Terza parte
Prima parte
Indice

Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Parte seconda




Il canarino del n. 15


Come il bugigattolo dei portinai non vedeva mai il sole, e avevano una figliuola rachitica, la mettevano a sedere nel vano della finestra, e ve la lasciavano tutto il santo giorno, sicché i vicini la chiamavano «Il canarino del n. 15».


Màlia vedeva passar la gente; vedeva accendere i lumi la sera; e se entrava qualcuno a chiedere di un pigionale rispondeva per la mamma, la sora Giuseppina, che stava al fuoco, o a leggere i giornali dei casigliani.


Sinché c'era un po' di luce faceva anche della trina, con quelle sue mani pallide e lunghe; e un giovanetto della stamperia lì dicontro, al veder sempre dietro i vetri quel visetto, che era delicato, e con delle pèsche azzurre sotto gli occhi, se n'era come si dice innamorato. Ma poi seppe la storia del canarino, e di mezza la persona che era morta sino alla cintola, e non alzò più gli occhi, quando andava e veniva dalla stamperia.


Ella pure ci aveva badato: tanto nessuno la guardava mai! e quel po' di sangue che le restava le tingeva come una rosa la faccia pallida, ogni volta che udiva il passo di lui sull'acciottolato.


La stradicciuola umida e scura le sembra gaia, con quello stelo di pianticella magra che si dondolava dal terrazzino del primo piano e quei finestroni scuri della tipografia dirimpetto, dov'era un gran lavorìo di pulegge, e uno scorrere di strisce di cuoio, lunghe, lunghe, che non finivano mai, e si tiravano dietro il suo cervello, tutto il giorno. Sul muro c'erano dei gran fogli stampati, che ella leggeva e tornava a leggere, sebbene li sapesse a memoria; e la notte li vedeva ancora, nel buio, cogli occhi spalancati, bianchi, rossi, azzurri, mentre si udiva il babbo che tornava a casa cantando con voce rauca:
- O Beatrice, il cor mi dice -.


Ella pure, la Màlia si sentiva gonfiare in cuore la canzone, quando i monelli passavano cantando e battendo gli zoccoli sul terreno ghiacciato, nella nebbia fitta. Ascoltava, ascoltava, col mento sul petto, e provava e riprovava la cantilena sottovoce, davvero come un canarino che ripassi la parte.


Diventava anche civettuola. La mattina, prima che la mettessero dietro la finestra, si lisciava i capelli, e ci appuntava un garofano, quando l'aveva, con quelle mani scarne. Come la Gilda, sua sorella, si attillava per andar dalla sarta, col velo nero sulla testolina maliziosa, e cutrettolava vispa vispa nella vestina tutta in fronzoli, la guardava con quel sorriso dolce e malinconico sulle labbra pallide, poi la chiamava con un cenno del capo, e voleva darle un bacio. Un giorno che la Gilda le regalò un fiocchetto di nastro smesso, ella si fece rossa dal piacere. Alle volte le moriva sulle labbra la domanda se nei giornali non ci fosse un rimedio per lei.


La poveretta non si stancava mai di aspettare che quel giovane tornasse ad alzare il capo verso la finestra. Aspettava, aspettava, cogli occhi alla viuzza, e le dita scarne che facevano andare la spoletta. Ma poi lo vide che accompagnava la Gilda, passo passo, tenendo le mani nelle tasche, e si fermarono ancora a chiacchierare sulla porta.


Si vedeva soltanto la schiena di lui, che le parlava con calore, e la Gilda pensierosa raspava nel selciato colla punta dell'ombrellino. Essa poi disse:

- Qui no, che c'è la Màlia a far la sentinella, ed è una seccatura -.


Alfine un sabato sera il giovanotto entrò anche lui insieme alla Gilda, e si misero a chiacchierare colla sora Giuseppina, che metteva delle castagne nella cenere calda. Si chiamava Carlini; era scapolo, compositore-tipografo, e guadagnava 36 lire la settimana. Prima d'andarsene diede la buona sera anche alla Màlia, che stava al buio nel vano della finestra.


D'allora in poi cominciò a venire sovente, poi quasi ogni sera. La sora Giuseppina aveva preso a volergli bene, pel suo fare ben educato, ché non veniva mai colle mani vuote: confetti, mandarini, bruciate, alle volte anche una bottiglia sigillata. Allora si fermava in casa anche il babbo della ragazza, il sor Battista, a chiacchierare col Carlini come un padre, dicendogli che voleva cucirgli lui il primo vestito nuovo, se mai. Egli ci aveva là il banco e le forbici da sarto, e il ferro da stirare, e l'attaccapanni, e lo specchio dei clienti. Adesso lo specchio serviva per la Gilda. Mentre il giovane aspettava l'innamorata, si metteva a discorrere colla Màlia; le parlava della sorella, le diceva quanto le volesse bene, e che incominciava a mettere dei soldi alla Cassa di Risparmio. Appena tornava la Gilda si mettevano a sussurrare in un cantuccio, bocca contro bocca, pigliandosi le mani allorché la mamma voltava le spalle.


Una sera egli le diede un grosso bacio dietro l'orecchio, mentre la sora Giuseppina sbadigliava in faccia al fuoco, e Carlini credeva che nessuno li vedesse, tanto che alle volte se ne andava senza pensare nemmeno che la Màlia fosse là, per darle la buonanotte. Una domenica arrivò tutto contento colla nuova che aveva trovata la casa che ci voleva: due stanzette a Porta Garibaldi, ed era anche in trattative per comprare i mobili dell'inquilino che sloggiava, un povero diavolo col sequestro sulle spalle, per via della pigione. Il Carlini era così contento che diceva alla Màlia:

- Peccato che non possiate venire a vederla anche voi! - La ragazza si fece rossa. Ma rispose:

- La Gilda sarà contenta lei -.


Ma la Gilda non sembrava molto contenta. Spesso il Carlini l'aspettava inutilmente, e si lagnava colla Màlia di sua sorella, che non gli voleva bene come lui gliene voleva, e gli lesinava le buone parole e tutto il resto. Allora il povero giovane non la finiva più coi piagnistei; raccontava ogni cosa per filo e per segno: che piacere le aveva fatto la tal parola, come sorrideva con quella smorfietta, come s'era lasciata dare quel bacio. Almeno provava un conforto nello sfogarsi colla Màlia. Gli pareva quasi di parlare colla Gilda, tanto la Màlia somigliava a sua sorella, nell'ombra, mentre lo ascoltava guardandolo con quegli occhi.


Arrivava perfino a prenderle la mano, dimenticando che era mezzo morta su quella seggiola.


- Guardate, - le diceva. - Vorrei che la Gilda foste voi, col cuore che avete! - Stava lì per delle ore, colle mani sui ginocchi, finche tornava la Gilda. Almeno udiva il trottarello lesto dei suoi tacchetti, e la vedeva arrivare con quel visetto rosso dal freddo, e quegli occhi belli che interrogavano in giro tutta la stanzetta al primo entrare. La Gilda era vanarella e ambiziosa; gli aveva proibito di accompagnarla colla sua camiciuola turchina da operaio, quando andava impettita per via. Una sera Màlia la vide tornare a casa in compagnia di un signorino, di cui la tuba lucida passava rasente al davanzale, e si fermarono sulla porta come faceva prima col Carlini. Ma a costui non disse nulla.


Il poveraccio s'era dissestato. La pigione di casa, i mobili da pagare, i regalucci per la ragazza, il tempo che perdeva: tanto che il direttore della tipografia gli aveva detto:
- A che giuoco giuochiamo? - Egli tornava a confidarsi colla Màlia, e la pregava:

- Dovreste parlagliene voi a vostra sorella -.


Gilda fece una spallucciata, e rispose alla Màlia:

- Piglialo tu -.


A capodanno il Carlini portò in regalo un bel taglio di lanina a righe rosse; tanto rosse che la Gilda diede in uno scoppio di risa, e disse che era adatta per qualche contadina di Desio o di Gorla, come le aveva viste a Loreto. Il giovanotto rimaneva mortificato con l'involto in mano, ripiegandolo adagio adagio, e lo offrì alla Màlia, se lo voleva lei.


Era il primo regalo che la Màlia riceveva e le parve una gran cosa. La sora Giuseppina, per scusare l'uscita della Gilda, prese a dire che quella ragazza era di gusto fine, come una signora, e non trovava mai cosa abbastanza bella pel suo merito. - Per quella figliuola là non sto mica in pena - soleva dire.


La Gilda infatti veniva a casa ora con una mantiglia nuova, che le gonfiava il seno tutto di frange, ora con le scarpine che le strizzavano i piedi, ed ora con un cappellaccio peloso che faceva ombra sugli occhi lucenti al pari di due stelle. Una volta portò un braccialetto d'argento dorato, con una ametista grossa come una nocciuola, che passò di mano in mano per tutto il vicinato. La mamma gongolava e strombazzava i risparmi che faceva la figliuola dalla sarta. La Màlia volle vedere anche lei; e il babbo stava per stendere le mani, e lo chiese in prestito per una sera, onde mostrarlo agli amici, dal tabaccaio e dal liquorista lì accanto.


Ma la Gilda si ribellò. Allora il sor Battista cominciò a gridare se ella tornava a casa tardi, e a sfogarsi con Carlini che perdeva il suo tempo e i regalucci dietro quell'ingrata, la quale non aveva cuore nemmeno pei genitori. Gilda un bel giorno gli levò l'incomodo di aspettarla più.


Malgrado le sbravazzate del sor Battista nella casa ci fu il lutto. La sora Giuseppina non fece altro che brontolare e litigare col marito tutta sera. Il sor Battista andò a letto ubbriaco. La Màlia udì sino all'alba il Carlini che aspettava passeggiando nella strada.


Poi la sora Carolina, che vendeva i giornali lì alla cantonata, venne a raccontare qualmente avevano vista la Gilda in Galleria, vestita come una signora. Il babbo giurò che voleva andare col Carlini in traccia del sangue suo, quella domenica, e l'accompagnarono a casa che non si reggeva in piedi.


Il Carlini si era affiatato col sor Battista. Lavorava soltanto quando non poteva farne a meno, ora qua e là nelle piccole stamperie, l'accompagnava all'osteria, e tornavano a braccetto. In casa s'era fatto come un della famiglia per abitudine. Accendeva il fuoco o il gas per le scale, menava la tromba, teneva sempre in ordine i ferri del sarto, caso mai servissero, e scopava anche la corte, per risparmiare la sora Giuseppina, giacché suo marito non stava in casa gran fatto. La sora Giuseppina, per gratitudine, voleva fargli credere che la Gilda gli volesse sempre bene, e sarebbe tornata un giorno o l'altro. Egli scuoteva il capo; ma gli piaceva discorrerne colla vecchia, o colla Màlia, che somigliava tutta a sua sorella. Gli pareva di alleggerirsi il cuore in tal modo, quando ella l'ascoltava fra chiaro e scuro, fissandolo con quegli occhi. E una volta che era stato all'osteria, e si sentiva una gran confusione dalla tenerezza, le diede anche un bacio.


La Màlia non gridò: ma si mise a tremare come una foglia. Già non c'era avvezza, e la mamma per lei non stava in guardia.


L'indomani, a testa riposata, Carlini era venuto a chiacchierare come il solito, spensierato e indifferente. Ma la poveretta si sentiva sempre quel bacio sulla bocca, col fiato acre di lui, e vi aveva pensato tutta la notte. Allora in principio di primavera, come se quel bacio fosse stato del fuoco vivo, Màlia cominciò a struggersi e a consumarsi a poco a poco. La mamma ripeteva alla sora Carolina e alla portinaia della casa accanto che il male le saliva dalle gambe per tutta la persona. Il medico glielo aveva detto.


Il marzo era piovoso. Tutto il giorno si udiva la grondaia che scrosciava sul tetto di vetro della stamperia, e la gente che sfangava per la stradicciuola. Ogni po' si fermava alla porta un legno grondante acqua, e sbattevano in furia gli sportelli e l'usciale.


- Questa è la Gilda, - esclamava la mamma. La Màlia pallida cogli occhi fissi alla porta, non diceva nulla, ma s'affilava in viso.


Poi nell'ora malinconica in cui anche la finestra si oscurava, passava la voce lamentevole di quel che vendeva i giornali:
- 'Secolo!' il 'Secolo!' - come una malinconia che cresceva. E la Gilda non veniva.


Al san Giorgio, com'era tornato il bel tempo, la giornalista lì accanto ed altri vicini progettarono una gita in campagna. Il Carlini, che s'era fatto di casa, fu della partita anche lui. La sera scesero dal tramvai tutti brilli, e portando delle manciate di margheritine e di fiori di campo. Il Carlini, in vena di galanteria, volle regalare alla Màlia tutti quei fiori che gli impacciavano le mani. La povera malata ne fu contenta, come se le avessero portato un pezzo di campagna. Dal suo lettuccio aveva vista la bella giornata di là dalla finestra, sul muro dirimpetto che sembrava più chiaro, colla pianticella del terrazzino che metteva le prime foglie. Ella voleva che le piantassero quei fiorellini in un po' di terra, perché non morissero, in qualche coccio di stoviglia, che ce ne dovevano essere tante in cucina. Un capriccio da moribonda, si sa. Gli altri rispondevano ridendo che era come far camminare un morto. Per contentarla ne collocarono alcuni in un bicchier d'acqua sul cassettone, e a fine di tenerla allegra tirarono fuori il discorso della veste a righe rosse e nere, tuttora in pezza, che la Màlia si sarebbe fatta fare, quando stava meglio. Suo padre ci aveva le forbici, e il refe e tutti i ferri del mestiere. La poveretta li ascoltava guardandoli in volto ad uno ad uno, e sorrideva come una bambina. Il giorno dopo i fiori del bicchiere erano morti. Nel bugigattolo mancava l'aria per vivere. L'estate cresceva. Giorno e notte bisognava tener spalancata la finestra pel gran caldo. Il muro di faccia si era fatto giallo e rugoso. Quando c'era la luna scendeva sin nella stradicciuola in un riflesso chiaro e smorto. Si udivano le mamme e i vicini chiacchierare sulle porte.


Al ferragosto il sor Battista coi denari delle mance prese una sbornia coi fiocchi, e si picchiarono colla sora Giuseppina. Il Carlini, nel far da paciere, si buscò un pugno che l'accecò mezzo.


La Màlia quella sera stava peggio; e con quello spavento per giunta, il medico che veniva pel primo piano disse chiaro e tondo che poco le restava da penare, povera ragazza.


A quell'annunzio babbo e mamma fecero la pace, e venne anche la Gilda vestita di seta, senza che si sapesse chi glielo aveva detto.


La Màlia invece credeva di star meglio, e chiese che le sciorinassero sul letto il vestito in pezza del Carlini, onde «farci festa» diceva lei. Stava a sedere sul letto, appoggiata ai guanciali, e per respirare si aiutava muovendo le braccia stecchite, come fa un uccelletto delle ali.


La sora Carolina disse che bisognava andare pel prete, e il babbo che quelle minchionerie le aveva sempre disprezzate col 'Secolo', se ne andò all'osteria in segno di protesta. La sora Giuseppina accese due candele, e mise una tovaglia sul cassettone. Màlia, al vedere quei preparativi si scompose in viso, ma si confessò col prete, anche il bacio del Carlini, e dopo volle che la mamma e la sorella non la lasciassero sola.


Il babbo, l'aspettarono, s'intende. La sora Giuseppina si era appisolata sul canapè, e Gilda discorreva sottovoce col Carlini accanto alla finestra, credendo che la Màlia dormisse. Così la poveretta passò senza che se ne accorgessero, e i vicini dissero che era morta proprio come un canarino.


Il babbo il giorno dopo pianse come un vitello e la sua moglie sospirava:

- Povero angelo! Hai finito di penare! Ma eravamo abituati a vederla là, a quella finestra, come un canarino. Ora ci parrà di esser soli peggio dei cani -.


La Gilda promise di tornar spesso e lasciò i denari pel funerale.


Ma a poco a pocò anche il Carlini diradò le visite, e come aveva cambiato alloggio a San Michele, non si vide più.


Sulla finestra il babbo, per mutar vita, fece inchiodare un pezzetto d'asse, con su l'insegna «Sarto» la quale vi rimase tale e quale come il canarino del n. 15.





Don Candeloro e C.


Don Candeloro era proprio artista nel suo genere: figlio di burattinai, nipote di burattinai - ché bisogna nascerci con quel bernoccolo - il suo pane, il suo amore, la sua gloria erano i burattini. - Non son chi sono se non arrivo a farli parlare! - diceva in certi momenti di vanagloria come ne abbiamo tutti, allorché gli applausi del pubblico gli andavano alla testa, e gli pareva di essere un dio, fra le nuvole del palcoscenico, reggendo i fili dei suoi «personaggi».


Per essi non guardava a spesa. Li perfezionava, li vestiva sfarzosamente, aveva ideato delle teste che movevano occhi e bocca, studiava sugli autori la voce che avrebbe dovuto avere ciascuno di essi, 'Almansore' o 'Astiladoro'. Quando declamava pei suoi burattini, nelle scene culminanti, si scaldava così, che dopo rimaneva sfinito, asciugandosi il viso, nel raccogliere i mirallegro dei suoi ammiratori sfegatati, come un attore naturale.


Di ammiratori ne aveva da per tutto, alla Marina, alla Pescheria, certuni che si toglievano il pan di bocca per andare a sentire da lui la 'Storia di Rinaldo' o 'Il Guerin Meschino', e se l'additavano poi, incontrandolo per la strada, colla canna d'India sull'omero e la sua bella andatura maestosa, che sembrava 'Orlando' addirittura. Era un gran regalo quando egli rispondeva al saluto toccando con due dita la tesa del cappello.


Se nasceva una lite in teatro, e venivano fuori i coltelli, bastava che don Candeloro si mostrasse fra le quinte, e dicesse:
- Ehi ragazzi!... - con quella bella voce grassa.


Giacché s'era fatta anche la voce, come il gesto e la parlata, sul fare dei suoi «personaggi» e pareva di sentire un 'Reale di Francia' anche se chiamava il lustrastivali dal terrazzino.


Con queste doti innamorò la figliuola di un oste che teneva bottega lì accanto. La ragazza era bruttina, ma aveva una bella voce, e doveva avere anche un bel gruzzolo. - La voce è tutto! - le diceva don Candeloro sgranandole gli occhi addosso, e accarezzandosi il pizzo. - Grazia! Che bel nome avete pure! - Andava spesso a far colazione all'osteria per amore della Grazia, e le confidò che pensava d'accasarsi, dacché aveva voltato le spalle alla vecchia baracca del padre, e messo su di nuovo teatro che rubava gli avventori al SAN CARLINO, e al TEATRO DI MARIONETTE. Si mangiavano fra di loro come lupi, padre e figlio, e i suoi colleghi erano giunti ad ordirgli la cabala, e fargli fischiare la 'Storia di Buovo d'Antona'. - Spenderò i tesori di Creso! - aveva fatto voto quel dì don Candeloro battendo il pugno sulla tavola. - Ma non son chi sono se non li riduco a chiuder bottega tutti quanti! - Lui con dei contanti avrebbe fatto cose da sbalordire. Insino il balletto e la pantomima avrebbe portato sul suo teatro; tutto colle marionette. - Ci aveva qualcosa lì! - e si picchiava la fronte dinanzi alla Grazia, fissandole gli occhi addosso come volesse mangiarsela, lei e la sua dote. Si scervellò un mese intero, col capo fra le mani, a cercare un bel titolo pel suo teatrino, qualcosa che pigliasse la gente per gli occhi e pei capelli, lì, nel cartellone dipinto e coi lumi dietro. - 'Le Marionette parlanti!' - Sì, com'è vero ch'io mi appello Candeloro Bracone! parlanti e viventi meglio di voi e di me! Non deve passare un cane che abbia un soldo in tasca dinanzi al mio teatro, senza che dica: «Spendiamo l'osso del collo per andare a vedere cosa sa fare don Candeloro!» - L'oste veramente non si sarebbe lasciato prendere a quelle spampanate, perché sapeva che gli avventori seri preferiscono andare a bere il buon vino nel solito cantuccio oscuro; e del resto, lui voleva un genero con una professione da cristiano, come la sua, a mo' d'esempio, e non un commediante con la zazzera inanellata, che parlava come un libro e gli incuteva soggezione.


- Quello è un tizio che ci farebbe muovere a suo piacere come i burattini, te e me! - disse alla figliuola. - Bada ai fatti tuoi:

le buone parole, qualche risatina anche, con gli avventori. E poi orecchie di mercante. Hai inteso? - Ma il tradimento gli venne da un finestrino che dava sul palcoscenico, al quale la ragazza correva spesso di nascosto a mettere un occhio, e dove si scaldava il capo con tutte quelle storie di paladini e di principesse innamorate. Don Candeloro, dacché s'era dichiarato con lei, lasciava socchiusa apposta l'impannata, e le sfuriate di amore, 'Rinaldo' e gli altri personaggi, le rivolgevano lassù; tanto che la ragazza ne andava in solluchero, e aveva a schifo poi di lavare i piatti e imbrattarsi le mani in cucina.


«Non pur me, ma infiniti signori questo amore ha fatto suoi vassalli, principessa adorata!...» - Tu non me la dài a intendere! - brontolava l'oste colla figliuola. - Che diavolo hai in testa? Mi sbagli il conto del vino... Gli avventori si lamentano... Questa storia non può durare -.


La catastrofe avvenne alla gran scena in cui la 'bella Antinisca' ritorna alla cittè di Presopoli, e 'Guerino' «quando la vidde» dice la storia «s'accese molto più del suo amore». Smaniava per la scena, sbalestrando le gambe di qua e di là, alzando tratto tratto le braccia al cielo, squassando il capo quasi colto dal mal nervoso. Diceva, con la bella voce cantante di don Candeloro:

«O Dio, dammi grazia ch'io mi possa difendere da questa fragil carne, tanto ch'io trovi il padre mio, e la mia generazione».


E la 'bella Antinisca', dimenandosi anch'essa, e lagrimando (si capiva dalle mani che le sbattevano al viso):

«O Signor mio, io speravo sotto la vostra spada di esser sicura del Regno che voi mi avete renduto, per questa cagione vi giuro per li Dei che come saprò, che voi siete partito, con le mie proprie mani mi ucciderò per vostro amore, e se mi promettete, che finito il vostro viaggio ritornerete a me, io vi prometto aspettarvi dieci anni sena prender marito».


«Non per Dio, sarete vecchia» disse il 'Meschino'. «Questo non curo, pur che voi giuriate di tornare a me, di non pigliare altra donna». (Veramente la 'bella Antinisca' aveva una voce di grilletto che faceva ridere gli spettatori, giacché don Candeloro per le parti di donna aveva dovuto scritturare a giornata un ragazzetto che cominciava adesso a farsi grandicello, e per giunta recitava come un pappagallo, talché alle volte il principale, sdegnato, gli assestava delle pedate, dietro la scena). Allora la 'bella Antinisca' cadde d'un salto fra le braccia del 'Guerino', piegata in due dalla tenerezza, e Grazia, arrampicata al finestrino, si sentì balzare così il cuore nel petto, che le sembrava proprio di essere nei panni dei due felici amanti, allorché il 'Meschino', in presenza di 'Paruidas', 'Armigrano' e 'Moretto', giurò per tutti i sagramenti di farla sua donna e legittima sposa.


