Settima parte
Quinta parte
Indice

Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Parte sesta






Rosso Malpelo


'Malpelo' si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano 'Malpelo'; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.


Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era 'malpelo' c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.


Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per 'Malpelo', un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.


Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico.


Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella si era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto 'Monserrato' e la 'Caverna', tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di 'Malpelo'», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.


Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell''ingrottato', e dacché non serviva più, si era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu 'Bestia', ed era l'asino da basto di tutta la cava.


Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. 'Malpelo' faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri:
- Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.


Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo 'sciancato', aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato.


Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la 'morte del sorcio'. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:

- Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo 'appalto', il cottimante!

Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse 'ohi!' anche esso. 'Malpelo' andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.


Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli:
- Tirati in là! - oppure:
- Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! 'Malpelo', che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.


L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di 'Malpelo' che aveva fatto la 'morte del sorcio'. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia che era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu 'Bestia' doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo 'sciancato' disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro 'Bestia'!

Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.


- To'! - disse infine uno. - È 'Malpelo'! Di dove è saltato fuori, adesso?

- Se non fosse stato 'Malpelo' non se la sarebbe passata liscia... - 'Malpelo' non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno si era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.


Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là.


Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse 'grazia di Dio'. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di 'Malpelo'; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:

- Così creperai più presto! - Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era 'malpelo', ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro.


Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che si immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava:
- Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano 'Bestia', perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva:
- È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo 'Sciancato':
- E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! - Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte si era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome 'Ranocchio'; ma lavorando sotterra, così 'Ranocchio' com'era, il suo pane se lo buscava.


'Malpelo' gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.


Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se 'Ranocchio' non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli:
- To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! - O se 'Ranocchio' si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici:
- Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte.


Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. 'Malpelo' soleva dire a 'Ranocchio':
- L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e si ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.


Oppure:
- Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.


Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli 'ah! ah!' che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a 'Ranocchio' sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo 'Sciancato', allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano 'Bestia', e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.


Ogni volta che a 'Ranocchio' toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, 'Malpelo' lo picchiava sul dorso, e lo sgridava:
- Taci, pulcino! - e se 'Ranocchio' non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio:
- Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo:
- Io ci sono avvezzo -.


Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come 'Ranocchio' spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva:
- A che giova? Sono 'malpelo'! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.


Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.


La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla 'Plaja', a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e 'Malpelo', certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.


Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come 'Ranocchio', e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a 'Ranocchio' del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. 'Ranocchio' aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la 'sciara' nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.


Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il 'Bestia' di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.


Dacché poi fu trovata quella scarpa, 'Malpelo' fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro 'Bestia' avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.


- Proprio come suo figlio 'Malpelo'! - ripeteva lo 'sciancato' - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.


Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di 'carne battezzata'. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a 'Malpelo', il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.


'Malpelo' se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.


Ei possedeva delle idee strane, 'Malpelo'! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella 'sciara'.


- Così si fa, - brontolava 'Malpelo'; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.


Egli andava a visitare il carcame del 'grigio' in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche 'Ranocchio', il quale non avrebbe voluto andarci; e 'Malpelo' gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del 'grigio'. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il 'Rosso' non lasciava che 'Ranocchio' li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al 'grigio'? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose!

Anche il 'grigio' ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anche esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.


La 'sciara' si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta 'Malpelo' ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui si era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.


- Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della 'sciara', trasaliva.


- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare. Ma io sono 'Malpelo', e se non torno più, nessuno mi cercherà -.


Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla 'sciara', e la campagna circostante era nera anche essa, come la lava, ma 'Malpelo', stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la 'sciara' sembra più bella e desolata.


- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava 'Malpelo', - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.


La civetta strideva sulla 'sciara', e ramingava di qua e di là; ei pensava:

- Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -.


'Ranocchio' aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il 'Rosso' lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.


- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti -.


'Ranocchio' invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava 'Malpelo', e 'Ranocchio' rispondeva che glielo aveva detto la mamma.


Allora 'Malpelo' si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -.


E dopo averci pensato un po':

- Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano 'Bestia'. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.


Da lì a poco, 'Ranocchio', il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo 'non ne avrebbe fatto osso duro' a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi.


'Malpelo' allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava 'Ranocchio' sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, 'Ranocchio' fu colto da uno sbocco di sangue; allora 'Malpelo' spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure 'Malpelo' non si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse:

- Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! - Intanto 'Ranocchio' non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora 'Malpelo' prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma 'Ranocchio' tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. 'Malpelo' se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:

- È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! - E il padrone diceva che 'Malpelo' era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.


Finalmente un lunedì 'Ranocchio' non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. 'Malpelo' si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero 'Ranocchio' era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.


Cotesto non arrivava a comprenderlo 'Malpelo', e domandò a 'Ranocchio' perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero 'Ranocchio' non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora il 'Rosso' si diede ad almanaccare che la madre di 'Ranocchio' strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era 'malpelo', e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.


Poco dopo, alla cava dissero che 'Ranocchio' era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del 'grigio', nel burrone dove solevano andare insieme con 'Ranocchio'. Ora del' grigio' non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di 'Ranocchio' sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di 'Malpelo' si era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il 'grigio' o come 'Ranocchio', non avrebbe sentito più nulla.


Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non si era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni.


'Malpelo' seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.


Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.


- Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò 'Malpelo'.


- Perché non sono 'malpelo' come te! - rispose lo 'Sciancato'. - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! - Invece le ossa le lasciò nella cava, 'Malpelo' come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.


'Malpelo', invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.


Così si persero persin le ossa di 'Malpelo', e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.





Le marionette parlanti


'Si rappresenta Come il' MESCHlNO 'andò per le' CAVERNE 'E trovò' MACCO 'in forma di' SERPENTE 'Col quale parlò E giunse alla' PORTA 'della' FATA 'Indi farsa con' PULClNELLA Il cartellone portava dipinto il 'Meschino', armato di tutto punto contro un drago verde, il quale vomitava delle lettere rosse che dicevano: 'Ebbi nome' MACCO, 'e andai facendo male sin da piccino': tutta opera di don Candeloro, il quale dipingeva anche le scene, suonava la gran cassa, vestiva i burattini e li faceva parlare, aiutato dalla moglie e dai cinque figliuoli, talché in certe rappresentazioni c'erano fin venti e più personaggi sulla scena, combattimento ad arma bianca, musica e fuochi di bengala, che chiamavano gran gente.


Diciamo cinque figliuoli, però uno di essi veramente era figlio non si sa di chi, raccolto da don Candeloro sulla pubblica via per carità, ed anche perché aiutasse a lavare i piatti, suonar la tromba e chiamar gente, vestito da pagliaccio, all'ingresso del teatro.


- Martino, fate vedere i vostri talenti, e ringraziate questi signori -.


Martino voltava la groppa, si buttava a quattro zampe e imitava il raglio dell'asino.


Egli era il buffo della Compagnia, faceva il solletico alle donne, e andava a cacciare il naso fra le assi del dietro scena, mentre si vestivano per la farsa. Colla ragazza poi inventava cento burlette che la facevano ridere, e le mettevano come una fiamma negli occhi ladri e sulla faccia lentigginosa.


- Be', Violante, vogliamo rappresentare al vivo la scena fra 'Rinaldo' e 'Armida'? - Una volta che don Candeloro lo sorprese a far la prova generale colla sua figliuola, la quale si accalorava anche essa nella parte, e abbandonavasi su di un mucchio di cenci, quasi fossero le rose del giardino incantato, amministrò a tutti e due tal salva di calci e schiaffi da farne passare la voglia anche a dei gatti in gennaio. - Ah bricconi! Ah traditori! V'insegno io!... - La Violante ne portò un pezzo il segno sulla guancia. Ma ormai aveva preso gusto alle monellerie di Martino, sicché andava a cercarlo apposta dietro le quinte, fra le scene arrotolate, e i cassoni delle marionette, mentre lui smoccolava i lumi per la rappresentazione della sera, o soffiava sotto la marmitta posta su due sassi, nel cortiletto. Gli soffiava fra capo e collo dei sospiri che avrebbero acceso tutt'altro fuoco, pigliandosela colle stelle e coi barbari genitori.


- Sta' tranquilla, - disse Martino, - sta' tranquilla che me la pagherà -.


Adesso era lei che lo stuzzicava, vedendo che il ragazzo, ammaestrato dalle busse, stava all'erta pel principale, coll'orecchio teso e guardandosi intorno prima di allungare le mani verso di lei. Gli portava di nascosto i migliori bocconi; gli serbava, in certi posti designati, il vino rimasto in fondo al fiasco; per rivolgergli le parole più semplici, dinanzi ai suoi, faceva un certo viso come avesse l'anima ai denti, col capo sull'omero e gli occhi di pesce morto; pigliava il tono delle 'Clorinde' e delle 'Rosamunde' per dirgli soltanto:
- Bisogna andare per l'olio, Martino. - Guarda che non c'è più legna sotto la mangiatoia... - E quando lavorava accanto a lui, sul palco, con le 'Artemisie' in mano, gli buttava sul viso le parole infocate della parte, cogli occhi neri che mandavano lampi, e le labbra turgide che volevano mangiarselo.


«O Cieli! Che mai vedo a me dinanzi!... Mio signore... mio bene!» - Lavora! lavora, sgualdrinella! - borbottava don Candeloro, allungando delle pedate, quando poteva.


- Com'è vero Dio! t'ho detto che me la pagherà! - rispose Martino fra i denti più di una volta. «Si, principessa adorata...» E gliela fece pagare, un giorno che il principale era andato avanti a 'procurar la piazza', e la Compagnia e la baracca seguivano dietro su di un carro. Martino e la Violante finsero di smarrirsi per certe scorciatoie, in mezzo ai fichi d'India, e raggiunsero poi la comitiva in cima alla salita, scalmanati; Martino trionfante, quasi avesse vinto un terno al lotto, e la Violante che sembrava davvero una principessa, sdilinquendo attaccata al suo braccio, e lagnandosi di avere male ai piedi.


Chi si lagnò sul serio poi fu don Candeloro, che non poteva più maneggiare quel birbo di Martino, divenuto insolente e pigro, minacciando ogni momento di piantar baracca e burattini e andarsene pei fatti suoi.


- Ora che t'ho insegnato la professione, e t'ho messo all'onor del mondo!... ribaldo, fellone!... - Violante piangeva e supplicava l'amante di non abbandonarla in quel punto.


- Che vuoi? - disse Martino. - Sono stanco di lavorare come un asino pei begli occhi di non so chi. Ci levano la pelle. Non ci lasciano respirare un momento, neppure per trovarci insieme... - In tre mesi soltanto quattro volte, di notte, a ruba ruba, con una paura del diavolo addosso! Una sera che babbo e mamma avevano mangiato bene e bevuto meglio, la ragazza andò a trovare il suo Martino in sottana, che sembrava la 'Fata Bianca', sciogliendosi in lagrime come una fontana.


- Che facciamo, Dio mio?... Tu dormi invece!...


- Eh? Che vuoi fare? - rispose lui fregandosi gli occhi.


- Non posso più nascondere il mio stato... La mamma mi tiene gli occhi addosso... Bisogna confessare ogni cosa... Tu che hai più coraggio...


- Io, eh? Perché tuo padre mi dia il resto del carlino? Grazie tante! Piuttosto infilo l'uscio e me ne vo. Se tu vuoi venire con me, poi... - L'idea gli parve buona e l'accarezzò per un po' di tempo.


- Io so fare il salto mortale, l'uomo senz'ossa, il gambero parlante. Tu sei una bella ragazza... Sì, te lo dico in faccia...


Vestita in maglia, a raccogliere i soldi col piattello, la gente non si farà tirar le orecchie per mettere mano alla tasca. Andremo pel mondo; ci divertiremo, e ciò che si guadagna ce lo mangeremo noi due. Ti piace? - Mai e poi mai don Candeloro si sarebbe aspettato un tradimento così nero. Proprio nel meglio della stagione, quando il pubblico cominciava ad abboccare, e da otto giorni che erano arrivati in paese, e avevano piantato le assi nel magazzino dell'arciprete Simola, si intascavano soldi colla pala, e ogni sera si cenava! Fu allora che Martino e la Violante, sentendosi la pancia piena, sputarono fuori il veleno, e gli appiopparono il calcio dell'asino, la sera che il pubblico affollavasi in teatro per la continuazione delle imprese di 'Guerin Meschino' alla ricerca della 'Fata Alcida', e prevedevasi più di venti lire d'incasso.


La moglie di don Candeloro, che da qualche tempo aveva dei sospetti e teneva d'occhio la figliuola, la sorprese tutta sossopra, dietro a Martino, il quale insaccava della roba.


Violante, colta sul fatto, le si buttò ai piedi piangendo, come la 'Damigella di Pacifero Re del Porchinosi , quando svela il suo fallo al genitore.


- Ah, scellerata! - strillò la madre. - Cosi hai fatto? Tuo padre ora v'accoppa tutt'e due! - Don Candeloro sopraggiunse in quel punto, facendo il diavolo a quattro appena intese di che si trattava. Sua moglie gridando aiuto, Violante buttandosi dinanzi all'amante per difenderlo eroicamente a costo dei suoi giorni, Martino arrampicandosi sull'intetaiatura delle quinte, con tanto di temperino in mano, i ragazzi strillando tutti in coro: una scena al naturale che chiunque avrebbe pagato l'ingresso volentieri per godersela. Don Candeloro però non dimenticò neppure allora né chi era né quel che aveva a fare.


- Zitti tutti! - gridò colla voce solenne delle grandi rappresentazioni. - Adesso apparteniamo al pubblico, che comincia a venire in teatro. Tu, Grazia, va alla porta, se no entrano di scappellotto. Aggiusteremo i conti dopo, in famiglia -.


Figuriamoci la povera madre che doveva sorridere alla gente incassando i due soldi del biglietto, con quel pensiero e quello spavento addosso!... Le prime scene poi, mentre aiutava il marito che aveva le mani legate dai burattini, e non poteva andare a prendere pel collo i due infami che non comparivano a tempo coi loro personaggi!...


- Che diavolo fanno? Adesso è l''entrata di Alcida'. Com'è vero Dio, mi rovinano la meglio scena!... - Il pubblico, che non sapeva niente di tutto ciò, aspettava l'entrata della 'Fata Alcida', la quale doveva sedurre il 'Meschino' per bocca della Violante; e lo stesso 'Meschino' era rimasto colle braccia in aria, dondolandosi sulla punta dei piedi, e guardando la gente coi suoi occhi di vetro, come a chiedere:
- Che succede adesso? - Succedeva che dietro le quinte c'era una casa del diavolo. Si udiva correre e bestemmiare, e a un certo punto la stessa scena, che figurava una bellissima loggia tutta istoriata a colonne gialle e turchine, ondeggiò come sorpresa dal terremoto.


'Guerino' alzò ancora le braccia al cielo, tirato in su sgarbatamente, e uscì di furia, col manto rosso che gli si gonfiava dietro.


- Tradimento! Infami saracini! Voglio berne il sangue! - si udì gridare don Candeloro colla sua voce naturale.


Il pubblico si mise a strepitare. Dei burloni che avevano adocchiato qualche bella ragazza nei primi posti, cominciavano a spegnere i lumi. - Fermi! Ehi! Non facciamo porcherie! - gridavano altri. Nella baraonda si udì il correre dei questurini, che le orecchie esercitate riconobbero subito al rumore degli stivali.


- Musica! musica! Non è niente! niente! - Ma non ce ne fu bisogno. 'Guerino' tornò in scena, piegandosi in due ad inchinare gli spettatori, e dall'altra parte comparve immediatamente la 'Fata Alcida', «di tanta bellezza adorna che la sua faccia splendeva come un sole» come spiegava a voce don Candeloro, il quale accese in quel punto un po' di magnesio, che fece un bel vedere sull'armatura di latta del 'Meschino', e il manto della fata tutto a draghi e bisce d'orpello.


- Bravi! bis! - gridarono i compari, che non ne mancavano.


