Arthur Conan Doyle



I RACCONTI DEL TERRORE E DEL MISTERO

 

 

 

 

L'IMBUTO DI CUOIO

Il mio amico, Lionel Dacre, abitava nell'Avenue de Wagram, a Parigi. La sua casa era quella piccola, con la cancellata di ferro e il giardinetto davanti, che s'incontra sulla sinistra, venendo dall'Arco di Trionfo. Immagino che essa esistesse già molto tempo prima che il viale venisse costruito, poiché i tegoli erano cosparsi di licheni, e i muri erano ammuffiti e scoloriti dagli anni. Sembrava piccola vista dalla strada, cinque finestre sulla facciata, se ben ricordo, ma sul retro si estendeva in un'unica, lunga sala. Era qui che Dacre teneva quella singolare biblioteca di letteratura occulta, e quei bizzarri oggetti che costituivano il suo hobby e il divertimento dei suoi amici. Uomo ricco, dai gusti eccentrici e raffinati, aveva speso la miglior parte della sua vita e della sua fortuna mettendo insieme una raccolta privata, che si diceva unica nel suo genere, di opere talmudiche, cabalistiche e di magia, molte delle quali assai rare e di grande valore. I suoi gusti tendevano al soprannaturale e all'orrido, e ho sentito dire che i suoi esperimenti nel campo dell'ignoto hanno passato ogni limite di civiltà e di decoro. Con i suoi amici inglesi egli non parlava mai di queste cose, anzi si atteggiava a studioso e a grande esperto; ma un francese, i cui gusti erano analoghi ai suoi, mi ha assicurato che le più macabre delle messe nere si sono svolte in quella vasta sala, le cui pareti sono tappezzate da libri e da bacheche che la rendono simile a un museo.

L'aspetto di Dacre era sufficiente a dimostrare che il suo profondo interesse in queste faccende psichiche era intellettuale piuttosto che spirituale. Il volto massiccio non recava alcuna traccia di ascetismo, ma l'enorme cranio a cupola che spuntava al di sopra dei capelli ormai radi, simile a una vetta innevata circondata da una frangia di abeti, rivelava una grande forza mentale. La sua sapienza superava la sua saggezza, e la volontà era di gran lunga superiore al carattere. Gli occhi piccoli e vivaci, profondamente infossati nel volto carnoso, brillavano di intelligenza e di un'insaziabile curiosità della vita, ma erano gli occhi di un sensuale e di un egoista. Ma basta col parlare di lui, poiché adesso egli è morto, povero diavolo, morto proprio quando era sicuro di avere finalmente scoperto l'elisir di lunga vita. Non è del suo complesso carattere che io voglio parlare, ma della strana e inspiegabile vicenda che avvenne durante la visita che gli feci nella primavera dell"82.

Avevo conosciuto Dacre in Inghilterra, poiché le mie ricerche nella Sala Assira del British Museum si erano svolte nel medesimo tempo in cui egli stava tentando di attribuire un significato mistico ed esoterico alle tavole babilonesi, e questi comuni interessi ci avevano avvicinati. I primi casuali commenti si erano approfonditi in conversazioni quotidiane, e queste, a loro volta, si erano trasformate in qualcosa di simile all'amicizia. Avevo promesso di fargli visita, la prima volta che mi fossi recato a Parigi. All'epoca in cui potei adempiere alla mia promessa, abitavo in una villetta a fontainebleau, e poiché i treni della sera erano scomodi, egli mi chiese di trascorrere la notte in casa sua.

"Non ho che quel letto da metterle a disposizione" mi disse, indicando un ampio divano nel suo grande salone. "Spero che potrà starci comodo." Era una singolare stanza da letto, quella, con le sue alte pareti tappezzate di volumi, ma non potevano esistere mobili più gradevoli per un amante di libri quale io ero, né vi è alcun profumo così attraente alle mie nari quanto quel tenue, leggero tanfo che emana da un libro antico. Lo assicurai che non avrei potuto desiderare una camera più piacevole, né un arredamento più congeniale.