- Quando saremo marito e moglie, le parti di donna le farai tu! - le aveva detto don Candeloro. E la ragazza, ambiziosa, si sentiva gonfiare il petto dalla gioia, a quelle scene commoventi che facevano drizzare i capelli in capo ad ognuno, e si vedevano degli uomini con tanto di barba piangere come bambini, fra gli applausi che parevano subissare il teatro. - Sì! sì! - disse Grazia in cuor suo.


Il babbo invece disse di no. C'erano continuamente delle scene fra padre e figlia; quello ripetendo che la storia non poteva durare, e minacciando la ragazza di tornare a maritarsi, e metterle sul collo la matrigna. Lei dura nel proposito: o don Candeloro, o la morte! Quando don Candeloro andò a far domanda formale, vestito di tutto punto, l'oste rispose:

- Tanto onore e piacere. Ma ciascuno sa i fatti di casa sua. Sono vedovo, non ho altri figliuoli, e mi abbisogna un genero che mi aiuti...


- Allora vuol dire che non son degno di tanto onore! - balbettò don Candeloro facendosi rosso, e piantandosi di tre quarti, colla canna d'India appoggiata all'anca.


- Nossignore, l'onore è mio.


- L'onore è vostro, ma vostra figlia non me la date...


- Nossignore. Come volete sentirla?

- Va bene. Umilissimo servo! - conchiuse don Candeloro calcandosi con due dita la tuba sull'orecchio, e se ne andò mortificatissimo.


- Senti - disse poi alla Grazia dal finestrino. - Tuo padre è un ignorante che non capisce nulla. Bisogna prendere una risoluzione eroica, hai capito? - La ragazza esitava a prendere la risoluzione eroica di infilare l'uscio e venirsene a stare con lui, per costringere poi il babbo ad acconsentire al matrimonio. Ma don Candeloro aveva il miele sulle labbra, e sapeva trovare delle ragioni alle quali non si poteva resistere. Le diceva di fare nascostamente il suo fagotto... con giudizio, s'intende... - C'era anche la sua parte nei denari del padre, - e venirsene dove la chiamavano i cieli. - Non hai giurato per gli Dei di essere mia donna e legittima sposa?

- Il vecchio però era un furbo matricolato, il quale cantava sempre miseria, e nascondeva i suoi bezzi chissà dove. Grazia non portò altro che quattro cenci in un fazzoletto, e quelle poche lire spicciole che aveva potuto arraffare al banco. - Come? - balbettò don Candeloro che si sentiva gelare il sangue nelle vene. - In tanto tempo che ci stai, non hai saputo far di meglio?... - Questo era indizio che non sarebbe stata buona a nulla, neppure per lui; e le questioni cominciarono dal primo giorno. Basta, era un gentiluomo, e la promessa di Candeloro Bracone era parola di Re. Il bello poi fu che lo stesso giorno in cui andarono all'altare, lui e la sposa, il suocero volle fargli la burletta di andarci lui pure, insieme a una bella donnona colla quale aveva combinato il pateracchio lì per lì. - Senza donne non possiamo stare né io né il mio negozio, cari miei, - gli piaceva ripetere, con quel sorrisetto che mostrava le gengive più dure dei denti, e faceva venire la mosca al naso. - State allegri e che il Signore vi prosperi e vi dia molti figliuoli. Alla mia morte poi avrete quel che vi tocca -.


I figliuoli vennero infatti a tutti e due, genero e suocero, uno dopo l'altro. Ma l'oste prometteva di metterne al mondo quanto il 'Gran Sultano', e di campare gli anni del 'Mago Merlino'. Ogni volta che gli partoriva la moglie o la figliuola, invitava tutto il parentado a fare una bella mangiata.


Crescevano i figliuoli, e i pesi del matrimonio; ma viceversa poi diminuivano gli introiti e il favore popolare. Quella gran bestia del pubblico s'era lasciato prendere a certe novità che avevano portato Bracone il vecchio e il proprietario del SAN CARLINO.


Adesso nei teatrini di marionette recitavano dei personaggi in carne ed ossa, la 'Storia di Garibaldi', figuriamoci, ed anche delle farsacce con 'Pulcinella'; e vi cantavano delle donne mezzo nude che facevano del palcoscenico un letamaio. La gente correva a vedere le gambe e le altre porcherie, tale e quale come le bestie, che don Candeloro ne arrossiva pel mestiere, e preferiva piuttosto fare il saltimbanco o il lustrascarpe, prima di scendere a quelle bassezze. Per non recitare alle panche era arrivato a far entrare in teatro gratis dei vecchi avventori, fedeli alle belle 'Storie d'Orlando' e dei 'Paladini antichi', coi quali almeno si sfogava dicendo vituperi dei suoi colleghi:

- Perché non mettere le persiane verdi alle porte, come certi stabilimenti?... Sarebbe più pulito. Dovrebbe immischiarsene la Questura, per Satanasso! - Però l'ignoranza e l'ingratitudine del pubblico gli facevano cascare le braccia. Non valeva proprio la pena di sudare coi libri, e spendere dei tesori per dare roba buona a degli asini. - Volete lavare la testa all'asino? - Gli stessi burattini recitavano svogliatamente, vestiti come Dio vuole. - Ci si perdeva l'amore dell'arte e d'ogni cosa, parola di gentiluomo! - Dov'erano andati i bei tempi in cui si facevano due rappresentazioni al giorno, la domenica e le feste, e la gente assediava la porta, quend'era annunziato sul cartellone un «personaggio» nuovo? Don Candeloro, colla barba di otto giorni e la zazzera arruffata, passava le giornate intere nella bettola del suocero, a dir corna dei suoi colleghi, o a litigare colla moglie, ora che in casa pareva l'inferno. Grazia, adesso che aveva visto cosa c'era dietro le belle scene impiastricciate, stava con tanto di muso a rammendar cenci anche lei, a stemperar colori, e rompersi braccia e schiena, vociando come un pappagallo per le 'Artemisie' e le 'Rosalinde', dall'avemaria a due ore di notte; che specie quando il Signore le mandava dei figliuoli (e succedeva una volta all'anno) era proprio un gastigo di Dio.


- Tu non sai far altro, per Maometto! - le rinfacciava il marito furibondo.


L'oste dava soltanto buoni consigli:
- Non vedete che gli avventori corrono al vino nuovo? Cambiate il vino -. Ma don Candeloro non si piegava. Piuttosto avrebbe tolto su baracca e burattini, e sarebbe andato pel mondo a far conoscere chi era Candeloro Bracone, giacché i suoi concittadini non sapevano apprezzarlo. La piazza «non faceva più» per lui! Se c'era ancora un po' di buon senso e di buon gusto dovevasi andare a cercarlo in provincia, dove non erano ancora penetrate quelle sudicerie.


Finalmente spiantò davvero il teatro, mise ogni cosa su di un carro, e via di notte, per non dar gusto ai nemici. L'oste prese lui a pigione il magazzino per metterci delle botti, e allargare il negozio, ora che la figliuolanza era cresciuta.


- Te l'avevo detto, - disse alla Grazia. - Quello non è mestiere da cristiani. Se fossi rimasta a vendere del vino. non saresti ridotta adesso a far la zingara. Ben ti stia! - Don Candeloro viaggiò per valli e per monti, come i cavalieri antichi, con tutto il suo teatro ammucchiato in un carro, e la moglie e i figliuoli sopra. Il guaio era che non si trovava con chi combattere. Quei contadinacci ignoranti ed avari, sfogata la prima curiosità, voltavano le spalle alle «marionette parlanti» o s'arrampicavano sul tetto del teatrino per godersi la rappresentazione 'gratis'. Arrivando in un villaggio, don Candeloro scaricava la roba sulla piazza, pigliava in affitto una bottega, un magazzino, una stalla, quel che trovava, e si mettevano a inchiodare e incollare tutti quant'erano. Le stagioni duravano otto, quindici giorni, un mese, al più. Dopo, si tornava da capo a correre il mondo, e in quel va e vieni la roba andava in malora; si mangiavano ogni cosa le spese d'affitto e di viaggio, con dei carrettieri ladri ch'erano peggio dei saracini, e non usavano riguardi neanche a Cristo. Don Candeloro, avvezzo ad essere rispettato come un Dio da simile gentaglia, voleva farsi ragione colle sue mani, in principio, sinché si buscò una grandinata di calci e pugni.


E ci dovette arrivare anche lui, Candeloro Bracone, a fare il pagliaccio se volle aver gente nel suo teatro, e a rappresentare le pantomime nelle quali pigliavasi le pedate nel didietro dal minore dei suoi ragazzi per far ridere «la platea». Quando vide che il pubblico non ne mangiava più in nessuna salsa delle «marionette parlanti», e ci voleva dell'altro per cavar soldi da quei bruti, ebbe un'idea luminosa che avrebbe dovuto fare la fortuna di un artista, se la fortuna baldracca non ce l'avesse avuta a morte con lui... - Ah, vogliono i personaggi veri?...- Un bel giorno si vide annunziare sul cartellone che la 'parte di Orlando', nei 'Reali di Francia', l'avrebbe sostenuta don Candeloro in persona «fatica sua particolare!» E comparve davvero sul palcoscenico, lui e tutta la sua famiglia, in costume, e armato di tutto punto: delle armature ordinate apposta al primo lattoniere della città, e che erano costate gli occhi della testa.


Il pubblico sciocco invece, al vedere quei ceffi di giudei che toccavano i cieli col capo, e suonavano a ogni passo come scatole di petrolio, si mise a ridere e a tirare ogni sorta d'immondizie sui 'Paladini', massime allorché ad 'Orlando' cadde di mano la spada, ed egli, tutto chiuso nell'armi, non poté chinarsi per raccattarla. Urli, fischi e mozziconi di sigari in faccia ai 'Reali'. Un putiferio da prendere a schiaffi tutti quanti, o da passar loro la spada attraverso il corpo, se non fosse stata di latta, pensando a tanti denari spesi inutilmente.


Da per tutto, ove si ostinava a portare i 'Paladini di Francia' «con personaggi veri» trovava la stessa accoglienza:

torsi di cavolo e bucce d'arance. Il pubblico andava in teatro apposta colle tasche piene di quella roba. Non li volevano più neanche «coi personaggi veri» i 'Paladini'! Volevano le scempiaggini di 'Pulcinella', e le canzonette grasse cantate dalle donne che alzavano la gamba.


- E tu fagliele vedere le gambe! - disse infine alla moglie don Candeloro infuriato. - Diamogli delle ghiande al porco! - Lui stesso, colle sue mani, dovette aiutare la Grazia ad accorciare la gonnella, litigando con lei che pretendeva di non esser nata per quel mestiere, e si vergognava all'udire i complimenti che il pubblico indirizzava ai suoi stinchi magri. - Per che cosa sei nata? per far la principessa? Il pane te lo mangi, però! - Lui invece era preso adesso dalla rabbia di mostrare ogni cosa, a quegli animali, la moglie, la figliuola ch'era più giovane e chiamava più gente. - Anch'io, se vogliono vedermi!... Voglio calarmi le brache in faccia a quelle bestie! - Faceva delle risate amare, povero don Candeloro! Cercava le farsacce più stupide e più indecenti. Si tingeva il viso per fare il pagliaccio. Sputava sul pubblico, dietro le quinte! - Porci!

porci! -






Una capanna e il tuo cuore


La capanna stavolta era l''Albergo della Stella'. Quando vi giunsi, fra quelle quattro case arrampicate in cima al monte, dopo una giornata afosa nelle bassure della zolfara, mi parve di essere davvero nelle stelle, all'ombra della tettoia sgangherata che faceva da angiporto.


- Una stanza? - uscì a dire l'ostessa asciugandosi il sugo di pomidoro dalle braccia. - Ma ci abbiamo tutta la compagnia.


- Oh!

- Sicuro, quella delle operette. Però, se si contenta della mia...


- Passando pel baraccone tutto scompartimenti come una stalla, vidi infatti una bella giovane che si rizzò lesta dal tavolato dov'era distesa, e mi salutò arrossendo un poco anche sotto il rossetto della sera innanzi.


Dovetti accontentarmi, poiché non ci era altro, della stamberga con tanto di letto matrimoniale dell'ostessa, e mentre essa apparecchiava un po' di tavola «per quel che c'era», si udì un baccano dalla parte della compagnia.


- È la lavandaia che viene a fare le solite scenate, - disse l'ostessa. - Gente senza educazione. Ora vo a dire che ci sono dei forestieri -.


Ma fu inutile, e il diavoleto peggio di prima. Appena fui seduto per mandar giù «un po' di quel che c'era», comparve sull'uscio la ragazza della compagnia.


- Scusi. Avrebbe, per caso, due lire e settantacinque di spiccioli, in piacere?

- Ecco.


- Grazie. Ora torno -.


Tornò infatti, collo stesso risolino di palcoscenico. - Che vuole?

Scusi tanto. I nostri comici sono tutti fuori. Appena tornano...


- Oh, faccia a suo comodo.


- Buon appetito allora - disse sorridendo anche al piatto che recava l'ostessa.


- E a lei pure, giacché vedo ch'è l'ora...


- Oh, noi... I nostri uomini sono stati invitati a fare una scampagnata dai signori del paese...


- Se vuol favorire dunque...


- Anzi... Molto gentile. Se permette, lo dico anche alla mia amica ch'è napoletana e le piacciono tanto gli spaghetti.


- Tanto piacere anche la sua amica napoletana -.


L'ostessa non se lo fece neanche dire e tornò indietro per gli altri spaghetti. La napoletana si fece pregare un po', di là, ma venne lei pure, col salutino del pubblico.


- Il nostro soprano. Una voce! Dovrebbe venire a sentirci, domani sera.


- Domani sera spero di essere a casa mia, finalmente.


- Peccato! Qui non si recita che il sabato e la domenica sera, perché gli altri giorni il nostro pubblico è occupato nelle zolfare - .


Il soprano, più contegnoso, si occupava a mandar giù gli spaghetti in punta di forchetta, quasi fosse già il sabato o la domenica sera, dinanzi al pubblico .


- Una vera diva!... E vederla in costume, con quel 'décolleté'!... - La diva protestò levando su la forchetta col gomitolo di spaghetti, o per poca modestia, o perché il 'décolleté' non fosse troppo in bella vista.


- Eh, che male c'è se gli uomini hanno occhi per vedere... e mandar giù le platee?... È vero, sì o no? Ditelo anche voi -.


Voltandomi, vidi sull'uscio altri visetti che dicevano già di sì, in attesa pur esse.


- Venite, venite anche voi. Il signore è così gentile... - E naturalmente venne anche l'ostessa, carica d'altri piatti.


- La signorina Fides, mezzo soprano. - La signorina Vanda, contralto. - La signorina Ines, contraltino, che al bisogno fa le parti d'amoroso. Come vede i nostri uomini ci lasciano a trarci d'imbarazzo anche nelle parti d'amoroso.


- Vedremo se ci portano almeno dei fiori dalla loro scampagnata.


- Quelli sì, perché non si mangiano.


- Che delizia! - sospirò allora la diva. - Che paesaggi avete da queste parti... sotto questo sole!...


- A chi lo dice!

- No? Non è del paese lei?

- È che l'ho avuto tutto il giorno sulla testa, quel sole! - Dopo gli spaghetti venne del baccalà, poi delle ova sode, poi del caciocavallo, insomma «un po' di quel che c'era»», e dei fichi d'India, già bell'e sbucciati dalle mani stesse della locandiera, chi ne volesse. Le artiste dicevano sempre di sì; tanto che dopo i fichi d'India chiesero del cognac.


- Cognac non ce n'è. Ahbiamo della menta-sèlse. Ma ora, dopo tavola...


- Non importa. È per fare i brindisi -.


Prima naturalmente a me, ch'ero stato tanto gentile. Poi sfilarono altri nomi e altri ricordi, che brillarono un istante in quegli occhietti lustri.


- A te!... Sempre! - A quella prima notte... di luna!...


- Tutta roba passata! - sentenziò la stella napoletana. - 'Tout passe, tout lasse, tout casse'... - E volle anche spiegare il suo francese alle compagne che sgranavano gli occhi. - Passa via... ti lascio... La canzone finisce sempre così.


- Sempre, no. Tu lo sai bene... - Ella si strinse nelle spalle. - Il tuo avvocato...


- Un avvocato!

- Sissignore! E ha lasciato moglie e figliuoli per venire a fare il suggeritore.


- Un bell'affare! E quella megera s'è permesso anche di venire a farmi le scene, coi suoi mocciosi, in casa mia!

- Poveretti! Bisognava sentirli piangere...


- Al cuore non si comanda, - conchiuse una delle signorine Ines o Fides. - Certo, se si sapesse prima... - - Prima - il caso - l'incontrarsi in quegli occhi che vi mangiano dalla platea quando vi viene la nota giusta. - Le scioccheriole che vi contano all'uscita dal teatro - la scappatella che sembrava di passaggio, ahimé!... Ciascuna rammentava la sua, in quel momento di vino tenero. Gli occhi ancora umidi, o pei ricordi di prima, o per quelli della scena. - Così, senza saper come, la scioccheriola che mutavasi in duetto serio - o la passatina sotto la finestra che andava a finire nella stanzetta in due. Poi il destarsi a bocca asciutta - o amara - o tra gli sbadigli e i - non mi seccare -, ch'è peggio. - O peggio ancora la farsetta che minaccia di cambiarsi in tragedia... - Come quando si dovette levar le tende in fretta e furia, tutta la compagnia che non c'entrava affatto... E a un pelo di rimborsar gli abbonati per giunta! - conchiuse la signorina Fides.


- Oh, questa poi!...


- Sì, in un paesetto qui vicino, allorché quelli del partito contrario vollero giocare un tiro al sindaco che veniva a fare quattro chiacchiere con una di noi; e una bella notte, quando volle tornare a casa della moglie, gli fecero trovare murata la porta della locanda coi materiali della strada in riparazione.


Allora figuriamoci!... - Essa non aveva fatto alcun nome; ma tutte le altre guardavano sottecchi da una parte, ridendo, però col naso sul piatto. La napoletana che invece aveva il naso in su, rimbeccò subito:

- Tu stai zitta, che di queste disgrazie non ne capitano certo pei tuoi begli occhi al tuo banchiere!

- Anche un banchiere?

- Sì, quello che scopa le tavole -.


Fides scattò inviperita:
- Prima di scopare le tavole contava dei bei bigliettoni, quello!

- E te li buttava dietro in fiori per le serate e il braccialetto col 'sempre' d'oro. Per questo dovette fare i conti col principale, che gli sbatté in faccia lo sportello della banca, e te lo lasciò appeso al collo, col 'sempre' del braccialetto!

- Io cercai di mettere qualche buona parola, anzi le loro parole stesse:
- Cose che succedono. Se si sapesse prima...


- Prima o poi, quello era un galantuomo e rimase un galantuomo.


Povero, ma onorato. Perciò quando me lo vidi comparire dinanzi, con le tasche vuote ma tanto di cuore aperto... ed anche le braccia, mentre mi diceva: «Eccomi... Son qua...».


Ella singhiozzava quasi, col tovagliolo al viso, ripetendo quelle parole, tanto che le amiche le si strinsero intorno a confortarla, e la stessa napoletana volle ricordare come succedono queste cose:

- Si sa. Ogni giorno che veniva, le ariette e i duettini... Una bella seccatura a sentirli mattina e sera...


- Egli aveva una vocetta promettente allora - aggiunse la signorina Vanda.


- E per una disgrazia leggeva anche dei romanzi, tanto che gli pareva vero...


- Io glielo dissi - riprese Fides con gli occhi ancora umidi. - E che vuoi fare adesso? «Son qua... Son qua...». Non sapeva dir altro, con quel viso pallido, e quelle braccia aperte... Anch'io ero là... E mi chiamo Fede... La mano nella mano dunque...


- Ecco! Sino alla prima voltata.


- Voltata no, e neppure corda al collo - rispose Fides con gli occhi adesso asciutti. - Io devo fare l'artista, e non posso voltare le spalle a questo e a quello se mi dicono che piaccio.


- O quando fanno dei regalucci.


- Bisogna mandare avanti la baracca anche -.


Quando gli uomini, a sera, tardi, dopo aver mangiato bene e bevuto meglio tornarono alla capanna ed al cuore, furono liti e questioni invece di fiori e paroline dolci. La vocetta mezzo soprano di Fides che strillava:
- Ah, sei stato a far l'assolo? Anch'io ci ho trovato qui per il duetto. Prendi! - L'avvocato perdeva il suo tempo a perorare di qua e di là, scusando queste e quelli e cercando di metter pace. La napoletana gli sbatté con lo scarpone sul muso:

- Porco! Ci vorrebbero qui i tuoi mocciosi a piangerti per il pane, adesso! - Me li vidi comparire dinanzi io pure, il giorno dopo; lui con la gota fasciata, a spiegarmi quel che doveva essere stato il po' di chiasso che forse avevo udito nella notte. Ma la napoletana, ancora imbronciata, tagliò corto:

- Basta, basta. Arrivederci dunque. Il mondo è tondo, e chi non muore si rivede -.


Io non ho più rivisto quegli occhi rapaci e quel 'décolleté' petulante.





Carmen


- No, non mi tentate, Casalengo! Sapete che mi chiamano Carmen! Il vostro amico è «biondo e bello e di gentile aspetto»; e ingenuo, timido e cavalleresco...; ritorna adesso dagli antipodi...


Insomma, mi piace assai. Non voglio conoscerlo -. Essa gliel'aveva detto!

Invece Casalengo credeva che scherzasse: leggerezza, vanità, orgoglio d'amante che fosse stato in lui; cecità di stolto che Dio voglia perdere; incanto di quelle labbra che avrebbero fatto commettere qualsiasi sciocchezza per vederle sorridere ancora in siffata maniera; distrazione procuratagli dai monili serpentini che tintinnavano scorrendo giù pel braccio, nudo, il quale levavasi minaccioso, col dito rivolto al cielo:
- Guardate, Casalengo! C'è un Dio lassù per queste cose!... - Ma quando lui, col sorriso fatuo che gli segnava già le prime rughe sottili accanto agli occhi, s'ostinò a fare la presentazione:
- Il mio amico Aldini... - Essa rispose semplicemente:
- Gli amici dei nostri amici... - E stese la mano al nuovo arrivato con tanta cordialità, così lieta di scorgere nel giovanetto l'omaggio di un grande imbarazzo, che volle pure ringraziarne Casalengo con un'occhiata rapida: un'occhiata in cui era il sorriso del diavolo.


