Omero

ODISSEA

(Traduzione di Ippolito Pindemonte)

 

 

LIBRO I

Musa, quell'uom di multiforme ingegno

Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra

Gittate d'Ilïòn le sacre torri;

Che città vide molte, e delle genti

L'indol conobbe; che sovr'esso il mare

Molti dentro del cor sofferse affanni,

Mentre a guardar la cara vita intende,

E i suoi compagni a ricondur: ma indarno

Ricondur desïava i suoi compagni,

Ché delle colpe lor tutti periro.

Stolti! che osaro vïolare i sacri

Al Sole Iperïon candidi buoi

Con empio dente, ed irritâro il nume,

Che del ritorno il dì lor non addusse.

Deh! parte almen di sì ammirande cose

Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

Già tutti i Greci, che la nera Parca

Rapiti non avea, ne' loro alberghi

Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;

Sol dal suo regno e dalla casta donna

Rimanea lungi Ulisse: il ritenea

Nel cavo sen di solitarie grotte

La bella venerabile Calipso,

Che unirsi a lui di maritali nodi

Bramava pur, ninfa quantunque e diva.

E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,

La destinata dagli dèi stagione

Del suo ritorno, in Itaca, novelle

Tra i fidi amici ancor pene durava.

Tutti pietà ne risentìan gli eterni,

Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno

Prima non si stancò, che alla sua terra

Venuto fosse il pellegrino illustre.

Ma del mondo ai confini e alla remota

Gente degli Etïòpi (in duo divisa,

Ver cui quinci il sorgente ed il cadente

Sole gli obbliqui rai quindi saetta)

Nettun condotto a un ecatombe s'era

Di pingui tori e di montoni; ed ivi

Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.

In questo mezzo gli altri dèi raccolti

Nella gran reggia dell'olimpio Giove

Stavansi. E primo a favellar tra loro

Fu degli uomini il padre e de' celesti,

Che il bello Egisto rimembrava, a cui

Tolto avea di sua man la vita Oreste,

L'inclito figlio del più vecchio Atride.

"Poh!" disse Giove, "incolperà l'uom dunque

Sempre gli dèi? Quando a se stesso i mali

Fabbrica, de' suoi mali a noi dà carco,

E la stoltezza sua chiama destino.

Così, non tratto dal destino, Egisto

Disposó d'Agamennone la donna,

E lui, da Troia ritornato, spense;

Benché conscio dell'ultima ruina

Che l'Argicida esplorator Mercurio,

Da noi mandato, prediceagli: "Astienti

Dal sangue dell'Atride, ed il suo letto

Guàrdati di salir; ché alta vendetta

Ne farà Oreste, come il volto adorni

Della prima lanuggine e lo sguardo

Verso il retaggio de' suoi padri volga".

Ma questi di Mercurio utili avvisi

Colui nell'alma non accolse: quindi

Pagò il fio d'ogni colpa in un sol punto".

"Di Saturno figliuol, padre de' numi,

Re de' regnanti", così a lui rispose

L'occhiazzurra Minerva: "egli era dritto

Che colui non vivesse: in simil foggia

Pera chïunque in simil foggia vive!

Ma io di doglia per l'egregio Ulisse

Mi struggo, lasso! che, da' suoi lontano,

Giorni conduce di rammarco in quella

Isola, che del mar giace nel cuore,

E di selve nereggia;:isola, dove

Soggiorna entro alle sue celle secrete

L'immortal figlia di quel saggio Atlante,

Che del mar tutto i più riposti fondi

Conosce e regge le colonne immense

Che la volta sopportano del cielo.

Pensoso, inconsolabile, l'accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli

Parolette carezzalo, se mai

Potesse Itaca sua trargli dal petto:

Ma ei non brama che veder dai tetti

Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,

E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.

Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?

Grati d'Ulisse i sagrifici, al greco

Navile appresso, ne' troiani campi,

Non t'eran forse? Onde rancor sì fiero,

Giove, contra lui dunque in te s'alletta?"

"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola

Dalla chiostra de' denti?" allor riprese

L'eterno delle nubi addensatore:

"Io l'uom preclaro disgradir, che in senno

Vince tutti i mortali, e gl'Immortali

Sempre onorò di sacrifici opìmi?

Nettuno, il nume che la terra cinge,

D'infurïar non resta pel divino

Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse

Dell'unic'occhio vedovò la fronte,

Benché possente più d'ogni Ciclope:

Pel divin Polifemo, che Toòsa

Partorì al nume, che pria lei soletta

Di Forco, re degl'infecondi mari,

Nelle cave trovò paterne grotte.

Lo scuotitor della terrena mole

Dalla patria il disvia da quell'istante,

E, lasciandolo in vita, a errar su i neri

Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo

Che l'infelice rieda; e che Nettuno

L'ire deponga. Pugnerà con tutti

Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."

"Di Saturno figliuol, padre de' numi,

De' regi re," replicò a lui la diva

Cui tinge gli occhi un'azzurrina luce,

"Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,

Ché non s'invìa nell'isola d'Ogige

L'ambasciator Mercurio, il qual veloce

Rechi alla ninfa dalle belle trecce,

Com'è fermo voler de' sempiterni

Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?

Scesa in Itaca intanto, animo e forza

Nel figlio io spirerò, perch'ei, chiamati

Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli

Que' proci baldi, che nel suo palagio

L'intero gregge sgòzzangli, e l'armento

Dai piedi torti e dalle torte corna.

Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,

Acciocché sappia del suo caro padre,

Se udirne gli avvenisse in qualche parte,

Ed anch'ei fama, vïaggiando, acquisti."

Detto così, sotto l'eterne piante

Si strinse i bei talar d'oro, immortali,

Che lei sul mar, lei su l'immensa terra

Col soffio trasportavano del vento.

Poi la grande afferrò lancia pesante,

Forte, massiccia, di appuntato rame

Guernita in cima, onde le intere doma

Falangi degli eroi, con cui si sdegna,

E a cui sentir fa di qual padre è nata.

Dagli alti gioghi del beato Olimpo

Rapidamente in Itaca discese.

Si fermò all'atrio del palagio in faccia,

Del cortil su la soglia, e le sembianze

Vesti di Mente, il condottier de' Tafî.

La forbita in sua man lancia sfavilla.

Nel regale atrio, e su le fresche pelli

Degli uccisi da lor pingui giovenchi

Sedeano, e trastullavansi tra loro

Con gli schierati combattenti bossi

Della Regina i mal vissuti drudi.

Trascorrean qua e là serventi e araldi

Frattanto: altri mescean nelle capaci

Urne l'umor dell'uva e il fresco fonte.

Altri le mense con forata e ingorda

Spugna tergeano, e le metteano innanzi,

E le molte partìan fumanti carni.

Simile a un dio nella beltà, ma lieto

Non già dentro del sen, sedea tra i proci

Telemaco: mirava entro il suo spirto

L'inclito genitor, qual s'ei, d'alcuna

Parte spuntando, a sbaragliar si desse

Per l'ampia sala gli abborriti prenci,

E l'onor prisco a ricovrar e il regno.

Fra cotali pensier Pallade scorse,

Né soffrendogli il cor che lo straniero

A cielo aperto lungamente stesse,

Dritto uscì fuor, s'accostò ad essa, prese

Con una man la sua, con l'altra l'asta,

E queste le drizzò parole alate:

"Forestier, salve. Accoglimento amico

Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima

Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo".

Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa

Minerva. Entrati nell'eccelso albergo,

Telemaco portò l'asta, e appoggiolla

A sublime colonna, ove, in astiera,

Nitida, molte dell'invitto Ulisse

Dormiano arme simìli. Indi a posarsi

Su nobil seggio con sgabello ai piedi

La dea menò, stesovi sopra un vago

Tappeto ad arte intesto; e un varïato

Scanno vicin di lei pose a se stesso.

Così, scevri ambo dagli arditi proci,

Quell'impronto frastuon l'ospite a mensa

Non disagiava, e dell'assente padre

Telemaco potea cercarlo a un tempo.

Ma scorta ancella da bel vaso d'oro

Purissim'onda nel bacil d'argento

Versava, e stendea loro un liscio desco,

Su cui la saggia dispensiera i pani

Venne a impor candidissimi, e di pronte

Dapi serbate generosa copia;

E carni d'ogni sorta in larghi piatti

Recò l'abile scalco, ed auree tazze,

Che, del succo de' grappoli ricolme,

Lor presentava il banditor solerte.

Entraro i proci, ed i sedili e i troni

Per ordine occuparo: acqua gli araldi

Diero alle mani, e di recente pane

I ritondi canestri empièr le ancelle.

Ma in quel che i proci all'imbandito pasto

Stendean la man superba, incoronaro

Di vermiglio licor l'urne i donzelli.

Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,

Pago del bere il natural talento,

Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo

Che gli ornamenti son d'ogni convito.

Ed un'argentea cetera l'araldo

Porse al buon Femio, che per forza il canto

Tra gli amanti sciogliea. Mentr'ei le corde

Ne ricercava con maestre dita,

Telemaco, piegando in vêr la dea,

Sì che altri udirlo non potesse, il capo,

Le parlava in tal guisa: "Ospite caro,

Ti sdegnerai se l'alma io t'apro? In mente

Non han costor che suoni e canti. Il credo:!

Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi

Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra

Giacciono a imputridir sotto la pioggia,

O le volve nel mare il negro flutto.

Ma s'egli mai lor s'affacciasse un giorno,

Ben più che in dosso i ricchi panni e l'oro,

Aver l'ali vorrebbero alle piante.

Vani desìri! Una funesta morte

Certo ei trovò, speme non resta, e invano

Favellariami alcun del suo ritorno;

Del suo ritorno il dì più non s'accende.

Su via, ciò dimmi, e non m'asconder nulla:

Chi? di che loco? e di che sangue sei?

Con quai nocchier venìstu, e per qual modo

E su qual nave, in Itaca? Pedone

Giunto, per alcun patto io non ti credo.

Di questo tu mi contenta: nuovo

Giungi, o al mio genitor t'unisce il nodo

Dell'ospitalità? Molti stranieri

A' suoi tetti accostavansi; ché Ulisse

Voltava in sé d'ogni mortale il core".

"Tutto da me", gli rispondea la diva

Che cerùleo splendor porta negli occhi,

T'udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,

Figliuol d'Anchìalo bellicoso, e ai vaghi

Del trascorrere il mar Tafî comando.

Con nave io giunsi e remiganti miei,

Fendendo le salate onde, vêr gente

D'altro linguaggio, e a Temesa recando

Ferro brunito per temprato rame,

Ch'io ne trarrò. Dalla città lontano

Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,

Nella baia di Retro il mio naviglio.

Sì, d'ospitalità vincol m'unisce

Col padre tuo. Chieder ne puoi l'antico,

Ristringendoti seco, eroe Laerte,

Che a città, com'è fama, or più non viene;

Ma vita vive solitaria e trista

Ne' campi suoi, con vecchierella fante,

Che, quandunque tornar dalla feconda

Vigna, per dove si trae a stento, il vede,

Di cibo il riconforta e di bevanda.

Me qua condusse una bugiarda voce,

Fosse il tuo padre di Itaca, da cui

Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti

L'illustre pellegrin, no, non comparve,

Ma vivo, e a forza in barbara contrada,

Cui cerchia un vasto mar, gente crudele

Rattienlo: lo rattien gente crudele

Vivo, ed a forza in barbara contrada.

Pur, benché il vanto di profeta, o quello

D'augure insigne io non m'arroghi, ascolta

Presagio non fallace che su i labbri

Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo

Non rimarrà della sua patria in bando,

Lo stringessero ancor ferrei legami.

Da quai legami uom di cotanti ingegni

Disvilupparsi non sapria? Ma schietto

Parla: sei tu vera sua prole? Certo

Nel capo e ne' leggiadri occhi ad Ulisse

Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,

Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,

Sciogliesse anch'ei su le cavate navi,

Io, come oggi appo il tuo, così sedea

Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.

D'allora io non più lui, né me vid'egli".

E il prudente Telemaco: "Sincero

Risponderò. Me di lui nato afferma

La madre veneranda. E chi fu mai

Che per se stesso conoscesse il padre?

Oh foss'io figlio d'un che una tranquilla

Vecchiezza côlto ne' suoi tetti avesse!

Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice

Degli uomini la vita, ospite, io deggio".

"Se ad Ulisse Penelope", riprese

Pallade allor dalle cilestre luci,

"Ti generò, vollero i dèi che gisse

Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi.

Garzon, dal ver non ti partir: che festa,

Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura?

Convito? Nozze? Genial non parmi

A carco di ciascun mensa imbandita.

Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,

Che mirarlo, e non irne in foco d'ira,

Mal può chïunque un'alma in petto chiuda".

Ed il giovane a lui: "Quando tu brami

Saper cotanto delle mie vicende,

Abbi che al mondo non fu mai di questa

Né ricca più, né più innocente casa,

Finché quell'uomo il piè dentro vi tenne.

Ma piacque altro agli dèi, che, divisando

Sinistri eventi, per le vie più oscure,

Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.

Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto

Non fôra il lagrimar, s'ei presso a Troia

Cadea pugnando, o vincitor chiudea

Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.

Alzato avriangli un monumento i Greci,

Che di gloria immortale al figlio ancora

Stato sarebbe. Or lui le crude Arpìe

Ignobilmente per lo ciel rapiro:

Perì non visto, non udito, e al figlio

Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio.

Ché lui solo io non piango: altre e non poche

Mi fabbricaro i numi acerbe cose.

Quanti ha Dulichio e Samo e la boscosa

Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,

Ciascun la destra della madre agogna.

Ella né rigettar può, né fermare

Le inamabili nozze. Intanto i proci,

Da mane a sera banchettando, tutte

Le sostanze mi struggono e gli averi;

Né molto andrà che struggeran me stesso".

S'intenerì Minerva, e: "Oh quanto", disse,

"A te bisogna il genitor, che metta

La ultrice man su i chieditori audaci!

Sol ch'ei con elmo e scudo, e con due lance

Sul limitar del suo palagio appena

Si presentasse, quale io prima il vidi,

Che, ritornato d'Efira, alla nostra

Mensa ospital si giocondava assiso,

(Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,

Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,

Onde le frecce unger volea, veleno

Che non dal Mermerìde, in cui de' numi

Era grande il timor, ma poscia ottenne

Dal padre mio, che fieramente ammollo)

Sol ch'ei così si presentasse armato,

De' proci non sarìa, cui non tornasse

Breve la vita e il maritaggio amaro.

Ma venir debba di sì trista gente

A vendicarsi o no, su le ginocchia

Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,

Vuolsi l'arte pensare. Alle mie voci

Porrai tu mente? Come il ciel s'inalbi,

De' Greci i capi a parlamento invita,

Ragiona franco ad essi e al popol tutto,

Chiamando i numi in testimonio, e ai proci

Nelle lor case rientrare ingiungi.

La madre, ove desìo di nuove nozze

Nutra, ripari alla magion d'Icario,

Che ordinerà le sponsalizie, e ricca

Dote apparecchierà, quale a diletta

Figliuola è degno che largisca un padre.

Tu poi, se non ricusi un saggio avviso

Ch'io ti porgo, seguir, la meglio nave

Di venti e forti remator guernisci,

E, del tuo genitor molt'anni assente

Novelle a procacciarti, alza le vele.

Troverai forse chi ten parli chiaro,

O quella udrai voce fortuita, in cui

Spesso il cercato ver Giove nasconde.

Proa vanne a Pilo, e interroga l'antico

Nestore; Sparta indi t'accolga, e il prode

Menelao biondo, che dall'arsa Troia

Tra i loricati Achivi ultimo giunse.

Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,

Benché dolente, sosterrai. Ma, dove

Lo sapessi tra l'ombre, in patria riedi,

E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni

Rendigli, qual s'addice, onor funébri,

E alla madre presenta un altro sposo.

Dopo ciò, studia per qual modo i proci

Con l'inganno tu spegna, o alla scoperta;

Ché de' trastulli il tempo e de' balocchi

Passò, ed uscito di pupillo sei.

Non odi tu levare Oreste al cielo,

Dappoi che uccise il fraudolento Egisto,

Che il genitor famoso aveagli morto?

Me la mia nave aspetta e i miei compagni,

Cui forse incresce questo indugio. Amico,

Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,

Converti in opre: d'un eroe l'aspetto

Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni

Forte ne' dì futuri anco il tuo nome".

"Voci paterne son, non che benigne",

D'Ulisse il figlio ripigliava, ed io

Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.

Ma tu, per fretta che ti punga, tanto

Férmati almen, che in tepidetto bagno

Entri, e conforti la dolce alma, e lieto,

Con un mio dono in man, torni alla nave:

Don prezïoso per materia ed arte,

Che sempre in mente mi ti serbi; dono

Non indegno d'un ospite che piacque".

"No, di partir mi tarda", a lui rispose

L'occhicerulea diva. "Il bel presente

Allor l'accetterò, che, questo mare

Rinavigando, per ripormi in Tafo,

T'offrirò un dono anch'io che al tuo non ceda".

Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza

Infondendogli e ardire, e a lui nel petto

La per sé viva del suo padre imago

Ravvivando più ancora, alto levossi,

E veloce, com'aquila, disparve.

Da maraviglia, poiché seco in mente

Ripeté il tutto, e s'avvisò del nume,

Telemaco fu preso. Indi, già fatto

Di se stesso maggior, venne tra i proci.

Taciti sedean questi, e nell'egregio

Vate conversi tenean gli occhi; e il vate

Quel difficil ritorno, che da Troia

Pallade ai Greci destinò crucciata,

Della cetra d'argento al suon cantava.

Nelle superne vedovili stanze

Penelope, d'Icario la prudente

Figlia, raccolse il divin canto, e scese

Per l'alte scale al basso, e non già sola,

Ché due seguìanla vereconde ancelle.

Non fu de' proci nel cospetto giunta,

Che s'arrestò della dedalea sala

L'ottima delle donne in su la porta,

Lieve adombrando l'una e l'altra gota

Co' bei veli del capo, e tra le ancelle

Al sublime cantor gli accenti volse:

"Femio", diss'ella, e lagrimava, "Femio,

Bocca divina, non hai tu nel petto

Storie infinite ad ascoltar soavi,

Di mortali e di numi imprese altere,

Per cui toccan la cetra i sacri vati?

Narra di quelle, e taciturni i prenci

Le colme tazze vôtino; ma cessa

Canzon molesta che mi spezza il cuore,

Sempre che tu la prendi in su le corde;

Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna

Provossi, invase, mentre aspetto indarno

Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo

Del suo nome la Grecia, e ch'è il pensiero

De' giorni miei, delle mie notti è il sogno."

"O madre mia", Telemaco rispose,

"Lascia il dolce cantor, che c'innamora,

Là gir co' versi, dove l'estro il porta.

I guai, che canta, non li crea già il vate:

Giove li manda, ed a cui vuole e quando.

Perché Femio racconti i tristi casi

De' Greci, biasmo meritar non parmi;

Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,

Tanto più loro aggrada ogni canzone.

Udirlo adunque non ti gravi, e pensa

Che del ritorno il dì Troia non tolse

Solo ad Ulisse: d'altri eroi non pochi

Fu sepolcro comune. Or tu risali

Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,

Spola e conocchia, intendi; e alle fantesche

Commetti, o madre, travagliar di forza.

Il favellar tra gli uomini assembrati

Cura è dell'uomo, e in questi alberghi mia

Più che d'ogni altro; però ch'io qui reggo".

Stupefatta rimase, e, del figliuolo

Portando in mezzo l'alma il saggio detto,

Nelle superne vedovili stanze

Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome

Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.

Finché inviolle l'occhiglauca Palla,

Sopitor degli affanni, un sonno amico.

I drudi, accesi, via più ancor che prima,

Del desìo delle nozze a quella vista,

Tumulto fean per l'oscurata sala.

E Telemaco ad essi: "O della madre

Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,

Diletto dalla mensa or si riceva,

Né si schiamazzi, mentre canta un vate,

Che uguale ai numi stessi è nella voce.

Ma, riapparsa la bell'alba, tutti

Nel Foro aduneremci, ov'io dirovvi

Senza paura, che di qua sgombriate;

Che gavazziate altrove; che l'un l'altro

Inviti alla sua volta, e il suo divori.

Che se disfare impunemente un solo

Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo

Gli abitatori invocherò, né senza

Fiducia, che il Saturnio a colpe tali

Un giusto guiderdon renda, e che inulto

Tinga un dì queste mura il vostro sangue".

Morser le labbra ed inarcar le ciglia

A sì franco sermon tutti gli amanti.

E Antinoo, il figliuol d'Eupìte: "Di fermo

A ragionar, Telemaco, con sensi

Sublimi e audaci t'impararo i numi.

Guai, se il paterno scettro a te porgesse

Nella cinta dal mare Itaca, Giove!

"Benché udirlo", Telemaco riprese,

"Forse Antìnoo, t'incresca, io nol ti celo:

Riceverollo dalla man di Giove.

Parrìati una sventura? Il più infelice

Dal mio lato io non credo in fra i mortali

Chi re diventa. Di ricchezza il tetto

Gli splende tosto, e più onorato ei vanne.

Ma la cinta dal mare Itaca molti

Sì di canuto pel, come di biondo,

Chiude, oltre Antìnoo, che potran regnarla,

Quando sotterra dimorasse il padre.

Non però ci vivrà chi del palagio

La signorìa mi tolga, e degli schiavi,

Che a me solo acquistò l'invitto Ulisse".

Eurìmaco di Pòlibo allor surse:

"Qual degli Achei sarà d'Itaca il rege,

Posa de' numi onnipossenti in grembo.

Di tua magion tu il sei; né de' tuoi beni,

Finché in Itaca resti anima viva,

Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,

Chi è quello stranier? Dond'ei partissi?

Di qual terra si gloria e di qual ceppo?

Del padre non lontan forse il ritorno

T'annunzia? o venne in questi luoghi antico

Debito a dimandar? Come disparve

Ratto! come parea da noi celarsi!

Certo d'uom vile non avea l'aspetto".

"Ah", ripigliò il garzon, "del genitore

Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!

Giungano ancor novelle, altri indovini

L'avida madre nel palagio accolga;

Né indovin più, né più novelle io curo.

Ospite mio paterno è il forestiere,

Di Tafo, Mente, che figliuol si vanta

Del bellicoso Anchìalo, e ai Tafi impera".

Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo

La calata dal ciel dea riconobbe.

I proci, al ballo ed al soave canto

Rivolti, trastullavansi, aspettando

Il buio della notte. Della notte

Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro

Negli occhi il sonno ad accettar n'andàro.

Telemaco a corcarsi, ove secreta

Stanza da un lato del cortil superbo

Per lui costrutta, si spiccava all'aura,

Salse, agitando molte cose in mente.

E con accese in man lucide faci

Il seguiva Euriclèa, l'onesta figlia

D'Opi di Pisenór, che già Laerte

Col prezzo comperò di venti tori,

Quando fiorìale giovinezza in volto:

Né cara men della consorte l'ebbe,

Benché temendo i coniugali sdegni,

Del toccarla giammai non s'attentasse.

Con accese il seguìa lucide faci:

Più gli portava amor ch'ogni altra serva,

Ed ella fu che il rallevò bambino.

Costei gli aprì della leggiadra stanza

La porta: sovra il letto egli s'assise,

Levò la sottil veste a sé di dosso,

E all'amorosa vecchia in man la pose,

Che piegolla con arte, e alla caviglia

L'appese, accanto il traforato letto.

Poi d'uscire affrettavasi: la porta

Si trasse dietro per l'anel d'argento;

Tirò la fune, e il chiavistello corse.

Sotto un fior molle di tessuta lana

Ei volgea nel suo cor, per quell'intera

Notte, il cammin che gli additò Minerva.

  

 

LIBRO II

Come la figlia del mattin, la bella

Dalle dita di rose Aurora surse,

Surse di letto anche il figliuol d'Ulisse,

I suoi panni vestì, sospese il brando

Per lo pendaglio all'omero, i leggiadri

Calzari strinse sotto i molli piedi

E della stanza uscì rapidamente,

Simile ad un degli Immortali in volto.

Tosto agli araldi dall'arguta voce

Chiamare impose i capelluti Achivi;

E questi, al gridar loro accorsi in fretta,

Si ragunaro, s'affollaro. Ei pure

Al parlamento s'avviò: tra mano

Stavagli un'asta di polito rame

E due bianchi il seguìan cani fedeli.

Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo,

E il paterno sedil, che dai vecchioni

Gli fu ceduto, ad occupar sen gìa:

Tanta in quel punto e sì divina grazia

Sparse d'intorno a lui Pallade amica.

Chi ragionò primiero? Egizio illustre,

Che il dorso avea per l'età grande in arco,

E di vario saver ricca la mente.

Sulle navi d'Ulisse alla feconda

Di nobili destrier ventosa Troia

Andò il più caro de' figliuoli, Antìfo;

E a lui diè morte nel cavato speco

Il Ciclope crudel, che la cruenta

S'imbandì del suo corpo ultima cena.

Tre figli al vecchio rimanean: l'un, detto

Eurìnomo, co' proci erasi unito,

E alla coltura de' paterni campi

Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,

Che più non ha, sempre s'affisa il padre,

Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte

Parole allor, pur lagrimando, sciolse:

"O Itacesi, uditemi. Nessuna,

Dacché Ulisse levò nel mar le vele,

Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?

Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse

Di estrania gente che s'appressi armata?

O d'altro, da cui penda il ben comune,

Ci viene a favellar? Giusto ed umano

Costui, penso, esser dee. Che che s'aggiri

Per la sua mente, il favorisca Giove!

Telemaco gioìa di tali accenti,

Quasi d'ottimo augurio, e, sorto in piedi,

Ché il pungea d'arringar giovane brama,

Trasse nel mezzo, dalla man del saggio

Tra gli araldi Pisènore lo scettro

Prese, e ad Egizio indi rivolto: "O", disse,

"Buon vecchio, non è assai quinci lontano

L'uom che il popol raccolse: a te dinanzi,

Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.

Non di gente che a noi s'appressi armata,

Né d'altro, da cui penda il ben comune,

Io vegno a favellarvi. A far parole

Vegno di me, d'un male, anzi di duo,

Che aspramente m'investono ad un'ora.

Il mio padre io perdei! Che dico il mio?

Popol d'Itaca, il nostro: a tutti padre,

Più assai che re, si dimostrava Ulisse.

E a questa piaga, ohimè l'altra s'arroge,

Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta

Spiantasi dal suo fondo a me la casa.

Noioso assedio alla ritrosa madre

Poser de' primi tra gli Achivi i figli.

Perché di farsi a Icario, e di proporgli

Trepidan tanto, che la figlia ei doti

E a consorte la dia cui più vuol bene?

L'intero dì nel mio palagio in vece

Banchettan lautamente, e il fior del gregge

Struggendo e dell'armento, e le ricolme

Della miglior vendemmia urne votando,

Vivon di me: né v'ha un secondo Ulisse,

Che sgombrar d'infra noi vaglia tal peste.

Io da tanto non son, né uguale all'opra

In me si trova esperïenza e forza.

Oh così le avess'io, com'io le bramo!

Poscia che il lor peccar varca ogni segno.

E, che più m'ange, con infamia io pero.

Deh s'accenda in voi pur nobil dispetto;

Temete il biasmo delle genti intorno;

Degl'immortali dèi, non forse cada

Delle colpe de' proci in voi la pena,

L'ira temete. Per l'Olimpio Giove,

Per Temi, che i consigli assembra e scioglie,

Costoro, amici, d'aizzarmi contro

Restate, e me lasciate a quello in preda

Cordoglio sol, che il genitor mi reca.

Se non che forse Ulisse alcuni offese

De' prodi Achivi, ed or s'intende i torti

Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi

Stendete ai beni la rapace destra:

Meglio fôra per me, quando consunti

Suppellettil da voi fóssemi e censo,

Da voi, dond'io sperar potrei restauro.

Vi assalirei per la città con blande

Parole ad uno ad un, né cesserei,

Che tutto in poter mio pria non tornasse,

E di nuovo s'ergesse in piè il mio stato.

Ma or dolori entro del petto, a cui

Non so rimedio alcun, voi mi versate.

Detto così, gittò lo scettro a terra,

Ruppe in lagrime d'ira e viva corse

Di core in cor nel popolo pietade.

Ma taciturni, immoti, e non osando

Telemaco ferir d'una risposta,

Tutti stavano i proci. Antìnoo solo

Sorse e arringò: "Telemaco, a cui bolle

Nel petto rabbia che il tuo dir sublìma,

Quai parole parlasti ad onta nostra?

Improntar sovra noi macchia sì nera?

Non i migliori degli Achei: la cara

Tua madre e l'arti, ond'è maestra, incolpa.

Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,

Che degli amanti suoi prendesi gioco;

Tutti di speme e d'impromesse allatta,

Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.

Tela sottile, tela grande, immensa,

Questo ancor non pensò novello inganno?

A oprar si mise, e a sé chiamonne, e disse:

"Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,

Poiché già Ulisse tra i defunti scese,

Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa

Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,

Acciò le fila inutili io non perda,

Prima fornir, che l'inclemente Parca,

Di lunghi sonni apportatrice, il colga.

Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,

Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,

Fallisse un drappo in cui giacersi estinto".

Con simil fola leggermente vinse

Gli animi nostri generosi. Intanto,

Finché il giorno splendea, tessea la tela

Superba, e poi la distessea la notte

Al complice chiaror di mute faci.

Così un triennio la sua frode ascose,

E deluse gli Achei. Ma come il quarto

Con le volubili ore anno sorvenne,

Noi da un'ancella non ignara instrutti,

Penelope trovammo, che la bella

Disciogliea tela ingannatrice: quindi

Compierla dové al fin, benché a dispetto.

Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto,

Ecco risposta che ti fanno i proci.

Accommiata la madre, e quel di loro,

Che non dispiace a Icario e a lei talenta,

A disposar costringila. Ma dove,

Le doti usando, onde la ornò Minerva,

Che man formolle così dotta e ingegno

Tanto sagace, e accorgimenti dielle,

Quali non s'udir mai né dell'antiche

Di Grecia donne dalle belle trecce,

Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti

Di sì fini pensier mai non fioriro;

Dove credesse lungo tempo a bada

Tenerci ancor, la sua prudenza usata

Qui l'abbandonerìa. Noi tanto il figlio

Consumerem, quanto la madre in core

Serberà questo suo, che un dio le infuse,

Strano proposto. Eterna gloria forse

A sé procaccerà, ma gran difetto

Di vettovaglia a te; mentre noi certo

Da te pensiam non istaccarci, s'ella

Quel che le aggrada più pria non impalma".

"Io", rispose Telemaco, "di casa

Colei sbandir, donde la vita io tengo?

Dal cui lattante sen pendei bambino?

Grave inoltre mi fôra, ov'io la madre

Dipartissi da me, sì ricca dote

Tornare a Icario. Cruccierìasi un giorno

L'amato genitor che forse vive,

Benché lontano, e punìrianmi i numi,

Perch'ella, slontanandosi, le odiate

Implorerìa vendicatrici Erinni.

Che le genti dirìan? No; tal congedo

Non sarà mai ch'io liberi dal labbro.

L'avete voi per mal? Da me sgombrate;

Gozzovigliate altrove; alternamente

L'un l'altro inviti, e il suo retaggio scemi.

Che se disfare impunemente un solo

Vi par meglio, seguìte. Io dell'Olimpo

Gli abitatori invocherò, né senza

Speme che il Saturnìde a tai misfatti

La debita mercé renda, e che inulto

Scorra nel mio palagio il vostro sangue".

Sì favellò Telemaco, e dall'alto

Del monte due volanti aquile a lui

Mandò l'eterno onniveggente Giove.

Tra lor vicine, distendendo i vanni,

Fendean la vana regïon de' venti.

Né prima fur dell'assemblea sul mezzo,

Che si volsero in giro, e, l'ali folte

Starnazzando, e mirando tutti in faccia,

Morte auguraro: al fin, poiché a vicenda

Con l'unghie il capo insanguinato e il collo

S'ebber, volaro a destra, e dileguârsi

Della città su per gli eccelsi tetti.

Maravigliò ciascuno, e ruminava

Fra sé quai mali promettesse il fato.

Quivi era un uom di molto tempo e senno,

Di Mastore figliuol, detto Aliterse,

Che nell'arte di trar dagli osservati

Volanti augelli le future cose,

Tutti vinceva i più canuti crini.

"Itacesi, ascoltatemi, e più ancora

M'ascoltin", disse, "i proci, a cui davante

S'apre un gran precipizio. Ulisse lungi

Da' cari suoi non rimarrà molt'anni.

Che parlo? Ei spunta, e non ai soli proci

Strage prepara e morte: altri, e non pochi

Che abitiam la serena Itaca, troppo

Ci accorgerem di lui. Consultiam dunque

Come gli amanti, che pel meglio loro

Cessar dovrìan per sé, noi raffreniamo.

Uom vi ragiona de' presagi esperto

Per lunghissima prova. Ecco maturo

Ciò ch'io vaticinai, quando per Troia

Scioglieano i Greci, e Ulisse anch'ei salpava.

"Molti", io gridai, "patirà duoli, e tutti

Perderà i suoi: ma nel ventesim'anno,

Solo e ignoto a ciascun, farà ritorno".

Già si compie l'oracolo: tremate!"

"Folle vecchiardo, in tua magion ricovra",

Eurìmaco di Pòlibo rispose,

"oracoleggia ai figli tuoi, non forse

Gl'incolga un dì qualche infortunio. Assai

Più là di te ne' vaticinî io veggio.

Volan, rivolan mille augelli e mille

Per l'aere immenso, e non dibatton tutti

Sotto i raggi del sol penne fatali.

Quinci lontano perì Ulisse. Oh fossi

Tu perito con lui! Ché non t'udremmo

Profetare in tal guisa, e il furor cieco

Secondar di Telemaco, da cui

Qualche don, credo, alle tue porte attendi.

Ma oracol più verace odi. Se quanto

D'esperïenza il bianco pel t'addusse,

A sedurre il fanciullo e a più infiammarlo

L'adopri, tu gli nuoci, a' tuoi disegni

Non giovi, e noi tale imporremti multa,

Che morte fìati il sostenerla. Io poi

Tal consiglio al fanciul porgo: la madre

Rimandi a Icario, che i sponsali e ricca,

Qual dee seguir una diletta figlia,

Dote apparecchierà. Prima io non penso

Che da questa di nozze ardua tenzone

I figli degli Achei vorran giù tôrsi.

Di nessuno temiam; non, benché tanto

Loquace, di Telemaco; né punto

Del vaticinio ci curiam, che indarno

T'uscì, vecchio, di bocca, e che fruttarti

Maggiore odio sol può. Fine i conviti

Non avran dunque, e non sarà mai calma,

Finché d'oggi in doman costei ci mandi.

Noi ciascun dì contenderem per lei,

Né ad altre donne andrem, quali ha l'Acaia

Degne di noi, perché cagion primiera

Dell'illustre contesa è la virtude".

"Eurìmaco e voi tutti", il giovinetto

Soggiunse allor, "competitori alteri,

Non più: già il tutto sanno uomini e dèi.

Or non vi chiedo che veloce nave

Con dieci e dieci poderosi remi,

Che sul mar mi trasporti. All'arenosa

Pilo ed a Sparta valicare io bramo,

Del padre assente per ritrar s'io mai

Trovar potessi chi men parli chiaro,

O quella udir voce fortuita in cui

Spesso il cercato ver Giove nasconde.

Vivrà? ritornerà? Benché dolente,

Sosterrò un anno. Ma se morto e fatto

Cenere il risapessi, al patrio nido

Riederò senza indugio; e qui un sepolcro

Gli alzerò, renderogli i più solenni,

Qual si convien, fùnebri onori, e un altro

Sposo da me riceverà la madre".

Tacque, e s'assise; e Mentore levossi

Del padre il buon compagno, a cui su tutto

Vegghiar, guardare il tutto, ed i comandi

Seguitar di Laerte, Ulisse ingiunse,

Quando per l'alto sal mise la nave.

"O Itacesi", tal parlava il saggio

Vecchio, "alle voci mie l'orecchio date.

Né giusto più, né liberal, né mite,

Ma iniquo, ma inflessibile, ma crudo

D'ora innanzi un re sia, poiché tra gente

Su cui stendea scettro paterno Ulisse,

Più non s'incontra un sol, cui viva in core.

Che arroganti rivali ad opre ingiuste

Trascorran ciechi della mente, io taccio.

Svelgono, è ver, sin dalle sue radici,

La casa di quel Grande, a cui disdetto

Sperano il ritornar, ma in rischio almeno

Porgon la vita. Ben con voi m'adiro,

Con voi, che muti ed infingardi e vili

Vi state lì, né d'un sol moto il vostro

Signore ìnclito aitate. Ohimé! dai pochi

Restano i molti soverchiati e vinti".

"Mentor, non so qual più, se audace, o stolto",

Leòcrito d'Evènore rispose,

"Che mai dicestu? Contra noi tu ardisci

Il popol eccitar? Non lieve impresa

Una gente assalir, che per la mensa

Brandisca l'armi, e i piacer suoi difenda.

Se lo stesso re d'Itaca tornato

Scacciar tentasse i banchettanti proci,

Scarso del suo ritorno avrìa diletto

Questa sua donna, che il sospira tanto,

E morire il vedrìa morte crudele,

Benché tra molti ei combattesse: quindi

Del tuo parlar la vanità si scorge.

Ma, su via, dividetevi, e alle vostre

Faccende usate vi rendete tutti.

Mentore ed Aliterse, che fedeli

A Telemaco son paterni amici,

Gli metteran questo viaggio in punto:

Bench'ei del padre le novelle, in vece

Di cercarle sul mar, senza fatica

Le aspetterà nel suo palagio, io credo".

Disse, e ruppe il concilio. I cittadini

Scioglieansi l'un dall'altro, e alle lor case

Qua e là s'avvïavano: d'Ulisse

Si ritiraro alla magione i proci.

Ma, dalla turba solitario e scevro,

Telemaco rivolse al mare i passi,

Le mani asterse nel canuto mare,

E supplicò a Minerva: "O diva amica,

Che degnasti a me ier scender dal cielo,

E fender l'onde m'imponesti, un padre

Per rintracciar, che non ritorna mai,

Il tuo solo favor puommi davante

Gl'inciampi tôr, che m'opporranno i Greci,

E più che altr'uomo in Itaca, i malvagi

Proci, la cui superbia ognor più monta".

Così pregava; e se gli pose allato

Con la faccia di Mentore e la voce,

Palla, e a nome chiamollo, e feo tai detti:

"Telemaco, né ardir giammai, né senno

Ti verrà men, se la virtù col sangue

Trasfuse in te veracemente Ulisse,

Che quanto impreso avea, quanto avea detto,

Compiea mai sempre. Il tuo vïaggio a vôto

Non andrà, qual temer, dove tu figlio

Non gli fossi, io dovrei. Vero è che spesso

Dal padre il figlio non ritrae: rimane

Spesso da lui lungo intervallo indietro,

E raro è assai che aggiungalo od il passi.

Ma senno a te non verrà men, né ardire,

Ed io vivere Ulisse in te già veggo.

Lieto dunque degli atti il fine spera;

Né t'anga il vano macchinar de' proci,

Che non sentono, incauti e ingiusti al paro,

La nera Parca che gli assal da tergo,

Ed in un giorno sol tutti gli abbranca.

Io d'Ulisse il compagno, un tale aiuto

Ti porgerò, che partirai di corto

Su parata da me celere nave,

E con me stesso al fianco, in su la poppa.

Orsù, rïentra nel palagio, ai proci

Nuovamente ti mostra, ed apparecchia

Quanto al vïaggio si richiede, e il tutto

Riponi: il bianco nelle dense pelli

Gran macinato, ch'è dell'uom la vita,

E nell'urne il licor che la rallegra.

Compagni a radunarti in fretta io movo,

Che ti seguano allegri. Ha sull'arena

Molte l'ondicerchiata Itaca navi

Novelle e antiche: ne' salati flutti

Noi lancerem senza ritardo armata

Qual miglior mi parrà veleggiatrice".

Così di Giove la celeste figlia:

Né più, gli accenti della diva uditi,

S'indugiava Telemaco. Al palagio,

Turbato della mente, ire affrettossi,

E trovò i proci, che a scoiar capretti,

E pingui ad abbronzar corpi di verri,

Nel cortile intendeano. Il vide appena,

Che gli fu incontro sogghignando, e il prese

Per mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa:

"O molto in arringar, ma forte poco

Nel dominar te stesso, ogni rancore

Scaccia dal petto, e, qual solevi, adopra

Da prode il dente, e i colmi nappi asciuga.

Tutto gli Achei t'allestiran di botto:

Nave e rèmigi eletti, acciò tu possa,

Ratto varcando alla divina Pilo,

Correr del padre tuo dietro alla fama".

E Telemaco allor: "Sedermi a mensa

Con voi, superbi, e una tranquilla gioia

Provarvi, a me non lice. Ah non vi basta

Cio che de' miei più prezïosi beni

Nella prima età mia voi mi rapiste?

Ma or ch'io posso dell'altrui saggezza

Giovarmi, e sento con le membra in petto

Cresciutami anco l'alma, io disertarvi

Tenterò pure, o ch'io qui resti, o parta.

Ma parto, e non invan, spero, e su nave

Parto non mia, quando al figliuol d'Ulisse,

Né ciò sémbravi sconcio, un legno manca".

Tal rispose crucciato, e destramente

Dalla man d'Antinòo la sua disvelse.

Già il convito apprestavano, ed acerbi

Motti scoccavan dalle labbra i proci.

"Certo", dicea di que' protervi alcuno,

"Telemaco un gran danno a noi disegna.

Da Pilo aiuti validi o da Sparta

Menerà seco, però ch'ei non vive

Che di sì fatta speme; o al suol fecondo

D'Efira condurrassi e ritrarranne

Fiero velen, che getterà nell'urne

Con man furtiva; e noi berrem la morte",

E un altro ancor de' pretendenti audaci:

"Chi sa ch'egli non men, sul mar vagando,

Dagli amici lontano, un dì non muoia,

Come il suo genitor? Carco più grave

Su le spalle ne avremmo: il suo retaggio

Partirci tutto, ma la casta madre,

E quel di noi, ch'ella scegliesse a sposo,

Nel palagio lasciar sola con solo".