"Se l'arredamento non è né comodo né convenzionale, è perlomeno costoso" commentò Dacre guardandosi attorno. "Questi oggetti che la circondano mi sono costati quasi un quarto di milione. Libri, armi, gemme, intarsi, arazzi, quadri... non esiste un solo oggetto che non abbia la sua storia, e una storia che generalmente vale la pena raccontare." Mentre parlava, egli era seduto da un lato del caminetto aperto, e io dall'altro. Alla sua destra si trovava lo scrittoio, sul cui piano una lampada proiettava un vivido cerchio di luce dorata. In mezzo al tavolo c'era un palinsesto semi-arrotolato, e attorno una collezione di strani oggetti. Fra questi, notai un grande imbuto, di quelli che si adoperano per riempire i barili di vino. Pareva fatto di legno nero, e aveva il bordo di ottone scolorito.

"Quello è un oggetto curioso" commentai. "Qual è la sua storia?"

"Ah" replicò "anch'io mi sono posto questa stessa domanda. Darei non so che cosa per conoscerla. Lo prenda in mano e lo esamini bene." Lo presi, e scoprii che ciò che io avevo creduto fosse legno era in realtà cuoio, benché prosciugato e indurito dagli anni. Era piuttosto grande come imbuto, e giudicai che potesse contenere all'incirca un litro. Un bordo di ottone ne circondava il capo più largo, ma anche quello stretto era rifinito in metallo.

"Cosa gliene pare?" mi chiese Dacre.

"Penso che sia appartenuto a un vinaio o a un birraio del Medioevo" risposi. "Ho visto dei fiaschetti di cuoio inglesi del diciassettesimo secolo, che erano dello stesso colore e della stessa consistenza di questo imbuto."

"Suppongo che la data sia suppergiù la medesima" confermò Dacre "e indubbiamente serviva per riempire un recipiente di un qualche liquido. Però se i miei sospetti sono fondati, era uno strano vinaio colui che se ne serviva, e un insolito barile che veniva riempito. Non notate qualcosa di strano sul beccuccio dell'imbuto?" Tenendolo alla luce, osservai che in un punto a una diecina di centimetri circa dal puntale di ottone, lo stretto collo dell'imbuto era tutto segnato e tagliuzzato, come se qualcuno avesse tentato di inciderlo con un coltello poco tagliente.

Soltanto in quel punto l'opaca superficie nera era irruvidita.

"Qualcuno ha tentato di tagliarne via il collo."

"Lo chiamereste un taglio?"

"E' strappato e lacerato. Ci deve essere voluta una certa forza per lasciare dei segni simili su un materiale così duro, qualsiasi fosse stato lo strumento. Ma lei cosa ne pensa? E' chiaro che ne sa più di quanto non abbia detto." Dacre sorrise, e i suoi occhietti brillarono divertiti.

"Ha incluso la psicologia dei sogni fra i suoi dotti studi?" mi chiese.

"Non sapevo neppure che esistesse una simile psicologia."

"Mio caro signore, quello scaffale sopra alla bacheca di gemme è pieno di volumi, da Albertus Magnus in avanti, che trattano unicamente quel soggetto. E' una scienza in se stessa."

"Una scienza di ciarlatani."

"Il ciarlatano è sempre il pioniere. Dall'astrologo è nato l'astronomo, dall'alchimista il chimico, dal mesmerista lo psicologo sperimentale. Il ciarlatano di ieri è il professore di domani. Anche delle cose così lievi e inconsistenti come i sogni, saranno col tempo ordinate e classificate. Quando quel tempo verrà, le ricerche dei nostri amici sullo scaffale laggiù non saranno più il passatempo del mistico, ma le fondamenta di una scienza."

"Anche supponendo che sia così, qual è il rapporto fra la scienza dei sogni e un grande imbuto nero bordato di ottone?"

"Glielo dirò. Lei sa che io ho un agente che è costantemente alla ricerca di oggetti rari e curiosi per la mia collezione. Qualche giorno fa, egli ha sentito parlare di un mercante lungo uno dei "quais", il quale aveva acquistato delle vecchie cianfrusaglie trovate in un armadio in un'antica casa dietro a rue Mathurin, nel Quartiere Latino. La sala da pranzo di questa vecchia casa è decorata con uno stemma, strisce rosse in campo argenteo, che si è dimostrato, dopo un'indagine, essere il blasone di Nicholas de la Reyne, un alto ufficiale di re Luigi XIV. Non vi è alcun dubbio che anche gli altri oggetti in quell'armadio rimontano ai lontani giorni di quel re. Se ne deduce, pertanto, che erano tutti proprietà di questo Nicholas de la Reyne, il quale era, a quanto mi risulta, il gentiluomo incaricato di far osservare ed eseguire le draconiche leggi di quell'epoca."