Aldini, che aveva sentito parlare sino a Zanzibar della gran passione per cui il suo amico Casalengo s'era giuocate le spalline di comandante, provava adesso una certa sorpresa dinanzi a quella donna che non aveva poi nulla d'estraordinario. Un viso delicato e pallido, come appassito precocemente, come velato da un'ombra, dei grandi occhi parlanti, in cui era della febbre, dei capelli morbidi e folti, posati mollemente in un grosso nodo sulla nuca, e il bel fiore carnoso della bocca - la bocca terribile - come dicevano amici e gelosi.


Ma lo turbava il profumo mondano, la carne mortificata dalla gran vita, che traspariva fra le trine preziose, il segno che il braccialetto le lasciava sulla pelle delicata - e gli dava un gran da fare per non mangiarsela cogli occhi. Ella se ne avvide, e mise cinque minuti buoni a infilarsi il guanto, in premio dell'ammirazione muta che le tributavano gli occhi sinceri del giovinetto, i rossori fugaci, le parole mozze... Da abbracciarlo, lì, dinanzi a tutti quanti! E gli lasciò in pegno il ventaglio, tornando a ballare il valzer - un legame, lo scettro della sultana.


- Eccoti comandato... servizio particolare! - gli disse Casalengo ridendo. - Se avevi qualche impegno, ti scuserò io, caro Riccardo...


- No! Oh no! - esclamò Aldini, stringendo forte il ventaglio colle due mani.


Adesso osservava alla sfuggita, con una curiosità inquieta e rispettosa, il suo amico Casalengo, la forte giovinezza di lui come curva sotto un giogo, il sorriso distratto sulle labbra riarse, le frasi stonate, il pensiero fisso, l'ardore segreto, la ruga impercettibile e quasi nascosta fra le ciglia, gli sguardi erranti, suo malgrado, attratti dalla donna amata che gli fuggiva dinanzi nelle braccia di un altro, raggiante, e gli buttava in faccia il sorriso, il profumo, il vento dell'abito, la nudità delle spalle, tutte le seduzioni, i fantasmi dell'amore e della donna, quali erano passati dinanzi agli occhi a lui pure, Aldini, nelle calde fantasticherie dell'adolescenza, discorrendo laggiù della maliarda la quale prendeva lui pure adesso, con una parola, con un nulla, legandolo, incatenandolo a sé con quel ninnolo che gli aveva messo fra le mani, come un fanciullo che si voglia tenere a bada.


- Ah, ma sapete! È proprio carino il vostro amico Aldini!

- Ve l'avevo detto, - rispose Casalengo un po' ironico.


Ella si strinse nelle spalle con un movimento che gli mise sotto il naso i begli omeri nudi.


- Badate però. È un ragazzo... un ragazzo pericoloso.


- Ah, così? - disse lei.


E Carmen volle farne l'esperimento, povero Aldini. Tanti altri, ora vinti e intossicati per tutta la vita, l'avevano chiamata con quel soprannome di guerra e di malaugurio, ch'era la punzecchiatura delle sue amiche gelose, e la carezza o la maledizione degli incauti che si lasciavano prendere al fascino del suo sorriso dolce e buono - la più strana cosa, su quella bocca di vampiro. Poich'essa faceva il male con una incoscienza ch'era la sua maggiore attrattiva; vi metteva una sincerità, quasi una lealtà che le faceva perdonare i suoi errori, come il gran nome che portava le faceva aprire tutte le porte. E una squisita eleganza, una grazia innata fin nelle bizzarrie, un'ingenuità provocante fin nella stessa civetteria, l'aria di gran dama anche in un veglione, avida di piaceri e di feste, quasi divorata da una febbre continua di emozioni e di sensazioni diverse, una febbre che la consumava senza ravvivare il suo bel pallore diafano, né le sue labbra dolorose, ma che però la lasciava spesso in una prostrazione desolata, le dava delle ore di stanchezza e di uggia, di cui i suoi adoratori pagavano la pena: ore tremende - in cui non c'era altro da fare che prendere il cappello e andarsene - dicevano i forti, quelli che avevano pianto poi dietro l'uscio di lei. Gli altri, coloro che cercavano di spiegare le sue follìe, se non di scusarle, dicevano ch'era ammalata, ch'era matta - tutti i d'Altona erano morti tisici o dementi - che aveva provato dei gran dolori e dei gran disinganni, ch'era ferita a morte, condannata senza speranza, e voleva vivere vent'anni in venti mesi.


- Gliel'ha detto anche a lei, il mio amico Casalengo, che mi chiamano Carmen? - chiese ella ad Aldini, col sorriso mordente, la prima volta che un'ondata di folla glielo mise di nuovo faccia a faccia, all'uscire dal Sannazzaro.


Ma gli stese la mano senza rancore. Poscia, mentre aspettava la carrozza, stretta nella pelliccia, e con quell'aria di stanchezza e di noia che faceva scappare la gente, soggiunse:

- M'accompagni. Servirà ad insegnarle la strada... quando vorrà venire a farmi una visita. Troveremo qualche amico a casa... degli amici suoi e miei, per prendere il thè insieme.... se non ha paura che l'avveleni come la Lucrezia Borgia di stasera... una Lucrezia tremenda, da morir di noia!... - Fu in tal modo che lo prese, - come, per fargli posto nel legnetto, aveva preso e raccolto a due mani il suo vestito, - e lo avvolse fra le pieghe di esso, e lo stordì col suo profumo, allorché la pelliccia, scivolandole giù per le spalle, gli buttò al viso e alla testa la trasparenza di quegli omeri rosei - senza volerlo, quasi senza avvedersene, in quell'ora di uggia, e d'umor nero che l'avrebbe fatta dar della testa nell'imbottitura del 'coupé', e che egli le leggeva sul viso smorto, mentre guardava distrattamente attraverso il cristallo, ai bagliori fugaci che gettavano le vetrine scintillanti dentro la carrozza che correva su per Toledo - senza dirgli una parola, né rivolgergli un'occhiata, quasi non pensasse più a lui, o subisse ancor essa lo strano imbarazzo di quell'incontro, di quel silenzio, dell'oscurità che li avvolse tutti e due a un tratto nello stesso mistero e nella stessa tentazione, appena il legno svoltò pel corso Vittorio Emanuele - o sapesse che ciò doveva bastare a mettergli nel cuore, a lui, nelle carni, incancellabile, la febbre di quell'occasione che fuggiva rapida, la sete di quelle labbra di donna che si celavano nell'ombra, il turbamento di quella sfinge che rimaneva per lui impenetrabile nello stesso tempo che gli palpitava allato. - Degli angeli godono così di sfiorare la colpa colle loro ali candide - ed essa non era un angelo, no, povera signora! Talché quando lo presentò ai suoi amici che l'accoglievano festanti:
- Il tenente Aldini! - con un'aria di trionfo quasi avesse detto:
- Ecco il Figliuol Prodigo!

- era così pallido e stralunato, il povero Figliuol Prodigo, e come abbagliato dalla piena luce del salotto, o dalla fiamma ch'essa gli aveva accesa in cuore! Ed essa aveva davvero qualcosa dello spirito del male, in quel momento, nel sorriso ironico, nell'aria strana, nel pallore marmoreo del volto, nell'allegria forzata colla quale davasi tutta ai suoi ospiti, lottando di brio e d'arguzia, servendo il thè, dimenticando completamente Aldini in un cantuccio, faccia a faccia con un album di ritratti nel quale cercava di nascondere il suo imbarazzo.


- Che cosa vi ha fatto quel povero giovine? - le chiese sottovoce Casalengo, mentre inchinavasi a prendere una tazza di thè dalle sue mani.


- Tutti m'avete fatto! - rispose lei nel medesimo tono di scherzo.


Ed era forse la verità, il grido di rivolta del suo cuore ulcerato, il senso di disgusto che aveva trovato in fondo al bicchiere, l'amarezza che l'aveva colta allo svegliarsi dai sogni d'oro - quando aveva visto il pentimento mal dissimulato dell'uomo a cui aveva tutto sacrificato - quando era stata ferita dall'insulto che nascondevasi sotto il madrigale di galanti resi audaci dalla sua caduta - quando l'era mancata sin l'alterezza e l'illusione del sentimento puro, della fede giurata, pel tradimendo altrui, ed anche pel proprio. - Non valeva di meglio, no, essa ch'era stata debole nell'ora stessa in cui 'un altro' le era infedele. Tanto peggio! Tanto peggio per tutti, anche per lei, che sentiva rifiorire il bel fiore azzurro dentro di sé. Non le avevano detto che i fiori durano un giorno, e che solo sinché odorano esistono? Era tornato spesso in quella casa di cui essa gli aveva insegnato la via, il Figliuol Prodigo, timido e rispettoso, ma preso proprio sino ai capelli, innamorato come un pazzo, di un amore bizzarro che si pasceva di chiaro di luna e di passeggiate sotto le finestre. - L'aveva visto tante volte, lei, prima d'andare a letto, nel buio della strada! Ed era strano come ciò la facesse sorridere di piacere, le facesse cacciare il viso infocato nel guanciale, con una muta carezza.


Era un voluttà sottile e penetrante, il gusto di un'infedeltà che non poteva dar ombra a Casalengo; ma così dolce, quando beveva il bacio dagli occhi ingenui d'Aldini, e sentivasi ricercare avidamente da quell'adorazione bramosa, tutta, il seno palpitante, mentre ballava con lui, e le braccia che avrebbero voluto avvincerlo, al sentire come gli batteva il cuore contro il suo, il cuore che gli si dava, e la bocca, e la persona intera - e neppur tanto così, nondimeno! Né una parola e neanche un dito! - Una volta sola, smarrita, in quelle ondate di sangue che la musica e il valzer le mandavano alla testa... - No, Riccardo, così... mi fate male!... - Insomma, era scritto lassù. Ella non avrebbe voluto, no, davvero, per timore del poi, per timore di lui e di se stessa... e di Casalengo pure, giacché non era cattiva in fondo. Ma allorché volle proprio, coll'anima e col corpo... Tanto peggio! Almeno non volle essere né ipocrita né egoista. Aveva sempre pagato del suo la festa, in moneta di lagrime e di onte segrete; e non doveva nulla a nessuno, neppure al Casalengo, cui aveva dato il diritto di mostrarsi geloso sacrificandogli tutto quando non l'amava più.


Come Aldini ricevette l'ordine d'imbarco, e minacciava di dare la dimissione, di tagliarsi la gola, un mondo di cose, ella gli disse:

- No, Riccardo. Verrò con voi... dovunque... - Una proposta che lo sbalordì, povero Aldini, quasi presentisse già il momento in cui doveva pesargli come una catena, quella dolce compagna che gli buttava le braccia al collo. Ma allora vide soltanto le belle braccia delicate che l'avvincevano, e le labbra fragranti che gli si promettevano per sempre. Ella forse, sì, ebbe la visione di quel giorno, nella nube che le misero agli occhi innamorati le lagrime della tenerezza.


- Sì, viaggerò anch'io. Non ho nulla che mi trattenga qui... No, no... lo sapete!... Né altrove, in nessun luogo... Ho buttato al vento il mio fazzoletto... per lasciar fare al destino... Non per voi, siate tranquillo. Sono ricca e padrona di me. Sarò libera...


fra breve... non dubitate. Lasciate fare a me... che non farò del male né a voi né ad altri. M'hanno sempre detto che i viaggi di mare gioverebbero alla mia salute. E poi, non vi terranno sempre imbarcato, mio povero Riccardo... Vi lascieranno mettere piede a terra, di tanto in tanto... per dimostrare alle belle straniere che ci abbiamo dei begli ufficiali a bordo delle navi... per proteggere delle connazionali color di fuliggine o color di cioccolatte... Ebbene, io sarò laggiù ad aspettarvi, dove indicherà il telegrafo o il giornale. Vi farà piacere di trovar lì una tazza di thè e un cappellino da cristiani, non è vero? E senza pesare tanto così su di voi! senza nuocere alla vostra carriera...


Non avranno da dire né i regolamenti, né il servizio, né i superiori, e neanche le conoscenze che raccatterete per via, quando vi manderanno troppo lontano, o dove non sarò certa di trovare un caminetto e dei fiori freschi... Vedete che non fo la brava, e non vi prometto mari e monti... Liberi e felici come due uccelli dell'aria! Soltanto, quando anche questa bella volata nell'azzurro ci stancherà... o ci verrà noia... a voi o a me...


poiché tutto finisce... Quando vorrete maritarvi, o amerete un'altra... Sì, sì, ragazzo mio, un bel giorno rideremo di queste belle parole che ci fanno piangere adesso... Ma non importa, se adesso sono sincere... Quando vi parrà che io vi sia d'inciampo nella carriera o nella vita, e vorrete riprendere tutta intera la vostra libertà, ditemelo francamente... Come io dirò francamente a un'altra persona che voglio riprendere la mia libertà, oggi stesso... Non v'inganno e non inganno, vedete, Riccardo! Non sono peggiore di quella che sembro... Ma non ci diamo la pena e il tormento di mentirci, mai! Mi promettete?... mi prometti?

- Oh, amore! amore bello! - esclamò Aldini fuori di sé, tentando di prendersela fin da quel momento fra le braccia avide.


- No! - rispose lei, mettendogli le mani sul petto. - Non ancora... Quando sarò libera... e tua! - Casalengo fu ripreso bruscamente da un accesso dell'amore antico, appena essa gli fece capire che il suo era morto, lì, presso quel tavolinetto, dove l'avevano strascinato un pezzo, per abitudine e per dovere, nella mezz'ora prima di pranzo che il suo amico, sempre galante e gentiluomo, non mancava mai di dedicarle. Ora egli sentivasi mordere al cuore dal pensiero che un altro le facesse tremare la voce ed il cuore come un tempo aveva fatto lui, come sembravagli di provare ancora dentro di sé in quel momento - e che fosse stato sempre così, e che dovesse durare eternamente, anche per lei...


Ella prese un fiore che si piegava avvizzito nel vasetto d'argento, e gli disse tristemente:

- Vedete questa rosa che mi avete donata ieri? - Casalengo chinò la fronte sulla mano, e tacque un istante.


- Partirete? - domandò poi.


- Sì.


- Per dove? - Ella non rispose.


- Volete darmi almeno quel fiore? - chiese tristemente Alvise.


Ella esitò alquanto, prima di rispondere.


- Grazie!... Voi sapete vivere... - Egli si alzò in piedi, leggermente pallido, stretto nel vestito che gli dava ancora la sua aria militare, ma perfettamente padrone di sé, col sorriso un po' ironico dei suoi bei giorni.


- E lasciar vivere... sì, ho imparato a mie spese. Mi permettete di darvi un consiglio, in nome di questa benedetta esperienza?

- Dite.


- Partite sola... e più tardi che potete -.


Ella arrossì sino ai capelli.


- Non dubitate. Ci avevo pensato... pel vostro amor proprio.


- No, mia cara, per voi stessa, quando ritornerete, e avrete bisogno dei vostri amici -. E inchinandosi a baciarle la mano, aggiunse con un sorriso pallido:

- Voglio rimanere vostro amico... se volete... se sapete... -





Casamicciola


Quando giunse la notizia del disastro che aveva colpito Ischia mi parve di rivedere l'isoletta, quale mi era sfilata dinanzi agli occhi attraverso gli alberi del battello a vapore, in una bella sera d'autunno.


La mensa era ancora apparecchiata sul ponte, e gli ultimi raggi del sole indoravano il marsala nei bicchieri. Dei viaggiatori alcuni si erano già levati, e passeggiavano su e giù. Altri, coi gomiti sulla tovaglia, guardavano l'immensa distesa di mare che imbruniva sotto i caldi colori del tramonto su cui Ischia stampavasi verde e molle, e dove la riva si insenava come una coppa. Casamicciola, bianca, sembrava posare su di un cuscino di verdura.


A tavola due che tornavano dal Giappone discorrevano di seme di bachi. Una coppia misteriosa era andata a rannicchiarsi a ridosso del tubo del vapore. Un giovane che non aveva mangiato quasi, e stava seduto in un canto, pallido, col bavero del paletò rialzato, guardava l'isoletta con occhi pensierosi e lenti, in fondo alle occhiaie incavate.


Tutt'a un tratto sul profilo dell'isola che spiccava dalla luce diffusa del crepuscolo, apparve netto e distinto un fabbricato, quasi sorgesse d'incanto, e l'ultimo raggio di sole scintillò sui vetri, come l'accendesse.


Quel dettaglio del paesaggio che si animava all'improvviso apparve così chiaro e luminoso come se si fosse avvicinato d'un tratto.


Tutti si volsero ad ammirare lo spettacolo, e i negozianti di cartoni giapponesi tacquero un momento. Soltanto la coppia che era andata a nascondersi dietro il fumajuolo non si mosse, e gli occhi del giovane pallido che teneva il bavero rialzato non si animarono neppure.


Così succede ogni dì; e due sole preoccupazioni bastano per sé stesse, l'amore e la malattia, l'origine e la fine della vita.


Quasi cotesta riflessione fosse venuta istintivamente a tutti in quel momento, si cominciò a parlare dell'azione benefica che hanno le acque e l'aria di Casamicciola, e dei malati che vanno a cercarvi la salute o la speranza. Invece il giovane dal paletò, pensava probabilmente, come si fa delle cose che si desiderano, alle gioie tranquille e ignote che dovevano esserci in quell'isoletta verde, fra quelle casette bianche, dietro quei vetri scintillanti. E quando i vetri si spensero, e la casa si dileguò ad un tratto quasi al mutare di una lanterna magica, e i contorni dell'isoletta sfumarono nel mare livido, il suo volto si offuscò.


Adesso quella casetta bianca è forse distrutta, e degli occhi senza lagrime e senza sorriso ne contemplano le rovine, dalle occhiaie incavate, su dei visi pallidi.





Cavalleria rusticana


Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata.


Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! Però non ne fece nulla, e si sfogò coll'andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella.


- Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, - dicevano i vicini, - che passa la notte a cantare come una passera solitaria?

Finalmente si imbattè in Lola che tornava dal 'viaggio' alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo.


- Beato chi vi vede! - le disse.


- Oh, compare Turiddu, me l'avevano detto che siete tornato al primo del mese.


- A me mi hanno detto delle altre cose ancora! - rispose lui. - Che è vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere?

- Se c'è la volontà di Dio! - rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto.


- La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto!

E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola! - Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole.


- Sentite, compare Turiddu, - gli disse alfine, - lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?...


- È giusto, - rispose Turiddu; - ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo che ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d'andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, 'facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu' -.


La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d'oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d'indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell'oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava.


- Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia! - borbottava.


Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza.


- Perché non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? - rispondeva Santa.


- La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora!

- Io non me li merito i re di corona.


- Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è degna di portarvi le scarpe, non è degna.


- La volpe quando all'uva non potè arrivare...


- Disse: come sei bella, 'racinedda' mia!

- Ohè! quelle mani, compare Turiddu.


- Avete paura che vi mangi?

- Paura non ho né di voi, né del vostro Dio.


- Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi.


- Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio.


- Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei!

Ella, per non farsi rossa, gli tirò un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo.


- Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti.


- Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa.


- Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l'ho anche io, quando il Signore mi manderà qualcheduno.


- Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo!

- Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile -.


Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell'uscio, la figliuola gli aprì la finestra, e stava a chiacchierare con lui ogni sera, che tutto il vicinato non parlava d'altro.


- Per te impazzisco, - diceva Turiddu, - e perdo il sonno e l'appetito.


- Chiacchiere.


- Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti!

- Chiacchiere.


- Per la Madonna che ti mangerei come il pane!

- Chiacchiere!

- Ah! sull'onor mio!

- Ah! mamma mia! - Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilisco, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu.


- E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più?

- Ma! - sospirò il giovinotto, - beato chi può salutarvi!

- Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! - rispose Lola.


Turiddu tornò a salutarla così spesso che Santa se ne avvide, e gli battè la finestra sul muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo, quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule.


- Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell'uva nera! - disse Lola.


- Lascia stare! lascia stare! - supplicava Turiddu.


- No, ora che si avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi.


- Ah! - mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. - Sull'anima mia non voglio mandarti a Roma per la penitenza! - Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste.


- Avete ragione di portarle dei regali, - gli disse la vicina Santa, - perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa! - Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull'orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l'avessero accoltellato. - Santo diavolone! - esclamò, - se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado!

- Non son usa a piangere! - rispose Santa, - non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie.


- Va bene, - rispose compare Alfio, - grazie tante -.


Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l'uggia all'osteria, cogli amici. La vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell'affare e posò la forchetta sul piatto.


- Avete comandi da darmi, compare Alfio? - gli disse.


- Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi -.


Turiddu da prima gli aveva presentato un bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse:

- Son qui, compar Alfio -.


Il carrettiere gli buttò le braccia al collo.


- Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria potremo parlare di quell'affare, compare.


- Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme -.


Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l'orecchio del carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare.


Gli amici avevano lasciato la salsiccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gnà Nunzia, poveretta, l'aspettava sin tardi ogni sera.


- Mamma, - le disse Turiddu, - vi rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a tornar più? Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andrò lontano -.


Prima di giorno si prese il suo coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno, quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria.


- Oh! Gesummaria! dove andate con quella furia? - piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire.


- Vado qui vicino, - rispose compar Alfio, - ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più -.


Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto, premendosi sulle labbra il rosario che le aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi.


- Compare Alfio, - cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi, - come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant'è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella.


- Così va bene, - rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto, - e picchieremo sodo tutt'e due -.


Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all'anguinaia.


- Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi!

- Sì, ve l'ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi agli occhi.


- Apriteli bene, gli occhi! - gli gridò compar Alfio, - che sto per rendervi la buona misura -.


Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi all'avversario.


- Ah! - urlò Turiddu accecato, - son morto -.


Ei cercava di salvarsi, facendo salti disperati all'indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un'altra botta nello stomaco e una terza alla gola.


- E tre! questa è per la casa che tu m'hai adornato. Ora tua madre lascerà stare le galline -.


Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola e non potè profferire nemmeno:
- Ah, mamma mia! -






Certi argomenti


C'era un aneddoto che dopo più di un anno, faceva ancora le spese della conversazione alla tavola rotonda dell'Albergo di Russia, a Napoli, quando i tre o quattro ospiti che tutti gli anni solevano trovarsi al medesimo posto, dal cominciar del novembre alla fine di maggio, rimanevano faccia a faccia, col sigaro in bocca e i gomiti sulla tovaglia.


A quella medesima tavola si erano incontrati un tale Assanti, uomo elegante ed uomo di spirito, ed una signora Dal Colle, donna elegante e donna di spirito, un po' civetta, capricciosa e bizzarra, sul conto della quale si raccontavano certe storielle singolari, ben inteso senza provarne una sola, e che veniva ad epoche fisse, come una rondine, da Baden, da Vienna o da Parigi.