Telemaco frattanto in quella scese

Di largo giro e di sublime volta

Paterna sala, ove rai biondi e rossi

L'oro mandava e l'ammassato rame;

Ove nitide vesti, e di fragrante

Olio gran copia chiudean l'arche in grembo;

E presso al muro ìvano intorno molte

Di vino antico, saporoso, degno

Di presentarsi a un dio, gravide botti,

Che del ramingo travagliato Ulisse

Il ritorno aspettavano. Munite

D'opportuni serrami eranvi, e doppie

Con lungo studio accomodate imposte;

Ed Euriclèa, la vigilante figlia

D'Opi di Pisenorre, il dì e la notte

Questi tesori custodìa col senno.

Chiamolla nella sala, e a lei tai voci

Telemaco drizzò: "Nutrice, vino,

Su via, m'attigni delicato, e solo

Minor di quel che a un infelice serbi,

Se mai scampato dal destin di morte,

Comparisse tra noi. Dodici n'empi

Anfore, e tutte le suggella. Venti

Di macinato gran giuste misure

Versami ancor ne' fedeli otri, e il tutto

Colloca in un: ma sappilo tu sola.

Come la notte alle superne stanze

La madre inviti e al solitario letto,

Per tai cose io verrò: ché l'arenosa

Pilo visitar voglio, e la ferace

Sparta, e ad entrambe domandar del padre".

Dié un grido, scoppiò in lagrime, e dal petto

Euriclèa volar feo queste parole:

"Donde a te, caro figlio, in mente cadde

Pensiero tal? Tu l'unico rampollo

Di Penelope, tu, la nostra gioia,

Per tanto mondo raggirarti? Lunge

Dal suo nido perì l'inclito Ulisse,

Fra estranie genti: e perirai tu ancora.

Sciolta la fune non avrai, che i proci

Ti tenderanno agguati, uccideranti,

E tutte partirannosi tra loro

Le spoglie tue. Deh qui con noi rimani,

Con noi qui siedi, e su i marini campi,

Che fecondi non son che di sventure,

Lascia che altri a sua posta errando vada".

"Fa cor, Nutrice", ei le risponde tosto:

"Senza un nume non è questo consiglio.

Ma giura che alla madre, ov'aura altronde

Non le ne giunga prima e ten richiegga,

Nulla dirai, che non appaia in cielo

La dodicesim'aurora; onde col pianto

Al suo bel corpo ella non rechi oltraggio".

L'ottima vecchia il giuramento grande

Giurò de' numi: e a lui versò ne' cavi

Otri, versò nell'anfore capaci

Le candide farine e il rosso vino.

Ei, nella sala un'altra volta entrato,

Tra i proci s'avvolgea: né in questo mezzo

Stavasi indarno la Tritonia Palla.

Vestite di Telemaco le forme,

Per tutto si mostrava ed appressava

Tutti, e loro ingiungea che al mare in riva

Si raccogliesser nottetempo, e il ratto

Legno chiedea di Fronio al figlio illustre,

A Noemòn, cui non chiedealo indarno.

S'ascose il Sole, e in Itaca omai tutte

S'inombravan le vie. Minerva il ratto

Legno nel mar tirò, l'armò di quanto

Soffre d'arnesi un'impalcata nave,

E al porto in bocca l'arrestò. Frequenti

Si raccoglieano i remator forzuti

Sul lido, e inanimavali la dea

Dallo sguardo azzurrin, che altro disegno

Concepì in mente. La magion d'Ulisse

Ritrova, e sparge su i beventi proci

Tal di sonno un vapor, che lor si turba

L'intelletto e confondesi, e di mano

Casca sul desco, la sonante coppa.

Sorse, e mosse ciascuno al proprio albergo,

Né fu più nulla del sedere a mensa:

Tal pondo stava sulle lor palpèbre.

Ma l'occhiglauca dea, ripreso il volto

Di Mentore e la voce, e richiamato

Fuor del palagio il giovinetto, disse:

Telemaco, ciascun de' tuoi compagni,

Che d'egregi schinier veston le gambe,

Già siede al remo, e, se tu arrivi, guarda".

Ciò detto, la via prese, ed il garzone

Seguitavane l'orme. Al mar calati,

Trovàr sul lido i capelluti Achivi;

Cui di tal guisa favellò la sacra

Di Telemaco possa: "Amici, in casa

Quanto al cammin bisogna, unito giace:

Trasportarlo è mestieri. Né la madre

Sa, né, fuor che una, il mio pensier le ancelle".

Tacque, e loro entrò innanzi; e quelli dietro

Teneangli. Indi con l'anfore e con gli otri,

Come d'Ulisse il caro figlio ingiunse,

Tornâro, e il carco nella salda nave

Deposero. Il garzon sopra vi salse,

Preceduto da Pallade, che in poppa

S'assise; accanto ei le sedea: la fune

I remiganti sciolsero, e montàro

La negra nave anch'essi, e i banchi empiero.

Tosto la dea dalle cerulee luci

Chiamò di verso l'occidente un vento

Destro, gagliardo, che battendo venne

Su pel tremulo mar l'ale sonanti.

"Mano, mano agli attrezzi", allor gridava

Telemaco; "ov'è l'albero"? I compagni

L'udiro, e il grosso e lungo abete in alto

Drizzaro, e l'impiantaro entro la cava

Base, e di corda l'annodaro al piede:

Poi tiravano in su le bianche vele,

Con bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo

Le vele il vento; e forte alla carena

L'azzurro mar romoreggiava intorno,

Mentre la nave sino al fin del corso

Su l'elemento liquido volava.

Legati i remi del naviglio ai fianchi,

Incoronaro di vin maschio l'urne,

E a ciascun degli dèi sempre viventi

Libaro, ma più a te, figlia di Giove,

Che le pupille di cilestro tingi.

Il naviglio correa la notte intera,

E del suo corso al fin giungea con l'alba.

 

LIBRO III

Uscito delle salse acque vermiglie,

Montava il sole per l'eterea volta

Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava

Ed agli uomini il dì su l'alma terra:

Quando alla forte Pilo, alla cittade

Fondata da Nelèo, giunse la nave.

Stavano allor sagrificando i Pili

Tauri sul lido, tutti negri, al dio

Dai crini azzurri, che la terra scuote.

Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra

Cinquecento seduti, e per ciascuna

Svenati nove buoi, di cui, gustate

Le interïora, ardean le cosce al nume.

La nave intanto d'uguai fianchi armata,

Se ne venìa dirittamente a proda.

Le vele ammainâr, pigliaro il porto,

Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi

Telemaco, e Minerva il precedea,

La dea dagli occhi di ceruleo tinti,

Che gli accenti al garzon primiera volse:

"Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo

La pueril vergogna. Il mar passasti,

Ma per udir, dove s'asconda, e a quale

Destin soggiacque il generoso padre.

Su, dunque, dritto al domator t'avvia

Di cavalli Nestorre, onde si vegga

Quel ch'ei celato nella mente porta.

Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:

Poiché mentir non può cotanto senno".

Il prudente Telemaco rispose:

Mentore, per qual modo al rege amico

M'accosterò? Con qual saluto? Esperto

Non sono ancor del favellar de' saggi:

Né consente pudor, che a far parole

Cominci col più vecchio il men d'etade".

Ma di tal guisa ripigliò la dea,

Cui cilestrino lume i rai colora:

"Telemaco, di ciò che dir dovrai,

Parte da sé ti nascerà nel core,

Parte nel cor la ti porranno i numi:

Ché a dispetto di questi in luce, io credo,

Non ti mandò la madre, e non ti crebbe".

Così parlando, frettolosa innanzi

Palla si mise, ed ei le andava dopo.

Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,

Ove Nestor sedea co' figli suoi,

Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,

Altre avvampavan delle carni, ed altre

Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati

Ebbero appena i forestier, che incontro

Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,

E a seder gl'invitaro. Ad appressarli

Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli

Del re. Li prese ambi per mano, e in molli

Pelli, onde attappezzata era la sabbia,

Appo la mensa gli adagiò tra il caro

Suo padre ed il germano Trasimede:

Delle viscere calde ad ambi porse;

E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,

E alla gran figlia dell'Egìoco Giove

Propinando: "Stranier"; dissele, "or prega

Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri

Lidi cercando, t'abbattesti appunto.

Ma i libamenti, come più s'addice,

Compiuti e i prieghi, del licor soave

Presenta il nappo al tuo compagno, in cui

Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,

Quando ha mestier de' numi ogni vivente.

Meno ei corse di vita, e d'anni eguale

Parmi con me: quindi a te pria la coppa".

E il soave licor le pose in mano.

Godea Minerva che l'uom giusto pria

Offerto il nappo d'oro avesse a lei,

E subito a Nettun così pregava:

"Odi, o Nettuno, che la terra cingi,

E questi voti appagar degna. Eterna

Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima

E poi grata mercede a tutti i Pili

Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno

Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito

Perché venimmo, su le patrie arene

Con la negra torniam rapida nave".

Tal supplicava, e adempiere intendea

Questi voti ella stessa. Indi al garzone

La bella offrì gemina coppa e tonda,

Ed una egual preghiera il caro figlio

D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto

Le pingui cosce, degli spiedi acuti

Si dispiccaro e si spartiro: al fine

L'alto si celebrò prandio solenne.

Giunto al suo fin, così principio ai detti

Dava il Gerenio cavalier Nestorre:

"Gli ospiti ricercare allora è bello,

Che di cibi e di vini hanno abbastanza

Scaldato il petto e rallegrato il core.

Forestieri, chi siete? e da quai lidi

Prendeste a frequentar l'umide strade?

Trafficate voi forse? O v'aggirate,

Come corsali, che la dolce vita,

Per nuocere ad altrui, rischian sul mare"?

Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire

Spirò nel seno, acciò del padre assente

Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo

Di sé spargesse per le genti il grido:

"O degli Achei", rispose, "illustre vanto,

Di satisfare ai desir tuoi son presto.

Giungiam dalla seduta a pie' del Neo

Itaca alpestre, ed è cagion privata

Che a Pilo ci menò. Del padre io movo

Dietro alla fama, che riempie il mondo,

Del magnanimo Ulisse, onde racconta

Pubblica voce che i Troiani muri,

Combattendo con teco, al suol distese.

Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,

Non ignoriam dove finiro i giorni.

Ma di lui Giove anco la morte volle

Nasconderci; né alcun sin qui poteo

Dir se in terra o sul mar, se per nemico

Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.

Eccomi or dunque alle ginocchia tue,

Perché tu la mi narri, o vista l'abbi

Con gli occhi propri, o dalle labbra udita

D'un qualche pellegrin; però che molto

Disventurato il partorì la madre.

Né timore, o pietà, del palesarmi

Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio

Mio padre in opra o in detto unqua ti feo

Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani

Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,

Tel rimembra ora, e non tacermi nulla".

Ed il Gerenio cavalier Nestorre:

"Tu mi ricordi, amico, i guai che molti

Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,

O quando erranti per le torbid'onde

Ce ne andavam sovra le navi in traccia

Di preda, ovunque ci guidasse Achille;

O allor che pugnavam sotto le mura

Della cittade alta di Priamo, dove

Grecia quasi d'eroi spenta rimase.

Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,

Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;

Quell'Antiloco là, forte e gentile,

Mio diletto figliuol, che abil del pari

La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.

Se tu, queste sciagure ed altre assai

Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto

Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.

Leveresti di nuovo in mar le vele,

Ch'io non sarei del mio racconto a riva.

Nove anni, offese macchinando, a Troia,

Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte

Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove

Ci consentì nel decimo a fatica.

Duce col padre tuo non s'ardìa quivi

Di accorgimento gareggiar: cotanto

Per inventive Ulisse e per ingegni

Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,

E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:

Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti

Tanto di lui tenère uom, che d'etade

Minor tanto è di lui, vero non parmi.

L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento

Mai, né in concilio, parlavam diversi;

Ma, d'una mente, con maturi avvisi,

Quel che dell'oste in pro tornar dovesse

Disegnavamo. Rovesciata l'alta

Città di Priamo, e i Greci in su le ratte

Navi saliti, si divise il campo.

Così piacque al Saturnio; e ben si vide

Da quell'istante, che un ritorno infausto

Ci destinava il correttor del mondo.

Senno non era, né giustizia in tutti:

Quindi il malanno che su molti cadde,

Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,

Di forte genitor nata, che cieca

Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.

A parlamento in sul cader del Sole

Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,

Che, intorbidati dal vapor del vino,

Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.

Menelao prescrivea che l'oste tutta

Le vele aprisse del ritorno ai venti;

Ma ritenerla in vece Agamennòne

Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero

Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.

Stolto! che non sapea ch'erano indarno:

Quando per fumo d'immolati tori

Mente i numi non cangiano in un punto.

Così, garrendo di parole acerbe,

Non si movean dal lor proposto. Intanto

Con insano clamor sorser gli Achivi

Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,

L'altro agli altri piacea. Funeste cose

La notte in mezzo al sonno agitavamo

Dentro di noi: che dal disastro il danno

Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,

Tirammo i legni, nel divino mare,

E su i legni velìvoli le molte

Robe imponemmo e le altocinte schiave.

Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde

Agamennòn rimanea ferma: l'altra

Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,

Che Nettuno spianò, correa veloce.

Tènedo preso, sagrificî offrimmo,

Anelando alla patria: ma nemico

Dagli occhi nostri rimoveala Giove,

Che di nuovo partì tra loro i Greci.

Alcuni che d'intorno erano al ricco

Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi

Gratificar volean, torsero a un tratto

Le quinci e quindi remiganti navi:

Ma io de' mali che l'avverso nume

Divisava, m'accorsi e con le prore,

Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.

Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,

Tutti animando i suoi. L'acque salate

Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo

Menelao ci trovò, che della via

Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,

Psiria lasciando dal sinistro lato,

O invece sotto Chio, lungo il ventoso

Mimanta, veleggiassimo. D'un segno

Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare

Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa

Navigammo alla volta, onde con quanta

Fretta si potea più, condurci in salvo.

Sorse allora e soffiò stridulo vento,

Che volar per le nere onde, e notturni

Sorger ci feo sovra Geresto, dove

Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,

Misurato gran mar, molte di tori

Cosce ponemmo in su la viva brace.

Già il dì quarto splendea, quando i compagni

Del prode ne' cavalli Dïomede

Le salde navi riposaro in Argo:

Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni

Con quel vento, cui pria mandato in poppa

M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.

Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,

Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.

Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,

Celare a te certo non vuolsi. È fama

Che felice ritorno ebber gli sperti

Della lancia Mirmìdoni, che il degno

Figliuol guidava dell'altero Achille.

Felice l'ebbe Filottète ancora,

L'illustre prole di Peante. In Creta

Rimenò Idomenèo quanti compagni

Con la vita gli uscir fuori dell'arme:

Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.

D'Agamennòn voi stessi, e come venne,

Benché lontani dimoriate, udiste,

E qual gli tramò Egisto acerba morte.

Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello

Che il figliuol dell'estinto in vita resti!

Quel dell'Atride vendicossi a pieno

Dell'omicida fraudolento e vile,

Che morto aveagli sì famoso padre.

Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio

Di sembiante non men grande che bello,

Fortezza impara, onde te pure alcuno

Benedica di quei che un dì vivranno".

"Nestore, degli Achei gloria immortale",

Telemaco riprese, "ei vendicossi,

E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome

Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora

Non infuser gli dèi tanto di lena,

Che dell'onte de' proci e delle trame

Potessi a pieno ristorarmi anch'io?

Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio

Tanta felicità dagl'immortali

Fu destinata, e tollerar m'è forza".

"Poiché tai mali", ripigliò Nestorre

"Mi riduci alla mente, odo la casa

Molti occuparti a forza, e insidïarti,

Vagheggiatori della madre. Dimmi:

Volontario piegasti al giogo il collo?

O in odio, colpa d'un oracol forse,

I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,

Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno

Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi

Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?

Se te così Pallade amasse come

A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse

(Sì palese favor d'un nume, quale

Di Pallade per lui, mai non si vide)

Se ugual di te cura prendesse, ai proci

Della mente uscirìan le belle nozze".

E d'Ulisse il figliuol: "Tanto io non penso

Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,

Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:

Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,

Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado".

"Qual ti sentii volar fuori de' denti,

Telemaco, parola? allor soggiunse

La dea che lumi cilestrini gira.

"Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo

Ripatrïar dai più remoti lidi.

Io per me del ritorno anzi torrei

Scorgere il dì dopo infiniti guai,

Che rieder prima, e nel suo proprio albergo

Cader, come d'Egisto, e dell'infida

Moglie per frode il miserando Atride.

La morte sola, comun legge amara,

Gli stessi dèi né da un amato capo

Distornarla potrìan, quandunque sopra

Gli venga in sua stagion l'apportatrice

Di lunghi sonni disamabil parca".

"E temo io ben", Telemaco rispose,

"Che una morte crudel, non il ritorno,

Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.

Ma di questo non più: benché agli afflitti

Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.

Io voglio d'altro dimandar Nestorre,

Che vede assai più là d'ogni mortale,

E l'età terza, qual si dice, or regna,

Tal che mirare in lui sembrami un nume.

Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come

Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno

Stendeasi tanto? Menelao dov'era?

Qual morte al sommo Agamennòne ordìa

L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse

Tanto miglior di sé? Non era dunque

Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse

Lontano errava tra straniere genti,

E quei la spada, imbaldanzito, strinse?"

Ed il Gerenio cavalier Nestorre:

"Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.

Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre

Menelao biondo, poiché apparve in Argo,

Nel palagio trovava Egisto in vita,

Non si spargea sul costui morto corpo

Un pugno scarso di cavata terra:

Fuor delle mura, sovra il nudo campo

Cani e augelli voravanlo, né un solo

Delle donne d'Acaia occhio il piangea.

Noi sotto Troia, travagliando in armi,

Passavam le giornate; ed ei, nel fondo

Della ricca di paschi Argo, tranquilla,

Con detti aspersi di dolce veleno

La moglie dell'Atride iva blandendo.

Rifugìa prima dall'indegno fatto

La vereconda Clitennestra, e retti

Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,

Cui di casta serbargliela l'Atride

Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.

Ma sorto il dì che cedere ad Egisto

La infelice dovea, quegli, menato

A un'isola deserta il vate in seno,

Colà de' feri volator pastura

Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,

Non ripugnante, l'infedel regina.

E molte cosce del cornuto armento

Su l'are il folle ardea, sospendea molti

Di drappi d'oro sfavillanti doni,

Compiuta un'opra che di trarre a fine

Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.

Già partiti di Troia, e d'amistade

Congiunti, battevam lo stesso mare

Menelao ed io: ma divenimmo al sacro

Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,

Che il suo nocchier, che del corrente legno

Stava al governo, un'improvvisa uccise

Di Febo Apollo mansueta freccia,

L'Onetoride Fronte, uom senza pari

Co' marosi a combattere e co' venti.

L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,

Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,

E d'esequie onorollo e di sepolcro.

Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso

Giunto della Malèa, cammin felice

Non gli donò l'onniveggente Giove.

Venti stridenti e smisurati flutti,

Che ai monti non cedean, contro gli mosse,

E ne disgiunse i legni, e parte a Creta

Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,

Alle correnti del Giardano in riva.

Liscia e pendente sovra il fosco mare

Di Gortina al confin, sorge una rupe,

Contro alla cui sinistra, e non da Festo

Molto lontana punta, Austro i gran flutti

Caccia; li frange un piccoletto sasso.

Là, percotendo, si fiaccaro i legni

Scampate l'alme a gran fatica, e sole

Cinque altre navi dall'azzurra prora,

Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.

Mentre con queste Menelao tra genti

D'altra favella s'aggirava, e forza

Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,

Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:

Agamennòne a tradimento spense,

Soggettossi gli Argivi, ed anni sette

Della ricca Micene il fren ritenne.

Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene

Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,

Che il perfido assassin del padre illustre

Spogliò di vita, e la funèbre cena

Agli Argivi imbandì, per l'odïosa

Madre non men, che per l'imbelle drudo.

Lo stesso giorno Menelao comparve,

Tanta ricchezza riportando seco,

Che del pondo gemean le stanche navi.

Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,

Lasciando in preda le sostanze ai proci,

Che ciò tra lor che non avran consunto,

Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.

Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,

Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,

Donde altri, che in quel mar furia di crudo

Vento cacciasse, perderia la speme

Di rieder più: mar così immenso e orrendo,

Che nel giro d'un anno augel nol varca.

Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse

Più di tuo grado la terrestre via,

Cocchio io darotti e corridori, e i miei

Figli, che guideranti alla divina

Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.

Pregalo, e non temer che le parole

Re sì prudente di menzogna involva".

Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.

Qui la gran diva dal ceruleo sguardo

Si frappose così: Buon vecchio, tutto

Dicesti rettamente. Or via, le lingue

Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.

Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi

I libamenti, si procuri ai corpi

Riposo e sonno, come il tempo chiede.

Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro

Troppo a lungo seder prandio solenne".

Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi

Dier subito alle man, di vino l'urne

Coronaro i donzelli, ed il recaro,

Con le tazze, augurando, a tutti in giro.

I convitati s'alzano, e le lingue

Gittan sul fuoco, e libano. Libato

Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,

Palla e d'Ulisse il deiforme figlio

Ritirarsi voleano al cavo legno.

Ma Nestore fermolli, e con gentile

Corruccio: "Ah! Giove tolga, e gli altri", disse,

"Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,

Qual tapino mortale, a cui la casa

Di vestimenti non abbonda e coltri,

Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti

Mollemente s'addormino. Credete

Che a me vesti non sieno e coltri belle?

No; su palco di nave il figlio caro

Di cotant'uom non giacerà, me vivo,

E vivo un sol de' figli miei, che quanti

Verranno alle mie case ospiti accolga".

"O vecchio amico", replicò la diva

Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,

"Motto da te non s'ode altro che saggio.

Telemaco, ubbidire io ti consiglio.

Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua

E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave

A confortar rivolgomi, e di tutto

Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco

Que' giovani d'età, che non maggiori

Di Telemaco sono, e accompagnarlo

Voller per amistade. In sul naviglio

Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,

Ai Caucòni magnanimi non lieve

Per ricevere andrò debito antico.

E tu questo garzon, che a te drizzossi,

Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio

De' corridori, che in tue stalle nutri,

I più ratti gli accoppia e più gagliardi".

Qui fine al dir pose la dea, cui ride

Sotto le ciglia un azzurrino lume,

E si levò com'aquila, e svanìo.

Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,

Visto il portento, s'ammirava; e, preso

Telemaco per man, nomollo e disse:

"Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,

Figliuol mio, non sarai, quando compagni

Così per tempo ti si fanno i numi.

Degli abitanti dell'Olimpie case

Chi altri esser porìa che la pugnace

Figlia di Giove, la Tritonia Palla,

Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi

Favorì ognor? Propizia, o gran regina,

Guardami, e a me co' figli e con la casta

Consorte gloria non vulgar concedi.

Giovenca io t'offrirò di larga fronte,

Che vide un anno solo, e al giogo ancora

Non sottopose la cervice indoma.

Questa per te cadrà con le vestite

Di lucid'oro giovinette corna".

Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi

Generi e figli al suo reale ostello

Nestore precedea. Giunti, posaro

Su gli scanni per ordine e su i troni.

Il re canuto un prezïoso vino,

Che dalla scoverchiata urna la fida

Custode attinse nell'undecim'anno,

Lor mescea nella coppa, e alla possente

Figlia libava dell'Egìoco Giove,

Supplichevole orando. E gli altri ancora

Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine

Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.

Ma nella sua magione il venerato

Nestore vuol che del divino Ulisse

La cara prole, in traforato letto

Sotto il sonante portico, s'addorma;

E accanto a lui Pisistrato, di gente

Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva

Celibe vita. Ei del palagio eccelso

Si corcò nel più interno; e la reale

Consorte il letto preparògli e il sonno.

Tosto che del mattin la bella figlia

Con le dita rosate in cielo apparve,

Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi

S'assise all'alte porte, in sui politi

Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,

Su cui sedea par nel consiglio ai numi

Nelèo, che, vinto dal destin di morte,

Nelle case di Pluto era già sceso.

Nestore allora, guardïan de' Greci,

Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti

Di loro stanza maritale anch'essi,

Frequenti al vecchio si stringeano intorno,

Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,

E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse

Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro

D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco

Collocârlo del padre, che le labbra

In queste voci aprì: "Figli diletti,

Senza dimora il voler mio fornite.

Prima tra i numi l'Atenèa Minerva

Non degg'io venerar, che nel solenne

Banchetto sacro manifesta io vidi?

Un di voi dunque ai verdi paschi vada,

Perché tirata dal bifolco giunga

Ratto la vaccherella. Un altro mova

Dell'ospite alla nave e, salvo due,

Tutti i compagni mi conduca. E un terzo

Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,

Della giovenca ad inaurar le corna.

Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle

Faccian le mense apparecchiar, sedili

Apportar nel palagio, e tronca selva,

E una pura dal fonte acqua d'argento".

Non indarno ei parlò. Venne dal campo

La giovinetta fera, e dalla nave

Dell'ospite i compagni; il fabbro venne

Tutti recando gli strumenti e l'armi,

L'incude, il buon martello e le tanaglie

Ben fabbricate, con che l'ôr domava:

Né ai sacrifici suoi mancò la diva.

Nestore diè il metallo; e il fabbro, come

Domato l'ebbe, ne vestì le corna

Della giovenca, acciocché Palla, visto

Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.

Per le corna la vittima Echefróne

Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto

Purissim'onda in un bacile, a vaghi

Fiori intagliato, d'una man portava,

Orzo dell'altra in bel canestro e sale;

Il bellicoso Trasimede in pugno

Stringea l'acuta scure, che sul capo

Scenderà della vittima; ed il vaso,

Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.

Ma de' cavalli il domator, l'antico

Nestore, il rito cominciò: le mani

S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla

Pregava molto, nell'ardente fiamma

Le primizie gittando, i peli svelti

Dalla vergine fronte. Alla giovenca

S'accostò il forte Trasimede allora

E con la scure acuta, onde colpilla,

Del collo i nervi le recise, e tutto

Svigorì il corpo: supplicanti grida

Figliuole alzaro, e nuore e la pudica

Di Nestor donna Euridice, che prima

Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;

Poi la buessa, che giacea, di terra

Sollevâr nella testa, e in quel che lei

Reggean così, Pisistrato scannolla.

Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,

E abbandonate dallo spirto l'ossa,

La divisero in fretta: ne tagliaro

Le intere cosce, qual comanda il rito,

Di doppio le covriro adipe, e i crudi

Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio

Su gli scheggiati rami, e le spruzzava

Di rosso vin, mentre abili donzelli

Spiedi tenean di cinque punte in mano.

Arse le cosce e i visceri gustati,

Minuti pezzi fer dell'altro corpo,

Che rivolgeano ed arrostìano infissi

Negli acuti schidoni. Policasta,

La minor figlia di Nestorre, intanto

Telemaco lavò, di bionda l'unse

Liquida oliva, e gli vestì una fina

Tunica e un ricco manto; ed egli emerse

Fuor del tepido bagno, agl'Immortali

Simile in volto, e a Nestorre avviossi,

Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.

Abbrostite le carni ed imbandite,

Sedeansi a banchettar: donzelli esperti

Sorgeano, e pronti di vermiglio vino

Ricolmavan le ciotole dell'oro.

Ma poiché spenti i naturali fûro

Della fame desiri e della sete,

Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:

"Miei figli, per Telemaco, su via,

I corridori dal leggiadro crine

Giungete sotto il cocchio". Immantinente

Quelli ubbidiro, e i corridor veloci

Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui

Candido pane e vin purpureo e dapi,

Quai costumano i re, di Giove alunni,

La veneranda dispensiera pose.

Telemaco salì, salì l'ornata

Biga con lui Pisistrato, di gente

Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie

Nella man tolte, con la sferza al corso

I cavalli eccitò, che alla campagna

Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi

Di Pilo s'abbassavano le torri.

Squassavano i destrier tutto quel giorno

Concordi il giogo ch'era lor sul collo.

Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:

E i due giovani a Fera, e alla magione

Di Diocle arrivàr, del prode figlio

Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi

Ebber tranquilli ed ospitali doni.

Ma come del mattin la bella figlia

Comparve in ciel con le rosate dita,

Aggiogaro i cavalli, e la fregiata

Biga salîro, e del vestibol fuori

La spinsero, e del portico sonante.

Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli

Lietamente volaro. I pingui campi,

Di ricca messe biondeggianti, indietro

Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci

Gli allenati destrier movean le gambe,

Che l'Itacense e il Pilïese al fine

Del vïaggio pervennero, che d'ombra,

Il sol caduto, si coprìa la terra.



LIBRO IV

Giunsero all'ampia, che tra i monti giace,

Nobile Sparta, e le regali case

Del glorïoso Menelao trovaro.

Questi del figlio e della figlia insieme

Festeggiava quel dì le doppie nozze,

E molti amici banchettava. L'una

Spedìa d'Achille al bellicoso figlio,

Cui promessa l'avea sott'Ilio un giorno,

Ed or compieano il maritaggio i numi:

Quindi cavalli e cocchi alla famosa

Cittade de' Mirmìdoni condurla

Doveano, e a Pirro che su lor regnava.

E alla figlia d'Alettore Spartano

L'altro, il gagliardo Megapente, unia,

Che d'una schiava sua tardi gli nacque:

Poiché ad Elèna gl'immortali dèi

Prole non concedean dopo la sola

D'amor degna Ermione, a cui dell'aurea

Venere la beltà splendea nel volto.

Così per l'alto spazïoso albergo

Rallegravansi, assisi a lauta mensa,

Di Menelao gli amici ed i vicini;

Mentre vate divin tra lor cantava,

L'argentea cetra percotendo, e due

Danzatori agilissimi nel mezzo

Contempravano al canto i dotti salti.

Nell'atrio intanto s'arrestaro i figli

Di Nestore e d'Ulisse. Eteonèo,

Un vigil servo del secondo Atride,

Primo adocchiolli, e con l'annunzio corse

De' popoli al pastore, ed all'orecchio

Gli sussurrò così: "Due forestieri

Nell'atrio, o Menelao, di Giove alunno,

Coppia d'eroi, che del Saturnio prole

Sembrano in vista. Or di': sciorre i cavalli

Dobbiamo, o i forestieri a un altro forse

Mandar de' Greci, che gli accolga e onori?"

D'ira infiammossi, e in cotal guisa il biondo

Menelao gli rispose: "O di Boète

Figliuolo, Eteonèo, tu non sentivi

Già dello scemo negli andati tempi,

E or sembri a me bamboleggiar co' detti.

Non ti sovvien quante ospitali mense

Spogliammo di vivande, anzi che posa

Qui trovassimo al fin, se pur vuol Giove

Privilegiar dopo cotante pene

La nostra ultima età? Sciogli i cavalli,

E al mio convito i forestier conduci".

Ratto fuor della stanza Eteonèo

Lanciossi; e tutti a sé gli altri chiamava

Fidi conservi. Distaccaro i forti

Di sotto il giogo corridor sudanti,

E al presepe gli avvinsero, spargendo

Vena soave di bianc'orzo mista,

E alla parete lucida il vergato

Cocchio appoggiâro. Indi per l'ampie stanze

Guidaro i novelli ospiti, che in giro

D'inusitata maraviglia carche

Le pupille movean: però che grande

Gettava luce, qual di Sole o Luna,

Del glorïoso Menelao la reggia.

Del piacer sazî, che per gli occhi entrava,

Nelle terse calâr tepide conche;

E come fur dalle pudiche ancelle

Lavati, di biond'olio unti e di molli

Tuniche cinti e di vellosi manti,

Si collocaro appo l'Atride. Quivi

Solerte ancella da bell'auro vaso

Nell'argenteo bacile un'onda pura

Versava, e stendea loro un liscio desco,

Su cui la saggia dispensiera i pani

Venne ad impor bianchissimi, e di pronte

Dapi serbate generosa copia;

E d'ogni sorta carni in larghi piatti

Recò l'abile scalco, e tazze d'oro.

Il re, stringendo ad ambidue la mano:

"Pasteggiate", lor disse, "ed alla gioia

Schiudete il cor: poscia, chi siete, udremo.

De' vostri padri non s'estinse il nome,

E da scettrati re voi discendete.

Piante cotali di radice vile,

Sia loco al vero, germogliar non ponno".

Detto così, l'abbrustolato tergo

Di pingue bue, che ad onor grande innanzi

Messo gli avean, d'in su la mensa tolse,

E innanzi il mise agli ospiti, che pronte

Steser le mani all'imbandita fera.

Ma de' cibi il desir pago e de' vini,

Telemaco, piegando in vêr l'amico,

Sì che altri udirlo non potesse, il capo,

Tale a lui favellò: "Mira, o diletto

Dell'alma mia, figlio di Nestor, come

Di rame, argento, avorio, elettro ed oro

L'echeggiante magion risplende intorno!

Sì fatta, io credo, è dell'Olimpio Giove

L'aula di dentro. Oh gl'infiniti oggetti!

Io maraviglio più, quanto più guardo".

L'intese il re di Sparta, e ad ambo disse:

"Figliuoli miei, chi gareggiar mai puote

De' mortali con Giove? Il suo palagio,

Ciò ch'ei dentro vi serba, eterno è tutto.

Quanto all'umana stirpe, altri mi vinca

Di beni, o ceda; io so che, molti affanni

Durati e molto navigato mare,

Queste ricchezze l'ottavo anno addussi.

Cipro, vagando, e la Fenicia io vidi,

E ai Sidonî, agli Egizî e agli Etïòpi

Giunsi, e agli Erembi, e in Libia, ove le agnelle

Figlian tre volte nel girar d'un anno,

E spuntan ratto a gli agnellin le corna;

Né signore o pastor giammai difetto

Di carne pate, o di rappreso latte,

Ridondando di latte ognora i vasi.

Mentr'io vagava qua e là, tesori

Raccogliendo, il fratello altri m'uccise

Di furto, all'improvvista, e per inganno

Della consorte maladetta: quindi

Non lieto io vivo a questi beni in grembo.

Voi, quai sieno, ed ovunque, i padri vostri,

Tanto dalla lor bocca udir doveste.

Che non soffersi? Ruinai dal fondo

Casa di ricchi arredi e d'agi colma;

Onde piacesse ai dèi che sol rimasta

Mi fosse in man delle tre parti l'una,

E spirasser le vive aure que' prodi

Che, lungi dalla verde Argo ferace,

Ne' lati campi d'Ilïòn perîro!

Tutti io li piango, e li sospiro tutti,

Standomi spesso ne' miei tetti assiso,

E or mi pasco di cure, or nuovamente

Piglio conforto; che non puote a lungo

Viver l'uom di tristezza, e al fin molesto

Torna quel pianto che fu in pria sì dolce.

Pure io di tutti in un così non m'ango,

E m'ango assai, come d'un sol che ingrato

Mi rende, ove a lui penso, il cibo e il sonno:

Poiché Greco nessuno in tutta l'oste

O il bene oprando, o sostenendo il male,

Pareggiò Ulisse. Ma dispose il fato

Ch'ei tormentasse d'ogni tempo, e ch'io

Mesti per sua cagion traessi i giorni,

Io, che nol veggio da tanti anni, e ignoro

Se viva, o morto giaccia. Il piange intanto

Laerte d'età pieno, e la prudente

Penelope e Telemaco, che il padre

Lasciò lattante ne' suoi dolci alberghi".

Disse; e di pianto subitana voglia

Risvegliossi in Telemaco, che a terra

Mandò lagrime giù dalle palpèbre,

Del padre udendo, ed il purpureo manto

Con le mani s'alzò dinanzi al volto.

Menelao ben comprese; e se a lui stesso

Lasciar nomare il padre, o interrogarlo

Dovesse pria, né serbar nulla in petto,

Sì e no tenzonavangli nel capo.

Mentre cosi fra due stava l'Atride,

Elena dall'eccelsa e profumata

Sua stanza venne con le fide ancelle,

Che Diana parea dall'arco d'oro.

Bel seggio Adrasta avvicinolle, Alcippe

Tappeto in man di molle lana, e Filo

Panier recava di forbito argento,

Don già d'Alcandra, della moglie illustre

Del fortunato Pòlibo, che i giorni

Nella ricca menava Egizia Tebe.

A Menelao due conche argentee, due

Trìpodi e dieci aurei talenti ei diede.

Ma la consorte ornar d'eletti doni

Elena volle a parte: una leggiadra

Conocchia d'ôr le porse, ed il paniere

Ritondo sotto, e di forbito argento,

Se non quanto le labbra oro guernìa.

Questo ricolmo di sudato stame

L'ancella Filo le recava, e sopra

Vi riposava la conocchia, a cui

Fini si ravvolgean purpurei velli.

Ella raccolta nel suo seggio, e posti

Sul polito sgabello i molli piedi,

Con questi accenti a Menelao si volse:

"Sappiam noi, Menelao di Giove alunno,

Chi siano i due che ai nostri tetti entraro?

Parlar m'è forza, il vero o il falso io dica:

Però ch'io mai non vidi, e grande tiemmi

Nel veder maraviglia, uomo né donna

Così altrui somigliar, come d'Ulisse

somigliar dee questo garzone al figlio,

Ch'era bambino ancor, quando per colpa

Ahi! di me svergognata, o Greci, a Troia

Giste, accendendo una sì orrenda guerra".

Tosto l'Atride dalla bionda chioma:

"Ciò che a te, donna, a me pur sembra. Quelle

Son d'Ulisse le mani, i piè son quelli,

E il lanciar degli sguardi, e il capo e il crine.

Io, l'Itacese rammentando, i molti

Dicea disagi ch'ei per me sostenne;

E il giovane piovea lagrime amare

Giù per le guance, e col purpureo manto,

Che alzò ad ambe le man, gli occhi celava".

E Pisistrato allor: "Nato d'Atrèo,

Di Giove alunno, condottier d'armati,

Eccoti appunto di quel grande il figlio.

Ma verecondo per natura, e giunto

Novellamente, gli parrebbe indegno

Te delle voci tue fermar nel corso,

Te, di cui, qual d'un dio, ci beano i detti.

Nestore, il vecchio genitor, compagno

Mi fece a lui, che rimirarti in faccia

Bramava forte, onde poter dell'opra

Giovarsi, o almen del tuo consiglio. Tutti

Que' guai che un figliuol soffre, a cui lontano

Dimora il padre, né d'altronde giunge

Sussidio alcun, Telemaco li prova.

Il genitor gli falla, e non gli resta

Chi dal suo fianco la sciagura scacci".

"Numi!" riprese il re dai biondi crini,

"Tra le mie stesse mura il figlio adunque

D'uomo io veggio amicissimo, che sempre

Per me s'espose ad ogni rischio? Ulisse

Ricettare io pensava entro i miei regni,

Io carezzarlo sovra tutti i Greci,

Se ad ambo ritornar su i cavi legni

L'Olimpio dava onniveggente Giove.

Una io cedere a lui delle vicine

Volea cittade Argive, ov'io comando,

E lui chiamar, che dai nativi sassi

D'Itaca in quella mia, ch'io prima avrei

D'uomini vôta e di novelli ornata

Muri e palagi, ad abitar venisse

Col figlio, le sostanze e il popol tutto.

Così, vivendo sotto un cielo, e spesso

L'un l'altro visitando, avremmo i dolci

Frutti raccolti d'amistà sì fida,

Né l'un dall'altro si sarìa disgiunto

Che steso non si fosse il negro velo

Di morte sovra noi. Ma un tanto bene

Giove c'invidïò, cui del ritorno

Piacque fraudar quell'infelice solo".

Sorse in ciascuno a tai parole un vivo

Di lagrime desïo. Piangea la figlia

Di Giove, l'Argiva Elena, piangea

D'Ulisse il figlio ed il secondo Atride,

Né asciutte avea Pisistrato le guance,

Che il fratello incolpabile, cui morte

Diè dell'Aurora la famosa prole,

Tra sé membrava, e che tai detti sciolse:

"Atride, il vecchio Nestore mio padre

Te di prudenza singolar lodava,

Sempre che in mezzo al ragionare alterno

Il tuo nome venìa. Fa', se di tanto

Pregarti io posso, oggi a mio senno. Poco

Me dilettan le lagrime tra i nappi.

Ma del mattin la figlia il nuovo giorno

Ricondurrà; né mi fia grave allora

Pianger chïunque al suo destin soggiacque;

Ché solo un tale onore agl'infelici

Defunti avanza, che altri il crin si tronchi,

E alle lagrime giuste allarghi il freno.

Anco a me tolse la rea Parca un frate,

Che l'ultimo non fu dell'oste Greca.

Tu il sai, che il conoscesti. Io né vederlo

Potei, né a lui parlar: ma udii che Antiloco

Su tutti si mostrò gli emuli suoi

Veloce al corso, e di sua man gagliardo.

E Menelao dai capei biondi: Amico,

L'uom più assennato e in più matura etade,

Che non è questa tua, né pensamenti

Diversi avrìa, né detti; e ben si pare

Agli uni e agli altri da chi tu nascesti.

Ratto la prole d'un eroe si scorge,

Cui del natale al giorno, e delle nozze

Destinò Giove un fortunato corso,

Come al Nelìde, che invecchiare ottenne

Nel suo palagio mollemente, e saggi

Figli mirar, non che dell'asta dotti.

Dunque, sbandito dalle ciglia il pianto,

Si ripensi alla cena, e un'altra volta

La pura su le mani onda si sparga.

Sermoni alterni anche al novello sole

Fra Telemaco e me correr potranno".

Disse; ed Asfalïone, un servo attento,

Spargea su le man l'onda, e i convitati

Nuovamente cibavansi. Ma in altro

Pensiero allora Elena entrò. Nel dolce

Vino, di cui bevean, farmaco infuse

Contrario al pianto e all'ira, e che l'obblìo

Seco inducea d'ogni travaglio e cura.

Chïunque misto col vermiglio umore

Nel seno il ricevé, tutto quel giorno

Lagrime non gli scorrono dal volto,

Non, se la madre o il genitor perduto,

Non, se visto con gli occhi a sé davante

Figlio avesse o fratel di spada ucciso.