Si sarebbe udita volare una mosca. Da un canto il 'Guerino', che faceva orecchio di mercante alle seduzioni della 'Fata', e lei che ostinavasi a riscaldare in lui «le ardenti fiamme d'amore» diceva colla sua stessa bocca, e con certi atti di mano anche, tanto che il 'Meschino' dimenavasi tutto con un suon di ferraccia, e lasciava intender chiaramente «che se Dio per la sua grazia non gli avesse fatto tenere a mente gli avvertimenti dei 'tre santi Romiti' di certo sarìa caduto». La gente si sentiva drizzare i capelli in testa. Uno di lassù, nei posti da un soldo, gridò inferocito:

- Guardati, Meschino! Tradimento c'è! - Però gli avventori soliti avevano notato che quella non era la voce della 'Fata Alcida', e gli stessi gesti che faceva, di qua e di là, all'impazzata, non avevano niente di naturale. Per certo qualcosa di grosso doveva essere avvenuto dietro le quinte.


Sicché da prima furono osservazioni e mormorii, e poi vennero le male parole. Infine allorché invece dei draghi e degli altri incantesimi che dovevano far nascere il finimondo, don Candeloro cercò di cavarsela con una manata di pece greca e picchiando su due scatole di petrolio per imitare il fracasso dei tuoni, scoppiò davvero l'inferno in platea: urli, fischi, bucce d'arance e pipe rotte, che pareva volessero sfondare il sipario. - Pubblico rispettabile, - venne a dire la moglie di don Candeloro più morta che viva, e con un occhio pesto, - ora viene una bella farsa tutta da ridere, nuovissima per queste scene. Onorateci e compatiteci -.


Che farsa! La gente era lì dall'avemaria per godersi appunto la gran scena dell'incantesimo, e aveva speso i suoi denari per vedere «i personaggi», che si azzuffavano sul serio menando botte da orbi, e non don Candeloro, il quale fingeva di prendersi le legnate dal randello imbottito di stoppa e se la rideva poi sotto il naso. Parecchi si buttarono sulla cassetta. Ci fu un piglia piglia fra le guardie e i più lesti di mano. I comici saltarono giù dal palcoscenico, così come si trovavano, mezzo vestiti per la farsa, gridando e strepitando anche loro. Don Candeloro colla camicia di 'Pulcinella', scappò a correre verso la campagna, al buio, in cerca dei fuggitivi, giurando d'accopparli tutt'e due, se li pigliava.


- Li ho visti io, - disse un ragazzo: ce n'è sempre di cotesti:
- Son fuggiti per di qua -.


Martino e la Violante correvano ancora infatti, tanta era la paura. Allorché incontravano dei carri per la strada, Violante si buttava dietro una siepe, poiche era in sottanina bianca, così come aveva potuto svignarsela mentre vestivasi per la farsa. Martino, più furbo, fingeva d'andare pe' fatti suoi, o di allacciarsi una scarpa. Poi, quando furono ben lontani, si accoccolarono dietro un muro, e mangiarono del salame, che Martino, innamorato com'era, aveva pensato a mettere da parte. Violante, più delicata e sensibile, badava piuttosto a guardare le stelle, pensando a quel che aveva fatto.


- Dove si va adesso? - chiese sbigottita.


- Domani lo sapremo - rispose lui colla bocca piena.


Cominciava a spuntare il giorno. Violante non aveva portato altro che uno scialletto logoro, sulla sottanina, e tremava dal freddo.


- Hai paura forse? - chiese lui.


- No... no... con te, mio bene... - Le venivano in mente allora le parlate d'amore che aveva imparato a memoria pei burattini, allorché Martino rispondeva colla voce grossa e facendo smaniare d'amore 'Orlando' e 'Rinaldo'.


Così le damigelle e le principesse si lasciavano rapire dall'amante sui cavalli alati. Martino fermò un carrettiere che andava per la stessa via, e combinò di montare sul carro, lui e la Violante, pagando.


- Hai dei soldi? - chiese lei sottovoce.


- Sì, sta zitta -.


Dopo, per giustificarsi, si sfogò a dir male dei genitori di lei, che li facevano lavorare per nulla e si arricchivano a spese loro.


- Infine, - conchiuse, - ho preso il mio. Tanto tempo che tuo padre non mi dava un baiocco -.


Però la Violante non aveva appetito, sentendosi sullo stomaco la paura del babbo, e il peso di quell'azionaccia che Martino gli aveva fatto mettendo le mani nella cassetta.


Lui invece era allegro come un fringuello; accarezzava la ragazza e faceva cantare i soldi in tasca; nelle strade maestre ci stava come a casa sua, e ad Augusta le fece far l'entrata in ferrovia come una principessa.


- Vedi! - le disse, pigliando i due biglietti di terza classe. - Vedi come tratto io! - Da principio non andava male. Violante era un po' goffa, un po' pesante; ma allorché girava in tondo su di un piede, o si arrampicava sul dorso di Martino, scopriva tali attrattive che la gente correva in piazza a vedere, e metteva volentieri mano alla tasca. Martino chiudeva un occhio quando correvano anche dei pizzicotti, sottomano, mentre la ragazza girava contegnosa col piattello fra la folla. Pazienza! il mestiere voleva così. Oggi qua, domani lontani delle miglia. - Dove ti rivedranno poi gli sciocchi che si lasciano spillare i soldi per la tua bella faccia?

- In compenso si mangiava e beveva allegramente, e lui andava a letto ubriaco, sinché il diavolo ci mise la coda...


La Violante si ubbriacava pure agli applausi e alle esclamazioni salate del pubblico, sicché scorciava sempre più il sottanino, e rischiava di rompersi l'osso del collo nel fare il capitombolo.


Per disgrazia si accorse nello stesso tempo che bisognava slargare di giorno in giorno la cintura, e che le dolevano le reni nel fare le forze. Già quei baffetti gliel'avevano detto a Martino, che non l'avrebbe passata liscia. Sicché le rinfacciava che quando sarebbe divenuta grossa come il tamburone, il pubblico li avrebbe lasciati in piazza tutt'e due a grattarsi la pancia. Per giunta poi aveva dei sospetti su di un Tizio che correva dietro alla Violante, da un paese all'altro, e tirava a farlo becco.


Ne aveva avuti tanti la bella figliuola degli spasimanti che ustolavano dietro il suo gonnellino corto: militari, bei giovani, signori che avrebbero speso tesori! Nossignore! Ecco che ti va a cascare in bocca a quel disperato che portava tutta la sua bottega al collo, e girava anche esso per il mondo a vendere spilli e mercerie di qua e di là. Per un palmo di nastro la brutta carogna si era venduta! Martino n'ebbe la certezza quando glielo vide al collo, e vide pure il merciaiuolo che lo pigliava colle buone anche lui, e gli pagava da bere per tenerlo allegro.


- Aspetta! - ghignava fra sé e sé Martino alzando il gomito. - Aspetta, che vogliamo ridere meglio quando verrà il momento che dico io! - Tollerò ancora un po', per necessità, finché la Violante poté aiutarlo a raccogliere soldi sulle piazze, odiandola internamente e dandole in cuor suo tutti i titoli che aveva imparato nei trivi.


Poi, un bel giorno, accortosi che il merciaio allungava le mani sotto la tavola verso la Violante, mentre desinavano insieme come amici e fratelli all'osteria, fece una scena indiavolata, tirando fuori il coltello, minacciando gli amici che si frapponevano a metter pace.


- Che pace? Con quella canaglia?... Voglio mangiargli il cuore a tutti e due! - sbraitò raccogliendo i suoi cenci, e tanti saluti alla compagnia!

Il povero merciaio, che si vide cadere sulle braccia la Violante più morta che viva, e gravida di sette mesi per giunta, protestò la sua innocenza, e se la diede a gambe anche lui, la stessa notte. Sicché la sventurata rimase senza amici e senza quattrini, in mezzo a una via, e dovette lasciare all'Ospizio di Maternità il frutto del suo bell'amore.


Così babbo don Candeloro, passando da quelle parti, raccolse di nuovo nell'ovile la pecorella smarrita, ché la misericordia paterna è grande assai, e la ragazza, nel teatro delle MARIONETTE PARLANTI, riusciva di molto aiuto, massime ora che la mamma cominciava a sentire gli acciacchi degli anni e della figliuolanza. Violante lavava, cucinava, aiutava i fratelli nelle prove, mentre il genitore smaltiva l'uggia al caffè. Le marionette in mano sua parlavano davvero. Se la mettevano poi a riscuotere i soldi, in maglia carnicina, la gente entrava in teatro soltanto per rasentarle i fianchi. Sembrava la 'Fortuna' delle «Marionette parlanti» come si suol dipingere, col piede sulla ruota e rovesciando il corno dell'abbondanza sul prossimo suo.


- Madre natura m'ha fatto così, - ripeteva dal canto suo don Candeloro nel crocchio degli amici, che si rinnovano sempre in ogni paese e in ogni caffè nuovo, - il cuore largo come il mare e le braccia aperte... - Cogli anni era diventato filosofo. Aveva imparato a conoscere i capricci della sorte e l'ingratitudine degli uomini. Perciò pigliava il tempo come veniva, e gli amici dove li trovava. Si contentava di portare il corno di corallo fra i ciondoli dell'orologio, e un ferro di cavallo, del piede sinistro, inchiodato sulle assi della baracca.


Era andata su e giù quella baracca. Una volta, quando i figliuoli, fatti grandicelli, aiutavano anche essi colle forze e nelle pantomime, le MARIONETTE PARLANTI contavano fra le prime di quante ne fossero in giro, e si stava bene. Poi i ragazzi erano sgattaiolati di qua e di là, in cerca di miglior fortuna o dietro la gonnella di qualche donnaccia dello stesso mestiere, e don Candeloro per aiutarsi era stato costretto a riprender Martino che aveva incontrato a Giarratana povero in canna, e ridotto a far qualsiasi cosa per il pane.


- Sono nato senza fiele in corpo, come i colombi, - disse allora don Candeloro. - Le anime grandi si conoscono appunto al perdono delle offese. Se mi prometti di non tornar da capo, ti piglio di nuovo in Compagnia, a quindici lire il mese, alloggio e vitto compreso.


- Sia pure, - rispose Martino che moriva di fame. - Lo fo per amor della Violante, che un giorno o l'altro deve esser mia moglie e legittima sposa. Ma intendiamoci, vossignoria, che non son più un ragazzo!... e se tornate a giocar di mano o a farmi patir la fame, ci guastiamo per l'ultima volta, com'è vero Dio! - Si rappattumarono anche colla Violante, per intromissione del babbo, il quale però prescrisse che dormissero lontani l'uno dall'altra, in omaggio al buon costume, finché fossero stati marito e moglie. Messosi così l'animo in pace, tornò agli amici e all'osteria, ora che al resto badavano gli altri. Nondimeno capitava spesso di dover sospendere le rappresentazioni per due settimane o tre a causa della Violante, la quale era costretta a tornare di tanto in tanto all'Ospizio di Maternità. Il fidanzato allora vomitava ogni sorta di improperi contro di lei, pigliandosela anche con la suocera, la quale non sapeva tenere gli occhi aperti come faceva lui, protestando di non averci colpa; e don Candeloro metteva pace e tornava a ripetere che quella storia doveva avere un termine, e che li avrebbe menati per le orecchie dinanzi al sindaco tutti e due, e l'avrebbe fatta finita.


Disgraziatamente i tempi non dicevano. Le marionette facevano pochi affari, e la Violante protestava che se Martino non arrivava a metter su teatro da sé, sinché doveva portar lei sola tutta la baracca sulle spalle, non voleva mettersi pure quell'altra catena al collo, e preferiva restar zitella come Sant'Orsola. Lei invece sapeva ingegnarsi col suo pubblico, di qua e di là, e per mezzo delle beneficiate e dei regali riusciva a porre da parte qualche soldo. Don Candeloro vedeva già il momento in cui gli avrebbero dato il calcio dell'asino, come aveva fatto lui con suo padre.


- Così paga il mondo! Non tutti hanno il cuore a un modo! - E ci aveva pure un'altra spina nel cuore il povero vecchio, al vedere la condotta che teneva la figliuola, e rodendosi internamente contro quella bestia di Martino che non si accorgeva di nulla. Accettava, è vero, per amor della pace, le cortesie e gli inviti a cena dei protettori che la figliuola sapeva trovare in ogni piazza; si lasciava mettere in fondo alla tuba il cartoccio coi dolci o gli avanzi del desinare per la sua vecchiarella che aspettava a casa; ma stava a tavola di mala voglia, senza alzare il naso dal piatto, col cuore grosso. E vedendo Martino che macinava a due palmenti, cuor contento, quell'altro! gli dava fra sé certo titolo che non aveva mai portato, lui!...


- Ah, no! Non nacqui sotto quella stella, io!






Il mistero


Questa, ogni volta che tornava a contarla, gli venivano i lucciconi allo zio Giovanni, che non pareva vero, su quella faccia di sbirro.


Il teatro l'avevano piantato nella piazzetta della chiesa:

mortella, quercioli, ed anche rami interi d'ulivo, colla fronda, tal quale, ché nessuno si era rifiutato a lasciar pigliare la sua roba pel Sacro Mistero.


Lo zio Memmu, al vedere nella sua chiusa il sagrestano a stroncare e scavezzare rami interi, si sentiva quei colpi di scure nello stomaco, e gli gridava da lontano:

- Che non siete cristiano, compare Calogero? o non ve l'ha messo il prete l'olio santo, per dare così senza pietà su quell'ulivastro? - Ma sua moglie, pur colle lagrime agli acchi, andava calmandolo:

- È pel Mistero; lascialo fare. Il Signore ci manderà la buon'annata. Non vedi quel seminato che muore di sete? - Tutto giallo, del verde-giallo che hanno i bambini malati, poveretto! sulla terra bianca e dura come una crosta, che se lo mangiava, e vi faceva venire l'arsura in gola al solo vederlo.


- Questa è tutta opera di don Angelino, brontolava il marito, per farsi la provvista della legna, e chiapparsi i soldi della limosina -.


Don Angelino, il pievano, aveva lavorato otto giorni come un facchino, col sagrestano, a scavar buche, rincalzar pali, appendere lampioncini di carta rossa, e sciorinare in fondo il cortinaggio nuovo di massaro Nunzio, che si era maritato allora allora, e faceva un ben vedere nel bosco e coi lampioni davanti.


Il Mistero rappresentava la 'Fuga in Egitto', e la parte di Maria Santissima l'avevano data a compare Nanni, che era piccolo di statura, e si era fatta radere la barba apposta. Appena compariva, portando in collo Gesù Bambino, che era il figlio di comare Menica, e diceva ai ladri: «Ecco il mio sangue!» la gente si picchiava il petto coi sassi, e si mettevano a gridare tutti in una volta:
- Miseremini mei, Vergine Santa! - Ma Janu e mastro Cola, che erano i ladri, colle barbe finte di pelle d'agnello, non davano retta, e volevano rapirle il Sacro Figlio per portarlo ad Erode. Quelli aveva saputo sceglierli il pievano, da fare i ladri!

Veri cuori di sasso erano! ché il Pinto, nella lite che aveva con compare Janu pel fico dell'orto, gli rinfacciava d'allora in poi:

- Voi siete il ladro della 'Fuga in Egitto'! - Don Angelino, collo scartafaccio in mano, badava a ripetere dietro il tendone di massaro Nunzio:

«Vano, o donna, è il pregar; pietà non sento! - Pietà non sento!» - Tocca a voi, compare Janu -; ché quei due furfanti avevano persino dimenticata la parte, tal razza di gente erano! Maria Vergine aveva un bel pregare e scongiurarli, ché nella folla borbottavano:

- Compare Nanni fa il minchione perché è vestito da Maria Santissima. Se no li infilerebbe tutti e due col coltello a serramanico che ci ha in tasca -.


Ma come entrò in scena San Giuseppe, con quella barba bianca di bambagia, il quale andava cercando la sua sposa in mezzo al bosco che gli arrivava al petto, la folla non sapeva più star ferma, perché ladri, Madonna, e San Giuseppe avrebbero potuto acchiapparsi colle mani, se il Mistero non fosse stato che dovevano corrersi dietro senza raggiungersi. Qui stava il miracolo - Se i malandrini arrivavano ad acchiappare la Madonna e San Giuseppe, tutti insieme, ne facevano tonnina, ed anche del bambino Gesù, Dio liberi!