Tra i due commensali e vicini di tavola si era dichiarata una decisa e poco velata antipatia, non ostante che fossero entrambi persone assai bene educate, e scambiassero alle volte, il meno che potevano, degli atti e delle parole di cortesia. Una sera, dopo il caffè, Assanti, trovandosi nella sala dei fumatori, insieme a tre o quattro amici che parlavano della sua vicina, avea motivato la sua antipatia con un lusso di buon umore che aveva fatto rider tutti. Ad un tratto però si fece silenzio come per incanto, la signora Dal Colle passava nella sala contigua per andare a mettersi al pianoforte, come soleva fare qualche volta. - Ha udito tutto! - Non ha potuto udire! - dicevano sommessamente fra di loro quei signori. Il solo colpevole non se n'era preoccupato gran fatto. Si strinse nelle spalle, e disse ridendo:
- Or ora vedremo se ha udito -.


La signora scartabellava dei quaderni di musica, e non voltava nemmeno la testa; Assanti le si avvicinò col più bell'inchino, e le domandò tranquillamente:

- Scusi, ha udito quel che dicevamo a proposito di lei? - Ella gli piantò in faccia i due grand'occhi ben aperti, due occhi innocenti o traditori, e rispose colla massima disinvoltura:

- Scusi, perché mi fa questa domanda?

- Perché abbiamo scommesso d'indovinare quel che avrebbe suonato stassera -.


La donna sorrise, inchinò il capo, e incominciò a suonare la 'Bella Elena'.


- Signori, - disse Assanti voltandosi verso i suoi amici, che rimanevano mogi e ingrulliti, - avete perduto -.


Infatti sembrava impossibile che una donna potesse restare così bene nei gangheri dopo avere udito tutto quel che si era detto nella sala dei fumatori; e, cosa strana, un po' per la novità della cosa, un po' per obbligo di cortesia, Assanti, discorrendo con la Dal Colle di musica e d'altro, avea osservato come più d'una volta cane e gatta si fossero trovati d'accordo, sicché il discorso era andato per le lunghe, e gli amici, ad uno ad uno, se l'erano sgattaiolata. - Non ha udito nulla! - pensava Assanti.


Ad un tratto, quando furono soli, cambiando improvvisamente accento e maniere, la Dal Colle domandò, puntandogli contro quegli occhi indiavolati:

- È contento che gli abbia fatto vincere la scommessa, mio signor nemico? - Egli si inchinò e stette coraggiosamente ad aspettar l'assalto.


- Perché ci facciamo la guerra? - riprese ella con un altro tono di voce.


- Perché ella mi faceva paura.


- Oh! oh! eccoci in piena galanteria! Ebbene, mio bel cavaliere, quando mi salterà in capo di vendicarmi ne incaricherò voi stesso.


Ma francamente, non sarebbe stato meglio che fossimo andati d'accordo fin da principio?

- Facciamo la pace allora.


- Adesso è troppo tardi.


- Perché?

- Perché, perché... - disse alzandosi, - prima di tutto perché ora vi detesto - e poi perché fra due o tre settimane partirò.


- Vi seguirò.


- Dove?

- Dove andrete!

- Ma non lo so dove andrò; né lo saprete voi. Nemici dunque -.


Assanti la salutò ridendo, ma dovette convenire che la sua graziosa nemica poteva avere tutti i difetti, all'infuori di uno.


Il domani, mentre si vestiva per andare a pranzo, trovò sul tavolino un biglietto scritto da mano sconosciuta.


«Venite al n. 11, a mezzanotte. Non bussate.» Egli si mise a ridere, e disse fra di sé:

- Non v'è dubbio, ha udito tutto; ma il tranello è troppo grossolano per una donna di spirito! che peccato! - La signora Dal Colle non era venuta a tavola. Assanti sorrise più di una volta sotto i baffi volgendo gli occhi a quel posto vuoto.


Dopo desinare andò a teatro, e non ci pensò più.


Finita l'opera, passò una mezz'ora al caffè di Europa, e quando tornò all'albergo il gas era spento. Passando pel corridoio, dinanzi all'uscio di quel famoso numero undici, si rammentò un'altra volta del biglietto che avea in tasca e involontariamente rallentò il passo.


Si mise alla finestra, fumò il suo sigaro, lesse il suo giornale, e poi andò a letto. Il letto era duro ed uggioso insolitamente quella notte; faceva caldo, e Assanti avea un bel voltarsi e rivoltarsi senza poter chiudere occhio.


Quelle due linee sottili che teneva chiuse nel portafogli posto sulla tavola a capo del letto, sgusciavano fuori della busta, si allungavano serpeggiando in ghirigori per le pareti, gli si attortigliavano alle sbarre del cortinaggio, si insinuavano sotto l'uscio, e guizzavano pel corridoio oscuro, lasciando sul tappeto una striscia fosforescente.


Spense il lume, lo riaccese, rilesse il bigliettino, stavolta senza ridere, ché l'odore del foglietto profumato gli dava alla testa, spense il lume di nuovo per addormentarsi, e fu peggio di prima; nelle tenebre faceva sogni stravaganti ad occhi aperti; vedeva quell'uscio del numero undici socchiuso, una forma bianca che sporgeva la testa dal vano, e quella donna, per la quale il giorno innanzi non avrebbe mosso un dito, ora che gli era passata pel capo sotto altro aspetto, un solo istante, per ischerzo, assumeva forme e sorrisi affascinanti. Il sangue gli martellava nelle vene. Finalmente si vestì a guisa di sonnambulo, quasi non avesse coscienza di quel che facesse; arrivò a mettere la mano sulla maniglia dell'uscio, e tornò a cacciarsi frettolosamente fra le coltri, vergognoso della ridicola tentazione alla quale avea ceduto con facilità inesplicabile, come se la sua nemica avesse potuto vederlo e dargli la baia. La notte dormì male, e si levò di cattivo umore.


All'ora del pranzo trovò la Dal Colle al suo solito posto, gaia e disinvolta come se nulla fosse stato, e civetta più che mai. Non gli fece l'onore di accorgersi menomamente di lui, e una volta gli lanciò a bruciapelo uno sguardo schernitore che avrebbe fatto montare la mosca al naso ad un uomo meno padrone di sé dell'Assanti. Egli si era fatto il suo piano di rappresaglie e di allusioni pungenti, ma aspettò inutilmente tutta la sera nel salotto dove la Dal Colle soleva far della musica. A poco a poco, a suo dispetto, quel sangue freddo, quella sicurezza, quella disinvoltura, lo dominavano e lo facevano arrabbiare.


Evidentemente costei che l'aveva vinto con la burla più grossolana del mondo era più forte di lui; sapeva che sarebbe bastato un nonnulla, un cattivo scherzo, per insinuarglisi tutta nelle fibre come una spina, impadronirsene, metterlo sossopra, e agitarlo co' suoi menomi capricci.


Dopo che la Dal Colle si era data la soddisfazione di quella piccola vendetta da donna, sembrava non pensasse più ad Assanti, e si lasciava fare la corte da un certo barone Ciriani, il quale passava per un don Giovanni, inclusa la bravura e la fortuna di duellista; ora ad Assanti sembrava che la Dal Colle in quel lasciarsi corteggiare, così sotto i suoi occhi, ci mettesse dell'ostentazione, e questo lo seccava assai.


La furba sapeva al certo che si può fare a fidanza, toccando certi tasti, colla semplicità mascolina, si avesse a fare coll'uomo più avveduto di questo mondo. Era bastata la lusinga più lontana, più sciocca, più inverosimile, perché Assanti si montasse la testa a poco a poco, sino a credere che i successi ottenuti dal Ciriani fossero rubati a lui, e che la civetteria di lei fosse un torto che gli si faceva. Il brillante giovanotto era ridotto alla più grulla figura possibile; cominciava ad accorgersene anche lui, ciò aumentava la sua stizza, e un dispetto ne chiamava un altro, sino a fargli perdere la tramontana; sicché alla sua volta intraprese contro il Ciriani un sistema di ostilità così poco velate, e di provocazione così diretta, che non ci volle meno di tutta l'abilità della donna per scongiurare il pericolo di un serio guaio.


Finalmente ella parve stanca della lotta che dovea sostenere con Assanti quotidianamente, e prendendolo una sera a quattr'occhi nel vano della finestra, dissegli:

- Orsù, mio bel nemico, a che giuoco giuochiamo? Con qual diritto ad ogni momento vi gettate a testa bassa fra me e il Ciriani?

- Con qual diritto mi fate questa domanda? - ribatté Assanti.


- Parliamoci chiaro. Voi mi eravate debitore di una piccola soddisfazione di amor proprio, ed io ho ottenuto il mio intento col mezzo più semplice. Non vi ho fatto il torto di pensare che avreste preso sul serio il mio biglietto, ho reso sempre giustizia al vostro spirito, e del resto nemmeno un ragazzo di scuola ci sarebbe cascato; ma eccovi lì, fra vergognoso, bizzoso, e incapricciato, e questo deve bastarmi. Ora siamo pari; lasciatemi tranquilla, caro mio; Ciriani non c'entra.


- Ce lo tireremo pei capelli!

- Impresa arrischiata! Sapete che come duellista ha una brutta riputazione.


- Ebbene, - esclamò Assanti un po' rosso in viso, - se mi gettassi attraverso cotesta riputazione, mi perdonereste?

- La storia del biglietto? Per chi mi prendete, caro signore, cercando di scambiarmi le carte in mano?

- Non ridete così, in fede mia! Son qui, dinanzi a voi, ridotto ad arrossire di quel che ho fatto e detto contro di voi; mi sento ridicolo, deve bastarvi.


- Ridicolo, perché?

- Perché vi amo.


- Da quando in qua?

- Dacché mi ci avete fatto pensare.


- Dacché siete indispettito contro di me allora?

- Non so se sia amore o dispetto, so che così non può durare, che voi m'avete stregato, e che finirete per farmi impazzire.


- Oibò! - Assanti rimase zitto un istante, di faccia al sorriso mordente della Dal Colle; poi riprese, cambiando tono e maniere, e facendosi improvvisamente serio. - Orsù, bisogna fare qualche cosa perché prestiate fede a quel che vi dico. Bisogna provocare Ciriani e rendermi ridicolo completamente.


- Guardatevene bene! - dissi ella senza ridere più. - Detesto gli scandali, e non mi vedreste mai più, né voi, né lui! - La signora Dal Colle faceva i preparativi per la partenza; Assanti venne a saperlo il giorno dopo.


- Partite? - le disse.


- Sì: fuggo. Siete soddisfatto? Facciamo la pace prima di lasciarci.


- No, facciamo di meglio: ditemi dove andrete. Noi siamo qualcosa più di due semplici conoscenze, siamo due nemici; siamo liberi entrambi e padroni di noi; entrambi scorrazziamo pel mondo onde fuggire la noia. C'incontreremo in tutte le stazioni, ci faremo dei dispetti, ci faremo la guerra, ci odieremo, e così non avremo il tempo di annoiarci.


- No, no! E il pericolo d'innamorarsi lo contate per nulla?

- Anche voi?

- Sì, mi par di sì, dopo quello che mi avete detto ieri sera.


- Ebbene! alla peggio!...


- Non la prendete così; parlo sul serio, e sapete che sono franca.


- In tal caso franchezza per franchezza... Chiudete gli occhi e lasciate fare al pericolo.


- Ci penserò.


- ...Ci ho pensato, - gli disse il giorno dopo, poche ore prima di partire all'insaputa di lui. - No, sarebbe peggio di una disgrazia, sarebbe una sciocchezza. È un gran brutto affare, due amanti che un giorno o l'altro possano ridersi sul naso! e questo giorno arriverebbe, a meno di un miracolo... poiché bisognerebbe proprio un miracolo! qualcosa di grosso! un atto di eroismo, una grande azione o una grande follia, per scongiurare cotesto pericolo... e come io non farò mai nulla di tutto questo, né voi lo farete, né voglio che lo facciate, così... nemici!

- Chi vi dice che non lo farò?

- Davvero?... Mi par di essere in piena cavalleria!... Ebbene, allora!... Intanto a rivederci -.


Il giorno dopo non si vide né alla tavola rotonda, né altrove.


Assanti seppe che era partita, e che anche il Ciriani era partito.


Quella notizia gli fece ardere il sangue nelle vene come se l'avessero schiaffeggiato. Ogni minima parola, ogni sorriso, ogni inflessione di voce di lei, nell'ultimo colloquio che avevano avuto, gli tornava alla mente, con acute punture di dispetto, di gelosia, ed anche d'amore. Dal momento che era fuggita con un altro, quella donna eragli divenuta diabolicamente necessaria, per tutto quello che non era stato, per tutto quello che si era detto fra di loro. Allora cotesto eroe da salone, per puntiglio o per vanità, si sentì capace di quelle virtù eroiche da palcoscenico, delle quali ella si era promessa in premio.


Avrebbe voluto acciuffarsi con dieci Ciriani; avrebbe voluto traversare un villaggio in fiamme sulla punta dei suoi stivalini verniciati, recandosi lei sulle braccia; avrebbe voluto saltare un precipizio di mezza lega per salvarla, senza fare uno strappo ai suoi pantaloni di Lennon. Si sentiva invaso da una specie di febbre. Partì sulle tracce di lei; gettò il denaro a due mani; viaggiò notte e giorno, in ferrovia, in carrozza e a cavallo, con un tempaccio da lupi, in mezzo alle selvagge solitudini per le quali correva la linea di Foggia, allora incompleta, col pericolo di cadere di momento in momento nelle mani dei briganti che scorrazzavano per quelle parti.


Finalmente ebbe le prime notizie della Dal Colle ad Ariano; ella viaggiava in carrozza, seguita dai suoi domestici, senza l'ombra di un Ciriani. Prima di annottare, una o due poste prima di Bovino, l'oste ed il conduttore cercarono di dissuaderlo di andare innanzi, perché la campagna era infestata dai briganti. Fu come se gli avessero messo il diavolo addosso. Lei era in pericolo: non pensava ad altro. La notte istessa, poco dopo Bovino, raggiunse le due carrozze colle quali ella viaggiava, ferme dinanzi ad un povero casolare che era la posta dei cavalli. Il lanternino appeso all'uscio era stato fracassato da mano invisibile; la porta era spalancata, e la stalla vuota.


I postiglioni avevano chiamato e strepitato senza che comparisse alcuno. Assanti da lontano gridava di non andare avanti: uno dei postiglioni temendo d'essere inseguito dai briganti gli sparò addosso una pistolettata senza colpirlo.


- Fermatevi, - ripeté Assanti. - Fermatevi, in nome di Dio! o siete perduti -.


Allo sportello di una delle due carrozze si vide dietro il cristallo, al riflesso incerto dei fanali, il viso un po' pallido della Dal Colle. Ella riconobbe Assanti in mezzo a quella scena di confusione e di spavento, e gridò al cocchiere con accento febbrile:

- Avanti! avanti! duecento lire di mancia!

- Avanti ci sono i briganti! - gridò il giovane quasi fuori di sé.


In quell'istante, senza che si vedesse anima viva, si udì una voce che sembrava venire da una rupe che sovrastava il lato sinistro della via.


- Fermi tutti!... o per la Madonna! siete morti! - Il cocchiere applicò una vigorosa frustata ai cavalli che puntarono zampe ed inarcarono le schiene per slanciarsi al galoppo; ma prima che avessero fatto un sol passo si udì un colpo di fucile ed il cavallo di sinistra cadde imbrogliandosi nei finimenti; il cocchiere si buttò da cassetta e sparì nelle tenebre; la seconda carrozza, quella in cui erano i domestici della Dal Colle, voltò indietro, e fuggì a rotta di collo. Tutto ciò era avvenuto in meno che non ci vuole per dirlo. Assanti si slanciò allo sportello della vettura, afferrò la donna per la vita come una bambina, la spinse nella stalla e ne chiuse la porta alla meglio, ammucchiandovi contro tutto quel che poté trovare. Al primo trambusto di quella scena era succeduto un silenzio profondo e misterioso; gli assalitori, prima di scendere nella strada, volevano al certo misurare la resistenza che avrebbero incontrata.


La Dal Colle, ritta in un angolo, non diceva una sola parola, e Assanti, rivolto verso l'uscio, colla cabina a due colpi in pugno, aspettava. Come si furono abituati all'oscurità, scorsero, alla fioca luce dei fanali della carrozza che trapelava dalle commessure mal connesse dell'uscio, una scala a piuoli, la quale dal fondo della stalla metteva per una botola al fienile soprastante. Sulla strada si cominciava ad udire un tramestio attorno alla carrozza, rimasta dinanzi al casolare. Assanti fece salire la sua compagna al piano di sopra, e quando fu salito anche lui, tirò su la scala. Al difuori durava ancora il silenzio, e di quando in quando il cavallo rimasto in piedi, scuoteva la sonagliera.


- Voi mi scaricherete la vostra carabina alla testa se dovessi cader viva nelle mani di coloro! - furono le prime parole che la donna gli rivolse con voce breve e febbrile.


- Sì! - rispose Assanti collo stesso tono.


Egli era corso alla finestra; non si vedeva nessuno; la carrozza era sempre ferma dinanzi all'uscio, descrivendo un breve cerchio di luce coi suoi due fanali; il cavallo fiutava con curiosità il compagno caduto. Ad un tratto si udì un secondo colpo di fucile, e dall'architrave della finestra, a due dita dal capo di Assanti, caddero dei calcinacci. La Dal Colle lo tirò indietro bruscamente.


Allora per la prima volta i loro sguardi si incontrarono. Ella era pallida come uno spettro, ma i suoi occhi erano sfavillanti.


All'improvviso la porta della stalla fu scossa da un urto che rimbombò come se l'avesse sconquassata. Assanti corse alla finestra e fece fuoco; si udì un grido, seguito da una scarica generale diretta contro di lui. Assanti si chinò sulla botola, mirò alla porta della stalla e fece fuoco una seconda volta. I briganti, a quei colpi di carabina che venivano dall'alto e dal basso, credettero di avere a fare con parecchi, decisi di vender cara la loro vita, e ricorsero ad un altro mezzo di attacco più sicuro e meno pericoloso. La fucilata cessò come per incanto.


Si udirono al di fuori rumori diversi, che da principio i due assediati non sapevano spiegarsi: un via vai, un risuonare di sonagliuoli dei cavalli, un muovere di ruote; poi rimbombò un secondo e forte urto alla porta della stalla, come se la carrozza vi fosse stata spinta contro a guisa d'ariete. Assanti trasalì per l'imminenza di un nuovo e sconosciuto pericolo; il cuore gli batteva forte. - Chi ci avrebbe detto che il miracolo di cui vi parlavo sarebbe stato così vicino! - disse la Dal Colle con uno strano sorriso. Ei le afferrò la mano ed ella non la ritirò.


In quel momento un riflesso rossastro si disegnò come una apparizione infernale di faccia alla porta, sulla parete nera della stalla. Il giovane, dimentico del pericolo passato per quello più grande che li minacciava, corse alla finestra, e la spalancò; le fiamme che bruciavano la carrozza e l'uscio della stalla illuminarono vivamente il fienile. - Cosa fanno adesso? - domandò la donna stringendosi a lui con mano tremante. - Bruciano la casa! - rispose Assanti con voce sorda. - Voi mi avete promesso che morremo insieme! - dissi ella dopo un minuto di silenzio.


Presso la finestra le travi del solaio cominciavano a scoppiettare, e le fiamme mostravano attraverso le assi le loro lingue azzurrognole che lambivano le pareti; il fumo annebbiava la stanzuccia e li soffocava. La donna guardava Assanti con occhi singolari.


- Vi siete perduto per me! - mormorò finalmente, con un accento di cui egli non avrebbe supposto capace quella donna leggiera.


- Vi amo! - egli rispose.


Allora in mezzo al fumo che li accecava, dinanzi alle fiamme che allungavano verso di loro lingue sitibonde, sotto una pioggia di faville infuocate, fra gli urli dei banditi che danzavano e sghignazzavano attorno a quell'orribile rogo, ella gli avvinse le braccia al collo, e posò la guancia sulla guancia di lui.


Tutt'a un tratto si udì sulla strada un gran tumulto, colpi di fuoco, urli di dolore, grida di collera. I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in fretta. Un brigadiere si precipitò fra le fiamme, e strappò i due amanti da quell'amplesso di morte.


Albeggiava appena. Assanti e la Dal Colle furono accompagnati a Bovino. Ella era pallidissima. Quando furono soli nella miglior stanza dell'albergo, gli stese la mano.


- Ora separiamoci.


- Come, separarci!...


- Abbiamo passato un bel momento, abbiamo realizzato il miracolo che sembrava impossibile alla tavola rotonda dell'Albergo di Russia. Non lo guastiamo! Siamo stati degli eroi, e siccome non potremmo aver sempre sottomano dei briganti per esaltarci, finiremo per trovarci ridicoli. Lasciamoci eroi dunque.


- Che donna siete mai?

- Mi dicono che sono una matta: ma mi accorgo che una matta è sempre più ragionevole dell'uomo più savio. Vediamo, amico mio, discorriamola ora che la stanchezza fa dar giù la febbre. In due settimane voi passate dall'antipatia all'entusiasmo; vi gettate a corpo perduto su di me, e mi fate il sacrificio della vostra vita, senza sapere se io ne sia degna. - È ragionevole cotesto? Avete fatto per me una bella azione, qualcosa che può toccare il cuore o la testa di una donna, e far mettere il cappuccio alle sue follie... non c'è che dire; ma siete certo che non abbiate fatto il sacrificio pel sacrificio? perché vi eravate montata la testa?

più per voi che per me insomma? Siete persuaso che l'abbiate fatto schiettamente e semplicemente per amor mio?

- Qual altra prova ne vorreste?

- Una prova semplicissima: voi dite che mi amate?

- Sì.


- Non mi conoscete, non sapete chi sia, né da dove venga; non sapete se sia degna di voi, e se potrei amarvi come vorreste essere amato!...


- So che vi amo!

- Su dieci uomini, e dei più savi, nove risponderebbero come voi.


E se vi amassi, sareste felice?

- Sì.


- E questa felicità vi basterebbe? Quanto vorreste che durasse?

- Sempre.


- Perché non mi sposate allora?

- ...Ci penserò -.




...E chi vive si dà pace


Come la batteria partiva a mezzanotte, Lajn in Primo aveva invitato la sua ragazza a desinare - una gentilezza per mostrarle il dispiacere che provava nel lasciarla. - Sapevano giusto un'osteria di campagna, appena fuori la porta, bel sito e vino buono, quattro ciuffetti di verde al sole, l'altalena e il gioco delle bocce, i tavolinetti sotto il pergolato, da starci bene in due soli, senza soggezione; e subito dopo la campagna larga e quieta, grandi fabbriche in costruzione, tutte irte di antenne, un folto d'alberi a diritta, e in fondo la linea dei monti, che digradavano.


