva; lo sapeva il suo ragazzo che andava a racimolarla di qua e di là, a rischio di buscarsi una schioppettata dai campieri. - Se aveste un asino - gli diceva quello del gesso per vendere l'asino di san Giuseppe che non ne poteva più - potreste portare al villaggio dei fasci più grossi, ora che il vostro ragazzo è cresciuto -. La povera donna aveva qualche lira in un nodo del fazzoletto, e se la lasciò beccare da quello del gesso, perché si dice che «la roba vecchia muore in casa del pazzo».


Almeno così il povero asino di san Giuseppe visse meglio gli ultimi giorni; giacché la vedova lo teneva come un tesoro, in grazia di quei soldi che gli era costato, e gli andava a buscare della paglia e del fieno di notte, e lo teneva nel casolare accanto al letto, che scaldava come un focherello anche lui, e a questo mondo una mano lava l'altra. La donna spingendosi innanzi l'asino carico di legna come una montagna, che non gli si vedevano le orecchie, andava facendo dei castelli in aria; e il ragazzo sforacchiava le siepi e si avventurava nel limite del bosco per ammassare il carico, che madre e figlio credevano farsi ricchi a quel mestiere, tanto che finalmente il campiere del barone colse il ragazzo sul fatto a rubar frasche, e lo conciò per le feste dalle legnate. Il medico per curare il ragazzo si mangiò i soldi del fazzoletto, la provvista di legna, e tutto quello che c'era da vendere, e non era molto; sicché la madre una notte che il suo ragazzo farneticava dalla febbre, col viso acceso contro il muro, e non c'era un boccone di pane in casa, uscì fuori smaniando e parlando da sola come avesse la febbre anche lei, e andò a scavezzare un mandorlo lì vicino, che non pareva vero come ci fosse arrivata, e all'alba lo caricò sull'asino per andare a venderlo. Ma l'asino, dal peso, nella salita s'inginocchiò tale e quale l'asino di san Giuseppe davanti al Bambino Gesù, e non volle più alzarsi.


- Anime sante! - borbottava la donna - portatemelo voialtre quel carico di legna! - E i passanti tiravano l'asino per la coda e gli mordevano gli orecchi per farlo rialzare.


- Non vedete che sta per morire? - disse infine un carrettiere; e così gli altri lo lasciarono in pace, ché l'asino aveva l'occhio di pesce morto, il muso freddo, e per la pelle gli correva un brivido.


La donna intanto pensava al suo ragazzo che farneticava, col viso rosso dalla febbre, e balbettava:

- Ora che faremo? Ora che faremo?

- Se volete venderlo con tutta la legna ve ne do cinque tarì - disse il carrettiere il quale aveva il carro scarico. E come la donna lo guardava cogli occhi stralunati, soggiunse:
- Compro soltanto la legna, perché l'asino ecco cosa vale! - E diede una pedata sul carcame, che suonò come un tamburo sfondato.




La Barberina di Marcantonio


Anni sono, quando Barbara, orfanella, sposò Marcantonio, mugnaio, parve che chiappasse un terno a secco. Pazienza i 40 anni dello sposo, ma la prima moglie di lui gli aveva lasciato il mulino, e un orticello, che si affacciava dentro le finestre, un mese ogni anno, col verde delle piante, e altro ben di Dio. Marcantonio aveva sposata l'orfanella per fare una buona azione, dopo la morte della buon'anima, e scacciare la malinconia, che sembrava fissa in casa col rumore di quella ruota che girava sempre, notte e giorno, nel torrentello chiuso in mezzo a una forra scura, e non si udiva altro, in quella solitudine. Amici e parenti furono invitati alle nozze, si fece festa sul praticello davanti al mulino, e brindisi a tutto andare, alla sposa che era fina e bianca come la farina di prima qualità, al mugnaio ch'era ancora in gamba - costò cinquanta svanziche quell'allegria - chè allora nel Veneto correvano ancora le svanziche e gli Austriaci.


Solo il Moccia che aveva il vino cattivo badava a predicare:
- Andate là che ve ne pentirete! - In seguito venne la processione dei figliuoli, che non finivano più. Barberina allampanava a quel mestiere di far la chioccia, smunta e pallida, nella tristezza di quella buca senza verde e senza sole. Tuttavia non si smarriva d'animo, ed era il braccio destro del mulino, diceva suo marito. Correva la voce che dalla mamma avesse preso il malsottile. Il fatto era che i figliuoli, quanti ne faceva, gli morivano presto, quasi mancasse l'aria in quel fosso. Il medico predicava che era umido e malsano. - Cosa potevano farci? Quella era la loro casa e ogni loro bene -. Poi in maggio i rami rinverdivano, e su per l'erta, di faccia alle finestre, spuntavano dei fiorellini gialli e rossi. La Barbara ci portava i bimbi in collo, a godersi il bel sole.


Ma morivano egualmente. Ella sola non moriva, e continuava a far figliuoli, come un castigo di Dio, invecchiata e ischeletrita quasi fosse la morte che partoriva. Il dottore aveva un bel chiamarsi in disparte Marcantonio e dirgli il fatto suo. L'altro rispondeva, mordendosi le mani:
- Cosa posso farci? Questa è la volontà di Dio! - Finalmente quando Dio volle, la Barbara finì col dare alla luce un'ultima bambina, come non avesse avuto più sangue nelle vene, e lo avesse dato tutto alla figliuola. Pareva che si fosse addormentata; e quella notte erano soli nel mulino, mentre il vento e la pioggia volevano portarselo via.


La bimba crebbe fine e delicata, e la chiamarono Barberina come la madre.


- Tutta lei, buon'anima! - esclamava Marcantonio. A sedici anni anni era già una donnina, magra e pallida al pari della mamma, ma brava massaia come lei. Al babbo che andava innanzi negli anni, gli metteva la vecchiaia nella bambagia. Il signore si vedeva che gliela aveva lasciata per supplire la buon'anima che era in paradiso, e con quel tesoro in casa Marcantonio non aveva bisogno di ammogliarsi la terza volta.


Però la Barberina della mamma aveva anche la vita corta. Al principio dell'inverno cominciò a tossire, e a sputar sangue di nascosto. Il medico, che li conosceva di madre in figlia, conchiuse:
- Non ve l'avevo detto? Ha il male di sua madre -. E Marcantonio quel giorno pianse di nascosto anche lui.


Nondimeno, siccome la malattia procedeva lentamente, a poco a poco si abituarono entrambi, e non ci pensavano più. Quando le tornava la febbre, alla ragazza, o tossiva più del solito, cercavano se aveva preso freddo, se si era bagnate le mani, o altri motivi simili, e non chiamavano neppure il medico.


Nel finire della state, una sera che diluviava come in marzo, arrivò il Moccia, vecchio anche lui adesso, che passava di tanto in tanto dal mulino, quand'era da quelle parti. E raccontò che la campagna, al basso, era tutta allagata.


La Barberina, che non lasciava il letto da qualche tempo e non dormiva più, esclamò:

- Poveretti!

- Voi altri - finì il Moccia - se continua a piovere e a crescere la piena del fiume, fareste bene ad andarvene anche voi -.


Marcantonio, col cuore serrato per la figlia che non si poteva muovere, rispose che il fiume era lontano, e non c'era pericolo.


Poi il Moccia se ne andò, ed egli lo accompagnò col lume.


- Sapete - gli disse il Moccia. - La Barberina mi par che stia proprio male stasera.


- O babbo - chiese la Barberina. - Che ha detto il Moccia?

- Dice che la piena è grande; ma non ci badare. Tutt'al più, se il torrente ingrossa anch'esso, smonterò la ruota -.


Sul tardi la ruota si fermò da sé; e Barberina, che aveva il sonno leggero dei malati, chiamò il babbo. Marcantonio prese il lume e scese per la bodola. Laggiù l'acqua nera gorgogliava, luccicava dove batteva il lume. La Barberina, al veder risalire il babbo pallido e turbato, tornò a chiedere.


- Che c'è babbo?

- La piena - rispose stavolta Marcantonio.


- O poveretti noi! E tutto quel grano ch'è laggiù! E la casa? Ed io non posso aiutarvi! -.


Marcantonio pensava appunto a lei, che non poteva muoversi. - Ora mi vesto, - diceva la ragazza. - Ora vengo ad aiutarvi - Ma le forze le mancavano, per quanto si affannasse, con quelle povere braccia stecchite, e quegli omeri aguzzi che volevano bucare la camicia. Per fortuna tornò il Moccia, che non era potuto andare più avanti, a motivo della piena, ed altre anime pietose, le quali si erano ricordate di Marcantonio e della figliuola moribonda che affogavano nel mulino. All'udir picchiare alla finestra, il vecchio prese animo.


- O Vergine santa! Ch'è mai successo? - esclamava Barberina con quegli occhi spaventati dentro le occhiaie nere. L'avvolsero nelle coperte, e la fecero uscire dalla finestra, che Dio sa come ci arrivò la poveretta.


Al di fuori tutta la forra dove scorreva il torrentello era nera e spumosa. Dappertutto, dove passavano col carretto di Barberina, gente in fuga, e masserizie per aria. Pure, al veder lei, si fermavano a compassionarla. All'alba si vide il fiume che si allargava dappertutto, come un mare.