Comare Filippa, la quale ci aveva il marito in galera per avere ammazzato a colpi di zappa il vicino della vigna, quello che gli rubava i fichidindia, piangeva come una fontana, al vedere San Giuseppe inseguìto dai ladri peggio di un coniglio, e pensava a suo marito, quando gli era arrivato alla capannuccia della vigna tutto trafelato, coi gendarmi alle calcagna, e gli aveva detto:

- Dammi un sorso d'acqua. Non ne posso più! - Poi l'avevano ammanettato come Gesù all'orto, e l'avevano chiuso nella stia di ferro, per fargli il processo, col berretto fra le mani, e i capelli divenuti per intero una boscaglia grigia in tanti mesi di prigione - l'aveva ancora negli occhi - che ascoltava i giudici e i testimoni con quella faccia gialla di carcerato. E quando se l'erano portato via per mare, che non ci era mai stato, il poveretto, colla sporta in spalla, e legato coi compagni di galera, a resta come le cipolle, egli si era voltato a guardarla per l'ultima volta con quella faccia, finché non la vide più, ché dal mare non torna nessuno, e non se ne seppe più nulla.


- Voi lo sapete dove egli sia adesso, Madre Addolorata! - biascicava la vedova del vivo inginocchiata sulle calcagna, pregando pel poveretto, che gli pareva di vederlo, là, lontano, nel nero. Ella sola poteva sapere che razza di angoscia doveva esserci nel cuore della Madonna, in quel momento che i ladri erano lì lì per agguantare San Giuseppe pel mantello.


- Ora state a vedere l'incontro del patriarca San Giuseppe coi malandrini! - diceva don Angelino asciugandosi il sudore col fazzoletto da naso. E Trippa, il macellaio, picchiava sulla grancassa - zum! zum! zum! - per far capire che i ladri si accapigliavano con San Giuseppe. Le comari si misero a strillare, e gli altri raccattavano dei sassi, per rompere il grugno a quei due birbanti di Janu e di compare Cola, gridando:

- Lasciate stare il patriarca San Giuseppe! sbirri che siete! - E massaro Nunzio, per amore del cortinaggio, gridava anche lui che non glielo sfondassero. Don Angelino allora affacciò la testa dalla sua tana, colla barba lunga di otto giorni, affannandosi a calmarli colle mani e colle parole:

- Lasciateli fare! lasciateli fare! Cosi è scritto nella parte -.


Bella parte che aveva scritto! e diceva pure che era tutta roba di sua invenzione. Già lui avrebbe messo Cristo in croce colle sue mani per chiappargli i tre tarì della messa. O compare Rocco, un padre di cinque figli, non l'aveva fatto seppellire senza uno straccio di mortorio, perché non poteva spillargli nulla? - là, sotto la pietra della chiesa, di sera, al buio, che non ci si vedeva a calarlo giù nella sepoltura, per l'eternità. - E allo zio Menico non aveva espropriata la casuccia, perché era fabbricata sulla 'sciara' della chiesa, e ci pesava addosso un censo di due tarì all'anno che lo zio Menico non era riescito a pagar mai?

Allorché aveva fabbricato la casuccia, tutto contento, trasportando i sassi colle sue mani, non gli passava per la testa che un giorno o l'altro il pievano glie la avrebbe fatta vendere per quei due tarì del censo. Due tarì all'anno infine cosa sono?

Il difficile era di metterli insieme tutti e due alla scadenza, e don Angelino gli rispondeva, stringendosi nelle spalle:

- Cosa posso farci, fratel mio? Non è roba mia; è roba della Chiesa -. Tale e quale come mastro Calogero, il sagrestano, il quale ripeteva:

- Altare servi, altare ti dà pane - diceva lui. Adesso si era appeso alla fune del campanile e suonava a tutto andare, mentre Trippa batteva sulla gran cassa, e le donne vociferavano:
- Miracolo! Miracolo! - Qui lo zio Giovanni sentivasi rizzare in capo i vecchi peli, al rammentare.


Giusto un anno dopo, giorno per giorno, la vigilia del venerdì santo, Nanni e mastro Cola si incontrarono in quello stesso luogo, di notte, che c'era la luna di Pasqua, e ci si vedeva chiaro come di giorno nella piazzetta.


Nanni stava appiattato dietro il campanile, per sorprendere chi andasse da comare Venera, ché due o tre volte l'aveva sorpresa tutta sossopra e discinta, e aveva sentito qualcuno sgattaiolarsela dal cancello dell'orto.


- Chi c'era qui con te? È meglio dirmelo. Se vuoi bene ad un altro, io me ne vado via, e buona notte ai suonatori. Ma sai, quelle cose in testa non voglio portarle! - Ella protestava che non era vero, giurava per l'anima di suo marito, e chiamava a testimoni il Signore e la Madonna appesi a capo del letto, e baciava colle mani in croce quella medesima sottana di cotonina celeste che aveva imprestato a compare Nanni per fare la Maria. - Pensaci! pensaci bene a quello che mi dici! - Egli non sapeva che la Venera si era incapricciata di mastro Cola quando l'aveva visto a fare il ladro del Mistero colla barba di pelle d'agnello. - Or bene, - pensò allora - qui bisogna mettersi alla posta del coniglio come il cacciatore, per accertarsi della cosa cogli occhi propri -. La donna aveva detto all'altro:
- Guardatevi di compare Nanni. Egli ci ha in testa qualche cosa, al modo che mi guarda, e come fruga per la casa ogni volta che arriva! - Cola aveva la madre sulle spalle, che campava del suo lavoro, e non si arrischiava più di andare da comare Venera; - un giorno, due, tre, finché il diavolo lo tentò colla luna che trapelava sino al letto dalle fessure delle imposte, e gli metteva dinanzi agli occhi ad ogni momento la stradicciuola deserta, e l'uscio della vedova, allo svoltare della piazzetta di faccia al campanile. Nanni aspettava, nell'ombra, solo in mezzo alla piazza tutta bianca di luna, e in un silenzio che si udiva suonare ogni quarto d'ora l'orologio di Viagrande, e il trotterellare dei cani che andavano fiutando ad ogni cantuccio e frugavano col muso nella spazzatura. Infine si udì una pedata, rasente i muri, fermarsi all'uscio della Venera, e bussar piano, una, due volte, e poi più lieve ed in fretta, come uno che gli batte il cuore dal desiderio e dalla paura, e Nanni si sentiva picchiare anche lui dentro il petto quei colpi. Poi l'uscio si schiuse, adagio adagio, con uno spiraglio più nero dell'ombra, e si udì una schioppettata.


Mastro Cola cadde gridando:
- Mamma mia! m'ammazzarono! - Nessuno udì né vide nulla, per timore della giustizia; la stessa comare Venera disse che dormiva. Soltanto la madre, all'udir la schioppettata, si sentì colpita nelle viscere, e corse come si trovava, a raccattare Cola dall'uscio della vedova, gridando - Figlio mio! figlio mio! - I vicini si affacciarono coi lumi, e solo rimaneva chiuso quell'uscio contro il quale la madre disperata imprecava così:
- Scellerata! scellerata! Mi hai assassinato il figliuolo! - La madre, ginocchioni accanto al letto del ferito, pregava Dio, giungendo le mani forte forte, cogli occhi asciutti che sembrava una pazza:
- Signore! Signore! Mio figlio, Signore! - Ah! che mala Pasqua le aveva dato il Signore! Giusto il venerdì santo, mentre passava la processione, col tamburo e don Angelino incoronato di spine! Ah! che nero faceva in quella casa! e dall'uscio aperto si vedeva il sole, e i seminati belli, ché la gente quella volta non aveva avuto bisogno di pregare Dio per la buona annata, e lasciava solo don Angelino a battersi le spalle colla disciplina; anzi quando il sagrestano era andato a far legna col pretesto del Mistero, l'avevano minacciato di rompergli le gambe a sassate, se non andava via lesto. - Nella sua casa solo si piangeva! ora che tutti erano contenti! Nella sua casa sola! Buttata lì davanti a quel lettuccio come un sacco di cenci, disfatta, diventata decrepita tutta in una volta, coi capelli grigi, pendenti di qua e di là della faccia. E non udiva nessuno della gente che riempiva la stanza per curiosità. Non vedeva altro che quegli occhi appannati del figliuolo e quel naso affilato. Gli avevano chiamato il medico; ci avevano condotta comare Barbara, quella della buona ventura, e la povera madre si era levati di bocca tre tarì per fargli dire una messa da don Angelino. Il medico scrollava il capo. - Qui ci vuol altro che la messa di don Angelino; - dicevano le comari - qui ci vorrebbe il cotone benedetto di fra' Sanzio l'eremita, oppure la candela della Madonna di Valverde, che fa miracoli dappertutto -. Il ferito, col cotone benedetto sullo stomaco, e la candela davanti alla faccia gialla, spalancava gli occhi appannati, guardando i vicini ad uno ad uno, e cercava di sorridere alla mamma, colle labbra pallide, per farle intendere che si sentiva meglio davvero, con quel cotone miracoloso sullo stomaco. Egli accennava di sì col capo, con quel sorriso tanto triste dei moribondi che dicono di star meglio. Il medico invece diceva di no; che non avrebbe passato la notte. E don Angelino, per non screditare la mercanzia, ripeteva:

- Ci vuole la fede per fare i miracoli. Se non c'è la fede è come lavare la testa all'asino. I santi, le reliquie, il cotone benedetto, tutte belle cose quando si ha la fede -. La povera madre ne aveva tanta della fede, che parlava a tu per tu coi Santi e la Madonna, e diceva alla candela benedetta, presto presto e coi denti stretti:
- Signore! Signore! Voi me la farete la grazia! Voi mi lascerete il mio figliuolo. Signore! - E il figliuolo ascoltava, intento, cogli occhi fissi sulla candela, e cercava di sorridere, e dire di sì col capo anche lui.


Tutto il villaggio impazzì a strologare i numeri di quel fatto: ma chi ci vinse l'ambo fu solo la gnà Venera. Anzi ci avrebbe preso il terno se ci metteva anche il sangue che si era trovato nella piazzetta, poiché mastro Cola annaspando e barcollando era andato a cascare giusto nel punto dove l'anno prima aveva fatto il ladro del Mistero. Però la gnà Venera dovette spatriare dal paese, perché nessuno gli comperava più il pane del panchetto, e la chiamavano «la scomunicata». Compare Nanni, anche lui durò un pezzo a scappare di qua e di là, per le sciare e le chiuse, ma alla prima fame dell'inverno lo avevano acchiappato di notte vicino alle prime case del paese, dove aspettava il ragazzo che soleva portargli il pane di nascosto. Gli fecero il processo e se lo portarono di là del mare, col marito di comare Filippa.


Anche lui, se non avesse pensato di mettersi la gonnella della «scomunicata» per fare la Beata Vergine!




Il carnevale fallo con chi vuoi; Pasqua e Natale falli con i tuoi


Così andava dicendo compar Menico, a ogni conoscente che incontrava, salutandolo «Viva Maria!» - Il paesetto rideva là al sole, col campanile aguzzo fra il grigio degli ulivi.


- Cosa ci portate a casa, per le feste? - gli chiese il vetturale che gli andava accanto sul basto dondoloni.


- Quel che dà la provvidenza, - rispose compare Menico ridendo fra di sé. La bisaccia per la salita non gli pesava, tanto aveva il cuore leggiero; e gli facevano allegria financo i passeri che si lisciavano le penne, gonfi dal freddo, sulle spine della siepe. La strada ora gli sembrava lunga, dopo tanto tempo.


- E vostra moglie che vi aspetta? - gli disse il vetturale.


Compare Menico fece cenno di sì, ridendo sempre fra di sé.


La casa era in fondo al paese. Passò la fontana; passò la piazza; passò la beccheria, dove c'era gente che comprava carne, e da per tutto, a ogni cantonata, gli altarini parati a festa, cogli aranci e le ostie colorate. Nelle case il suono delle cornamuse metteva allegria.


In fondo al vicoletto del Gallo si udiva un gridìo di ragazzi che giuocavano alle fossette, colle mani rosse. Compar Menico guardava la finestra, da lontano, per vedere se sua moglie l'aspettava. Ma la finestra era chiusa. C'erano comare Lucia a sciorinare il bucato, e comare Narcisa, che filava al ballatoio per fare la gugliata lunga. Lo sciancato andava zoppiconi a raccogliere le galline che fuggivano schiamazzando.


Compare Menico posò la bisaccia, che gli pesava, e sedette ad aspettare accanto all'uscio chiuso, senza accorgersi delle vicine che ridevano dei fatti suoi, nascoste dietro l'impannata. Aspetta e aspetta, infine lo zio Sandro mosso a compassione gli si accostò passo passo, col fare indifferente e le mani dietro la schiena.


Dopo un pezzetto che stavano seduti accanto colle gambe larghe, guardando di qua e di là, lo zio Sandro domandò; - Che aspettate la zia Betta, compar Menico?

- Sissignore, vossignoria. Son venuto a fare il Natale.


E vedendo che avrebbe aspettato fino al giorno del giudizio, lo zio Sandro si decise a dirgli:

- O che non sapete nulla, dunque?

- Nossignore, zio Sandro. Che cosa devo sapere?

- Che vostra moglie se n'è andata con Vito Scanna, e si è portata via la chiave -.


Compare Menico lo guardò stupefatto, grattandosi la testa. Quindi balbettò:

- E dove se n'è andata?

- Io non lo so, compare Menico. Credevo che lo sapeste.


- Nossignore, io non sapevo niente, - rispose il poveraccio ripigliando la bisaccia. - Non sapevo che mi aspettava a casa questo bel regalo, la festa di Natale -.


Tutto il vicinato si scompisciava dalle risa, vedendo compare Menico che si era fatta dare una scala per entrare dal tetto in casa sua, peggio di un ladro. Egli stette rintanato in casa, festa e vigilia, senza aver animo di mettere il naso fuori.


- Questa che è la maniera di fare, servo di Dio? - gli diceva comare Senzia la vedova. - La grazia di Dio che lasciate andare a male, tali giornate! e il crepacuore che covate per dar gusto ai vostri nemici! - Egli non sapeva che dire, in verità; ora il compassionarlo che faceva la zia Senzia lo inteneriva, in mezzo a tutto quel ben di Dio che c'era in casa.


- Che gli mancava, gnà Senzia, ditelo voi? che gli mancava a quella buona donna per farmi questo tradimento?

- Noialtre donne, compare Menico, ci meritiamo il castigo di Dio, - rispondeva comare Senzia.


Quella era veramente una buona donna, che aveva cura del poveraccio, abbandonato al pari di un orfano, e gli teneva la chiave della casa allorché compare Menico se ne fu tornato in campagna come se le feste per lui non ci fossero mai state.


Lì, nel maggese, gli giungevano altre notizie della moglie; - L'abbiamo vista alla fiera di Mililli. - Vito Scanna se l'è portata a incartar limoni nei giardini di Francofonte -. Tutti gli facevano la predica:
- La moglie giovane non va lasciata sola, compare Menico! - Infine il torto cadeva su di lui. In giugno, colla schiera dei mietitori assoldati dal capoccia, giunse al podere anche Vito Scanna, tutto cencioso, senz'altro bene che la sua falce.


- Guardate che non voglio scene fra di voi! - raccomandò il fattore. - Ciascuno al suo lavoro, com'è dovere -.


Sicché gli toccò anche vedersi Scanna mattina e sera sotto il naso, mangiare e bere e cantare come la cicala, nelle ore calde, per non sentire il sole. Un giorno che il sole gli scaldò la testa a tutti e due, e volevano bucarsi la pancia colla forca, per amore di quella donna, il fattore li minacciò di scacciarli su due piedi, e convenne aver pazienza. Certo è che Betta doveva fare la mala vita, ora che Vito Scanna l'aveva abbandonata.


Il Signore l'aveva castigata, come soleva dire comare Senzia. Zio Menico portava a casa vino, olio, frumento, al par della formica, nella casa senza padrona, dove la zia Senzia si godeva tutto.