"E con ciò?"

"Ora le chiederò di prendere nuovamente in mano l'imbuto e di osservarne il cerchio di ottone sull'imboccatura. Riesce a distinguervi delle lettere?" Vi erano certamente degli sgraffi, quasi cancellati dal tempo.

L'effetto che essi davano era di una serie di lettere, l'ultima delle quali somigliava vagamente a una B.

"Non le sembra una B?"

"Sì."

"Anche a me. Anzi, non dubito minimamente che non si tratti di una B."

"Ma il nobiluomo di cui avete parlato avrebbe avuto una R per iniziale."

"Esattamente, è proprio questo il bello. Egli possedeva questo curioso oggetto, eppure esso recava le iniziali di un altro.

Perché fece questo?"

"Non riesco a immaginarlo; e lei?"

"Be', potrei forse tirar a indovinare. Ha notato qualcosa disegnato un po' più avanti sul bordo?"

"Direi che si tratta di una corona."

"E' indubbiamente una corona; ma se lei la esamina in piena luce, si convincerà che non è una normale corona. E' una corona araldica, un emblema nobiliare, e consiste in quattro perle e foglie di fragola alternate, e cioè l'emblema di marchese. Ne possiamo dedurre, perciò, che la persona il cui nome cominciava per B aveva il diritto di fregiarsi di quella corona.

"Allora questo comune imbuto di cuoio apparteneva a un marchese?" Dacre mi rivolse uno strano sorriso.

"O a un membro della famiglia di un marchese" disse "Tutto ciò lo possiamo dedurre da questo bordo inciso."

"Ma che cosa c'entra tutto questo con i sogni?" Non so se dipendesse dall'espressione sul volto di Dacre, o da un'impercettibile suggestione nel suo atteggiamento, ma un senso di repulsione, di inspiegabile orrore, mi assalì mentre guardavo quel vecchio pezzo di cuoio contorto.

"Più di una volta ho ricevuto importanti informazioni attraverso i miei sogni" disse il mio compagno, col tono didattico che egli amava assumere. "Ne ho fatto una regola, adesso. Ogni qualvolta sono in dubbio riguardo a un dato materiale qualsiasi, mentre dormo metto l'oggetto in questione accanto a me. Spero così di venire in qualche modo illuminato. A me il procedimento non appare affatto oscuro, benché non abbia ancora ricevuto il riconoscimento della scienza ortodossa. Stando alla mia teoria, qualsiasi oggetto che sia stato intimamente legato a qualsiasi supremo parossismo di emozione umana, sia essa gioia o dolore, rimarrà impregnato di una certa atmosfera o associazione che esso è in grado di comunicare a una mente sensibile. Quando dico mente sensibile, non intendo dire anormale, ma una mente istruita e colta come la possediamo lei o io."

"Vuol dire, per esempio, che se io dormissi accanto a quella vecchia spada sulla parete, potrei sognare qualche sanguinosa impresa alla quale partecipò proprio quella spada?"

"Un ottimo esempio, perché, a dire la verità, ho usato appunto quella spada, e ho visto nel sonno la morte del suo proprietario, il quale perì in uno scontro armato, che non sono stato in grado di identificare ma che ebbe luogo all'epoca delle guerre dei Frondisti. Se ci pensa bene, alcune delle nostre usanze popolari dimostrano che il fatto era già conosciuto dai nostri antenati, benché noi, nella nostra saggezza, lo abbiamo classificato fra le superstizioni."

"Per esempio?"

"Be', l'usanza di mettere il dolce della sposa sotto al cuscino per assicurare al dormiente dei sogni piacevoli. Questo è uno dei tanti esempi che lei troverà elencati in una piccola "brochure" che sto scrivendo sull'argomento. Ma per tornare al punto, ho dormito una notte con questo imbuto accanto a me, ed ebbi un sogno che certamente getta una curiosa luce sul suo uso e la sua origine."

"Che cos'ha sognato?"

"Ho sognato..." Si interruppe, e un'espressione di grande interesse si dipinse sul suo volto massiccio. "Per Giove, questa sì che è una buona idea" disse. "Sarà un esperimento del massimo interesse. Lei stesso è un soggetto psichico, con i nervi che reagiscono prontamente a qualsiasi impressione."

"Non mi sono mai sottoposto a una prova di questo genere."