Le avevano fatto un po' di riparo, come meglio potevano, lì nell'argine affollato di gente e di bestiame, con del fieno e delle coperte, e lei badava a ripetere:

- Oh Vergine Maria, cos'è successo?

- È successo - rispose il Moccia - che abbiamo addosso il castigo di Dio. Non avete inteso che verrà la cometa? - Ella, vedendo piovere su quei rifugiati, stretti sull'argine, andava dicendo, senza pensare a lei, che poco poteva starci:

- E quei poveretti? E se si sfascia l'argine? E il grano? E la casa? E il mulino? E come farete, babbo, senza di me?

- Una cosa da far compassione alle pietre - conchiuse il Moccia, a vederla andarsene così, in mezzo a quella rovina.




Il Bastione di Monforte


Nel vano della finestra s'incorniciano i castagni d'India del viale, verdi sotto l'azzurro immenso - con tutte le tinte verdi della vasta campagna - il verde fresco dei pascoli prima, dove il sole bacia le frondi; più in là l'ombrìa misteriosa dei boschi.


Fra i rami che agita il venticello s'intravvede ondeggiante un lembo di cielo, quasi visione di patria lontana. Al muoversi delle foglie le ombre e la luce scorrono e s`inseguono in tutta la distesa frastagliata di verde e di sole come una brezza che vi giunga da orizzonti sconosciuti. E nel folto, invisibili, i passeri garriscono la loro allegra giornata con un fruscìo d'ale fresco e carezzevole anch'esso.


Sotto, nel largo viale, la città arriva ancora col passo affaccendato di qualche viandante, col lento vagabondaggio di una coppia furtiva. Ella va a capo chino, segnando i passi coll'appoggiare cadenzato dell'ombrellino, e l'ondeggiamento carezzevole del vestito attillato, che il sole ricama di bizzarri disegni, mentre l'ombre mobili delle frondi giuocano sul biondo dei capelli e sulla nuca bianca come rapidi baci che la sfiorino tutta. Ed egli le parla gesticolando, acceso della sua parola istessa che gli suona innamorata. A un tratto levano il capo entrambi al sopraggiungere di un legno che va adagio, dondolando come una culla, colle tendine chiuse; e la giovinetta si fa rossa, pensando alla penombra azzurra di quelle tende che addormentò le sue prime ritrosie. Un vecchio che va curvo per la sua strada alza il capo soltanto per vedere se la giornata gli darà il sole.


E passa il rumore di un carro di cui si vedono le sole ruote polverose girare al di sotto dei rami bassi, e ciondolare addormentati del pari il muso del cavallo e le gambe del carrettiere penzoloni, rigate di sole. Poscia il trotto rapido di un cavallo, col lampo del morso lucente; o la fuggevole visione di una 'vittoria' bruna, nella quale si adagia mollemente fra le piume e il velluto una forma bianca e vaporosa. Così si dileguano in alto le nuvole viaggiando per lidi ignoti, e la dama bianca vi cerca cogli occhi i sogni o i ricordi dell'ultimo ballo che vagano lontano, mollemente del pari.


E le foglioline si agitano fra di loro, con un tremolìo fresco d'ombre e di luce; a un tratto, nell'ebbrezza di sentirsi vivere al sole, stormiscono insieme, e cantano al limite della città romorosa la vita quieta dei boschi. Le coppie innamorate tacciono, quasi comprese di un sentimento più vasto del loro; e colla mano nella mano, vanno, sognando. Più in là, li desta il trotto stracco del carrozzino postale che passa barcollando, portando svogliatamente la noia quotidiana di tutte le faccenduole umane che va a raccogliere dalle cassette, e strascina sempre per la stessa via, al suono fesso della sonagliera, addormentato sotto il gran mantice tentennante. Dall'altro lato risponde il fischio del convoglio che corre laggiù, verso il sole, tirandosi dietro il pensiero, lontano, lontano, verso altri luoghi, verso il passato.


Ecco, fra i rami degli ippocastani c'è una linea d'ombra che sprofonda nel vuoto, come un viale tagliato nel dosso di un monticello, sotto un gran pennacchio di carrubbi. Le belle passeggiate d'allora nel meriggio caldo e silenzioso, quando le cicale stridevano nella valletta addormentata al sole! Accanto serpeggia verso l'alto la linea bruna di un tronco, rendendo immagine del sentiero che ascendeva fra i pascoli ed il sommacco di un noto poggio; e in cima, dove l'azzurro scappa infine libero, sembra di scorgere quella vetta che vedeva tanta campagna intorno.


Un dì che voci allegre fra i sommacchi di quel poggio e le vigne di quel monticello! e tutta la comitiva che s'arrampicava festante per l'erta in quel dolce tramonto d'ottobre! E il chiaro di luna della sera in cui si aspettavano da quella vetta i fuochi della festa al paesetto lontano, e che bagna ancora l'anima di luce malinconica al tornare di queste memorie! Quanto tempo è trascorso? Quanto è lontano ormai quel paesetto? Ora il carrozzino postale vi porta la sola cosa viva che rimanga di tanta festa, sotto un francobollo da venti centesimi. E una farfalletta bianca s'affatica a svolazzare su pel viale immaginario, fra i rami dei castagni d'India, aspirando forse alle cime troppo alte per le sue alucce.


Così quella donna che viene ogni giorno a passeggiare pel viale, e aspetta, e torna a rileggere un foglio spiegazzato che trae di tasca, e guarda ansiosa di qua e di là ad ogni passo che faccia scricchiolare la sabbia, rizzando il capo con tal moto che sembra vederle brillare tutta l'anima negli occhi. Ogni tanto si ferma sotto un albero colle braccia penzoloni e l'atteggiamento stanco.


Anch'essa andò a chiedere trepidante quella lettera al postino che ne scorreva un fascio sbadigliando. Ora legge e rilegge la parola luminosa che ci dev'essere per rischiarare l'ombra uggiosa di quel viale, per ravvivare il verde di quegli alberi che le sono passati dinanzi agli occhi con mille gradazioni di tinte nelle desolate ore d'attesa. L'organetto che suonava il mattino gaio, in qualche osteria del sobborgo, e le cantava in cuore tutte le liete promesse della speranza, torna a passare collo stesso motivo già velato dalla mestizia della sera. Gli amanti che si tengono per mano in mezzo a quella festa d'azzurro e di verde, si voltano ridendo al vederla aspettare ancora, sola, vestita di nero. La sera giunge, e l'ombra s'allunga malinconica.


A quell'ora, ogni giorno, suol passare uno sconosciuto alto e pallido, coll'andatura svogliata e l'occhio vagabondo di chi voglia ingannare l'ora del pranzo. Allorché incontrò la donna vestita di nero egli volse a fissarla il volto magro e austero in cui la percezione acuta della vita ha scavato come dei solchi. E chinò il capo quasi indovinasse, stanco della stanchezza di quella derelitta. Ma fu un lampo, e seguitò ad andare diritto e fiero per la sua via, portando negli occhi la visione di tutte le camerette nude e fredde in cui si sono strascinati i suoi sogni di giovinezza e i suoi bauli sconquassati, pieni solo di scartafacci, nel vagabondare dietro un sogno. Quanti dolori ha incontrato per quella via, e quante grida d'amore o di fame ha sentito attraverso le pareti sottili di quelle camerette? Più tardi forse andrà a pranzare con una tazza di caffè e latte fra gli specchi e le dorature del Biffi, pensando a quella donna che aspettava colla stanchezza dell'anima negli occhi, mentre l'orchestra suona la mazurca dell'Excelsior. Ora l'operaio che gli passa allato, strascinando un carretto, non gli bada neppure. La città è troppo vasta, e ce ne son tanti.


E il tramonto in alto si spegne, tranquillo, in un cinguettìo confuso, con mille rumori indistinti che dileguano insieme all'azzurro che svanisce lontano, lontano, verso il paese dei sogni e delle memorie; e vi trasporta ai giorni in cui sentiste le prime mestizie della sera, e la prima canzone d'amore vi si gonfiò melodiosa nell'anima.


Ora la canzone passa vagabonda e avvinazzata pel viale, al casto lume della luna che stampa in terra le larghe orme nere dei castagni addormentati - la canzone in cui suonano le note rauche della rissa d'osteria e la noia delle querimonie che aspettano a casa colla donna - o la gaiezza dolorosa di chi non vuol pensare al domani senza pane - oppure la brutale galanteria che si lascia alle spalle l'ospedale e la prigione, o il richiamo caldo che cerca l'ora molle d'amore dopo la dura giornata dell'operaio. Solo il bisbiglìo di due voci sommesse che si nascondono nell'ombra canta la primavera innamorata e pudibonda. E a un tratto, nella tarda ora silenziosa, in mezzo alla gran luce d'argento che piove sui rami, da una macchia nell'oscurità si leva una nota d'argento anch'essa, e canta la festa dei nidi alle ragazze che ascoltano alla finestra. In fondo, fra i rami s'intravvede lontano un lumicino, in una stanzuccia solitaria.