- Solo come un cane non posso starci - diceva lui, il poveraccio, per scolparsi. - Chi baderebbe alla casa e mi farebbe cuocere la minestra? - Il curato, servo di Dio, cercava di toccargli il cuore, e far cessare lo scandalo, ora che sua moglie era sola e pentita. - Aprite le braccia e perdonatele, come al figliuol Prodigo, adesso che si avvicina il Santo Natale.


- Come posso vedermela di nuovo in casa, vossignoria, dopo il tradimento che mi ha fatto? - rispondeva lo zio Menico - senza pensare a Vito Scanna, che stavamo per ammazzarci colla forca, Dio libero, alla messe! - Dall'altro canto comare Senzia, che mangiava la foglia, ogni volta che vedeva lo zio Menico parlare col curato, gli faceva un piagnisteo, lamentandosi che volevano abbandonarla nuda e cruda in mezzo a una strada.


- Allora vedrete che il castigo di Dio vi sta sul capo,- conchiudeva il prete. - E la gente a sparlare di lui, che si ostinava a vivere nel peccato, come una bestia.


Il castigo di Dio lo colse infatti a Ragoleti con una febbre perniciosa, peggio di una schioppettata. Lo portarono in paese su di un mulo, che aveva già la morte sulla faccia. Sua moglie allora corse insieme al viatico, colla faccia pallida e torva, e siccome la zia Senzia era ancora lì, umile e atterrita, si mise i pugni nei fianchi, e la scacciò di casa sua come una mala bestia.


Ora ella era la padrona. Compare Menico in un angolo non parlava e non contava più. Appena chiusi gli occhi, la vigilia dell'Immacolata, sua moglie si vestì di nero da capo a piedi, senza perdere un minuto.


E coi vicini, i quali si erano accostati, in occasione della disgrazia, parlavano spesso del morto, poveretto, che aveva lavorato tutta la vita per fare un po' di roba, e grazie a Dio, lasciava la vedova nell'agiatezza. Ma quando Vito Scanna tornava a ronzarle attorno, vestito di nuovo, come un moscone, essa si faceva la croce e gli diceva:

- Via di qua, pezzente!






Nedda


Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l'occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m'innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascierei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri. Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d'amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l'altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate, sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l'effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe la vostra fronte.


E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un'altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell'immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell'Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca. La vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla; il grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco, rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato del vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe, e le ragazze incominciarono a saltare sull'ammattonato sconnesso della vasta cucina affumicata, mentre il cane brontolava per paura che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anche esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette:
- 'Nedda! Nedda la varannisa!' - sclamarono parecchie.


- Dove si é cacciata la 'varannisa'?

- Son qua - rispose una voce breve dall'angolo più buio, dove si era accoccolata una ragazza su di un fascio di legna.

- O che fai tu costà?

- Nulla.

- Perché non hai ballato?

- Perché son stanca.

- Cantaci una delle tue belle canzonette.

- No, non voglio cantare.

- Che hai?

- Nulla.

- Ha la mamma che sta per morire, - rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti.


La ragazza, che teneva il mento sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi piedi nudi.


Allora due o tre si volsero verso di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero:


- O allora perché hai lasciato tua madre?

- Per trovar del lavoro.

- Di dove sei?

- Di Viagrande, ma sto a Ravanusa -.


Una delle spiritose, la figlioccia del castaldo, che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d'oro al collo, le disse volgendole le spalle:
- Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l'uccello -.


Nedda le lanciò dietro un'occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda.


- No! lo zio Giovanni sarebbe venuto a chiamarmi! - esclamò come rispondendo a se stessa.

- Chi è lo zio Giovanni?

- È lo zio Giovanni di Ravanusa; lo chiamano tutti così.

- Bisognava farsi imprestare qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, - disse un'altra.

- Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire! - aggiunse Nedda scrollando la testa, e lasciando trapelare per la prima volta un'intonazione più dolente nella voce rude e quasi selvaggia: - ma a veder tramontare il sole dall'uscio, pensando che non c'è pane nell'armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l'indomani, la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel lettuccio! - E scuoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardar nessuno, con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non saprebbero esprimere.


- Le vostre scodelle, ragazze! - gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale.


Tutte si affollarono attorno al focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio.


Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l'illuminò tutta.


Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell'attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l'isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull'ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall'ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al còmpito dell'uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L'immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un'aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l'aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l'anima e l'intelligenza. - Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. - E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi.


Nedda sporse la sua scodella, e la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era molto.


- Perché vieni sempre l'ultima? Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza? - le disse a mo' di compenso la castalda.


La povera ragazza chinò gli occhi sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il rimprovero, e andò pian pianino perché il contenuto non si versasse.


- Io te ne darei volentieri delle mie, - disse a Nedda una delle sue compagne che aveva miglior cuore; - ma se domani continuasse a piovere... davvero!... oltre a perdere la mia giornata non vorrei anche mangiare tutto il mio pane.


- Io non ho questo timore! - rispose Nedda con un triste sorriso.


- Perché?

- Perché non ho pane di mio. Quel po' che ci avevo, insieme a quei pochi quattrini, li ho lasciati alla mamma.


- E vivi della sola minestra?

- Sì, ci sono avvezza; - rispose Nedda semplicemente.


- Maledetto tempaccio, che ci ruba la nostra giornata! - imprecò un'altra.


- To', prendi dalla mia scodella.


- Non ho più fame; - rispose la 'varannisa' ruvidamente, a mo' di ringraziamento.


- Tu che bestemmi la pioggia del buon Dio, non mangi forse del pane anche tu? - disse la castalda a colei che aveva imprecato contro il cattivo tempo. - E non sai che pioggia d'autunno vuol dire buon anno? - Un mormorio generale approvò quelle parole.


- Sì, ma intanto son tre buone mezze giornate che vostro marito toglierà dal conto della settimana! - Altro mormorio d'approvazione.


- Hai forse lavorato in queste tre mezze, perché ti si abbiano a pagare? - rispose trionfalmente la vecchia.


- È vero! è vero! - risposero le altre, con quel sentimento istintivo di giustizia che c'è nelle masse, anche quando questa giustizia danneggia gli individui.


La castalda intuonò il rosario, le avemarie si seguirono col loro monotono brontolio, accompagnate da qualche sbadiglio. Dopo le litanie si pregò per i vivi e per i morti, e allora gli occhi della povera Nedda si riempirono di lagrime, e dimenticò di rispondere 'amen'.


- Che modo è cotesto di non rispondere 'amen'? - le disse la vecchia in tuono severo.


- Pensava alla mia povera mamma che è tanto lontana; - balbettò Nedda timidamente.


Poi la castalda diede la 'santa notte', prese la lucerna e andò via. Qua e là, per la cucina o attorno al fuoco, si improvvisarono i giacigli in forme pittoresche. Le ultime fiamme gettarono vacillanti chiaroscuri sui gruppi e su gli atteggiamenti diversi. Era una buona fattoria quella, e il padrone non risparmiava, come tant'altri, fave per la minestra, né legna pel focolare, né strame pei giacigli. Le donne dormivano in cucina, e gli uomini nel fienile.


Dove poi il padrone è avaro, o la fattoria è piccola, uomini e donne dormono alla rinfusa, come meglio possono, nella stalla, o altrove, sulla paglia o su pochi cenci, i figliuoli accanto ai genitori, e quando il genitore è ricco, e ha una coperta di suo, la distende sulla sua famigliuola; chi ha freddo si addossa al vicino, o mette i piedi nella cenere calda, o si copre di paglia, si ingegna come può; dopo un giorno di fatica, e per ricominciare un altro giorno di fatica, il sonno è profondo, al pari di un despota benefico, e la moralità del padrone non è permalosa che per negare il lavoro alla ragazza la quale, essendo prossima a divenir madre, non potesse compiere le sue dieci ore di fatica.


Prima di giorno le più mattiniere erano uscite per vedere che tempo facesse, e l'uscio che sbatteva ad ogni momento sugli stipiti, spingeva turbini di pioggia e di vento freddissimo su quelli che intirizziti dormivano ancora. Ai primi albori il castaldo era venuto a spalancare l'uscio, per svegliare i pigri, giacché non è giusto defraudare il padrone di un minuto della giornata lunga dieci ore, che gli paga il suo bravo 'tarì', e qualche volta anche tre carlini (sessantacinque centesimi!) oltre la minestra.


- Piove! - era la parola uggiosa che correva su tutte le bocche, con accento di malumore. La Nedda, appoggiata all'uscio, guardava tristemente i grossi nuvoloni color di piombo che gettavano su di lei le livide tinte del crepuscolo. La giornata era fredda e nebbiosa; le foglie avvizzite si staccavano strisciando lungo i rami, e svolazzavano alquanto prima di andare a cadere sulla terra fangosa, e il rigagnolo si impantanava in una pozzanghera, dove si avvoltolavano voluttuosamente dei maiali; le vacche mostravano il muso nero attraverso il cancello che chiudeva la stalla, e guardavano la pioggia che cadeva con occhio malinconico; i passeri, rannicchiati sotto le tegole della gronda, pigolavano in tono piagnoloso.


- Ecco un'altra giornata andata a male! - mormorò una delle ragazze, addentando un grosso pan nero.


- Le nuvole si distaccano dal mare laggiù, - disse Nedda stendendo il braccio; - verso il mezzogiorno forse il tempo cambierà.


- Però quel birbo del fattore non ci pagherà che un terzo della giornata!

- Sarà tanto di guadagnato.


- Sì, ma il nostro pane che mangiamo a tradimento?

- E il danno che avrà il padrone delle olive che andranno a male, e di quelle che si perderanno fra la mota?

- È vero, - disse un'altra.


- Ma pròvati ad andare a raccogliere una sola di quelle olive che andranno perdute fra mezz'ora, per accompagnarla al tuo pane asciutto, e vedrai quel che ti darà di giunta il fattore!

- È giusto, perché le olive non sono nostre!

- Ma non sono nemmeno della terra che se le mangia!

- La terra è del padrone, to'! - replicò Nedda trionfante di logica, con certi occhi espressivi.


- È vero anche questo; - rispose un'altra, la quale non sapeva che rispondere.


- Quanto a me preferirei che continuasse a piovere tutto il giorno, piuttosto che stare una mezza giornata carponi in mezzo al fango, con questo tempaccio, per tre o quattro soldi.


- A te non ti fanno nulla tre o quattro soldi, non ti fanno! - esclamò Nedda tristemente.


La sera del sabato, quando fu l'ora di aggiustare il conto della settimana, dinanzi alla tavola del fattore, tutta carica di cartacce e di bei gruzzoletti di soldi, gli uomini più turbolenti furono pagati i primi, poscia le più rissose delle donne, in ultimo, e peggio, le timide e le deboli. Quando il fattore le ebbe fatto il suo conto, Nedda venne a sapere che, detratte le due giornate e mezza di riposo forzato, restava ad avere quaranta soldi.


La povera ragazza non osò aprir bocca. Solo le si riempirono gli occhi di lagrime.


- E laméntati per giunta, piagnucolona! - gridò il fattore, il quale gridava sempre, da fattore coscienzioso che difende i soldi del padrone. - Dopo che ti pago come le altre, e sì che sei più povera e più piccola delle altre! e ti pago la tua giornata come nessun proprietario ne paga una simile in tutto il territorio di Pedara, Nicolosi e Trecastagne! Tre carlini, oltre la minestra!

- Io non mi lamento... - disse timidamente Nedda intascando quei pochi soldi che il fattore, ad aumentare il valore, aveva conteggiato per grani. - La colpa è del tempo che è stato cattivo e mi ha tolto quasi la metà di quel che avrei potuto buscarmi.


- Pigliatela col Signore! - disse il fattore ruvidamente.


- Oh, non col Signore! ma con me che son tanto povera!

- Pàgagli intiera la sua settimana, a quella povera ragazza; - disse al fattore il figliuolo del padrone, il quale assisteva alla raccolta delle olive. - Non sono che pochi soldi di differenza.


- Non devo darle che quel che è giusto!

- Ma se te lo dico io!

- Tutti i proprietari del vicinato farebbero la guerra a voi e a me se 'facessimo delle novità'.


- Hai ragione! - rispose il figliuolo del padrone, il quale era un ricco proprietario, e aveva molti vicini.


Nedda raccolse quei pochi cenci che erano suoi, e disse addio alle compagne.


- Vai a Ravanusa a quest'ora? - dissero alcune.


- La mamma sta male!

- Non hai paura?

- Sì, ho paura per questi soldi che ho in tasca; ma la mamma sta male, e adesso che non son più costretta a star qui a lavorare, mi sembra che non potrei dormire, se mi fermassi anche stanotte.


- Vuoi che t'accompagni? - le disse in tuono di scherzo il giovane pecoraio.


- Vado con Dio e con Maria - disse semplicemente la povera ragazza, prendendo la via dei campi a capo chino.


Il sole era tramontato da qualche tempo e le ombre salivano rapidamente verso la cima della montagna. Nedda camminava sollecita, e quando le tenebre si fecero profonde, cominciò a cantare come un uccelletto spaventato. Ogni dieci passi voltavasi indietro, paurosa, e allorché un sasso, smosso dalla pioggia che era caduta, sdrucciolava dal muricciolo, o il vento le spruzzava bruscamente addosso a guisa di gragnuola la pioggia raccolta nelle foglie degli alberi, ella si fermava tutta tremante, come una capretta sbrancata. Un assiolo la seguiva d'albero in albero col suo canto lamentoso; ed ella, tutta lieta di quella compagnia, gli faceva il richiamo, perché l'uccello non si stancasse di seguirla.


Quando passava dinanzi ad una cappelletta, accanto alla porta di qualche fattoria, si fermava un istante nella viottola per dire in fretta un'avemaria, stando all'erta che non le saltasse addosso dal muro di cinta il cane di guardia, che abbaiava furiosamente; poi partiva di passo più lesto, rivolgendosi due o tre volte a guardare il lumicino che ardeva in omaggio alla Santa, nello stesso tempo che faceva lume al fattore, quando doveva tornar tardi dai campi.


Quel lumicino le dava coraggio, e la faceva pregare per la sua povera mamma. Di tempo in tempo un pensiero doloroso le stringeva il cuore con una fitta improvvisa, e allora si metteva a correre, e cantava ad alta voce per stordirsi, o pensava ai giorni più allegri della vendemmia, o alle sere d'estate, quando, con la più bella luna del mondo, si tornava a stormi dalla Piana, dietro la cornamusa che suonava allegramente; ma il suo pensiero correva sempre là, dinanzi al misero giaciglio della sua inferma. Inciampò in una scheggia di lava tagliente come un rasoio, e si lacerò un piede; l'oscurità era sì fitta che alle svolte della viottola la povera ragazza spesso urtava contro il muro o la siepe, e cominciava a perder coraggio e a non saper dove si trovasse.


Tutt'a un tratto udì l'orologio di Punta che suonava le nove, così vicino che i rintocchi sembravano le cadessero sul capo. Nedda sorrise, quasi un amico l'avesse chiamata per nome in mezzo ad una folla di stranieri.


Infilò allegramente la via del villaggio, cantando a squarciagola la sua bella canzone, e tenendo stretti nella mano, dentro la tasca del grembiule, i suoi quaranta soldi.


Passando dinanzi alla farmacia vide lo speziale ed il notaro tutti inferraiuolati che giocavano a carte. Alquanto più in là incontrò il povero matto di Punta, che andava su e giù da un capo all'altro della via, colle mani nelle tasche del vestito, canticchiando la solita canzone che l'accompagna da venti anni, nelle notti d'inverno e nei meriggi della canicola. Quando fu ai primi alberi del diritto viale di Ravanusa, incontrò un paio di buoi che venivano a passo lento ruminando tranquillamente.


- Ohé, Nedda! - gridò una voce nota.


- Sei tu, Janu?

- Sì, son io, coi buoi del padrone.


- Da dove vieni? - domandò Nedda senza fermarsi.


- Vengo dalla Piana. Son passato da casa tua; tua madre t'aspetta.


- Come sta la mamma?

- Al solito.


- Che Dio ti benedica! - esclamò la ragazza come se avesse temuto il peggio, e ricominciò a correre.