Anna Maria s'era messa il vestitino nuovo, colla giacchetta attillata, le scarpette di pelle lucida e le calze rosse. Sentiva una gran contentezza, stando insieme al suo bel militare, coi gomiti sulla tovaglia, i mezzi litri che andavano e venivano, Lajn Primo di faccia a lei, col naso nel piatto, dandole delle ginocchiate di tanto in tanto. Però al vedergli il chepì coll'incerato, e la striscia gialla della giberna che gli fasciava il petto, si sentiva gonfiare il cuore nel seno, grosso grosso, da mozzarle il fiato. - Mi scriverai? Dì: mi scriverai? - Egli accennava di sì, a bocca piena, guardandola negli occhi lucenti che l'accarezzavano tutto, il panno grosso dell'uniforme e la faccia lentigginosa di biondo. C'erano nel piatto dei mandarini colle foglioline verdi. Essa ne strappò una, e volle mettergliela alla bottoniera.


Lì accanto si udiva l'urtarsi delle bocce fra di loro. Alcune ragazze schiamazzavano attorno l'altalena, colle gonnelle in aria.


Passavano dei carri per la strada, cigolando, delle nuvole grigie di estate che lasciavano piovere una gran tristezza. Lajn Primo chiacchierava sempre lui, col sigaro in bocca, la testa già lontana, nei paesi dove andava la batteria, cercando di tanto in tanto la mano di Anna Maria attraverso la tavola, quando in bocca gli venivano le parole buone. Poi, siccome aveva il vino allegro, si mise a canticchiare:

Morettina di la stacioni.


Ecco il trenno che già parti.


Mi rincresse di lasciarti, Il soldato mi tocc'affar E tutt'a un tratto la ragazza scoppiò a piangere, col viso nel tovagliuolo.


- Via! via! I morti soli non si rivedono!... - Stavolta però gli tremavano i baffi rossi anche a lui, e le mani, nell'affibbiarsi il cinturone. Vollero fare quattro passi sino al fiume, come le altre volte. C'era un sentieruolo fangoso a sinistra, fra i campi, sotto dei grandi olmi.


Anna Maria si lasciava condurre a braccetto, colle sottane in mano, gli occhi socchiusi che non vedevano, un gran sbalordimento dentro, una dolcezza infinita e malinconica, al tintinnìo di quella sciabola e di quegli sproni e al contatto di quell'uniforme contro cui tutta la sua persona le sembrava che volesse fondersi.


Egli le aveva passato il braccio attorno alla vita, mormorandole ne' capelli tante paroline affettuose che essa udiva confusamente, l'orecchio però sempre teso verso la tromba della caserma, da buon soldato.


A un certo punto Anna Maria gli sfuggì di mano, e corse a inginocchiarsi sul ciglione del fossatello, senza badare al vestito nuovo, per cogliere delle foglioline verdi che spuntavano dal muricciuolo.


- Per te! Le ho colte per te! - Egli non sapeva più dove metterle; le diceva scherzando che lo caricava d'erba come un asino, così, per farla ridere. La ragazza però non rispondeva; stava segnando delle grandi lettere storte sulla corteccia di un olmo, con un sasso, due cuori uniti e una croce sopra. Lajn non voleva, per via del malaugurio; però l'aveva presa fra le braccia, intenerito anche lui, tanto non passava nessuno nella stradicciuola fangosa di là dall'argine. Essa diceva di no, diceva di no, col cuore gonfio. Guardava piuttosto un gran muraglione nerastro ch'era dirimpetto, quasi volesse stamparselo negli occhi. Gli diceva:
- Guarda anche tu! anche tu! - Aveva il viso triste, poveretta! Calava la sera desolata, con una squilla mesta e lontana dell'avemaria che picchiava sul cuore.


Quanto piangere fece Anna Maria cheta cheta nel fazzolettino ricamato!

Prima di lasciarla, sull'angolo della via, egli le aveva detto:
- Verrò a salutarti un'altra volta, prima di partire; fatti portare sulla porta -. E si tenevano per mano, non si risolvevano a staccarsi l'uno dall'altro. Lajn Primo tornò infatti a salutarla un'altra volta, prima di partire, come passasse per caso, nell'andare in quartiere. Anna Maria teneva per mano la figlioletta del portinaio - un pretesto per star lì sulla porta - e gli fece segno che c'era gente dietro l'uscio. Allora scambiarono ancora quattro parole per dirsi addio, senza guardarsi, parlando del più e del meno - lui che gli tremavano i baffi rossi un'altra volta. - Passerete di qua, per andare alla stazione? - Sì, sì, di qua! - Ogni momento della gente che andava e veniva, Ghita nel cortile ad accendere il gas. Lajn Primo accese anche un sigaro, e se ne andò colle spalle grosse. Anna Maria lo guardava allontanarsi.


La gente si affollava per la via, a veder passare i soldati che partivano pel campo: tutti gli inquilini della casa, sotto il lampione della porta; Ghita che teneva abbracciata Anna Maria; suo padre, il portinaio, e i padroni anche loro, alle finestre, coi lumi. Così la povera ragazza vide passare la batteria dov'era il suo artigliere, in mezzo alla calca e ai battimani; i cavalli neri che sfilavano a due a due, scotendo la testa, dei cassoni enormi che facevano tremare le case, e sopra, sui cappelli e i fazzoletti che sventolavano, i chepì degli artiglieri coll'incerato, dondolando.


Non vide altro: tutti quei chepì si somigliavano. Il suo Lajn però la scorse, alle folte trecce nere, in mezzo alle comari, la mamma di Ghita che stava contandole delle frottole - la vide che lo cercava, povera figliuola, con gli occhi smarriti e il viso pallido, senza poterlo scorgere, seduto basso com'era sul sediolo accanto al pezzo, il guanto sulla coscia, al suono triste della marcia d'ordinanza, che si allontanava.


Passarono città, passarono villaggi; dovunque, sulle porte, uomini e donne che s'affacciavano a veder passare i soldati. Alle volte, nella folla, un musetto pallido che somigliava ad Anna Maria - «Morettina di la stacioni...» - Alle volte, lungo lo stradone polveroso, un'osteria di campagna coll'altalena e il pergolato verde, come quella dov'erano stati a desinare insieme. Alle volte un fossatello con due filari d'olmi, o un muraglione nerastro che rompeva il verde. Oppure una cascina coi panni stesi al sole, una vecchierella che filava, un sentieruolo come quello per cui era disceso dai suoi monti, col fagottino sulle spalle larghe e robuste che lo avevano fatto prendere artigliere. Poscia la via bianca e polverosa, rotta, sfondata dal passaggio della truppa formicolante di uniformi - e di tanto in tanto uno squillo di tromba, che sonava alto nel brusìo.


Di qua del fiume una gran folla: soldati di tutte le armi, un luccichìo, tende di cantiniere che sventolavano, e cavalli che nitrivano; delle canzoni dolci e malinconiche, in tutti i dialetti, come un'eco lontana del paese, in mezzo alle risate e al rullo dei tamburi:
- «Morettina di la stacioni... mi rincresse di lasciarti!...» - Sull'altra sponda la campagna calma e silenziosa, coi casolari tranquilli affacciati nel verde delle colline, e sulla linea scura che traversava il fiume, luccicante qua e là, l'ondeggiare delle banderuole turchine, una lunga fila di lancieri polverosi che sfilavano sul ponte.


Le quattro trombe della batteria tutte insieme sonarono - Avanti - . Poscia, di là del ponte - A trotto! - in mezzo a un nugolo di polvere, alberi e casolari che fuggivano, pennacchi di bersaglieri ondeggianti fra i seminati. Di tanto in tanto, in mezzo al frastuono, si udiva un rombo sordo, dietro le colline. E fra gli scossoni dell'affusto, la canzone della partenza che ribatteva:
- «Ecco il treno che già parti...» - A galoppo, 'Marche'! - Addio, Morettina! Addio!

Su, su, per l'erta, sfondando le siepi, sradicando i tralci, saltando i fossati, i cavalli fumanti e colle schiene ad arco, gli uomini a piedi, spingendo le ruote, frustando a tutto andare. Poi, sulla cima del colle, due carabineri di scorta immobili, a cavallo, dietro un gruppo di ufficiali che accennavano lontano, alle vette coronate di fumo, e dei soldati sparsi per la china, fra i solchi, come punti neri. Qua e là, dei lampi che partivano dalla terra bruna, e il rombo continuo nelle colline dirimpetto, delle nuvolette dense che spuntavano in fila sulla cresta.


Detto fatto, i pezzi in batteria, e musica anche da questa parte.


Allora, dopo cinque minuti, attorno alla batteria cominciò a tirare un vento del diavolo - la terra che volava in aria, gli alberi dimezzati, solchi che si aprivano all'improvviso, dei sibili acuti che passavano sui chepì. Però attenti al comando e nient'altro per il capo - né capelli bianchi, né capelli neri. - Abbracci'avant! - Alt! - Caricat! Prima il povero Renacchi che stava per compir la ferma. - Mamma mia! Mamma mia - Numero due, manca! - Attenti! - Si udiva il comando secco e risoluto del biondo ufficialetto che stava impettito fra i due pezzi, ammiccando nel fumo, cogli occhi azzurri di ragazza, i quali vedevano forse ancora il piccolo coupé nero che aspettava in piazza d'armi, e la mano bianca allo sportello. - Abbracci'avant!

- Alt! - Caricat! - Tutt'a un tratto giù in un gomitolo anche lui, fra un nugolo di polvere, gemendo sottovoce e mordendo il cuoio del sottogola. Solo il comandante rimaneva in piedi, ritto sul ciglione, in mezzo al vento furioso che spazzava via tutto, guardando col cannocchiale, come un gran diavolo nero.


Lajn Primo in quel momento stava chino sul pezzo, a puntare, strizzando l'occhio turchino, come soleva fare per dire ad Anna Maria quanto gli piacesse il suo musetto, e facendo segno colla destra al numero tre di spostare a sinistra la manovella di mira, quando venne la sua volta anche per lui. - Ah! Mamma mia! - Colle mani tentò di aggrapparsi ancora all'affusto, delle mani che vi stampavano il sangue - cinque dita rosse. - Numero quattro, manca!

- Attenti! - II telegrafo portava le notizie, una dopo l'altra: tanti morti, tanti feriti. - Ciascun bollettino cinque centesimi. - Anna Maria ne aveva raccolto un fascio, lì sul cassettone. E poi, due volte al giorno, all'andare e venire dalla fabbrica, passava dalla posta. - Nulla - nulla -. Che gruppo allora nella gola! che peso sul cuore e dinanzi agli occhi! La sera soprattutto, quando sonava la ritirata! La notte che se lo sognava, e lo vedeva sotto il pergolato, canticchiando - «Mi rincresse di lasciarti», - e le stringeva la mano sulla tovaglia! Avesse avuta la mamma almeno, per sfogarsi! Il babbo, poveretto, cosa poteva farci? notte e giorno sulla macchina, a correre pel mondo. La sua amica Ghita, che non aveva fastidi, lei, e non se la prendeva di nulla, faceva spallucce, ripetendole:

- Gli uomini, mia cara, son tutti così. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! - Quanto piangere fece in quel fazzolettino!

Tornavano i soldati, lunghe file di cavalli, battaglioni interi.


Dinanzi al castello, in piazza d'armi, erano pure tornati i carretti colle arance, e quelli del sorbetto a due soldi, e le bambinaie coi ragazzi, e le coppie che si allontanavano sotto gli alberi. Artiglieri che andavano e venivano, coll'incerato sul chepì, tale e quale come Lajn Primo. - n. 7, n. 9. - Solo mancava il numero del suo Lajn.


Nella fabbrica aveva sentito dire che molta truppa era stata mandata in Sicilia - laggiù, lontano. - Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! - Neppure un rigo in tre mesi! Quante gite alla posta! quante volte ad aspettare il portalettere dal portinaio!

Tanto che Cesare, il servitore dirimpetto, il quale veniva a pigliare le lettere della contessa, le diceva anche lui, ridendo:

- Nulla, eh? Ha male alla penna il suo artigliere? - Una vera persecuzione quell'antipatico, colla faccia di donna, e i capelli lucenti di pomata! Aveva un bello sbattergli la finestra sul muso! Tutto il giorno lì, di faccia, in anticamera, a farle dei segni colle manacce sempre infilate nei guanti bianchi, scappando solo un momento appena sonavano il campanello, e tornando subito a montare la sentinella. Sempre, sempre, quasi si cocesse anch'esso a poco a poco, al vedersela ogni giorno lì di faccia. Sicché una volta la fermò per le scale, e le disse:
- Cosa le ho fatto, infine? Almeno me lo dica! - E come si vedeva che le parole gli venivan dal cuore, essa non ebbe animo di mandarlo a quel paese.


Pensava sempre a quell'altro, però, lavorando alla finestra.


Chissà, chissà dov'era? di là da quelle case, dove andavano quelle nuvole scure? Che tristezza quando giungeva la sera! La campana di Sant'Angelo, lì vicino, che le picchiava sulla testa, e in cuore la tromba della ritirata, che piangeva. Il servitore accendeva i lumi, dirimpetto, e poi rimaneva ancora lì, nell'ombra delle cortine, si scorgeva dai bottoni che luccicavano. Quanto piangere in quel fazzolettino ricamato! Tanto che il cuore era stanco e s'era vuotato intieramente.


Il giorno di san Luca, ch'era anche la festa del portinaio, andarono tutti a Monte Tabor. Ghita era venuta a prenderla per forza, e anche Cesare, il quale s'era fatto dare il permesso quel giorno dalla padrona, e le aveva detto, stringendole le mani:
- Venga, venga con noi! Così, a star sempre chiusa, piglierà qualche malanno! - Una gran tavolata all'aria aperta, l'altalena e il giuoco delle bocce -. Cesare, che pensava sempre ad una cosa, le rispose:
- M'importa assai delle bocce adesso! Mi lasci stare vicino a lei piuttosto, ché non la mangio mica! - La sera poi, al ritorno, le diede il braccio; tutta la brigata a piedi pel bastione, sotto i platani che lasciavano cadere le foglie. Una bella sera fresca e stellata. Delle ombre a due a due che si parlavano all'orecchio, sui sedili, voltando le spalle alla strada.


Anna Maria chiacchierava di questo e di quello, per non lasciar cadere il discorso. L'altro zitto, a capo chino. - Buona sera, buona sera. - Aspetti, aspetti. L'accompagno sino all'uscio, di sopra. Non voglio che salga le scale così al buio e tutta sola.


Ora accendo un cerino. - No, no, ci son le stelle -. Delle stelle lucenti che scintillavano sui tetti, attraverso i finestroni ad arco, ogni ramo di scala - sei rami. Anna Maria, di già stanca, s'era appoggiata al muro, proprio accanto al finestrone, col fiato ai denti. - Ah! le mie povere gambe! - Egli sempre zitto, guardandola nella poca luce che lasciava vedere soltanto il musetto pallido e gli occhi lucenti. - Che fatica! Una giornata intera! Dev'essere molto tardi. Guardi quante stelle! - Batteva un po' la campagna anche lei, poveretta, per sfuggire a quel silenzio. Ma lui non rispondeva ancora. - Bella sera! Non è vero?

- Allora egli le prese la mano e balbettò con voce mutata:
- Se crede che abbia capito quel che m'ha detto, sa!... - E anche lei fu vinta da una gran dolcezza, da un grande abbandono. Gli lasciò la mano nella mano e chinò il capo sul petto.


Quest'altro aveva le mani bianche e pulite di uno che non fa nulla, i capelli lisci, la pelle fine, certe garbatezze d'anticamera che l'accarezzavano. Lo vedeva ogni giorno, l'aspettava alla porta, si lasciava condurre la domenica a desinare in campagna, alla stessa tavola, sotto il pergolato, colle ragazze che schiamazzavano sull'altalena, e gli avventori che giocavano alle bocce. Avevano passeggiato insieme per quella stradicciuola fangosa, sotto i pioppi, stringendosi l'uno all'altro, nella sera che li celava. Poi egli voleva sapere questo e quello; voleva frugare come un furetto nel presente e nel passato. La faceva ritornare, passo passo, verso quelle memorie che le rifiorivano in cuore come una carezza e una puntura. Era geloso della stradicciuola dove era stata a passeggiare con quell'altro, geloso della campagna che avevano vista insieme, della tavola alla quale s'erano seduti e del vino che avevano bevuto nello stesso bicchiere. Diventava a poco a poco ingiusto e cattivo. Un vero ragazzo, ecco. Un ragazzo bizzoso da mangiarserlo coi baci. Che dolcezza per Anna Maria allora! Che dolcezza triste ed amara! Tutte le lacrime che egli le faceva versare le restavano in cuore, e glielo rendevano più caro.


Le bruciava le labbra! ma infine... infine glielo disse:
- Non ci penso più, ti giuro! Non ci penso più a quell'altro!... - Cesare non voleva crederle! Anzi, a ogni cosa che ella facesse per provarglielo, ogni bacio, ogni carezza, ogni parola, era come se quell'altro si mettesse fra loro due. Allora Anna Maria un sabato sera gli fece segno dalla finestra, con tutte e due le braccia, col viso illuminato. - Domani! Domani! - E all'ora solita si vestì in fretta, colle mani tremanti, tutta radiosa, le calze rosse, le scarpe lucide, la giacchetta attillata, tale quale come quel giorno ch'era andata l'ultima volta coll'artigliere, e volle condurlo proprio là, nel sentieruolo sotto i pioppi. - Perché?

cosa vuoi fare? - domandava Cesare. - Vedrai! Vedrai! - Erano cresciute delle altre fronde all'olmo, nel maggio che fioriva, del verde che celava i due cuori color di ruggine, legati insieme dalla croce. Essa però li rinvenne subito, e con un sasso, gli occhi lucenti, il seno che le scoppiava, le mani febbrili, si mise a raschiare da per tutto, sulla corteccia dell'olmo, le iniziali, i due cuori, la croce, tutto. Poi gli buttò le braccia al collo, a lui che stava a guardare con tanto di muso, e se la strinse al petto, furiosamente.


- Mi credi ora? Mi credi ora? - Egli le credette allora, con quelle braccia annodate al collo, e quel seno che si gonfiava contro il suo petto. Ma dopo fu la stessa storia: ogni cosa gli dava ombra: se era allegra, se era malinconica, se cantava, se taceva, se si pettinava in un certo modo, e se non voleva confessare che quegli orecchini fossero un ricordo di quell'altro, se la vedeva dal portinaio, o se la incontrava vicino alla posta.


Ogni carezza, ogni parola - delle parolacce amare, dei musi lunghi, delle risate ironiche, degli impeti di collera, dei voltafaccia bruschi di servitore che sputi villanie dietro le spalle dei padroni. - Con lui non dicevi così! Con quell'altro era un altro par di maniche! - No! no! te lo giuro! Non ci penso più!

Tu solo adesso! Tu solo! - Poi gli arrivò a dire:
- Non gli ho mai voluto bene!...


- O allora? - rispose il servitore.


E infine un giorno essa gli mostrò una carta; una carta che gli aveva portata nel petto, come una reliquia. - Guarda! Guarda! - Era il certificato di morte del suo artigliere, come glielo buttava in faccia a ogni momento Cesare. Il certificato di morte di Lajn Primo, soldato del V artiglieria, c'era il bollo e tutto, non vi mancava nulla; la povera donna glielo portava come un regalo, come un regalo del bene che aveva voluto e delle lacrime che aveva versate, come un regalo di tutta se stessa, della donna innamorata e sottomessa.


L'altro, il maschio, per tutta risposta fece una spallata.







Ciò che è in fondo al bicchiere


Quando la signora Silverio tornò insieme al marito - da Nuova York, da Melbourne, chi lo sa? - tutti videro che era finita per lei, povera Ginevra. Metteva del rossetto; portava ancora la pelliccia nel mese di maggio; veniva a cercare il sole e l'aria di mare alla Riviera di Chiaja, dalle due alle quattro, nella carrozza chiusa, come un fantasma. Ma ciò che stringeva maggiormente il cuore era la macchia sanguigna di quell'incarnato falso nel pallore mortale delle sue guance, e il sorriso con cui rispondeva al saluto degli amici - quel triste sorriso che voleva rassicurarli.


Anche il Comandante non si riconosceva più: aveva la barba quasi grigia, le spalle curve, e delle rughe che dicevano assai su quella faccia abbronzata d'uomo di mare. Indovinavasi ciò che avessero dovuto fargli soffrire i farfalloni che svolazzavano un tempo intorno alla sua bella Ginevra, adesso che non era più geloso di lei, ed era tornato a prendersela sotto il braccio pietosamente, chinando il capo a tutti i suoi capricci, quasi sapesse che la poveretta non ne avrebbe avuti per molto tempo...


Dopo era ripartito subito, per ordine superiore, dicevasi; e dicevasi pure che l'ordine d'imbarcare l'avesse chiesto colla stessa sollecitudine con cui un tempo aveva desideravo di non lasciare la moglie e il Dipartimento di Napoli. Essa, disperatamente, si attaccava alla vita colle manine scarne, povera donna, e affaticavasi a menare a spasso i suoi guai e i suoi terrori segreti, ai balli, in teatro, come ripresa dalla febbre mondana - e forse era la stessa febbre che la teneva in piedi, sotto le armi, torturandosi delle ore dinanzi allo specchio, per strascinarsi poi col fiato ai denti sino al suo palchetto, o per passare soltanto da una sala da ballo. - Ma così felice, sotto la carezza dei binoccoli che si puntavano sul suo petto anelante, e sembravano scaldarle il sangue nelle vene! Così grata a quell'anima buona che venisse a farle un briciolo di corte! - Senza cadere in tentazione, no! La tentazione ormai era lontana, e le aveva lasciato i lividori sulle carni. - Tanto che sorrideva al marito, quando egli era ancora lì, come a dirgli:

- Vedi, che male c'è?... - Aveva preso un quartiere in via di Chiaja, per stare notte e giorno in mezzo al rumore e al movimento della città; perché gli amici venissero a trovarla più facilmente, all'uscire dal teatro o prima di pranzo, e riceveva specialmente il mercoledì sera. Suo marito stesso me ne aveva fatto cenno al caffè, prima di partire, dimenticando le sue prevenzioni contrarie e forse anche i suoi sospetti:
- Venga a trovarla, povera Ginevra. Le farà tanto piacere -.


Ella accoglieva con gran festa tutti quanti. Appena mi vide, mi corse incontro col suo bel sorriso che innamorava, stendendomi le mani.


Era proprio tornata la bella signora Silverio che ci faceva perdere la testa a tutti noi della Regia Marina, quando i disinganni e le amarezze non avevano ancora spento il suo bel sorriso civettuolo, e messo qualcosa di duro nella linea delle sue labbra. - Ho lasciato tutto lì, le noie, le cose tristi! - pareva dire; e faceva un gesto grazioso col braccio esile, accennando lontano, allorché tornavano nel discorso i ricordi malinconici.


Al primo vederla, sotto il gran paralume chinese vicino al quale stava più volentieri, non mi parve nemmeno tanto patita. Dei pizzi superbi davano una certa vaporosità alla sua figurina snella, e dei grossi filari di perle le coprivano interamente la scollatura del vestito. Ripeteva sovente:
- Adesso sto bene. Son guarita interamente -.