A quest'ora pure la cascatella mormora laggiù nel paese lontano, tutta sola in quell'angolo della rupe paurosa, sotto i grappoli di capelvenere, dinanzi la valletta che si stende bianca di luna.


O i molli pleniluni estivi in cui la giovinezza canta e sogna per le strade, e le memorie sorgono dolci e candide del passato ad una ad una! - E le fredde lune d'acciaio del Natale, quando i grandi scheletri dei castagni d'India segnano di nero l'azzurro profondo e cupo, e il turbine strappa le foglie dimenticate dall'autunno con un mugolìo che viene da lungi, dalle notti remote in cui passava dietro l'uscio chiuso sulla famigliuola raccolta intorno al ceppo, e spazzava via tutto! - E l'albe livide, i meriggi foschi sui rami inargentati di neve, i gemiti lunghi che vengono col vento dalle notti remote, e i giorni che scorrono silenziosi e deserti sul viale bianco di neve! Ora di tanto in tanto passa il carro funebre senza far rumore, come una macchia nera, ricamato di neve anch'esso, quasi recasse la fioritura della morte; e il doganiere che inganna la lunga guardia facendo quattro ciarle colla servotta dietro il muro, sbircia sospettoso se mai il drappo funebre dei morti non nasconda il contrabbando dei vivi.




Bollettino sanitario


'San Remo, 10 novembre' Sono qui da ieri sera. Venite.


VIOLA 'San Remo, 21 novembre' VIOLA fa sapere alla sola persona dalla quale è conosciuta, che ella aspetta inutilmente da otto giorni.


'San Remo, 8 dicembre' Perché non siete venuto, GIACINTO? Avete letto le mie del 10 e 21 novembre? Avete dimenticato la vostra promessa? Dove siete? Ho bisogno di voi.


'San Remo, 16 dicembre' Mi sono ingannata; perdonatemi. Voi siete come tutti gli altri.


'Sorrento, 22 dicembre' Io sono precisamente come tutti gli altri, cara signora VIOLA; anzi, come tutti quegli altri che hanno bisogno di pace, e a cui i medici prescrivono il riposo dell'anima e del corpo, e il clima di Nizza o di Napoli.


GIACINTO 'San Remo, 25 dicembre' Godeteveli. Parto domani. È inutile dirvi dove andrò, poiché è inutile che mi scriviate. Addio.


VIOLA 'Sorrento, 20 gennaio' Alla signora VIOLA - non del pensiero. - Mia cara, giacché ai vostri occhi devo comparire assolutamente colpevole, eccovi la mia giustificazione: ve la mando come posso. Per altro, nessuno vi conosce, nemmen io, e voi non avete esitato per la prima a far correre le poste ai nostri piccoli segreti. Sono stato malato, molto malato; ho creduto di morire, e ho avuto paura. Vedete quanto io sia lontano dal mondo e dalle sue illusioni, se vi confesso anche cotesto! Ho vista la vita dall'altro lato. Se sapeste che rovescio! La giovinezza, il passato, voi! Quante cose si veggono nelle cortine stinte di un letto d'albergo, a cinque lire per notte, coll'odore delle medicine sotto il naso, e il russare dell'infermiera in un canto! Mi sembrava di non dovermi alzare più. Andavo cercando col pensiero tutto ciò che si era presa la mia vita, e non lo trovavo: il giuoco, gli amici, le amiche... E i sogni della giovinezza... Vi rammentate, quella prima sera che mi bruciaste l'anima colle lenti del vostro cannocchiale? Che miseria! E pensare che tutto ciò ora non mi fa battere il cuore come la voce grossa del dottore il quale mi misura la febbre col termometro!

Che cosa volete, cara VIOLA! Ritorno dal paese freddo delle ombre, dove anche il fiore del pensiero intirizzisce; e mi scaldo tranquillamente a questo bel meriggio d'inverno, come un ebete, con un 'plaid' sulle ginocchia, le orecchie ben calde dentro il mio berretto di lontra; e sorrido soltanto al sole che mi bacia le mani diacce, gialle, di un bel giallo d'oro, come i mucchi di luigi che illuminavano le nostre notti di Montecarlo, dove 'quell'altro' mi vinceva anche voi.


Vi rammentate, a Venezia? Avevate un colletto alto da uomo, un ferro di cavallo alla cravatta, un cappellino grigio, a tese piatte, con un ciuffo di piume di struzzo sul davanti: ricordi che mi sembrano gai e festosi in questa bella giornata d'inverno:
- l'occhiata lunga e calda che mi lasciaste nel vestibolo, sirena! e la furberia con la quale vi nascondevate dietro le spalle oneste e larghe del vostro compagno, nel palchetto, per puntare il cannocchiale su di me! Quante belle cose ci dicevamo! Due o tre volte chinaste il capo e sorrideste: un sorriso che voleva dire tante cose:
- Vi saluto! - Davvero? - Sì! - Venite? - che so io...


forse non lo sapevate voi stessa. Io sorrisi e chinai il capo come voi. Che potevamo dire di più? Tutto l'amore umano non è in quel linguaggio senza parole? - Chi sei? - Mi piaci! - Mi vuoi? - Quel bel signore che vi dava il braccio non avrebbe potuto chiedervi né sentirsi rispondere altro da voi, neppure nel momento in cui posava la sua testa accanto alla vostra sul medesimo guanciale.


Eppure, tutta la notte questa visione non mi fece chiudere occhio.


Lasciamo stare, lasciamo stare! Ecco che ricasco di nuovo nella fantasticheria erotica - la più malsana divagazione della mente, dice il mio medico. Ora non c'é nulla per me che valga una buona nottata di sonno profondo, collo spirito e il corpo nella bambagia tiepida delle coperte. Erano tante notti che non potevo dormire, mangiato dalla tosse, mangiato dalla febbre! Sentite, quando vi dicono che in cotesti momenti hanno pensato a voi, che siete stata il conforto, il sollievo, che so io, vi mentiscono come furfanti.


In principio, forse, quando il male non ha compìto il suo lavorìo, quando il medico non ha fatto il viso lungo, quando non si è visto passare lo spettro nero nelle prime ombre della sera... Allora, forse... quando il sangue ancora ricco dà con la febbre quella sensazione di benessere, si può pensare a 'lei', alla donna, alla treccia bionda sul guanciale, alla mano bianca che apre dolcemente le cortine, agli occhi lucenti che aspettano... Così mi guardavate, dal fondo di quella loggia. - Che cosa ne avete fatto del vostro bel cavaliere? Sapete, ultimamente lo incontrai a Napoli. Non volle riconoscermi, e fece bene. Ho un sospetto che quell'uomo in dominò della 'cavalchina' fosse lui, e che abbia udito quando deste l'indirizzo al gondoliere...


Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace, ecco quello che vi ho detto poi, nelle lunghe notti senza sonno e senza sogni. E vi ho detto anche peggio. Che ve ne importa? Che me ne importa? Io voglio dormire, voglio dormire soltanto. Voi siete bella, sana, giovane, ricca. Avete lì San Mauro ai vostri piedi, Giuliano che vi fa ridere, il duca che vi manda delle violette da Nizza.


Lasciatemi in pace.


Vedete, è un'ora che vi scrivo. Il sole m'ha lasciato adagio adagio, e col sole le liete fantasie che suscitava la vostra memoria. Ora ho freddo, e la nebbia è calata anche su di voi. Che colpa ne ho io? Se vedeste com'è triste questo mare che illividisce, e questo verde che si fa scuro! Sento il bisogno del bel fuoco che scoppietta nel camino, e del buon brodo che fuma nella tazza. Se stanotte potessi dormire senza cloralio, quanto sarei felice! Vedete quanto poco ci vuole per avere la felicità?

Il dottore m'assicura che sto meglio, e che forse fra un mese o due potrò lasciare Sorrento... Giacché dovete sapere che odio Sorrento, odio questo mare, questo cielo, questo verde implacabile, in mezzo al quale sono costretto a vivere, se voglio vivere. Ora difatti mi sento meglio, ho pensato a voi, ho riletto le vostre lettere, ho sentito rifiorire in me qualcosa del passato che credevo morto, e che mi rianima invece, e mi riscalda. Dunque anch'io posso rivivere? Allora, allora... No, non voglio pensare ad altro. Il medico dice che mi fa male. Il mio male siete voi.


Non mi importa più di nulla, capite! Sentite... siete già in collera? Vi chiedo perdono. Sono un uomo dell'altro mondo: eccovi spiegato il motivo del mio silenzio. Non pensate più a me. Se mi vedeste ora, volgereste il capo dall'altra parte. Lasciatemi in pace.


'Sorrento, 25 marzo' È proprio vero. Sto meglio, son quasi guarito, sapete? Il male non era così grave come si temeva. Chi ne sa nulla? Questi medici, dottoroni! non lo sanno neppur loro. Certo è che son guarito, guarito! Oggi ho fatto una lunga passeggiata a piedi. Che bel sole! che bel verde! Quella ragazza che mi vende le viole ha detto che non mi ha mai visto così di buona cera. Anche qui si fa la corte, come laggiù la fanno a voi, e non potete immaginare quanto sia ingenua e credula la civetteria dei malati. Le ho dato venti lire. Quanta gente si può far contenta con venti lire. Ho portato il 'plaid' sul braccio, tutto il dopo pranzo.