Cotai la figlia dell'Olimpio Giove

Farmachi insigni possedea, che in dono

Ebbe da Polidamna, dalla moglie

Di Tone nell'Egitto, ove possenti

Succhi diversi la feconda terra

Produce, quai salubri e quai mortali;

Ed ove, più che i medicanti altrove,

Tutti san del guarir l'arte divina,

Siccome gente da Peòn discesa.

Il nepente già infuso, e a' servi imposto

Versar dall'urne nelle tazze il vino,

Ella così parlò: "Figlio d'Atrèo,

E voi, d'eroi progenie, i beni e i mali

Manda dall'alto alternamente a ognuno

L'onnipossente Giove. Or pasteggiate

Nella magione assisi, e de' sermoni

Piacer prendete in pasteggiando, mentre

Cose io racconto, che saranno a tempo.

Non già ch'io tutte le fatiche illustri

Ricordar sol del pazïente Ulisse

Possa, non che narrarle: una io ne scelgo,

Che a Troia, onde gran duol venne agli Argivi,

L'uom forte imprese e a fin condusse. Il corpo

Di sconce piaghe afflisse, in rozzi panni

S'avvolse, e penetrò nella nemica

Cittade, occulto e di mendìco e schiavo

Le sembianze portando, ei che de' Greci

Sì diverso apparìa lungo le navi.

Tal si gittò nella Troiana terra,

Né conoscealo alcuno. Io fui la sola

Che il ravvisai sotto l'estranie forme,

E tentando l'andava; ed ei pur sempre

Da me schermìasi con l'usato ingegno.

Ma come asperso d'onda, unto d'oliva

L'ebbi, e di veste cinto, ed affidato

Con giuramento, che ai Troiani primo

Non manifesterei, che alle veloci

Navi non fosse, ed alle tende giunto,

Tutta ei m'aperse degli Achei la mente.

Quindi, passati con acuta spada

Molti petti nemici, all'oste Argiva

Col vanto si rendé d'alta scaltrezza.

Stridi mettean le donne Iliache ed urli:

Ma io gioìa tra me; ché gli occhi a Sparta

Già rivolgeansi e il core, e da me il fallo

Si piagneva, in cui Venere mi spinse,

Quando staccommi dalla mia contrada,

Dalla dolce figliuola, e dal pudìco

Talamo e da un consorte, a cui, saggezza

Si domandi o beltà, nulla mancava.

"Tutto", l'Atride dalla cròcea chioma,

"Dicesti, o donna, giustamente. Io terra

Molta trascorsi, e penetrai col guardo

Di molti eroi nel sen: ma pari a quella

Del pazïente Ulisse alma io non vidi.

Quel che oprò, basti, e che sostenne in grembo

Del cavallo intagliato, ove sedea,

Strage portando ad Ilio, il fior de' Greci.

Sospinta, io credo, da un avverso nume,

Cui la gloria de' Teucri a core stava,

Là tu giungesti, e uguale a un dio nel volto

Su l'orme tue Deïfobo venìa.

Ben tre fiate al cavo agguato intorno

T'aggirasti; e il palpavi, e a nome i primi

Chiamavi degli Achei, contraffacendo

Delle lor donne le diverse voci.

Nel mezzo assisi io, Diomede e Ulisse

Chiamar ci udimmo; e il buon Tidìde ed io

Ci alzammo, e di scoppiar fuor del cavallo,

O dar risposta dal profondo ventre,

Ambo presti eravam: ma nol permise,

E, benché ardenti, ci contenne Ulisse.

Taceasi ogni altro, fuorché il solo Anticlo,

Che risponder voleati, e Ulisse tosto

La bocca gli calcò con le robuste

Mani inchiodate, né cessò, che altrove

Te rimenato non avesse Palla.

Sì di tutta la Grecia ei fu salute".

"E ciò la doglia, o Menelao, m'accresce",

Ripigliava il garzone. "A che gli valse

Tanta virtù se non potea da morte

Difenderlo, non che altro, un cor di ferro?

Ma deh! piacciavi omai che ritroviamo

Dove posarci, acciò su noi del sonno

La dolcezza ineffabile discenda".

Sì disse; e l'Argiva Elena all'ancelle

I letti apparecchiar sotto la loggia,

Belle gittarvi porporine coltri,

E tappeti distendervi, e ai tappeti

Manti vellosi sovrapporre, ingiunse.

Quelle, tenendo in man lucide faci,

Usciro, e i letti apparecchiaro: innanzi

Movea l'araldo, e gli ospiti guidava.

Così nell'atrio s'adagiaro entrambi:

Nel più interno corcavasi l'Atride,

E la divina tra le donne Elèna

Il sinuoso peplo, ond'era cinta,

Depose, e giacque del consorte a lato.

Ma come del mattin la bella figlia

Rabbellì il ciel con le rosate dita,

Menelao sorse, rivestissi, appese

Per lo pendaglio all'omero la spada,

E i bei calzar sotto i piè molli avvinse:

Poi, somigliante nell'aspetto a un nume,

Lasciò la stanza rapido, e s'assise

Di Telemaco al fianco; e: "Qual", gli disse,

"Cagione a Sparta, su l'immenso tergo

Del negro mar, Telemaco, t'addusse?

Pubblico affare, o tuo? Schietto favella".

E in risposta il garzon: "Nato d'Atrèo,

Per risaper del genitore io venni.

In dileguo ne van tutti i miei beni,

Colpa una gente nequitosa e audace,

Che gli armenti divorami e le gregge,

E ingombra sempre il mio palagio, e anela

Della madre alle nozze. Io quindi abbraccio

Le tue ginocchia, e da te udir m'aspetto,

O visto, o su le labbra inteso l'abbi

D'un qualche vïandante, il triste fine

Del padre mio, che sventurato assai

Della sua genitrice uscì dal grembo.

Né timore o pietà così t'assalga,

Che del ver parte ti rimanga in core.

Venne mai dal mio padre in opra o in detto,

Bene o comodo a te, là ne' Troiani

Campi del sangue della Grecia tinti?

Ecco di rimembrarlo, Atride, il tempo".

Trasse il Monarca, dai capei di croco,

Un profondo sospiro, e: "Ohimè", rispose,

"Volean d'un eroe dunque uomini imbelli

Giacer nel letto? Qual se incauta cerva

I cerbiatti suoi teneri e lattanti

Deposti in tana di leon feroce,

Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose

Valli profonde; e quel feroce intanto

Riede alla sua caverna, e morte ai figli

Porta, e alla madre ancor: non altrimenti

Porterà morte ai concorrenti Ulisse.

E oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,

Che qual si levò un dì contra il superbo

Filomelìde nella forte Lesbo,

E tra le lodi degli Achivi a terra

Con mano invitta, lotteggiando, il pose,

Tal costoro affrontasse! Amare nozze

Foran le loro, e la lor vita un punto.

Quanto a ciò che mi chiedi, io tutte intendo

Schiettamente narrarti, e senza inganno,

Le arcane cose ch'io da Proteo appresi,

Dal marino vecchion, che mai non mente.

Me, che alla patria ritornar bramava,

Presso l'Egitto ritenean gli dèi,

Perché onorati io non gli avea di sacre

Ecatombi legittime; ché sempre

L'oblio de' lor precetti i numi offese.

Giace contra l'Egitto e all'onde in mezzo

Un'isoletta che s'appella Faro,

Tanto lontana, quanto correr puote,

Per un intero dì concavo legno,

Cui stridulo da poppa il vento spiri.

Porto acconcio vi s'apre, onde il nocchiero,

Poscia che l'acqua non salata attinse,

Facilmente nel mar vara la nave.

Là venti dì mi ritenean gli dèi:

Né delle navi i condottieri amici

Comparver mai su per l'azzurro piano,

Le immobili acque ad increspar col fiato.

E già con le vivande anco gli spirti

Per fermo ci fallìan, se una dea, fatta

Di me pietosa, non m'aprìa lo scampo.

Idotèa, del marin vecchio la figlia,

Cui fieramente in sen l'alma io commossi,

Occorse a me, che solitario errava,

Mentre i compagni dalla fame stretti

Giravan l'isoletta, ed i ricurvi

Ami gettavan qua e là nell'onde.

"Forestier", disse, come fu vicina,

"Sei tu del senno e del giudicio in bando,

O degli affanni tuoi prendi diletto,

Che così, a un ozio volontario in preda,

Nell'isola t'indugi, e via non trovi

D'uscirne mai? Langue frattanto il core

De' tuoi compagni, e si consuma indarno".

"O qual tu sii delle immortali Dive,

Credi", io le rispondea, "che da me venga

Così lungo indugiar? Vien dai beati,

Del vasto cielo abitatori eterni,

Ch'io temo aver non leggiermente offesi.

Deh, poiché nulla si nasconde ai numi,

Dimmi, qual è di lor che qui m'arresta,

E il mar pescoso mi rinserra intorno".

E repente la dea: "Forestier, nulla

Celarti io ti prometto. Il non bugiardo

Soggiorna in queste parti Egizio veglio,

L'immortal PrOteo, mio creduto padre,

Che i fondi tutti del gran mar conosce,

E obbedisce a Nettuno. Ei del vIaggio

Ti mostrerà le strade, e del ritorno,

Dove, stando in agguato, insignorirti

Di lui tu possa. E quello ancor, se il brami,

Saprai da lui, che di felice o avverso

Nella casa t'entrò, finché lontano

Per vie ne andavi perigliose e lunghe".

"Ma tu gli agguati", io replicai, "m'insegna,

Ond'io così improvviso a Proteo arrivi,

Ch'ei non mi sfugga dalle mani. Un nume

Difficilmente da un mortal si doma".

"Questo avrai pur da me", la dea riprese.

Come salito a mezzo cielo è il sole,

S'alza il vecchio divin dal cupo fondo,

E uscito dalla bruna onda, che il vento

Occidentale increspagli sul capo,

S'adagia entro i suoi cavi antri, e s'addorme

E spesse a lui dormon le foche intorno,

Deforme razza di Alosidna bella,

Già pria dell'onda uscite, e il grave odore

Lunge spiranti del profondo mare.

Io te là guiderò, te acconciamente

Collocherò, ratto che il dì s'inalbi:

Ma di quanti compagni appo la nave

Ti sono, eleggi i tre che più tu lodi.

Ecco le usanze del vegliardo, e l'arti:

Pria noverar le foche a cinque a cinque,

Visitandole tutte; indi nel mezzo

Corcarsi anch'ei, quasi pastor tra il gregge.

Vistogli appena nelle ciglia il sonno,

Ricordatevi allor sol della forza,

E lui, che molto si dibatte e tenta

Guizzarvi delle man, fermo tenete.

Ei d'ogni belva che la terra pasce,

Vestirà le sembianze, e in acqua e in foco

Si cangerà di portentoso ardore;

E voi gli fate delle braccia nodi

Sempre più indissolubili e tenaci.

Ma quando interrogarti al fin l'udrai,

Tal mostrandosi a te, quale sdraiossi,

Tu cessa, o prode, dalla forza, e il vecchio

Sciogli, e sappi da lui chi è tra i numi,

Che ti contende la natìa contrada".

Disse, e nelle fiottanti onde s'immerse.

Io, combattuto da pensier diversi,

Colà n'andai, dove giacean del mare

Su la sabbia le navi, a cui da presso

La cena in fretta s'apprestò. Sorvenne

La prezïosa notte, e noi sul lido

Ci addormentammo al mormorìo dell'acque.

Ma poiché del mattin la bella figlia

Consperse il ciel d'orïentali rose,

Lungo il lido io movea, molto ai celesti

Pregando, e i tre, nel cui valor per tutte

Le men facili imprese io più fidava,

Conducea meco. La deessa intanto

Dal seno ampio del mare, in ch'era entrata,

Quattro pelli recò, del corpo tratte

Novellamente di altrettante foche;

E tramava con esse inganno al padre.

Scavò quattro covili entro l'arena:

Quindi s'assise e ci attendea. Noi presso

Ci femmo a lei, che subito levossi,

E noi dispose ne' scavati letti,

E i cuoi recenti ne addossò. Moleste

Le insidie ivi tornavano; ché troppo

Noiava delle foche in mar nutrite

L'orrendo puzzo. E chi a marina belva

Può giacersi vicin? Se non che al nostro

Stato provvide la cortese diva,

Che ambrosia, onde spirava alma fragranza,

Venneci a por sotto le afflitte nari,

Cui del mar più non giunse il grave odore.

Tutto il mattino aspettavam con alma

Forte e costante. Le deformi foche

Dell'onde usciro in frotta, e a mano a mano

Tutte si distendevano sul lido.

Uscìo sul mezzogiorno il gran vegliardo

E trovò foche corpulente e grasse,

Che attento annoverò. Contò noi prima,

Né di frode parea nutrir sospetto.

Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque.

Ci avventammo con grida, e le robuste

Braccia al vecchio divin gittammo intorno,

Che l'arti sue non obliò in quel punto.

Leone apparve di gran giubba, e in drago

Voltossi, ed in pantera, e in verro enorme,

E corse in onda liquida, e in sublime

Pianta chiomata verdeggiò. Ma noi

Il tenevam fermo più sempre. Allora

L'astuto veglio, che nel petto stanco

Troppo sentiasi omai stringer lo spirto,

Con queste voci interrogommi: "Atride,

Qual fu de' numi che d'insidiarmi

Ti diè il consiglio, e di pigliarmi a forza?

Di che mestieri hai tu? "Proteo", io risposi,

"Tu il sai. Perché il dimandi, e ancor t'infingi?

Sai che gran tempo l'isoletta tiemmi,

Che scampo quinci io non ritrovo, e sento

Distruggermisi il core. Ah! dimmi, quando

Nulla celasi ai dèi, chi degli Eterni

M'inceppa e mi rinchiude il mare intorno".

"Non dovevi salpar", riprese il dio,

"Che onorato pria Giove e gli altri numi

Di sagrifici non avessi opimi,

Se in breve al natìo suol giungere ardevi.

Or la tua patria, degli amici il volto,

E la magion ben fabbricata il fato

Riveder non ti dà, dove tu prima

Del fiume Egitto, che da Giove scende,

Non risaluti la corrente, e porgi

Ecatombe perfette ai dii beati,

Che il bramato da te mar t'apriranno".

A tai parole mi s'infranse il core,

Udendo che d'Egitto in su le rive

Ricondurmi io dovea per gli atri flutti,

Lunga e difficil via. Pur dissi: "Vecchio,

Ciò tutto io compierò. Ma or rispondi,

Ti priego, a questo, e schiettamente parla:

Salvi tornaro co' veloci legni

Tutti gli Achivi che lasciammo addietro,

Partendo d'Ilïòn, Nestore ed io?

O perì alcun d'inopinata morte

Nella sua nave, o ai cari amici in grembo,

Posate l'armi, per cui Troia cadde?"

"Atride", ei replicò, perché tal cosa

Mi cerchi tu? Quel ch'io nell'alma chiudo,

Saper non fa per te, cui senza pianto,

Tosto che a te palese il tutto fia,

Non rimarrà lunga stagione il ciglio.

Molti colpì l'inesorabil Parca,

E molti non toccò. Due soli duci

De' vestiti di rame Achei guerrieri

Moriro nel ritorno; e, ritenuto

Del vasto mar nel seno, un terzo vive;

Aiace ai legni suoi dai lunghi remi

Perì vicino. Dilivrato in prima

Dall'onde grosse, e su gli enormi assiso

Girèi macigni, a cui Nettun lo spinse,

Potea scampar, benché a Minerva in ira,

Se non gli uscìa di bocca un orgoglioso

Motto che assai gli nocque. Osò vantarsi

Che, in dispetto agli déi, vincer del mare

Le tempeste varrìa. Nettuno udillo

Borïante in tal guisa, e col tridente,

Che in man di botto si piantò, percosse

La Girèa pietra, e in due spezzolla: l'una

Colà restava, e l'altra, ove sedea

Della percossa travagliato il Duce,

Si rovesciò nel pelago, e il portava

Pel burrascoso mare, in cui, bevuta

Molta salsa onda, egli perdeo la vita.

Il tuo fratello, col favor di Giuno,

Morte sfuggì nella cavata nave.

Ma come avvicinossi all'arduo capo

Della Malèa, fiera tempesta il colse,

E tra profondi gemiti portollo

Sino al confin della campagna, dove

Tieste un giorno, e allora Egisto, il figlio

Di Tieste, abitava. E quinci ancora

Parea sicuro il ritornar; ché i numi

Voltàr subito il vento, e in porto entraro

Gli stanchi legni. Agamennòn di gioia

Colmo gittossi nella patria terra,

E toccò appena la sua dolce terra,

Che a baciarla chinossi, e per la guancia

Molte gli discorrean lagrime calde,

Perché la terra sua con gioia vide.

Ma il discoprì da una scoscesa cima

L'esplorator, che il fraudolento Egisto

Con promessa di due talenti d'oro

Piantato aveavi. Ei, che spïando stava

Dall'eccelsa veletta un anno intero

Non trapassasse ignoto, e forse a guerra

Intalentato il tuo fratello, corse

Con l'annunzio al signor, che un'empia frode

Repente ordì. Venti, e i più forti, elesse:

E in agguato li mise, e imbandir feo

Mensa festiva: indi a invitar con pompa

Di cavalli e di cocchi andò l'Atride,

Cose orrende pensando, e il ricondusse;

E, accolto a mensa, lo scannò qual toro,

Cui scende su la testa, innanzi al pieno

Presepe suo, l'inaspettata scure.

Non visse d'Agamènnone o d'Egisto

Solo un compagno, ma di tutti corse

Confuso e misto nel palagio il sangue".

E a me schiantossi il core a queste voci.

Pianto io versava, su l'arena steso,

Né più mirar del sol volea la luce.

Ma come di plorar, di voltolarmi

Sovra il nudo terren sazio gli parvi,

Tal seguitava il non mendace vecchio:

"Resta, o figlio d'Atrèo, dall'infinite

Lagrime per un mal che omai compenso

Non pate alcuno, e t'argomenta in vece,

Più veloce che puoi, riedere in Argo.

Troverai vivo ne' suoi tetti Egisto,

O l'avrà poco dianzi Oreste ucciso,

E tu al funèbre assisterai banchetto".

Disse, e di gioia un improvviso raggio

Nel mio cor balenava. "Io già d'Aiace",

Risposi, "e del fratello assai compresi.

Chi è quel terzo che il suo reo destino

Vivo nel sen del mare, o estinto forse

Ritiene? Io d'udir temo e bramo a un tempo".

E nuovamente il non bugiardo veglio:

"D'Itaca il re, che di Laerte nacque.

Costui dirotto dalle ciglia il pianto

Spargere io vidi in solitario scoglio,

Soggiorno di Calipso, inclita ninfa,

Che rimandarlo niega: ond'ei, cui solo

Non avanza un naviglio, e non compagni

Che il trasportin del mare su l'ampio dorso.

Star gli convien dalla sua patria in bando.

Ma tu, tu, Menelao, di Giove alunno,

Chiuder gli occhi non dèi nella nutrice

Di cavalli Argo; ché non vuole il fato.

Te nell'Elisio campo, ed ai confini

Manderan della terra i numi eterni,

Là 've risiede Radamanto, e scorre

Senza cura o pensiero all'uom la vita.

Neve non mai, non lungo verno o pioggia

Regna colà; ma di Favonio il dolce

Fiato, che sempre l'Oceàno invia,

Que' fortunati abitator rinfresca.

Perché ad Elena sposo, e a Giove stesso

Genero sei, tal sortirai ventura.

Tacque, e saltò nel mare, e il mar l'ascose.

Io, da vari pensier l'alma turbato,

Movea co' prodi amici in vêr le navi.

La cena s'apprestò. Cadde la notte,

Dell'uom ristoratrice, e noi del mare

Ci addormentammo sul tranquillo lido.

Ma del mattin la figlia ebbe consperso

Di rose orïentali appena il cielo,

Che nel divino mar varammo i legni,

D'uguali sponde armati, e con le vele

Gli alberi alzammo: entrâro, e sovra i banchi

I compagni sedettero, ed assisi

Co' remi percotean l'onde spumose

Del fiume Egitto, che da Giove scende.

Un'altra volta all'abborrita foce

Io fermai le mie navi, e giuste ai numi

Vittime offersi, e ne placai lo sdegno.

Eressi anco al german tomba, che vivo

In quelle parti ne serbasse il nome.

Dopo ciò, rimbarcàimi, e con un vento

Che mi ferìa dirittamente in poppa,

Pervenni, folgorando, ai porti miei.

Or, Telemaco, via, tanto ti piaccia

Rimaner, che l'undecima riluca

Nell'orïente, o la duodecim'alba.

Io ti prometto congedarti allora

Con doni eletti: tre destrieri e un vago

Cocchio, ed inoltre una leggiadra tazza

Da libare ai celesti, acciò non sorga

Giorno che il tuo pensiero a me non torni".

Il prudente Telemaco rispose:

"Gran tempo qui non ritenermi, Atride.

Non che a me non giovasse un anno intero,

La patria e i miei quasi obblïando, teco

Queste case abitar, ché alla tua voce

L'alma di gioia ricercarmi io sento.

Ma già muoion di tedio i miei compagni

Nell'alta Pilo; e tu m'arresti troppo.

Qualsiasi il don di che mi vuoi far lieto,

Un picciol sia tuo prezïoso arnese.

Ad Itaca i destrieri addur non penso;

Penso lasciarli a te, bello de' tuoi

Regni ornamento: perocché signore

Tu sei d'ampie campagne, ove fiorisce

Loto e cipéro, ove frumenti e spelde,

Ove il bianc'orzo d'ogni parte alligna.

Ma non larghe carriere, e non aperti

Prati in Itaca vedi: è di caprette

Buona nutrice, e a me di ver più grata,

Che se cavalli nobili allevasse.

Nulla del nostro mare isola in verdi

Piani si stende, onde allevar destrieri;

E men dell'altre ancora Itaca mia".

Sorrise il forte ne' conflitti Atride,

E la mano a Telemaco stringendo:

"Sei", disse, "o figlio, di buon sangue, e a questa

Tua favella il dimostri. Ebbene, i doni

Ti cambierò: farlo poss'io. Di quanto

La mia reggia contien, ciò darti io voglio,

Che più mi sembra prezïoso e raro:

Grande urna effigïata, argento tutta,

Dai labbri in fuor, sovra cui l'oro splende,

Di Vulcano fattura. Io dall'egregio

Fèdimo, re di Sidone, un dì l'ebbi,

Quando il palagio suo me, che di Troia

Venìa, raccolse; e tu n'andrai con questa.

Così tra lor si ragionava. Intanto

Dell'Atride i ministri al suo palagio

Conducean pingui pecorelle, e vino

Di coraggio dator, mentre le loro

Consorti il capo di bei veli adorne

Candido pan recavano. In tal guisa

Si mettea qui l'alto convivio in punto.

Ma in altra parte, e alla magion davante

Del magnanimo Ulisse, i proci alteri

Dischi lanciavan per diletto, e dardi

Sul pavimento lavorato e terso,

Della baldanza lor solito campo.

Solo i due capi, che di forza e ardire

Tutti vinceano, il pari in volto ai numi

Eurimaco ed Antìnoo, erano assisi.

S'accostò loro, ed al secondo volse

Di Fronio il figlio, Noemòn, tai detti:

"Antinoo, il dì lice saper, che rieda

Telemaco da Pilo? Ei dipartissi,

Con la mia nave che or verrìami ad uopo,

Per tragittar nell'Elide, ove sei

Pasconmi e sei cavalle, ed altrettanti

Muli non domi, che lor dietro vanno,

E di cui, razza faticante, alcuno

Rimenar bramo e accostumarlo al giogo".

Stupìano i prenci che ne' suoi poderi

De' montoni al custode, o a quel de' verri

Trapassato il credeano, e non al saggio

Figliuol di Neleo nell'eccelsa Pilo.

"Quando si dipartì?" rispose il figlio

D'Eupìte, Antinoo. "E chi seguillo? Scelti

Giovani forse d'Itaca, o gli stessi

Suoi mercenari e schiavi? E osava tanto?

Schietto favella. Saper voglio ancora,

Se a mal cuor ti lasciasti il legno tôrre,

O a lui, che tel chiedea, di grado il desti".

"Il diedi a lui, che mel chiedea, di grado",

Noemón ripigliò. "Chi potea mai

Con sì nobil garzone e sì infelice

Stare in sul niego? Gioventù seguillo

Della miglior tra il popolo Itacese,

E condottier salìa la negra nave

Mentore, o un dio che ne vestìa l'aspetto.

E maraviglio io ben ch'ieri sull'alba

Mentore io scôrsi. Or come allor la negra

Nave salì, che veleggiava a Pilo?"

Disse, e del padre alla magion si rese.

Atterriti rimasero. Cessâro

Gli altri da' giuochi, e s'adagiaro anch'essi,

E a tutti favellò d'Eupìte il figlio:

[Se gli gonfiava della furia il core

Di caligine cinto, e le pupille

Nella fronte gli ardean come due fiamme.]

"Grande per fermo e audace impresa è questo,

Cui già nessun di noi fede prestava,

Vïaggio di Telemaco! Un garzone,

Un fanciullo gittar nave nel mare,

Di tanti uomini ad onta, e aprire al vento

Con la più scelta gioventù le vele?

Né il male qui s'arresta: ma Giove

A Telemaco pria franga ogni possa,

Che una tal piaga dilatarsi io veggia.

Su, via, rapida nave e venti remi

A me, sì ch'io lo apposti, e al suo ritorno

Nel golfo, che divide Itaca e Same,

Colgalo; e il folle con suo danno impari

L'onde a stancar del genitore in traccia".

Così Antinoo parlò. Lodi e conforti

Gli davan tutti: indi sorgeano, e il piede

Nell'alte stanze riponean d'Ulisse.

Ma de' consigli che nutrìano in mente,

Penelope non fu gran tempo ignara.

Ne la feo dotta il banditor Medonte,

Che udìa di fuori la consulta iniqua,

E agli orecchi di lei pronto recolla.

Ella nol vide oltrepassar la soglia,

Che sì gli disse: "Araldo, onde tal fretta?

Ed a che i proci ti mandâro? Forse

Perché d'Ulisse le solerti ancelle

Dai lavori si levino, e l'usato

Convito apprestin loro? O fosse questo

De' conviti l'estremo, e a me travaglio

Più non desser, né altrui! Tristi! che, tutto

Del prudente Telemaco il retaggio

Per disertar, vi radunate in folla.

E non udiste voi da' vostri padri,

Mentr'eravate piccioletti e imberbi,

I modi che tenea con loro Ulisse,

Nessuno in opre molestando, o in detti,

Costume pur degli uomini scettrati,

Che odio portano agli uni, e agli altri amore?

Non offese alcun mai: quindi l'indegno

Vostro adoprar meglio si pare, e il merto

Che di tanti favor voi gli rendete".

Ed il saggio Medonte: "Ai dèi piacesse

Che questo il peggior mal, reina, fosse!

Altro dai proci se ne cova in petto

Più grave assai, che Giove sperda: il caro

Figlio, che a Pilo sacra, e alla divina

Sparta si volse, per ritrar del padre,

Ucciderti di spada al suo ritorno".

Penelope infelice, a tali accenti

Scioglier sentissi le ginocchia e il core.

Per lungo spazio la voce mancolle,

Gli occhi di pianto le s'empièr, distinta

Non poteale dai labbri uscir parola:

Rispose al fine: "Araldo, e perché il figlio

Da me staccossi? Qual cagion, qual forza

Sospingealo a salir le ratte navi,

Che destrieri del mar sono, e l'immensa

Varcano umidità? Brama egli dunque

Che né resti di sé nel mondo il nome?"

"Qual de' due spinto", il banditor riprese,

"L'abbia sul mare, a domandar del padre,

Se la propria sua voglia, o un qualche nume,

Reina, ignoro". E sovra l'orme sue

Ritornò, così detto, il fido araldo.

Fiera del petto roditrice doglia

Penelope ingombrò; né, perché molti

Fossero i seggi, le bastava il core

Di posare in alcun; sedea sul nudo

Limitar della stanza, acuti lai

Mettendo; e quante la servìano ancelle,

Sì da canuta età, come di bionda,

Ululavano a lei d'intorno tutte.

Ed ella, forte lagrimando: "Amiche,

Uditemi", dicea. "Tra quante donne

Nacquero e crebber meco, ambasce tali

Chi giammai tollerò? Prima un egregio

Sposo io perdei, d'invitto cor, fregiato

D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome

Per l'Ellada risuona, e tutta l' Argo.

Poi le tempeste m'involaro il dolce

Mio parto, in fama non ancor salito,

E del vïaggio suo nulla io conobbi.

Sciaurate! eravi pur l'istante noto,

Ch'ei nella cava entrò rapida nave:

Né di voi fu, cui suggerisse il core

Di scuotermi dal sonno? Ov'io la fuga

Potuto avessi presentirne, certo

Da me, benché a fatica, ei non partìa,

O me lasciava nel palagio estinta.

Ma dei serventi alcun tosto mi chiami

L'antico Dolio, schiavo mio, che dato

Fummi dal genitor, quand'io qua venni,

Ed or le piante del giardin m'ha in cura.

Vo' che a Laerte corra, e il tutto narri,

Sedendosi appo lui, se mai Laerte,

Di pianto aspersa la senil sua guancia,

Mostrar credesse al popolo, e lagnarsi

Di color che schiantar l'unico ramo

Di lui vorrìano, e del divino Ulisse".

E la diletta qui balia Euriclèa:

"Sposa cara", rispose, "o tu m'uccida,

O nelle stanze tue viva mi serbi,

Parlerò aperto. Il tutto io seppi, e al figlio

Le candide farine e il rosso vino

Consegnai: ma giurar col giuramento

Più sacro io gli dovei, che ove agli orecchi

Non ti giugnesse della sua partenza

Aura d'altronde, e tu men richiedessi,

Io tacerei, finché spuntasse in cielo

La dodicesim'aurora, onde col pianto

Da te non s'oltraggiasse il tuo bel corpo.

Su via, ti bagna, e bianca veste prendi,

E, con le ancelle tue nell'alto ascesa,

Priega Minerva che il figliuol ti guardi:

Né affligger più con imbasciate il veglio

Già per sé afflitto assai. No, tanto ai numi

Non è d'Arcesio la progenie in ira,

Che un germe viver non ne debba, a cui

Queste muraglie sorgano, e i remoti

Si ricuopran di messe allegri campi".

Con queste voci le sopì nel petto

La doglia, e il pianto le arrestò sul ciglio

Ella bagnossi, bianca veste prese,

E, con le ancelle sue, nell'alto ascesa,

Pose il sacr'orzo nel canestro e il sale,

E a Palla supplicò. "M'ascolta", disse,

"O dell'Egìoco Giove inclita figlia.

Se il mio consorte ne' paterni tetti

Pingui d'agna o di bue cosce mai t'arse,

Oggi per me ten risovvenga: il figlio

Guardami, e sgombra dal palagio i proci,

Di cui, più ciascun dì monta l'orgoglio".

Scoppiò in un grido dopo tai parole,

E l'Atenèa Minerva il priego accolse.

Tumulto fean sotto le oscure volte

Coloro intanto, e alcun dicea: "La molto

Vagheggiata Reina omai le nozze

Ci appresta, e ignora che al suo figlio morte

S'apparecchia da noi". Tanto dal vero

Quelle superbe menti ivan lontane.

Ed Antinoo: "Sciaurati, il dire incauto,

Che potrìa dentro penetrar, frenate.

Ma che più badiam noi? Tacitamente

Quel che tutti approvar mettiamo in opra.

Ciò detto, venti scelse uomini egregi,

Ed al mare avvïossi. Il negro legno

Varâro, alzaro l'albero, assettaro

Gli abili remi in volgitoi di cuoio,

E le candide vele ai venti apriro.

Poi, recate arme dagli arditi servi,

Nell'alta onda fermâr la negra nave.

Quivi cenaro; e stavansi aspettando

Che più crescesse della notte il buio.

Ma la grama Penelope nell'alto

Giacea digiuna, non gustando cibo,

Bevanda non gustando; e a lei nel petto

Sul destin dubbio di sì cara prole

Fra la speme e il timor l'alma ondeggiava.

Qual de' lattanti leoncin la madre,

Cui fan corona insidïosa intorno

I cacciatori, che a temere impara,

E in diversi pensier l'alma divide:

Tal fra sè rivolvea cose diverse,

Finché la invase un dolce sonno. Stesa

Sul letto, e tutte le giunture sciolta,

La donna inconsolabile dormìa.

Allor la dea dall'azzurrino sguardo

Nuova cosa pensò. Compose un lieve

Fantasma, che sembrava in tutto Iftima,

D'Icario un'altra figlia, a cui legato

S'era con nodi maritali Eumelo,

Che in Fere di Tessaglia avea soggiorno.

Questa Iftima invïò d'Ulisse al tetto,

Che alla Reina tranquillasse il core,

E i sospiri da lei bandisse e il pianto.

Pel varco angusto del fedel serrame

Entrò il fantasma, e, standole sul capo:

"Riposi tu, Penelope", dicea,

"Nel tuo cordoglio? Gl'immortali dèi

Lagrimosa non voglionti, nè trista.

Riederà il figliuol tuo, perché de' numi

L'ira col suo fallir mai non incorse".

E la Reina, che dormìa de' sogni

Soavissimamente in su le porte:

"Sorella, a che venistu? io mai da prima

Non ti vedea, così da lunge alberghi;

E or vuoi ch'io vinca quel martìr che in cento

Guise mi stringe l'alma, io, che un consorte

Perdei sì buon, di sì gran core, ornato

D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome

Per l'Ellada risuona e l'Argo tutta!

S'arroge a questo, che il diletto figlio

Partì su ratta nave, un giovinetto

Delle fatiche e dell'usanze ignaro.

Più ancor per lui, che per Ulisse, io piango

E temo nol sorprenda o tra le genti

Straniere, o in mare, alcun sinistro: tanti

Nemici ha che l'insidiano, e di vita

Prima il desìan levar, ch'egli a me torni".

Ratto riprese il simulacro oscuro:

"Scaccia da te questi ribrezzi, e spera.

Compagna il segue di cotanta possa,

Che ognun per sé la bramerìa: Minerva,

Cui pietà di te punse e di cui fida,

Per tuo conforto ambasciatrice io venni".

E la saggia Penelope a rincontro:

"Poiché una dea sei dunque, o almeno udisti

La voce d'una dea, parlarmi ancora

Di quell'altro infelice or non potrai?

Vive? rimira in qualche parte il Sole?

O ne' bassi calò regni di Pluto?"

Ratto riprese il simulacro oscuro:

"S'ei viva, o no, non t'aspettar ch'io narri.

Spender non piace a me gli accenti indarno".

Disse; e pel varco, ond'era entrata, uscendo

Si mescolò co' venti e dileguossi.

Ma la reina si destò in quel punto,

Ed il cor si sentì d'un'improvvisa

Brillar letizia, che lasciolle il sogno,

Che sì chiaro le apparve innanzi l'alba.

I proci l'onde già fendeano, estrema

Macchinando a Telemaco ruina.

Siede tra la pietrosa Itaca e Same

Un'isola in quel mar, che Asteri è detta,

Pur dirupata, né già troppo grande,

Ma con sicuri porti, in cui le navi

D'ambo i lati entrar ponno. Ivi in agguato

Telemaco attendean gl'iniqui Achei.

 

LIBRO V

Già l'Aurora, levandosi a Titone

D'allato, abbandonava il croceo letto,

E ai dèi portava ed ai mortali il giorno;

E già tutti a concilio i dèi beati

Sedean con Giove altitonante in mezzo,

Cui di possanza cede ogni altro nume.

Memore Palla dell'egregio Ulisse,

Che mal suo grado appo la ninfa scorge,

I molti ritesseane acerbi casi:

"O Giove", disse, "e voi tutti d'Olimpo

Concittadini, che in eterno siete,

Spoglisi di giustizia e di pietade,

E iniquitate e crudeltà si vesta

D'ora innanzi ogni re, quando l'imago

D'Ulisse più non vive in un sol core

Di quella gente ch'ei reggea da padre.

Ei nell'isola intanto, ove Calipso

In cave grotte ripugnante il tiene,

Giorni oziosi e travagliosi mena;

E del tornare alla sua patria è nulla,

Poiché navi non ha, non ha compagni,

Che il carreggin del mar su l'ampio tergo.

Che più? Il figliuol, che all'arenosa Pilo

Mosse ed a Sparta, onde saver di lui,

Tôr di vita si brama al suo ritorno.

"Figlia, qual ti sentii fuggir parola

Dal recinto de' denti?" a lei rispose

L'adunator di nubi Olimpio Giove;

"Tu stessa in te non divisavi, come

Rieda Ulisse alla patria, e di que' tristi

Vendetta faccia? In Itaca il figliuolo

Per opra tua, chi tel contende? salvo

Rïentri, e l'onde navigate indarno

Rinavighi de' proci il reo naviglio.

Disse, e a Mercurio, sua diletta prole,

Così si rivolgea: "Mercurio, antico

De' miei comandi apportator fedele,

Vanne, alla ninfa dalle crespe chiome

Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse

Le native contrade omai rivegga,

Ma nol guidi uom, né dio. Parta su travi,

Con multiplici nodi in un congiunte,

E il ventesimo dì della feconda

Scheria le rive, sospirando, attinga;

E i Feaci l'accolgano, che quasi

Degl'immortali al par vivon felici.

Essi qual nume onoreranlo, e al dolce

Nativo loco il manderan per nave;

Rame in copia darangli, ed oro e vesti,

Quanto al fin seco dalla vinta Troia

Condotto non avrìa, se con la preda,

Che gli toccò, ne ritornava illeso:

Ché la patria così, gli amici e l'alto

Riveder suo palagio, è a lui destino".

Obbedì il prode messaggiero. Al piede

S'avvinse i talar belli, aurei, immortali,

Che sul mare il portavano, e su i campi

Della terra infiniti, al par col vento.

Poi, l'aurea verga nelle man recossi,

Onde i mortali dolcemente assonna,

Quanti gli piace, e li dissonna ancora,

E con quella tra man l'aure fendea.

Come presi ebbe di Pïeria i gioghi,

Si calò d'alto, e si gettò sul mare:

Indi l'acque radea velocemente,

Simile al laro, che pe' vasti golfi

S'aggira in traccia de' minuti pesci,

E spesso nel gran sale i vanni bagna.

Non altrimenti sen venìa radendo

Molte onde e molte l'Argicìda Ermete.

Ma tosto che fu all'isola remota,

Salendo allor dagli azzurrini flutti,

Lungo il lido ei sen gìa, finché vicina

S'offerse a lui la spazïosa grotta,

Soggiorno della ninfa il crin ricciuta,

Cui trovò il nume alla sua grotta in seno.

Grande vi splendea foco, e la fragranza

Del cedro ardente e dell'ardente tio

Per tutta si spargea l'isola intorno.

Ella, cantando con leggiadra voce,

Fra i tesi fili dell'ordìta tela

Lucida spola d'ôr lanciando andava.

Selva ognor verde l'incavato speco

Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni

E gli spiranti odor bruni cipressi:

E tra i lor rami fabbricato il nido

S'aveano augelli dalle lunghe penne,

Il gufo, lo sparviere e la loquace

Delle rive del mar cornacchia amica.

Giovane vite di purpurei grappi

S'ornava e tutto rivestìa lo speco.

Volvean quattro bei fonti acque d'argento,

Tra sé vicini prima, e poi divisi

L'un dall'altro e fuggenti; e di vïole

Ricca si dispiegava in ogni dove

De' molli prati l'immortal verzura.

Questa scena era tal, che sino a un nume

Non potea farsi ad essa, e non sentirsi

Di maraviglia colmo e di dolcezza.

Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto

Lodatola in suo core, all'antro cavo,

Non indugiando più, dentro si mise.

Calipso, inclita dea, non ebbe in lui

Gli occhi affissati, che il conobbe: quando,

Per distante che l'un dall'altro alberghi,

Celarsi l'uno all'altro i dèi non ponno.

Ma nella grotta il generoso Ulisse

Non era: mesto sul deserto lido,

Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi

Con dolori, con gemiti, con pianti

Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare

Sempre agguardava, lagrime stillando.

La diva il nume interrogò, cui posto

Su mirabile avea seggio lucente:

"Mercurio, nume venerato e caro,

Che della verga d'ôr la man guernisci,

Qual mai cagione a me, che per l'addietro

Non visitavi, oggi t'addusse? Parla.

Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna,

Disdirti io non saprei, se il pur volessi.

Su via, ricevi l'ospital convito:

Poscia favellerai". Detto, la mensa,

Che ambrosia ricoprìa, gli pose avanti,

Ed il purpureo néttare versògli.

Questo il celere messaggiero e quella

Prendea; né prima nelle forze usate

Tornò, che aprìa le labbra in tali accenti:

"Tu dea me dio dunque richiedi? Il vero,

Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro.

Questo viaggio di Saturno il figlio

Mal mio grado mi diè. Chi vorrìa mai

Varcar tante onde salse, infinite onde,

Dove città non sorge, e sagrificî

Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?

Ma il precetto di Giove a un altro nume

Né vïolar, né oblïar lice. Teco,"

Disse l'Egidarmato, "i giorni mena

L'uom più gramo tra quanti alla cittade

Di Priamo innanzi combattean nove anni,

Finché il decimo alfin, Troia combusta,

Spiegâro in mar le ritornanti vele.

Ma nel cammino ingiurïar Minerva,

Che destò le bufere, e immensi flutti

Contra lor sollevò. Tutti perîro

Di quest'uomo i compagni; ed ei dal vento

Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato.

Or tu costui congederai di botto;

Ché non morir dalla sua terra lunge,

Ma la patria bensì, gli amici e l'alto

Riveder suo palagio, è a lui destino".