"E allora la sottoporremo stasera. Posso chiederle come grande favore, quando lei occuperà questo divano stanotte, di dormire con questo vecchio imbuto appoggiato accanto al cuscino?" La richiesta mi parve grottesca; ma anch'io ho, nella mia complessa natura, una autentica fame per tutto ciò che è bizzarro e fantastico. Non avevo la minima fiducia nella teoria di Dacre, né alcuna speranza che un simile esperimento desse dei frutti; ciononostante mi divertiva che l'esperimento venisse fatto. Dacre, con grande solennità, avvicinò un tavolinetto a un capo del divano, e vi appoggiò l'imbuto. Poi, dopo una breve conversazione, mi augurò la buona notte e mi lasciò.

Rimasi per un po' seduto accanto al fuoco morente, fumando e riflettendo sulla curiosa conversazione che si era svolta, e sulla strana esperienza che forse mi attendeva. Per scettico che fossi, vi era un che di impressionante nella sicurezza dell'atteggiamento di Dacre, e lo straordinario ambiente che mi circondava, l'enorme sala piena di strani e spesso sinistri oggetti, finì coll'incutermi un senso di solennità. Infine mi svestii e, spento il lume, mi sdraiai. Dopo essermi a lungo rigirato, mi addormentai. Lasciate che tenti di descrivere, con la maggior precisione possibile, la scena che si presentò nei miei sogni.

Spicca ancora oggi nella mia memoria, più vivida di qualsiasi cosa che io abbia visto con i miei occhi.

Vi era una stanza che dava l'impressione di essere un sotterraneo.

Dai quattro angoli si alzavano volte a crociera. L'architettura era rozza, ma molto robusta. La stanza faceva chiaramente parte di una grande costruzione.

Tre uomini vestiti di nero, con bizzarri, enormi copricapo di velluto nero, erano seduti in fila su una pedana tappezzata di rosso. I loro volti erano molto solenni e tristi. Alla loro sinistra, si trovavano due uomini vestiti di una lunga toga; avevano delle borse in mano, che parevano piene di carte. A destra, rivolta verso di me, era una piccola donna con i capelli biondi e singolari occhi di un azzurro chiarissimo: gli occhi di una bambina. Aveva passato la prima giovinezza, eppure non si poteva ancora definirla di mezza età. La sua figura era alquanto robusta, e il suo portamento fiducioso e arrogante. Il suo volto era pallido, ma sereno. Era uno strano volto, attraente eppure felino, con appena un accenno di crudeltà nella piccola bocca forte e diritta e nel mento grassoccio. Era avvolta in una specie di tunica, bianca e morbida. Un prete magro e ansioso le stava accanto, bisbigliandole nell'orecchio e sollevando continuamente un crocifisso davanti ai suoi occhi. La donna voltava la testa e guardava fissamente oltre il crocifisso verso i tre uomini in nero, i quali erano, ne ero certo, i suoi giudici.

Mentre guardavo, i tre uomini si alzarono e dissero qualcosa, ma non potei udire una sola parola, benché fossi consapevole che era quello in mezzo a parlare. Poi essi uscirono dalla stanza, seguiti dai due uomini con le carte. Nello stesso istante, numerosi uomini dall'aspetto rozzo e vestiti di pesanti giubbotti entrarono e si misero a togliere prima il tappeto rosso, e poi le assi che formavano la pedana, in modo da sgombrare completamente la stanza.

Quando questo impedimento fu tolto, potei vedere in fondo alla stanza degli strani pezzi di mobilia. Uno di questi pareva un letto, con dei rulli di legno alle due estremità, e una manovella per regolarne la lunghezza. Un altro era una cavalletta di legno.

Vi erano altri curiosi oggetti, fra cui un certo numero di corde pendenti dal soffitto, assicurate a pulegge. Il tutto somigliava vagamente a una palestra dei nostri tempi.

Quando la stanza fu sgombrata, un nuovo personaggio apparve sulla scena. Si trattava di un uomo alto e magro, vestito di nero, dal volto austero e macilento. Il suo aspetto mi fece rabbrividire.

Aveva gli abiti lucidi di unto e cosparsi di macchie. Si muoveva con una lenta e terribile dignità, come se avesse preso comando della situazione dall'istante in cui era entrato. Nonostante il suo aspetto rozzo e il suo abito lurido, adesso era lui a comandare: la stanza era sua. Sul braccio sinistro portava un rotolo di corda leggera. La donna lo scrutò dalla testa ai piedi, ma la sua espressione rimase immutata. Era un'espressione di sicurezza, perfino di sfida. Ma non così il prete. Il suo volto si fece di un mortale pallore, e vidi il sudore luccicare e scendere lungo la sua fronte alta e inclinata. Sollevò le mani in gesto di preghiera e si chinò a borbottare frenetiche parole all'orecchio della donna.