- Addio, Nedda! - le gridò dietro Janu.


- Addio, - balbettò da lontano Nedda.


E le parve che le stelle splendessero come soli, che tutti gli alberi, noti uno per uno, stendessero i rami sulla sua testa per proteggerla, e i sassi della via le accarezzassero i piedi indolenziti.


Il domani, che era domenica, venne la visita del medico, il quale concedeva ai suoi malati poveri il giorno che non poteva consacrare ai suoi poderi. Una triste visita davvero! perché il buon dottore non era abituato a far complimenti coi suoi clienti, e nel casolare di Nedda non c'era anticamera, né amici di casa ai quali si potesse annunciare il vero stato dell'inferma.


Nella giornata seguì anche una mesta funzione; venne il curato in rocchetto, il sagrestano coll'olio santo, e due o tre comari che borbottavano non so che preci. La campanella del sagrestano squillava acutamente in mezzo ai campi, e i carrettieri che l'udivano fermavano i loro muli in mezzo alla strada, e si cavavano il berretto. Quando Nedda l'udì per la sassosa viottola tirò su la coperta tutta lacera dell'inferma, perché non si vedesse che mancavano le lenzuola, e piegò il suo più bel grembiule bianco sul deschetto zoppo, reso fermo con dei mattoni.


Poi, mentre il prete compiva il suo ufficiò, andò ad inginocchiarsi fuori dell'uscio, balbettando macchinalmente delle preci, guardando come trasognata quel sasso dinanzi alla soglia su cui la sua vecchierella soleva scaldarsi al sole di marzo, e ascoltando con orecchio distratto i consueti rumori delle vicinanze, ed il via vai di tutta quella gente che andava per i propri affari senza avere angustie pel capo. Il curato partì, ed il sagrestano indugiò invano sull'uscio perchè gli facessero la solita limosina pei poveri.


Lo zio Giovanni vide a tarda ora della sera la Nedda che correva sulla strada di Punta.


- Ohé! dove vai a quest'ora?

- Vado per una medicina che ha ordinato il medico -.


Lo zio Giovanni era economo e brontolone.


- Ancora medicine! - borbottò, - dopo che ha ordinato la medicina dell'olio santo! già, loro fanno a metà collo speziale, per dissanguare la povera gente! Fai a mio modo, Nedda, risparmia quei quattrini e vatti a star colla tua vecchia.


- Chissà che non avesse a giovare! - rispose tristemente la ragazza chinando gli occhi, e affrettò il passo.


Lo zio Giovanni rispose con un brontolio. Poi le gridò dietro:
- Ohe! 'la varannisa'!

- Che volete?

- Anderò io dallo speziale. Farò più presto di te, non dubitare.


Intanto non lascerai sola la povera malata -.


Alla ragazza vennero le lagrime agli occhi.


- Che Dio vi benedica! - gli disse, e volle anche mettergli in mano i denari.


- I denari me li darai poi; - rispose ruvidamente lo zio Giovanni, e si diede a camminare colle gambe dei suoi vent'anni.


La ragazza tornò indietro e disse alla mamma:
- C'è andato lo zio Giovanni, - e lo disse con voce dolce insolitamente.


La moribonda udì il suono dei soldi che Nedda posava sul deschetto, e la interrogò cogli occhi.


- Mi ha detto che glieli darò poi; - rispose la figlia.


- Che Dio gli paghi la carità! - mormorò l'inferma, - così resterai senza un quattrino.


- Oh, mamma!

- Quanto gli dobbiamo allo zio Giovanni?

- Dieci lire. Ma non abbiate paura, mamma! Io lavorerò! - La vecchia la guardò a lungo coll'occhio semispento, e poscia l'abbracciò senza aprir bocca. Il giorno dopo vennero i becchini, il sagrestano e le comari. Quando Nedda ebbe acconciato la morta nella bara, coi suoi migliori abiti, le mise tra le mani un garofano che aveva fiorito dentro una pentola fessa, e la più bella treccia dei suoi capelli; diede ai becchini quei pochi soldi che le rimanevano perché facessero a modo, e non scuotessero tanto la morta per la viottola sassosa del cimitero; poi rassettò il lettuccio e la casa, mise in alto, sullo scaffale, l'ultimo bicchiere di medicina, e andò a sedersi sulla soglia dell'uscio, guardando il cielo.


Un pettirosso, il freddoloso uccelletto del novembre, si mise a cantare tra le frasche e i rovi che coronavano il muricciuolo di faccia all'uscio, e saltellando fra le spine e gli sterpi, la guardava con certi occhietti maliziosi come se volesse dirle qualche cosa: Nedda pensò che la sua mamma, il giorno innanzi, l'aveva udito cantare. Nell'orto accanto c'erano delle olive per terra, e le gazze venivano a beccarle; ella le aveva scacciate a sassate, perché la moribonda non ne udisse il funebre gracidare; adesso le guardò impassibile, e non si mosse; e quando sulla strada vicina passarono il venditore di lupini, o il vinaio, o i carrettieri, che discorrevano ad alta voce per vincere il rumore dei loro carri e delle sonagliere dei loro muli, ella diceva:
- costui è il tale, quegli è il tal altro -. Allorché suonò l'avemaria, e si accese la prima stella della sera, si rammentò che non doveva andar giù per le medicine a Punta, ed a misura che i rumori andarono perdendosi nella via, e le tenebre a calare nell'orto, pensò che non aveva più bisogno d'accendere il lume.


Lo zio Giovanni la trovò ritta sull'uscio.


Ella si era alzata udendo dei passi nella viottola, perché non aspettava più nessuno.


- Che fai costà! - le domandò lo zio Giovanni. Ella si strinse nelle spalle, e non rispose.


Il vecchio si assise accanto a lei, sulla soglia, e non aggiunse altro.


- Zio Giovanni, - disse la ragazza dopo un lungo silenzio, - adesso non ho più nessuno, e posso andar lontano a cercar lavoro; partirò per la Roccella, ove dura ancora la raccolta delle olive, e al ritorno vi restituirò i denari che ci avete imprestati.


- Io non sono venuto a domandarteli i tuoi denari! - le rispose burbero lo zio Giovanni.


Ella non disse altro, ed entrambi rimasero zitti ad ascoltare l'assiolo che cantava. Nedda pensò che era forse quello stesso di due sere innanzi, e sentì gonfiarsi il cuore.


- E del lavoro ne hai? - domandò finalmente lo zio Giovanni.


- No, ma qualche anima caritatevole troverò, che me ne darà.


- Ho sentito dire che ad Aci Catena pagano le donne abili per incartare le arance in ragione di una lira al giorno, senza minestra, e ho subito pensato a te; tu hai già fatto quel mestiere nello scorso marzo, e devi esser pratica. Vuoi andare?

- Magari!

- Bisognerebbe trovarsi domani all'alba al giardino del Merlo, all'angolo della scorciatoia che conduce a Sant'Anna.


- Posso anche partire stanotte. La mia povera mamma non ha voluto costarmi molti giorni di riposo.


- Sai dove andare?

- Sì, poi mi informerò.


- Domanderai all'oste che sta sulla strada maestra di Valverde, al di là del castagneto che è sulla sinistra della via. Cercherai di massaro Vinirannu, e dirai che ti mando io.


- Ci andrò, - disse la povera ragazza.


- Ho pensato che non avresti avuto del pane per la settimana, - disse lo zio Giovanni cavando un grosso pan nero dalla profonda tasca del suo vestito, e posandolo sul deschetto.


La Nedda si fece rossa, come se facesse lei quella buona azione.


Poi, dopo qualche istante riprese:

- Se il signor curato dicesse domani la messa per la mamma, io gli farei due giornate di lavoro, alla raccolta delle fave.


- La messa l'ho fatta dire - rispose lo zio Giovanni.


- Oh! la povera morta pregherà anche per voi! - mormorò la ragazza coi grossi lagrimoni agli occhi.


Infine, quando lo zio Giovanni se ne andò, e udì perdersi in lontananza il rumore de suoi passi pesanti, chiuse l'uscio, e accese la candela. Allora le parve di trovarsi sola al mondo, ed ebbe paura di dormire in quel povero lettuccio ove soleva coricarsi accanto alla sua mamma.


Le ragazze del villaggio sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della sua vecchia, e perché non aveva messo il bruno; e il signor curato la sgridò forte, quando la domenica successiva la vide sull'uscio del casolare, mentre si cuciva il grembiule che aveva fatto tingere in nero, unico e povero segno di lutto, e prese argomento da ciò per predicare in chiesa contro il mal uso di non osservare le feste e le domeniche.


La povera fanciulla, per farsi perdonare il suo grosso peccato, andò a lavorare due giorni nel campo del curato, acciò dicesse la messa per la sua morta il primo lunedì del mese; e la domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i giovanotti, all'uscire di chiesa, le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera - ovvero diceva a se stessa a mo' di rimprovero che si fosse meritato:
- Son così povera! - oppure, guardando le sue due buone braccia:
- Benedetto il Signore che me le ha date! - e tirava via sorridendo.


Una sera - aveva spento da poco il lume - udì nella viottola una nota voce che cantava a squarciagola, e con la melanconica cadenza orientale delle canzoni contadinesche: 'Picca cci voli ca la vaju' a viju. A la mi' amanti di l'arma mia!'...


- È Janu! - disse sottovoce, mentre il cuore le balzava dal petto come un uccello spaventato, e cacciò la testa fra le coltri.


E il domani, quando aprì la finestra, vide Janu col suo bel vestito nuovo di fustagno, nelle cui tasche cercavano entrare per forza le sue grosse mani nere e incallite al lavoro, con un bel fazzoletto di seta nuova fiammante che faceva capolino con civetteria dalla scarsella del farsetto, il quale si godeva il bel sole d'aprile appoggiato al muricciolo dell'orto.


- Oh, Janu! - dissi ella, come se non ne sapesse proprio nulla.


- 'Salutamu!' - esclamò il giovane col suo più grosso sorriso.


- O che fai qui?

- Torno dalla Piana -.


La fanciulla sorrise, e guardò le lodole che saltellavano ancora sul verde per l'ora mattutina.


- Sei tornato colle lodole.


- Le lodole vanno dove trovano il miglio, ed io dove c'è del pane.


- O come?

- Il padrone m'ha licenziato.


- O perché?

- Perché avevo preso le febbri laggiù, e non potevo più lavorare che tre giorni per settimana.


- Si vede, povero Janu!

- Maledetta Piana! - imprecò Janu stendendo il braccio verso la pianura.


- Sai, la mamma!... - disse Nedda.


- Me l'ha detto lo zio Giovanni -.


Ella non aggiunse altro, e guardò l'orticello al di là del muricciolo. I sassi umidicci fumavano; le gocce di rugiada luccicavano su di ogni filo d'erba; i mandorli fioriti sussurravano lieve lieve e lasciavano cadere sul tettuccio del casolare i loro fiori bianchi e rosei che imbalsamavano l'aria; una passera, petulante e sospettosa nel tempo istesso, schiamazzava sulla gronda, e minacciava a suo modo Janu, che aveva tutta l'aria, col suo viso sospetto, di insidiare al suo nido, del quale spuntavano tra le tegole alcuni fili di paglia indiscreti.


La campana della chiesuola chiamava a messa.


- Come fa piacere a sentire la 'nostra' campana! - esclamò Janu.


- Io ho riconosciuto la tua voce stanotte, - disse Nedda facendosi rossa, e zappando con un coccio la terra della pentola che conteneva i suoi fiori.


Egli si volse in là, ed accese la pipa, come deve fare un uomo.


- Addio, vado a messa! - disse bruscamente la Nedda, tirandosi indietro dopo un lungo silenzio.


- Prendi, ti ho portato codesto dalla città - le disse il giovane sciorinando il suo bel fazzoletto di seta.


- Oh! com'è bello! ma questo non fa per me!

- O perché? se non ti costa nulla! - rispose il giovanotto con logica contadinesca.


Ella si fece rossa, come se la grossa spesa le avesse dato idea dei caldi sentimenti del giovane, gli lanciò, sorridente, un'occhiata fra carezzevole e selvaggia, e scappò in casa; e allorché udì i grossi scarponi di lui sui sassi della viottola, fece capolino per accompagnarlo cogli occhi mentre se ne andava.


Alla messa le ragazze del villaggio poterono vedere il bel fazzoletto di Nedda, dove c'erano stampate delle rose 'che si sarebbero mangiate', e su cui il sole, scintillante dalle invetriate della chiesuola, mandava i suoi raggi più allegri. E quand'ella passò dinanzi a Janu, il quale stava presso il primo cipresso del sacrato, colle spalle al muro e fumando nella sua pipa intagliata, ella sentì gran caldo al viso, e il cuore che le faceva un gran battere in petto, e sgusciò via alla lesta. Il giovane le tenne dietro fischiettando, e la guardava a camminare svelta e senza voltarsi indietro, colla sua veste nuova di fustagno che faceva delle belle pieghe pesanti, le sue brave scarpette, e la sua mantellina fiammante. - La povera formica, or che la mamma stando in paradiso non l'era più a carico, era riuscita a farsi un po' di corredo col suo lavoro. - Fra tutte le miserie del povero c'e anche quella del sollievo che arrecano le perdite più dolorose al cuore!

Nedda sentiva dietro di sè, con gran piacere o gran sgomento (non sapeva davvero che cosa fosse delle due), il passo pesante del giovanotto, e guardava sulla polvere biancastra dello stradale, tutto diritto e inondato di sole, un'altra ombra, la quale di tanto in tanto si distaccava dalla sua. Tutt'a un tratto, quando fu in vista della sua casuccia, senza alcun motivo, si diede a correre come una cerbiatta spaventata. Janu la raggiunse, ella si appoggiò all'uscio, tutta rossa e sorridente, e gli allungò un pugno sul dorso. - To'! - Egli ripicchiò con galanteria un po' manesca.


- O quanto l'hai pagato il tuo fazzoletto? - domandò Nedda togliendoselo dal capo per sciorinarlo al sole e contemplarlo in aria festosa.


- Cinque lire, - rispose Janu un po' pettoruto.


Ella sorrise senza guardarlo; ripiegò accuratamente il fazzoletto, studiando i segni che avevano lasciato le pieghe, e si mise a canticchiare una canzonetta che non soleva tornarle in bocca da lungo tempo.


La pentola rotta, posta sul davanzale, era ricca di garofani in boccio.


- Che peccato, - disse Nedda, - che non ce ne siano di fioriti! - e spiccò il più grosso bocciolo e glielo diede.


- Che vuoi che ne faccia se non è sbocciato? - dissi egli senza comprenderla, e lo buttò via. Ella si volse in là.


- E adesso dovrai andare a lavorare? - gli domandò dopo qualche secondo.


Egli alzò le spalle:
- Dove andrai tu domani!

- A Bongiardo.


- Del lavoro ne troverò; ma bisognerebbe che non tornassero le febbri.


- Bisognerebbe non star fuori la notte a cantare dietro gli usci!

- gli dissi ella tutta rossa, dondolandosi sullo stipite dell'uscio con certa aria civettuola.


- Non lo farò più, se tu non vuoi -.


Ella gli diede un buffetto, e scappò dentro.


- Ohé! Janu! - chiamò dalla strada lo zio Giovanni - Vengo! - gridò Janu; e alla Nedda:
- Verrò anche io a Bongiardo, se mi vogliono.


- Ragazzo mio, - gli disse lo zio Giovanni quando fu sulla strada, - la Nedda non ha più nessuno, e tu sei un bravo giovinotto; ma insieme non ci state proprio bene. Hai inteso?

- Ho inteso, zio Giovanni; ma se Dio vuole, dopo la messe, quando avrò da banda quel po' di quattrini che ci vogliono, insieme ci staremo benissimo -.


Nedda, che aveva udito da dietro il muricciolo, si fece rossa, sebbene nessuno la vedesse.


L'indomani, prima di giorno, quand'ella si affacciò all'uscio per partire, trovò Janu, col suo fagotto infilato al bastone.


- O dove vai? - gli domandò.


- Vengo anche io a Bongiardo, a cercar lavoro -.