Inorridì Calipso, e con alate

Parole rispondendo: "Ah, numi ingiusti,"

Sclamò, "che invidia non più intesa è questa,

Che se una dea con maritale amplesso

Si congiunge a un mortal, voi non soffrite?

Quando la tinta di rosato Aurora

Orïone rapì, voi, dèi, cui vita

Facile scorre, acre livor mordea,

Finché in Ortigia il rintracciò la casta

Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa

Morte il colpì con invisibil dardo.

E allor che venne, inanellata il crine,

Cerere a Giasïon tutta amorosa,

E nel maggese, che il pesante aratro

Tre volte aperto avea, se gli concesse,

Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise

Giasïon con la folgore affocata.

Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco

Mi vedete un eroe da me serbato,

Che solo stava in su i meschini avanzi

Della nave, che il telo igneo di Giove

Nel mare oscuro gli percosse e sciolse.

Io raccogliealo amica, io lo nutria

Gelosamente, io prometteagli eterni

Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni.

Ma quando troppo è ver che alcun di Giove

Precetto vïolare a un altro nume

Non lice, od obblïar, parta egli e solchi,

Se il comandò l'Egidarmato, i campi

Non seminati. Io nol rimando certo;

Ché navi a me non sono e non compagni,

Che del mare il carreggino sul tergo.

Ben sovverrógli di consiglio, e il modo

Gli additerò, che alla sua dolce terra

Su i perigliosi flutti ei giunga illeso".

"Ogni modo il rimanda," l'Argicida

Soggiunse, "e pensa che infiammarsi d'ira

Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno".

E sul fin di tai detti a lei si tolse.

L'augusta ninfa, del Saturnio udita

la severa imbasciata, il prode Ulisse

Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso

Del mar in su la sponda, ove le guance

Di lagrime rigava, e consumava

Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;

Ché della ninfa non pungealo amore:

E se le notti nella cava grotta

Con lei vogliosa non voglioso passa,

Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,

Su i lidi assiso e su i romiti scogli,

Con dolori, con gemiti con pianti

Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,

Lagrime spesse lagrimando, agguarda.

Calipso, illustre dea, standogli appresso:

"Sciagurato", gli disse, in questi pianti

"Più non mi dar, né consumare i dolci

Tuoi begli anni così: la dipartita,

Non che vietarti, agevolarti io penso.

Su via, le travi nella selva tronche,

Larga e con alti palchi a te congegna

Zattera, che sul mar fosco ti porti.

Io di candido pan, che l'importuna

Fame rintuzzi, io di purissim'onda,

E di rosso licor, gioia dell'alma,

La carcherò: ti vestirò non vili

Panni, e ti manderò da tergo un vento,

Che alle contrade tue ti spinga illeso,

Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,

Con cui di senno in prova io già non vegno".

Raccapricciossi a questo il non mai vinto

Dalle sventure Ulisse, e: "O dea", rispose

Con alate parole, "altro di fermo,

Non il congedo mio, tu volgi in mente,

Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi

Del difficile mar flutti tremendi,

Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi

Munite, e liete di quel vento amico

Che da Giove partì, varcano appena.

No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,

Non salirò, dove tu pria non degni

Giurare a me con giuramento grande,

Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce".

Sorrise l'Atlantìde, e, della mano

Divina carezzandolo, la lingua

Sciolse in tai voci: "Un cattivello sei,

Né ciò che per te fa, scordi giammai.

Quali parole mi parlasti! Or sappia

Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,

Che sotterra si volve, acqua di Stige,

Di cui né più solenne han, né più sacro

Gl'Iddii beati giuramento; sappia,

Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.

Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io

Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.

Giustizia regge la mia mente, e un'alma

Pietosa, non di ferro, in me s'annida".

Ciò detto, abbandonava il lido in fretta

E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,

Colà, ond'era l'Argicida sorto,

S'adagiò il Laerziade; e la dea molti

Davante gli mettea cibi e licori,

Quali ricever può petto mortale.

Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle

L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.

Come ambo paghi per la mensa furo,

Con tali accenti cominciava l'alta

Di Calipso beltade: "O di Laerte

Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,

Così tu parti adunque, e alla nativa

Terra e alle case de' tuoi padri vai?

Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.

Ma se tu scorger col pensier potessi

Per quanti affanni ti comanda il fato

Prima passar, che al patrio suolo arrivi

Questa casa con me sempre vorresti

Custodir, ne son certa, e immortal vita

Da Calipso accettar: benché sì viva

Brama t'accenda della tua consorte,

A cui giorno non è che non sospiri.

Pur non cedere a lei né di statura

Mi vanto, né di volto; umana donna

Mal può con una dea, né le s'addice,

Di persona giostrare, o di sembianza".

"Venerabile iddia", riprese il ricco

D'ingegni Ulisse, "non voler di questo

Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,

Che la saggia Penelope tu vinci

Di persona non men che di sembianza,

Giudice il guardo che ti stia di contra.

Ella nacque mortale; e in te né morte

Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;

Questo il desìo che mi tormenta sempre:

Veder quel giorno al fin, che alle dilette

Piagge del mio natal mi riconduca.

Che se alcun me percoterà de' numi

Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo

Forte contra i disastri anima in petto.

Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,

Già ne sostenni; e sosterronne ancora".

Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno

Si ritira<ro della cava grotta,

Più interno e oscuro, e in dolce sonno avvolti,

Tutte le cure lor mandaro in bando.

Ma come del mattin la figlia, l'alma

Dalle dita di rose Aurora apparve,

Tunica e manto alle sue membra Ulisse,

E Calipso alle sue larga ravvolse

Bella gonna, sottil, bianca di neve;

Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo

Sovra l'ôr crespo della chioma impose.

Né d'Ulisse a ordinar la dipartita

Tardava. Scure di temprato rame,

Grande, manesca e d'ambo i lati aguzza,

Con leggiadro, d'oliva, e bene attato

Manubrio, presentògli, e una polita

Vi aggiunse ascia lucente; indi all'estremo

Dell'isola il guidò, dove alte piante

Crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti,

Ciascun risecco di gran tempo e arsiccio,

Che gli sdruccioli agevole sull'onda.

Le altere piante gli additò col dito,

E alla sua grotta il pié torse la diva.

Egli a troncar cominciò il bosco: l'opra

Nelle man dell'eroe correa veloce;

Venti distese al suolo arbori interi,

Gli adeguò, li polì, l'un destramente

Con l'altro pareggiò. Calipso intanto

Recava seco gli appuntati succhi,

Ed ei forò le travi e insieme unille,

E con incastri assicurolle e chiovi.

Larghezza il tutto avea, quanta ne dánno

Di lata nave trafficante al fondo

Periti fabbri. Su le spesse travi

Combacianti tra sé lunghe stendea

Noderose assi, e il tavolato alzava.

L'albero con l'antenna ersevi ancora,

E costrusse il timon, che in ambo i lati

Armar gli piacque d'intrecciati salci

Contra il marino assalto, e molta selva

Gittò nel fondo per zavorra o stiva.

Le tue tele, o Calipso, in man gli andâro

E buona gli uscì pur di man la vela,

Cui le funi legò, legò le sarte,

La poggia e l'orza: al fin, possenti leve

Supposte, spinse il suo naviglio in mare,

Che il dì quarto splendea. La dea nel quinto

Congedollo dall'isola: odorate

Vesti gli cinse dopo un caldo bagno;

Due otri, l'un di rosseggiante vino,

Di limpid'acqua l'altro, e un zaino, in cui

Molte chiudeansi dilettose dapi,

Collocò nella barca; e fu suo dono

Un lenissimo ancor vento innocente,

Che mandò innanzi ad increspargli il mare.

Lieto l'eroe dell'innocente vento,

La vela dispiegò. Quindi al timone

Sedendo, il corso dirigea con arte,

Né gli cadea su le palpèbre il sonno

Mentre attento le Pleiadi mirava,

E il tardo a tramontar Boòte e l'Orsa

Che detta è pure il Carro, e là si gira,

Guardando sempre in Orïone, e sola

Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi

L'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca

Lasciar dovea, come la diva ingiunse.

Dieci pellegrinava e sette giorni

Su i campi d'Anfitrite. Il dì novello

Gli sorse incontro co' suoi monti ombrosi

L'isola de' Feaci, a cui la strada

Conducealo più corta, e che apparìa

Quasi uno scudo alle fosche onde sopra.

Sin dai monti di Solima lo scôrse

Veleggiar per le salse onde tranquille

Il possente Nettun, che ritornava

Dall'Etïopia, e nel profondo core

Più crucciato che mai squassando il capo:

"Poh!" disse dentro a sé, "nuovo decreto,

Mentr'io fui tra gli Etiopi, intorno a Ulisse

Fêr dunque i numi? Ei già la terra vede

De' Feáci, che il fato a lui per meta

Delle sue lunghe disventure assegna.

Pur molto, io credo, a tollerar gli resta".

Tacque; e, dato di piglio al gran tridente,

Le nubi radunò, sconvolse l'acque,

Tutte incitò di tutti i venti l'ire,

E la terra di nuvoli coverse;

Coverse il mar: notte di ciel giù scese.

S'avventaro sul mar, quasi in un groppo,

Ed Euro e Noto e il celebre Ponente

E Aquilon, che pruine aspre su l'ali

Reca, ed immensi flutti innalza e volve.

Discior sentissi le ginocchia e il core

Di Laerte il figliuol, che tal si dolse

Nel secreto dell'alma: "Ahi, me infelice!

Che di me sarà omai? Temo, non torni

Verace troppo della ninfa il detto,

Che al patrio nido io giungerei per mezzo

Delle fatiche solo e dell'angosce.

Di quai nuvole il ciel ampio inghirlanda

Giove, e il mar conturba? E come tutti

Fremono i venti? A certa morte io corro.

Oh tre fïate fortunati e quattro,

Cui perir fu concesso innanzi a Troia,

Per gli Atridi pugnando! E perché allora

Non caddi anch'io, che al morto Achille intorno

Tante i Troiani in me lance scagliaro?

Sepolto i Greci co' funèbri onori

M'avriano, e alzato ne' lor canti al cielo.

Or per via così infausta ir deggio a Dite".

Mentre così doleasi, un'onda grande

Venne d'alto con furia e urtò la barca,

E rigirolla; e lui, che andar lasciossi

Dalle mani il timon, fuori ne spinse.

Turbine orrendo d'aggruppati venti

L'albero al mezzo gli fiaccò; lontane

Vela ed antenne caddero. Ei gran tempo

Stette di sotto, mal potendo il capo

Levar dall'onde impetuose e grosse;

Ché le vesti gravavanlo, che in dono

Da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta

Dalla bocca gli uscìa, gli piovea molta

Dalla testa e dal crine onda salata.

Non però della zatta il prese obblìo:

Ma, da sé i flutti respingendo, ratto

L'apprese, e già di sopra, il fin di morte

Schivando, vi sedea. Rapìala il fiotto

Qua e là per lo golfo. A quella guisa

Che sovra i campi il tramontan d'autunno

Fascio trabalza d'annodate spine,

I venti trabalzavanla sul mare.

Or Noto da portare a Borea l'offre,

Ed or, perché davanti a sé la cacci,

Euro la cede d'occidente al vento.

La bella il vide dal tallon di perla

Figlia di Cadmo, Ino chiamata, al tempo

Che vivea tra i mortali: or nel mar gode

Divini onori, e Leucotèa si noma.

Compunta il cor per lui d'alta pietade,

S'alzò dell'onda fuor, qual mergo a volo,

E su le travi bene avvinte assisa,

Così gli favellò: "Perché, meschino,

S'accese mai con te d'ira sì acerba

Lo Scotitor della terrena mole,

Che ti semina i mali? Ah! non fia certo,

Ch'ei, per quanto il desìi, spenga i tuoi giorni.

Fa, poiché vista m'hai d'uomo non folle,

Ciò ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti,

Lascia il naviglio da portarsi ai venti,

E a nuoto cerca il Feacese lido,

Che per mèta de' guai t'assegna il fato.

Ma questa prendi; e la t'avvolgi al petto,

Fascia immortal, né temer morte o danno.

Tocco della Feacia il lido appena,

Spogliala, e in mar dal continente lungi

La gitta, e torci nel gittarla il volto".

Ciò detto, e a lui l'immortal fascia data,

Rïentrò, pur qual mergo in seno al fosco

Mare ondeggiante, che su lei si chiuse.

Pensoso resta e in forse il pazïente

Laerziade divino, e con se stesso,

Raddoppiando i sospir, tal si consiglia:

"Ohimé! che nuovo non mi tessa inganno

De' Sempiterni alcun, che dal mio legno

Partir m'ingiunge. Io così tosto penso

Non ubbidirgli; ché la terra, dove

Di scampo ei m'affidò, troppo è lontana.

Ma ecco quel che ottimo parmi: quanto

Congiunte rimarran tra lor le travi,

Non abbandonerolle, e co' disastri

Fermo io combatterò. Sciorralle il flutto?

Porrommi a nuoto, né veder so meglio".

Tai cose in sé volgea, quando Nettuno

Sollevò un'onda immensa, orrenda, grave,

Di monte in guisa, e la sospinse. Come

Disperse qua e là vanno le secche

Paglie, di cui sorgea gran mucchio in prima,

Se mai le investe un furïoso turbo,

le tavole per mar disperse andaro.

Sovra un sol trave a cavalcioni Ulisse

Montava: i panni che la dea Calipso

Dati gli avea, svestì, s'avvolse al petto

l'immortal benda, e si gittò ne' gorghi

Boccon, le braccia per nôtare aprendo.

Né già s'ascose dal ceruleo iddio,

Che, la testa crollando: "A questo modo

Erra", dicea tra sé "di flutto in flutto

Dopo tante sciagure, e a genti arriva

Da Giove amate: benché speme io porti

Che né tra quelle brillerài di gioia".

Così Nettuno; e della verde sferza

Toccò i cavalli alle leggiadre chiome,

Che il condussero ad Ega, ove gli splende

Nobile altezza di real palagio.

Pallade intanto, la prudente figlia

Di Giove, altro pensò. Fermò gli alati

Venti, e silenzio impose loro, e tutti

Gli avvinse di sopor, fuorché il veloce

Borea, che, da lei spinto, i vasti flutti

Dinanzi a Ulisse infranse ond'ei le rive

Del vago di remar popol Feace,

Pigliar potesse, ed ingannar la Parca.

Due giorni in cotal foggia, e tante notti

Per l'ampio golfo errava, e spesso il core

Morte gli presagìa. Ma quando l'Alba

Cinta la fronte di purpuree rose

Il dì terzo recò, tacquesi il vento,

E un tranquillo seren regnava intorno.

Ulisse allor, cui levò in alto un grosso

Flutto, la terra non lontana scôrse,

Forte aguzzando le bramose ciglia.

Quale appar dolce a un figliuol pio la vista

Del genitor, che su dolente letto

Scarno, smunto, distrutto, e da un maligno

Demone giacque lunghi dì percosso,

E poi del micidial morbo cortesi

Il disciolser gli dèi: tale ad Ulisse

La terra e il verde della selva apparve.

Quinci ei, nôtando, ambi movea di tutta

Sua forza i piedi a quella volta. Come

Presso ne fu, quanto d'uom corre un grido,

Fiero il colpì romor: poiché i ruttati

Sin dal fondo del mar flutti tremendi,

Che agli aspri si rompean lidi ronchiosi,

Strepitavan, mugghiavano, e di bianca

Spuma coprìan tutta la sponda, mentre

Porto capace di navigli, o seno

Non vi s'aprìa, ma littorali punte

Risaltavano in fuori, e scogli e sassi.

Le forze a tanto ed il coraggio Ulisse

Fallir si sente, e dice a sé, gemendo:

"Qual pro che Giove il disperato suolo

Mostri, e io m'abbia la via per l'onde aperta,

Se dell'uscirne fuor non veggio come?

Sporgon su l'onde acuti sassi, a cui

L'impetuoso flutto intorno freme,

E una rupe va su liscia e lucente:

Né così basso è il mar, che nell'arena

Fermare il pie' securamente io valga.

Quindi, s'io trar men voglio, un gran maroso

Sovra di sé può tormi, e in dura pietra

Cacciarmi; o s'io lungo le rupi cerco

Nôtando un porto, o una declìve schiena,

Temo, non procellosa onda m'avvolga,

E, sospirando gravemente, in grembo

Mi risospinga del pescoso mare.

Forse un de' mostri ancor, che molti nutre

Ne' gorghi suoi la nobile Anfitrite,

M'assalirà: ché l'odio io ben conobbi

Che m'ha quel dio, per cui la terra trema".

Stando egli in tai pensieri, una sconcia onda

Trasportollo con sé ver l'ineguale

Spiaggia, che lacerata in un sol punto

La pelle avrìagli, e sgretolate l'ossa,

Senza un consiglio che nel cor gli pose

L'occhicerulea diva. Afferrò ad ambe

Mani la rupe, in ch'ei già dava, e ad essa

Gemendo s'attenea. Deluso intanto

Gli passò su la testa il vïolento

Flutto: se non che poi, tornando indietro,

Con nuova furia il ripercosse, e lunge

Lo sbalzò della spiaggia al mare in grembo.

Polpo così dalla pietrosa tana

Strappato vien, salvo che a lui non pochi

Restan lapilli nelle branche infitti:

E Ulisse in vece la squarciata pelle

Delle nervose man lasciò alla rupe.

L'onde allora il copriro, e l'infelice

Contro il fato perìa: ma infuse a lui

Nuovo pensier l'Occhiazzurrina. Sorto

Dall'onde, il lido costeggiava, ai flutti

Che vel portavan contrastando, e attento

Mirando sempre, se da qualche parte

Scendesse una pendice, o un seno entrasse:

Né dall'opra cessò, che d'un bel fiume

Giunto si vide all'argentina foce.

Ottimo qui gli sembrò il loco al fine,

Siccome quel che né di sassi aspro era,

Né discoperto ai venti. Avvisò ratto

Il puro umor che devolveasi al mare,

E tal dentro di sé preghiera feo:

"O chiunque tu sii, re di quest'acque,

Odimi: a te, cui sospirai cotanto,

Gli sdegni di Nettuno e le minacce

Fuggendo, io m'appresento. È sacra cosa

Per gl'Immortali ancor l'uom, che d'altronde

Venga errando, com'io, che dopo molti

Durati affanni, ecco alla tua corrente

Giungo, e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse,

Che tuo supplice vedi, o re, ti prenda".

Disse, ed il nume acchetò il corso, e l'onda

Ritenne, sparsa una perfetta calma

E alla foce il salvò del suo bel fiume.

L'eroe, tocca la terra, ambo i ginocchi

Piegò, piegò le nerborute braccia:

Tanto il gran sale l'affliggeva. Gonfiava

Tutto quanto il suo corpo, e per la bocca

Molto mar gli sgorgava, e per le nari;

Ed ei senza respiro e senza voce

Giaceasi, e spento di vigore affatto:

Che troppa nel suo corpo entrò stanchezza.

Ma come il fiato ed il pensier rïebbe,

Tosto dal petto la divina benda

Sciolse, e gittolla ove amareggia il fiume.

La corrente rapivala, né tarda

A riprenderla fu con man la dea.

Ei dall'onda ritráttosi, chinossi

Su i molli giunchi, e baciò l'alma terra.

Poi nel secreto della sua grand'alma

Così parlava e sospirava insieme:

"Eterni dèi, che mi rimase ancora

Di periglioso a tollerar? Dov'io

Questa gravosa notte al fiume in riva

Vegghiassi, l'aer freddo e il molle guazzo

Potrian me di persona e d'alma infermo

Struggere al tutto, ché sui primi albori

Nemica brezza spirerà dal fiume.

Salirò al colle in vece, ed all'ombrosa

Selva, e m'addormirò tra i folti arbusti,

Sol che non vieti la fiacchezza o il ghiado,

Che il sonno in me passi furtivo? Preda

Diventar delle fere e pasto io temo".

Dopo molto dubbiar questo gli parve

Men reo partito. Si rivolse al bosco,

Che non lunge dall'acque a un poggio in cima

Fea di sé mostra, e s'internò tra due

Sì vicini arboscei, che dalla stessa

Radice uscir pareano, ambi d'ulivo,

Ma domestico l'un, l'altro selvaggio.

La forza non crollavali de' venti,

Né l'igneo Sole co' suoi raggi addentro

Li saettava, né le dense piogge

Penetravan tra lor; sì uniti insieme

Crebbero, e tanto s'intrecciaro i rami.

Ulisse sottentrovvi, e ammontichiossi

Di propria man comodo letto, quando

Tal ricchezza era qui di foglie sparse,

Che ripararvi uomini tre, non che uno,

Potuto avrìano ai più crudeli verni.

Gioì alla vista delle molte foglie

L'uom divino, e corcossi entro alle foglie,

E a sé di foglie sovrappose un monte.

Come se alcun, che solitaria suole

Condur la vita in sul confin d'un campo,

Tizzo nasconde fumeggiante ancora

Sotto la bruna cenere, e del foco,

Perché cercar da sé lungi nol debba,

Serba in tal modo il prezïoso seme:

Così celossi tra le foglie Ulisse.

Pallade allor che di sì rea fatica

Bramava torgli l'importuno senso,

Un sonno gli versò dolce negli occhi,

Le dilette palpèbre a lui velando.

  

LIBRO VI

Mentre sepolto in un profondo sonno

Colà posava il travagliato Ulisse,

Minerva al popol de' Feaci e all'alta

Lor città s'avvïò. Questi da prima

Ne' vasti d'Iperèa fecondi piani

Far dimora solean, presso i Ciclopi,

Gente di cuor superbo, e a' suoi vicini

Tanto molesta più quanto più forte.

Quindi Nausitoo, somigliante a un dio,

Di tal sede levolli, e in una terra,

Che dagli uomini industri il mar divide,

Gli allogò, nella Scheria; e qui condusse

Alla cittade una muraglia intorno.

Le case fabbricò, divise i campi,

E agl'Immortali i sacri templi eresse.

Colpito dalla Parca, ai foschi regni

Era già sceso, e Alcinoo, che i beati

Numi assennato avean, reggea lo scettro.

L'occhicilestra dea, che sempre fissa

Nel ritorno d'Ulisse avea la mente,

Tenne verso la reggia, e alla secreta

Dedalea stanza si rivolse, dove

Giovinetta dormìa, che le immortali

D'indole somigliava e di fattezze,

Nausica, del re figlia; ed alla porta,

Che rinchiusa era, e risplendea nel buio.

Giacean due, l'una quinci e l'altra quindi,

Pudìche ancelle, cui le Grazie istesse

Di non vulgar beltà la faccia ornâro.

La dea, che gli occhi in azzurrino tinge,

Quasi fiato leggier di picciol vento,

S'avvicinò della fanciulla al letto,

E sul capo le stette, e, preso il volto

Della figlia del prode in mar Dimante

Molto a lei cara, e ugual d'etade a lei,

Cotali le drizzò voci nel sonno:

"Deh, Nausica, perché te così lenta

La genitrice partorì? Neglette

Lasci giacerti le leggiadre vesti.

Benché delle tue nozze il dì s'appressi,

Quando le membra tue cinger dovrai

Delle vesti leggiadre, e a quelli offrirne,

Che scorgeranti dello sposo ai tetti.

Così fama s'acquista, e ne gioisce

Col genitor la veneranda madre.

Dunque i bei panni, come il cielo imbianchi,

Vadasi a por nell'onda: io nell'impresa,

Onde trarla più ratto a fin tu possa,

Compagna ti sarò. Vergine, io credo

Non rimarrai gran pezza; e già di questo,

Tra cui nascesti tu, popol Feace

I migliori ti ambiscono. Su via,

Spuntato appena in orïente il Sole,

Trova l'inclito padre e de' gagliardi

Muli il richiedi, e del polito carro,

Che i pepli, gli scheggiali e i prezïosi

Manti conduca: poiché sì distanno

Dalla città i lavacri, che del cocchio

Valerti e non del piede, a te s'addice".

Finiti ch'ebbe tali accenti, e messo

Consiglio tal della fanciulla in petto,

La dea, che guarda con azzurre luci,

All'Olimpo tornò, tornò alla ferma

De' sempiterni dèi sede tranquilla,

Che né i venti commuovono, né bagna

La pioggia mai, né mai la neve ingombra;

Ma un seren puro vi si spande sopra

Da nube alcuna non offeso, e un vivo

Candido lume la circonda, in cui

Si giocondan mai sempre i dii beati.

L'Aurora intanto d'in su l'aureo trono

Comparve in orïente, e alla sopita

Vergine dal bel peplo i lumi aperse.

La giovinetta s'ammirò del sogno,

E al padre per narrarlo, ed alla madre

Corse, e trovolli nel palagio entrambi.

La madre assisa al focolare, e cinta

Dalle sue fanti, e con la destra al fuso

Lane di fina porpora torcea.

Ma nel caro suo padre, in quel che al grande

Concilio andava, ove attendeanlo i capi

De' Feacesi, s'abbatte Nausica,

E stringendosi a lui: "Babbo mio dolce,

Non vuoi tu farmi apparecchiar", gli disse,

"L'eccelso carro dalle lievi ruote,

Acciocché le neglette io rechi al fiume

Vesti oscurate, e nitide le torni?

Troppo a te si convien, che tra i soprani

Nelle consulte ragionando siedi,

Seder con monde vestimenta in dosso.

Cinque in casa ti vedi amati figli,

Due già nel maritaggio, e tre cui ride

Celibe fior di giovinezza in volto.

Questi al ballo ir vorrìan con panni sempre

Giunti dalle lavande allora allora.

E tai cose a me son pur tutte in cura".

Tacquesi a tanto; ché toccar le nozze

Sue giovanili non s'ardìa col padre.

Ma ei comprese il tutto, e sì rispose:

"Né di questo io potrei, né d'altro, o figlia,

Non soddisfarti. Va: l'alto, impalcato

Carro veloce appresteranti i servi.

Disse; e gli ordini diede, e pronti i servi".

La mular biga dalle lievi ruote

Trasser fuori, e allestîro, e i forti muli

Vi miser sotto, e gli accoppiâro. Intanto

Venìa Nausica con le belle vesti,

Che sulla biga lucida depose.

Cibi graditi e di sapor diversi

La madre collocava in gran paniere

E nel capace sen d'otre caprigno

Vino infondea soave: indi alla figlia,

Ch'era sul cocchio, perché dopo il bagno

Sé con le ancelle, che seguìanla, ungesse,

Porse in ampolla d'or liquida oliva.

Nausica in man le rilucenti briglie

Prese, prese la sferza, e diè di questa

Sovra il tergo ai quadrupedi robusti,

Che si moveano strepitando, e i passi

Senza posa allungavano, portando

Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola,

Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle.

Tosto che fur dell'argentino fiume

Alla pura corrente, ed ai lavacri

Di viva ridondanti acqua perenne,

Da cui macchia non è che non si terga,

Sciolsero i muli, e al vorticoso fiume

Il verde a morsecchiar cibo soave

Del mele al pari, li mandaro in riva.

Poscia dal cocchio su le braccia i drappi

Recavanli, e gittavanli nell'onda,

Che nereggiava tutta; e in larghe fosse

Gìanli con presto piè pestando a prova.

Purgati e netti d'ogni lor bruttura,

L'uno appo l'altro gli stendean sul lido,

Là dove le pietruzze il mar poliva.

Ciò fatto, si bagnò ciascuna, e s'unse,

E poi del fiume pasteggiâr sul margo:

Mentre d'alto co' raggi aureolucenti

Gli stesi drappi rasciugava il Sole.

Ma, spento della mensa ogni desìo,

Una palla godean trattar per gioco,

Deposti prima dalla testa i veli;

Ed il canto intonava alle compagne

Nausica bella dalle bianche braccia.

Come Dïana per gli eccelsi monti

O del Taigeto muove, o d'Erimanto,

Con la faretra agli omeri, prendendo

De' ratti cervi e de' cinghiai diletto:

Scherzan, prole di Giove, a lei d'intorno

Le boscherecce Ninfe onde a Latona

Serpe nel cor tacita gioia; ed ella

Va del capo sovrana, e della fronte

Visibilmente a tutte l'altre, e vaga

Tra loro è più qual da lei meno è vinta:

Così spiccava tra le ancelle questa

Da giogo marital vergine intatta.

Nella stagion che al suo paterno tetto

I muli aggiunti e ripiegati i manti

Ritornar disponea, nacque un novello

Consiglio in mente all'occhiglauca diva,

Perché Ulisse dissonnisi, e gli appaia

La giovinetta dalle nere ciglia

Che de' Feaci alla cittade il guidi.

Nausica in man tolse la palla, e ad una

Delle compagne la scagliò: la palla

Desvïossi dal segno a cui volava,

E nel profondo vortice cadé.

Tutte misero allora un alto grido,

Per cui si ruppe incontanente il sonno

Nel capo a Ulisse; che a seder drizzossi

Tai cose in sé volgendo: Ahi fra qual gente

Mi ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta,

O amica degli estrani, e ai dii sommessa?

Quel, che l'orecchio mi percosse, un grido

Femminil parmi di fanciulle ninfe,

Che de' monti su i gioghi erti, e de' fiumi

Nelle sorgenti, e per l'erbose valli

Albergano. O son forse umane voci,

Che testé mi ferîro? Io senza indugio

Dagli stessi occhi miei sapronne il vero.

Ciò detto, uscìa l'eroe fuor degli arbusti,

E con la man gagliarda, in quel che uscìa,

Scemò la selva d'un foglioso ramo,

Che velame gli valse ai fianchi intorno.

Quale dal natìo monte, ove la pioggia

Sostenne e i venti impetuosi, cala

Leon, che nelle sue forze confida;

Foco son gli occhi suoi; greggia ed armento

O le cerve selvatiche, al digiuno

Ventre ubbidendo, parimente assalta,

Né, perché senta ogni pastore in guardia,

Tutto teme investìr l'ovile ancora:

Tal, benché nudo, sen veniva Ulisse,

Necessità stringendolo, alla volta

Delle fanciulle dal ricciuto crine

Cui, lordo di salsuggine com'era,

Sì fiera cosa rassembrò, che tutte

Fuggîro qua e là per l'alte rive.

Sola d'Alcinoo la diletta figlia,

Cui Pallade nell'alma infuse ardire,

E francò d'ogni tremito le membra,

Piantossegli di contra e immota stette.

In due pensieri ei dividea la mente:

O le ginocchia strignere a Nausica,

Di supplicante in atto; o di lontano

Pregarla molto con blande parole

Che la città mostrargli, e d'una vesta

Rifornirlo, volesse. A ciò s'attenne;

Ché dello strigner de' ginocchi sdegno

Temea che in lei si risvegliasse. Accenti

Dunque le inviò blandi e accorti a un tempo.

"Regina, odi i miei voti. Ah degg'io dea

Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna

Sei delle dive che in Olimpo han seggio,

Alla beltade, agli atti, al maestoso

Nobile aspetto, io l'immortal Dïana,

Del gran Giove la figlia, in te ravviso.

E se tra quelli, che la terra nutre,

Le luci apristi al dì, tre volte il padre

Beato, e tre la madre veneranda,

E beati tre volte i tuoi germani,

Cui di conforto almo s'allarga e brilla

Di schietta gioia il cor, sempre che in danza

Veggiono entrar sì grazïoso germe.

Ma felice su tutti oltra ogni detto,

Chi potrà un dì nelle sue case addurti

D'illustri carca nuzïali doni.

Nulla di tal s'offerse unqua nel volto

O di femmina, o d'uomo, alle mie ciglia:

Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.

Tal quello era bensì che un giorno in Delo,

Presso l'ara d'Apollo, ergersi io vidi

Nuovo rampollo di mirabil palma:

Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta

Mi seguìa gente armata in quel viaggio

Che in danno rïuscir doveami al fine.

E com'io, fìssi nella palma gli occhi

Colmo restai di meraviglia, quando

Di terra mai non surse arbor sì bello;

Così te, donna, stupefatto ammiro,

E le ginocchia tue, benché m'opprima

Dolore immenso, io pur toccar non oso.

Me uscito dell'Ogigia isola dieci

Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.

Scampai dall'onda ier soltanto, e un nume

Su queste piagge, a trovar forse nuovi

Disastri, mi gittò: poscia che stanchi

Di travagliarmi non cred'io gli eterni.

Pietà di me, Regina, a cui la prima

Dopo tante sventure innanzi io vegno,

Io, che degli abitanti, o la campagna

Tengali, o la città, nessun conobbi.

La cittade m'addita; e un panno dammi,

Che mi ricopra; dammi un sol, se panni

Qua recasti con te, di panni invoglio.

E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,

Si compiaccian largir: consorte e figli,

E un sol volere in due, però ch'io vita,

Non so più invidïabile, che dove

La propria casa con un'alma sola

Veggonsi governar marito e donna.

Duol grande i tristi m'hanno, e gioia i buoni:

Ma quei ch'esultan più, sono i due sposi".

"O forestier, tu non mi sembri punto

Dissennato e dappoco", allor rispose

La verginetta dalle bianche braccia.

"L'Olimpio Giove, che sovente al tristo

Non men che al buon felicità dispensa,

Mandò a te la sciagura, e tu da forte

La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi

Ti convenne approdar, di veste o d'altro,

Che ai supplici si debba ed ai meschini,

Non patirai disagio. Io la cittade

Mostrarti non ricuso, e il nome dirti

Degli abitanti. È de' Feaci albergo

Questa fortunata isola; ed io nacqui

Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma

Del poter si restringe, e dell'impero".

Tal favellò Nausica, e alle compagne:

"Olà", disse, "fermatevi. In qual parte

Fuggite voi, perché v'apparse un uomo?

Mirar credeste d'un nemico il volto?

Non fu, non è: e non fia chi a noi s'attenti

Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.

Oltre che in sen dell'ondeggiante mare

Solitari viviam, viviam divisi

Da tutto l'altro della stirpe umana.

Un misero è costui, che a queste piagge

Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.

Gli stranieri, vedete, ed i mendichi

Vengon da Giove tutti, e non v'ha dono

Picciolo sì, che lor non torni caro.

Su via, di cibo e di bevanda il nuovo

Ospite soccorrete, e pria d'un bagno

Colà nel fiume, ove non puote il vento".

Le compagne ristêro, ed a vicenda

Si rincorâro, e, come avea d'Alcinoo

La figlia ingiunto, sotto un bel frascato

Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti

Poser, tunica e manto, e la rinchiusa

Nell'ampolla dell'ôr liquida oliva:

Quindi ad entrar col piè nella corrente

Lo inanimîro. Ma l'eroe: "Fanciulle,

Appartarvi da me non vi sia grave,

Finché io questa salsuggine marina

Mi terga io stesso, e del salubre m'unga

Dell'oliva licor, conforto ignoto

Da lungo tempo alle mie membra. Io certo

Non laverommi nel cospetto vostro;

Ché tra voi starmi non ardisco ignudo".

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica

Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo

Nettunio sal, che gl'incrostò le larghe

Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,

E la bruttura del feroce mare

Dal capo s'astergea. Ma come tutto

Si fu lavato ed unto, e di que' panni

Vestito, ch'ebbe da Nausica in dono,

Lui Minerva, la prole alma di Giove,

Maggior d'aspetto, e più ricolmo in faccia

Rese, e più fresco, e de' capei lucenti,

Che di giacinto a fior parean sembianti,

Su gli omeri cader gli feo le anella.

E qual se dotto mastro, a cui dell'arte

Nulla celaro Pallade o Vulcano,

Sparge all'argento il liquid'oro intorno,

Sì che all'ultimo suo giunge con l'opra:

Tale ad Ulisse l'Atenèa Minerva

Gli omeri e il capo di decoro asperse;

Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,

Su la riva sedea del mar canuto,

Di grazia irradïato e di beltade.

La donzella stordiva; ed all'ancelle

Dal crin ricciuto disse: "Un mio pensiero

Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno

Che le nostre afferrò sponde beate,

Non erano a costui tutti del cielo

Gli abitatori: egli, d'uom vile e abbietto

Vista m'avea da prima, ed or simìle

Sembrami a un dio che su l'Olimpo siede.

Oh colui fosse tal, che i numi a sposo

Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui

Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo

Sovvenitelo, amiche, e di bevanda".

Quelle ascoltaro con orecchio teso,

E il comando seguîr: cibo e bevanda

All'ospite imbandîro, e il paziente

Divino Ulisse con bramose fauci

L'uno e l'altra prendea, qual chi gran tempo

Bramò i ristori della mensa indarno.

Qui l'occhinera vergine novello

Partito immaginò. Sul vago carro

Le ripiegate vestimenta pose,

Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.

Poi così Ulisse confortava: "Sorgi

Stranier, se alla cittade ir ti talenta

E il mio padre veder, nel cui palagio

S'accoglieran della Feacia i capi.

Ma, quando folle non mi sembri punto,

Cotal modo terrai. Finché moviamo

De' buoi tra le fatiche e de' coloni,

Tu con le ancelle dopo il carro vieni

Non lentamente: io ti sarò per guida.

Come da presso la cittade avremo,

Divideremci. È la città da un alto

Muro cerchiata, e due bei porti vanta

D'angusta foce, un quinci e l'altro quindi,

Su le cui rive tutti in lunga fila

Posan dal mare i naviganti legni.

Tra un porto e l'altro si distende il foro

Di pietre quadre, e da vicina cava

Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo

L'antico tempio di Nettun si leva.

Colà gli arnesi delle negre navi,

Gomene e vele, a racconciar s'intende,

E i remi a ripulir: ché de' Feaci

Non lusingano il core archi e faretre,

Ma veleggianti e remiganti navi,

Su cui passano allegri il mar spumante.

Di cotestoro a mio potere io sfuggo

Le voci amare, non alcun da tergo

Mi morda, e tal, che s'abbattesse a noi

Della feccia più vil: "Chi è", non dica,

"Quel forestiero che Nausica siegue,

Bello d'aspetto e grande? Ove trovollo?

Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,

Che da noi parte il mar, ramingo giunse,

Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:

O da lunghi chiamato ardenti voti

Scese di cielo, e le comparve un nume,

Che seco riterrà tutti i suoi giorni.

Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia

D'uom d'altronde venuto, e a lui donossi,

Dappoi che i molti, che l'ambìano, illustri

Feaci tanto avanti ebbe in dispetto".

Così dirìano; e crudelmente offesa

Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno

Concepirei contra chïunque osasse,

De' genitori non contenti in faccia,

Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto

Fosse delle sue nozze il dì festivo.

Dunque a' miei detti bada; e leggermente

Ritorno e scorta impetrerai dal padre.

Folto di pioppi ed a Minerva sacro

Ci s'offrirà per via bosco fronzuto,

Cui viva fonte bagna, e molli prati

Cingono: ivi non più dalla cittade

Lontan, che un gridar d'uomo, il bel podere

Giace del padre, e l'orto suo verdeggia.

Ivi, tanto che a quella ed al paterno

Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta

Mi crederai, tu pur t'inurba, e cerca

Il palagio del re. Del re il palagio

Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino

Vi ti potrìa condur; che de' Feaci

Non sorge ostello che il paterno adegui.

Entrato nel cortil, rapidamente

Sino alla madre mia per le superbe

Camere varca. Ella davanti al foco,

Che del suo lume le colora il volto,

Siede, e, poggiata a una colonna, torce,

Degli sguardi stupor, purpuree lane.

Siedonle a tergo le fantesche; e presso

S'alza del padre il trono, in ch'ei, qual dio,

S'adagia, e della vite il nèttar bee.

Declina il trono, e stendi alle ginocchia

De la madre le braccia; onde tra poco

Del tuo ritorno alle natìe contrade,

Per remote che sien, ti spunti il giorno.

Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;

E di non riveder le patrie sponde,

Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,

Bandisci dalla mente ogni sospetto".

Detto così, della lucente sferza

Diè sulle groppe ai vigorosi muli,

Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

Venìan correndo ed alternando a gara,

Bello a vedersi, le nervose gambe;

E la donzella, perché Ulisse a piede

Lei con le ancelle seguitar potesse,

Attenta carreggiava e fea con arte

Scoppiare in alto della sferza il suono.

Cadea nell'acque occidentali il sole,

Che al sacro di Minerva illustre bosco

Fûro; ed Ulisse ivi s'assise. Quindi

A Minerva pregava in tali accenti:

"Odimi, invitta dell'Egìoco figlia,

Ed oggi almen fa' pieni i voti miei

Tu, che pieni i miei voti unqua non festi,

Finché su l'onde mi sbalzò Nettuno.

Tu dammi che, gradito e non indegno

Di pietade, ai Feaci io m'appresenti".

Disse, e Palla l'udì; ma non ancora

Visibilmente gli assistea, per tema

Del zio possente, al cui tremendo cruccio

Era, pria che i natìi lidi toccasse,

Bersaglio eterno il pari ai numi Ulisse.

  

LIBRO VII

Mentre così pregava il pazïente

Divino Ulisse, dal vigor de' muli

Portata era Nausica alla cittade.

Giunta d'Alcinoo alla magion sublime,

S'arrestò nel vestibolo; e i germani,

Belli al par degli Eterni, intorno a lei

D'ogni parte venìan: sciolsero i muli,

E le vesti recaro entro la reggia.

Ma la fanciulla il piede alla secreta

Movea sua stanza: e raccendeale il foco

Eurimedusa, una sua vecchia fante,

Nata in Epiro, e su le negre navi

Condotta, e al prode Alcinoo offerta in dono

Perché ai Feaci ei comandava, e lui,

Qual se un dio favellasse, udìan le genti.

Costei Nausica dal braccio di neve

Rallevò nel palagio, ed ora il foco

Raccendeale, e mettea la cena in punto.

Ulisse intanto sorse, e il cammin prese

Della città. Ma l'Atenéa Minerva,

Che da lui non torcea l'occhio giammai,

Di molta il cinse impenetrabil nebbia,

Onde nessun Feace o di parole,

Scontrandolo, il mordesse, o il domandasse

Del nome e della patria. Ei già già entrava

Nell'amena città, quando la diva

Gli occhi cerulea, se gli fece incontro,

Non dissimile a vergine, che piena

Sul giovinetto capo urna sostenti.