Sorrideva anche delle sue paure. Soleva rammentarle soltanto per far capire che le avevano lasciato una grande indulgenza per tutte le debolezze e tutti gli errori umani. - E i tradimenti anche! - mi disse, spalancando gli occhioni, e accennando col muovere del capo e col sorriso che mi accusavano. - Sapete che sono stata molto male, caro d'Arce? Ho creduto di fare il gran viaggio! Torno da lontano, adesso... di laggiù, dove si sa tutto, e tutto si perdona!... - Si volse a cercare la sua amica Maio, e la pregò lei stessa di offrirmi il thè. Da lontano vidi i suoi occhi fissi su di noi, nel breve istante che scambiammo un profondo inchino cerimonioso. Poi la bella Maio tornò a raccogliere gli omaggi altrui come una regina.


Quando andai a posare la tazza vuota sul tavolinetto, al quale la signora Ginevra appoggiava di tanto in tanto la mano, coll'aria un po' stanca e affaticata, ella mi chiese a bruciapelo, fissandomi in viso quegli occhi luminosi:

- Così? Non avete più nulla da dirvi, né voi né lei?

- Ahimè, no.


- Oooh! - esclamò ridendo, - oooh!... - E inzuccherò senza pietà il thè dell'Ammiraglio.


La contessa Ardilio le offrì di aiutarla. Ella accettò subito per venire a sedere accanto a me su di un canapè d'angolo.


- Abbiamo molte cose da dirci; ma è meglio non parlarne, è vero? A che serve oramai? Siamo perfettamente ragionevoli tutti e due...


Allora... quando seppi il torto che avete fatto alla parola datami... il giuramento del marinaio, vi rammentate?... - E sorrideva, povera Ginevra. - Però non ve ne volli... né a voi, né a lei... Ebbi dei torti anche io... Ma voi sapevate che non ero libera... - Allora mi parlò francamente di Alvise, il solo che non potesse farsi vivo fra i suoi amici. - Anche io ho bisogno di perdono, lo so!... Ora tutto ciò è passato... lontano tanto!... Vedete come ve ne parlo?... - Tornava a fare quel gesto vago, tirando in su i guanti lunghissimi. Tutta la sua civetteria riducevasi adesso a una cura gelosa di nascondere le sue povere carni mortificate. E di colui pel quale aveva sentito forse più trionfante la vanità della sua bellezza, quando appariva in una festa, colle spalle e le braccia nude, soltanto per lui, discorreva adesso tranquillamente, con una certa amara disinvoltura. Solamente non lo chiamava più pel suo nome di battesimo:

- Povero Casalengo... Un buon amico e un uomo di mondo... Dei pochi che sappiano pigliarlo com'è, il mondo!... - Rammentava ancora gli altri, passando in rivista delle memorie che accendevano dei punti luminosi nelle sue pupille. D'un solo non fece motto, forse perché era ancora troppo presente dinanzi ai suoi occhi, quando parevano oscurarsi a un tratto, e pareva come delle ombre livide le lambissero il viso emaciato.


Ma tornava subito gaia e sorridente, occupandosi dei suoi invitati, facendosi in quattro per pensare a tutti. Si avventurò sino all'uscio del salotto ove fumasi, col fazzoletto alla bocca, con quella gaiezza che rendeva così ospitale la sua casa.


- No, no, mi piace anzi! Fumerei anche io, se non mi facesse tossire -. Avrebbe chiuso gli occhi, e si sarebbe lasciata soffocare per far piacere agli altri, ed avere tutte le sere la casa piena di gente sana e allegra che la facessero illudere d'esser sana e allegra lei pure. Aveva inchiodato Sansiro al pianoforte, e minacciava di fare un giro di valzer.


- No! con lei, no! giammai! - mi disse respingendomi con le braccia tese.


Sembrava proprio rivivere nel suo elemento, e parlava insino di «lasciarsi andare» a bere «qualcosa di forte» eccitandosi, colle guance già accese e il sorriso ebbro, lei che aspirava soltanto delle lunghe boccate d'etere «per tenersi su». Però, di tanto in tanto, alla sfuggita, guardavasi furtivamente negli specchi, e l'occhiata ansiosa, quasi smarrita, tradiva l'interno sbigottimento. Tutt'a un tratto, mentre mesceva il thè a dei giovanotti che erano giunti tardi, venne meno fra le braccia di Serravalle, tutta di un pezzo, come un cencio. Nondimeno, appena si riebbe alquanto, cercò di rassicurare amici ed amiche che le si affollavano intorno, volgendo la cosa in scherzo, bianca come il suo vestito, facendosi vento col fazzoletto, balbettando, col sorriso smorto:

- Ah!... la colpa è di Serravalle!... Non posso vedermelo accanto senza cadergli fra le braccia... È destinato, povero Serravalle!... Si rammenta, quella volta che si ballava insieme in casa Maio? - Fu l'ultima sua festa, povera donna. A poco a poco gli amici dileguarono quasi tutti; e ciò la rattristiva assai, quantunque non lo dicesse. Chiedeva di loro ai pochi fedeli che continuavano a farle visita, di tanto in tanto. Un giorno che le recai il saluto di Alvise provò un gran piacere. - Ah, Casalengo... si rammenta!... - mormorò lieta.


Volle anche sapere a chi Casalengo facesse la corte, in quel tempo, e le sfavillavano gli occhi alle piccole maldicenze che si fanno sottovoce nei circoli mondani.


- Colui, sì!... sa vivere! - ripeté, e accennava pure col capo, assorta.


Mi era grata del tempo che rubavo «all'altra mia amica» per dedicarlo a lei, e mi chiamava «il suo buon fratello». - Fratello, non è vero? - ripeteva colla sua grazia maliziosa. E c'era quasi un rimasuglio di rancore involontario nella carezza della parola affettuosa.


Alcune volte, quando mi diceva quelle cose, specie sull'imbrunire, che provava una gran tristezza e mi aveva pregato di non lasciarla mai sola, al vedere i suoi occhi luminosi, il sorriso ancora dolce che le rianimava il viso e pareva dissiparne le ombre, mi sentivo riprendere irresistibilmente da quella moribonda, con un'immensa dolcezza amara.


Essa preferiva quell'ora, l'angolo del salotto riparato dal paravento chinese, la mezzaluce che dissimulava il suo pallore e il suo male. Era il suo pudore e l'ultima sua civetteria.


Nell'ombra sentiva che il suo profumo e la sua voce ancora dolce mi parlavano meglio di lei, della Ginevra che avevo conosciuta un tempo.


- 'Colei' lo sa che siete qui... che fate un'opera buona...


per meritarvi il paradiso? - Come diceva quelle parole! Come esse sonavano e penetravano! Come attiravano verso di lei quell'anelito frequente e quelle povere mani febbrili!

- No... non mi fiderei più degli amici... e delle amiche! Ho imparato a spese mie, caro d'Arce! - Una sera che aveva tossito più del solito, e parlava più triste, reggendosi il capo col braccio appoggiato al tavolino, mi disse guardandomi fisso, china verso di me, nello stesso tempo che schermivasi dalla luce colla mano aperta:

- Noi non siamo stati mai... nulla. Ecco perché mi siete rimasto fedele -.


Le si era fatta la voce un po' roca. Tutto ciò che le veniva alla mente e sulle labbra aveva la stessa velatura stanca, e un abbandono che avvinceva me pure. Senza quasi avvedermene le avevo preso la mano, ed essa me la lasciò, calda ed inerte. Allora, senza guardarmi, quasi senza volerlo, mi confidò il segreto di ciò che aveva sofferto laggiù, lontana da tutti, in paese straniero.


Una storia semplice e dolorosa, senza dramma, senza neppure l'ombra di una rivale. Colui pel quale aveva abbandonata la sua casa e la sua patria non l'amava più: ecco tutto. - Amore... chi lo sa?

Anche io avevo amato Casalengo... o m'era parso, prima di lasciarlo per quell'altro... Per una parola che ci suoni meglio all'orecchio, per un'occhiata che lusinghi il nostro vestito nuovo, per una frase musicale che ci faccia sognare ad occhi aperti... Ecco perché ci perdiamo, e ciò che forma quest'amore.


Quando egli non ebbe più dinanzi altre seduzioni con cui confrontare la mia, quando non temé più altri rivali... Una mattina, sull'alba, tornò pallido e fosco. Aveva perduto. Giuocava da un pezzo, da che non mi amava più. E si voleva uccidere perché non poteva pagare... Non per me... Lui che aveva tutte le delicatezze, tutta la poesia, tutta la nobiltà dell'animo.


E l'ultima rottura fra di noi, l'ingiuria che non poté perdonarmi, fu quando gli offrii d'aiutarlo, io che ero parte di lui, che vivevo soltanto per lui, che gli avevo sacrificato ben altro, che non sapevo cosa farmi del mio denaro... Mi lasciava appunto per questo, perché egli non ne aveva più. L'onore degli uomini è così fatto. Poi, quand'egli fu partito, colui che aveva detto di non poter vivere senza di me, lasciandomi sola e moribonda in un albergo... mio marito ebbe pietà di me - lui che non mi amava più e non doveva più amarmi... Pagò un altro debito d'onore anche lui... - Parlava calma, con un filo di voce, interrompendosi di tratto in tratto e lasciando morire in un soffio certe parole. Le passò sul volto un sorriso che la fece sembrare più pallida.


- Povero d'Arce! V'ho intronate le orecchie per narrarvi le solite storie. Cose che succedono a tutti... Lo sappiamo e torniamo a cascarci. Allora vuol dire che dev'essere così, non è vero? Anche voi... - Nel luglio e l'agosto stette meglio. Però non si lasciò indurre a mutar paese per qualche tempo. Il silenzio e la quiete della campagna le facevano paura. Volle piuttosto andare alla festa di Piedigrotta. Si era fatto fare apposta un vestito elegantissimo, e aveva combinato una carrozzata allegra, nella quale ero invitato io pure. - La Maio, no! - mi disse sfavillante. Tutto quel chiasso e quel movimento l'eccitavano assai.


Tornò stanchissima e si mise a letto per due o tre giorni. Dopo si strascinò ancora un pezzo fra letto e lettuccio. La tristezza delle giornate autunnali la pigliava lentamente. Se non mi vedeva all'ora solita, mi teneva il broncio, quasi avessi mancato a una tacita promessa. Faceva spesso dei progetti per l'avvenire; si illudeva più facilmente, ora che le fuggiva la terra sotto i piedi, e che non aveva più la forza di strascinarsi sino al canapè. Così tenacemente si attaccava al mio braccio, che le parlavo anche io di Sorrento e di Nizza, col cuore stretto. Ella diceva di sì, di sì, tutta contenta, tornando ad affermare col capo, tornando a sorridere come una bambina.


Consultava insieme a me delle guide e dei giornali di mode, e aveva fissato l'epoca del viaggio:
- Dopo il carnevale, appena tornerà la primavera. Tornerò a rifiorire anche io, vedrete! tutti v'invidieranno la vostra bella amica... Amica, veh! - Aveva ordinato degli abiti da ballo per quell'inverno. Si faceva bella ancora per me. Diceva «che erano le sue prove generali». Una sera si fece trovare in abito da ballo, presso un gran fuoco.


Com'era contenta, povera Ginevra! Quel sorriso ingenuo nella bocca e negli occhi che le mangiavano il viso, mi mise un brivido nei capelli: lo stesso brivido che mi faceva trasalire quando l'udivo gemere sottovoce nella stanza accanto per abbigliarsi - e quel giorno che la cameriera mi chiamò spaventata, cercando colle mani tremanti la boccettina d'etere sopra la tavoletta. Essa, pure in quel momento, coprivasi colle mani il misero petto scarno...


Una volta mi disse:
- Quanto saremmo stati felici... allora... di poterci vedere liberamente, come adesso!... - In dicembre peggiorò rapidamente. Non si alzò più dal letto; non parlò più di viaggi. Il parlare stesso la stancava. La baraonda e l'allegria fragorosa del Natale napoletano le davano noia.


Sembrava distaccarsi a poco a poco da ogni cosa.


Però voleva ancora che andassi a vederla spesso, più che potevo, e lagnavasi che tutti l'abbandonassero. Stava poi ad ascoltarmi, immobile, guardandomi fisso. Alle volte i suoi occhi si offuscavano, quasi guardassero dentro se stessa, o in un gran buio, e il viso le si affilava maggiormente, con un'espressione d'angoscia vaga. Dopo sembrava ritornare da lontano, con una cert'aria smarrita. Mi sorrideva dolcemente, quasi per scusarsi dell'involontaria distrazione, ma in modo che stringeva il cuore.


In quei giorni tornò a Napoli suo marito, chiamato per telegrafo.


Essa volle festeggiare con lui l'ultima sera dell'anno, e invitò pochi amici. Le avevano apparecchiato un tavolino accanto al letto, e dei fiori, un gran numero di candele nella camera. Era raggiante, poveretta, e sembrava proprio una bambina, sparuta, fra le gale e i pizzi della cuffia e del corsetto. Ci salutava col capo ad uno ad uno, alzando verso di noi la coppa nella quale aveva fatto versare un dito di 'champagne', e beveva cogli occhi alla nostra salute, senza accostarvi le labbra, come sapesse ciò che si trova in fondo al bicchiere, come anche i nostri auguri la rattristassero. Infine si lasciò vincere dalla comune gaiezza; parve che tornasse a sorridere a una vaga speranza, e sorrideva a tutti, a tutti noi, cogli occhi e le labbra, col viso pallido e magro.


Il capo d'anno le recai dei fiori, un gran fascio di rose che ero andato a cogliere per lei a Capodimonte. Ella si levò giuliva a sedere, e le volle sul letto, tutte. Ripeteva:
- Quante! quante! - scegliendo le più belle, immergendovi le mani...


Era tanto contenta! Mi mostrò i regali che le avevano mandato gli amici, e le amiche... - tutti quanti! - La camera n'era piena, sulle mensole, sul canapè, da per tutto. Ella indicava ad uno ad uno il nome del donatore. Dalla gioia mi pose un braccio intorno al collo, dicendomi:

- Ma nessuno come voi!... nessuno! Voi siete il mio caro fratello, non è vero? E mi vorrete sempre bene così, sempre sempre... perché non fummo mai altro!... Un momento... ci fu il pericolo... Vi rammentate? Ma era scritto lassù!... lassù... - In quel momento portarono il regalo del marito: un magnifico abito da ballo che la cameriera spiegò trionfante sulla poltrona. Ella indovinò la delicata e pietosa intenzione d'illuderla che c'era nella scelta del dono, e ne fu scossa profondamente. Non disse nulla; gli occhi le si fecero più grandi e più lucenti, e tornò a coricarsi, tirandosi la coperta fino al mento.


Mi lasciò senza dirmi addio, povera e cara Ginevra! L'ultima volta che la vidi, in presenza del marito e di due o tre altri, ella sembrava già non fosse più di questo mondo. Non mi disse nulla; non sembrò nemmen accorgersi di me. Stava zitta, chiusa, cogli occhi sbarrati e fissi. Il Comandante rispondeva per lei qualche parola, colla voce rauca, i capelli arruffati, la barba incolta, pallido anche lui, e col viso gonfio dalle notti insonni. Un momento appena, udendo la mia voce, ella volse su di me quegli occhi che non guardavano e non dicevano più nulla: e tornò a rivolgerli altrove, indifferente. Li attirava adesso soltanto una striscia di luce che moriva sulle tendine istoriate.


Fu l'ultima volta che la vidi. Dopo, l'uscio delle sue stanze rimase chiuso per tutti. Erano arrivati dei parenti da Venezia e da Genova. Gli amici erano tornati a chiedere di lei o a lasciare il loro nome alla porta: tutti coloro che avevano ballato in quella casa e vi avevano passato delle ore liete. Parecchi ci avevano perduto anche la testa, un tempo, e parlavano di lei che moriva, a voce bassa, prima di tornare al Circolo o al teatro, facendosi piccini dinanzi al marito che ripigliava il suo posto in casa sua, all'ultima ora, invecchiato in un mese, rispondendo alle condoglianze e alle strette di mano collo sguardo chiuso e la mano gelida.


Seppi che era morta dall'invito per assistere ai funerali. Nelle sale dove essa ci aveva ricevuti festante, era una gran folla, e molti fiori, come il primo giorno dell'anno, sulle mensole, sui tavolini, sul pianoforte. C'erano tuttora gli avanzi delle candele dei candelabri posti dinanzi agli specchi dove ella si era guardata. Le sue amiche misero dei fiori sulla bara. La signora Maio soffocava i singhiozzi con un fazzolettino di pizzo.


Prima di morire aveva detto che voleva una semplice bara coperta di raso bianco, e una semplice lapide col suo nome. Non ci furono discorsi sulla tomba. La sua orazione funebre fu fatta da Casalengo, che venne a trovarmi la sera stessa, per parlarmi di lei.


- Povera Ginevra! - e non disse altro.





Il come, il quando ed il perché


Il signor Polidori e la signora Rinaldi si amavano - o credevano di amarsi - ciò che è precisamente la stessa cosa, alle volte; e in verità, se mai l'amore è di questa terra, essi erano fatti l'uno per l'altro: Polidori si godeva quarantamila lire di entrata, e una pessima riputazione di cattivo soggetto, la signora Rinaldi era una donnina vaporosa e leggiadra, e aveva un marito che lavorava per dieci, onde farla vivere come se possedesse quarantamila lire di rendita. Però sul conto di lei non era corsa la più innocente maldicenza, sebbene tutti gli amici di Polidori fossero passati in rivista, col fiore all'occhiello, dinanzi alla fiera beltà. Finalmente la fiera beltà era caduta - il caso, la fatalità, la volontà di Dio, o quella del diavolo, l'avevano tirata pel lembo della veste.


Quando si dice 'cadere' intendesi che aveva lasciato cadere sul Polidori quel primo sguardo languido, molle, smarrito, che fa tremare le ginocchia al serpente messo in agguato sotto l'albero della seduzione. Le cadute a rotta di collo son rare, e alle volte fanno scappare il serpente. La signora Rinaldi, prima di scendere da un ramo all'altro, voleva vedere dove metteva i piedi, e faceva mille graziose moine col pretesto di voler fuggire verso le cime alte. Da circa un mese ella si era appollaiata sul ramoscello della corrispondenza epistolare, ramoscello flessibile e pericoloso, agitato da tutte le aurette profumate. - Avevano cominciato col pretesto di un libro da chiedere o da restituire, di una data da precisare, o che so io - la bella avrebbe voluto fermarvisi un pezzo, su quel ramo, a cinguettare graziosamente, perché le donne cinguettano sempre a meraviglia, così cullandosi fra il cielo e la terra; Polidori, il quale aveva vuotato il sacco, divenne presto arido, laconico, categorico che era una disperazione. La poveretta chiuse gli occhi e le ali, e si lasciò scivolare un altro po'.


- Non ho letto la vostra lettera; né voglio leggerla! - gli disse incontrandolo all'ultimo ballo della stagione, mentre seguivano la fila delle coppie. - Giacché non volete essere quello che vi avevo ideato, lasciatemi rimanere quale voglio essere io -.


Polidori la fissava serio serio, tormentandosi i baffi, ma colla fronte china. Gli altri ballerini che non avevano nessuna ragione per stare a chiacchierare nel vano dell'uscio, li spingevano verso il salone. La donna arrossì, quasi fosse stata sorpresa in un abboccamento segreto con lui.


Polidori - il serpente - notò quella vampa fugace. - Sapete che vi obbedirò ad ogni costo, - rispose semplicemente.


La croce di brillanti scintillò sul petto di lei, sollevandosi in trionfo. Tutta la sera la signora Rinaldi ballò come una pazza, passando da un ballerino all'altro, tirandosi dietro uno sciame di adoratori, cogli occhi ebbri di festa, luccicanti come le gemme che le formicolavano sul seno anelante. Però ad un tratto, trovandosi faccia a faccia colla sua immagine in un grande specchio, si fece seria e non volle ballar più. Rispondeva a tutti di sentirsi stanca, molto stanca; e macchinalmente cercava cogli occhi suo marito. Non c'era nemmen lui, quell'uomo! In quei dieci minuti che rimase accasciata sul canapè, senza curarsi che la sua veste si affagottava sgarbatamente, le passarono davanti agli occhi delle strane fantasie, insieme alle coppie che ballavano il valzer. Polidori solo non ballava, né si vedeva più. - Che uomo era mai costui? Finalmente lo scorse in fondo a una sala deserta, faccia a faccia con una testa pelata, che non doveva aver nulla da dire, sorridendo come un uomo per cui il sorriso sia indifferente anche esso. - Ella avrebbe preferito sorprenderlo colla più bella signora della festa, in parola d'onore! - Polidori non se ne avvide. Si alzò, premuroso sempre, e le offrì il braccio.


In quel momento, proprio in quel momento doveva cacciarlesi fra i piedi anche suo marito, che cercava di lei. Allora, bruscamente, aggiustandosi sull'omero la scollatura della veste, con un leggiadro movimento della spalla, disse piano a Polidori, così piano che il fruscio della seta coprì quasi il suono della voce:

- Sia pure, domani alle nove, ai Giardini -.


Polidori si inchinò profondamente e la lasciò passare, raggiante e commossa, al braccio del marito.


Giammai mattino di primavera non era sembrato così misteriosamente bello alla signora Rinaldi nella sua villa deliziosa della Brianza, e giammai ella non l'avea contemplato con occhio più distratto attraverso al cristallo scintillante del suo 'coupé', come quando il suo legnetto attraversava rapidamente la piazza Cavour. Il sole inondava i viali del giardino, caldo e dorato, sull'erba che incominciava a rinverdire; l'azzurro del cielo era profondo. Coteste impressioni, ad insaputa di lei, riverberavansi nei suoi grandi occhi neri, che guardavano lontano, non sapeva ella stessa dove, né che cosa, mentre appoggiava la mano e la fronte pallida alla manopola. Di tanto in tanto un brivido la faceva stringere nelle spalle, un brivido di stanchezza o di freddo.


Appena la carrozza si fermò al cancello, ella trasalì, e si tirò indietro vivamente, quasi suo marito si fosse affacciato all'improvviso allo sportello. Esitò alquanto prima di scendere, colla mano sulla maniglia pensando vagamente a quell'aspetto nuovo, sotto cui le si affacciava alla mente suo marito; poi mise il piede a terra e si calò il velo sul viso: un velo fitto, nero, tempestato di puntini, attraverso al quale gli occhi acquistavano alcunché di febbrile, e i lineamenti una rigidità di fantasma. La carrozza si allontanò di passo, senza far rumore, da carrozza discreta e ben educata.


Il giardino sembrava destato anche'esso prima dell'ora, e tutto sorpreso d'incominciar la sua giornata così presto. Degli uomini in manica di camicia lo lavavano, lo pettinavano, gli facevano la sua toeletta mattutina. Le poche persone che si incontravano avevano l'aspetto di trovarsi là a quell'ora per la prima volta, e per ordine del medico anche loro; osavano interrogare il velo della passeggiatrice mattiniera, e indovinare il profumo del fazzoletto nascosto nel manicotto che ella si premeva sul petto con forza. Un vecchio che si trascinava lentamente, cercando il sole di marzo, si fermò a guardarla, com'ella fu passata, appoggiandosi al bastone malfermo, e tentennò il capo tristamente.