I passerotti, che si erano svegliati alle voci mattutine, cominciarono a pigolare dietro il nido. Janu infilò al suo bastone anche il fagotto di Nedda, e si avviarono alacremente, mentre il cielo si tingeva all'orizzonte delle prime fiamme del giorno, e il venticello diveniva frizzante.


A Bongiardo c'era proprio del lavoro per chi ne voleva. Il prezzo del vino era salito, e un ricco proprietario faceva dissodare un gran tratto di 'chiuse' da mettere a vigneti. Le 'chiuse' rendevano 1200 lire all'anno in lupini ed olio; messe a vigneto avrebbero dato, fra cinque anni, 12 o 13 mila lire, impiegandovene solo 10 o 12 mila; il taglio degli ulivi avrebbe coperto metà della spesa. Era un'eccellente speculazione, come si vede, e il proprietario pagava, di buon grado, una gran giornata ai contadini che lavoravano al dissodamento, 30 soldi agli uomini, e 20 alle donne, senza minestra; è vero che il lavoro era un po' faticoso, e che ci si rimettevano anche quei pochi cenci che formavano il vestito dei giorni di lavoro; ma Nedda non era abituata a guadagnar 20 soldi tutti i giorni.


Il soprastante si accorse che Janu, riempiendo i corbelli di sassi, lasciava sempre il più leggiero per Nedda, e minacciò di cacciarlo via. Il povero diavolo, tanto per non perdere il pane, dovette accontentarsi di discendere dai 30 ai 20 soldi.


Il male era che quei poderi quasi incolti mancavano di fattoria, e la notte uomini e donne dovevano dormire alla rinfusa nell'unico casolare senza porta, e sì che le notti erano piuttosto fredde.


Janu diceva d'aver sempre caldo, e dava a Nedda la sua casacca di fustagno perché si coprisse per bene. La domenica poi tutta la brigata si metteva in cammino per vie diverse.


Janu e Nedda avevano preso le scorciatoie, e andavano attraverso il castagneto chiacchierando, ridendo, cantando a riprese, e facendo risuonare nelle tasche i grossi soldoni. Il sole era caldo come in giugno; i prati lontani cominciavano ad ingiallire, le ombre degli alberi avevano qualche cosa di festevole, e l'erba che vi cresceva era ancora verde e rugiadosa.


Verso il mezzogiorno sedettero al rezzo, per mangiare il loro pan nero e le loro cipolle bianche. Janu aveva anche del vino, del buon vino di Mascali che regalava a Nedda senza risparmio, e la povera ragazza, la quale non c'era avvezza, si sentiva la lingua grossa, e la testa assai pesante. Di tratto in tratto si guardavano e ridevano senza saper perché.


- Se fossimo marito e moglie si potrebbe tutti i giorni mangiare il pane e bere il vino insieme; - disse Janu con la bocca piena, e Nedda chinò gli occhi, perché egli la guardava in un certo modo.


Regnava il profondo silenzio del meriggio; le più piccole foglie erano immobili; le ombre erano rade; c'era per l'aria una calma, un tepore, un ronzio di insetti che pesava voluttuosamente sulle palpebre. Ad un tratto una corrente d'aria fresca, che veniva dal mare, fece sussurrare le cime più alte de' castagni.


- L'annata sarà buona pel povero e pel ricco, - disse Janu, - e se Dio vuole alla messe un po' di quattrini metterò da banda... e se tu mi volessi bene!... - e le porse il fiasco.


- No, non voglio più bere. - disse ella colle guance tutte rosse.


- O perché ti fai rossa? - dissi egli ridendo.


- Non te lo voglio dire.


- Perché hai bevuto!

- No!

- Perché mi vuoi bene? - Ella gli diede un pugno sull'omero e si mise a ridere.


Da lontano si udì il raglio di un asino che sentiva l'erba fresca.


- Sai perché ragliano gli asini? - domandò Janu.


- Dillo tu che lo sai.


- Sì che lo so; ragliano perché sono innamorati, - disse egli con un riso grossolano, e la guardò fiso.


Ella chinò gli occhi come se ci vedesse delle fiamme, e le sembrò che tutto il vino che aveva bevuto le montasse alla testa, e tutto l'ardore di quel cielo di metallo le penetrasse nelle vene.


- Andiamo via! - esclamò corrucciata, scuotendo la testa pesante.


- Che hai?

- Non lo so, ma andiamo via!

- Mi vuoi bene? - Nedda chinò il capo.


- Vuoi essere mia moglie? - Ella lo guardò serenamente, e gli strinse forte la mano callosa nelle sue mani brune, ma si alzò sui ginocchi che le tremavano per andarsene. Egli la trattenne per le vesti, tutto stravolto, e balbettando parole sconnesse, come non sapendo quel che si facesse.


Allorché si udì nella fattoria vicina il gallo che cantava, Nedda balzò in piedi di soprassalto, e si guardò attorno spaurita.


- Andiamo via! Andiamo via! - disse tutta rossa e frettolosa.


Quando fu per svoltare l'angolo della sua casuccia si fermò un momento trepidante, quasi temesse di trovare la sua vecchiarella sull'uscio deserto da sei mesi.


Venne la Pasqua, la gaia festa dei campi coi suoi falò giganteschi, colle sue allegre processioni fra i prati verdeggianti e sotto gli alberi carichi di fiori, colla chiesuola parata a festa, gli usci delle casipole incoronati di festoni, e le ragazze colle belle vesti nuove d'estate. Nedda fu vista allontanarsi piangendo dal confessionario, e non comparve fra le fanciulle inginocchiate dinanzi al coro che aspettavano la comunione. Da quel giorno nessuna ragazza onesta le rivolse più la parola, e quando andava a messa non trovava posto al solito banco, e bisognava che stesse tutto il tempo ginocchioni:
- se la vedevano piangere, pensavano a chissà che peccatacci, e le volgevano le spalle inorridite:
- e quelle che le davano da lavorare, ne approfittavano per scemarle il prezzo della giornata.


Ella aspettava il suo fidanzato che era andato a mietere alla Piana, raggruzzolare i quattrini che ci volevano a mettere su un po' di casa, e a pagare il signor curato.


Una sera, mentre filava, udì fermarsi all'imboccatura della viottola un carro da buoi, e si vide comparir dinanzi Janu pallido e contraffatto.


- Che hai? - gli disse.


- Son stato ammalato. Le febbri mi ripresero laggiù, in quella maledetta Piana; ho perso più di una settimana di lavoro, ed ho mangiato quei pochi soldi che avevo fatto -.


Ella rientrò in fretta, scucì il pagliericcio, e volle dargli quel piccolo gruzzolo che aveva legato in fondo ad una calza.


- No, - dissi egli. - Domani andrò a Mascalucia per la rimondatura degli ulivi, e non avrò bisogno di nulla. Dopo la rimondatura ci sposeremo -.


Egli aveva l'aria triste facendole questa promessa, e stava appoggiato allo stipite, col fazzoletto avvolto attorno al capo, e guardandola con certi occhi luccicanti.


- Ma tu hai la febbre! - gli disse Nedda.


- Sì, ma ora che son qui mi lascerà; ad ogni modo non mi coglie che ogni tre giorni -.


Ella lo guardava senza parlare, e sentiva stringersi il cuore, vedendolo così pallido e dimagrato. - E potrai reggerti sui rami alti? - gli domandò.


- Dio ci penserà! - rispose Janu. - Addio, non posso far aspettare il carrettiere che mi ha dato un posto sul suo carro dalla Piana sin qui. A rivederci presto! - e non si moveva. Quando finalmente se ne andò, ella lo accompagnò sino alla strada maestra, e lo vide allontanarsi, senza una lagrima, sebbene le sembrasse che stesse a vederlo partire per sempre; il cuore ebbe un'altra strizzatina, come una spugna non spremuta abbastanza - nulla più, ed egli la salutò per nome alla svolta della via.


Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un'alta cima, e si era concio in quel modo. - Il cuore te lo diceva: - mormorava con un triste sorriso. Ella l'ascoltava coi suoi grand'occhi spalancati, pallida come lui e tenendolo per mano. Il domani egli morì.


Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella mantellina e tornò indietro derelitta.


Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l'un dopo l'altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l'uscio del casolare dietro al cataletto che se ne andava, e si era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota.


- Povera bambina! Che incominci a soffrire almeno il più tardi che sia possibile! - disse.


Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bambina mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella deperì rapidamente, e invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d'inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava sul tetto, e il vento scuoteva l'uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo, e non si mosse più.


Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll'alito e coi baci, e quando si accorse che era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua madre, e le si inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura.


- Oh! benedette voi che siete morte! - esclamò. - Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!





Nella stalla

(Inondazione)


Le mucche, lungo le rastrelliere, si voltavano indietro, a fiutare quel tramestìo che si era fatto attorno alla lettiera della 'Bigia'. La pioggia batteva contro le impannate; e le bestie scuotevano le catene sonnolente: di quando in quando, nell'ombra cui non arrivavan mai a dissipare le lanterne polverose, si udiva il tonfo di quelle che si accovacciavano, ad una ad una nello strame alto, dei muggiti brevi e sommessi, un ruminare svogliato, il fruscìo della paglia. Di tanto in tanto le mucche inquiete levavano il capo, tutte in una volta.


La 'Bigia' aveva ai piedi un vitellino, ancora tutto molle e lucente nella lettiera, e lo leccava e lo lisciava muggendo sotto voce. - Di fuori si udiva un rombo che cresceva, dappertutto. Poco dopo accadde un gran trambusto nelle stanze superiori: dei passi precipitosi, e dei mobili che strascinavano sul pavimento. Uno spalancare di usci e di finestre e delle voci che chiamavano nel cortile.


Quindi si udirono delle schioppettate e delle strida di donne che piangevano. Il gallo, in cima alla scala, saettava il capo, spaventato, chiocciando. Di fuori, il cane uggiolava.


Ad un tratto le bestie cominciarono a muggire tutte in una volta, fiutando verso l'uscio, cogli occhi spaventati, e tiravano forte le catene, come cercassero di strapparle.


Per tutta la corsìa oscura corse un volo pesante e schiamazzante di galline. Immediatamente si udì il rombo vicino che scuoteva i muri, e sembrava montare verso le finestre. La 'Bigia' allora levava il muso fumante verso l'impannate, e metteva un muggito lungo e doloroso. Poi ritornava a fiutare il vitellino, raccoccolato colle zampe sotto il ventre.


Il cane non uggiolava più. Della gente correva pel cortile, delle voci affannate, delle grida. L'uscio si spalancò all'improvviso, ed entrò un'ondata d'acqua sporca. Allora nella stalla successe un trambusto, un rovinìo, tutta una fila di mucche avea strappata l'asse, alla quale erano legate, e scappava all'impazzata trascinandosela dietro, inciampando le une colle altre, mentre le galline fuggivano schiamazzando fra le loro gambe.


Nella corte su di un palo, ardeva un fascio di legna secca, e illuminava tutto intorno l'acqua nera, che luccicava dove cadevano le scintille. - Le bestie irruppero dalla stalla come una valanga, rompendo, scavalcando ogni cosa, sguazzando nella pozzanghera, la 'Bigia' in mezzo. Poi tornò indietro, levando il muso, con lunghi muggiti, verso le finestre della cascina. Andava e veniva per la corte colla coda ritta; infine si decise di rientrare nella stalla. Il vitellino era là coll'acqua al collo, la madre tentava di spingerlo dolcemente verso l'uscio, scalpicciando in mezzo all'acqua. Ad ogni momento levava il capo verso il soffitto come per chiamare aiuto. Giunse un'altra ondata che gorgogliò al posto dove era il vitello, poi si agitò disperatamente e ribollì; la lanterna era sempre accesa nella stalla nera che sembrava barcollare. Infine l'onda si allargò quieta ed immobile dappertutto. Allora la 'Bigia' scappò muggendo al vento, colla coda ritta, l'occhio pazzo di terrore, e si prese nell'oscurità profonda.







Né mai, né sempre!


Se un angelo del cielo fosse disceso a promettere sul serio la dolce lusinga che Casalengo credevasi obbligato di tubare tratto tratto all'orecchio roseo della signora Silverio, nei momenti buoni:
- Per sempre uniti! - L'uno dell'altro! - Sempre! - lei, no. Lei non ne diceva delle sciocchezze, neanche in quei momenti...


Ora poi, da che aveva corso il pericolo di vedersi cascare fra capo e collo tanta felicità, per l'imprudenza di un domestico - da che suo marito stava in guardia e minacciava una catastrofe, era diventata prudente, in modo da far disperare Casalengo, l'imprudente! - Ah, no, mio caro! Se sapeste, che paura! - La bomba scoppiò all'improvviso, quando meno la povera signora sentivasi disposta a dar fuoco alle polveri: uno di quei colpi di vento o di follìa che vi fanno perdere la bussola. E Casalengo l'aveva persa davvero dietro a quella donna che rassegnavasi docilmente al supplizio di non riceverlo più da solo a solo - specie quando la incontrava al ballo o in teatro, e non poteva neppure metterle un bacio sull'omero nudo. Qualcosa gli diceva:
- Bada, essa non è più quella di prima. C'è qualcosa, un pensiero fisso, un segreto, 'un altro', negli occhi che ti guardano, nelle labbra che ti sorridono, nel gesto, nel suono della voce.


Proprio! il vostro peccato, che vi si rivolta contro, e vi punisce...


- Ginevra! È impossibile durarla così... quando si ama... se mi amate ancora...


- Ingrato! - ribatté lei, fermandosi un minuto solo, sull'uscio della sala da giuoco.


- Perdonatemi... Avete ragione... sempre. Ma mettetevi nei miei panni, si è vero che mi amate...


- Lasciatemi! Lui si è voltato a guardarci... Avete visto? - Aveva ragione, sempre, lei; anche quando rideva e civettava in mezzo a una folla di cicisbei per sviare i sospetti; mentre lui doveva tenersi in corpo il dubbio, la febbre, la gelosia, in fino!

la smania di sapere e di toccare con mano la sua disgrazia, di stringersela fra le braccia, e di conficcarsela ben bene nel cuore - costretto a mostrarsi disinvolto anche lui, onde evitare il ridicolo, allorché finalmente ella volle offrirgli una tazza di thè, nel vano di una finestra.


- Grazie. Me la son meritata. È vero.


- Ma... secondo. Lasciatemi guardarvi in viso...


- Ah no! Non facciamo imprudenze! Io, per esempio, potrei vedere nel vostro qualcosi altro...


- Che cosa?

- Lui...


- Lui, chi?

- Lui, 'quell'altro'... Vedete se sono buono! - Il poveretto arrivava a bruciarle sotto il naso il granellino d'incenso della gelosia amabile. Una cosa deliziosa. Ella, ridendo, diceva di no, di no, col sì negli occhi.


- Un altro, chi? Siete matto?

- Che so io... il sogno di stanotte, il chiaro di luna, la canzone che passa, l'ultima parola che vi è rimasta nell'orecchio, fra tante... forse senza che ve ne siate accorta voi stessa... - Casalengo si batteva i fianchi, non potendo combattere il rivale incognito che era inutile cercare, che ella non avrebbe confessato giammai, e che non osava forse confessare a se stessa, ancora. Una voce gli diceva all'orecchio, a lui pure:
- È inutile, tutto ciò che farai aggraverà i tuoi torti di geloso che ha dei diritti, ed è diventato un ostacolo. Non potrai essere con lei né magnanimo, né dispotico, e neanche innamorato, quasi. Se minacci t'avvilisci, e se piangi sei ridicolo. L'ultimo di cotesti imbecilli che le fanno la corte ha un gran vantaggio su di te. Non puoi mostrarti a lei né umile, né minaccioso, né indifferente, né sospettoso.


Comunque ella ti risponda, sdegnosa, o docile, o tranquilla, o timida, ti butterà egualmente in faccia un rimprovero, un'accusa, una di quelle parole che rompono braccia e gambe, e fanno chinare il capo: «Seccatore!» Bisogna umiliarti colle finzioni, scendere alle indagini tortuose, rassegnarti al supplizio stesso che hai inflitto al marito di lei: la pena del taglione, il castigo di Dio, poiché c'è giustizia lassù anche per queste cose: e diventare odioso come un marito, peggio ancora, perché tu sei legato a lei soltanto da quel vincolo che essa vorrebbe mettersi sotto i piedi.