C'è un povero storpio che suona da un'ora il valzer di 'Madama Angot' sotto le mie finestre. Sì, quella musichetta gaia può avere il suo merito anch'essa quanto il vostro Chopin e il vostro Mendelssohn. Le belle sere passate nel vostro salottino, guardandovi le mani e accarezzandovi i capelli! Non mi sgridate.


Sono un gran colpevole che vi domanda perdono e viene a picchiarsi il petto dietro la vostra porta. Dove siete? Che avete pensato di me? Ero tanto lontano da voi, tanto! Ed ora desidero tanto di rivedervi! Basta, non ne parliamo. Non me lo merito, lo so.


L'avete ancora quel serpentello d'oro al braccio? Come mi farebbe bene una bella chiacchierata con voi, di quelle chiacchierate che sapete fare, mezzo sdraiata sulla poltrona, e colle scarpette accavalciate l'una sull'altra! Sono circa sei mesi che non parlo.


E vedete, che perciò chiacchiero, chiacchiero per lettera, e vi corro dietro con la mente, e con qualche altra cosa anche, qui nel petto... Se siete tuttora in collera, dovreste perdonarmi soltanto al pensare che, se voleste dirmi dove siete, verrei a piedi, come un pellegrino, a sciogliere il voto, foste anche in capo al mondo!

Non mi sgomenterei, no! Ora son forte. Ah, com'è bella la vita!

Sì, vi avevo promesso: «Quando mi permetterete di venirvi a trovare... dovunque sarete...» Poi fui in collera con voi che m'avete lasciato partire. Quella sera che mi posaste la fronte sul petto, a Villa d'Este? Perché non siete venuta con me? Eravate tutta tremante. Mi amavate dunque? Perché non avete voluto che ci acciuffassimo pei capelli, io e quell'uomo? Che notte ho passato sotto le vostre finestre! Fu là che presi la tosse... E ve ne volli. Sì, sì, quando vi seppi partita, partita con colui, vi odiai, fui malato, volli dimenticarvi. Giuliano mi disse che San Mauro vi faceva la corte, e che il duca portava discretamente al collo la vostra catena. Che m'importa adesso? Io so che avete le mani bianche e che ve le siete lasciate baciare da me. So che a San Remo non siete più da un pezzo, e che mi avete aspettato colà, e che siete partita senza dire per dove. Ed io vi ho lasciata partire! Ero pazzo allora, o son pazzo adesso? Nessuno potrebbe dirlo. Quello che so di certo, è che in questo momento vorrei baciare ancora le vostre mani bianche.


'Sorrento, 11 aprile' VIOLA cara! VIOLA bella! VIOLA bionda! Eccomi ginocchioni dinanzi a voi, con le mani in croce, la fronte sul tappeto. Lasciatemi baciare le vostre scarpette piccine! Sì, sì, lo so, sono molto colpevole. Non merito il perdono. Ditemelo, ma ditemelo voi stessa. Sono otto giorni che ho fatte le valige, e che aspetto una vostra parola, dura, assai dura, che mi dica di venirmi a chiedere perdono. Pensare che forse eravate sola a San Remo, e che avreste lasciato l'uscio socchiuso... Ah, come darei della testa nella parete! Sono stato peggio di colpevole: sono stato uno sciocco.


Non ci cascate anche voi, se mi amate ancora, per picca, per dispetto. Pensate che potremmo vederci, soli, dirci colla bocca tutto ciò che ci siamo detto quella sera alla Fenice col cannocchiale! Vi dico delle cose pazze. Sono pazzo, vi giuro...


'Sorrento, 16 aprile' GIACINTO supplica e scongiura a mani giunte VIOLA di fargli avere un rigo, una parola, qualunque sia, perché il silenzio implacabile di lei gli mette addosso tutte le febbri.


'Sorrento, 29 aprile' Sentite, non ne posso più. Aspetterò qui la vostra lettera sino a domani. Domani, ultimo giorno d'aprile, non so quel che farò. Vi amo, vi amo, mi sento morire un'altra volta. Fatelo per pietà almeno, VIOLA! Stanotte ho tossito di nuovo e ho avuto la febbre.


'Sorrento, 8 maggio' Ah, che siate proprio tale quale vi avevo giudicata! senza cuore, senza spirito, senz'altro che lo spumeggiare delle vostre trine e lo scintillìo dei vostri diamanti, frivola e dura altrettanto! Vi odio, vi detesto! Voi mi fate morire, consunto da questa febbre che mi avete messa nel sangue, maledetta! Tenetevi il duca che v'insulta co' suoi doni. Tenetevi Giuliano, che si ride di voi.


Tenetevi San Mauro che vi mette in un mazzo con le ballerine della Scala. Io vi ho buttato in faccia la giovinezza mia, che avete distrutto, la vita che mi avete succhiata coi baci, vampiro!

GIACINTO 'Genova, 8 maggio' Aspettatemi. Verrò.


VIOLA 'Napoli, 14 maggio' No, no, mio caro GIACINTO. È meglio non vederci più. Sono stata a trovarvi, incognita; l'albergatore mi aveva aperta una finestra sul giardino, dove eravate a passeggiare. Come siete mutato, mio povero e caro GIACINTO!

VIOLA è morta.



L'osteria dei «Buoni Amici»


La prima volta che agguantarono Tonino in questura, un sabato grasso, fu per via di quelle donne di San Vittorello, che l'Orbo l'aveva strascinato a far baldoria coi denari della settimana. Per fortuna non gli trovarono addosso la grossa chiave colla quale aveva mezzo accoppato il Magnocchi, merciaio.


Erano stati a mangiare e a bere all'osteria dei «Buoni Amici», lì in San Calimero, e l'Orbo aveva raccattato pure il Basletta e Marco il Nano - pagava Tonino.


Dopo, pettoruto per la spesa che aveva fatto, disse:
- S'ha da andare al Carcano? - che c'era veglione quella sera. Ma subito rientrato in sé si pentì della scappata, e contava nella tasca adagio adagio i soldi che gli restavano.


Gli altri lo sbeffeggiavano. - Hai paura della mamma, neh? o della Barberina che ti tratta a sculacciate, come un bambino? - Già se loro andavano al veglione il biglietto lo pagavano a spintoni, tutti e tre ragazzi che gli bastava l'animo di passare sotto il naso delle guardie col mozzicone in bocca. E lì in teatro brancicamenti e pizzicotti alle mascherine, che non cercavano altro, tanto che il Nano e Basletta escirono a cazzotti, nel tempo che Tonino aveva condotto a bere una Selvaggia, la quale leticava coi cappelloni ogni volta, a motivo di quel gonnellino di piume che sventolava come una bandiera. Al caffè, coi gomiti sul tavolino, si erano dette delle sciocchezze, e la Selvaggia ci rideva su, col petto che gli saltava fuori, dall'allegria. Tonino gli avrebbe pagata mezza la bottega, sinché ne aveva in tasca, tanto erano ladri quegli occhi tinti col carbone, e quel fiore di pezza nei capelli, che gli avevano fatto come un'imbriacatura. E gli proponeva questo, e gli proponeva quell'altro, come uno che se ne intendeva ed era del mestiere, tavoleggiante al caffè della Rosa, lì a San Celso. L'Orbo, accorso all'odor del trattamento, andava dicendo che Tonino era figlio della prima erbaiuola del Verziere, e poteva spendere. Ma la ragazza voleva tornare a ballare, to'! Era venuta pel veglione. Poi non aveva più sete; grazie tante; un'altra volta. Tonino più s'accendeva:
- Ancora un valzer, bellezza! - E ci si metteva tutto, col suo bel garbo di giovane di caffè, pettinato a ricciolini, dimenando il busto, le gambe che s'intrecciavano a quelle di lei, e sotto il naso quel petto che gli infarinava il vestito. - Mi lasci andare, caro lei, in parola d'onore. Ci ho lì il mio ballerino che mi ha pagato il costume, quel turco che fa gli occhiacci. Se vuol venire a trovarmi sa dove sto di casa, a San Vittorello; cerchi dell'Assunta -.


Tonino, rosso come un gallo, gli avrebbe mangiato il naso a quel turco, anima sacchetta! L'Orbo, che gli stava alle costole non avendo altro da fare, lo calmava così:

- Finiscila, e andiamo a bere -.


Là fuori aspettavano Marco il Nano e Basletta, masticando un mozzicone di sigaro, e colle mani in tasca. Per scaldarsi andarono insieme dal Gaina. Tonino, che gli bruciava il sangue dal bere e dalla gelosia, ed anche di quel che gli dicevano che stesse sotto le gonnelle di sua sorella, sbraitava che voleva fare uno sproposito, porca l'oca! Voleva andare ad aspettare l'Assunta in barba al turco, proprio sulla sua porta, a San Vittorello! E gli altri, Marco il Nano e Basletta, a ridergli sul naso.