La signora Rinaldi si arrestò dinanzi alla sponda del laghetto, saettando a dritta e a sinistra un'occhiata guardinga, cercando qualche cosa o qualcuno. Il mormorìo fresco dell'acqua, e lo stormire lieve lieve degli ippocastani la isolavano completamente; allora sollevò alquanto il velo, e cavò dal guanto un bigliettino meno grande di una carta da giuoco. Per due o tre minuti l'acqua seguitò a scorrere, e le foglie a stormire per conto loro. La donna aveva gli occhi assorti, avidi, umidi di sogni.


Tutt'a un tratto un passo frettoloso le fece rizzare il capo, e il sangue le avvampò sulle guance, come se gli occhi ardenti del nuovo arrivato le avessero sfiorato il viso con un bacio.


Polidori stava per portare la mano al cappello, quando ella gli arrestò il gesto con uno sguardo impercettibile, e gli passò vicino senza fissarlo.


Camminava a capo chino, ascoltando lo stridere della sabbia sotto i suoi stivalini, senza guardare dinanzi a sé. Di tanto in tanto si metteva il fazzoletto alla bocca; per riprender fiato, quasi il suo cuore divorasse avidamente tutta l'aria che la circondava.


L'onda lenta del ruscello l'accompagnava chetamente, borbottando sottovoce, addormentando le ultime sue paure; l'ombra dei cedri e il silenzio del viale deserto la penetravano vagamente, con sottile voluttà.


Quando si fermò dinanzi alla gabbia del leopardo il petto le scoppiava e i ginocchi le tremavano forte, ché accanto a lei si era fermato anche Polidori, guardando attentamente il superbo animale, con la curiosità che avrebbe mostrato un contadino sbandato per quelle parti, e le disse piano:
- Grazie! - Ella non rispose, si fece rossa, e strinse con forza i ferri della stia a cui appoggiava la fronte. Cotesta sensazione le faceva bene sulla epidermide della mano senza guanto. Chi avrebbe potuto immaginare che quella semplice parola, scambiata di furto, in fondo a quel deserto, dovesse vibrare tanto deliziosamente! No!

davvero! C'era da perderci la testa! Ella si sentiva avvampare fin sulla nuca, che ei, ritto dietro le sue spalle, poteva vedere arrossire; un'onda di parole sconnesse e tumultuose le montavano alla testa, la ubbriacavano; parlava del ballo dove si era divertita assai; di suo marito il quale era partito all'alba, quand'ella non aveva ancora chiuso gli occhi.


- Però non sono stanca! quest'aria fresca fa bene, tanto bene! ci si sente rinascere, non é vero?

- Sì! è vero! - rispose Polidori guardandola fisso negli occhi; ma ella non osava levarli di terra.


- Quando sarò in Brianza voglio levarmi col sole tutti i giorni.


In città facciamo una vita impossibile. Ma però voi altri signori dovete preferirla -.


Parlava in fretta, e con voce un po' troppo alta e squillante, sorridendo spesso, a caso; gli era grata inconsciamente che ei non osasse interromperla, non osasse mischiare la sua voce a quella di lei. Finalmente Polidori le disse:
- Ma perché non avete voluto ricevermi a casa vostra? - Ella gli piantò gli occhi in viso per la prima volta dacché erano lì, sorpresa, dolorosamente sorpresa. - Finora in tutto quello che avevano fatto, in tutto quello che avevano detto, il male non c'era stato che vagamente, in nube, nella loro intenzione, con squisita delicatezza che i suoi sensi finissimi assaporavano deliziosamente, come il leopardo sdraiato ai loro piedi si godeva il raggio caldo del sole, ammiccando la larga pupilla dorata, con quel medesimo inconscio e voluttuoso stiramento di membra.


Richiamata così bruscamente alla realtà, stringeva le mani e le labbra con un'espressione dolorosa; gli occhi le si velarono quasi, seguendo nello spazio l'incantesimo che si era rotto, e gli fissò in volto quegli occhi stralunati. Tutta l'esperienza che possedeva Polidori non seppe fargli leggere quello che vi si scorgeva. - Ah! - disse poi con voce mutata, - sarebbe stato più prudente!...


- Siete crudele! - mormorò Polidori.


- No! - rispose ella sollevando il capo, un po' rossa, ma con accento fermo. - Non sono come tutte le altre signore, non sono prudente!... quando mi romperò il collo, vorrò godermi l'orrore del precipizio sotto di me! Tanto peggio per voi se non capite -.


Allora ei le afferrò la mano per forza, divorando tutta la sua bellezza palpitante con uno sguardo assetato, e balbettò:

- Volete?... volete?...


Ella non rispose, e fece uno sforzo per ritirare la mano.


Polidori implorava la sua grazia con parole concitate, deliranti.


Le ripeteva una domanda, una preghiera, sempre la stessa, con diverse inflessioni di voce che andavano a ricercare la donna nelle più intime fibre di tutto il suo essere; ella ne sentiva la vampa, le sembrava di esserne avviluppata e divorata, soverchiata da un languore mortale e delizioso; e cercava di svincolarsi, pallida, smarrita, colle labbra convulse, spiando il viale di qua e di là con occhi pazzi di terrore, contorcendosi sotto quella stretta possente, facendo forza con tutte e due le mani febbrili per strapparsi da quell'altra mano che sentiva ardere sotto il guanto.


Infine, vinta, fuori di sé, balbettò:

- Sì! sì! sì! - e fuggì dinanzi a qualcuno di cui si udiva avvicinarsi il calpestìo.


Uscendo dal giardino era così sconvolta che stette per buttarsi sotto i cavalli di una carrozza. Aveva avuto un appuntamento!

Quello era stato un appuntamento! E ripeteva macchinalmente, balbettando:
- È questo! è questo! - Si sentiva tutta piena ed ebbra di cotesta parola, e le sue labbra smorte agitavansi senza mandare alcun suono, vagamente assaporando la colpa.


Andò barcollante sino alla prima carrozza che incontrò; e si fece condurre dalla sua Erminia, quasi in cerca di aiuto. La sua amica, vedendosela comparire dinanzi con quel viso, le corse incontro fin sull'uscio del salotto. - Che hai?

- Nulla! nulla!

- Come sei bella! Cosi hai?

Ella, invece di rispondere, le saltò al collo e le fece due baci pazzi.


La signora Erminia era abituata alle sfuriate d'amicizia della sua Maria. Si misero a guardare insieme le fotografie che avevano viste cento volte, e i fiori che erano da un mese sul terrazzino.


In quel momento, per combinazione, passava Polidori nel 'phaeton' del suo amico Guidetti, col sigaro in bocca, e salutò la signora Erminia allo stesso modo come avrebbe potuto salutare Maria, se l'avesse scorta rincantucciata fra gli arbusti, premendosi le mani sul petto che voleva scoppiarle. Era una cosa da nulla; ma uno di quei nonnulla che penetrano in tutto l'essere di una donna come la punta di un ago. Allora, tornando a casa, la signora Rinaldi scrisse a Polidori una lunga lettera, calma e dignitosa, onde pregarlo di rinunciare a quell'appuntamento, di cui le aveva strappata la promessa in un momento di aberrazione, un momento che rammentava ancora con confusione e rossore, per sua punizione. C'era tanta sincerità nella contraddizione dei suoi sentimenti, che quell'istante d'abbandono, dopo un'ora sembrava infinitamente lontano, e se qualche cosa di vivo vibrava tuttora fra le linee della lettera, era solo il rimpianto di sogni che si dileguavano così bruscamente. Ella faceva appello all'onore e alla delicatezza di lui per farle dimenticare il suo errore, e lasciarle la stima di se stessa.


Polidori si aspettava quasi quella lettera: la signora Rinaldi era troppo inesperta per non pentirsi dieci volte, prima di aver motivo di pentirsi davvero; ei fece una cosa che gli provò come quella donnina inesperta avesse ridestato in lui un sentimento schietto e forte con tutta la freschezza delle prime impressioni:

le rimandò la lettera accompagnata da questa breve risposta:

«Vi amo con tutto il rispetto e la tenerezza che deve inspirare la vostra innocenza. Vi rimando la lettera che mi avete diretta, perché non sarei degno di conservarla, e non oserei distruggerla.


Ma l'imprudenza che avete commesso scrivendo una tal lettera è la prova migliore della stima in cui deve avervi ogni uomo di cuore».


- Mio marito! - esclamava Maria con una strana intonazione di voce. - Ma mio marito è felicissimo! La rendita sale e scende per fargli piacere, i bachi sono andati bene, le commissioni piovono da ogni parte. C'è un cinquanta per cento di utili netti! - Erminia la stava a guardare a bocca aperta.


- Senti, bambina, tu hai la febbre. Mesciamoci del the -.


Due giorni dopo, per guarire della febbre, che le aveva trovato la sua Erminia, le disse:

- Andrò in Brianza con Rinaldi. L'aria, l'ossigeno, la quiete, il canto degli usignoli, la famiglia... Che peccato non ci abbia dei bambini da cullare! - Là, sotto gli alberi folti, di faccia ai larghi orizzonti, sentiva una strana irritazione contro quella pace che la invadeva lentamente, suo malgrado, dal di fuori. Andava spesso sulle balze pittoresche verso il tramonto, a sciuparsi gli stivalini, e a montarsi la testa di proposito con dei sentimenti presi a prestito nei romanzi. Polidori aveva avuto il buon gusto di eclissarsi con garbo, restando a Milano, senza far nulla di teatrale e di convenzionale, come uno che sa mettere della cortesia anche a farsi dimenticare. - Né ella avrebbe saputo dire se pensasse ancora a lui; ma provava delle aspirazioni indefinite, che nella solitudine le tenevano compagnia, l'avviluppavano mollemente e tenacemente in quell'inerzia pericolosa, e parlavano per lei nel silenzio solenne che la circondava, e l'uggiva. Ella sfogavasi a scrivere delle lunghe lettere alla sua amica, vantandole le delizie ignorate della campagna, la squilla dell'avemaria fra le valli, il sorger del sole sui monti; facendole il conto delle ova che raccoglieva la castalda, e del vino che si sarebbe imbottigliato quell'anno.


- Parlami un po' più dei tuoi libri e delle tue corse a cavallo, - rispondeva la Erminia. - Di' a tuo marito che non ti lasci andare al pollaio, o che ci venga anche lui -.


E un bel giorno, dopo un certo silenzio, si mise in viaggio, un po' inquieta, e andò a trovare la sua Maria.


- T'ho fatto paura? - le disse costei. - M'hai creduto un'anima desolata in via di annientarsi?

- No. T'ho creduto una che si annoia. Qui e una vera Tebaide: non c'è che da darsi a Dio o al diavolo. Vieni con me, a Villa d'Este.


Voi mi permettete che ve la rubi, non è vero, Rinaldi?

- Ma io desidero che ella si diverta e sia allegra -.


A Villa d'Este c'era davvero da stare allegri: musica, balli, regate, corse sui vaporini, escursioni nei dintorni, un mondo di gente, bellissime toelette, e Polidori, il quale era l'anima di tutti i divertimenti.


La signora Rinaldi non sapeva che ci fosse anche lui; e Polidori, se avesse potuto prevedere la sua venuta, le avrebbe reso il servigio di non farsi trovare a Villa d'Este. Ma oramai aveva accettato certo incarico nell'organizzare le regate, e non poteva muoversi senza dar nell'occhio prima che le regate avessero avuto luogo. Egli fece capire tutto ciò alla signora Rinaldi, brevemente e delicatamente, la prima volta che si incontrarono nel salone, facendole in certo modo delle scuse velate, e scivolando sul passato con disinvoltura. Maria, superato quel primo istante di turbamento, si era sentita rinfrancare non solo, ma, per una strana reazione, il contegno riservato di lui le metteva in corpo degli accessi matti d'ironia. Egli diceva che sarebbe partito subito dopo le regate, perché aveva promesso di trovarsi con alcuni amici in Piemonte, per una gran caccia, e veramente gli rincresceva lasciare tante belle signore a Villa d'Este.


- Davvero? - domandò la signora Rinaldi con un certo risolino. - Chi le piace dippiù?

- Ma... tutte, - rispose tranquillamente Polidori, - la sua amica Erminia per esempio -.


Proprio! Ella non ci aveva mai pensato: la sua amica Erminia doveva far girare la testa ai signori uomini a preferenza di ogni altra, col suo visino piccante, e il suo spirito di diavolessa; così noncurante degli omaggi a cui era avvezza naturalmente - e marchesa per sopramercato - di quelle marchese che portano la loro corona sì fieramente, che ogni mortale sarebbe lietissimo di farsi accoppare per coglierle un fiore.


Colla sua Erminia erano sempre insieme, sul lago, sul monte, nel salone, sotto gli alberi. Adesso ella la osservava come se la vedesse per la prima volta; la studiava, la imitava e qualche volta anche le invidiava dei nonnulla. Senza volerlo, aveva scoperto che la sua Erminia, con tutte le sue arie da regina, era un tantino civetta, di quella civetteria che non impegna a nulla, ma contro la quale nondimeno tutti gli uomini vanno a rompersi il naso. Era un affar serio! Non si poteva fare un passo senza trovarsi fra i piedi Polidori, il bel Polidori, corteggiato come un re da tutte quelle signore, il quale senza aver l'aria di avvedersene comprometteva orribilmente l'Erminia - il peggio era che non se ne avvedeva neppur lei, e che tutti non accettavano ad occhi chiusi le risate che ella ne faceva. La signora Rinaldi pensava che se non fosse stato un tasto tanto delicato, ella l'avrebbe fatto suonare all'orecchio della sua amica, e le avrebbe fatto osservare che suono falso rendeva.


Perciò si sforzava di non farle scorgere nemmeno la pena che tutto quell'armeggìo le arrecava, pel bene che voleva ad Erminia, ben inteso - di Polidori poco le importava - era un uomo e faceva il suo mestiere, oramai!... eppoi era di quelli che sanno consolarsi.


Ma Erminia aveva tutto da perdere a quel giuoco, con un marito come il suo, che le voleva bene, ed era proprio un marito ideale.


Che talismano possedeva dunque quel Polidori per ecclissare un uomo come il marchese Gandolfi nel cuore di una donna bella, intelligente e corteggiata come l'Erminia? Certe cose non si sanno spiegare.


Per nulla al mondo avrebbe voluto che anima viva si fosse accorta di quel che succedeva, e avrebbe voluto chiudere gli occhi a tutti gli altri come li chiudeva lei; ma francamente, c'era da perdere la pazienza.


- Mia cara, io non mi raccapezzo più, - le diceva Erminia ridendo, tranquilla, come se non si trattasse di lei. - Cosi hai? Alle volte mi sembra che io debba averti fatto qualcosa di grosso a mia insaputa! - Oibò! quella povera Erminia come si ingannava!... non le aveva fatto altro che la pena di vederla impaniarsi spensieratamente in quei pasticcio; anzi di lasciarvisi impaniare, perché quel Polidori sembrava impastarlo e rimpastarlo a suo grado con un'abilità diabolica. Doveva averne fatte molte di grosse quell'uomo, per aver acquistato quella maestria; era proprio un pessimo soggetto!

- Cara Maria! - le disse Erminia un bel giorno, e con un bel bacione. - Mi sembra che quel Polidori ti trotti un po' più del dovere per la testa. Guardati! è un individuo pericoloso, per una bambina come te!

- Io? - rispose ella stupefatta. - Io?... - e non sapeva trovare altre parole sotto quegli occhioni acuti di Erminia.


- Tanto meglio! tanto meglio! M'hai fatto una gran paura! tanto meglio!

- Per una bambina, - pensava Maria, - non mi usa molti riguardi, la mia Erminia! Certe cose cavano gli occhi! - La signora Rinaldi era spietata per i corteggiatori eleganti, per gli innamorati ad ora fissa, nella passeggiata del parco o nelle serate di musica, pei conquistatori in guanti di Svezia. Una volta che Polidori si permise di fare qualche osservazione rispettosa in propria difesa, ella gli lanciò in faccia uno scoppio di risa squillanti.


- Oh! oh! - Egli parve impallidire, colui, alfine! Siccome le altre signore gli ronzavano sempre attorno come api a Polidori - la colpa era di quelle signore che lo guastavano - ella soggiunse:

- Non vi fate scorgere, ne sarei desolata.


- Per chi?

- Per voi, per me... e per gli altri - per tutto il mondo -.


Questa volta ei non si lasciò sconcertare dal sarcasmo, e rispose con calma:

- Non mi preme che di voi -.


Ella avrebbe voluto colpirlo in viso con un altro getto di quella ilarità spietata e mordente, ma il riso le morì sulle labbra, dinanzi all'espressione che quelle due parole davano a tutta la fisonomia di lui.


- Potete insultarmi, - rispose egli, - ma non avete il diritto di dubitare del sentimento che avete messo nel mio cuore -.


Maria chinò il capo, vinta.


- Non ho rispettato ciecamente la vostra volontà, quale sia stata?

Vi ho chiesto una spiegazione? Non ho prevenuto il vostro desiderio? e non son riescito a far le viste di aver dimenticato quello che nessun uomo al mondo potrebbe dimenticare... da voi?...


E se ho sofferto, per questo, c'è alcuno al mondo che mi abbia visto soffrire? - Egli parlava con voce calma, con l'atteggiamento tranquillo che davano a quelle parole pacate un'eloquenza irresistibile.


- Voi!... - balbettò Maria.


- Io! - ribatte Polidori, - che vi amo ancora, e che non ve lo avrei detto giammai -.


Ella che si era fermata per strappare le foglie degli arbusti, fece due o tre passi per allontanarsi da lui, povera bambina!

Polidori non ne fece uno solo per seguirla.


La signora Rinaldi era divenuta a un tratto malinconica e fantastica. Stava delle lunghe ore col libro aperto alla medesima pagina, colle dita vaganti sulla tastiera del pianoforte, col ricamo abbandonato sui ginocchi, a contemplare l'acqua, i monti e le stelle. Lo specchio del lago riverberava tutte le sfumature dei suoi pensieri più indefiniti, e provava una squisita voluttà a sentirseli ripercuotere dentro di sé, intenta, assorta. Perciò sfuggiva alle allegre brigate e preferiva errare in barchetta sul lago, sola, quando i monti vi stendevano larghe ombre verdi, o quando i remi luccicavano fra le tenebre, come spade d'acciaio, o quando il tramonto vi spirava tristamente con vaghe strisce amaranti; frapponeva la tenda fra sé e i barcaiuoli, e coricata sui cuscini godeva a sentirsi cullata sull'abisso, ad immergervisi quasi, tuffando la mano nell'acqua, sentendosene guadagnare tutta la persona con un brivido misterioso; le piaceva sprofondare il suo sguardo nel buio interminato, al di là delle stelle, e a fantasticare su quel che doveva rischiarare qualche lumicino lontano che tremolava fra il buio, nella china dei monti. Cercava i viali erbosi, i misteriosi silenzi del boschetto, o lo spettacolo del lago in quelle ore in cui il sole vi splendeva come su di uno specchio, o tutte le finestre dell'albergo stavano ancora chiuse, e la rugiada luccicava sull'erba del prato, e le ombre erano folte sotto gli alberi giganteschi, e lo scricchiolare della sabbia sotto i suoi passi le sussurrava all'orecchio misteriose fantasticherie; spesso andava a leggere o a passeggiare sulla sponda del laghetto, nei viali remoti dei 'Campi Elisi', quando la luna si posava dolcemente sul lago e le accarezzava le mani bianche, o quando le finestre del salone stampavano nel buio del viale larghi quadrati di luce fredda, e la musica del salone faceva vagare arcane fantasie sotto le grandi ombre silenziose ed addormentate. Al di là di quelle ombre misteriose, dietro quei vetri scintillanti, il movimento della festa ammorzato, velato, acquistava una fusione di colori, di linee e di suoni, che lo rendeva affascinante, qualcosa fra il baccanale e la danza degli spiriti alati; allora respirando la vertigine, rimaneva lì, colla fronte sui vetri, con un formicolìo leggero alla radice dei capelli.


Una sera, tutt'a un tratto, la si vide comparire in mezzo al ballo come una visione affascinante, più pallida e più bella che mai, e con qualcosa che nessuno le aveva mai visto sulla bocca e negli occhi. La folla si apriva commossa dinanzi a lei; Erminia andò ad abbracciarla; uno sciame di eleganti giovinotti le fece ressa attorno per strapparle la promessa di un giro di valzer o di una contradanza; ella si fermò un istante con quel medesimo sorriso sulle labbra, e quegli occhi splendenti come le lucciole del viale, cercando intorno, e come scorse Polidori gli buttò il fazzoletto.


- Dio salvi la regina! - esclamò Polidori piegando un ginocchio.


- Ti rubo il tuo ballerino, sai, - disse Maria tutta festante alla sua Erminia. - Ho una voglia matta di fare un bel giro di 'valzer' anche io -.


Polidori era uno di quei ballerini che le signore si disputano coi sorrisi e a colpi di ventaglio sulle dita - quando il sorriso ha fatto troppo effetto. Possedeva la forza e la grazia, lo slancio e la mollezza; nessuno sapeva rapirvi come lui verso le sfere spumanti d'ebbrezza color di rosa con un colpo di garetto, adagiandovi sul braccio destro come su di un cuscino di velluto.


Dicevano che egli solo possedesse quell'intelligenza squisita dello Strauss, che vi fa perdere il fiato e la testa, e sapeva mettere nel braccio, nei muscoli, in tutta la persona, la foga, l'abbandono, l'estasi. - Non voglio che balliate più! - Non voglio che balliate con altre - gli disse Maria fermandosi anelante, colle guance rosse, cogli occhi un po' velati - e fu tutto per quella sera.


Ah! come era trionfante, e come il cuore le ballava dentro il petto, mentre quel cavaliere invidiato l'accompagnava fra la folla ammiratrice! e mentre si ravvolgeva stretta nella sciarpetta nera in mezzo al viale, dove i rumori della festa si dileguavano, e le fantasticherie sorgevano, vaghe, senza forma, ma assetate ancora!

Pareva di essere in preda a un sogno delizioso, quando al 'valzer' successe un notturno di Mendelson, un notturno che le passava anche esso fra i capelli e sulla fronte, e fra le spalle, come una mano di velluto fresca e odorosa. A un tratto una figura nera si frappose dinanzi alla luce delle finestre che cadeva sul viale; il suo sogno le sorgeva improvviso dinanzi come un'ombra. Ella si alzò di soprassalto, sbigottita, in tumulto, balbettando qualche parola sconnessa che voleva dir no! no! no! e andò a ricovrarsi nel salone, rifugiandosi in mezzo al rumore e alla luce - la luce che le faceva socchiudere gli occhi abbarbagliati, e il rumore che la stordiva gradevolmente, la lasciava intontita e sorridente, un po' rigida e pensosa. Erminia l'accarezzava quasi fosse un ninnolo leggiadro; quelle signore dicevano ad una voce che era proprio carina, così accerchiata dai più eleganti cacciatori di avventure, colle spalle al muro, come una cerbiatta addossata alla roccia: si sarebbe detto che le tremolasse negli occhi la lagrima della sconfitta.