Ora l'uomo in nero avanzava, e prendendo una delle corde dal braccio sinistro, legò le mani della donna, la quale gliele porse docilmente. Poi l'uomo le afferrò un braccio ruvidamente e la condusse verso la cavalletta di legno, che era un po' più alta della vita di lei. Su questa ella fu alzata e deposta supina, con il viso rivolto al soffitto, mentre il prete, sopraffatto dall'orrore, fuggiva in fretta dalla stanza. Le labbra della donna si muovevano rapidamente, e benché io non potessi udire, sapevo che stava pregando. I suoi piedi pendevano uno di qua, uno di là, lungo i lati della cavalletta, e vidi che i rozzi assistenti avevano assicurato delle corde alle sue caviglie, legandone l'altro capo agli anelli di ferro infissi nel pavimento di pietra.

Mi sentii mancare, alla vista di questi funesti preparativi, eppure ero avvinto dal fascino dell'orrido, e non riuscii a staccare gli occhi dal macabro spettacolo. Un uomo era entrato nella stanza recando due secchi d'acqua. Un altro lo seguiva con un terzo secchio. I tre secchi vennero deposti accanto alla cavalletta di legno. Il secondo uomo portava anche un ramaiolo di legno, una specie di ciotola dal lungo manico diritto, nell'altra mano. Lo porse all'uomo in nero. Nello stesso istante, uno degli assistenti si avvicinò con un oggetto scuro in mano, che anche in sogno mi riempì di un vago senso di familiarità. Era un imbuto di cuoio. Con mostruosa energia egli lo conficcò... ma non potei resistere più a lungo. Mi si drizzarono i capelli dall'orrore. Mi contorsi, lottai, spezzai i vincoli del sonno e tornai con un grido nella mia propria vita, per trovarmi disteso, tremante di terrore, nell'enorme biblioteca, con la luce lunare che penetrava a fiotti dalla finestra e gettava strane ombre nere ed argentee sulla parete opposta. Oh, quale senso di sollievo provai nel sentire che ero tornato nel diciannovesimo secolo, tornato da quella cripta medioevale a un mondo dove gli uomini avevano cuori umani nel petto. Mi rizzai a sedere sul divano, tremando in tutto il corpo, con la mente divisa fra il sollievo e l'orrore. Pensare che simili cose fossero mai avvenute, che potessero avvenire senza che Dio fulminasse i colpevoli! Era stata tutta una fantasia, o rappresentava davvero qualcosa che era accaduto nel periodo più oscuro e crudele della storia del mondo? Appoggiai il capo dolorante sulle mie mani tremanti. E allora, improvvisamente, mi parve che il cuore mi si fermasse nel petto, e non potei neanche gridare, tale era il mio terrore. Qualcosa avanzava verso di me nell'oscurità della stanza.

E quando un terrore si assomma a un altro terrore, che lo spirito di un uomo si spezza. Non riuscivo a ragionare, non riuscivo a pregare; potevo soltanto restare immobile, come una statua, e fissare la tenebrosa figura che avanzava nella vasta sala. Poi la figura si inoltrò nel bianco raggio della luna, e potei nuovamente respirare. Era Dacre, e il suo volto mostrava che era spaventato quanto me.

"E stato lei? Per l'amor del cielo, che cosa succede?" chiese con voce rauca.

"Dacre, quanto sono lieto di vederla! Sono stato nell'inferno. Era spaventoso."

"Allora è stato lei a gridare?"

"Credo proprio di sì."

"Il suo grido ha echeggiato per tutta la casa. I domestici sono rimasti terrorizzati." Accese la lampada con un fiammifero. "Credo che possiamo riattivare il fuoco" aggiunse, gettando dei ceppi sulla brace. "Santo cielo, amico mio, com'è bianco il suo viso! Si direbbe che abbia visto un fantasma."

"E infatti ne ho visti più d'uno."

"Dunque l'imbuto ha sortito il suo effetto?"

"Non dormirei mai più vicino a quell'oggetto infernale per tutto l'oro del mondo." Dacre ridacchiò.