Lui, per mostrare che era in sensi, non l'avrebbero tenuto in quattro. - Lascia andare, via! A quest'ora non ci aprono più ti dico. Piuttosto andiamo dal Malacarne che ha il valpolicella buono! - Tonino, buon figliuolo, da un momento all'altro, dimenticava ogni cosa e si lasciava condurre dove volevano, allegro come un pesce, sgolandosi a cantare la 'Mariettina', e come incontravano delle maschere gli gridavano dietro delle porcherie.


Il Nano che aveva il vino donnaiuolo, tornò al discorso dell'Assunta, un bel tocco di ragazza, per bacco, con quel vestito da selvaggia! E allora Tonino s'infuriava coi compagni che non lo lasciavano andare dove gli pareva e piaceva, e lo tenevano davvero per un ragazzo! Così leticando, e colla lingua grossa, avevano fatto senza accorgersene il Corso di San Celso e via Maddalena, che Tonino alla cantonata si mise a correre per via San Vittorello, e voleva che gli aprissero a ogni costo, giacché di sopra c'era ancora il lume. Le donne al sentire i sassi alle finestre e i calci con cui picchiavano alla porta, si misero a gridare come se venissero ad accopparle, e non per altro.


Magnocchi il quale era ancora di sopra coi compagni, scese in istrada.


- Cosa venivano a cercare? Volevano un salasso pel vino che avevano in corpo? - Te lo darò io il salasso, barabba! - Nel parapiglia si udì gridare:
- Ahi! m'ammazzano! - E l'Orbo fu appena in tempo di buttar via la chiave con cui Tonino aveva rotto il capo a quell'altro, che il ragazzo, pallido come un morto, non sapeva da che parte scappare, e già si udivano gli stivali delle guardie.


Ai parenti andarono a dirglielo il giorno dopo, mentre la sora Gnesa disfaceva il banco, e la Barberina, fuori la baracca, guardava inquieta di qua e di là se spuntasse il fratello, perché il padrone del caffè l'aveva mandato a cercare. Fu l'Adele, la ragazza del barbiere che era venuta a vedere se ci avessero ancora due soldi di ravanelli rossi, per dopo tavola, e l'aveva sentita in bottega. - Hanno ammazzato quel che vende i nastri in via San Vittorello, e Tonino era nella rissa -. Per fortuna il Magnocchi non era morto; ma le donne, madre e figlia, si misero a strillare che Tonino li aveva precipitati. In un momento tutto il Verziere fu in rivoluzione. Barberina afferrò in mano le sottane, e via a chiamare il babbo, che solennizzava la domenica grassa dall'Ambrogio, il primogenito, il quale teneva pizzicheria in via della Signora. - Hanno arrestato Tonino in via San Vittorello! - Il sor Mattia, ancora male in gambe, prese il cappello per correre a San Fedele, e Ambrogio anche lui, scongiurando la sorella di chetarsi, per non rovinargli il negozio. In Questura li accolsero come cani, padre e figlio. Li lasciavano lì, sulla panchetta, senza che nessuno gli badasse, a far perdere tempo al pizzicagnolo, quella giornata, col cappello fra le mani. Il maresciallo che lo conosceva, gli disse burbero:
- Torni domattina. Ha un bell'arnese di fratello, sa! - Poi Tonino escì a libertà, col cappelluccio sulle ventitré. Alla sora Gnesa che piagnucolava e brontolava, rimbeccò:
- Orsù!

finitela, mamma! Che son stufo, veh! - E accese la pipetta. La Barberina invece non voleva finirla. Gli strillava che era un boia, e loro marcivano sotto la tenda in Verziere per mantener il signorino in prigione e pagargli i vizi.


Tanto che il fratello voleva darle due ceffoni, e fregarle quella sua faccia di pettegola colla sua stessa insalata, fregarle! In quella arrivò il babbo, e si rimise la pipa in tasca, mogio mogio.


- Brigante! - cominciò il sor Mattia. - Cattivo arnese! non vedi come si lavora noi, tua mamma, tua sorella e Ambrogio? Ti pare che abbiamo a mantenere i tuoi vizi? Prima che ti accoppino gli sbirri voglio strozzarti colle mie mani piuttosto! Voglio romperti le ossa!

- Ohè! - sclamava Tonino pallido come un cencio, e schermendosi coi gomiti. - Ohè! non giocate colle mani, babbo! non giocate! - La sora Gnesa strillava peggio di un oca, e la Barberina faceva accorrere tutto il Verziere. Il babbo diceva le sue ragioni a tutti. Per dargli uno stato aveva messo Tonino cameriere al caffè della Rosa, uno dei primi, e il padrone era suo amico. Quando si fosse impratichito si poteva aprir bottega anche loro; Ambrogio pizzicagnolo, le donne erbaiuole, lui al banco, tutta un'architettura che faceva rovinare quello scapestrato! Il sor Mattia soffocava dalla bile. Per non lasciarsi andare a qualche sproposito se ne tornò in via della Signora.


Ambrogio corse a trovare il padrone del caffè, pregandolo di ripigliare Tonino, che era pentito e prometteva di far giudizio.


- Caro lei, è impossibile. Nel mio mestiere è un affare serio. Ora che in questura hanno preso gusto a vostro fratello, non mi piace di vedermi quelle facce tutto il giorno in bottega, che vengono a cercarmelo in cucina e dietro il banco. Ci va del mio negozio. Voi lo pigliereste? - Ambrogio non voleva che suo fratello bazzicasse neppure nella sua bottega, dacché un questurino gli aveva battuto sulla spalla come a un vecchio amico.


Le donne, il babbo e tutti si sfogavano allora sul malcapitato, buono a nulla, che restava di peso alla famiglia, e nessuno lo voleva. - Ero buono soltanto quando portavo a casa i denari delle mance! - brontolava il ragazzone, che gli facevano mancare quel che si dice il bisognevole, e lo tenevano in casa come un pitocco.


Un giorno che Basletta lo incontrò a girandolare fra i banchi del mercato esclamò:

- Tò! Sei qui? È un pezzo che non ti si vede. Mi paghi da bere? - Tonino rispose che non aveva soldi. I suoi di casa gli avevano fatte delle scene per quella storia di San Vittorello. Basletta, come passavano vicino alla baracca della sora Gnesa, adocchiò la Barberina che ammazzolava delle rape, colle belle braccia rosse, nude sino al gomito.


- Finiscila! - borbottò Tonino. - Non mi piacciono gli scherzi a mia sorella. - - Guarda! adesso che sei stato in tribunale ti sei fatto permaloso! Non te la mangio mica tua sorella! Bel modo di accogliere la gente! - Voleva condurlo a salutar gli amici, cent'anni che non lo vedevano. Tonino, nicchiava. - Bestia! pel conto che fanno di te i tuoi parenti! Piantali, via -.


Ai Buoni Amici trovarono l'Orbo, che voleva salutar Tonino anche lui, e giuocava a briscola in un cantuccio con dei carrettieri. Al Verziere non ci veniva più, perché la sora Gnesa lo accusava di guastargli il figliuolo, e Barberina gli faceva delle partacce. - Un gendarme, quella ragazza! - Poi dissero che volevano andare a cercare il Nano, il quale aveva disertato dai Buoni Amici dacché l'oste non gli faceva più credito.


Prima di scovare dove avesse dato fondo il Nano dovettero girare mezza dozzina d'osterie. Marco adesso era come un uccello sul ramo, dacché aveva piantato i Buoni Amici. L'Orbo, che aveva vinto a briscola, pagò due volte da bere. Poi col Nano si abbracciarono e baciarono come se uscissero tutti di prigione; e stavolta pagò il Nano.


- Voi altri, - conchiuse, - vi fate ancora rubare i quattrini da quel dei Buoni Amici. - Belli, quelli amici! Tutte guardie travestite, la sera! - Sicché, per farla corta, escirono in istrada ch'era acceso il gas, e Basletta doveva ancora andare a fare la mezza giornata del lunedì col principale, che l'aspettava in via dei Bigli, - c'era da mettere dei tappeti, prima di sera, che arrivavano i padroni! - Orbè! - rispose il Nano. - Arriveranno senza tappeti, e il principale aspetterà. Io ho piantato il mio, e piglio lavoro in casa, quando capita, da ebanista. È che ci vogliono capitali. Ma intendo lavorare a modo mio -.


L'Orbo non gliene importava, perché s'era guadagnata la giornata a briscola. Egli non aveva mestiere fisso. Faceva di tutto, facchino, tosatore di cani, stalliere, sensale. Guadagnava dippiù, ed era libero come l'aria. - Viva la libertà! - esclamò Basletta.


- Quando verrà la repubblica non ci saranno più né giovani né principali -.


E tutti e quattro andavano ciondolando sul bastione, cantando a squarciagola, e giuocando a spintoni verso il fossato.


Prima d'arrivare a Porta Romana videro luccicare nel buio le placche dei carabinieri. Risposero che tornavano dal lavoro.


Tonino allora salutò la compagnia.


- Torna a casa, va, ragazzo! Se no la Barberina ti dà le sculacciate! - gli gridavano dietro.


- Dacché è stato a San Fedele quel ragazzo è diventato un pulcino bagnato, - disse l'Orbo. Ma ei non dava retta. All'Orbo, che lo stuzzicava più davvicino, gli diede una gomitata che quasi lo faceva ruzzolare nel fossato.