Stettegli a fronte in tal sembianza, e Ulisse

Così la interrogava: "O figlia, al tetto

D'Alcinoo, che tra questi uomini impera,

Vuoi tu condurmi? Io forestier di lunge,

E dopo molti guai venni, né alcuno

Della città conobbi, o del contorno".

"Ospite padre", rispondea la diva

Dai glauchi lumi, "il tetto desïato

Mostrar ti posso di leggier; ché quello

Del mio buon genitor per poco il tocca.

Ma in silenzio tu seguimi e lo sguardo

Non drizzare ad alcun, non che la voce.

Render costoro agli stranieri onore

Non sanno punto, né accoglienze amiche

Trova, o carezze qui, chi altronde giunga.

Essi, fidando nelle ratte navi,

Per favor di Nettuno il vasto mare

In un istante varcano: veloci

Come l'ale o il pensier sono i lor legni".

Dette tai cose, frettolosa Palla

Gli entrava innanzi, e l'orme ei ne calcava.

Né i Feaci scorgeanlo andar tra loro:

Così volendo la possente diva,

Pallade, che al suo ben sempre intendea,

E di sacra l'avvolse oscura nube.

Ulisse i porti e i bei costrutti legni

Maravigliava, e le superbe piazze,

Ove i prenci s'assembrano, e le lunghe,

Spettacolo ammirando, eccelse mura

Di steccati munite e di ripari.

Ma non prima d'Alcinoo alle regali

Case appressaro, che Minerva disse:

"Eccoti, ospite padre, in faccia il tetto

Che mi richiedi: là vedrai gli alunni

Di Giove, i prenci, a lauta mensa assisi.

Cacciati dentro, e non temer: l'uom franco

D'ogni difficoltate, a cui s'incontri,

Meglio si trae, benché di lunge arrivi.

Pria la Regina, che si noma Arete,

E comun con Alcinoo il sangue vanta,

Ti s'offrirà alla vista. Il dio che scuote

Del suo tridente la terrena mole,

Un bambin ricevé dalla più bella

Donna di quell'età, da Peribèa,

Figlia minor d'Eurimedonte, a cui

De' Giganti obbedìa l'oltracotata

Progenie rea, che per le lunghe guerre

Tutta col suo re stesso al fin s'estinse.

Nettun di lei s'accese, e n'ebbe un figlio,

Nausìtoo generoso, il qual fu padre

Di Ressènore e Alcinoo; e sul Feace

Popol regnava. Il primo, a cui fallìa

Prole del miglior sesso, avea di poco

Nella sua reggia la consorte addotta

Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse;

Né rimase di lui che una figliuola,

Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,

E venerolla fieramente: donna

Non vive in nodi maritali stretta,

Che sì alto al suo sposo in mente sieda.

E in gran pregio non men l'hanno, ed amore

Portanle i figli, e i cittadini ancora,

Che a lei, quandunque va per la cittade,

Gli occhi alzan, come a diva, e con accenti

Festivi la ricevono; ché senno

Né a lei pur manca vêr chi più tien caro,

E le liti non rado ella compone.

Se un loco prender nel suo cor tu sai,

La terra, dove i lumi apristi al giorno,

La magion de' tuoi padri, e degli amici

I noti volti riveder confida".

Detto, la dea, ch'è nelle luci azzurra,

Su pel mare infruttifero lanciossi.

Lasciò la bella Scheria, e Maratona

Trovò, ed Atene dalle larghe vie,

E nel suo tempio entrò, che d'Erettèo

Fu ròcca inespugnabile. Ma Ulisse

All'ostello reale il piè movea,

E molte cose rivolgea per l'alma,

Pria ch'ei toccasse della soglia il bronzo:

Ché d'Alcinoo magnanimo l'augusto

Palagio chiara, qual di sole o luna,

Mandava luce. Dalla prima soglia

Sino al fondo correan due di massiccio

Rame pareti risplendenti, e un fregio

Di ceruleo metal girava intorno.

Porte d'ôr tutte la inconcussa casa

Chiudean: s'ergean dal limitar di bronzo

Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo

Sosteneano architrave, e anello d'oro

Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,

Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:

Fattura di Vulcan, che in lor ripose

Viscere dotte, e da vecchiezza immuni

Temperolli, e da morte, onde guardato

Fosse d'Alcinoo il glorïoso albergo.

E quanto si stendean le due pareti,

Eranvi sedie quinci e quindi affisse,

Con fini pepli sovrapposti, lunga

Delle donne di Scheria opra solerte.

Qui de' Feaci s'assideano i primi,

La mano ai cibi ed ai licor porgendo,

Che lor metteansi ciascun giorno avante:

E la notte garzoni in oro sculti

Su piedistalli a grande arte construtti,

Spargean lume con faci in su le mense.

Cinquanta il re servono ancelle: l'une

Sotto pietra rotonda il biondo grano

Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi

Con la rapida man rotano assise,

Movendosi ad ognor, quali agitate

Dal vento foglie di sublime pioppo.

Splendono i drappi a maraviglia intesti,

Come se un olio d'ôr su vi scorresse.

Poiché quanto i Feaci a regger navi

Gente non han che li pareggi, tanto

Valgon tele in oprar le Feacesi,

Cui mano industre più che all'altre donne

Diede Minerva, e più sottile ingegno.

Ma di fianco alla reggia un orto grande,

Quanto ponno in dì quattro arar due tori

Stendesi, e viva siepe il cinge tutto.

Alte vi crescon verdeggianti piante,

Il pero e il melagrano, e di vermigli

Pomi carico il melo, e col soave

Fico nettáreo la canuta oliva.

Né il frutto qui, regni la state, o il verno,

Pêre, o non esce fuor: quando sì dolce

D'ogni stagione un zeffiretto spira,

Che mentre spunta l'un, l'altro matura.

Sovra la pera giovane, e su l'uva

L'uva, e la pera invecchia, e i pomi e i fichi

Presso ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata

Vi lussureggia una feconda vigna,

De' cui grappoli il sol parte dissecca

Nel più aereo ed aprìco, e parte altrove

La man dispicca dai fogliosi tralci,

O calca il piè ne' larghi tini: acerbe

Qua buttan l'uve i redolenti fiori,

E di porpora là tingonsi e d'oro.

Ma del giardino in sul confin tu vedi

D'ogni erba e d'ogni fior sempre vestirsi

Ben culte aiuole, e scaturir due fonti

Che non taccion giammai: l'una per tutto

Si dirama il giardino, e l'altra corre,

Passando del cortil sotto alla soglia,

Sin davanti al palagio; e a questa vanno

Gli abitanti ad attingere. Sì bella

Sede ad Alcinoo destinaro i numi.

Di maraviglia tacito e sospeso

Ulisse colà stava; e visto ch'ebbe

Tutto, e rivisto con secreta lode,

Nell'eccelsa magion ratto si mise.

Trovò i Feaci condottieri e prenci,

Che libavan co' nappi all'Argicida

Mercurio, a cui libar solean da sezzo,

Come del letto gli assalìa la brama;

E innanzi trapassò, dentro alla folta

Nube che Palla gli avea sparsa intorno,

Finché ad Arete e al suo marito giunse.

Circondò con le braccia alla Reina

Le ginocchia; ed in quel da lui staccossi

La nube sacra, e in vento si disciolse.

Tutti repente ammutolîro, e forte

Stupìan, guardando l'uom che alla Reina

Supplicava in tal forma: "O del divino

Ressènore figliuola, illustre Arete,

Alle ginocchia tue, dopo infiniti

Disastri, io vegno, vegno al tuo consorte,

E a questi grandi ancor, cui dì felici

Menar gli dèi concedano, e ne' figli

Le ricchezze domestiche e gli onori

Che s'acquistaro, tramandare. Or voi

Scorta m'apparecchiate, acciocché in breve

Alla patria io mi renda ed agli amici,

Da cui vivo lontan tra i guai gran tempo".

Disse, e andò al focolare, e innanzi al foco

Sovra l'immonda cenere sedette:

Né alcun fra tanti aprìa le labbra. Al fine

Parlò l'eroe vecchio Etenèo, che in pronto

Molte avea cose trapassate, e tutti

Di facondia vincea, non men che d'anni:

"Alcinoo", disse con amico petto,

"Poco ti torna onor, che su l'immonda

Cenere il forestier sieda; e se nullo

Muovesi, egli è perché un tuo cenno aspetta.

Su via, leval di terra, e in sedia il poni

Borchiettata d'argento; e ai banditori

Mescer comanda, onde al gran Giove ancora

Che del fulmine gode, e s'accompagna

Co' venerandi supplici, libiamo.

La dispensiera poi di quel che in serbo

Tiene, presenti al forestier per cena".

Alcinoo, udito ciò, lo scaltro Ulisse

Prese per man, dal focolare alzollo

E l'adagiò sovra un lucente seggio,

Fatto sorgerne prima il più diletto

De' suoi figliuoli che sedeangli accanto,

L'amico di virtù Laodamante.

Tosto l'ancella da bel vaso d'oro

Purissim'acqua nel bacil d'argento

Gli versava, e stendea desco polìto,

Su cui l'onesta dispensiera bianchi

Pani venne ad imporre, e di serbate

Dapi gran copia. Ma la sacra possa

Di Alcinoo al banditor: "Pontònoo, il rosso

Licore infondi nelle tazze, e in giro

Recalo a tutti, onde al gran Giove ancora,

Che del fulmine gode, e s'accompagna

Co' venerandi supplici, libiamo".

Disse; e Pontònoo il buon licore infuse,

E il recò, propinando, a tutti in giro.

Ma il re, come libato ebbero, e a piena

Voglia bevuto, in tai parole uscìo:

"O condottieri de' Feaci, o capi,

Ciò che il cor dirvi mi consiglia, udite.

Già banchettati foste: i vostri alberghi

Cercate adunque e riposate. Al primo

Raggio di Sole in numero più spessi

Ci adunerem, perché da noi s'onori

L'ospite nel palagio, e più superbe

Vittime immoleransi: indi con quale

Scorta al suol patrio, per lontan che giaccia,

Possa, non pur senza fatica o noia,

Ma lieto e rapidissimo condursi,

Diviseremo. Esser dee nostra cura

Che danno non l'incolga, in sin ch'ei tocco

Non abbia il suol natìo. Colà poi giunto,

Quel soffrirà, che le severe Parche

Nel dì del suo natale a lui filâro.

E se un dio fosse dall'Olimpo sceso?

Altro s'avvolgerìa disegno in mente

De' numi allora. Spesso a noi mostrarsi

Nell'ecatombe più solenni, e nosco

Starsi degnaro ad una mensa. Dove

Un qualche vïandante in lor s'avvenga,

Non l'occultano a noi, che per vetusta

Origine lor siam molto vicini,

Non altrimenti che i Ciclopi antichi,

E de' Giganti la selvaggia stirpe".

"Alcinoo", gli rispose il saggio Ulisse,

"Muta questo pensiero. Io dell'immenso

Cielo ai felici abitatori eterni

Né d'indole somiglio, né d'aspetto.

Somiglio ai figli de' mortali, e a quanti

Voi conoscete in più angoscioso stato.

Né ad alcuno di lor cedo ne' mali:

Tanti e sì gravi men crearo i numi.

Or cenar mi lasciate, ancor che afflitto;

Però che nulla io so di più molesto

Che il digiun ventre, di cui l'uom mal puote

Dimenticarsi per gravezze o doglie.

Nel fondo io son de' guai: pur questo interno

Signor, che mai di domandar non resta,

Vuol ch'io più non rammenti i danni miei,

E ai cibi stenda ed ai licor la mano.

Ma voi, comparso in Orïente il giorno,

Rimandarmi vi piaccia. Io non ricuso,

Visti i miei servi, l'alte case e i campi,

Gli occhi al lume del Sol chiuder per sempre".

Disse; e tutti assentìano, e fean gran ressa,

Che lo stranier, che ragionò sì bene,

Buona scorta impetrasse. Al fin, libato

Ch'ebbero e a pien bevuto, il proprio albergo

Ciascun cercava, per entrar nel sonno.

Sol nella reggia rimaneasi Ulisse,

E presso gli sedeano Alcinoo e Arete,

Mentre le ancelle del convito i vasi

Dalla mensa toglieano. Arete prima

Gli favellò, come colei che il manto

Riconobbe, e la tunica, leggiadre

Vesti, che di sua man tessute avea

Con le sue fanti, e che or vedeagli in dosso:

"Stranier", gli disse con alate voci,

Di questo io te cercar voglio la prima:

Chi sei tu? Donde sei? Da chi tai panni?

Non ci fai creder tu che ai nostri lidi

Misero, errante e naufrago approdasti?"

E il saggio Ulisse replicògli: "Forte,

Regina, i mali raccontar, che molti

M'invïaro gli dèi. Quel che più brami

Sapere, io toccherò. Lontana giace

Un'isola nel mar che Ogigia è detta.

Quivi d'Atlante la fallace figlia

Dai ben torti capei, Calipso, alberga,

Terribil dea, con cui nessun de' numi

Conversa, o de' mortali. Un genio iniquo

Con lei me solo a dimorar costrinse,

Dappoi che Giove a me per l'onde scure

La ratta nave folgorando sciolse.

Tutti morti ne fûro i miei compagni:

Ma io, con ambe mani alla carena

Della nave abbracciatomi, per nove

Giorni fui trasportato, e nella fosca

Decima notte all'isoletta spinto

Della dea, che m'accolse, e amicamente

Mi trattava e nodriva, e promettea

Da morte assicurarmi e da vecchiezza;

Né però il cor mi piegò mai nel petto.

Sette anni interi io mi vedea con lei,

E di perenni lagrime i divini

Panni bagnava, che mi porse in dono.

Ma tosto che l'ottavo anno si volse,

La diva, o fosse imperïal messaggio

Del figliuol di Saturno, o di lei stessa

Mutamento improvviso, alle mie case

Ritornar confortavami. Su travi,

Da moltiplici nodi in un congiunte,

Con molti doni accommiatommi: pane

Candido e dolce vin diemmi, e odorate

Vesti vestimmi, e, ad incresparmi il mare,

Un placido mandò vento innocente.

Io dieci viaggiava e sette giorni

Su le liquide strade. Al nuovo albore

Mi sorse incontro co' suoi monti ombrosi

L'isola vostra, e a me infelice il core

Ridea, benché altri guai m'apparecchiasse

Nettun, che incitò i venti, il mar commosse,

Mi precise la via; né più speranza

Già m'avanzava, che il naviglio frale

Me gemente portasse all'onde sopra.

Ruppelo al fine il turbo. A nuoto allora

Misurai questo mar, finché alla vostra

Contrada il vento mi sospinse e il flutto.

Quivi alla terra, nell'uscir dell'acque,

Franto un'onda m'avrìa, che me in acute

Punte cacciava, e in disamabil riva:

Se non ch'io, ritirandomi dal lido,

Tanto nôtava, che a un bel fiume sceso

Da Giove io giunsi, ove opportuno il loco

Parvemi e liscio; né in balìa de' venti.

Scampai, le forze raccogliendo. Intanto

Spiegò i suoi veli la divina Notte,

Ed io, lasciato da una parte il fiume,

Sovra un letto di foglie e tra gli arbusti

Giacqui, e m'infuse lungo sonno un dio.

Dormìi l'intera notte insino all'alba,

Dormìi sino al meriggio; e già calava

Verso Occidente il Sole, allor che il dolce

Sonno m'abbandonò. Vidi le ancelle

Della tua figlia trastullar su l'erba,

E lei tra quelle, che una dea mi parve,

E a cui preghiere io porsi; ed ella senno

Mostrava tal, qual non s'attende mai

L'uom da una età sì fresca, in cui s'abbatta,

Perché la fresca età sempre folleggia.

Ella recente pan, vino possente,

Ella comodo bagno a me nel fiume,

Ed ella vesti. Me infelice il fato

Render potrà, ma non potrà bugiardo".

Ed Alcinoo repente: "Ospite, in questo

La mia figlia sfallì, che non condusse

Te con le ancelle alla magion, quantunque

Tu a lei primiera supplicato avessi".

"Eccelso eroe, non mi biasmar", rispose

Lo scaltro Ulisse, "per cagion sì lieve

La incolpabil fanciulla. Ella m'ingiunse

Di seguitarla con le ancelle; ed io

Men guardai, per timor che il tuo vedermi

T'infiammasse di sdegno. Umana, il sai,

Razza noi siamo al sospettare inchina".

Ed Alcinoo di nuovo: "Ospite, un'alma

Già non s'annida in me, che fuoco prenda

Sì prontamente. Alla ragione io cedo,

E quel che onesto è più, sempre io trascelgo.

Ed oh piacesse a Giove, a Palla e a Febo,

Che, qual ti scorgo, e d'un parer con meco

Sposa volessi a te far la mia figlia,

Genero mio chiamarti, e la tua stanza

Fermar tra noi! Case otterresti e beni

Da me, dove il restar non ti sgradisse:

Ché ritenerti a forza, e l'ospitale

Giove oltraggiar, nullo qui fia che ardisca.

Però così su l'alba il tuo vïaggio

Noi disporrem, che abbandonarti al sonno

Nella nave potrai, mentre i Feaci

L'azzurra calma romperan co' remi,

Né cesseran, che nella patria messo

T'abbiano, e ovunque ti verrà desìo,

Foss'anco oltre l'Eubèa, cui più lontana

D'ogni altra regïon che alzi dal mare,

Dicon que' nostri che la vider, quando

A Tizio, figlio della terra, il biondo

Radamanto condussero. All'Eubèa

S'indrizzar, l'afferrar, ne ritornaro

Tutto in un giorno; e non fu grave impresa.

Conoscerai quanto sien bene inteste

Le nostre navi, e i giovani gagliardi

Nel voltar sottosopra il mar co' remi".

Gioì a tai detti il pazïente Ulisse,

E, le braccia levando: "O Giove padre",

Sclamò, "tutte adempir le sue promesse

Possami Alcinoo! Ei gloria eterna avranne,

Ed io porrò nelle mie case il piede".

Queste correan tra lor parole alterne.

Ma la Reina, candida le braccia,

Arete, intanto alle fantesche impose

Il letto collocar sotto la loggia,

Belle gittarvi porporine coltri,

E tappeti distendervi, e ai tappeti

Manti vellosi sovrapporre. Uscîro

Quelle, tenendo in man lucide faci,

Il denso letto sprimacciaro in fretta,

E rïentrate: "Sorgi, ospite; or puoi",

Dissero a Ulisse, "chiuder gli occhi al sonno".

Né punto al forestier l'invito spiacque.

Così ei sotto il portico sonante

Là s'addormìa ne' traforati letti.

Alcinoo si corcò del tetto eccelso

Ne' penetrali; e a lui da presso Arete,

La consorte real, che a sé ed a lui

Preparò di sua mano il letto e i sonni.

  

LIBRO VIII

Ma tosto che rosata ambo le palme,

Comparve in ciel l'aggiornatrice Aurora,

Surse di letto la sacrata possa

Del magnanimo Alcinoo, e il divin surse

Rovesciator delle cittadi Ulisse.

La possanza d'Alcinoo al parlamento,

Che i Feaci tenean presso le navi,

Prima d'ogni altro mosse. A mano a mano

Venìano i Feacesi, e su polite

Pietre sedeansi. L'occhiglauca diva,

Cui d'Ulisse il ritorno in mente stava,

Tolte del regio banditor le forme,

Qua e là s'avvolgea per la cittade,

E appressava ciascuno, e: "Su", dicea,

"Su, prenci e condottieri, al foro, al foro,

Se udir vi cal dello stranier che giunse

Ad Alcinoo testé per molto mare,

E assai più, che dell'uom, del nume ha in viso".

Disse, e tutti eccitò. Della raccolta

Gente fûro in brev'ora i seggi pieni.

Ciascun guardava con le ciglìa in arco

Di Laerte il figliuol: ché a lui Minerva

Sovra il capo diffuse e su le spalle

Divina grazia, ed in grandezza e in fiore

Crebbelo, e in gagliardìa, perch'ei ne' petti

Destar potesse riverenza e affetto,

E de' nobili giuochi, ove chiamato

Fosse a dar di sé prova, uscir con vanto.

Concorsi tutti, e in una massa uniti,

Tra loro arringò Alcinoo in questa guisa:

"O condottieri de' Feaci, e prenci,

Ciò che il cor dirvi mi comanda, udite.

Questo a me ignoto forestier, che venne

Ramingo, e ignoro ancor se donde il Sole

Nasce, o donde tramonta, ai tetti miei

Scorta dimanda pel viaggio, e prega

Gli sia ratto concessa. Or noi l'usanza

Non seguirem con lui? Uomo, il sapete,

Ai tetti miei non capitò, che mesto

Languir dovesse sovra queste piagge,

Per difetto di scorta, i giorni e i mesi.

Traggasi adunque nel profondo mare

Legno dall'onde non battuto ancora,

E s'eleggan cinquanta e due garzoni

Tra il popol tutto, gli ottimi. Costoro,

Varato il legno, e avvinti ai banchi i remi,

Subite e laute ad apprestar m'andranno

Mense, che a tutti oggi imbandite io voglio.

Ma quei che di bastone ornan la mano,

L'ospite nuovo ad onorar con meco

Vengano ad una; e il banditor mi chiami

L'immortale Demodoco, a cui Giove

Spira sempre de' canti il più soave,

Dovunque l'estro, che l'infiamma, il porti".

Detto, si mise in via. Tutti i scettrati

Seguìanlo ad una, e all'immortal cantore

L'araldo indirizzavasi. I cinquanta

Garzoni e due, come il re imposto avea,

Fûro del mar non seminato al lido;

La nave negra nel profondo mare

Trassero, alzâro l'albero e la vela.

I lunghi remi assicurâr con forti

Lacci di pelle, a maraviglia il tutto,

E, le candide vele al vento aperte,

Arrestaro nell'alta onda la nave:

Poscia d'Alcinoo ritrovar l'albergo.

Già i portici s'empiean, s'empieano i chiostri,

Non che ogni stanza, della varia gente,

Che s'accogliea, bionde e canute teste,

Una turba infinita. Il re quel giorno

Diede al sacro coltel dodici agnelle,

Otto corpi di verri ai bianchi denti,

E due di tori dalle torte corna.

Gli scoiâr, gli acconciâr, ne apparecchiaro

Convito invidïabile. L'araldo

Ritorno feo, per man guidando il vate,

Cui la Musa portava immenso amore,

Benché il ben gli temprasse e il male insieme.

Degli occhi il vedovò, ma del più dolce

Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo

Sedia d'argento borchiettata a lui

Pose, e l'affisse ad una gran colonna:

Poi la cetra vocale a un aureo chiodo

Gli appese sovra il capo, ed insegnògli,

Come a staccar con mano indi l'avesse.

Ciò fatto, un desco gli distese avanti

Con panier sopra, e una capace tazza,

Ond'ei, qual volta nel pungea desìo,

Del vermiglio licor scaldasse il petto.

Come la fame rintuzzata, e spenta

Fu la sete in ciascun, l'egregio vate,

Che già tutta sentìasi in cor la Musa,

De' forti il pregio a risonar si volse,

Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo

Salse in que' dì la fama. Era l'antica

Tenzon d'Ulisse e del Pelìade Achille,

Quando di acerbi detti ad un solenne

Convito sacro si ferîro entrambi.

Il re de' prodi Agamennòn gioìa

Tacitamente in sé, visti a contesa

Venire i primi degli Achei: ché questo

Della caduta d'Ilio era il segnale.

Tanto da Febo nella sacra Pito,

Varcato appena della soglia il marmo,

Predirsi allora udì, che di que' mali,

Che sovra i Teucri, per voler di Giove,

Rovesciarsi doveano, e su gli Achivi,

Si cominciava a dispiegar la tela.

A tai memorie il Laerziade, preso

L'ampio ad ambe le man purpureo manto,

Sel trasse in testa, e il nobil volto ascose,

Vergognando che lagrime i Feaci

Vedesserlo stillar sotto le ciglia.

Tacque il cantor divino; ed ei, rasciutte

Le guancie in fretta, dalla testa il manto

Si tolse, e, dato a una ritonda coppa

Di piglio, libò ai numi. I Feacesi

Cui gioia erano i carmi, a ripigliarli

Il poeta eccitavano, che aprìa

Novamente le labbra; e novamente

Coprirsi il volto e lagrimare Ulisse.

Così, gocciando lagrime, da tutti

Celossi. Alcinoo sol di lui s'avvide,

E l'adocchiò, sedendogli da presso,

Oltre che forte sospirare udillo;

E più non aspettando: "Udite", disse,

"Della Feacia condottieri e prenci.

Già del comun convito, e dell'amica

De' conviti solenni arguta cetra

Godemmo. Usciamo, e ne' diversi giuochi

Proviamci, perché l'ospite, com'aggia

Rimesso il piè nelle paterne case,

Narri agli amici, che l'udranno attenti,

Quanto al cesto e alla lotta, e al salto e al corso,

Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente".

Disse, ed entrò in cammino; e i prenci insieme

Seguìanlo. Ma l'araldo, alla caviglia

Rïappiccata la sonante cetra,

Prese il cantor per mano, e fuor del tetto

Menollo: indi guidavalo per quella

Strada, in cui posto erasi Alcinoo e i capi.

Movean questi veloce al Foro il piede,

E gente innumerabile ad un corpo

Lor tenea dietro. Ed ecco sorger molta,

Per cimentarsi, gioventù forzuta.

Sorse Acroneo ed Ocìalo. Eleatrèo sorse,

E Nauteo e Prìmneo e Anchìalo: levossi

Eretméo ancor, Pontèo, Proto, Toòne,

Non che Anabesinèo, non che Anfiàlo,

Di Polinèo Tectonide la prole,

E non ch'Eurìalo all'omicida Marte

Somigliante, e Naubòlide, che tutti,

Ma dopo il senza neo Laodamante,

Vincea di corpo e di beltà. Né assisi

I tre restâr figli d'Alcinoo: desso

Laodamante, Alio, che al Rege nacque

Secondo, e Clitonèo pari ad un nume.

Del corso fu la prima gara. Un lungo

Spazio stendeasi alla carriera; e tutti

Dalle mosse volavano in un groppo

Densi globi di polvere levando.

Avanzò gli altri Clitonèo, che, giunto

Della carriera al fin, lasciolli indietro

Quell'intervallo che i gagliardi muli

I tardi lascian corpulenti buoi,

Se lo stesso noval fendono a un'ora.

Succedé al corso l'ostinata lotta,

Ed Eurìalo prevalse. Il maggior salto

Anfiàlo spiccollo, e il disco lunge

Non iscagliò nessun, com'Elatrèo.

Laodamante, il real figlio egregio,

Nel pùgile severo ebbe la palma.

Fine al diletto de' certami posto,

Parlò tra lor Laodamante: "Amici,

Su via, l'estraneo domandiam di queste

Prove, se alcuna in gioventù ne apprese.

Di buon taglio e' mi sembra; e, dove ai fianchi,

Dove alle gambe, e delle mani ai dossi

Guárdisi, e al fermo collo, una robusta

Natura io veggio, e non mi par che ancora

Degli anni verdi l'abbandoni il nerbo.

Ma il fransero i disagi all'onde in grembo:

Ché non è, quanto il mar, siccome io credo,

Per isconfigger l'uom, benché assai forte".

"Laodamante, il tuo parlar fu bello",

Eurìalo rispondea. "Però l'abborda

Tu stesso, e il tenta; e a fuori uscir l'invita".

Come d'Alcinoo l'incolpabil figlio

Questo ebbe udito, si fe' innanzi, e stando

Nel mezzo: "Orsù, gli disse, ospite padre,

Tu ancor ne' giochi le tue forze assaggia,

Se alcun mai ne apparasti a' giorni tuoi,

E degno è ben che non ten mostri ignaro:

Quando io non so per l'uom gloria maggiore

Che del piè con prodezza e della mano,

Mentre in vita riman, poter valersi.

T'arrischia dunque, e la tristezza sgombra

Dall'alma. Poco il desïato istante

Del tuo vïaggio tarderà: varata

Fu già la nave, e i rèmigi son pronti".

Ma così gli rispose il saggio Ulisse:

"Laodamante, a che cotesto invito,

Deridendomi quasi? Io, più che giochi,

Disastri volgo per l'afflitta mente,

Io, che tanto patìi, sostenni tanto,

E or qui, mendico di ritorno e scorta,

Siedomi, al re pregando, e al popol tutto".

Il bravo Eurìalo a viso aperto allora:

"Uom non mi sembri tu, che si conosca

Di quelle pugne che la stirpe umana

Per suo diletto esercitar costuma.

Tu m'hai vista di tal che presso nave

Di molti banchi s'affaccendi, capo

Di marinari al trafficare intesi,

Che in mente serba il carico, ed al vitto

Pensa; e ai guadagni con rapina fatti:

Ma nulla certo dell'atleta tieni".

Mirollo bieco, e replicògli Ulisse:

"Male assai favellasti, e ad uom protervo

Somigli in tutto. Così è ver che i numi

Le più care non dan doti ad un solo:

Sembiante, ingegno e ragionar che piace.

L'un bellezza non ha, ma della mente

Gl'interni sensi in cotal guisa esprime,

Che par delle parole ornarsi il volto.

Gode chiunque il mira. Ei, favellando

Con soave modestia, e franco a un tempo,

Spicca in ogni consesso; e allor che passa

Per la città, gli occhi a sé attrae, qual nume.

L'altro nel viso e nelle membra un mostra

Degl'immortali dèi: pur non si vede

Grazia che ai detti suoi s'avvolga intorno.

Così te fregia la beltà, né meglio

Formar saprìan gli stessi eterni un volto:

Se non che poco della mente vali.

Mi trafiggesti l'anima nel petto,

Villane voci articolando; io nuovo

Non son de' giochi qual tu cianci e credo

Anzi, ch'io degli atleti andai tra i primi,

Finché potei de' verdi anni e di queste

Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche

Durai, tra l'armi penetrando e l'onde,

Gl'infortunï domaro. E non pertanto

Cimenterommi: ché mordace troppo

Fu il tuo sermon, ne più tenermi io valgo".

Disse; e co' panni stessi, in ch'era involto,

Lanciossi, ed afferrò massiccio disco,

Che quelli, onde giocar solean tra loro,

Molto di mole soverchiava e pondo.

Rotollo in aria, e con la man robusta

Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci,

Que' naviganti celebri, que' forti

Remigatori, s'abbattero in terra

Per la foga del sasso il qual, partito

Da sì valida destra, i segni tutti

Rapidamente sorvolò. Minerva,

Vestite umane forme, il segno pose,

E all'ospite conversa: "Un cieco", disse,

"Trovar, palpando, tel potrìa: ché primo,

Né già di poco, e solitario sorge.

Per questa prova dunque alcun timore

Non t'anga: lunge dal passarti, alcuno

Tra i Feaci non fia che ti raggiunga".

Rallegrossi a tai voci, e si compiacque

Il Laerzìade, che nel circo uom fosse

Che tanto il favorìa. Quindi ai Feaci

Più mollemente le parole volse:

"Quello arrivate, o damigelli, e un altro

Pari, o più grande, fulminarne in breve

Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri

Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora,

Chi far periglio di se stesso agogna,

Venga in campo con me: poiché di vero

Mi provocaste oltre misura. Uom vivo

Tra i Feacesi io non ricuso, salvo

Laodamante, che ricetto dammi.

Chi entrar vorrebbe con l'amico in giostra?

Stolto e da nulla è senza dubbio, e tutto

Storpia le imprese sue, chïunque, in mezzo

D'un popol stranier, con chi l'alberga

Si presenta a contendere. Degli altri

Nessun temo, o dispregio, e son con tutti

Nel dì più chiaro a misurarmi pronto,

Come colui che non mi credo imbelle,

Quale il cimento sia. L'arco lucente

Trattare appresi: imbroccherei primaio,

Saettando un guerrier dell'oste avversa,

Benché turba d'amici a me d'intorno

Contra quell'oste disfrenasse i dardi.

Sol Filottete mi vincea dell'arco,

Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci:

Ma quanti sulla terra or v'ha mortali,

Cui la forza del pane il cor sostenta,

Io di gran lunga superar mi vanto:

Ché non vo' pormi io già co' prischi eroi,

Con Eurìto d'Ecalia, o con Alcìde,

Che agli dèi stessi di scoccar nell'arte

Si pareggiâro. Che ne avvenne? Giorni

Sorser pochi ad Eurìto, e le sue case

Nol videro invecchiar, poscia che Apollo

Forte si corrucciò che disfidato

L'avesse all'arco, e di sua man l'uccise.

Dell'asta poi, quanto nessun di freccia

Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo

Non mi vantaggi alcun: ché, tra che molto

M'afflisse il mare, e che non fu il mio legno

Sempre vettovagliato, a me, qual prima,

Non ubbidisce l'infedel ginocchio".

Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo

Rispose: "Forestier, la tua favella

Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto

De' motti audaci, onde colui ti morse,

La virtù mostrar vuoi che t'accompagna,

Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga,

Più biasmata non fia. Ma tu m'ascolta,

Acciocché un dì, quando nel tuo palagio

Sederai con la sposa e i figli a mensa,

E quel che di gentile in noi s'annida,

Rimembrerai, possa un illustre amico

Favellando narrar, quali redammo

Studi dagli avi, per voler di Giove.

Non siam né al cesto, né alla lotta egregi;

Ma rapidi moviam, correndo, i passi,

E a maraviglia navighiamo. In oltre

Giocondo sempre il banchettar ci torna,

Musica e danza, ed il cangiar di veste,

I tepidi lavacri e i letti molli.

Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo

Pregio dell'arte della danza avete,

Fate che lo straniero a' suoi più cari,

Risalutate le paterne mura,

Piacciasi raccontar, quanto anche al ballo,

Non che al nautico studio ed alla corsa,

Noi da tutte le genti abbiam vantaggio.

E tu, Pontonoo, per l'arguta cetra,

Che nel palagio alla colonna pende,

Vanne e al divin Demodoco la reca".

Sorse, e partì l'araldo; e al tempo stesso

Sorsero i nove a presedere ai giuochi

Giudici eletti dai comuni voti:

Ed il campo agguagliâro, e dilataro,

Rimosse alquanto le persone, il circo.

Tornò l'araldo con la cetra, e in mano

La pose di Demodoco, che al circo

S'adagiò in mezzo. Danzatori allora

D'alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni

Feano al vate corona, ed il bel circo

Co' presti piedi percoteano. Ulisse

De' frettolosi piè gli sfolgorìi

Molto lodava; e non si rïavea

Dallo stupor che gl'ingombrava il petto.

Ma il poeta divin, citareggiando,

Del bellicoso Marte, e della cinta

Di vago serto il crin Vener Ciprigna,

Prese a cantar gli amori, ed il furtivo

Lor conversar nella superba casa

Del re del fuoco, di cui Marte il casto

Letto macchiò nefandemente, molti

Doni offerti alla dea, con cui la vinse.

Repente il Sole, che la colpa vide,

A Vulcan nunzïolla; e questi, udito

L'annunzio doloroso, alla sua negra

Fucina corse, un'immortal vendetta

Macchinando nell'anima. Sul ceppo

Piantò una magna incude; e col martello

Nodi, per ambo imprigionarli, ordìa

A frangersi impossibili, o a disciorsi.

Fabbricate le insidie, ei, contra Marte

D'ira bollendo, alla secreta stanza,

Ove steso giaceagli il caro letto,

S'avvïò in fretta, e alla lettiera bella

Sparse per tutto i fini lacci intorno,

E molti sospendeane all'alte travi,

Quai fila sottilissime d'aragna,

Con tanta orditi e sì ingegnosa fraude,

Che né d'un dio li potea l'occhio tôrre.

Poscia che tutto degl'industri inganni

Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno.

Terra ben fabbricata, e, più che ogni altra

Cittade, a lui diletta. In questo mezzo

Marte, che d'oro i corridori imbriglia,

Alle vedette non istava indarno.

Vide partir l'egregio fabbro, e, sempre

Nel cor portando la di vago serto

Cinta il capo Ciprigna, alla magione

Del gran mastro de' fuochi in fretta mosse.

Ritornata di poco era la diva

Dal Saturnìde onnipossente padre

Nel coniugale albergo; e Marte, entrando,

La trovò che posava, e lei per mano

Prese, e a nome chiamò: "Venere", disse,

"Ambo ci aspetta il solitario letto.

Di casa uscì Vulcano; altrove, a Lenno

Vassene, e ai Sinti di selvaggia voce".

Piacque l'invito a Venere, e su quello

Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci

Lor s'avvolgean per cotal guisa intorno,

Che stendere una man, levare un piede,

Tutto era indarno; e s'accorgeano al fine

Non aprirsi di scampo alcuna via.

S'avvicinava intanto il fabbro illustre,

Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:

Perocché il Sole spïator la trista

Storia gli raccontò. Tutto dolente

Giunse al suo ricco tetto ed arrestossi

Nell'atrio: immensa ira l'invase, e tale

Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti

Dell'Olimpo l'udir gli abitatori:

"O Giove padre, e voi", disse, beati

Numi, che d'immortal vita godete,

Cose venite a rimirar da riso,

Ma pure insopportabili. Ciprigna,

Di Giove figlia, me, perché impedito

De' piedi son, copre d'infamia ognora,

Ed il suo cor nell'omicida Marte

Pone, come in colui che bello e sano

Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.

Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,

Che tal non mi dovean mettere in luce,

Parenti miei? testimon siate, o numi,

Del lor giacersi uniti, e dell'ingrato

Spettacol che oggi sostener m'è forza.

Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,

Benché sì accesi, e a cotai sonni in preda

Più non vorranno abbandonarsi. Certo

Non si svilupperan d'este catene,

Se tutti prima non mi torna il padre

Quei ch'io posi in sua man, doni dotali

Per la fanciulla svergognata: quando

Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,

Ma del proprio suo cor non donna punto".

Disse; e i dèi s'adunâro alla fondata

Sul rame casa di Vulcano. Venne

Nettuno, il dio per cui la terra trema,

Mercurio venne de' mortali amico,

Venne Apollo dal grande arco d'argento.

Le dee non già; ché nelle stanze loro

Ritenevale vergogna. Ma i datori

D'ogni bramato ben dèi sempiterni

Nell'atrio s'adunâr: sorse tra loro

Un riso inestinguibile, mirando

Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo

Gli occhi al vicino, in tai parole uscìa:

"Fortunati non sono i nequitosi

Fatti, e il tardo talor l'agile arriva.

Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte,

Che di velocità tutti d'Olimpo

Vince gli abitator, cogliere: il colse,

Zoppo essendo, con l'arte; onde la multa

Dell'adulterio gli può tôrre a dritto".

Allor così a Mercurio il gaio Apollo:

"Figlio di Giove, messaggiero accorto,

Di grate cose dispensier cortese,

Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi

Dormire all'aurea Venere da presso?"

"Oh questo fosse", gli rispose il nume

Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo;

"Fosse, o sir dall'argenteo arco, e in legami

Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,

E intendessero i numi in me lo sguardo

Tutti, e tutte le dee! Non mi dorrìa

Dormire all'aurea Venere da presso".

Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.

Ma non ridea Nettuno; anzi Vulcano,

L'inclito mastro, senza fin pregava,

Liberasse Gradivo, e con alate

Parole gli dicea: "Scioglilo. Io t'entro

Mallevador, che agl'Immortali in faccia

Tutto ei compenserà, com'è ragione".

"Questo", rispose il dio dai piè distorti

Al Tridentier dalle cerulee chiome,

"Non ricercar da me. Triste son quelle

Malleverìe che dànnosi pe' tristi.

Come legarti agl'Immortali in faccia

Potrei, se Marte, de' suoi lacci sciolto,

Del debito, fuggendo, anco s'affranca?"

"Io ti satisfarò", riprese il nume

Che la terra circonda, e fa tremarla.

E il divin d'ambo i piè zoppo ingegnoso:

"Bello non fôra il ricusar, né lice".

Disse, e d'un sol suo tocco i lacci infranse.

Come liberi fûr, saltaro in piede,

E Marte in Tracia corse, ma la diva

Del riso amica, riparando a Cipri

In Pafo si fermò, dove a lei sacro

Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.

Qui le Grazie lavaro, e del fragrante

Olio, che la beltà cresce de' numi,

Unsero a lei le delicate membra:

Poi così la vestir, che meraviglia

Non men che la dea stessa, era il suo manto.

Tal cantava Demodoco; ed Ulisse

E que' remigator forti, que' chiari

Navigatori, di piacere, udendo,

Le vene ricercar sentìansi, e l'ossa.

Ma di Laodamante e d'Alio soli,

Ché gareggiar con loro altri non osa,

Ad Alcinoo mirar la danza piacque.

Nelle man tosto la leggiadra palla

Si recaro, che ad essi avea l'industre

Polibo fatta, e colorata in rosso.

L'un la palla gittava in vêr le fosche

Nubi, curvato indietro; e l'altro, un salto

Spiccando, riceveala, ed al compagno

La rispingea senza fatica o sforzo,

Pria che di nuovo il suol col piè toccasse.

Gittata in alto la vermiglia palla,

La nutrice di molti amica terra

Co' dotti piedi cominciaro a battere,

A far volte e rivolte alterne e rapide,

Mentre lor s'applaudìa dagli altri giovani

Nel circo, e acute al ciel grida s'alzavano.

Così ad Alcinoo l'Itacese allora:

"O de' mortali il più famoso e grande,

Mi promettesti danzatori egregi,

E ingannato non m'hai. Chi può mirarli

Senza inarcar dello stupor le ciglia?"

Gioì d'Alcinoo la sacrata possa,

E ai Feaci rivolto: "Udite", disse,

"Voi che per sangue e merto i primi siete.

Saggio assai parmi il forestiero, e degno

Che di ricchi l'orniam doni ospitali.

Dodici reggon questa gente illustri

Capi, e tra loro io tredicesmo siedo.

Tunica, e manto, ed un talento d'oro

Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo,

Ond'ei, così donato, alla mia cena,

Con più gioia nel cor vegna e s'assida.

Eurìalo, che il ferì d'acerbi motti

Co' doni, e in un con le parole, il plachi".