"Prevedevo che avrebbe passato una notte agitata" disse. "Ma sono stato punito, perché quel suo urlo non era molto piacevole da udirsi alle due del mattino. Arguisco da quanto mi dice che ha visto tutta la spaventosa vicenda."

"Quale spaventosa vicenda?"

"La tortura dell'acqua, o il "Trattamento Straordinario", come veniva chiamata negli amabili giorni del Re Sole. Lei ha resistito fino alla fine?"

"No, grazie al cielo, mi sono destato prima che incominciasse per davvero."

"Ah, è una fortuna per lei. Io resistetti fino al terzo secchio.

Be', è una vecchia storia, e i protagonisti sono ormai tutti nella tomba, perciò che importanza ha il modo in cui ci sono arrivati?

Suppongo che lei non abbia alcuna idea di cosa fosse quello che ha visto?"

"La tortura di qualche criminale. Quella donna dev'essere stata davvero una terribile delinquente, se i suoi delitti sono proporzionati alla punizione inflittale."

"Infatti, abbiamo questa piccola consolazione" disse Dacre, avvolgendosi meglio nella veste da camera e accucciandosi più vicino al fuoco. "Erano proporzionati alla sua punizione.

S'intende, se ho riconosciuto con esattezza l'identità della donna."

"Com'è possibile che lei conosca la sua identità?" Per tutta risposta, Dacre tolse da uno scaffale un vecchio volume ricoperto in pergamena.

"Ascolti questo" disse. "E' scritto nel francese del diciassettesimo secolo, ma mentre leggo gliene darò una traduzione approssimativa. Lei stesso giudicherà se ho risolto o meno l'enigma.

"La prigioniera venne portata davanti a uno speciale Giurì che agiva come tribunale, imputata dell'assassinio di Dreux d'Aubray, suo padre, e dei suoi due fratelli, uno dei quali tenente e l'altro consigliere del Parlamento. A giudicare dalla sua persona, sembrava difficile credere che avesse davvero commesso delle simili malvagità, poiché era di aspetto mite, e di piccola statura, con una carnagione chiara e occhi azzurri. Eppure la Corte, avendola trovata colpevole, la condannò al trattamento ordinario e straordinario, in modo da costringerla a fare i nomi dei suoi complici, dopo di che un carro l'avrebbe trasportata alla place de Grève, dove le avrebbero tagliato la testa, per bruciarne poi il corpo e spargerne le ceneri al vento."

"Questa annotazione è datata 16 luglio, 1676."

"E' molto interessante" replicai "ma non convincente. Come può dimostrare che si tratti della medesima donna?"

"Ci sto arrivando. Il racconto prosegue, e narra il comportamento della donna durante l'interrogatorio. "Quando il boia le si avvicinò, ella lo riconobbe dalle corde che teneva in mano, e subito gli tese le proprie mani, scrutandolo dalla testa ai piedi senza profferire parola." Cosa ne dice?"

"Sì, era proprio così."

"Essa guardò, senza distogliere lo sguardo, la cavalletta di legno e gli anelli che avevano straziato tante persone e provocato tante grida di agonia. Quando i suoi occhi caddero sui tre secchi d'acqua, che erano lì pronti per lei, ella disse con un sorriso:

"Tutta quell'acqua dev'essere stata portata qui allo scopo di affogarmi, signore. Non avete intenzione, spero, di costringere una persona piccola come me a ingoiarla tutta".

"Devo leggere i particolari della tortura?"

"No, per l'amor del cielo, non lo faccia."

"Ecco qua una frase che sicuramente vi dimostrerà che ciò che è riportato qui si riferisce alla medesima scena alla quale ha assistito stanotte: "Il buon Abate Pirot, incapace di contemplare le agonie sofferte dalla sua penitente, si affrettò a uscire dalla stanza". Questo la convince?"

"Assolutamente. Non può sussistere alcun dubbio che non si tratti della stessa persona. Ma chi è dunque questa donna il cui aspetto era così attraente, e la cui fine fu tanto orribile?" Per tutta risposta Dacre mi si avvicinò, e appoggiò la lampada sul tavolino che era accanto al mio letto. Sollevando l'infausto imbuto, ne voltò il bordo di ottone in modo che la luce lo colpisse in pieno. Vista così, l'incisione sembrava più chiara di quanto non lo fosse stata la sera precedente.

"Abbiamo già convenuto che questo è l'emblema di un marchese o di una marchesa" disse. "Abbiamo anche stabilito che l'ultima lettera è una B."