In casa aiutava al negozio delle donne. Si alzava di notte, per scaricare i carri degli ortolani, rizzava il banco, accendeva il caldaro per le bruciate. Più tardi scambiava delle barzellette coi banchi vicini, giuocava di mano colle servotte, pispolava alle ragazze che passavano. Poi sbadigliava e si stirava le braccia.


Ogni giorno leticava colla sorella che gli lesinava il soldo per la pipa.


- Gli serve per quelle donnacce di via Pantano, che gli fanno pissi pissi dietro le persiane! - borbottava la Barberina. Ella non avrebbe dato un cavolo a credenza neppure al sor Domenico, il vinaio lì sulla cantonata, che era un uomo stagionato e facoltoso, e doveva sposarla. Tutta intenta al suo negozio, quella ragazza!

Il sor Domenico stesso, alle volte, si muoveva a compassione del ragazzaccio, e gli dava il soldo ridendo. Tonino, rosso come un pomodoro, lo prendeva perché dovevano essere cognati; ma gli cuoceva dentro, perbacco!

- Lavora! - gli rinfacciava il sor Mattia. - Fa quello che facciamo noi, poltronaccio! - E non si sarebbe mosso per cento lire dal suo posto, accanto al banco del pizzicagnolo, colle mani in croce sul bastone.


Gli amici, ogni volta che incontravano Tonino, gli dicevano:

- O scioccone! non vedi che ti tengono peggio di un cane? Fossi in te li pianterei, loro e il pane che ti fanno sudare -.


L'Orbo aggiungeva che lui non voleva mischiarcisi, perché la Barberina minacciava di cavargli gli occhi, se lo vedeva bazzicare con suo fratello.


- Un accidente, quella ragazza! - Ora lui cercava di vivere in pace e avere il suo pane assicurato. S'era messo a fare il facchino in una drogheria. Un buon impiego, niente da fare, e qualcosa spesso da mettersi in tasca. Tonino giurava che a lui gli bastava l'animo di pestargli il muso come i gatti, a sua sorella.


Volevano vedere?

Ai Buoni Amici era una vergogna dovere accettare sempre le gentilezze degli altri; o se facevano un litro alla mora, e gli toccava pagarlo, esser costretto a segnarlo sul muro, col carbone.


Gli davano a credenza perché sapevano di chi era figlio, e che in fin dei conti avrebbe pagato. Inoltre s'ingegnava con le carte da giuoco, a briscola o a zecchinetta, talché alle volte andava a finire a pugni e a calci, e l'oste li cacciava tutti fuori, per non compromettere l'osteria. Già i questurini la tenevano d'occhio, a motivo di quelle facce che vi bazzicavano, e ogni volta che c'era da fare una retata per primo mettevano le mani ai Buoni Amici.


Aveva ragione il Nano di dire che quel posto era peggio del bosco della Merlata. Non si era mai sicuri d'andare a dormire nel suo letto, quando si passava la sera in quella bettola. Ma egli stesso vi era tornato per la malinconia di non poterne fare a meno. Là si radunavano l'Orbo, Basletta, ed altri amici dello stesso fare, che alle volte conducevano pure delle donne, e si stava allegri, mondo birbone!

A trovare il Basletta veniva spesso Lippa, una bruna alta appena così, ma col diavolo in corpo, e dicevano che doveva sposarla 'in estremis'. Basletta brontolava quando lo chiappava a cena; ma ella gli ficcava le mani nel piatto senza domandare il permesso, e come non bastasse, alle volte, si tirava dietro anche la Bionda, magra e allampanata, che ci volevano gli spintoni per risolverla ad entrare, e si mangiava i piatti cogli occhi. Tonino stesso, per compassione, una volta l'aveva invitata, e così s'era fatta la conoscenza. Dopo venivano fuori a passeggiare all'aria aperta sul bastione.


- Mia sorella non vuol capirla che alla mia età ho bisogno di denari anch'io! - brontolava fra di sé. - Gli par che tutti non abbiano altro in mente fuori del negozio, come il suo vinaio.


- E tu ingégnati! - gli rispose l'Orbo. Marco il Nano in quei giorni aveva fatto un negozio, che arrivava sempre colle tasche piene, e gli altri ne parlavano sottovoce fra di loro. Le guardie di questura quando venivano a fiutare il vento, e vedevano che cambiavano discorso, o tacevano subito, battevano sulla spalla di Tonino, e gli ripetevano:
- Bada bene, che ci torni a San Fedele!

- La Bionda, se leticavano sul bastione, perché Tonino era geloso, gli diceva colla faccia pallida:
- Hai ragione, tò! ma io sono una povera ragazza, e bisogna che m'aiuti! - Lui si struggeva sentendosela spiattellare in faccia, con quella voce calma, e quegli occhi grigi che lo guardavano tranquillamente sotto il lampione. Spesso erano insieme, lui, l'Orbo e Marco il Nano colla Bionda, briachi tutti e quattro, che ogni volta allungavano le manacce Tonino avrebbe fatto un omicidio. E poi da solo ruminava ciò che gli rinfacciava la Barberina, che bisognava prima d'ogni altro ingegnarsi.


E s'ingegnò davvero. La Barberina non sapeva che dovesse ingegnarsi appunto col suo cassetto, una notte che tutti dormivano in bottega, e che si era messo a lavorare attorno al banco con un chiodo storto in punta. Fatto il tiro spalancò l'uscio, e si mise a gridare al ladro, come se la Barberina fosse donna da lasciarsi infinocchiare. Ma essa lo abbrancò pel collo, in camicia com'era, e voleva mandarlo in galera senza dar retta a lui che giurava e spergiurava, colle mani in croce, di non saper nulla. Accorsero la mamma, Ambrogio e il sor Mattia, a fargli vomitare il morto, e così lo cacciarono via nudo e crudo, che la Bionda, quando lo vide arrivare con quella faccia, non ebbe il coraggio di chiudergli l'uscio sul naso.


L'Orbo, che era diventato amico di casa, gli predicava:
- Se vuoi vivere alle spalle di quella povera ragazza, sei un maiale ve'! - Lei pure gli seccava d'averlo sempre attaccato alle sottane, che non gli lasciava mezz'ora di libertà colla sua gelosia; e lo mandava a lavorare. Egli sospettava che fosse per godersela insieme all'Orbo.


- Ti giuro che voglio bene soltanto a te! - rispondeva lei. - Ma che vuoi farci? Non son mica una signora! - E lui se ne andava, col cuore stretto in un pugno.


Un bel giorno arrestarono il Nano e Basletta, per un furto di certi pacchi di candele nella drogheria dov'era l'Orbo, e Tonino pure, col pretesto che l'avevano trovato sul canto di via Armorari a far la guardia. Lui e il suo avvocato giuravano che era a far tutt'altro, e ci si trovava per una sua occorrenza. Ma fu inutile:

lo condannarono alla prigione. Nel carcere però correva voce che la Bionda s'era messa coll'Orbo, e aveva fatto la spia per levarsi Tonino di fra i piedi, e papparsi le tre lire della denuncia.


Tonino non voleva crederci; eppure il babbo, la mamma, suo fratello Ambrogio, persino la Barberina, erano venuti a visitarlo in carcere, rinfacciandogli che glielo avevano predetto. - Ma tant'è, erano venuti! E lui piangeva e si sentiva alleggerire il cuore. - Ma la Bionda no!

Dicevano che avevano visto l'Orbo coi panni di Tonino, una giacchetta a scacchi, che era ancora nel cassettone della Bionda, quando l'avevano arrestato.




Camerati


- Malerba? - Presente! - Qui ci manca un bottone, dov'è? - Io non so, caporale. - Consegnato! - Sempre così: il cappotto come un sacco, i guanti che gli davano noia, e non sapere più cosa farsi delle mani, la testa più dura di un sasso all'istruzione e in piazza d'armi. Selvatico poi! Di tutte le belle città dove si trovava di guarnigione, non andava a vedere né le strade, né i palazzi, né le fiere, nemmeno i baracconi o le giostre di legno.


L'ora di sortita se la passava vagabondo per le vie fuori porta, colle braccia ciondoloni, o stava a guardare le donne che strappavano l'erba, accoccolate per terra in piazza Castello; oppure si piantava davanti il carrettino delle castagne, e senza spendere mai un soldo. I camerati si divertivano alle sue spalle.


Gallorini gli faceva il ritratto sul muro col carbone, e il nome sotto. Egli lasciava fare. Ma quando gli rubavano per ischerzo i mozziconi che teneva nascosti nella canna del fucile, imbestialiva, e una volta andò in prigione per un pugno che accecò mezzo il Lucchese - si vedeva ancora il segno nero - e lui cocciuto come un mulo a ripetere:
- Non è vero. - O allora, chi gli ha dato il pugno al Lucchese? - Non so -. Poi stava seduto sul tavolaccio, col mento fra le mani. - Quando torno al mio paese! - Non diceva altro.


- Infine, conta su. Ci hai l'amante al tuo paese? - domandava Gallorini. Egli lo fissava, sospettoso, e dimenava il capo. Né sì né no. Poscia si metteva a guardare lontano. Ogni giorno con un pezzetto di lapis faceva un segno su di un piccolo almanacco che aveva in tasca.