Tu non hai la scusa della Famiglia e dello scandalo da evitare, quando non hai il coraggio di rompere quella catena; non hai il diritto e la legge, per costringere e dominare la donna di cui sei geloso; non puoi averla sotto gli occhi a tutte le ore per spiarla; non hai l'interesse per difenderti, né la scelta del momento per riconquistarla. Le stesse armi con le quali hai combattuto ti si ritorcono contro: le astuzie, i ripieghi inesauribili che ella sapeva trovare, il sangue freddo nei momenti difficili che ammiravi in lei, e il candore delle bugie che ti sembravano deliziose nella sua bocca... E l'ebbrezza della vittoria, poi! il ricordo di certi momenti che ti si ficca nelle carni col sospetto di un rivale latente fra te e lei... - Proprio un affare serio, anche per un uomo meno innamorato di Casalengo - giacché l'immagine di un rivale passato, presente o futuro c'entra un po' in tutti i romanzi del cuore. Una tentazione da farvi perdere il lume degli occhi.


- Sentite, Ginevra!... È assurdo... quando si ama... se si ama...


non cercare... non trovare in tutta Napoli un cantuccio, un momento per ritrovarsi, come prima... fosse anche per cinque minuti soli... A meno che...


- A meno che, nulla! Lo sapete e avete torto -.


Pure gli aveva accordato quell'appuntamento, proprio perché non ne aveva voglia, per lealtà, perché era un'imprudenza e un pericolo serio in quel momento, col marito che le stava alle costole, e sembrava fiutasse in aria qualcosa anche lui. Giel'aveva accordato forsi anche perché indovinava i sospetti di lui, e sentivasi colpevole, in fondo in fondo.


Le donne hanno di coteste delicatezze che noi uomini non arriveremo mai a comprendere.


- Ebbene, - gli disse, - giacché lo volete assolutamente... Sia pure. Ditemi quando e dove... Non importa. Cercate voi -.


Casalengo aveva trovato: un alberguccio losco che essendo brutto assai sembravagli non potesse essere scoperto da altri. Essa ripeté:

- Sia pure... dove volete. Non importa -.


Prese a due mani il suo coraggio e le sue sottane, e salì in punta di piedi quella scaletta sudicia, sfidando alteramente gli sguardi avidi e indiscreti del servitore bisunto, appena velata da un pezzetto di trina che si era cacciata in tasca, come non si era curata del viso che aveva fatto la cameriera vedendola uscire a quell'ora e vestita così dimessamente, come si era rassegnata all'insolenza del lazzarone che l'aveva scarrozzata sino ai vicoletto oscuro, dopo mille andirivieni sospetti, ghignando ed ammiccando alla gente che incontrava, per accusare il soffietto traballante sotto il quale tentava di nascondersi la povera signora messa così alla berlina, rinfacciandole al termine della corsa:
- Cinque lire? A chi le date? Un servizio come questo! - Casalengo aspettava dietro la finestra, colle tendine calate, il cuore in sussulto, innamorato sino ai capelli, dopo tanto tempo che non si erano più visti... o quasi. Essa entrò senza esitare, pallidissima, premendosi il petto anche lei. Ritirò la mano che egli le aveva presa, e cavò dal manicotto una boccettina che fiutò a lungo, senza rispondergli, senza muovere un passo, guardandosi intorno cogli occhi lucenti: degli occhi in cui erano tante cose, all'infuori dello smarrimento e dell'abbandono che aspettava lui.


Però, in quel momento Alvise vide soltanto lei, bella, bianca, bionda, odorosa, sola con lui. E la ringraziava colla voce tremante, col cuore traboccante di riconoscenza e d'ardore, col viso acceso, colle mani tremanti. Accarezzava il manicotto e i guanti di lei; le faceva dolce violenza per attirarla vicino a lui, sul canapè a grandi fiori gialli e rossi:
- Cara Ginevra...


Bella e buona tanto!... Finalmente!... Povera bimba... come le batte il cuore!... Qui, qui sul mio!...


- Ditemi, - rispose invece lei, sempre colla boccetta sotto il naso. - Non potreste aprire quella finestra?

- Ah! - esclamò Casalengo, lasciandosi cadere le braccia. - Ah! - Ella si pentì subito d'essersi lasciata sfuggire quelle parole che erano state una fitta al cuore del povero innamorato, e sedette rassegnata, scusandosi col dire:

- Ma si soffoca qui!...


- Perdonatemi... C'è un mondo di gente alla finestra dirimpetto...


Non ho potuto trovare di meglio... per la vostra sicurezza...


- Vi ringrazio. Avete ragione -.


Adesso rimanevano in silenzio l'uno rimpetto all'altra, imbarazzati e quasi cerimoniosi. Talché lei, buona in fondo, se ne avvide, e volle togliersi i guanti e la veletta, per compiacenza, cercando ove posarli. Poi, a buon conto, cacciò ogni cosa nel manicotto, che si tenne in grembo.


- Scusatemi, Alvise... Vi semberò strana... Sono tutta... così...


- Alvise continuava a tacere, seduto di faccia a lei, guardandola fissamente, tristamente. E nei suoi occhi un sentimento nuovo, una grande amarezza balenava. Infine, con voce mutata, nella quale tradivasi suo malgrado quell'angoscia, le disse:

- Ahimè, Ginevra... siete come una che non ama più! - Anche essa allora alzò gli occhi splendenti, guardandolo fisso, con un sorriso amaro all'angolo della bocca.


- Avete ragione a dirmi ciò... adesso... e qui!...


- Ah! Non vedete quanto soffro? Non sentite che vi amo come un pazzo? Non avete indovinato tutte le torture?... - Vinto dalla commozione, dal desiderio, dalla passione, si lasciò trascinare a dirle tutto: le angosce, i palpiti, il dubbio, le notti passate sotto le sue finestre, la febbre che gli metteva addosso solamente quella breve striscia del suo polso nudo, i castelli in aria, i sogni, le follie... tutto, tutto, proprio come un bambino: l'abbandono intero che tanto piace alle donne. Essa gli posò infatti le mani sui capelli, quasi per accarezzarlo, commossa di vedersi ai piedi la forte giovinezza di quel fanciullo di trent'anni, come abbandonandosi anche lei, per riconoscenza.


Soltanto, vedendogli luccicare le lagrime negli occhi, tornò fredda come prima.


- No... ecco... Ho avuto una gran paura... Ecco cosi è...


- Paura di che, povera bimba?...


- Ma di lui, mio caro. Si fa presto a dire... Vorrei vedervici voi! - E anche essa sciorinò allora tutto ciò che aveva patito e temuto, dal giorno che suo marito era entrato in sospetto. Non si riconosceva più quell'uomo. Un Otello addirittura! Dormiva col revolver sotto il guanciale. Una paura atroce, un batticuore continuo... Se incontrava lui, Casalengo... se non lo vedeva...


temendo che un gesto o una parola lo tradisse... trasalendo a ogni lettera che portava la posta... se udiva il campanello... Ogni cosa che la metteva sottosopra... l'umore del marito, il contegno dei domestici...


- Insomma una cosa da far venire i capelli bianchi, amico mio!

- Ebbene! - esclamò Casalengo raggiante, stringendole le mani da farle male, seduto ai piedi di lei, supplicandola cogli occhi innamorati, accarezzandola col sorriso ebbro. - Ebbene!...


- Ebbene! che cosa?

- Fuggiamo insieme!... lontano da Napoli!... in capo al mondo!...


Troveremo pure un nido dove nascondere la nostra felicità!... - Ella spalancò gli occhi, attonita, quasi le avessero proposto di condurla alla luna in pallone, d'andare a un ballo in veste da camera, di camminare a testa in giù. Sicché il lirismo e l'entusiasmo del povero innamorato caddero a un tratto. Ma lei, vedendolo così mortificato, ripigliò immediatamente, mettendogli la mano sulla bocca:

- Zitto!... zitto!... per carità... - Cercò di fargli intendere ragione, di farlo rientrare in se stesso, quel gran fanciullone, proprio colle buone, con dolcezza, abbandonandogli le mani anche, purché non ne parlasse più... Egli non ne parlava più infatti, baciava e ribaciava quell'epidermide fine e profumata, risalendo lungo il braccio, sollevandosi sulle ginocchia.


Allora la bella Ginevra tornò ad avere la paura di prima.


- Badate, Alvise!... Siete proprio sicuro che nessuno m'abbia vista?... Voglio dire che nessuno abbia potuto vedermi... mentre venivo?...


- Ma... certamente...


- Perché... m'è sembrato che qualcuno mi seguisse... una carrozzella, sì... dalla Villa sino a Foria... E anche nel salir la scala... Lui non pareva risolversi ad uscire. M'ha chiesto se andavo al concerto... Siete sicuro della gente di questa casa?

- Sicurissimo... Chi volete... Nessuno vi conosce... - Alvise non connetteva più, dal momento che quella manina gli si era posata sulla bocca. Cercava le parole, balbettava, tentava di rifarsi al punto di prima e di riguadagnare il tempo perso, indispettito di vederselo fuggire a quel modo, stupidamente, dopo tanti ostacoli e tante difficoltà per trovarsi un'ora insieme!...


Ma lei però aveva il coraggio di pensare a tante altre cose in quel momento; badava a difendere la sua veletta e il manicotto!...


- No... davvero... Alvise... Ho paura!...


- Ah, sì!... la carrozzella... Foria... la scala!...


- Ecco! - rispose lei corrucciata. - Ecco come siete!

- Ma io sono come uno che ama, cara mia! Non ho i vostri 'ma' e i vostri 'se'... E neanche voi li avevate, prima...


- Ecco! ecco! Me lo merito!

- Oh, Ginevra!... oh!... - Ella si era messo il fazzoletto agli occhi: un'altra gran tentazione, il profumo di quel fazzoletto, e le lagrime di quegli occhi! Alvise le afferrò di nuovo le mani, baciandole, baciando il fazzoletto, gli occhi, il vestito, fuori di sé, delirante, chiedendole se l'amava ancora, proprio, tutta tutta, se sentiva anche lei quello struggimento e quella frenesia. Essa diceva di sì, di sì coi cenni del capo, col rossore del viso, col tremito delle mani, abbandonandoglisi a poco a poco, mutandosi in viso, fissandolo col turbamento delizioso negli occhi, balbettando anche lei, vinta alla fine:

- Non vedete... Non vedi... Sarei qui forse?... Vi pare che sia una cosa da nulla?...


- Sì, è vero! Perdonatemi, povera bimba! Bimbetta bella e cara!...


Come batte quel cuoricino!... Anche io, sai!... Ma è un'altra cosa... Non è vero?... Guardami! Sorridimi! È stato un gran affare, eh, questa scappata?... Un colpo di testa?... Non siam fatti per le tempeste grosse dell'amore! Preferiamo la maretta che ci culla e ci accarezza!... Non è vero? di', confessalo! Siamo un po' civettuole anche! Ci piace di vederci corteggiare e di far perdere la testa al nostro prossimo, eh?... Di'! di'!... Tutti coloro che ti corrono dietro e sospirano alla luna!... Confessalo!

Confessati! Dimmi, chi è l'amante della luna adesso? colui che sospira di più per la mia Ginevra? Lo sai? te ne sei accorta? ti piace, di'... ti piace far disperare il prossimo tuo?... - Ella sorrideva proprio come una bimba, stordita, commossa, riconoscente di quella nuova adulazione, dicendo di no, di no, che amava il suo Alvise, lui solo! E gli buttò anche le braccia al collo. Tanto che lui non disse più nulla e ricominciò a parlare soltanto coi baci, dei baci che se la mangiavano viva, e le facevano mettere dei piccoli gridi soffocati:

- No!... no!... Davvero!... Zitto!... Sento proprio rumore. Lì...


nella scala, dietro l'uscio!... sentite?...


- Ah!... quella scala maledetta!... - Ma Alvise si arrestò lui pure a un tratto, udendo realmente il rumore di un alterco sul pianerottolo, poiché il cameriere voleva guadagnarsi coscienziosamente la sua mancia, e difendeva energicamente l'ingresso del santuario. Una voce li fece allibire entrambi, la voce di Silverio. L'uscio sgangherato si spalancò a un tratto, e apparve lui, il marito, Otello, cieco di rabbia e di gelosia - e stavolta poi con ragione, almeno all'apparenza. - Il cuore le parlava, a lei!

Ciò che allora accadde può bene immaginarsi; perché anche dei gentiluomini, in certe occasioni, perdono il lume degli occhi tale e quale come dei semplici facchini. Una scena terribile e tale da guarire in un momento di ogni tentazione passata e futura la povera donna che faceva sforzi disperati per svenirsi. Mai più, mai più poté levarsi dagli occhi il gesto di Alvise che aggiustavasi la cravatta, cercando il cappello per uscire insieme al suo nemico mortale, e andare a tagliarsi la gola d'amore e d'accordo. Fuori di sé, derelitta, andò un'ora dopo a bussare alla porta di lui.


Alvise parve stupefatto.


- Voi!... qui!

- Oramai... - balbettò ella smarrita. - Oramai... siete il mio amante...


- Ma no, amor mio!... è impossibile!...


- E dove volete che vada adesso?

- A casa vostra. Non temete. Vostro marito è un gentiluomo. Tutto si è accomodato.


- Accomodato, in che modo?

- Non sarà fatta parola di voi nella questione fra me e vostro marito... Ci sarà di mezzo un'altra donna... una che non avrà nulla da perdere.


- Nessuno vi crederà.


- Non importa che credano. Ma bisogna che sia così. Vostro marito partirà immediatamente per un lungo viaggio... Voi sarete libera...


- Ah!...


- Credetemi!... - dissi egli stringendole forte le mani, quasi colle lagrime agli occhi. - Credetemi che darei tutto il mio sangue perché non fosse avvenuto tutto ciò! - Ella gli si buttò fra le braccia, piangendo tutte le sue lagrime, abbandonandosi interamente all'uomo che un'ora prima cercava un nido in capo al mondo per andare a nascondervi il loro amore e la loro felicità. Adesso invece cercava di calmare la povera Ginevra, preoccupato dei riguardi che doveva alla riputazione di lei, ai 'ma' e ai 'se' che le aveva rimproverato poco prima, cercando di farle comprendere le esigenze mondane che un'ora avanti voleva farle mettere sotto i piedi, un po' pallido, malgrado il suo coraggio provato, tutto un altr'uomo, imbarazzato, esitante, guardando l'uscio e l'orologio ogni momento, rispettoso e delicato, uomo di mondo sino ai capelli, è vero, ma un uomo di mondo cui sia caduta una tegola sul capo, e gli sia rimasta fra le braccia 'una gatta da pelare', per usare la frase gentile che nessuno dice e tutti pensano in casi simili.


- Infine... - proruppe, - cara Ginevra... aspetto qualcuno... Non potete farvi trovare qui da questo qualcuno... - Il senso morale è industrioso in tanti modi. E non è a dire che Casalengo ne fosse peggio dotato degli altri. Quando il suo rivale se lo vide sotto la mira della pistola, con quella faccia, disse piano agli amici che l'assistevano:
- Ecco un uomo morto -.


Certo non mancò per lui, che gli piantò due pollici di ferro fra le costole, e lo mise a letto per un pezzetto. La signora viaggiò tutto quel tempo, almeno si disse. E se pure andò a trovare il suo amico, di nascosto, proprio da suora di carità, non se ne seppe mai nulla ufficialmente. Le lettere, per andare da lei a lui, facevano un lungo giro, coll'aiuto di un'amica fidata. Talché quando la signora Ginevra riaprì il suo appartamento in via Partenope, libera e sola, più bella e più elegante che mai, fu una gara fra le signore e gli uomini in voga a darvisi ritrovo. Alvise vi andò cogli altri, all'ora del thè, un giorno che il salotto era pieno di gente, e la bella Silverio faceva gran festa a tutti.


- Ah, Casalengo! Bravo! Temevo che fosse partito, o che mi avesse dimenticata -.