"Tutto ciò è indubbio."

"Mi permetto ora di suggerirle che le altre lettere da sinistra a destra sono: M, M, una d minuscola, A, una d minuscola, e poi la B finale."

"Sì, sono certo che lei ha ragione. Riesco a vedere chiaramente le due d minuscole."

"Ciò che le ho letto stasera" disse Dacre "è il resoconto ufficiale del processo di Marie Madeleine d'Aubray, Marchesa di Brinvilliers, una delle più famose avvelenatrici e assassine di tutti i tempi." Rimasi in silenzio, sopraffatto dalla straordinaria natura della vicenda, e dalla completezza dell'evidenza con cui Dacre ne aveva esposto il vero significato. Ricordavo vagamente alcuni particolari della carriera della donna, la sua depravazione senza limiti, la sua fredda e prolungata tortura del padre ammalato, l'assassinio dei fratelli per meschini motivi di lucro. Rammentai anche che il suo coraggioso comportamento di fronte alla morte aveva in qualche modo fatto ammenda per l'orrore della sua vita, e che tutta Parigi era stata solidale con lei nei suoi ultimi istanti, benedicendola come una martire, quando pochissimi giorni prima l'avevano maledetta come un'assassina.

Mi venne in mente una sola obiezione.

"Come mai le sue iniziali e il suo stemma finirono su quell'imbuto? Non posso credere che i suoi giustizieri portassero il loro medioevale rispetto per la nobiltà al punto da decorare gli strumenti di tortura con i loro titoli."

"Anch'io mi sono posto la stessa domanda" replicò Dacre "ma mi pare che sia facilmente spiegabile. Il caso destò a quell'epoca un interesse eccezionale, e niente di più naturale che "La Reyne", capo della polizia, abbia serbato questo imbuto quale macabro ricordo. Non succedeva spesso che una marchesa di Francia fosse sottoposta al trattamento straordinario. Che egli vi incidesse le iniziali di lei ad uso dei posteri, mi pare un atto molto normale da parte sua."

"E questi?" chiesi, indicando i segni sul collo dell'imbuto.

"Quella donna era una vera tigre" disse Dacre, allontanandosi. "Mi pare evidente che, come le altre tigri, i suoi denti fossero sia robusti che affilati."

 

 

 

IL CASO DI LADY SANNOX

 

La relazione fra Douglas Stone e la ben nota Lady Sannox era di pubblico dominio, sia nell'ambiente mondano in cui essa spiccava, che negli istituti accademici di cui egli era autorevole membro.

Pertanto, quando venne annunciato una mattina che la donna aveva irrevocabilmente e per sempre preso il velo, il fatto destò un grande interesse. Quando poi, sulla scia di questa voce, si seppe che il celebre chirurgo, l'uomo dai nervi d'acciaio, era stato trovato quella stessa mattina, dal suo cameriere, seduto sul letto che sorrideva in maniera vacua al mondo intero, con tutti e due i piedi cacciati in una gamba dei pantaloni e il gran cervello degenerato in quello di un povero imbecille, la notizia fu tanto emozionante da provocare un brivido di interesse in gente che non aveva mai sperato che i propri nervi logorati fossero in grado di provare una simile sensazione.

Douglas Stone, nella sua piena maturità, era uno dei più straordinari uomini di tutta l'Inghilterra. A dire il vero, non si può neanche dire che abbia mai raggiunto la maturità, poiché aveva appena trentanove anni all'epoca di questo piccolo incidente.

Coloro che lo conoscevano bene, si rendevano conto che per quanto famoso fosse come chirurgo, avrebbe potuto raggiungere il successo con ancora maggior rapidità in una qualsiasi di altre innumerevoli carriere. Avrebbe potuto conquistarsi la fama come soldato, avrebbe potuto lottare per farsene una come esploratore, o declamando nei tribunali, o avrebbe potuto edificarsela in pietra e acciaio come ingegnere. Era nato per essere grande, poiché sapeva progettare ciò che nessun altro uomo avrebbe osato fare, e sapeva fare ciò che nessun altro uomo avrebbe osato progettare.

Nel campo della chirurgia, nessuno era alla sua altezza. Il suo coraggio e il suo intuito erano leggendari. A più riprese il suo bisturi aveva sconfitto la morte, sfiorando le fonti stesse della vita, fino al punto da ridurre i suoi assistenti pallidi come lo stesso paziente. L'energia, l'audacia, la sanguigna sicurezza di sé sono ancora ben vive nel ricordo a sud di Marylebone Road e a nord di Oxford Street.