Gallorini invece ci aveva l'amante. Un donnone coi baffi che gli avevano visto insieme al caffè una domenica, seduti con un bicchier di birra davanti, e aveva voluto pagar lei. Il Lucchese se ne accorse ronzando lì intorno colla Gegia, la quale non gli costava mai nulla. Egli trovava delle Gegie dappertutto, colla sua parlantina graziosa, e perché non si avessero a male d'esser messe tutte in fascio sin pel nome, diceva che quello era l'uso del suo paese, quando una vi vuol bene, si chiami, Teresa, Assunta o Bersabea.


In quel tempo cominciò a correre la voce che s'aveva a far la guerra coi Tedeschi. Va e vieni di soldati, folla per le strade, e gente che veniva a vedere l'esercizio in Piazza d'Armi. Quando il reggimento sfilava fra le bande e i battimani, il Lucchese marciava baldanzoso come se la festa fosse stata fatta a lui, e Gallorini non la finiva più di salutare amici e conoscenti, col braccio sempre in aria, che voleva tornar morto o ufficiale, diceva.


- Tu non ci vai contento alla guerra? - domandò a Malerba quando fecero i fasci d'armi alla stazione.


Malerba si strinse nelle spalle, e seguitò a guardar la gente che vociava e gridava:
- Evviva! - Il Lucchese vide pur la Gegia, curiosa, la quale stava a vedere da lontano, in mezzo alla folla, tenendosi alle costole un ragazzaccio in camiciotto che fumava la pipa. - Questo si chiama mettere le mani avanti! - borbottava il Lucchese, che non poteva allontanarsi dalle file, e a Gallorini domandava se la sua s'era arruolata nei granatieri, per non lasciarlo.


Era come una festa dappertutto dove arrivavano. Bandiere, luminarie, e i contadini che correvano sull'argine della strada ferrata, a veder passare il treno zeppo di chepì e di fucili. Ma alle volte poi la sera, nell'ora in cui le trombe suonavano il silenzio, si sentivano prendere dalla melanconia della Gegia, degli amici, di tutte le cose lontane. Appena arrivava la posta al campo correvano in folla a stendere le mani. Malerba solo se ne stava in disparte grullo, come uno che non aspettava nulla. Egli faceva sempre il segno nell'almanacco, giorno per giorno. Poi stava a sentire la banda, da lontano, e pensava a chi sa cosa.


Una sera finalmente successe un gran movimento nel campo.


Ufficiali che andavano e venivano, carriaggi che sfilavano verso il fiume. La sveglia suonò due ore dopo mezzanotte; nondimeno distribuivano già il rancio e levavano le tende. Poscia il reggimento si mise in marcia.


La giornata voleva esser calda. Malerba, il quale era pratico, lo sentiva alle buffate di vento che sollevavano il polverone. Poi era piovuto a goccioloni radi. Appena cessava l'acquata, di tratto in tratto, e lo stormire del granoturco, i grilli si mettevano a cantare forte nei campi, di qua e di là dello stradale. Il Lucchese che marciava dietro a Malerba si divertiva alle sue spalle:
- Su le zampe, camerata! Cos'hai che non dici nulla? Pensi forse al testamento? - Malerba con una spallata s'assestò lo zaino sulle spalle, e borbottò:
- Cammina! - Lascialo stare, - prese a dire Gallorini. - Sta pensando all'innamorata, che se l'ammazzano i Tedeschi ne piglia un altro.


- Cammina tu pure! - rispose Malerba.


All'improvviso nella notte passò il trotto di un cavallo, e il tintinnìo di una sciabola, fra le due file del reggimento che marciavano dai due lati della strada.


- Buon viaggio! - disse poi il Lucchese, che era il buffo della compagnia. - E tanti saluti ai Tedeschi, se li incontra -.


A destra, in una gran macchia scura, biancheggiava un caseggiato.


E il cane di guardia latrava furibondo, correndo lungo la siepe.


- Quello è cane tedesco, - osservò Gallorini, che voleva dire la barzelletta come il Lucchese. - Non lo senti all'abbaiare? - La notte era ancora profonda. A sinistra come sopra un nugolone nero, che doveva essere collina, spuntava una stella lucente.


- O che ora sarà mai? - domandò Gallorini. Malerba levò il naso in aria, e rispose tosto:

- Ci vorrà almeno un'ora a spuntare il sole!

- Che sugo! - brontolò il Lucchese. - Farci far la levataccia per un bel nulla!

- Alt! - ordinò una voce breve.


Il reggimento scalpicciava ancora, come una mandra di pecore che si aggruppi. - O chi s'aspetta? - borbottò il Lucchese dopo un pezzetto. Passò di nuovo un gruppo di cavalieri. Stavolta nell'alba che cominciava a rompere si videro sventolare le banderuole dei lancieri, e avanti un generale, col berretto gallonato sino in cima, e le mani ficcate nelle tasche dello spenser. Lo stradale cominciava a biancheggiare, diritto, in mezzo ai campi ancora oscuri. Le colline sembravano spuntare ad una ad una nel crepuscolo incerto; e in fondo si vedeva un fuoco acceso, forse di qualche boscaiuolo, o di contadini che erano scappati dinanzi a quella piena di soldati. Gli uccelletti, al mormorio, si svegliavano a cinguettare sui rami dei gelsi che si stampavano nell'alba.


Poco dopo, a misura che il giorno andavasi schiarendo si udì un brontolìo cupo verso la sinistra, dove l'orizzonte s'allargava in un chiarore color d'oro e color di rosa, come se tuonasse, e faceva senso in quel cielo senza nuvole. Poteva essere il mormorio del fiume o il rumore dell'artiglieria in marcia. Ad un tratto corse una voce:
- Il cannone! - E tutti si voltavano a guardare verso l'orizzonte color d'oro.


- Io sono stanco! - brontolò Gallorini. - Ormai dovrebbe far l'alto! - appoggiò il Lucchese.


Le chiacchiere andavano morendo a misura che i soldati si avanzavano nella giornata calda, fra le strisce di terra bruna, di seminati verdi, le vigne che fiorivano sulle colline, i filari di gelsi diritti sin dove arrivava la vista. Qua e là si vedevano dei casolari e delle cascine abbandonate. Accostandosi ad un pozzo, per bere un sorso d'acqua, videro degli arnesi a terra, accanto all'uscio di un cascinale, e un gatto che affacciava il muso fra i battenti sconquassati, miagolando.


- Guarda! - fece osservare Malerba. - Ci hanno il grano in spiga, povera gente!

- Vuoi scommettere che non ne mangi di quel pane? - disse il Lucchese.


- Sta' zitto, jettatore! - rispose Malerba. - Io ci ho l'abitino della Madonna -. E fece le corna colle dita.


In quella si udì tuonare anche a sinistra, verso il piano. Da principio, dei colpi rari, che echeggiavano dal monte. Poscia un crepitìo come di razzi, quasi il villaggio fosse in festa. Al di sopra del verde che coronava la vetta si vedeva il campanile tranquillo, nel cielo azzurro.


- No, non è il fiume - disse Gallorini.


- E neppure dei carri che passano.


- Senti! senti! - esclamò Gallorini. - Laggiù la festa è cominciata.


- Alt! - ordinarono ancora. Il Lucchese ascoltava, colle ciglia in arco, e non diceva più nulla. Malerba aveva vicino un paracarro, e ci s'era messo a sedere, col fucile fra le gambe.


Il cannoneggiamento doveva essere in pianura. Si vedeva il fumo di ogni colpo, come nuvolette dense, che si levavano appena al di sopra dei filari di gelsi, e si squarciavano lentamente. I prati scendevano quieti verso la pianura, con il canto delle quaglie fra le zolle.


Il colonnello, a cavallo, parlava con un gruppo d'ufficiali, fermi sul ciglione della strada, guardando di tratto in tratto verso la pianura col cannocchiale. Appena si mosse al trotto, le trombe del reggimento squillarono tutte insieme:
- Avanti! - A destra e a sinistra si vedevano dei campi nudi. Poi qualche pezza di granoturco ancora. Poi delle vigne, poi delle gore d'acqua, infine degli alberetti nani. Spuntavano le prime case di un villaggio; e la strada era ingombra di carriaggi e di vetture.


Un vocìo, un tramestìo da sbalordire.


Sopraggiunse di galoppo un cavalleggiero, bianco di polvere. Il suo cavallo, un morello tozzo e tutto crini, aveva le narici rosse e fumanti. Indi passò un ufficiale di stato maggiore, gridando come un ossesso di sgombrare la strada, picchiando colla sciabola a diritta e a manca su quei poveri muli borghesi. Attraverso gli olmi del ciglione si videro sfilare correndo dei bersaglieri neri, colle piume al vento.


Ora si erano messi per una stradicciuola che piegava a diritta. I soldati rompevano in mezzo al seminato, talché a Malerba gli piangeva il cuore. Sulla china di un monticello, videro un gruppo d'ufficiali a cavallo, con la scorta di lancieri dietro, e i cappelli a punta di carabinieri. Tre o quattro passi innanzi, a cavallo e col pugno sull'anca, c'era un pezzo grosso a cui i generali rispondevano colla mano alla visiera, e gli ufficiali passandogli dinanzi, salutavano colla sciabola.