Assenso diè ciascuno, e un banditore

Mandò pe' doni, e così Eurìalo: "Alcinoo,

Il più famoso de' mortali e grande,

L'ospite io placherò, come tu imponi.

Gli offrirò questa di temprato rame

Fedele spada che d'argento ha l'elsa,

La vagina d'avorio: e fu l'avorio

Tagliato dall'artefice di fresco.

Non l'avrà, io penso, il forestier a sdegno".

Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose

Con tali accenti: "Ospite padre, salve.

Se dura fu profferta e incauta voce,

Prendala, e seco il turbine la porti.

E a te della tua donna e degli amici,

Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi,

Giove conceda i desïati aspetti".

"Salve", gli replicò subito Ulisse,

"Amico, e tu. Gli abitator d'Olimpo

Dìanti felici dì: né mai nel petto

Per volger d'anni uopo o desir ti nasca

Di questa spada ch'io da te ricevo,

Benché placato già sol da' tuoi detti".

Tacque; e il buon brando agli omeri sospese.

Già declinava il Sole, e innanzi a Ulisse

Stavano i doni. Gli onorati araldi

Nella reggia portâro i doni eletti,

Che dai figli del re tolti, e all'augusta

Madre davante collocati fûro.

Alcinoo entrò alla reggia, e seco i prenci,

Che altamente sedero; e del re il sacro

Valore in forma tal parlò ad Arete:

"Donna, su via, la più sald'arca e bella

Fuor traggi, ed una tunica vi stendi,

E un manto di cui nulla offenda il lustro.

Scaldisi in oltre allo stranier nel cavo

Rame sul foco una purissim'onda,

Perché, le membra asterse, e visti in bello

Ordin riposti de' Feaci i doni,

Meglio il cibo gli sappia, e più gradito

Scendagli al core per l'orecchio il canto.

Io questa gli darò di pregio eccelso

Mia coppa d'oro, acciò non sorga giorno,

Ch'ei d'Alcinoo non pensi, al Saturnide

Libando nel suo tetto, e agli altri numi".

Disse; ed Arete alle sue fanti ingiunse

Porre il treppiede in su le brace ardenti.

Quelle il treppiede in su le ardenti brace

Posero, e versâr l'onda, e le raccolte

Legne accendeanvi sotto: il cavo rame

Cingean le fiamme, e si scaldava il fonte.

Arete fuor della secreta stanza

Trasse dell'arche la più salda e bella,

E tutti con la tunica e col manto

Vi allogò i doni in vestimenta e in oro,

Indi assennava l'ospite: "Il coverchio

Metti tu stesso, e bene avvolgi il nodo,

Non fosse alcun ti nuoccia, ove te il dolce

Sonno cogliesse nella negra nave".

L'accorto eroe, che non udilla indarno,

Mise il coverchio, e l'intricato nodo

Prestamente formò, di cui mostrato

Gli ebbe il secreto la dedalea Circe.

E qui ad entrar la dispensiera onesta

L'invitava nel bagno. Ulisse vide

I lavacri fumar tanto più lieto,

Ché tai conforti s'accostâr di rado

Al suo corpo, dal dì che della ninfa

Le grotte più nol ritenean, dov'era

D'ogni cosa adagiato al par d'un nume.

Lavato ed unto per le scorte ancelle,

E di manto leggiadro e di leggiadra

Tunica cinto, alla gioconda mensa

Da' tepidi lavacri Ulisse giva.

Nausica, cui splendea tutta nel volto

La beltà degli dèi, della superba

Sala fermossi alle lucenti porte.

Sguardava Ulisse, e l'ammirava, e queste

Mandavagli dal sen parole alate:

"Felice, ospite, vivi e ti ricorda,

Come sarai nella natìa terra,

Di quella, onde pria venne a te salute".

"Nausica, del pro' Alcinoo inclita figlia",

Ulisse rispondeale; "oh! così Giove,

L'altitonante di Giunon marito,

Voglia che il dì del mio ritorno spunti,

Com'io nel dolce ancor nido nativo

Sempre, qual dea, t'onorerò: ché fosti

La mia salvezza tu, fanciulla illustre".

Già le carni partìansi, e nelle coppe

Gli umidi vini si mesceano. Ed ecco

Il banditor venir, guidar per mano

L'onorato da tutti amabil vate,

E adagiarlo, facendogli d'un'alta

Colonna appoggio, ai convitati in mezzo.

Ulisse allor dall'abbrostita e ghiotta

Schiena di pingue, dentibianco verro

Tagliò un florido brano, ed all'araldo:

"Te'", disse, "questo, e al vate il porta, ond'io

Rendagli, benché afflitto, un qualche onore.

Chi è che in pregio e in riverenza i vati

Non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui

Sì dolci melodie la Musa impara".

Portò l'araldo il dono, e il vate il prese,

E per l'alma gli andò tacita gioia.

Alle vivande intanto e alle bevande

Porgean la mano; e fûro spenti appena

Della fame i desìri e della sete,

Che il saggio Ulisse tali accenti sciolse:

"Demodoco, io te sopra ogni vivente

Sollevo, te, che la canora figlia

Del sommo Giove, o Apollo stesso inspira.

Tu i casi degli Achivi, e ciò che oprâro,

Ciò che soffrìro, con estrema cura,

Quasi visto l'avessi, o da' que' prodi

Guerrieri udito, su la cetra poni.

Via, dunque, siegui e l'edifizio canta

Del gran cavallo, che d'inteste travi,

Con Pallade al suo fianco, Epèo construsse,

E Ulisse penetrar feo nella rocca

Dardania, pregno (stratagemma insigne!)

Degli eroi, per cui Troia andò in faville.

Ciò fedelmente mi racconta, e tutti

Sclamar m'udranno, ed attestar che il petto

Di tutta la sua fiamma il dio t'accende".

Demodoco, che pieno era del nume,

D'alto a narrar prendea, come gli Achivi,

Gittato il foco nelle tende, i legni

Parte saliro, e aprir le vele ai venti.

Parte sedean col valoroso Ulisse

Ne' fianchi del cavallo entro la rocca.

I Troi, standogli sotto in cerchio assisi,

Molte cose dicean; ma incerte tutte.

E in tre sentenze divideansi: o il cavo

Legno intagliato lacerar con l'armi,

O addurlo in cima d'una rupe, e quindi

Precipitarlo; o il simulacro enorme

Agli adirati numi offrire in voto.

Questo prevalse alfin: poiché destino

Era che allor perisse Ilio superbo,

Che ricettata nel suo grembo avesse

L'immensa mole intesta, ove de' Greci,

Morte ai Troi per recar, sedeano i capi.

Narrava pur, come de' Greci i figli,

Fuor di quella versatisi, e lasciate

Le cave insidie, la cittade a terra

Gittaro; e come, mentre i lor compagni

Guastavan qua e là palagi e templi,

Ulisse di Deïfobo alla casa

Col divin Menelao corse, qual Marte,

E un duro v'ebbe a sostener conflitto,

Donde uscì vincitore, auspice Palla.

A tali voci, a tai ricordi Ulisse

Struggeasi dentro, e per le smorte guance

Piovea lagrime giù dalle palpèbre.

Qual donna piange il molto amato sposo,

Che alla sua terra innanzi, e ai cittadini

Cadde e ai pargoli suoi, da cui lontano

Volea tener l'ultimo giorno; ed ella,

Che moribondo il vede e palpitante,

Sovra lui s'abbandona, ed urla e stride,

Mentre ha di dietro chi dell'asta il tergo

Le va battendo e gli omeri, e le intima

Schiavitù dura, e gran fatica e strazio,

Sì che già del dolor la miserella

Smunto ne porta e disfiorato il volto:

Così Ulisse di sotto alle palpèbre

Consumatrici lagrime piovea.

Pur del suo pianto non s'accorse alcuno,

Salvo re Alcinoo, che sedeagli appresso,

E gemere il sentìa: però ai Feaci:

"Udite", disse, "o condottieri e prenci;

Deponga il vate la sonante cetra;

Ché a tutti il canto suo grato non giunge.

Dal primo istante ch'ei toccolla, in pianto

Cominciò a romper l'ospite, a cui siede

Certo un'antica in sen cura mordace.

La mano adunque dalle corde astenga;

E lieto allo stranier del par che a noi

Che il ricettammo, questo giorno cada.

Consiglio altro non v'ha. Per chi tal festa?

Per chi la scorta preparata e i doni,

D'amistà pegni, e le accoglienze oneste?

Un supplice straniero ad uom, che punto

Scorga diritto, è di fratello in vece.

Ma tu di quel ch'io domandarti intendo,

Nulla celarmi astutamente: meglio

Torneranne a te stesso. Il nome dimmi,

Con che il padre solea, solea la madre,

E i cittadin chiamarti, ed i vicini:

Ché senza nome uom non ci vive in terra,

Sia buono o reo; ma, come aperse gli occhi,

Da' genitori suoi l'acquista in fronte.

Dimmi il tuo suol, le genti e la cittade,

Sì che la nave d'intelletto piena

Prenda la mira, e vi ti porti. I legni

Della Feacia di nocchier mestieri

Non han, né di timon: mente hanno, e tutti

Sanno i disegni di chi stavvi sopra.

Conoscon le cittadi e i pingui campi,

E senza tema di ruina o storpio,

Rapidissimi varcano, e di folta

Nebbia coverti, le marine spume.

Bensì al padre Nausitoo io dire intesi

Che Nettun contra noi forte s'adira,

Perché illeso alla patria ogni mortale

Riconduciamo; e che un de' nostri legni

Ben fabbricati, al suo ritorno, il dio

Struggerà nelle fosche onde, e la nostra

Cittade coprirà d'alta montagna.

Ma effetto abbiano, o no, queste minacce,

Tu mi racconta, né fraudarmi il vero,

I mari scorsi e i visitati lidi.

Parlami delle genti, e delle terre

Che di popol ridondano, e di quante

Veder t'avvenne nazioni agresti,

Crudeli, ingiuste, o agli stranieri amiche,

A cui timor de' numi alberga in petto.

Né mi tacer, perché secreto piangi,

Quando il fato di Grecia e d'Ilio ascolti.

Se venne dagli dèi strage cotanta,

Lor piacque ancor che degli eroi le morti

Fossero il canto dell'età future.

Ti perì forse un del tuo sangue a Troia,

Genero prode, o suocero, i più dolci

Nomi al cor nostro dopo i figli e i padri?

O forse un fido, che nell'alma entrarti

Sapea, compagno egregio? È qual fratello

L'uom che sempre usa teco, e a cui fornìro

D'alta prudenza l'intelletto i numi".

 

LIBRO IX

"Alcinoo Rege, che ai mortali tutti

Di grandezza e di gloria innanzi vai,

Bello è l'udir", gli replicava Ulisse,

"Cantor, come DemOdoco, di cui

Pari a quella d'un dio suona la voce:

Né spettacol più grato havvi, che quando

Tutta una gente si dissolve in gioia,

Quando alla mensa, che il cantor rallegra,

Molti siedono in ordine, e le lanci

Colme di cibo son, di vino l'urne,

Donde coppier nell'auree tazze il versi,

E ai convitati assisi il porga in giro.

Ma tu la storia de' miei guai domandi,

Perch'io rinnovi ed inacerbi il duolo.

Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremo

Racconto serberò delle sventure,

Che gravi e molte m'invïAro i numi?

Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno,

Mi si concede riposata e ferma,

Dell'ospitalità ci unisca il nodo,

Benché quinci lontan sorga il mio tetto.

Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,

Per tutti accorgimenti al mondo in pregio,

E già noto per fama in sino agli astri.

Abito la serena Itaca, dove

Lo scotifronde Nérito si leva

Superbo in vista, ed a cui giaccion molte

Non lontane tra loro isole intorno,

Dulichio, Same, e la di selve bruna

Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste,

Itaca al polo si rivolge, e meno

Dal continente fugge: aspra di scogli,

Ma di gagliarda gioventù nutrice.

Deh qual giammai l'uom può della natìa

Sua contrada veder cosa più dolce?

Calipso, inclita diva, in cave grotte

Mi ritenea, mi ritenea con arte

Nelle sue case la dedalea Circe,

Desïando d'avermi entrambe a sposo.

Ma né Calipso a me, né Circe il core

Piegava mai; ché di dolcezza tutto

La patria avanza, e nulla giova un ricco

Splendido albergo a chi, da' suoi disgiunto,

Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi

Quel che da Troia prescriveami Giove

Lacrimabil ritorno; ed io tel narro.

Ad Ismaro, de' Cìconi alla sede,

Me, che lasciava Troia, il vento spinse.

Saccheggiai la città, strage menai

Degli abitanti; e sì le molte robe

Dividemmo e le donne, che alla preda

Ciascuno ebbe ugual parte. Io gli esortava

Partir subito e in fretta; e i forsennati,

Dispregiando il mio dir, pecore pingui,

Pingui a scannar tortocornuti tori,

E larghi nappi ad asciugar sul lido.

S'allontanaro in questo mezzo, e voce

Diero i Cìconi ai Cìconi vicini,

Che più addentro abitavano. Costoro,

Che in numero vincean gli altri, ed in forza,

E battagliare a piè, come dal carro,

Sapean del pari, mattutini, e tanti,

Quante son fronde a primavera e fiori,

Vennero; e allor di cielo a noi meschini

Riversò addosso un gran sinistro Giove.

Stabile accanto alle veloci navi

Pugna si commettea: d'ambo le parti

Volavan le pungenti aste omicide.

Finché il mattin durava, e il sacro sole

Acquistava del ciel, benché più scarsi,

Sostenevam della battaglia il nembo.

Ma come il sol, calandosi all'Occaso,

L'ora menò, che dal pesante giogo

Si disciolgono i buoi, l'achiva forza

Fu dall'aste de' Cìconi respinta.

Sei de' compagni agli schinieri egregi

Perdé ogni nave: io mi salvai col resto.

Lieti nel cor della schivata morte,

E de' compagni nella pugna uccisi

Dolenti in un, ci allargavam dal lido;

Ma le ondìvaghe navi il lor cammino

Non proseguian, che tre fïate in prima,

Non si fosse da noi chiamato a nome

Ciascun di quei che giacean freddi addietro.

L'adunator de' nembi olimpio Giove

Contro ci svegliò intanto una feroce

Tempesta boreal, che d'atre nubi

La terra a un tempo ricoverse e il mare,

E la notte di cielo a piombo scese.

Le vele ai legni, che moveansi obbliqui,

Squarciò in tre e quattro parti il forte turbo.

Noi del timore ammainammo, e ratto

I navigli affrettammo in vêr la spiaggia,

Ove due giorni interi, e tante notti,

Posavam lassi, e addolorati e muti.

Ma come l'Alba dai capelli d'oro

Il dì terzo recò, gli alberi alzati,

E dispiegate le candide vele,

Entro i navigli sedevam, la cura

Al timonier lasciandone ed al vento.

Tempo era quello da toccar le amate

Sponde natìe: se non che Borea e un'aspra

Corrente me, che la Malèa girava,

Respinse indietro ed a Citera volse.

Per nove infausti dì sul mar pescoso

I venti rei mi trasportâro. Al fine

Nel decimo sbarcammo in su le rive

De' Lotofàgi, un popolo, a cui cibo

È d'una pianta il florido germoglio.

Entrammo nella terra, acqua attignemmo,

E pasteggiammo appo le navi. Estinti

Della fame i desiri e della sete,

Io due scelgo de' nostri, a cui per terzo

Giungo un araldo, e a investigar li mando,

Quai mortali il paese alberghi e nutra.

Partiro e s'affrontaro a quella gente,

Che, lunge dal voler la vita loro,

Il dolce loto a savorar lor porse.

Chïunque l'esca dilettosa e nuova

Gustato avea, con le novelle indietro

Non bramava tornar: colà bramava

Starsi, e, mangiando del soave loto,

La contrada natìa sbandir dal petto.

È ver ch'io lagrimosi al mar per forza

Li ricondussi, entro i cavati legni

Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:

E agli altri risalir con gran prestezza

Le negre navi comandai, non forse

Ponesse alcun nel dolce loto il dente,

E la patria cadessegli dal core.

Quei le navi saliano, e sovra i banchi

Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo

Co' pareggiati remi il mar canuto.

Ci portammo oltre, e de' Ciclopi altieri,

Che vivon senza leggi, a vista fummo.

Questi, lasciando ai numi ogni pensiero,

Né ramo o seme por, né soglion gleba

Col vomero spezzar; ma il tutto viene

Non seminato, non piantato o arato:

L'orzo, il frumento e la gioconda vite,

Che si carca di grosse uva, e cui Giove

Con pioggia tempestiva educa e cresce.

Leggi non han, non radunanze, in cui

Si consulti tra lor: de' monti eccelsi

Dimoran per le cime, o in antri cavi;

Su la moglie ciascun regna e su i figli,

Né l'uno all'altro tanto o quanto guarda.

Ai Ciclopi di contra, e né vicino

Troppo, né lunge, un'isoletta siede

Di foreste ombreggiata, ed abitata

Da un'infinita nazïon di capre

Silvestri, onde la pace alcun non turba;

Che il cacciator, che per burroni e boschi

Si consuma la vita, ivi non entra,

Non aratore o mandrïan v'alberga.

Manca d'umani totalmente, e solo

Le belanti caprette, inculta, pasce.

Però che navi dalle rosse guance

Tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno

Cerchi fabbro di nave a saldi banchi,

Su cui passare i golfi, e le straniere

Città trovar, qual delle genti è usanza,

Che spesso van l'una dall'altra ai lidi,

E all'isola deserta addur coloni.

Malvagia non è certo, e in sua stagione

Tutto darebbe. Molli e irrigui prati

Spiegansi in riva del canuto mare.

Si vestirìan di grappi ognor le viti,

E così un pingue suolo il vomer curvo

Riceverìa, che altissima troncarvi

Potrìasi al tempo la bramata messe.

Che del porto dirò? Non v'ha di fune

Ne d'àncora mestieri; e chi già entrovvi,

Tanto vi può indugiar, che de' nocchieri

Le voglie si raccendano, e secondi

Spirino i venti. Ma del porto in cima

S'apre una grotta, sotto cui zampilla

L'argentina onda d'una fonte, e a cui

Fan verdissimi pioppi ombra e corona.

Là smontavamo, e per l'oscura notte,

Noi, spenta ogni veduta, un dio scorgea:

Ché una densa caligine alle navi

Stava d'intorno, né splendea dal cielo

La luna, che d'un nembo era coverta.

Quindi nessun l'isola vide, e i vasti

Flutti al lido volventisi, che prima

Approdati non fossimo. Approdati,

Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo

Sul lido, e l'Alba dalle rosee dita,

Nel sonno disciogliendoci, aspettammo.

Sorta la figlia del mattino appena,

L'isoletta, che in noi gran maraviglia

Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe,

Prole cortese dell'egïoco Giove,

Per fornir di convito i miei compagni,

Quelle capre levaro. E noi repente,

Presi i curvi archi e le asticciuole acute,

E tre schiere di noi fatte, in tal guisa

Il monte fulminammo e il bosco tutto,

Ch'io non so, se dai numi in sì brev'ora

Fu concessa giammai caccia sì ricca.

Dodici navi mi seguìano, e nove

Capre ottenne ciascuna: io dieci n'ebbi.

Tutto quel giorno sedevamo a mensa

Tra carni immense e prezïoso vino:

Poiché restava su le navi ancora

Del licore, onde molte anfore e molte

Rïempiuto avevam, quando la sacra

Dispogliammo de' Cìconi cittade.

E de' Ciclopi nel vicin paese

Levate intanto tenevam le ciglia,

E salir vedevamo il fumo, e miste

Col belo dell'agnelle e delle capre

Raccoglievam le voci. Il sole ascoso,

Ed apparse le tenebre, le membra

Sul marin lido a riposar gettammo.

Ma come del mattin la figlia sorse,

Tutti chiamati a parlamento: "Amici",

Dissi, vi piaccia rimaner, mentr'io

Della gente a spïar vo' col mio legno,

Se ingiusta, soperchievole, selvaggia,

O di core ospital siasi, ed a cui

Timor de' numi si racchiuda in petto".

Detto, io montai la nave, e ai remiganti

Montarla ingiunsi, e liberar la fune.

E quei ratto ubbidiro, e già su i banchi

Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo

Co' pareggiati remi il mar canuto.

Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte,

Spelonca eccelsa nell'estremo fianco

Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.

Entro giaceavi innumerabil greggia,

Pecore e capre, e di recise pietre

Composto, e di gran pini e querce ombrose

Alto recinto vi correa d'intorno.

Uom gigantesco abita qui, che lunge

Pasturava le pecore solingo.

In disparte costui vivea da tutti,

E cose inique nella mente cruda

Covava: orrendo mostro, né sembiante

Punto alla stirpe che di pan si nutre,

Ma più presto al cucuzzolo selvoso

D'una montagna smisurata, dove

Non gli s'alzi da presso altro cacume.

Lascio i compagni della nave a guardia,

E con dodici sol, che i più robusti

Mi pareano e più arditi, in via mi pongo,

Meco in otre caprin recando un negro

Licor nettàreo, che ci diè Marone

D'Evantèo figlio, e sacerdote a Febo,

Cui d'Ismaro le torri erano in cura.

Soggiornava del dio nel verde bosco,

E noi, di santa riverenza tocchi,

Con la moglie il salvammo e con la prole.

Quindi ei mi porse incliti doni: sette

Talenti d'or ben lavorato, un'urna

D'argento tutta, e dodici d'un vino

Soave, incorruttibile, celeste,

Anfore colme; un vin ch'egli, la casta

Moglie e la fida dispensiera solo,

Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.

Quandunque ne bevean, chi empiea la tazza,

Venti metri infondea d'acqua di fonte,

E tal dall'urna scoverchiata odore

Spirava, e sì divin, che somma noia

Stato sarìa non confortarne il petto.

Io dell'alma bevanda un otre adunque

Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:

Ché ben diceami il cor, quale di strana

Forza dotato le gran membra, e insieme

Debil conoscitor di leggi e dritti,

Salvatic'uom mi si farebbe incontra.

Alla spelonca divenuti in breve,

Lui non trovammo, che per l'erte cime

Le pecore lanigere aderbava.

Entrati, gli occhi stupefatti in giro

Noi portavam: le aggraticciate corbe

Cedeano al peso de' formaggi, e piene

D'agnelli e di capretti eran le stalle:

E i più grandi, i mezzani, i nati appena,

Tutti, come l'etade, avean del pari

Lor propria stanza, e i pastorali vasi,

Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe

Premer solea delle feconde madri,

Entro il siere nôtavano. Qui forte

I compagni pregavanmi che, tolto

Pria di quel cacio, si tornasse addietro,

Capretti s'adducessero ed agnelli

Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.

Ma io non volli, benché il meglio fosse:

Quando io bramava pur vederlo in faccia,

E trar doni da lui, che rïuscirci

Ospite sì inamabile dovea.

Racceso il foco, un sagrifizio ai numi

Femmo, e assaggiammo del rappreso latte:

Indi l'attendevam nell'antro assisi.

Venne, pascendo la sua greggia, e in collo

Pondo non lieve di risecca selva

Che la cena cocessegli, portando.

Davanti all'antro gittò il carco, e tale

Levòssene un romor, che sbigottiti

Nel più interno di quel ci ritraemmo.

Ei dentro mise le feconde madri,

E gl'irchi a cielo aperto, ed i montoni

Nella corte lasciò. Poscia una vasta

Sollevò in alto ponderosa pietra,

Che ventidue da quattro ruote e forti

Carri di loco non avrìano smossa,

E l'ingresso acciecò della spelonca.

Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti

Capre mugnea, tutto serbando il rito,

E a questa i parti mettea sotto, e a quella.

Mezzo il candido latte insieme strinse,

E su i canestri d'intrecciato vinco

Collocollo ammontato; e l'altro mezzo,

Che dovea della cena esser bevanda,

Il ricevero i pastorecci vasi.

Di queste sciolto cotidiane cure,

Mentre il foco accendea, ci scòrse, e disse:

"Forestieri, chi siete? E da quai lidi

Prendeste a frequentar l'umide strade?

Siete voi trafficanti? O errando andate,

Come corsari che la vita in forse,

Per danno altrui recar, metton su i flutti?"

Della voce al rimbombo, ed all'orrenda

Faccia del mostro, ci s'infranse il core.

Pure io così gli rispondea: Siam Greci

Che di Troia partiti e trabalzati

Su pel ceruleo mar da molti venti

Cercando il suol natìo, per altre vie,

E con vïaggi non pensati, a queste

(Così piacque agli dèi), sponde afferrammo.

Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo

Quell'Atrìde Agamennone che il mondo

Empièo della sua fama, ei che distrusse

Città sì grande, e tante genti ancise.

Ed or, prostesi alle ginocchia tue,

Averci ti preghiam d'ospiti in grado,

E d'un tuo dono rimandarci lieti.

Ah! temi, o potentissimo, gli dèi:

Che tuoi supplici siam, pensa, e che Giove

Il supplicante vendica, e l'estrano,

Giove ospital, che l'accompagna e il rende

Venerabile altrui". Ciò detto, io tacqui.

Ed ei con atroce alma: "O ti fallisce

Straniero, il senno, o tu di lunge vieni,

Che vuoi che i numi io riverisca e tema.

L'Egidarmato di Saturno figlio

Non temono i Ciclopi, o gli altri iddii:

Ché di loro siam noi molto più forti.

Né perché Giove inimicarmi io debba,

A te concederò perdono, e a questi

Compagni tuoi, se a me il mio cor nol detta.

Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo

Di questa terra, o a più propinquo lido?"

Così egli tastommi; ed io, che molto

D'esperïenza ricettai nel petto,

Ravvìstomi del tratto, incontanente

Arte in tal modo gli rendei per arte:

"Nettuno là, 've termina e s'avanza

La vostra terra con gran punta in mare,

Spinse la nave mia contra uno scoglio,

E le spezzate tavole per l'onda

Sen portò il vento. Dall'estremo danno

Con questi pochi io mi sottrassi appena".

Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,

La man ponea sovra i compagni, e due

Brancavane ad un tempo, e, quai cagnuoli,

Percoteali alla terra, e ne spargea

Le cervella ed il sangue. A brano a brano

Dilacerolli, e s'imbandì la cena.

Qual digiuno leon, che in monte alberga,

Carni ed interïora, ossa e midolle,

Tutto vorò, consumò tutto. E noi

A Giove ambo le man tra il pianto alzammo,

Spettacol miserabile scorgendo

Con gli occhi nostri, e disperando scampo.

Poiché la gran ventraia empiuto s'ebbe,

Pasteggiando dell'uomo, e puro latte

Tracannandovi sopra, in fra le agnelle

Tutto quant'era ei si distese, e giacque.

Io, di me ricordandomi, pensai

Fàrmigli presso, e la pungente spada

Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove

La coràta dal fegato si cinge,

Ferirlo. Se non ch'io vidi che certa

Morte noi pure incontreremmo, e acerba:

Che non era da noi tôr dall'immenso

Vano dell'antro la sformata pietra

Che il Ciclope fortissimo v'impose.

Però, gemendo, attendevam l'aurora.

Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,

Il foco ei raccendea, mugnea le grasse

Pecore belle, acconciamente il tutto,

E i parti a questa mettea sotto e a quella.

Né appena fu delle sue cure uscito,

Che altri due mi ghermì de' cari amici,

E carne umana desinò. Satollo,

Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto

Senza fatica il disonesto sasso,

Che dell'antro alla bocca indi ripose,

Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.

Poi su pel monte si mandava il pingue

Gregge davanti, alto per via fischiando.

Ed io tutti a raccolta i miei pensieri

Chiamai, per iscoprir come di lui

Vendicarmi io potessi, e un'immortale

Gloria comprarmi col favor di Palla.

Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme

Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse

Di terra, onde fermar con quello i passi,

Entro la stalla a inaridir giacea.

Albero scorger credevam di nave

Larga, mercanteggiante, e l'onde brune

Con venti remi a valicare usata:

Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi

Quanto è sei piedi, e la recisa parte

Diedi ai compagni da polirla. Come

Polita fu, da un lato io l'affilai,

L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,

Ch'ivi in gran copia s'accogliea, l'ascosi.

Quindi a sorte tirar coloro io feci,

Che alzar meco dovessero, e al Ciclope

L'adusto palo conficcar nell'occhio,

Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.

Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto

Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,

E dai campi tornava il fier pastore,

Che la sua greggia di lucenti lane

Tutta introdusse nel capace speco:

O di noi sospettasse, o prescrivesse

Così il Saturnio. Novamente imposto

Quel, che rimosso avea, disconcio masso,

Pecore e capre alla tremola voce

Mungea sedendo, a maraviglia il tutto,

E a questa mettea sotto e a quella i parti.

Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo

Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro.

Allora io trassi avanti, e, in man tenendo

D'edra una coppa: "Te' Ciclope", io dissi:

"Poiché cibasti umana carne, vino

Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse

Bevanda carreggiava il nostro legno.

Questa, con cui libar, recarti io volli,

Se mai, compunto di nuova pietade,

Mi rimandassi alle paterne case.

Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!

Chi più tra gl'infiniti uomini in terra

Fia che s'accosti a te? Male adoprasti".

La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo

Del soave licor prese diletto,

E un'altra volta men chiedea: "Straniero,

Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa

Subito il nome tuo, perch'io ti porga

L'ospital dono che ti metta in festa.

Vino ai Ciclopi la feconda terra

Produce col favor di tempestiva

Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:

Ma questo è ambrosia e nèttare celeste".

Un'altra volta io gli stendea la coppa.

Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide

Nella stoltezza sua tre volte il fondo.

Quando m'accorsi che saliti al capo

Del possente licor gli erano i fumi,

Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome

Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi

Tu del promesso a me dono ospitale.

Nessuno è il nome; me la madre e il padre

Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".

Ed ei con fiero cor: "L'ultimo ch'io

Divorerò, sarà Nessuno. Questo

Riceverai da me dono ospitale".

Disse, diè indietro, e rovescion cascò.

Giacea nell'antro con la gran cervice

Ripiegata su l'omero: e dal sonno,

Che tutti doma, vinto, e dalla molta

Crapula oppresso, per la gola fuori

Il negro vino e della carne i pezzi,

Con sonanti mandava orrendi rutti.

Immantinente dell'ulivo il palo

Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri

Rincorava, non forse alcun per tema

M'abbandonasse nel miglior dell'opra.

Come, verde quantunque, a prender fiamma

Vicin mi parve, rosseggiante il trassi

Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai

Con intorno i compagni: un dio per fermo

D'insolito ardimento il cor ci armava.

Quelli afferrâr l'acuto palo, e in mezzo

Dell'occhio il conficcaro; ed io di sopra,

Levandomi su i piè, movealo in giro.

E come allor che tavola di nave

Il trapano appuntato investe e fora,

Che altri il regge con mano, altri tirando

Va d'ambo i lati le corregge, e attorno

L'instancabile trapano si volve:

Sì nell'ampia lucerna il trave acceso

Noi giravamo. Scaturiva il sangue,

La pupilla bruciava, ed un focoso

Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio

Struggeva, uscìa della pupilla, e l'ime

Crepitarne io sentìa rotte radici.

Qual se fabbro talor nell'onda fredda

Attuffò un'ascia o una stridente scure,

E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,

L'occhio intorno al troncon cigola e frigge.

Urlo il Ciclope sì tremendo mise,

E tanto l'antro rimbombò, che noi

Qua e là ci spargemmo impauriti.

Ei fuor cavossi dall'occhiaia il trave,

E da sé lo scagliò di sangue lordo,

Furïando per doglia: indi i Ciclopi,

Che non lontani le ventose cime

Abitavan de' monti in cave grotte,

Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi

Quinci e quindi accorrean, la voce udita

E soffermando alla spelonca il passo,

Della cagione il richiedean del duolo:

"Per quale offesa, o Polifemo, tanto

Gridàstu mai? Perché così ci turbi

La balsamica notte e i dolci sonni?

Fùrati alcun la greggià? o uccider forse

Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"

E Polifemo dal profondo speco:

"Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,

Non già colla virtude". "Or se nessuno

Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,

Da Giove è il morbo, e non v'ha scampo. Al padre

Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".

Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:

Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome

Tutta si fosse la mia frode ordita.

Polifemo da duoli aspri crucciato,

Sospirando altamente, e brancolando

Con le mani il pietron di loco tolse.

Poi, dove l'antro vaneggiava, assiso

Stavasi con le braccia aperte e stese,

Se alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,

Giungesse ad aggrappar: tanta ei credeo

Semplicitade in me. Ma io gli amici

E me studiava riscattar, correndo

Per molte strade con la mente astuta:

Ché la vita ne andava, e già pendea

Su le teste il disastro. Al fine in questa,

Dopo molto girar, fraude io m'arresto.

Montoni di gran mole e pingui e belli,

Di folta carchi porporina lana,

Rinchiudea la caverna. Io tre per volta

Prendeane, e in un gli unìa tacitamente

Co' vinchi attorti, sovra cui solea

Polifemo dormir: quel ch'era in mezzo,

Portava sotto il ventre un de' compagni,

Cui fean riparo i due ch'ivan da lato,

E così un uomo conducean tre bruti.

Indi afferrai pel tergo un arïete

Maggior di tutti, e della greggia il fiore;

Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,

E, le mani avolgendo entro ai gran velli,

Con fermo cor mi v'attenea sospeso.

Così, gemendo, aspettavam l'aurora.

Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,

Fuor della grotta i maschi alla pastura

Gittavansi; e le femmine non munte,

Che gravi molto si sentìan le poppe,

Rïempìan di belati i lor serragli.

Il padron, cui ferìan continue doglie,

D'ogni montone, che diritto stava,

Palpava il tergo, e non s'avvide il folle

Che dalle pance del velluto gregge

Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscìa

De' suoi velli bellissimi gravato

L'arïete, e di me, cui molte cose

S'aggiravan per l'alma. Polifemo

Tai detti, brancicandolo, gli volse:

"Arïete dappoco, e perché fuori

Così da sezzo per la grotta m'esci?

Già non solevi dell'agnelle addietro

Restarti: primo, e di gran lunga, i molli

Fiori del prato a lacerar correvi

Con lunghi passi; degli argentei fiumi

Primo giungevi alle correnti; primo

Ritornavi da sera al tuo presepe:

Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse

L'occhio del tuo signor? L'occhio che un tristo

Mortal mi svelse co' suoi rei compagni,

Poiché doma col vin m'ebbe la mente,

Nessuno, ch'io non credo in salvo ancora.

Oh! se a parte venir de' miei pensieri

Potessi, e, voci articolando, dirmi,

Dove dalla mia forza ei si ricovra,

Ti giuro che il cervel, dalla percossa

Testa schizzato, scorrerìa per l'antro,

Ed io qualche riposo avrei da' mali

Che Nessuno recommi, un uom da nulla".

Disse: e da sé lo spingea fuori al pasco.

Tosto che dietro a noi l'infame speco

Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,

Tardo a sciormi io non fui dall'arïete,

E poi gli altri a slegar, che, ragunate

Molte in gran fretta piedilunghe agnelle,

Cacciavansele avanti in sino al mare.

Desïati apparimmo, e come usciti

Dalle fauci di morte, a quei che in guardia

Rimaser della nave, e che i compagni,

Che non vedeano, a lagrimar si diero.

Ma io non consentìalo, e con le ciglia

Cenno lor fea di ritenere il pianto,

E comandava lor che, messe in nave

Le molte in pria vellosplendenti agnelle,

Si fendessero i flutti. E già il naviglio

Salìan, sedean su i banchi, e percotendo

Gìan co' remi concordi il bianco mare.

Ma come fummo un gridar d'uom lontani

Così il Ciclope io motteggiai: "Ciclope,

Color che nel tuo cavo antro, le grandi

Forze abusando, divorasti, amici

Non eran dunque d'un mortal da nulla,

E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!

Che la carne cenar nelle tue case

Non temevi degli ospiti. Vendetta

Però Giove ne prese e gli altri numi".

A queste voci Polifemo in rabbia

Montò più alta, e con istrana possa

Scagliò d'un monte la divelta cima,

Che davanti alla prua càddemi: al tonfo

L'acqua levossi, ed innondò la nave,

Che alla terra crudel, dai rifluenti

Flutti portata, quasi a romper venne.

Ma io, dato di piglio a un lungo palo,

Ne la staccai, pontando; ed i compagni

D'incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,

Più de' cenni pregai che della voce:

E quelli tutte ad inarcar le terga.

Scorso di mar due volte tanto, i detti

A Polifemo io rivolgea di nuovo,

Benché gli amici con parole blande

D'ambo i lati tenessermi: "Infelice!

Perché la fera irritar vuoi più ancora?

Così poc'anzi a saettar si mise,

Che tre dita mancò, che risospinto

Non percotesse al continente il legno.

Fa che gridare o favellar ci senta,

E volerà per l'aere un'altra rupe,

Che le nostre cervella, e in un la nave

Sfracellerà: tanto colui dardeggia".

L'alto mio cor non si piegava. Quindi:

"Ciclope", io dissi con lo sdegno in petto,

"Se della notte, in che or tu giaci, alcuno

Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,

D'Itaca abitator, figlio a Laerte,

Struggitor di cittadi, il dì ti tolse".

Egli allora, ululando: "Ohimè!" rispose,

Da' prischi vaticinî eccomi côlto.

Indovino era qui, prode uomo e illustre,

Tèlemo figliuol d'Eurimo, che avea

Dell'arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo

Profetando invecchiava. Ei queste cose

Mi presagì: mi presagì che il caro

Lume dell'occhio spegnerìami Ulisse.

Se non ch'io sempre uom gigantesco e bello

E di forze invincibili dotato,

Rimirar m'aspettava; ed ecco in vece

La pupilla smorzarmi un piccoletto

Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.

Ma qua, su via vientene, Ulisse, ch'io

Ti porga l'ospital dono, e Nettuno

Di fortunare il tuo ritorno prieghi.

Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo

Voglial, mi sanerà; non altri, io credo,

Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i numi".

"Oh! così potess'io", ratto ripresi,

"Te spogliar della vita, e negli oscuri

Precipitar regni di Pluto, come

Né da Nettuno ti verrà salute".

Ed ei, le palme alla stellata volta

Levando, il supplicava: "O chiomazzurro,

Che la terra circondi, odi un mio voto.

Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,

Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,

D'Itaca abitator, figlio a Laerte

Struggitor di cittadi, unqua non rieda.

E dove il natìo suolo, e le paterne

Case il destin non gli negasse, almeno

Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,

Perduti in pria tutti i compagni, e nuove

Nell'avìta magion trovi sciagure".

Fatte le preci e da Nettuno accolte,

Sollevò un masso di più vasta mole,

E, rotandol nell'aria, e una più grande

Forza immensa imprimendovi, lanciollo.

Cadde dopo la poppa, e del timone

La punta rasentò: levossi al tonfo

L'onda, e il legno coprì, che all'isoletta,

Spinto dal mar, subitamente giunse.

Quivi eran l'altre navi in su l'arena,

E i compagni, che assisi ad esse intorno

Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.

Noi tosto in secco la veloce nave

Tirammo, e fuor n'uscimmo, e, del Ciclope

Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,

Che parte ugual n'ebbe ciascuno. È vero

Che voller che a me sol, partite l'agne,

Il superbo arïete anco toccasse.

Io di mia mano al Saturnìde, al cinto

D'oscure nubi Correttor del Mondo,

L'uccisi, e n'arsi le fiorite cosce.

Ma non curava i sacrifizi Giove,

Che anzi tra sé volgea, com'io le navi

Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.

L'intero dì sino al calar del Sole

Sedevam banchettando: il Sole ascoso,

Ed apparse le tenebre, le membra

Sul marin lido a riposar gettammo.

Ma come del mattin la figlia, l'Alba

Ditirosata in Orïente sorse,

I compagni esortai, comandai loro

Di rimbarcarsi, e liberar le funi.

E quei si rimbarcavano, e su i banchi

Sedean l'un dopo l'altro, e percotendo

Gìan co' remi concordi il bianco mare.

Così noi lieti per lo scampo nostro

E per l'altrui sventura in un dolenti,

Del mar di nuovo solcavam le spume.

  

LIBRO X

Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto

Agl'immortali dèi d'Ippota figlio,

Eolo, abitava in isola natante,

Cui tutta un muro d'infrangibil rame

E una liscia circonda eccelsa rupe.

Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro,

Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse

Per nodo marital suore e fratelli,

Che avean degli anni il più bel fior sul volto.

Costoro ciascun dì siedon tra il padre

Caro e l'augusta madre, ad una mensa

Di varie carca dilicate dapi.

Tutto il palagio, finché il giorno splende,

Spira fragranze, e d'armonie risuona;

Poi, caduta su l'isola la notte,

Chiudono al sonno le bramose ciglia

In traforati e attappezzati letti

Con le donne pudìche i fidi sposi.

Questo il paese fu, questo il superbo

Tetto, in cui me per un intero mese

Co' modi più gentili Eolo trattava.

Di molte cose mi chiedea: di Troia,

Del navile de' Greci, e del ritorno;

E il tutto io gli narrai di punto in punto.

Ma come, giunta del partir mio l'ora,

Parole io mossi ad impetrar licenza,

Ei, non che dissentir, del mio vïaggio

Pensier si tolse e cura, e della pelle

Di bue novenne appresentommi un otre,

Che imprigionava i tempestosi venti:

Poiché de' venti dispensier supremo

Fu da Giove nomato; ed a sua voglia

Stringer lor puote, o rallentare il freno.

L'otre nel fondo del naviglio avvinse

Con funicella lucida d'argento,

Che non ne uscisse la più picciol'aura;

E sol tenne di fuori un opportuno

Zefiro, cui le navi e i naviganti

Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono,

Che la nostra follìa volse in disastro!

Nove dì senza posa, e tante notti

Veleggiavamo; e già venìaci incontro

Nel decimo la patria, e omai vicini

Quei vedevam che raccendeano i fochi:

Quando me stanco, perch'io regger volli

Della nave il timon, né in mano altrui,

Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,

Sorprese il sonno. I miei compagni intanto

Favellavan tra loro, e fean pensiero

Che argento ed oro alle mie case, doni

Del generoso Ippòtade, io recassi.