Polidori fu degli ultimi ad assalirla, da cacciatore che la sorte aveva destinato pel colpo di grazia; e sembrava mosso a pietà della vittima, giacché parlandole con un viso serissimo della pioggia e del bel tempo, si limitava a farle il suo briciolo di corte, domandandole con grande interesse di cose indifferentissime: se avesse fatto la sua gita in barca, se il giorno dopo sarebbe andata alla sua solita passeggiata mattutina verso i 'Campi Elisi'. - Ella lo guardò negli occhi senza mai rispondere. Ei non insistette altro.


Erminia si era messa al piano, e tutti stavano intenti ad ascoltarla; Maria non aveva occhi che per lei, anche quando li fissava vagamente nelle fantasie dell'ignoto, perché era lei che le evocava quelle fantasie e l'affascinava con esse: la sala intera splendida e calda fremeva di armonia. Erano di quei fatali momenti in cui il cuore si dilata con violenza dentro il petto e soverchia la ragione.


Maria rabbrividiva dalla testa ai piedi, accasciata nella poltrona, colla fronte nella mano, e Polidori le sussurrava sul capo parole ardenti che le facevano fremere come cosa animata i ricci dei capelli sulla nuca bianca. La poveretta non vedeva più nulla, né la sala splendente, né la folla commossa, né gli occhi lucenti e penetranti di Erminia, e si abbandonò a quel che credeva il suo destino, senza forza, coll'occhio vitreo, come una morente.


- Sì! sì! - mormorò con un soffio.


Polidori si allontanò pian piano, per lasciarla rimettere, e andò a fumare la sua sigaretta nella sala del bigliardo.


La brezza del lago fece vacillare tutta notte le fiammelle dei candelabri posti sul caminetto di lei, che si guardava nello specchio per delle ore intere, senza vedersi, con occhi fissi, arsi dalla febbre.


Il signor Polidori passeggiava da un pezzo pel viale deserto in un'ora mattutina che gli ricordava un convegno di caccia; non si accorgeva del paesaggio incantevole per altra cosa che per sprofondarvi delle lunghe occhiate impazienti. Di tratto in tratto si fermava in ascolto, e rizzava il capo proprio come un levriere.


Finalmente si udì un passo leggiero e timido di selvaggina elegante. Maria giungeva, e appena scorse Polidori, sebbene sapesse di trovarlo là, si arrestò all'improvviso, sgomenta, immobile come una statua. Il suo fine profilo arabo sembrava tagliare il velo fitto. Polidori, a capo scoperto, si inchinò profondamente, senza osare di toccarle la mano, né di rivolgerle una sola parola.


Ella, anelante, turbata, sentiva per istinto quanto fosse imbarazzante il silenzio:
- Sono stanca! - mormorò con voce rotta.


- L'emozione la soffocava.


Così dicendo seguitò ad inoltrarsi pel viale che saliva serpeggiando per la china del monte, ed ei le andava accanto, senza parlare, soggiogati entrambi da una forte commozione. Così giunsero ad una specie di monumento funerario. Maria si fermò ad un tratto appoggiando le spalle alla roccia e col viso fra le mani. Infine scoppiò in lagrime. Allora ei le prese le mani, e vi appoggiò lievemente le labbra, come uno schiavo. Allorché sentì finalmente che il tremito di quelle povere manine andava calmandosi, le disse piano, ma con un'intonazione ineffabile di tenerezza:

- Dunque vi faccio paura?

- Voi non mi disprezzate ora? - disse Maria. - Non è vero? - Egli giunse le mani, in un'espressione ardente di passione ed esclamò:

- Io? Disprezzarvi io? - Maria sollevò il viso disfatto e lo fissò con occhi sbarrati, e colle lagrime ancora sul viso mormorava confusamente parole insensate:
- È la prima volta!... ve lo giuro! - Ve lo giuro, signore!...


- Oh! - esclamò Polidori con impeto. - Perché mi dite questo? a me che vi amo? che vi amo tanto! - Quelle parole vibravano come cosa viva dentro di lei; un istante ella se le premé forte colle mani dentro il petto, chiudendo gli occhi; ma immediatamente le avvamparono in viso, come avessero compito in un lampo tutta la circolazione del suo sangue, e le avessero arso tutte le vene. - No! no! - ripeteva; - ho fatto male, ho fatto assai male! sono stata una stordita. Credetemi, signore! Non sono colpevole; sono stata una stordita; sono davveto una bimba, lo dicono tutti, lo dicono anche le mie amiche -. La poverina cercava di sorridere, guardando di qua e di là stralunata. - Ho bisogno che non mi disprezziate!

- Maria! - esclamò Polidori.


Ella trasalì, e si tirò indietro bruscamente, spaventata dall'udire il suo nome. Polidori chino dinanzi a lei, umile, tenero, innamorato, le diceva:

- Come siete bella! e come è bella la vita che ha di questi momenti! - Maria si passava le mani sugli occhi e pei capelli, confusa, smarrita, e si accasciava su di sé stessa, e ripeteva quasi macchinalmente:
- Se sapete che affare grosso è stato l'attraversare il viale, quel viale che ho fatto tutti i giorni.


Non avrei mai creduto che potesse essere così! Davvero! non credevo! - E sorrideva per farsi coraggio, senza osare di guardar lui, abbandonata contro il sasso che le faceva da spalliera, tirandosi i guanti sulle braccia, ancora leggermente convulse, e seguitava a chiacchierare a modo del fanciullo che canta di notte per le strade onde farsi coraggio. - Sono stata disgraziata! sì, confesso che sono un cervellino strano! Ho delle pazze tendenze per quel mondo che forse non è altro se non un sogno, un sogno di gente inferma, sia pure! alle volte mi pare di soffocare fra tanta ragione in cui viviamo; sento il bisogno d'aria, di andarla a respirare in alto, dove è più pura ed azzurra. Non è mia colpa se non mi persuado di esser matta, se non mi rassegno alla vita com'è, se non capisco gli interessi che preoccupano gli altri. No!

non ci ho colpa. Ho fatto il possibile. Sono in ritardo di parecchi secoli. Avrei dovuto venire al mondo al tempo dei cavalieri erranti -. Il suo leggiadro sorriso aveva una melanconica dolcezza e si abbandonava senz'accorgersene all'incanto che contribuiva a crearsi ella stessa.


- Beato voi che potete vivere a modo vostro!

- Io vorrei vivere ai vostri piedi.


- Tutta la vita? - domandò ella ridendo.


- Tutta la vita.


- Badate che vi stanchereste, - gli rispose gaiamente. - Voi dovrete stancarvi spesso! - ripeté Maria con uno sguardo che cercava di rendere ardito e sicuro.


Polidori la trovava deliziosa nel suo imbarazzo - soltanto quell'imbarazzo si prolungava troppo.


Prima di venire a quell'appuntamento, nell'istante supremo di passar l'uscio, Maria aveva provato tutte le pungenti emozioni che danno la curiosità dell'ignoto, l'attrattiva del male, il fascino dello sgomento che le serpeggiava nelle vene con brividi arcani e irresistibili; con una confusione tale di sentimenti e di idee, di impulsi e di terrore, che l'avevano spinta a precipitarsi nell'ignoto suo malgrado, in una specie di sonnambulismo, senza sapere precisamente cosa andasse a fare. Se Polidori le avesse steso le braccia al primo vederla, probabilmente ella si sarebbe spaccata la testa contro la rupe alla quale adesso appoggiavasi mollemente, con abbandono. Ora, incoraggiata dal vedersi ai piedi quell'uomo contrastato e invidiato, sentiva una deliziosa sensazione al contatto di quel muschio vellutato che le accarezzava le spalle; come le parole che egli le diceva tenere e ferventi le accarezzavano dolcemente l'orecchio e se ne sentiva invadere mollemente, come da un delizioso languore. Egli era così gentile, così rispettoso e così buono! non osava toccarle la punta delle dita, e si contentava di sfiorarla dolcemente col soffio ardente di quella passione che lo teneva prostrato dinanzi a lei quasi dinanzi a un idolo. Tutto ciò era senza ombra di male, e carino, carino. A poco a poco Polidori le aveva preso la mano, ed ella senza accorgersene gliela aveva abbandonata. Anche lui era sinceramente e fortemente commosso in quel momento, e cercava gli occhi di lei con occhi assetati ed ebbri. Ella senza vederli ne sentiva la fiamma, non osava levare i suoi, e il riso le moriva sulle labbra; non aveva la forza di ritirare le mani ad ogni nuovo tentativo che faceva, quasi il suono di quelle parole le addormentasse vagamente in un sonno dolcissimo l'anima e la coscienza, la facesse entrare in un'estasi angosciosa; Polidori non poteva saziarsi di ammirarla in quell'atteggiamento, abbandonata su di se stessa, colle braccia inerti, la fronte china e il petto anelante, e infine esclamò con uno slancio di passione, stendendo le braccia convulse:

- Come siete bella, Maria, e come vi amo! - Ella si rizzò di botto, seria e rigida, quasi sentisse dirselo per la prima volta.


- Voi lo sapete che vi amo tanto! da tanto tempo! - ripeteva lui.


Ella non rispondeva; curvando all'indietro tutta la persona, e a testa bassa, in atteggiamento sospettoso, colle sopracciglia aggrottate, agitando macchinalmente le mani, come se cercasse farsene schermo contro qualche cosa, colle labbra pallide e serrate. Ad un tratto, levando gli occhi sul viso sconvolto di lui, incontrando quegli occhi, mise un strido soffocato, e si arretrò sino all'ingresso di quella specie di monumento sepolcrale, bianca di terrore, difendendosi colle braccia stese da quella passione che l'atterriva ora che vedeva cosa fosse, guardandola in faccia per la prima volta, balbettando:

- Signore!... signore!... - Egli ripeteva fuori di sé, supplichevole, in un'implorazione affascinante di delirio e d'amore:

- Maria! Maria!...


- No! - ripeteva costei smarrita, - no!...


Polidori si arrestò di botto, e si passò due o tre volte la mano sulla fronte e sugli occhi con un gesto disperato. Indi le disse con voce rauca:

- Voi non mi avete mai amato, Maria!

- No! no! lasciatemi andare! - ripeteva ella, quando Polidori si era già allontanato. - Signore!... signore!...


Polidori subiva suo malgrado la forte commozione di quell'istante, ed era tutto tremante anche esso come quella povera ingenua.


- Sentite, abbiamo fatto male! - ripeteva ella con voce convulsa.


- Abbiamo fatto male... - e si sentiva venir meno.


In quel punto, all'improvviso, si udì rumore fra le piante e lo scalpiccìo di chi sopraveniva si arrestò poco lontano, come esitante.


- Maria! - esclamò una voce talmente alterata che nessuno di loro due la riconobbe:
- Maria! - Polidori, ridivenuto l'uomo di prima da un momento all'altro, prese vivamente Maria per un braccio e la spinse pel viale da dove era venuta la voce, e in un lampo scomparve fra gli andirivieni del sepolcreto. Maria arrivando nel viale, si trovò faccia a faccia con Erminia, pallida anche essa, che cercava a fatica di dissimulare il suo turbamento, e voleva spiegarle qualche cosa, dandosi un'aria indifferente. Maria le piantò in viso certi occhi che avevano una strana espressione.


- Che vuoi? - le chiese soltanto, con voce sorda dopo alcuni istanti di un silenzio che sembrò eterno.


- Oh! Maria!... - rispose Erminia, buttandole le braccia al collo.


E fu tutto. Ritornarono indietro l'una al fianco dell'altra, senza aprire bocca e a capo chino. Come furono in vista dell'albergo, sentirono tutte e due a un tempo di dover assumere un contegno. - Lucia mi aveva detto che eri scesa in giardino, - disse Erminia, - e ciò mi ha fatto venire il desiderio di fare una passeggiata mattutina anche io, col pretesto di venire in traccia di te.


- Grazie - rispose Maria semplicemente.


- Però comincia ad esser troppo tardi per passeggiare. Il sole è già caldo -.


Maria infatti aveva preso un colpo di sole che l'aveva abbacinata e stordita. Era rimasta come scossa e turbata in tutto il suo essere. Alle volte macchinalmente si stringeva le mani, come per riconoscersi, o per cercarvi qualche cosa, un'impronta del passato, e chiudeva gli occhi. Quando incontrava degli sguardi curiosi, e tutti le sembravano curiosi, oppure quelli della sua amica, avvampava in viso. Stava rincantucciata nel suo appartamento il più che poteva, e quindi molti credevano che fosse partita. La sola vista di Erminia le faceva corrugare la fronte, e dava un non so che di fosco a tutta la sua fisionomia. Però era abbastanza donna di mondo per sapere dissimulare sino a un certo punto i suoi sentimenti, quali essi fossero. Erminia, che non ne era illusa, provava un vero rammarico.


- Io son sempre la tua Erminia, sai! - le diceva ogni volta che poteva, scuotendole amorevolmente le mani. - Io son sempre la tua Erminia, quella di prima! quella di sempre! - Maria sorrideva a fior di labbra, gentile e distratta.


- Hai torto, vedi! - ripeteva Erminia. - Ti inganni!... t'inganni, se credi che io non ti voglia più il bene di prima! - Ella aveva infatti delle sollecitudini materne per la sua Maria, delle sollecitudini che sovente indispettivano costei, come se prendessero l'aspetto di una sorveglianza amorevole e discreta. Un giorno Erminia la sorprese mentre stava incominciando una lettera; e le domandò semplicemente se suo marito le avesse scritto; la domanda veniva così male a proposito, che Maria fu quasi per arrossire, come se fosse stata nel punto di dover rispondere una bugia.


- No! mio marito non mi guasta tanto. È troppo occupato.


- Sì, è troppo occupato! - affermò Erminia senza rilevare l'ironia della risposta, - è seriamente occupato. Affoga negli affari, poveretto!

- Che dici mai? se sono la sua passione, l'unica sua passione!

- Lo credi? - domandò Erminia, fissandole in faccia quei suoi occhioni acuti.


- Ma sì! - rispose Maria con un risolino che le contraeva gli angoli della bocca, e aggiunse ancora, come correttivo:
- Non ho alcun motivo di esser gelosa però. Mio marito non giuoca, non va al caffè, non è cacciatore, non ama i cavalli, non legge che il listino della Borsa - nulla, ti dico!

- È vero; non ama che te! - Maria inchinò il capo con un sorrisetto contraffatto; ma non aggiunse verbo per un pezzo, e poi, amaramente:

- Avete ragione, sono anche un'ingrata!

- No, non sei ingrata; sei una donnina viziata, una testolina guasta, che vede falso in molte cose e che non ci vede in certe altre. Il solo torto di tuo marito è di non averti aperto gli occhi sul gran bene che ti vuole.


- Fortunatamente che ha incaricato te di dirmelo.


- Sì, io che ti voglio bene, anche io! bene davvero!... Vuoi che partiamo domattina?

- Oooh!

- Ti rincresce?

- No, mi sorprende soltanto la risoluzione improvvisa, così come si fa nelle commedie, per le ragazze che hanno abbozzato un romanzetto...


- Scusami; ti ho proposto di venire con me... Ma se vuoi restare...


- No, voglio venire anche io. Solamente bisogna trovare un pretesto plausibile, per non far pensare al romanzo a tutti i curiosi che ci vedranno ordinare così in furia le nostre valige.


- Il motivo è bello e trovato, tanto più che è il motivo vero. Io vado ad incontrare mia suocera che arriva domani da Firenze, e tu naturalmente vieni con me, per non rimaner sola a Villa d'Este.


- Benissimo! E dacché dobbiamo partire, più presto sarà meglio sarà. Desidero andare col primo treno -.


Partirono infatti di buon mattino. A lei scoppiava il cuore passando dinanzi a quelle finestre chiuse, sulle quali l'ombra dei grandi alberi dormiva tuttora, uscendo da quel viale deserto, ove si era aggirata fantasticando tante volte.


Il lago, nella pace di quell'ora, aveva un incantesimo singolare, e ogni menomo particolare del paesaggio si animava, sembrava che fosse vissuto con lei, le si stampava nell'intimo del cuore profondamente. Appena fu nel vagone aprì il libro che aveva portato apposta, e vi nascose il viso e gli occhi pieni di lagrime. Erminia seppe non avvedersi di nulla, ed ebbe l'accortezza di lasciarle assaporare voluttuosamente il dolore del distacco.


Alla stazione trovarono la carrozza di Erminia, la quale volle accompagnare l'amica sino a casa.


- Rinaldi non è a Milano - le disse rispondendo al movimento di sorpresa che aveva fatto Maria non trovando nessuno ad aspettarla.


- È andato a Roma.


- Senza scrivermelo! senza lasciarmi una parola! - mormorò Maria.


- Sì, ha scritto. La lettera deve averla mio marito -.


Ma subito si interruppe, perché cominciava a spaventarsi dell'agitazione che si andava manifestando sul viso di Maria. - Infine, - le disse, - tosto o tardi devi saperlo. Rinaldi è corso a Roma per regolare degli affari... Sai.. quando si è lontani non vanno sempre come dovrebbero andare. Tuo marito era inquieto.


Colla sua gita accomoderà tutto.


- Cosi è stato? - balbettava Maria, turbata maggiormente da quell'annunzio perché la sorprendeva in quel momento. - Cosi è avvenuto?

- Non ti spaventare; tuo marito sta bene. È accaduto che uno dei suoi debitori è fallito. Questione di denaro.


- Ah! - disse Maria respirando; e un'ombra d'ironia le tornò sul viso.


Suo marito sembrava che facesse apposta onde giustificare il sorrisetto amaro di lei. Era così preoccupato del suo affare che non aveva più testa per nessun'altra cosa al mondo. Passarono parecchi giorni senza che ei si facesse vivo altrimenti. Alla fine arrivò un telegramma che mise in grande costernazione il socio di lui, il quale partì subito per Roma.


- Oh! - esclamò allora Maria con quell'intonazione pungente che le era divenuta abituale da otto giorni. - Ma dev'essere proprio un affar serio! Del resto per mio marito sarà sempre un affar serio.


Vuol dire che il mio posto in questa circostanza, sarebbe vicino a lui. Non me lo dice; ma si capisce che non me ne ha scritto nulla per delicatezza. E giacché il socio è andato a raggiungerlo, dovrei partire anche io -.


Malgrado la leggerezza che ostentava, fu sorpresa, e rimase inquieta osservando che Erminia approvava il suo progetto. Per un istante un'idea nera le si affacciò alla mente e le scolorò il viso; ma subito dopo tornò a ridere nervosamente come prima.


- Se mio marito non mi avesse ben avvezzata a lasciarlo fare un po' a suo modo, ci sarebbe davvero di che spaventarsi.


- Spaventarsi di che? di fare un viaggio sino a Roma? nella bella stagione, e nel paese più bello?...


- Hai ragione; sarà quasi come andare in villeggiatura. Tanto, Roma o la Brianza è lo stesso. E tu non torni a Villa d'Este?

- No.


- Oh!...


- Accompagno mia suocera a Firenze.


- Che peccato!... parlo di Villa d'Este, perché ci dev'essere una brillante compagnia in questo momento. Sei proprio una brava figliuola, dovrebbe dirti tua suocera -.


La sera stessa partì per Roma; ma era in uno stato febbrile che non sapeva spiegarsi, e la sua inquietudine aumentava avvicinandosi al termine del suo viaggio che le parve eterno.


Trovò suo marito tanto mutato in così breve tempo, che al primo vederlo ne fu quasi spaventata. Rinaldi le strinse le mani con effusione; ma sembrò più che sorpreso del suo arrivo improvviso.


Egli era così sconvolto che non faceva altro che ripeterle:
- Perché sei venuta? Perché venire?... - - Non avevo mai visto mio marito così! - diceva Maria ad Erminia alcuni mesi dopo, la prima volta che la rivedeva dopo che era tornata a Milano. - Non credevo che la fisonomia di quell'uomo potesse destare tale impressione, né che egli sapesse dire di quelle parole, né che la sua voce avesse di quei suoni che vi sconvolgono l'anima da cima a fondo -. Non l'aveva mai visto così!

Anche essa era molto mutata, la povera Maria! aveva una ruga impercettibile fra le sopracciglia, che solcava finamente il candore purissimo della sua fronte, e alle volte stendeva come un'ombra su tutta la sua fisonomia.


- Sì: sono stati giorni terribili, mi par di sentirmeli ancora dentro il petto, come un gruppo nero, come una fitta dolorosa che mi è quasi cara, tanto è profonda e radicata. Ormai hanno stampato in me un'orma così indelebile che non potrei scancellarla senza farmi male. Che momento, quando sorpresi mio marito colla pistola in pugno! che momento! E come ebbi la forza di avviticchiarmi a lui per impedirgli di morire - giacché egli voleva morire, me lo ha detto dopo. Non aveva il coraggio di dirmi che non poteva più comperarmi né cavalli, né palco alla Scala, né gioielli, nulla! e piangeva, come piangono certi uomini che non hanno pianto mai, con quelle lagrime che vi scavano un solco dentro all'anima. Quante cose mi son passate in un lampo per la testa in quel momento in cui sentivo contro il mio quel cuore che batteva ancora per me, e per me sola! e contro il quale nascondeva il viso che ardeva!...


Tu sei stata assai gentile a venirmi a trovare ora che sono salita a un quarto piano. Tu sei stata molto gentile!

- Ma tu non lo sei gran fatto, cara Maria, facendomi di questi ringraziamenti. Vuol dire che non avevi una bella opinione di me!

- No! ma che vuoi? quando si son viste tutte le cose che ho viste!... e poi la disgrazia ha questo di peggio, che ci rende ingiusti... Figurati che quando era corsa la voce che io fossi vedova!... mi ha fatto un certo senso il vedere che a nessuno fosse venuto in mente che ero rimasta senza appoggio, laggiù a Roma... nessuno di quelli che dicevano di avere per me tanta amicizia! Ma non mi lagno, sai! Avevo torto verso di te poi, ti voglio sempre bene! - Esitò alquanto e infine le buttò le braccia al collo con impeto.


- Perdonami! perdonami! Sono stata ingiusta contro di te, contro di tutti! Ho avuto ragione tante volte! - Erminia le ricambiava la stretta, assai commossa anche lei, ma senza risponder verbo.


- Ero folle! - mormorò dopo un'altra esitazione, col viso contro il petto di Erminia. - Ora non ci penso più.


- Ed io non ci ho mai pensato, - disse alfine Erminia ridendo al suo solito, ma con grande sincerità di viso e di accento.


Maria rizzò il capo vivamente e le piantò in faccia due occhioni fiammeggianti:
- Mai pensato? mai?

- Mai.


- Ma allora... allora non l'ho amato nemmen io! No! davvero? Mai!

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