- O chi è colui? - chiese Malerba.


- Vittorio, - rispose il Lucchese. - Che non l'hai mai visto nei soldi, sciocco! - I soldati si voltavano a guardare, finché potevano. Poscia Malerba osservò fra sé:
- Quello è il Re! - Più in là c'era un torrentello asciutto. L'altra riva coperta di macchie saliva verso il monte, sparso di olmi scapitozzati. Il cannoneggiamento non si udiva più. Un merlo a quella pace s'era messo a fischiare nella mattinata chiara.


Tutt'a un tratto scoppiò come un uragano. La vetta, il campanile, ogni cosa fu avvolta nel fumo. Dei rami d'albero che scricchiolavano, della polvere che si levava qua e là nella terra, ad ogni palla di cannone. Una granata spazzò via un gruppo di soldati. In cima della collina si udivano di tratto in tratto delle grida immense, come degli urrà. - Madonna santa! - balbettò il Lucchese. I sergenti andavano ordinando di mettere a terra i zaini. Malerba obbedì a malincuore perché ci aveva due camicie nuove e tutta la sua roba.


- Lesti! lesti! - andavano dicendo i sergenti. Da una stradicciuola sassosa arrivarono di galoppo alcuni pezzi d'artiglieria, con un fragore di terremoto; gli ufficiali avanti, i soldati curvi sulla criniera irta dei cavalli fumanti, frustando a tutto andare, i cannonieri aggrappati ai mozzi e alle ruote, che spingevano su per l'erta.


In mezzo al rumore furioso delle cannonate si vide rovinare fuggendo per la china un cavallo ferito, colle tirelle pendenti, nitrendo, scavezzando viti, sparando calci disperati. Più giù, a frotte, soldati laceri, sanguinosi, senza chepì, che agitavano le braccia. Infine dei drappelli interi che rinculavano passo passo, fermandosi a far fuoco alla spicciolata, in mezzo agli alberi.


Trombe e tamburi suonarono la carica. Il reggimento si slanciò alla corsa su per l'erta, come un torrente d'uomini.


Al Lucchese gli parlava il cuore:
- Che furia per quel che ci aspetta lassù! - Gallorini gridava: - Savoia! - E a Malerba che aveva il passo pesante:
- Su le zampe, camerata! - Cammina! - ripeteva Malerba.


Appena sulla vetta, in un praticello sassoso, si trovarono di faccia ai Tedeschi che si avanzavano fitti in fila. Corse un lungo lampo su quelle masse che formicolavano; la fucilata crepitò da un capo all'altro. Un giovanetto ufficiale, escito allora dalla scuola, cadde in quel momento, colla sciabola in pugno. Il Lucchese annaspò alquanto, colle braccia aperte, come se inciampasse, e cadde egli pure. Ma dopo non si vide più nulla. Gli uomini si azzuffavano petto a petto, col sangue agli occhi.


- Savoia! Savoia! - Infine i Tedeschi ne ebbero abbastanza, e cominciarono a dare indietro passo passo. I cappotti grigi li inseguivano a stormi.


Malerba nella furia del correre, pigliò come una sassata che lo fece zoppicare. Poi si accorse che gli colava il sangue pei pantaloni. Allora infuriato come un bue si slanciò a testa bassa, menando baionettate. Vide un gran diavolo biondo che gli veniva addosso con la sciabola sul capo, e Gallorini che gli appuntava alla schiena la bocca del fucile.


Le trombe suonavano a raccolta. Ora tutto quello che restava del reggimento, a stormi, a gruppi, correva verso il villaggio, che rideva al sole, in mezzo al verde. Però alle prime case si vide la carneficina che ci era stata. Cannoni, cavalli, bersaglieri feriti, tutto sottosopra. Gli usci sfondati, le imposte delle finestre che pendevano come cenci al sole. In fondo a una corte c'era un mucchio di feriti per terra, e un carro colle stanghe in aria, ancora carico di legna.


- E il Lucchese? - domandò Gallorini senza fiato.


Malerba l'aveva visto cadere. Nondimeno si voltò indietro per istinto verso il monte che formicolava di uomini e di cavalli. Le armi luccicavano al sole. Si vedevano, in mezzo alla spianata, degli ufficiali a piedi, i quali guardavano lontano col cannocchiale. Le compagnie calavano ad una ad una per la china, con dei lampi che correvano lungo le file.


Potevano essere le 10 - le 10 del mese di giugno, al sole.


Un ufficiale s'era buttato come arso sull'acqua dove lavavano gli scopoli dei cannoni. Gallorini stava disteso bocconi contro il muro del cimitero, colla faccia sull'erba; là almeno, dalle fosse, nell'erba folta, veniva un po' di frescura. Malerba, seduto per terra, s'ingegnava a legarsi come poteva la gamba col fazzoletto.


Pensava al Lucchese, poveretto, che era rimasto per via, a pancia in aria.


- Tornano! tornano! - si udì gridare. La tromba chiamava all'armi.


Ah! stavolta era proprio stufo Gallorini! Nemmeno un momento di riposo! Si alzò come una bestia feroce, tutto lacero, e afferrò il fucile. La compagnia si schierava in fretta, alle prime case del paesetto, dietro i muri, alle finestre. Due pezzi di cannone allungavano la gola nera in mezzo alla strada. Si vedevano venire i Tedeschi in file serrate, un battaglione dopo l'altro, che non finivano mai.


Là fu colpito Gallorini. Una palla gli ruppe il braccio. Malerba lo voleva aiutare. - Che cos'hai? - Nulla, lasciami stare -. Il tenente faceva anche lui alle fucilate come un semplice soldato, e bisognò correre a dargli una mano, Malerba dicendo ad ogni colpo:

- Lasciate fare a me che è il mio mestiere! - I Tedeschi scomparvero di nuovo. Poi fu ordinata la ritirata. Il reggimento non ne poteva più. Fortunati Gallorini e il Lucchese che riposavano. Gallorini s'era seduto a terra, contro il muro, e non si voleva più muovere. Erano circa le 4, più di otto ore che stavano in quella caldura colla bocca arsa di polvere. Però Malerba ci aveva preso gusto e domandava:
- Ora che si fa? - Ma nessuno gli dava retta. Scendevano verso il torrentello, accompagnati sempre dalla musica che facevano le cannonate sul monte. Poscia da lontano videro il villaggio formicolare di uniformi di tela. Non si capiva nulla, né dove andavano, né cosa succedeva. Alla svolta di un ciglione s'imbatterono nella siepe dietro la quale il Lucchese era caduto. E neppure Gallorini non c'era più. Tornavano indietro alla rinfusa, visi nuovi che non si conoscevano, granatieri e fanteria di linea, dietro agli ufficiali che zoppicavano, laceri, strascinando i passi, col fucile pesante sulle spalle.


Calava la sera tranquilla, in un gran silenzio, dappertutto.


A ogni tratto si incontravano carri, cannoni, soldati che andavano al buio, senza trombe e senza tamburi. Quando furono di là del fiume, seppero che avevano persa la battaglia.


- O come? - diceva Malerba. - O come? - E non sapeva capacitarsi.


Poi, terminata la ferma, tornò al suo paese, e trovò la Marta che s'era già maritata, stanca d'aspettarlo. Anche lui non aveva tempo da perdere, e prese una vedova, con del ben di Dio. Qualche tempo dopo, lavorante alla ferrovia lì vicino, arrivò Gallorini, con moglie e figli anche lui.


- Tò Malerba! O cosa fai tu qui? Io faccio dei lavori a cottimo.


Ho imparato il fatto mio all'estero, in Ungheria, quando m'hanno fatto prigioniero, ti rammenti? Mia moglie m'ha portato un capitaletto... Mondo ladro, eh? Credevi fossi arricchito? Eppure il nostro dovere l'abbiamo fatto. Ma chi va in carrozza non siamo noi. Bisogna dare una buona sterrata, e tornare a far conto da capo -. Coi suoi operai ripeteva pure le stesse prediche, la domenica, all'osteria. Essi, poveretti, ascoltavano, e dicevano di sì col capo, sorseggiando il vinetto agro, ristorandosi la schiena al sole, come bruti, al pari di Malerba, il quale non sapeva far altro che seminare, raccogliere e far figliuoli. Egli dimenava il capo per politica, quando parlava il suo camerata, ma non apriva bocca. Gallorini invece aveva girato il mondo, sapeva il fatto suo in ogni cosa, il diritto e il torto; sopra tutto il torto che gli facevano, costringendolo a sbattezzarsi e lavorare di qua e di là pel mondo, con una covata di figliuoli e la moglie addosso, mentre tanti andavano in carrozza.


- Tu non ne sai nulla del come va il mondo! Tu, se fanno una dimostrazione, e gridano viva questo o morte a quell'altro, non sai cosa dire. Tu non capisci nulla di quel che ci vuole! - E Malerba rispondeva sempre col capo di sì. - Adesso ci voleva l'acqua pei seminati. Quest'altro inverno ci voleva il tetto nuovo nella stalla.




Seconda parte

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