"Numi!" come di sé, "dicea taluno

Rivolto al suo vicin, "tutti innamora

Costui, dovunque navigando arriva!

Molti da Troia dispogliata arredi

Riporta belli e preziosi; e noi,

Che le vie stesse misurammo, a casa

Torniam con le man vote. Inoltre questi

L'Ippòtade gli diè pegni d'amore.

Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda

D'oro e d'argento la bovina pelle".

Così prevalse il mal consiglio. L'otre

Fu preso e sciolto; e immantinente tutti

Con furia ne scoppiâr gli agili venti.

La subitana orribile procella

Li rapìa dalla patria e li portava

Sospirosi nell'alto. Io, cui l'infausto

Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma,

Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,

O soffrir muto, e rimaner tra i vivi.

Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo,

Giù nel fondo io giacea, mentre le navi,

Che i compagni di lutto empieano indarno,

Ricacciava in Eolia il fiero turbo.

Scendemmo a terra, acqua attignemmo e a mensa

Presso le navi ci adagiammo. Estinta

Del cibarsi e del ber l'innata voglia,

Io con un de' compagni, e con l'araldo

M'inviai d'Eolo alla magion superba;

E tra la dolce sposa e i figli cari

Banchettante il trovai. Sul limitare

Sedevam della porta. Alto stupore

Mostrâro i figli, e con parole alate:

"Ulisse", mi dicean, "come venìstu?

Qual t'assalì dèmone avverso? Certo

Cosa non fu da noi lasciata indietro,

Perché alla patria e al tuo palagio, e ovunque

Ti talentasse più, salvo giungessi".

Ed io con petto d'amarezza colmo:

"Tristi compagni, e un sonno infausto a tale

Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici,

Ché il potete, tal piaga". In questa guisa

Le anime loro io raddolcir tentai.

Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre:

"Via", rispose, "da questa isola, e tosto,

O degli uomini tutti il più malvagio:

Ché a me né accôr, né rimandar con doni

Lice un mortal che degli eterni è in ira.

Via, poiché l'odio lor qua ti condusse".

Così Eolo sbandìa me dal suo tetto,

Che de' gemiti miei tutto sonava.

Mesti di nuovo prendevam dell'alto:

Ma si stancavan di lottar con l'onda,

Remigando, i compagni, e del ritorno

Morìa la speme ne' dogliosi petti.

Sei dì navigavamo, e notti sei;

E col settimo sol della sublime

Città di Lamo dalle larghe porte,

Di Lestrigonia pervenimmo a vista.

Quivi pastor, che a sera entra col gregge,

Chiama un altro, che fuor con l'armento esce.

Quivi uomo insonne avria doppia mercede.

L'una pascendo i buoi, l'altra le agnelle

Dalla candida lana: sì vicini

Sono il dïurno ed il notturno pasco.

Bello ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli

Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte,

Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno,

S'apre un'angusta bocca. I miei compagni,

Che nel concavo porto a entrar fûr pronti,

Propinque vi tenean le ondivaganti

Navi, e avvinte tra lor; quando né grande

Vi s'alza mai, né picciola onda, e sempre

Una calma vi appar tacita e bianca.

Io sol rimasi col naviglio fuori,

Che al sasso estremo con intorta fune

Raccomandai: poi, su la rupe asceso,

Quanto si discoprìa, mirava intorno.

Lavor di bue non si scorgea, né d'uomo:

Sol di terra salir vedeasi un fumo.

Scelgo allor due compagni, e con l'araldo

Màndoli a investigar, quali l'ignota

Terra produce abitatori e nutre.

La via diritta seguitâr, per dove

I carri conduceano alla cittade

Dagli alti monti la troncata selva;

E s'abbattero a una real fanciulla,

Del Lestrigone Antìfate alla figlia.

Che del fonte d'Artacia, onde costuma

Il cittadino attignere, in quel punto

Alle pure scendea linfe d'argento.

Le si fêro da presso, e chi del loco

Re fosse, e su qual gente avesse impero,

La domandaro; ed ella pronta l'alto

Loro additò con man tetto del padre.

Tocco ne aveano il limitare appena,

Che femmina trovâr di sì gran mole

Che rassembrava una montagna; e un gelo

Si sentîro d'orror correr pel sangue.

Costei di botto Antifate chiamava

Dalla pubblica piazza, il rinomato

Marito suo, che disegnò lor tosto

Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,

Che gli fu cena; gli altri due con fuga

Precipitosa giunsero alle navi.

Di grida la cittade intanto empiea

Antifate. I Lestrìgoni l'udiro,

E accorrean chi da un lato e chi dall'altro,

Forti di braccio, in numero infiniti,

E giganti alla vista. Immense pietre

Così dai monti a fulminar si diêro,

Che d'uomini spiranti e infranti legni

Sorse nel porto un suon tetro e confuso.

Ed alcuni infilzati eran con l'aste,

Quali pesci guizzanti, e alle ferali

Mense future riserbati. Mentre

Tal seguìa strage, io, sguainato il brando

E la fune recisa, a' miei compagni

Dar di forza nel mar co' remi ingiunsi,

Se il fuggir morte premea loro; e quelli

Di tal modo arrancavano, che i gravi

Massi, che piovean d'alto, il mio naviglio

Lietamente schivò: ma gli altri tutti

Colà restâro sfracellati e spersi.

Contenti dello scampo, e in un dogliosi

Per li troppi compagni in sì crudele

Guisa periti, navigammo avanti,

E su l'isola Eèa sorgemmo, dove

Circe, diva terribile, dal crespo

Crine e dal dolce canto, avea soggiorno.

Suora germana del prudente Eeta,

Dal Sole aggiornator nacque, e da Persa,

Dell'antico Oceàn figliuola illustre.

Taciti a terra ci accostammo, entrammo,

Non senza un dio che ci guidasse, il cavo

Porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni

Giacevamo, e due notti, il cor del pari

La stanchezza rodendoci e la doglia.

Come recato ebbe il dì terzo l'alba,

Io, presa l'asta ed il pungente brando,

Rapidamente andai sovra un'altezza,

Se d'uomo io vedessi opra, o voce udissi.

Fermato il piè su la scoscesa cima.

Scôrsi un fumo salir d'infra una selva

Di querce annose, che in un vasto piano

Di Circe alla magion sorgeano intorno.

Entrar disposi senza indugio in via,

E il paese cercar: poi, ripensando,

Al legno invece rivoltar i passi,

Cibo dare ai compagni, e alcuni prima

A esplorare invïar, mi parve il meglio.

Già tra la nave e me poco restava:

Quando ad un de' celesti, in cui pietade

Per quella solitudine io destai,

Grosso ed armato di ramose corna

Drizzare alla mia volta un cervo piacque.

Spinto dal Sole, che il cocea co' raggi,

De' paschi uscìa della foresta, e al fiume

Scendea con labbra sitibonde; ed io

Su la spina lo colsi a mezzo il tergo

Sì che tutto il passò l'asta di rame.

Nella polve cadé, mandando un grido,

E via ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede

Pontando in esso, dalla fonda piaga

Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno

Cerro deposi a terra: indi virgulti

Divelsi e giunchi, attorcigliaili, fune

Sei spanne lunga ne composi, e i morti

Piedi ne strinsi dell'enorme fera.

Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi,

Su la lancia poggiandomi, al naviglio:

Ché mal potuto avrei sovra una sola

Spalla portar così sformata belva.

Presso la nave scaricàila; e ratto

Con soavi parole i miei compagni,

A questo rivolgendomi ed a quello,

Così tentai rïanimare: "Amici,

Prima del nostro dì, d'Aide alle porte

Non calerem, benché ci opprima il duolo.

Su, finché cibo avemo, avem licore,

Non mettiamli in obblìo; né all'importuna

Fame lasciamci consumar di dentro".

Quelli ubbidendo alle mie voci, uscîro

Delle latebre loro, e, in riva al mare,

Che frumento non genera, venuti,

Stupìan del cervo: sì gran corno egli era!

E come sazi del mirarlo fûro,

Ne apparecchiâro non vulgar convito,

Sparse prima di chiara onda le palme.

Così tutto quel dì sino all'occaso

Di carne opìma e di fumoso vino

L'alma riconfortammo: il sol caduto

E comparse le tenebre, nel sonno

Ci seppellimmo al mormorio dell'onde.

Ma sorta del mattin la rosea figlia,

Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi:

"Compagni, ad onta di guai tanti, udite.

Qui, d'onde l'austro spiri o l'aquilone,

E in qual parte il Sole alza, in qual dechina,

Noto non è. Pur consultare or vuolsi,

Qual consiglio da noi prender si debba,

Se v'ha un consiglio: di che forte io temo,

Io d'in su alpestre poggio isola vidi

Cinta da molto mar, che bassa giace,

E nel cui mezzo un nereggiante fumo

D'infra un bosco di querce al ciel si volve",

Rompere a questo si sentiro il core,

D'Antìfate membrando e del Ciclope

La ferocia, i misfatti, e le nefande

Della carne dell'uom mense imbandite.

Strida metteano, e discioglieansi in pianto.

Ma del pianto che pro? che delle strida?

Tutti in due schiere uguali io li divisi.

E diedi ad ambo un duce: all'una il saggio

Eurìloco, e me all'altra, indi nel cavo

Rame dell'elmo agitavam le sorti,

Ed Euriloco uscì, che in via si pose

Senza dimora. Ventidue compagni,

Lagrimando, il seguìan; né affatto asciutte

Di noi, che rimanemmo, eran le guance.

Edificata con lucenti pietre

Di Circe ad essi la magion s'offerse,

Che vagheggiava una feconda valle.

Montani lupi e leon falbi, ch'ella

Mansuefatti avea con sue bevande,

Stavano a guardia del palagio eccelso,

Né lor già s'avventavano; ma invece

Lusingando scotean le lunghe code,

E su l'anche s'ergeano. E quale i cani

Blandiscono il signor, che dalla mensa

Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano;

Tal quelle di forte unghia orride belve

Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo

Vederle s'arretraro, ivan blandendo.

Giunti alle porte, la deessa udìro

Dai ben torti capei, Circe, che dentro

Canterellava con leggiadra voce,

Ed un'ampia tessea, lucida, fina,

Maravigliosa, immortal tela, e quale

Della man delle dive uscir può solo.

Pòlite allor, d'uomini capo, e molto

Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti

Sciogliea tai detti: "Amici, in queste mura

Soggiorna, io non so ben se donna o diva.

Che tele oprando, del suo dolce canto

Tutta fa risentir la casa intorno.

Voce mandiamo a lei." Disse, e a lei voce

Mandaro; e Circe di là tosto ov'era,

Levossi e aprì le luminose porte,

E ad entrare invitavali. In un groppo

La seguìan tutti incautamente salvo

Eurìloco, che fuor, di qualche inganno

Sospettando, restò. La dea li pose

Sovra splendidi seggi: e lor mescea

Il Pramnio vino con rappreso latte,

Bianca farina e mel recente; e un succo

Giungeavi esizïal, perché con questo

Della patria l'obblìo ciascun bevesse.

Preso e vôtato dai meschini il nappo,

Circe batteali d'una verga, e in vile

Stalla chiudeali: avean di porco testa,

Corpo, sétole, voce; ma lo spirto

Serbavan dentro, qual da prima, intègro.

Così rinchiusi, sospirando, fûro:

Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti

Gettava, e della rovere e dell'elce,

De' verri accovacciati usato cibo.

Nunzio verace dell'infausto caso

Venne rapido Euriloco alla nave.

Ma non potea per iterati sforzi

La lingua disnodar: gonfi portava

Di pianto i lumi, e un vïolento duolo

L'alma gli percotea. Noi, figurando

Sventure nel pensier, con maraviglia

L'interrogammo; ed ei l'eccidio al fine

De' compagni narrò: "Nobile Ulisse,

Attraversato delle querce il bosco,

Come tu comandavi, eccoci a fronte

Magion construtta di politi marmi,

Che di mezzo a una valle alto s'ergea.

Tessea di dentro una gran tela, e canto,

Donna o diva, chi 'l sa? stridulo alzava.

Voce mandaro a lei. Levossi e aperse

Le porte e ne invitò. Tutti ad un corpo

Nella magion disavvedutamente

Seguìanla: io no, che sospettai di frode.

Svaniro insieme tutti; e per istarmi

Lungo ch'io feci ad esplorare assiso,

Traccia d'alcun di lor più non m'apparve".

Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta,

Spada, d'argento bullettata, appesi,

Appesi un valid'arco, e ingiunsi a lui,

Che innanzi per la via stessa mi gisse.

Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani

Stringendomi e piangendo: "Ah! mal mio grado",

Con sùpplici gridò parole alate,

"Lá non guidarmi, o del gran Giove alunno,

Donde, non che altri ricondur, tu stesso

Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo

Senza indugio con questi, e la vicina

Parca schiviam, finché schivarla è dato".

"Euriloco", io risposi, "e tu rimanti,

Di carne e vino a riempirti il ventre,

Lungo la nave. Io, cui severa stringe

Necessitate, andrò". Ciò detto, a tergo

La nave negra io mi lasciava e il mare.

Già per le sacre solitarie valli

Della Maga possente all'alta casa

Presso io mi fea, quando Mercurio, il nume

Che arma dell'aureo caduceo la destra,

In forma di garzone, a cui fiorisce

Di lanugine molle il mento appena,

Mi venne incontro, e per la man mi prese,

E: "Misero!" diss'ei con voce amica,

"Perché ignaro de' lochi, e tutto solo,

Muòvi così per queste balze a caso?

Sono in poter di Circe i tuoi compagni,

E li chiudon, quai verri, anguste stalle.

Venìstu forse a riscattarli? Uscito

Dell'immagine tua penso che a terra

Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio

Fuor d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi

Questo mirabil farmaco, che il tristo

Giorno dal capo tuo storni, e con esso

Trova il tetto di Circe, i cui perversi

Consigli tutti io t'aprirò. Bevanda

Mista, e di succo esizïale infusa,

Colei t'appresterà: ma le sue tazze

Contra il farmaco mio nulla varranno.

Più oltre intendi. Come te la diva

Percosso avrà d'una sua lunga verga,

Tu cava il brando che ti pende al fianco,

E, di ferirla in atto, a lei t'avventa.

Circe, compresa da timor, sue nozze

T'offrirà pronta: non voler tu il letto

Della dea ricusare, acciò ti sciolga

Gli amici, e amica ti si renda. Solo

Di giurarti costringila col grande

Degl'immortali dèi giuro, che nulla

Più non sarà per macchinarti a danno;

Onde, poiché t'avrà l'armi spogliate,

Del cor la forza non ti spogli ancora".

Finito il ragionar l'erba salubre

Porsemi già dal suol per lui divelta,

E la natura divisonne: bruna

N'è la radice; il fior bianco di latte;

Moli i numi la chiamano: resiste

Alla mano mortal, che vuol dal suolo

Staccarla; ai dèi, che tutto ponno, cede.

Detto, dalla boscosa isola il nume

Alle pendici dell'Olimpo ascese;

Ed io vêr Circe andai; ma di pensieri

In gran tempesta m'ondeggiava il core.

Giunto alla diva dalle belle trecce,

La voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta

Levossi, e aprì le luminose porte,

E m'invitava: io la seguìa non lieto.

Sovra un distinto d'argentini chiovi

Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,

Mi pose: lo sgabello i piè reggea.

Quindi con alma che pensava mali,

La mista preparommi in aureo nappo

Bevanda incantatrice, ed io la presi

Dalla sua mano, e bebbi; e non mi nocque.

Però in quel che la dea me della lunga

Verga percosse, e: "Vanne", disse, "e a terra

Co' tuoi compagni nella stalla giaci",

Tirai dal fianco il brando, e contra lei,

Di trafiggerla in atto, io mi scagliai.

Circe, mandando una gran voce, corse

Rapida sotto il colpo, e le ginocchia

Con le braccia afferrommi, e queste alate

Parole mi drizzò, non senza pianto:

"Chi sei tu? donde sei? la patria dove?

Dove i parenti a te? Stupor m'ingombra,

Che l'incanto bevuto in te non possa,

Quando io non vidi, cui passasse indarno

Per la chiostra de' denti il mio veleno.

Certo un'anima invitta in petto chiudi.

Saréstu forse quel sagace Ulisse,

Che Mercurio a me sempre iva dicendo

Dover d'Ilio venir su negra nave?

Per fermo sei. Nella vagina il brando

Riponi, e sali il letto mio: dal core

D'entrambi ogni sospetto amor bandisca".

"Circe", risposi, "che da me richiedi?

Io cortese vêr te, che in sozze belve

Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi

Tacite frodi entro te stessa; ed io

La tua penetrerò stanza secreta,

Onde, poiché m'avrai l'armi spogliate,

Del cor la forza tu mi spogli ancora?

No, se non giuri prima, e con quel grande

Degl'immortali dèi giuro, che nulla

Più non sarai per macchinarmi a danno".

Dissi; e la dea giurò. Di Circe allora

Le belle io salsi maritali piume.

Quattro serviano a lei nel suo palagio

Di quelle Ninfe che dai boschi nate

Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri,

Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi.

L'una gittava su i politi seggi

Bei tappeti di porpora, cui sotto

Bei tappeti mettea di bianco lino:

L'altra mense d'argento innanzi ai seggi

Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:

Mescea la terza nell'argentee brocche

Soavissimi vini, e d'auree tazze

Coprìa le mense: ma la quarta il fresco

fonte recava, e raccendea gran fuoco

Sotto il vasto treppié, che l'onda cape.

Già fervea questa nel cavato bronzo,

E me la ninfa guidò al bagno, e l'onda

Pel capo mollemente e per le spalle

Spargermi non cessò, ch'io mi sentii

Di vigor nuovo rifiorir le membra.

Lavato ed unto di licor d'oliva,

E di tunica e clamide coverto,

Sovra un distinto d'argentini chiovi

Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,

Mi pose: lo sgabello i piè reggea.

E un'altra ninfa da bel vaso d'oro

Purissim'acqua nel bacil d'argento

Mi versava, e stendeami un liscio desco,

Che di candido pane e di serbate

Dapi a fornir la dispensiera venne:

"Cìbati", mi dicea la veneranda

Dispensiera, ed instava; ed io, d'ogni esca

Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi,

Tenea la mente, pur sedendo, infissa.

Circe, ratto che avvidesi ch'io mesto

Non mi curava della mensa punto,

Con queste m'appresso voci sul labbro:

"Perché così, qual chi non ha favella,

Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda

Non tocchi, né bevanda? In te sospetto

S'annida forse di novello inganno?

Dopo il mio giuramento a torto temi".

Ed io: "Circe, qual mai retto uomo e saggio

Vivanda toccheria prima, o bevanda,

Che i suoi vedesse riscattati e salvi?

Fa' che liberi io scorga i miei compagni,

Se vuoi che della mensa io mi sovvegna".

Circe uscì tosto con in man la verga,

E della stalla gl'infelici trasse,

Che di porci novenni avean l'aspetto.

Tutti le stavan di rincontro; e Circe,

D'uno all'altro passando, un prezïoso

Sovra lor distendea benigno unguento.

Gli odiati peli, che la tazza infesta

Produsse, a terra dalle membra loro

Cadevano; e ciascun più che non era,

Grande apparve di corpo, e assai più fresco

D'etade in faccia, e di beltà più adorno.

Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi

La destra; e un così tenero e sì forte

Compianto si levò, che la magione

Ne risonava orrendamente, e punta

Sentìasi di pietà la stessa Maga.

Ella, standomi al fianco: "O sovrumano

Di Laerte figliuol, provvido Ulisse,

Corri", diceami, "alla tua nave, e in secco

La tira, e cela nelle cave grotte

Le ricchezze e gli arnesi: indi a me torna.

E i diletti compagni adduci teco".

M'entrò il suo dir nell'alma. Al lido io corsi,

E i compagni trovai, che appo la nave

Di lagrime nutrìansi e di sospiri.

Come, se riedon le satolle vacche

Dai verdi prati al rusticale albergo,

I vitelli saltellano, e alle madri,

Che più serraglio non ritienli o chiostra,

Con frequente muggir corrono intorno:

Così con pianto a me, vistomi appena,

Intorno s'aggiravano i compagni,

E quei mostravan su la faccia segni,

Che vi si scorgerìan, se il dolce nido,

Dove nacquero e crebbero, se l'aspra

Itaca avesser tocca: "O", lagrimando

Dicean, "di Giove alunno, una tal gioia

Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse

D'Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo

Fato degli altri raccontar ti piaccia".

Ed io con dolce favellar: "La nave

Si tiri in secco, e nelle cave grotte

Le ricchezze si celino e gli arnesi.

Poi seguitemi in fretta; ed i compagni

Nel tetto sacro dell'illustre Circe

Vedrete assisi ad una mensa, in cui

Di là d'ogni desio la copia regna".

Pronti obbediro. Ripugnava Euriloco

Solo, ed or questo m'arrestava, or quello,

Gridando: "Sventurati, ove ne andiamo?

Qual mai vi punge del disastro sete,

Che discendiate alla maliarda, e vôlti

Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri,

Il suo palagio a custodir dannati?

L'ospizio avrete del Ciclope, quando

Calâro i nostri nella grotta, e questo

Prode Ulisse guidavali, di cui

Morte ai miseri fu lo stolto ardire".

Così Euriloco; ed io la lunga spada

Cavar pensai della vagina, e il capo

Dal busto ai piè sbalzargli in su la polve,

Benché vincol di sangue a me l'unisse.

Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi

Con favella gentil: "Di Giove alunno,

Costui sul lido, se ti piace in guardia

Della nave rimangasi, e alla sacra

Magion noi guida". Detto ciò, dal mare

Meco venìan, né restò quegli indietro:

Tanto della minaccia ebbe spavento.

Cura prendeasi Circe in questo mezzo

Degli altri, che lavati, unti, e di buone

Tuniche cinti e di bei manti fûro.

Seduti a mensa li trovammo. Come

Si sguardâro l'un l'altro, e sul passato

Con la mente tornâro, in pianti e in grida

Davano; e ne gemean pareti e volte.

M'appressò allora, e mi parlò in tal guisa

L'inclita tra le dive: "O di Laerte

Gran prole, o ricco di consigli Ulisse,

Modo al dirotto lagrimar si ponga.

Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso

Duraste affanni, e so le crude offese

Che vi recâro in terra uomini ostili.

Su via, gioite omai, finché nel petto

Vi rinasca l'ardir, ch'era in voi, quando

Itaca alpestre abbandonaste in prima.

Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue,

Per la memoria de' vïaggi amari

Nelle menti ancor viva, e l'allegrezza

Disimparaste tra cotanti guai".

Agevolmente ci arrendemmo. Quindi

Pel continuo rotar d'un anno intero

Giorno non ispuntò, che a lauta mensa

Me non vedesse e i miei compagni in festa.

Ma rivolto già l'anno, e le stagioni

Tornate in sé col varïar de' mesi,

Ed il cerchio dei dì molti compiuto,

I compagni, traendomi in disparte:

"Infelice!" mi dissero, "del caro

Cielo nativo e delle avite mura

Non ti rammenterai, se vuole il fato

Che in vita tu rimanga, e le rivegga?"

Sano avviso mi parve. Il sol caduto,

E coverta di tenebre la terra,

Quei si corcâro per le stanze; ed io,

Salito il letto a maraviglia bello

Di Circe, supplichevoli drizzai

Alla dea, che m'udì, queste parole:

"Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro

Rendimi natìo ciel, cui sempre vola,

Non pure il mio, ma de' compagni il core,

De' compagni, che stanno a me d'intorno,

Sempre che tu da me t'apparti, e tutta

Con le lagrime lor mi struggon l'alma".

"O di Laerte sovrumana prole",

La dea rispose, "ritenervi a forza

Io più oltre non vo'. Ma un'altra via

Correre in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi

Di Pluto e di Proserpina soggiorni

Vedere in prima, e interrogar lo spirto

Del teban vate, che, degli occhi cieco,

Puro conserva della mente il lume;

Di Tiresia, cui sol diè Proserpina

Tutto portar tra i morti il senno antico.

Gli altri non son che vani spettri ed ombre".

Rompere il core io mi sentìi. Piagnea,

Su le piume giacendomi, né i raggi

Volea del Sol più rimirare. Al fine,

Poiché del pianger mio, del mio voltarmi

Su le piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,

"Di tal vïaggio sarà il duce? All'Orco

Nessun giunse finor su negra nave".

"Per difetto di guida", ella rispose

Non t'annoiar. L'albero alzato, e aperte

Le tue candide vele, in su la poppa

T'assidi, e spingerà Borea la nave.

Come varcato l'Oceàno avrai,

Ti appariranno i bassi lidi, e il folto

Di pioppi eccelsi e d'infecondi salci

Bosco di Proserpìna: e a quella piaggia,

Che l'Oceán gorghiprofondo batte,

Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.

Rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi

S'urtan tra lor rumoreggiando, e uniti

Nell'Acheronte cadono: Cocito,

Ramo di Stige, e Piriflegetonte.

Appréssati alla rupe, ed una fossa,

Che un cubito si stenda in lungo e in largo,

Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino,

Indi vin puro e limpidissim'onda

Vèrsavi, a onor de' trapassati, intorno,

E di bianche farine il tutto aspergi.

Poi degli estinti prega i frali e vôti

Capi, e prometti lor che nel tuo tetto

Entrato con la nave in porto appena,

Vacca infeconda, dell'armento fiore

Lor sagrificherai, di doni il rogo

Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,

Immolerai nerissimo arïete,

Che della greggia tua pasca il più bello.

Compiute ai mani le preghiere, uccidi

Pecora bruna, ed un monton, che all'Orco

Volgan la fronte: ma converso tieni

Del fiume alla corrente in quella il viso.

Molte Ombre accorreranno. A' tuoi compagni

Le già sgozzate vittime e scoiate

Mettere allor sovra la fiamma, e ai numi,

Al prepotente Pluto e alla tremenda

Proserpina drizzar voti comanda.

E tu col brando sguainato siedi,

Né consentir, che anzi che parli al vate,

I mani al sangue accostinsi. Repente

Il profeta verrà, duce di genti,

Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno

Pel mar pescoso alle natìe contrade

Ti darà, quanto basta, indizio e lume".

Così la diva; e d'in su l'aureo trono

L'Aurora comparì. Tunica e manto

Circe stessa vestimmi; a sé ravvolse

Bella, candida, fina ed ampia gonna;

Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago

Su i ben torti capei velo s'impose.

Ma io, passando d'una in altra stanza,

Confortava i compagni, e ad uno ad uno

Con molli detti gli abbordava: "Tempo

Non è più da sfiorare i dolci sonni.

Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe".

Si levâro, e obbedîro. Ahi che né quinci

Mi si concesse ricondurli tutti!

Un Elpénore v'era, il qual d'etate

Dopo gli altri venìa, poco nell'armi

Forte, né troppo della mente accorto.

Caldo del buon licore, onde irrigossi,

Si divise dagli altri, ed al palagio

Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.

Udìto il suon della partenza, e il moto,

Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga

Scala di dietro scendere obblïando.

Mosse di punta sovra il tetto, e cadde

Precipite dall'alto: il collo ai nodi

Gli s'infranse, e volò l'anima a Dite.

Ragunatisi i miei: "Forse", io lor dissi,

"Alle patrie contrade andar credete.

Ma un altro pria la venerabil diva

Ci destinò cammin, che ai foschi regni

Di Pluto e di Proserpina conduce,

Per quivi interrogar del rinomato

Teban Tiresia l'indovino spirto".

Duol mortale gli assalse a questi detti.

Piangeano, e fermi rimanean lì lì,

E la chioma stracciavansi: ma indarno

Lo strazio della chioma era, ed il pianto.

Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse

Lagrime spargevam, Circe, che in via

Pur s'era posta, alla veloce nave

Legò la bruna pecora e il montone.

Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,

Con piè leggiero. Chi potrìa de' numi

Scorgere alcun che qua o là si mova

Quando dall'occhio uman voglion celarsi?

  

LIBRO XI

Giunti al divino mare, il negro legno

Prima varammo, albero ergemmo e vele,

E prendemmo le vittime, e nel cavo

Legno le introducemmo: indi con molto

Terrore e pianto v'entravam noi stessi.

La dal crin crespo e dal canoro labbro

Dea veneranda un gonfiator di vela

Vento in poppa mandò, che fedelmente

Ci accompagnava per l'ondosa via;

Tal che ozïosi nella ratta nave

Dalla cerulea prua, giacean gli arnesi,

E noi tranquilli sedevam, la cura

Al timonier lasciandone ed al vento.

Quanto il dì risplendé, con vele sparse

Navigavamo. Spento il giorno, e d'ombra

Ricoperte le vie, dell'Oceano

Toccò la nave i gelidi confini,

Là 've la gente de' Cimmerî alberga,

Cui nebbia e buio sempiterno involve.

Monti pel cielo stelleggiato, o scenda

Lo sfavillante d'ôr sole non guarda

Quegl'infelici popoli, che trista

Circonda ognor pernizïosa notte.

Addotto in su l'arena il buon naviglio,

E il monto e la pecora sbarcati,

Alla corrente dell'Oceano in riva

Camminavam; finché venimmo ai lochi

Che la dea c'insegnò. Quivi per mano

Eurìloco teneano e Perimede

Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,

Scavai la fossa cubitale, e mele

Con vino, indi vin puro e lucid'onda

Versàivi, a onor de' trapassati, intorno

E di bianche farine il tutto aspersi.

Poi degli estinti le debili teste

Pregai, promisi lor che nel mio tetto,

Entrato con la nave in porto appena,

Vacca infeconda, dell'armento fiore,

Lor sagrificherei, di doni il rogo

Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,

Immolerei nerissimo arïete,

Che della greggia mia pasca il più bello.

Fatte ai mani le preci, ambo afferrai

Le vittime, e sgozzàile in su la fossa,

Che tutto riceveane il sangue oscuro.

Ed ecco sorger della gente morta

Dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi

Le pallid'ombre: giovanette spose,

Garzoni ignari delle nozze, vecchi

Da nemica fortuna assai versati,

E verginelle tenere, che impressi

Portano i cuori di recente lutto;

E molti dalle acute aste guerrieri

Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia

Sul petto ancor l'insanguinato usbergo.

Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo

Aggiravan la fossa, e con tai grida,

Ch'io ne gelai per subitana tema.

Pure a Eurìloco ingiunsi, e a Periméde

Le già scannate vittime e scoiate

Por su la fiamma, e molti ai dèi far voti,

Al prepotente Pluto e alla tremenda

Proserpina: ma io col brando ignudo

Sedea, né consentia che al vivo sangue,

Pria ch'io Tiresia interrogato avessi,

S'accostasser dell'ombre i vôti capi.

Primo ad offrirsi a me fu il simulacro

D'Elpènore, di cui non rinchiudea

La terra il corpo nel suo grembo ancora.

Lasciato in casa l'avevam di Circe

Non sepolto cadavere e non pianto.

Che incalzavaci allor diversa cura.

Piansi a vederlo, e ne sentii pietade,

E, con alate voci a lui converso:

"Elpènore", diss'io, "come scendesti

Nell'oscura caligine? Venisti

Più ratto a piè, ch'io su la negra nave".

Ed ei, piangendo: "O di Laerte egregia

Prole, sagace Ulisse, un nequitoso

Demone avverso, e il molto vin m'offese.

Stretto dal sonno alla magione in cima,

Men disciolsi ad un tratto: e, per la lunga

Di calar non membrando interna scala

Mossi di punta sovra il tetto, e d'alto

Precipitai: della cervice i nodi

Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto.

Ora io per quelli da cui lunge vivi,

Per la consorte tua, pel vecchio padre,

Che a tanta cura t'allevò bambino,

Pel giovane Telemaco, che dolce

Nella casa lasciasti unico germe,

Ti prego, quando io so, che alla Circea

Isola il legno arriverai di nuovo,

Ti prego che di me, signor mio, vogli

Là ricordarti, onde io non resti, come

Della partenza spiegherai le vele,

Senza lagrime addietro e senza tomba,

E tu venghi per questo ai numi in ira.

Ma con quell'armi, ch'io vestìa, sul foco

Mi poni, e in riva del canuto mare

A un misero guerrier tumulo innalza,

Di cui favelli la ventura etade.

Queste cose m'adempi; ed il buon remo,

Ch'io tra i compagni miei, mentre vivea

Solea trattar, sul mio sepolcro infiggi.

"Sventurato", io risposi, "a pien fornita

Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia".

Così noi sedevam, meste parole

Parlando alternamente, io con la spada

Sul vivo sangue ognora, e a me di contra

La forma lieve del compagno, a cui

Suggerìa molti accenti il suo disastro.

Comparve in questo dell'antica madre

L'ombra sottile, d'Anticlèa, che nacque

Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo

Era tra i vivi ch'io per Troia sciolsi.

La vidi appena, che pietà mi strinse,

E il lagrimar non tenni: ma né a lei,

Quantunque men dolesse, io permettea

Al sangue atro appressar, se il vate prima

Favellar non s'udìa. Levossi al fine

Con l'aureo scettro nella man famosa

L'alma Tebana di Tiresia, e ratto

Mi riconobbe, e disse: "Uomo infelice,

Perché, del sole abbandonati i raggi,

Le dimore inamabili de' morti

Scendesti a visitar? Da questa fossa

Ti scosta, e torci in altra parte il brando,

Sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri".

Il piè ritrassi, e invaginai l'acuto

D'argentee borchie tempestato brando.

Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa

Movea le labbra: "Rinomato Ulisse,

Tu alla dolcezza del ritorno aneli

E un nume invidïoso il ti contende

Come celarti da Nettun, che grave

Contra te concepì sdegno nel petto

Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?

Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,

Sol che te stesso e i tuoi compagni affreni,

Quando, tutti del mar vinti i perigli,

Approderai col ben formato legno

Alla verde Trinacria isola, in cui

Pascon del Sol, che tutto vede ed ode,

I nitidi montoni e i buoi lucenti.

Se pasceranno illesi, e a voi non caglia

Che della patria, il rivederla dato,

Benché a stento, vi fia. Ma dove osiate

Lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi,

E alla nave io predico, ed a te stesso.

E ancor che morte tu schivassi, tardo

Fora, ed infausto, e senza un sol compagno,

E su nave straniera, il tuo ritorno.

Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa:

Protervo stuol di giovani orgogliosi,

Che ti spolpa, ti mangia, e alla divina

Moglie con doni aspira. È ver che a lungo

Non rimarrai senza vendetta. Uccisi

Dunque o per frode, o alla più chiara luce,

Nel tuo palagio i temerarî amanti,

Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti:

Né rattenere il piè, che ad una nuova

Gente non sii, che non conosce il mare,

Né cosperse di sal vivande gusta,

Né delle navi dalle rosse guance,

O de' politi remi, ali di nave,

Notizia vanta. Un manifesto segno

D'esser nella contrada io ti prometto.

Quel dì che un altro pellegrino, a cui

T'abbatterai per via, te quell'arnese

Con che al vento su l'aia il gran si sparge

Portar dirà su la gagliarda spalla,

Tu repente nel suol conficca il remo.

Poi, vittime perfette a re Nettuno

Svenate, un toro, un arïete, un verro,

Riedi, e del cielo agli abitanti tutti

Con l'ordine dovuto offri ecatombe

Nella tua reggia, ove a te fuor del mare,

E a poco a poco da muta vecchiezza

Mollemente consunto, una cortese

Sopravverrà morte tranquilla, mentre

Felici intorno i popoli vivranno.

L'oracol mio, che non t'inganna, è questo.

"Tiresia", io rispondea, "così prescritto

(Chi dubbiar ne potrebbe?) hanno i celesti.

Ma ciò narrami ancora: io della madre

L'anima scorgo, che tacente siede

Appo la cava fossa, e d'uno sguardo,

Non che d'un motto, il suo figliuol non degna.

Che far degg'io, perché mi riconosca?

Ed egli: Troppo bene io nella mente

Io ti porrò. Quai degli spirti al sangue

Non difeso da te giunger potranno,

Sciorran parole non bugiarde: gli altri

Da te si ritrarran taciti indietro".

Svelate a me tai cose, in seno a Dite

Del profetante re l'alma s'immerse.

Ma io di là non mi togliea. La madre

S'accostò intanto, né del negro sangue

Prima bevé, che ravvisommi, e queste

Mi drizzò, lagrimando, alate voci:

"Deh come, figliuol mio, scendéstu vivo

Sotto l'atra caligine? Chi vive,

Difficilmente questi alberghi mira,

Però che vasti fiumi e paurose

Correnti ci dividono, e il temuto

Ocean, cui varcare ad uom non lice,

Se nol trasporta una dedalea nave.

Forse da Troia, e dopo molti errori,

Con la nave e i compagni a questo buio

Tu vieni? Né trovar sapesti ancora

Itaca tua? né della tua consorte

Riveder nel palagio il caro volto? "

"O madre mia, necessità", risposi,

"L'alma indovina a interrogar m'addusse

Del Tebano Tiresia. Il suolo acheo

Non vidi ancor, né i liti nostri attinsi;

Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,

Dappoi che a Troia ne' puledri bella

Seguìi, per disertarla, il primo Atride.

Su via, mi narra, e schiettamente, come

Te la di lunghi sonni apportatrice

Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,

O te Dïana faretrata assalse

Con improvvisa non amara freccia?

Vive l'antico padre, il figlio vive,

Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro

Resta, o passò ad altrui la mia ricchezza,

E ch'io non rieda più, si fa ragione?

E la consorte mia qual cor, qual mente

Serba? Dimora col fanciullo, e tutto

Gelosamente custodisce, o alcuno

Tra i primi degli Achei forse impalmolla? "

Riprese allor la veneranda madre:

"La moglie tua non lasciò mai la soglia

Del tuo palagio; e lentamente a lei

Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.

Stranier nel tuo retaggio, in sin ch'io vissi,

Non entrò: il figlio su i paterni campi

Vigila in pace, e alle più illustri mense,

Cui l'invita ciascuno, e che non dee

Chi nacque al regno dispregiar, s'asside.

Ma in villa i dì passa Laerte, e mai

A cittade non vien: colà non letti,

Non coltri, o strati sontuosi, o manti.

Di vestimenta ignobili coverto

Dorme tra i servi al focolare il verno

Su la pallida cenere: e se torna

L'arida estate, o il verdeggiante autunno,

Lettucci umìli di raccolte foglie,

Stesi a lui qua e là per la feconda

Sua vigna, preme travagliato, e il duolo

Nutre, piangendo la tua sorte: arrogi,

La vecchiezza increscevole che il colse.

Non altrimenti de' miei stanchi giorni

Giunse il termine a me, cui non Dïana,

Sagittaria infallibile, di un sordo

Quadrello assalse, o di que' morbi invase,

Che soglion trar delle consunte membra

L'anima fuor con odïosa tabe:

Ma il desìo di vederti, ma l'affanno

Della tua lontananza, ma i gentili

Modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,

La vita un dì sì dolce hannomi tolta".

Io, pensando tra me, l'estinta madre

Volea stringermi al sen: tre volte corsi,

Quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,

E tre volte m'usci fuor delle braccia,

Come nebbia sottile, o lieve sogno.

Cura più acerba mi trafisse e ratto:

"Ahi, madre", le diss'io, "perché mi sfuggi

D'abbracciarti bramoso, onde, anco a Dite,

Le man gittando l'un dell'altro al collo,

Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?

Fantasma vano, acciò più sempre io m'anga,

Forse l'alta Proserpina mandommi?"

"O degli uomini tutti il più infelice",

La veneranda genitrice aggiunse,

"No, l'egregia Proserpina, di Giove

La figlia, non t'inganna. È de' mortali

Tale il destin, dacché non son più in vita,

Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi

Non si congiungan più: tutto consuma

La gran possanza dell'ardente foco,

Come prima le bianche ossa abbandona,

E vagola per l'aere il nudo spirto.

Ma tu d'uscire alla superna luce

Da questo buio affretta: e ciò che udisti,

E porterai nell'anima scolpito,

Penelope da te risappia un giorno".

Mentre così favellavam, sospinte

Dall'inclita Proserpina le figlie

Degli eroi comparïano, e le consorti

E traean della fossa al margo in folla.

Io, come interrogarle ad una ad una

Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.

Stretta la spada, non patïa che tutte

Beessero ad un tempo. Alla sua volta

Così accorrea ciascuna, e l'onorato

Lignaggio ed i suoi casi a me narrava.

Prima s'appresentò l'illustre Tiro,

Che, del gran Salmonèo figlia, e consorte

Di Creteo, un de' figliuoli d'Eolo, sé disse.

Costei d'un fiume nell'amore accesa,

Dell'Enipèo divin, che la più bella

Sovra i più ameni campi onda rivolve,

Spesso e bagnarsi in quegli argenti entrava.

L'azzurro nume che la terra cinge,

Nettuno, in forma di quel dio, corcossi

Delle sue vorticose acque alla foce;

E la porporeggiante onda d'intorno

Gli stette, e in un arco si piegò, qual monte,

Lui celando, e la giovane, cui tosto

Sciols'ei la zona virginale, e un casto

Sopore infuse. Indi per man la prese,

E chiamolla per nome, e tai parole

Le feo: "Di questo amor, donna, t'allegra.

Compiuto non avrà l'anno il suo giro,

Che diverrai di bei fanciulli madre,

Quando vane giammai degl'immortali

Non riescon le nozze. I bei fanciulli

Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,

Ma il sappi sola, che tu in me vedesti

Nettuno, il nume che la terra scuote".

Disse; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.

Ella di Nèleo e Pèlia, ond'era grave,

S'allevïò. Forti del sommo Giove

Ministri, l'un nell'arenosa Pilo,

Nell'ampia l'altro, e di feconde gregge

Ricca Iaolco, ebbe soggiorno e scettro.

Quindi altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro

Domator di cavalli Amitaòne,

Diede a Creteo costei, che delle donne

Reina parve alla sembianza e agli atti.

Poi d'Asòpo la figlia, Antiopa, venne,

Che dell'amor di Giove andò superba,

E due figli creò, Zeto e Anfione.