Egli vi ritornò altre volte, nei giorni di ricevimento e anche dopo. Si fermava allo sportello della sua carrozza, al passeggio; e andava a salutarla nel palchetto, al San Carlo. Era sempre uno degli intimi, come prima, il cavalier servente dell'elegante mondana, mentre il marito di lei viaggiava lontano, talché non c'era persona che sapesse vivere la quale invitando la signora Ginevra dimenticasse di invitare Casalengo, e viceversa. Proprio il nido d'amore, tappezzato da Levera, e col terrazzino sul golfo di Napoli per contemplare le stelle, e la luna di miele. Erano liberi, soli e senza alcun sospetto. Ma non era più la stessa cosa, o almeno non era più la stessa cosa di prima. Nella loro felicità aprivasi una lacuna, una crepa in cui si abbarbicavano delle male piante che aduggiavano il bel sole d'amore e facevano impaccio alle parole e alle cose gentili. Lei, infine, non sapeva perdonare a Casalengo l'inchino profondo, l'aria troppo rispettosa con la quale veniva a salutarla, in teatro, al ballo, fra i suoi amici. Lui aggrottava le ciglia suo malgrado, tal quale come Silverio, se qualcheduno di essi mostravasi più appiccichino degli altri, più assiduo e premuroso degli altri verso di lei - tacendole le sue pene, oppure stordendola col cinguettarle alle orecchie delle sciocchezze che la facessero ridere. - Le conosceva anche lui le arti di cotesti seccatori... e anche lei un po' civettuola lo era stata sempre... per incoraggiare ogni sciocchezza che le tubassero all'orecchio.


- Una noia, cara Ginevra!... Non capisco come certuni si buttino addosso a una signora e le facciano gli occhi dolci per dirle magari: buona sera!

- Quello che facevate voi, mio caro... allora... nei bei tempi...


Quando vi dicevo: «Né mai, né sempre....» -.






Olocausto


Il sermone del Paradiso chiudeva il corso degli esercizi spirituali per le monache, dopo la sottile analisi delle colpe recondite, la fosca descrizione del gastigo, e gli anatemi contro il peccato. La voce del predicatore adesso levavasi alta ed esultante nel sole di Pasqua che scintillava sulle dorature della vòlta. Giù in chiesa una dozzina di donnicciuole pregavano inginocchiate dinanzi all'altare della Vergine splendente di ceri.


Dietro la grata del coro biancheggiavano confusamente i soggoli e i visi delle suore impalliditi nella clausura e nella penitenza; luccicavano degli occhi perduti nell'estasi di visioni luminose.


La voce del missionario, grave e calda, scendeva ai toni bassi come una confidenza e una carezza, saliva trionfante come un inno, modulava i pensieri e le aspirazioni di tutte quelle vergini tentate e sbigottite dal mondo, andava a ricercare le più intime fibre di quei cuori chiusi nelle sacre bende e li faceva palpitare avidamente, aveva tutti gli slanci, le trepidazioni, come dei sospiri d'amore e d'estasi che morivano ai piedi della croce, e facevano intravvedere quasi un balenìo d'ali iridescenti, dei brividi di carni rosse di cherubini che passavano fra nuvole trasparenti, in un'aureola, in ampie distese color di cielo e color d'oro. L'uomo era tutto in quella voce, in quell'inno, in quella letizia: il viso scorgevasi appena, come trasfigurato, nell'ombra del pulpito: degli occhi luminosi, ardenti di fede, pieni di visioni celesti, il viso pallido ed ascetico, immateriale, il segno austero della tonsura sui capelli giovanili, e la mano bianca ed immacolata che accennava, essa sola in luce, fuori della nicchia scura, e pareva stendersi verso le peccatrici, per sollevarle al cielo in un amplesso di perdono e d'affetto, dopo essersi levata minacciosa a fulminare, dopo esser scesa a frugare nei cuori, dopo aver sentito palpitare la tentazione, e i fremiti e le ribellioni della carne. Ora quella mano facevasi lieve, morbida e carezzevole, al pari della voce che addolcivasi in un mormorio affettuoso e in una promessa soave, nella quale passava l'alito di carità, di pietà immensa, e si umiliava, e implorava, e facevasi complice delle povere anime turbate e derelitte, per incoraggiarle, sostenerle e attirarle a Dio.


Egli parlava rivolto al coro, quasi attratto anche esso dalla simpatia ardente che vi destava, come indovinasse i cuori che rispondevano al suo e gli si aprivano sitibondi. Ivi pure delle teste tonsurate si chinavano, delle labbra tremavano commosse, dei veli candidi palpitavano sui seni incontaminati, sfiorati soltanto dai fremiti che sorgono nelle tenebre, nelle notti irrequiete e paurose.


Il sagrestano si alzò d'appiè del pulpito e andò ad accendere le altre candele dell'altare - una gloria di fiammelle tremolanti, delle gocce di splendore nella mattinata limpida, nella gaiezza primaverile, nel profumo dei fiori, e dell'incenso, nel suono grave dell'organo che levavasi dalle profondità misteriose del coro - un canto alato, un inno di grazie e di gloria che irrompeva, e libravasi al cielo trionfante. Fra le monache raccolte nel coro una voce bella e fresca intuonò il 'Tantum ergo', una voce di donna che sembrava cantare la giovinezza, l'amore, il sogno, l'azzurro, i fiori e la vita in quell'inno religioso, una voce che aveva le lagrime, le estasi, i sorrisi, la gioventù, la bellezza, e li deponeva trepidante ai piedi dell'altare. Il frate orava in ginocchio, a capo chino. Sembrava che a quel canto si riverberassero delle sfumature rosee sulla nuca bianca d'adolescenza casta e prolungata. Egli stesso sembrava quasi immateriale fra le pieghe molli della tonaca nera che cadeva sui gradini dell'altare, simile a una veste muliebre. Poi sorse un'irradiazione abbagliante, una gloria di raggi che ecclissò, nell'aureola dell'ostensorio gemmato, l'uomo segnato dalla stola d'oro, come in una croce, sulla cotta spumante di trine al pari di un abito da sposa. Tutte le teste si prostrarono umiliate. Le campane squillarono alte in un coro festante, insieme alle note gravi e sonore dell'organo che vibravano sotto la vòlta dorata della chiesa, irrompevano dalle finestre dipinte, pel cielo azzurro, nella primavera gioconda, sotto il sole radioso, mentre il canto moriva in un'estasi sovrumana.


Suor Crocifissa era rimasta accanto all'organo, colle mani ancora erranti sulla tastiera, le labbra palpitanti dell'inno d'amore mistico, smarrita nella visione interiore di quegli splendori che alla sua anima esaltata dalla musica, dalla reclusione, dal digiuno, dal cilicio e dalla preghiera in comune recavano uno sgomento e una dolcezza nuova della vita, un turbamento degli echi e degli incitamenti che venivano a morire sotto le mura del convento colla canzone errante, coi rumori del vicinato, colla carezza della luna che entrava dall'alta inferriata a posarsi sul lettuccio verginale, e tentava il mistero pudibondo della cella solitaria, e vi destava le curiosità timide, le fantasie vagabonde, e gli scrupoli vaghi che annidavansi nell'ombra. Ella sentiva ora una bramosia calda, un desiderio quasi carnale di mondarsi l'anima e lo spirito di quelle allucinazioni peccaminose, di difendersi dal mondo, di agguerrirsi contro la tentazione, coll'aiuto di quell'uomo il quale discerneva la via della colpa coi suoi occhi luminosi e insinuavasi nei cuori colla voce soave, e scacciava il peccato colla mano fine e bianca, e parlava dell'amore eterno con accento d'innamorato. - Accostarsi a lui, essere con lui, confondersi in lui. - Avere in quell'uomo purificato dal sacramento il consigliere, il conforto, l'amico, il confidente, il perdono, la verità e la luce.


Una suora la toccò dolcemente sull'omero. Ella si scosse e la seguì vacillante, cogli occhi ardenti di fede, premendo colle mani ceree in croce sul seno il cuore che sbigottiva di passione, chinando il capo umiliato dall'umana miseria nella benda che chiudeva le trecce recise e incorniciava il viso di un'altra bianchezza fredda, sbattuta, stirata d'angoscia, illividita da vigilie tormentose, come la sua povera anima sbigottita, e chiese alla superiora il permesso di confessarsi al predicatore.


L'abbadessa acconsentì, alzando la mano a benedire, leggendo forse le stesse inquietudini dolorose che avevano provato la sua giovinezza trascorsa in quelle sopracciglia lunghe e nere, e in quelle labbra dolorose, soltanto vive nel viso mortificato ed austero.


Lì, attraverso la grata del confessionario che aguzzava il mistero e rincorava la coscienza trepida, aprirgli il cuore, tutto, coi suoi palpiti, colle sue angosce, coi suoi pudori. Parlare d'amore con lui, parlargli di colpa e di perdizione, dirgli quello che non avrebbe osato mormorare sottovoce, da sola ai piedi del crocifisso muto. Udire il suono delle proprie parole, colla fronte ardente su quella grata di ferro dietro alla quale lui ascolatava.


Intravvedere il riflesso dei propri pensieri, delle proprie allucinazioni, dei propri terrori su quella testa china. Vedere arrossire e impallidire del pari quella fronte pura. Aver lì, sotto il proprio anelito concitato, quel sacerdote, quella coscienza, quell'intelletto, quella carità, quel turbamento, quella simpatia, quell'uomo, trasfigurato dall'abito sacro, legato dal vingolo indissolubile, segnato fra gli eletti dalla tonsura religiosa, agitato al par di lei, sbigottito come lei, palpitante come lei, mentre la sua voce velata giungeva a lei come attraverso la lapide di una tomba, per consigliare, per sorreggere, per consolare, sommessa, confidente, nel mistero, nel segreto delizioso della chiesa deserta. E vederlo trasalire sotto l'angoscia della passione di lei, vederlo arrossire al riverbero della sua vergogna, vedere il soffio infocato della sua parola che implorava aiuto, scendere sino in fondo a quell'uomo, e destare in lui le debolezze istesse perché ne sentisse la miseria e la pietà, e rifiorirgli nei brividi e nei pallori improvvisi della carne.


Sentirsi ricercare nel più profondo del cuore e delle viscere da quella voce dolce e insinuante, nel più vivo, nel segreto, dove si annidiavano e rabbrividivano pensieri, e desideri, e palpiti che essa stessa non avrebbe neppur sospettato - la confusione dolce, il rossore trepido, l'abbandono del pudore violentato, - e darsi tutta a lui come in uno smarrimento dei sensi. Scorgere in lui, nel consigliere, nel ministro, nel forte, la simpatia di quelle debolezze, la pietà di quei dolori; sentire nella sua voce commossa l'eco e il fascino trepido delle medesime inquietudini - con una tenerezza trepida per lui, maggiormente esposto al pericolo, votato alla lotta col peccato, solo nel mondo, nella tentazione, senza altra difesa che quell'abito che trasfigurava l'uomo, e il segno irrevocabile della tonsura come un marchio di castità sui capelli castagni - con un desiderio materno di stringersi al petto quel viso impallidito e sbattuto dalle medesime angosce, quel capo tonsurato in cui bollivano le stesse febbri, onde proteggerlo e difenderlo.


Egli ascoltava, raccolto, colla fronte velata dalla mano scarna, gli occhi vaghi e senza sguardo. Passavano dei bagliori di tanto in tanto in quegli occhi pensierosi, dei fantasmi che dileguavano dinanzi alla volontà severa, dei fremiti destati da quell'alito caldo e profumato di donna, dalla parola commossa, l'ombra di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutti gli allettamenti, le effusioni, le dolcezze, gli struggimenti, le febbri, le estasi. Con lei rifaceva l'aspro cammino che avevano fatto verso la croce quei piedi delicati. Rivedeva la fanciullezza orfana, l'adolescenza precocemente mortificata, la gioventù scolorita e trista, l'agonia dello spirito e le ribellioni della carne. Fuori, il cielo azzurro, l'ampia distesa dei prati, il sole, la luce, l'aria, lontani, perduti in un mondo al quale non apparteneva più, - e la gran rinunzia di tutto ciò, per sempre! - E pensava qual eco dovesse avere fra quelle mura claustrali la voce di un uomo o il pianto di un bambino, il brivido che doveva portarvi il profumo di un fiore o un raggio di primavera. - Le fronti pallide che trasalivano, gli occhi spenti che guardavano lontano, le labbra che mormoravano inconsciamente accenti desolati. E sentiva una grande pietà, una gran tenerezza per quelle povere anime che tendevano al cielo strette ancora fra i legami della terra, per quei gemiti d'agonia che si tradivano nella parola esitante e supplichevole, per quelle mani tremanti che si stendevano verso di lui, che cercavano di aggrapparsi alla vita, al perdono, alla fede, alla costanza, e che doveva lasciarsi cadere ai piedi, insensibile e inesorabile, che doveva abbandonare dietro di sé continuando sulla terra il suo pellegrinaggio d'apostolato, e scuotendo i lembi della sua tonaca perché non si contaminasse a quella seduzione, - anche esso solitario, legato soltanto dalla disciplina dell'ordine alla fredda famiglia religiosa, senza genitori, senza casa, senza patria, passando sulla terra cogli occhi rivolti al cielo, fallendo se inciampava, se le spine del cammino gli insanguinavano le carni, o le voci del mondo penetravano nelle sue orecchie, se la vita batteva nelle sue arterie o tumultuava nel suo cuore, se la tentazione di quell'incognita, il ricordo di quella sconosciuta che si era data a lui in ispirito, in un momento di mistico abbandono, veniva a turbare la sua fantasia o a fargli tremare la preghiera sulle labbra.


Un campanello squillò. Il prete cinse la stola fulgida che lo sollevava dalla terra, e si accinse a comunicarla. Ella genuflessa dinanzi allo sportellino aperto della grata annichilivasi nella contemplazione degli splendori celesti che apriva la sfera d'oro.


Un languore soave, una calma infinita, una dolcezza ineffabile per tutto l'essere: la battaglia vinta, il cuore librantesi nella fede, il conforto, la forza, l'ardore di quell'ostia consacrata che scendeva nel suo petto e si confondeva col suo sangue - l'ostia che le posava lui stesso sulle labbra trepide, colle mani trepide, mormorando soavemente le parole sacramentali, chinando gli occhi, dolci, come velati da una visione interiore nelle occhiaie profonde e misteriose, sul viso sbattuto ed emaciato anche esso. - Egli la vide quel momento solo, in quell'abbandono, in quella bramosia arcana, in quell'estasi, colle pupille smarrite, il viso trasfigurato, in un'irradiazione candida di veli, sporgendo le labbra avide e innamorate.


Essa chinò il capo, nell'atto di ringraziamento, in un torpore e in uno sfinimento delizioso di tutta se stessa. La chiesa tornò vuota e silenziosa come una tomba.


Il missionario era andato via per sempre, continuando il suo viaggio di carità, lasciando a lei la benedizione di quella pace e di quella fede. Essa lo accompagnava col pensiero per strade e per paesi sconosciuti; vedeva ancora quegli occhi dolci, quel viso emaciato, quella tonaca fluttuante dietro la sua persona esile, in altre chiese risonanti della sua parola, dinanzi ad altre monache palpitanti; lo seguiva nei rumori che giungevano dalla via, nelle notti stellate, nel cielo che stendevasi al di là delle inferriate claustrali. Era un grande sconforto, un isolamento più tristo, come un abbandono. Poi, quando la sua coscienza inquieta cominciò a ridestarsi, pregò una delle sorelle anziane che aveva sofferto e dubitato come lei d'intercedere presso l'antico confessore, il quale si rifiutava a confessarla geloso che essa gli avesse preferito una volta il predicatore di passaggio. Era un vecchio incanutito nel confessionario, con dei grandi occhi chiari e penetranti, abituati a guardare nelle tenebre dei cuori, e il pallore delle lunghe confidenze e delle attese pazienti sulle guance incavate.


- No. Io non servo di ripiego... M'ha messo da banda una volta; si cerchi un altro confessore...


- Ma essa aveva sempre la speranza...


- Speranza si chiama vossignoria. Essa chiamasi suor Crocifissa -.




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