Tebe costoro dalle sette porte

Primi fondaro, e la munir di torri:

Ché mal potean la spazïosa Tebe

Senza torri guardar, benché gagliardi.

Venne d'Amfitrïon la moglie, Alcmena

Che al Saturnìde l'animoso Alcide,

Cor di leone, partorì. Megàra

Di Creonte magnanimo figliuola

E moglie dell'invitto Ercole, venne.

D'Edipo ancor la genitrice io vidi,

La leggiadra Epicasta, che nefanda

Per cecità di mente opra commise,

L'uom disposando da lei nato. Edìpo

La man, con che avea prima il padre ucciso,

Porse alla madre: né celaro i dèi

Tal misfatto alle genti. Ei per crudele

Voler de' numi nell'amena Tebe

Addolorato su i Cadmei regnava.

Ma la donna, cui vinse il proprio affanno,

L'infame nodo ad un'eccelsa trave

Legato, scese alla magion di Pluto

Dalle porte infrangibili, e tormenti

Lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno

Le ultrici Furie, che una madre invoca.

Vidi colei non men, che ultima nacque

All'Iaside Anfïón, cui l'arenosa

Pilo negli anni andati, e il Minïeo

Orcomeno ubbidìa, l'egregia Clori,

Che Neleo, di lei preso, a sé congiunse,

Poscia ch'egli ebbe di dotali doni

La vergine ricolma. Ed ella il feo

Ricco di vaga e di lui degna prole,

Di Nestore, di Cromio, e dell'eroe

Periclimeno; e poi di quella Pero,

Che maraviglia fu d'ogni mortale.

Tutti i vicini la chiedean; ma il padre

Sol concedeala a chi le belle vacche

Dalla lunata spazïosa fronte,

Che appo sé riteneasi il forte Ificle,

Gli rimenasse, non leggiera impresa,

Dai pascoli di Filaca. L'impresa

Melampo assunse, un indovino illustre;

Se non che a lui s'attraversaro i fati,

E pastori salvatichi, da cui

Soffrir dové d'aspre catene il pondo.

Ma non prima, già in sé rivolto l'anno,

I mesi succedettersi ed i giorni,

E compiêr le stagioni il corso usato

Che Ifìcle, a cui gli oracoli de' numi

Svelati avea l'irreprensibil vate,

I suoi vincoli ruppe; e così al tempo

L'alto di Giove s'adempiea consiglio.

Leda comparve, da cui Tindaro ebbe

Due figli alteri, Castore e Pollùce,

L'un di cavalli domatore, e l'altro

Pugile invitto. Benché l'alma terra

Ritengali nel sen, di vita un germe

(Così Giove tra l'Ombre anco gli onora)

Serbano: ciascun giorno, e alternamente,

Rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,

E glorïosi al par van degli eterni.

Dopo costei mi si parò davanti

D'Aloèo la consorte, Ifimidèa;

Cui di dolce d'amor nodo si strinse

Lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,

Oto a un dio pari, e l'inclito Efialte,

Che la luce del sol poco fruîro.

Né di statura ugual, né di beltade,

Altri nodrì la comun madre antica,

Sol che fra tutti d'Orïon si taccia.

Non avean tocco il decim'anno ancora,

Che in largo nove cubiti, e tre volte

Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.

Questi volendo ai sommi dèi su l'etra

Nuova portar sediziosa guerra,

L'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa

L'arborifero Pelio impor tentaro,

Onde il cielo scalar di monte in monte;

E il fean, se i volti pubertà infiorava;

Ma di Giove il figliuolo, e di Latona,

Sterminolli ambo, che del primo pelo

Le guance non ombravano, ed il mento.

Fedra comparve ancor, Procri ed Arianna

Che l'amante Teseo rapì da Creta,

E al suol fecondo della sacra Atene

Condur volea. Vane speranze! In Nasso,

Cui cinge un vasto mar, fu da Dïana,

Per l'indizio di Bacco, aggiunta e morta.

Né restò Mera inosservata indietro,

Né Climene restò, né l'abborrita

Erifile, che il suo diletto sposo

Per un aureo monil vender poteo.

Ma dove io tutte degli eroi le apparse

Figlie nomar volessi, e le consorti,

Pria mancherìami la divina Notte.

E a me par tempo da posar la testa

O in nave o qui, tutta del mio ritorno

Ai celesti lasciando, e a voi la cura.

Tacque. I Feaci per l'oscura sala

Stavansi muti, e nel piacere assorti.

Ruppe il silenzio l'immortal regina

La bracciobianca Arete: "Feacesi,

Che vi par di costui? del suo sembiante?

Della maschia persona? e di quel senno

Che in lui risiede? Ospite è mio, ma tutti

Dell'onor, che io ricevo, a parte siete.

Non congedate in fretta, e senza doni

Chi nulla tien, voi, che di buono in casa

Per favor degli dèi tanto serbate".

Qui favellò Echenèo, che gli altri tutti

Vincea d'etade: "Fuor del segno, amici,

Arete non colpì con la sua voce.

Obbediscasi a lei: se non che prima

Del re l'esempio attenderemo e il detto".

"Ciò sarà ch'ella vuole", Alcinoo disse

"Se vita e scettro a me lascian gli dèi.

Ma, benché tanto di partir gli tardi,

L'ospite indugi sino al nuovo sole,

Sì ch'io tutti i regali insieme accoglia.

Cura esser dee comun che lieto ei parta

E più, che d'altri, mia, s'io qui son primo".

"Alcinoo re, che di grandezza e fama",

Riprese Ulisse, "ogni mortale avanzi,

Sei mesi ancor mi riteneste e sei,

E fida scorta intanto e ricchi doni

M'apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo:

Ché quanto io tornerò con man più piene

A' miei sassi natii, tanto la gente

Con più onore accorrammi e con più affetto".

Ed Alcinoo in risposta: "Allora, Ulisse

Che ti adocchiamo, un impostor fallace,

D'alte menzogne inaspettato fabbro,

Scorger non sospettiam, quali benigna

La terra qua e là molti ne pasce.

Leggiadria di parole i labbri t'orna,

Né prudenza minor t'alberga in petto.

L'opre de' Greci e le tue doglie, quasi

Lo spirto della Musa in te piovesse,

Ci narrasti così, ch'era un vederle.

Deh siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno

Di tanti eroi che veleggiâro a Troia

Teco, e spenti rimaservi. La notte

Con lenti passi or per lo ciel cammina,

E finché ci esporrai stupende cose,

Non fia chi del dormir qui si rammenti.

Quando parlar di te sino all'aurora

Ti consentisse il duol sino all'aurora

Io penderei dalle tue labbra immoto".

"V'ha un tempo Alcinoo, di racconti ed havvi",

Ulisse ripigliò, "di sonni un tempo;

Che se udir vuoi più avanti, io non ricuso

La sorte di color molto più dura

Rappresentarti, che scampâr dai rischi

D'una terribil guerra, e nel ritorno,

Colpa d'una rea donna, ohimé! periro.

Poiché le femminili Ombre famose

La casta Proserpìna ebbe disperse,

Mesto, e cinto da quei che fato uguale

Trovâr d'Egisto negl'infidi alberghi,

Si levò d'Agamennone il fantasma.

Assaggiò appena dell'oscuro sangue,

Che ravvisommi; e dalle tristi ciglia

Versava in copia lagrime, e le mani

Mi stendea, di toccarmi invan bramose;

Ché quel vigor, quella possanza, ch'era

Nelle sue membra ubbidïenti ed atte,

Derelitto l'avea. Lagrime anch'io

Sparsi a vederlo, e intenerìi nell'alma,

E tai voci, nomandolo, gli volsi:

"O inclito d'Atrèo figlio, o de' prodi

re, Agamennòne, qual destin ti vinse,

E i lunghi t'arrecò sonni di morte?

Nettuno in mar ti domò forse, i fieri

Spirti eccitando de' crudeli venti?

O t'offesero in terra uomini ostili,

Che armenti depredavi e pingui greggi.

O delle patrie mura, e delle caste

Donne a difesa, roteavi il brando? "

"Laerziade preclaro, accorto Ulisse"

Ratto rispose dell'Atride l'ombra

Me non domò Nettuno all'onde sopra,

Né m'offesero in terra uomini ostili.

Egisto, ordita con la mia perversa

Donna una frode, a sé invitommi, e a mensa

Come alle greppie inconsapevol bue,

L'empio mi trucidò. Così morìi

Di morte infelicissima; e non lunge

Gli amici mi cadean, quai per illustri

Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta

A dispendio comun mensa imbandita,

Cadono i verri dalle bianche sanne.

Benché molti a' tuoi giorni o in folta pugna;

Vedessi estinti, o in singolar certame,

Non solita pietà tocco t'avrebbe,

Noi mirando, che stesi all'ospitali

Coppe intorno eravam, mentre correa

Purpureo sangue il pavimento tutto.

La dolente io sentìi voce pietosa

Della figlia di Priamo, di Cassandra,

Cui Clitennestra m'uccidea da presso,

La moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,

Con moribonda man cercava il brando:

Ma la sfrontata si rivolse altrove,

Né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre

Chiudere, né compor degnò le labbra.

No: più rea peste, più crudel non dassi

Di donna, che sì atroci opre commetta,

Come questa infedel, che il danno estremo

Tramò, cui s'era vergine congiunta.

Lasso! dove io credea che, ritornando,

Figliuoli e servi m'accorrìan con festa,

Costei, che tutta del peccar sa l'arte,

Si ricoprì d'infamia, e quante al mondo

Verranno, e le più oneste anco, ne asperse".

"Oh quanta", io ripigliai, "sovra gli Atridi

Le femmine attirâro ira di Giove!

Fu di molti de' Greci Elena strage!

E a te, cogliendo l'assenza il tempo,

Funesta rete Clitennestra tese".

"Quindi troppa tu stesso", ei rispondea,

"Con la tua donna non usar dolcezza,

Né il tutto a lei svelar, ma parte narra

De' tuoi secreti a lei, parte ne taci,

Benché a te dalla tua venir disastro

Non debba: ché Penelope, la saggia

Figlia d'Icario, altri consigli ha in core.

Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo,

Che dalla mamma le pendea contento,

Tu la lasciavi, navigando a Troia:

Ed oggi il tuo Telemaco felice

Già s'asside uom tra gli uomini, e il diletto

Padre lui vedrà, un giorno, ed egli al padre

Giusti baci porrà sovra la fronte.

Ma la consorte mia né questo almeno

Mi consentì, ch'io satollassi gli occhi

Nel volto del mio figlio, e pria mi spense.

Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo

Serba del petto: le native spiagge

Secretamente afferra, e a tutti ignoto,

Quando fidar più non si puote in donna.

Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti,

Dove questo mio figlio i giorni tragga?

In Orcomeno forse? O forse tienlo

Pilo arenosa, o la capace Sparta

Presso re Menelao? Certo non venne

Finor sotterra il mio gentil Oreste".

Ed io: "Perché di ciò domandi, Atride,

Me, cui né conto è pur se Oreste spira

Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?

Lode non merta il favellare al vento".

Così parlando alternamente, e il volto

Di lagrime rigando, e il suol di Dite,

Ce ne stavam disconsolati: ed ecco

Sorger lo spirto del Pelìade Achille,

Di Patroclo, d'Antìloco e d'Aiace,

Che gli Achei tutti, se il Pelìde togli,

Di corpo superava e di sembiante.

Mi riconobbe del veloce al corso

Eacide l'imago; e, lamentando:

O, disse, di Laerte inclita prole,

Qual nuova in mente, sciagurato, volgi

Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?

Come osasti calar ne' foschi regni,

Degli estinti magion, che altro non sono

Che aeree forme e simulacri ignudi? "

"Di Peleo", io rispondea, "figlio, da cui

Tanto spazio rimase ogni altro Greco,

Tiresia io scesi a interrogar, che l'arte

Di prender m'insegnasse Itaca alpestre

Sempre involto ne' guai, l'Acaica terra

Non vidi ancor, né il patrio lido attinsi.

Ma di te, forte Achille, uom più beato

Non fu, né giammai fia. Vivo d'un nume

T'onoravamo al pari, ed or tu regni

Sovra i defunti. Puoi tristarti morto?"

"Non consolarmi della morte", a Ulisse

Replicava il Pelìde. "Io pria torrei

Servir bifolco per mercede, a cui

Scarso e vil cibo difendesse i giorni,

Che del Mondo defunto aver l'impero.

Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre

Parlami in vece. Nelle ardenti pugne

Corre tra i primi avanti? E di Pelèo

Del mio gran genitor, nulla sapesti?

Sieguon fedeli a reverirlo i molti

Mirmìdoni, o nell'Ellada ed in Ftia

Spregiato vive per la troppa etade,

Che le membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo

Sotto i raggi del Sol più non mi lice:

Ché passò il tempo che la Troica sabbia

D'esanimi io covrìa corpi famosi,

Proteggendo gli Achei. S'io con la forza

Che a que' giorni era in me, toccar potessi

Per un istante la paterna soglia,

A chïunque oltraggiarlo, e degli onori

Fraudarlo ardisse, questa invitta mano

Metterebbe nel core alto spavento.

Nulla, io risposi, di Pelèo, ma tutto

Del figliuol posso, e fedelmente, dirti,

Di Neottolemo tuo, che all'oste Achiva

Io stesso sopra cava e d'uguai fianchi

Munita nave rimenai da Sciro.

Sempre che ad Ilio tenevam consulte,

Primo egli a favellar s'alzava in piedi,

Né mai dal punto devïava; soli

Gareggiavam con lui Nestore ed io.

Ma dove l'armi si prendean, confuso

Già non restava in fra la turba, e ignoto:

Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere

Le falangi struggea. Quant'ei mandasse

Propugnacol de' Greci, anime all'Orco,

Da me non t'aspettare. Abbiti solo,

Che il Telefìde Eurìpilo trafisse

Fra i suoi Cetèi, che gli morìano intorno;

Euripilo di Troia ai sacri muri

Per la impromessa man d'una del rege

Figlia venuto, ed in quell'oste intera,

Dopo il deiforme Mènnone, il più bello.

Che del giorno dirò, che il fior de' Greci

Nel costrutto da Epèo cavallo salse,

Che in cura ebb'io, poiché a mia voglia solo

Aprìasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato?

Tergeansi capi e condottier con mano

Le umide ciglia, e le ginocchia sotto

Tremavano a ciascun; né bagnare una

Lagrima a lui, né di pallore un'ombra

Tingere io vidi la leggiadra guancia.

Bensì prieghi porgeami onde calarsi

Giù del cavallo, e della lunga spada

Palpeggiava il grand'else, e l'asta grave

Crollava, mali divisando a Troia

Poi la cittade incenerita, in nave

Delle spoglie più belle adorno e carco

Montava, e illeso: quando lunge, o presso,

Di spada, o stral, non fu giammai chi vanto

Del ferito Neottòlemo si desse".

Dissi, e d'Achille alle veloci piante

Per li prati d'asfodelo vestiti

L'alma da me sen giva a lunghi passi,

Lieta, che udì del figliuol suo la lode.

D'altri guerrieri le sembianze tristi

Compariano; e ciascun suoi guai narrava.

Sol dello spento Telamonio Aiace

Stava in disparte il disdegnoso spirto

Perché vinto da me nella contesa

Dell'armi del Pelide appo le navi.

Teti, la madre veneranda, in mezzo

Le pose, e giudicaro i Teucri e Palla.

Oh côlta mai non avess'io tal palma,

Se l'alma terra nel suo vasto grembo

Celar dovea sì glorïosa testa,

Aiace, a cui d'aspetto e d'opre illustri,

Salvo l'irreprensibile Pelìde

Non fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!

Io con blande parole: "Aiace", dissi,

"Figlio del sommo Telamon, gli sdegni

Per quelle maledette arme concetti

Dunque né morto spoglierai? Fatali

Certo reser gli dèi quell'arme ai Greci,

Che in te perdero una sì ferma torre.

Noi per te nulla men, che per Achille,

Dolenti andiam; né alcuno n'è in colpa, il credi:

Ma Giove, che infinito ai bellicosi

Danai odio porta, la tua morte volle.

Su via, t'accosta, o re, porgi cortese

L'orecchio alle mie voci, e la soverchia

Forza del generoso animo doma".

Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,

Fra l'altre degli estinti Ombre si mise:

Pur, seguendolo io quivi, una risposta

Forse data ei m'avrìa; se non che voglia

Altro di rimirar m'ardea nel petto.

Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro

Figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro

Stringendo in man, tenea ragione all'ombre

Che tutte, qual seduta e quale in piedi,

Conti di sé rendeangli entro l'oscura

Di Pluto casa dalle larghe porte.

Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,

Che uccise un dì sovra i boscosi monti,

Or gli spettri seguìa de' prati inferni

Per l'asfodelo in caccia; e maneggiava

Perpetua mazza d'infrangibil rame.

Ecco poi Tizio, della Terra figlio,

Che sforzar non temé l'alma di Giove

Sposa, Latona, che volgeasi a Pito

Per le ridenti Panopèe campagne.

Sul terren distendevasi, e ingombrava

Quando in dì nove ara di tauri un giogo:

E due avvoltoi, l'un quinci, e l'altro quindi,

Ch'ei con mano scacciar tentava indarno

rodeangli il cor, sempre ficcando addentro

Nelle fibre rinate il curvo rostro.

Stava là presso con acerba pena

Tantalo in piedi entro un argenteo lago,

La cui bell'onda gli toccava il mento.

Sitibondo mostravasi, e una stilla

Non ne potea gustar: ché quante volte

Chinava il veglio le bramose labbra,

Tante l'onda fuggìa dal fondo assorta,

Sì che apparìagli ai piè solo una bruna

Da un Genio avverso inaridita terra.

Piante superbe, il melagrano, il pero,

E di lucide poma il melo adorno,

E il dolce fico, e la canuta oliva,

Gli piegavan sul capo i carchi rami;

E in quel ch'egli stendea dritto la destra

Vêr le nubi lanciava i rami il vento.

Sìsifo altrove smisurato sasso

Tra l'una e l'altra man portava, e doglia

Pungealo inenarrabile. Costui

La gran pietra alla cima alta d'un monte,

Urtando con le man, coi piè pontando,

Spingea: ma giunto in sul ciglion non era,

Che, risospinta da un poter supremo,

Rotolavasi rapida pel chino

Sino alla valle la pesante massa.

Ei nuovamente di tutta sua forza

Su la cacciava: dalle membra a gronde

Il sudore colavagli, e perenne

Dal capo gli salìa di polve un nembo.

D'Ercole mi s'offerse al fin la possa,

Anzi il fantasma: però ch'ei de' numi

Giocondasi alla mensa e cara sposa

Gli siede accanto la dal piè leggiadro

Ebe, di Giove figlia e di Giunone,

Che muta il passo, coturnata d'oro.

Schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno,

Come volanti augei da subitana

Tema compresi; ed ei fosco, qual notte,

Con l'arco in mano, e con lo stral sul nervo,

Ed in atto ad ognor di chi saetta,

Orrendamente qua e là guatava.

Ma il petto attraversavagli una larga

D'ôr cintura terribile, su cui

Storïate vedeansi opre ammirande,

Orsi, cinghiai feroci e leon torvi,

E pugne, e stragi, e sanguinose morti;

Cintura, a cui l'eguale, o prima o dopo,

Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.

Mi sguardò, riconobbemi, e con voce

Lugubre: "O", disse, "di Laerte figlio,

Ulisse accorto, ed infelice a un'ora,

Certo un crudo t'opprime avverso fato,

Qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni.

Figliuol quantunque dell'Egìoco Giove,

Pur, soggetto vivendo ad uom che tanto

Valea manco di me, molto io soffersi.

Fatiche gravi ei m'addossava, e un tratto

Spedimmi a quinci trarre il can trifauce,

Che la prova di tutte a me più dura

Sembravagli; ed io venni, e quinci il cane

Trifauce trassi ripugnante indarno,

D'Ermete col favore e di Minerva".

Tacque, e nel più profondo Erebo scese.

Di loco io non moveami, altri aspettando

De' prodi, che spariro, è omai gran tempo.

E que' due forse mi sarien comparsi,

Ch'io più veder bramava, eroi primieri,

Teseo e Piritoo, glorïosa prole

Degl'immortali dèi. Ma un infinito

Popol di spirti con frastuono immenso

Si ragunava; e in quella un improvviso

Timor m'assalse, non l'orribil testa

Della tremenda Gòrgone la diva

Proserpina invïasse a me dall'Orco.

Dunque senza dimora al cavo legno

Mossi, e ai compagni comandai salirlo,

E liberar le funi; ed i compagni

Ratto il salìano, e s'assidean su i banchi.

Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno

Mandava innanzi d'Ocean su l'onde:

Poscia quel, che levossi, ottimo vento.

 

LIBRO XII

Poiché la nave uscì dalle correnti

Del gran fiume Oceàno, ed all'Eèa

Isola giunse nell'immenso mare,

Là 've gli alberghi dell'Aurora e i balli

Sono, e del sole i lucidi Levanti,

Noi dalla nave, che fu in secco tratta,

Scesi, e corcati su la muta spiaggia,

Aspettammo dell'alba il sacro lume.

Ma come del mattin la bella figlia

Colorò il ciel con le rosate dita,

Di Circe andaro alla magione alcuni,

Che dell'estinto Elpenore la fredda

Spoglia ne riportassero. Troncammo

Frassini e abeti, e all'infelice amico,

Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio,

L'esequie femmo, ove sporgea più il lido.

Né prima il corpo e le armi ebbe arse il foco,

Che noi, composto un tumulo, ed eretta

SOpravi una colonna, il ben formato

Remo infiggemmo della tomba in cima.

Mentr'eravamo al trist'ufficio intenti,

Circe, che d'Aide ci sapea tornati,

S'adornò e venne in fretta, e con la dea

Venner d'un passo le serventi ninfe,

Forza di carni e pan seco recando,

E rosso vino, che le vene infiamma.

L'inclita tra le dee stava nel mezzo,

E così favellava: "O sventurati,

Che in carne viva nel soggiorno entraste

D'Aide, e di cui la sorte è due fiate

Morir, quando d'ogni altro uomo è una sola.

Su via, tra i cibi scorra ed i licori

Tutto a voi questo dì su le mie rive.

Come nel ciel rosseggerà l'Aurora,

Navigherete; ma il cammino, e quanto

Di saper v'è mestieri, udrete in prima,

Sì che non abbia per un mal consiglio

Grave in terra, od in mare, a incorvi danno".

Chi persuaso non sarìasi? Quindi

Tra lanci piene e coronate tazze,

Finché il sol si mostrò, sedemmo a mensa.

Il sol celato ed imbrunito il mondo,

Si colcaro i compagni appo la nave.

Ma Circe me prese per mano, e trasse

Da parte, e a seder pose; indi, seduta

Di contra, interrogommi, ed io su tutto

La satisfeci pienamente. Allora

Tai parole sciogliea l'illustre diva:

"Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,

Ch'io vo' manifestarti, e che al bisogno

Ti torneranno nella mente i numi.

Alle Sirene giungerai da prima,

Che affascìnan chïunque i lidi loro

Con la sua prora veleggiando tocca.

Chïunque i lidi incautamente afferra

Delle Sirene, e n'ode il canto, a lui

Né la sposa fedel, né i cari figli

Verranno incontro su le soglie in festa.

Le Sirene sedendo in un bel prato,

Mandano un canto dalle argute labbra,

Che alletta il passeggier: ma non lontano

D'ossa d'umani putrefatti corpi

E di pelli marcite, un monte s'alza.

Tu veloce oltrepassa, e con mollita

Cera de' tuoi così l'orecchio tura,

Che non vi possa penetrar la voce.

Odila tu, se vuoi; sol che diritto

Te della nave all'albero i compagni

Leghino, e i piedi stringanti, e le mani;

Perché il diletto di sentir la voce

Delle Sirene tu non perda. E dove

Pregassi o comandassi a' tuoi di sciorti,

Le ritorte raddoppino ed i lacci.

Poiché trascorso tu sarai, due vie

Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico,

Qual più giovi pigliar, ma, come d'ambo

Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa.

Vedrai da un lato discoscese rupi

Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba

Dell'azzurra Anfitrite il salso fiotto.

Gl'Iddii beati nella lor favella

Chiàmanle Erranti. Non che ogni altro augello,

Trasvolarle non sanno impunemente

Né le colombe pur, che al padre Giove

Recan l'ambrosia: la polita pietra

Sempre alcuna ne fura, e della spenta

Surroga invece altra colomba il padre.

Nave non iscampò dal periglioso

Varco sin qui: ché de' navigli tutti

Le tavole del pari e i naviganti

Sen porta il vincitor flutto, e la pregna

Di mortifero foco atra procella.

Sola quell'Argo che solcava il mare,

Degli uomini pensiero e degli dèi

Trapassar valse, navigando a Colco:

E se non che Giunon, cui molto a cuore

Giasone stava, di sua man la spinse,

Quella non meno avrìan contra le vaste

Rupi cacciata i tempestosi flutti.

Dall'altra parte havvi due scogli: l'uno

Va sino agli astri, e fosca nube il cinge

Né su l'acuto vertice, l'estate

Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride.

Montarvi non potrebbe altri, o calarne,

Venti mani movesse e venti piedi:

Sì liscio è il sasso e la costa superba.

Nel mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,

S'apre oscura caverna, a cui davanti

Dovrai ratto passar; giovane arciero

Che dalla nave disfrenasse il dardo,

Non toccherebbe l'incavato speco.

Scilla ivi alberga, che moleste grida

Di mandar non ristà. La costei voce

Altro non par che un guaiolar perenne

Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce

Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,

Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.

Dodici ha piedi, anterïori tutti,

Sei lunghissimi colli, e su ciascuno

Spaventosa una testa, e nelle bocche

Di spessi denti un triplicato giro,

E la morte più amara in ogni dente.

Con la metà di sé nell'incavato

Speco profondo ella s'attuffa, e fuori

Sporge le teste, riguardando intorno

Se delfini pescar, lupi, o alcun puote

Di que' mostri maggior che a mille a mille

Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.

Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:

Poiché quante apre disoneste bocche,

Tanti dal cavo legno uomini invola.

Men l'altro s'alza contrapposto scoglio

E il dardo tuo ne colpirìa la cima.

Grande verdeggia in questo e d'ampie foglie

Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe

La temuta Cariddi il negro mare.

Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno

L'assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi

Non t'accostar mentre il mar negro inghiotte;

Ché mal saprìa dalla ruina estrema

Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla

Tienti vicino, e rapido trascorri.

Perder sei de' compagni entro la nave

Torna più assai, che perir tutti a un tempo".

Tal ragionava; ed io: "Quando m'avvegna

Schivare, o Circe, la fatal Cariddi,

Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,

Che gli amici a distruggermi s'avventa?"

"O sventurato", rispondea la diva

Dunque le pugne in mente ed i travagli

Rivolgi ancor, né ceder pensi ai numi?

Cosa mortal credi tu Scilla? Eterno

Credila, e duro, e faticoso, e immenso

Male, ed inespugnabile, da cui

Schermo non havvi, e cui fuggir fia ìl meglio

Se indugi, e vesti appo lo scoglio l'armi,

Sbucherà, temo, ad un secondo assalto,

E tanti de' compagni un'altra volta

Ti rapirà, quante spalanca bocche.

Vola dunque sul pelago, e la madre

Cratèi, che al mondo generò tal peste,

E ritenerla, che a novella preda

Non si slanci, potrà, nel corso invoca.

Allora incontro ti verran le belle

Spiagge della Trinacria isola, dove

Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:

Sette branchi di buoi, d'agnello tanti,

E di teste cinquanta i branchi tutti.

Non cresce, o scema, per natale o morte,

Branco; e le Dive sono i lor pastori

Faetusa e Lampezie il crin ricciute

Che partorì d'Iperïone al figlio

Ninfe leggiadre, la immortal Neera.

Come l'augusta madre ambo le ninfe

Dopo il felice parto ebbe nodrite,

A soggiornar lungi da sé mandolle

Nella Trinacria; e le paterne vacche

Dalla fronte lunata, ed i paterni

Monton lucenti a custodir lor diede.

Pascoleranno intatti e a voi soltanto

Calerà del ritorno? il suol nativo,

Non però senza guai, fiavi concesso.

Ma se giovenca molestaste od agna,

Sterminio a te predìco, al legno e a' tuoi

E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,

Riederai tardi, e a gran fatica, e solo".

Disse; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.

Circe, non molto poi, da me rivolse

Per l'isola i suoi passi; ed io, trovata

La nave, a entrarvi e a disnodar la fune

Confortava i compagni; ed i compagni

V'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi

Fean co' remi nel mar spume d'argento.

La dea possente ci spedì un amico

Vento di vela gonfiator, che fido

Per l'ondoso cammin ne accompagnava:

Sì che, deposti nella negra nave

Dalla prora cerulea i lunghi remi,

Sedevamo, di spingerci e guidarci

Lasciando al timonier la cura e al vento.

Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,

Degno mi par che a tutti voi sia conto

Quel che predisse a me l'inclita Circe.

Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,

Non ci sorprenda ignari il nostro fato.

Sfuggire in pria delle Sirene il verde

Prato e la voce dilettosa ingiunge.

Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto

Me della nave all'albero legate

Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;

E dove di slegarmi io vi pregassi

Pur con le ciglia, o comandassi, voi

Le ritorte doppiatemi ed i lacci".

Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,

Che avea da poppa il vento, in picciol tempo

Delle Sirene all'isola pervenne.

Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,

E l'onde assonnò un demone. I compagni

Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,

E nella nave collocarle: quindi

Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde

Co' forti remi di polito abete.

Io la duttile cera, onde una tonda

Tenea gran massa, sminuzzai con destro

Rame affilato; ed i frammenti n'iva

Rivoltando e premendo in fra le dita.

Né a scaldarsi tardò la molle pasta;

Perocché lucidissimi dall'alto

Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.

De' compagni incerai senza dimora

Le orecchie di mia mano; e quei diritto

Me della nave all'albero legaro

Con fune, i piè stringendomi e le mani.

Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi

Batteano il mar, che ne tornava bianco.

Già, vogando di forza, eravam quanto

Corre un grido dell'uomo, alle Sirene

Vicini. Udito il flagellar de' remi,

E non lontana omai vista la nave,

Un dolce canto cominciaro a sciorre:

"O molto illustre Ulisse, o degli Achei

Somma gloria immortal, su via, qua vieni,

Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.

Nessun passò di qua su negro legno,

Che non udisse pria questa che noi

Dalle labbra mandiam, voce soave;

Voce, che innonda di diletto il core,

E di molto saver la mente abbella.

Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia

Per celeste voler Teucri ed Argivi,

Noi conosciam, ma non avvien su tutta

La delle vite serbatrice terra

Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".

Cosi cantaro. Ed io, porger volendo

Più da vicino il dilettato orecchio,

Cenno ai compagni fea, che ogni legame

Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo

Incurvavano il dorso, e Perimede

Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi

Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.

Come trascorsa fu tanto la nave,

Che non potea la perigliosa voce

Delle Sirene aggiungerci, coloro

A sé la cera dall'orecchio tosto,

E dalle membra a me tolsero i lacci.

Già rimanea l'isola indietro; ed ecco

Denso apparirmi un fumo e vasti flutti,

E gli orecchi intronarmi alto fragore.

Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi

Remi di man lor caddero, e la nave,

Che de' fidi suoi remi era tarpata,

Là immantinente s'arrestò. Ma io

Di su, di giù, per la corsìa movendo,

E con blanda favella or questo, or quello

De' compagni abbordando: "O", dissi, "meco

Sin qua passati per cotanti affanni,

Non ci sovrasta un maggior mal, che quando

L'infinito vigor di Polifemo

Nell'antro ci chiudea. Pur quinci ancora

Col valor mio vi trassi, e col mio senno,

E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.

Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti

Facciam: voi, stando sovra i banchi, l'onde

Percotete co' remi, e Giove, io spero,

Concederà dalle correnti scampo.

Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente

Questo, né l'obblïar: guida il naviglio

Fuor del fumo e del fiotto, ed all'opposta

Rupe ognor mira e ad essa tienti, o noi

Getterai nell'orribile vorago".

Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.

Se non ch'io Scilla, immedicabil piaga,

Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,

L'un sovra l'altro per soverchia tema

Della nave cacciassersi nel fondo.

E qui, di Circe, che vietommi l'arme,

Negletto il disamabile comando,

Io dell'arme vestìami, e con due lunghe

Nell'impavida mano aste lucenti

Salìa sul palco della nave in prua,

Attendendo colà, che l'efferata

Abitatrice dell'infame scoglio

Indi, gli amici a m'involar, sbalzasse:

Né, perché del ficcarli in tutto il bruno

Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,

Da parte alcuna rimirarla io valsi.

Navigavamo addolorati intanto

Per l'angusto sentier: Scilla da un lato,

Dall'altro era l'orribile Cariddi,

Che del mare inghiottia l'onde spumose.

Sempre che rigettavale, siccome

Caldaia in molto rilucente foco,

Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,

Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo

Gli scogli ricadevano. Ma quando

I salsi flutti ringhiottiva, tutta

Commovéasi di dentro, ed alla rupe

Terribilmente rimbombava intorno,

E, l'onda il seno aprendo, un'azzurrigna

Sabbia parea nell'imo fondo: verdi

Le guance di paura a tutti io scôrsi.

Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,

Una morte temendone vicina,

Sei de' compagni, i più di man gagliardi,

Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi

Torsi, e li vidi che levati in alto

Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse

Chiamavan, lassi!, per l'estrema volta.

Qual pescatore che su pendente rupe

Tuffa di bue silvestre in mare il corno

Con lunghissima canna, un'infedele

Esca ai minuti abitatori offrendo,

E fuor li trae dall'onda, e palpitanti

Scagliali sul terren: non altrimenti

Scilla i compagni dal naviglio alzava

E innanzi divoravali allo speco,

Che dolenti mettean grida, e le mani

Nel gran disastro mi stendeano indarno.

Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni,

Solcando il mar, la vista, oggetto mai

Di cotanta pietà non mi s'offerse.

Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia

La feconda ci apparve isola amena,

Ove il gregge del Sol pasce e l'armento;

E ne giungean dall'ampie stalle a noi

I belati su l'aure ed i muggiti.

Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente

Del Teban vate e della maga Circe,

Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi,

Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

Ond'io: "Compagni, lor dicea, per quanto

Siate angosciati, la sentenza udite

Del Teban vate e della maga Circe,

Ch'io l'isola schivar debba del Sole,

Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

Circe affermava che il maggior de' guai

Quivi c'incoglieria. Lasciarla indietro

Ci convien dunque con la negra nave".

Colpo tai detti fûr quasi mortale.

Né a molestarmi Euriloco in tal guisa

Tardava: "Ulisse, un barbaro io ti chiamo,

Perché di forze abbondi, e mai non cedi,

Né fibra è in te che non sia ferro, a' tuoi

Contendi il toccar terra, e di non parca

Cena sul lido ristorarsi. Esigi

Che in mezzo le notturne ombre su questo

Pelago a caso erriam, benché la notte

Gravi produca disastrosi venti.

Or chi fuggir potrà l'ultimo danno

Dove repente un procelloso fiato

Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente,

Che de' numi anco ad onta, il legno sperda?

S'obbedisca oggi alla divina notte,

E la cena nell'isola s'appresti.

Come il dì spunti, salirem di nuovo

La nave, e nell'immensa onda entreremo".

Questa favella con applauso accolta

Fu dai compagni ad una; ed io ben m'avvidi

Che mali un genio prepotente ordìa:

"Euriloco", io risposi, "oggimai troppa,

Tutti contra ad un sol, forza mi fate.

Giurate almeno, e col più saldo giuro,

Che, se greggi troviam, troviamo armenti,

Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,

Giovenca uccida, o pecorella offenda:

Ma tranquilli di ciò pasteggerete,

Che in don vi porse la benigna Circe".

Quelli giuraro, e non sì tosto a fine

L'invïolabil giuro ebber condotto,

Che la nave nel porto appo una fonte

Fermâro, e ne smontaro, e lauta cena

Solertemente apparecchiâr sul lido.

Paga delle vivande e de' licori

La naturale avidità pungente,

Risovvenìansi di color che Scilla

Dalla misera nave alto rapiti

Vorossi, e li piangean, finché discese

Su gli occhi lagrimosi il dolce sonno.

Già corsi avea del suo cammin due terzi

La notte e dechinavano le stelle,

Quando il cinto di nembi Olimpio Giove

Destò un gagliardo, turbinoso vento,

Che la terra coverse, e il mar di nubi,

E la notte di cielo a piombo cadde.

Ma come poi l'orocrinita Aurora

Colorò il ciel con le rosate dita,

Tirammo a terra il legno, e in cavo speco

De' seggi ornato delle ninfe, ch'ivi

I lor balli tessean, l'introducemmo.

Subito io tutti mi raccolsi intorno

E: "Compagni", diss'io, "cibo e bevanda

Restanci ancor nella veloce nave.

Se non vogliam perir, lungi, vedete,

La man dal gregge e dall'armento; al Sole,

Terribil dio, che tutto vede ed ode,

Pascono i monton pingui e i bianchi tori".

Dissi; e acchetârsi i generosi petti.

Per un intero mese Austro giammai

Di spirar non restava, e poscia fiato

Non sorgea mai, che di Levante o d'Austro.

Finché il pan non fallì loro ed il vino,

Ubbidïenti e della vita avari,

Rispettavan l'armento. E già la nave

Nulla contenea più. Gìvano adunque,

Come il bisogno li pungea, dispersi

Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia,

Con archi ed ami, o di quale altra preda

Lor venisse alle man; però che forte

Rodeali dentro l'importuna fame.

Io, dai compagni scevro, una remota

Cercai del piede solitaria piaggia,

Gli eterni a Supplicar, se alcun la via

Mi dimostrasse del ritorno, e in parte

Giunto, che d'aura non sentìasi colpo,

Sparsi di limpid'onda, e a tutti alzai

Gli abitanti del cielo ambo le palme.

Né guari andò, che d'un tranquillo sonno

Gli occhi ed il petto rïempièrmi i numi.

Eurìloco frattanto un mal consiglio

Pose innanzi ai compagni: "O da sì acerbe

Sciagure oppressi, la mia voce udite.

Tutte odïose certo ad uom le morti;

Ma nulla tanto, che il perir di fame.

Che più si tarda? Meniam via le belle

Giovenche, e sagrifici ai numi offriamo.

Ché se afferrar ci sarà dato i lidi

Nativi, al Sole Iperïone un ricco

Tempio illustre alzeremo, appenderemo

Molti alle mura prezïosi doni.

E dov'ei, per li buoi dalla superba

Testa crucciato, sperder voglia il legno,

Né alcun dio gli contrasti, io tolgo l'alma

Pria tra i flutti esalar, che, su deserta

Isola stando, intisichir più a lungo".

Disse: e tutti assentìano. Incontanente

Del Sol cacciate le più belle vacche

Di fronte larga e con le corna in arco,

Che dalla nave non pascean lontane,

Stavano ad esse intorno, e, côlte prima,

Per difetto che avean di candid'orzo,

Tenere foglie di sublime quercia,

Voti féano agli dèi. Compiuti i voti,

Le vittime sgozzaro e le scoiaro,

E, le cosce tagliatene, di zirbo

Le copriro doppiate, e i crudi brani

Sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso

Vino scusasse, onde patìan disagio,

Versavan poi su i sagrifici ardenti,

E abbrostìan tutti gl'intestini. Quindi,

Le cosce omai combuste, ed assaggiate

Le interïora, tutto l'altro in pezzi

Fu messo, e infitto negli acuti spiedi;

E a me uscì delle ciglia il dolce sonno.

Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.

Ma vicina del tutto ancor non m'era,

Ch'io mi sentii dall'avvampate carni

Muovere incontro un odoroso vento,

E gridai, lamentando, ai numi eterni:

"O Giove padre, e voi, dèi sempre stanti,

Certo in un crudo e fatal sonno voi

Mi seppelliste, se doveasi intanto

Compier da cotestoro un tal misfatto".

Nunzia non tarda dell'ucciso armento,

Lampezie al Sole andò, di lungo peplo

Coperta. Il Sole, in grande ira montato,

Si volse ai numi e: "Giove", disse, e voi

Tutti, immortali dèi, paghino il fio

Del Laerzìade Ulisse i rei compagni,

Che le giovenche trucidarmi osaro,

Della cui vista, o ch'io per la stellata

Volta salissi, o discendessi, nuovo

Diletto ciascun dì prendea il mio core.

Colpa e pena in lor sia d'una misura:

O calerò nella magion di Pluto,

E al popol morto porterò mia luce".

E il nimbifero Giove a lui rispose:

"Tra gl'Immortali, o Sole, ed i mortali

Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi.

Io senza indugio d'un sol tocco lieve

Del fulmine affocato il lor naviglio

Sfracellerò del negro mar nel seno".

Queste cose Calipso un giorno udìa

Dal messaggier Mercurio; e a me narrolle

La ricciuta il bel crin ninfa Calipso.

Giunto alla nave, io rampognavo or questo

De' compagni, ed or quel: ma vïolato

L'armento fu, né avea compenso il male.

Strani prodigi intanto agl'infelici

Mostravano gl'iddii: le fresche pelli

Strisciavan sul terren, muggian le incotte

Carni e le crude, agli schidoni intorno,

E de' buoi lor sembrava udir la voce.

Pur del fior dell'armento ancor sei giorni

Si cibaro i colpevoli. Comparsa

La settim'alba, il turbinoso vento

Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato

L'albero prontamente, e dispiegate

Le bianche vele, ci mettemmo in mare.

Di vista già della Trinacria usciti,

Altro non ci apparìa che il cielo e l'onda,

Quando il Saturnio sul veloce legno

Sospese in alto una cerulea nube,

Sotto cui tutte intenebrârsi l'acque.

La nave non correa che un tempo breve;

Poiché ratto uno stridulo Ponente,

Infurïando, imperversando, venne

Di contra e ruppe con tremenda buffa

Le due funi dell'albero, che a poppa

Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte

Nella sentina scesero. Percosse

L'alber, cadendo, al timoniere in capo,