I suoi vizi erano altrettanto grandiosi quanto le sue virtù, e infinitamente più pittoreschi. Per cospicuo che fosse il suo reddito, ed era il terzo dei professionisti di tutta Londra, era di gran lunga insufficiente al suo tenore di vita. Profondamente radicata nella sua complessa natura; egli nascondeva una ricca vena di sensualità, che condizionava ogni atto della sua esistenza. L'occhio, l'orecchio, il tatto, il palato erano i suoi padroni. Il "bouquet" dei vecchi vini, il profumo di spezie rare, le forme e le tinte delle più delicate porcellane d'Europa, era in tutto ciò che si trasformava il costante flusso d'oro che entrava nelle sue tasche. Poi vi fu la sua improvvisa, folle passione per Lady Sannox, quando un solo incontro con lei, due sguardi di sfida e una parola bisbigliata, erano sufficienti per farlo infiammare.

Lei era la più incantevole donna di Londra, e la sola donna per lui. Lui era uno dei più begli uomini di Londra, ma non era il solo per lei. Essa amava sperimentare ciò che era nuovo, ed era condiscendente verso gli uomini che la corteggiavano. Poteva esserne la causa o poteva esserne l'effetto, il fatto che Lord Sannox dimostrasse cinquant'anni, benché ne avesse appena trentasei.

Lord Sannox era un uomo tranquillo, silenzioso, di aspetto modesto, le labbra sottili e le palpebre pesanti.

Era dedito al giardinaggio e pieno di abitudini casalinghe. In gioventù aveva avuto un debole per la recitazione, a Londra aveva perfino noleggiato un teatro, sul cui palcoscenico aveva visto per la prima volta la signorina Marion Dawson, alla quale aveva poi offerto la sua mano, il suo titolo, e il terzo di una contea. Dopo il matrimonio, questo giovanile hobby aveva perso per lui ogni attrattiva. Anche nelle recite private, non era più possibile persuaderlo a esibire quel talento che spesse volte aveva dimostrato di possedere. Era più felice fra le sue orchidee e i suoi crisantemi, con una zappetta e un annaffiatoio in mano.

Era un problema assai interessante, quello di decidere se egli fosse del tutto privo di buonsenso, o piuttosto miserabilmente mancante di coraggio. Era egli al corrente della condotta di sua moglie e la perdonava, o era semplicemente un marito stolto? Era un argomento da discutere sorbendo il tè in piccoli, raccolti salottini, o con l'aiuto di un sigaro fra le poltrone dei club. I commenti degli uomini riguardo alla sua condotta erano taglienti e decisi. Vi era un solo uomo che avesse una buona parola per lui, ed era il membro più silenzioso del club. Egli aveva visto Lord Sannox domare all'Università un cavallo, e questo ricordo pareva avergli lasciato un'impressione indelebile.

Ma quando Douglas Stone divenne il favorito, ogni dubbio riguardo alla consapevolezza o all'ignoranza di Lord Sannox fu dissipato.

Stone non conosceva sotterfugi. Nella sua maniera ardita e impetuosa, abbandonò ogni resto di cautela e di discrezione. Lo scandalo dilagò. Un corpo accademico intimò che il suo nome fosse cancellato dalla lista dei suoi vice presidenti. Due amici lo supplicarono di pensare al suo credito professionale. Stone li mandò al diavolo tutti e tre, e spese quaranta ghinee per un braccialetto da portare alla donna. Egli passava le serate in casa di lei, e lei si faceva vedere nella carrozza di lui ogni pomeriggio. Nessuno dei due faceva il minimo tentativo per nascondere la loro relazione; ma finalmente accadde un piccolo incidente che li divise.

Era una tetra serata d'inverno, molto fredda e burrascosa, con il vento che ululava nelle cappe dei camini e scuoteva i vetri delle finestre. La pioggia picchiettava contro i vetri a ogni raffica della bufera, sopraffacendo per un istante il triste gorgoglio e gocciolio delle grondaie. Douglas Stone aveva finito di cenare ed era seduto accanto al fuoco nello studio, con un bicchiere di buon porto sul tavolo di malachite accanto a lui. Prima di portarlo alle labbra, lo alzò verso la luce della lampada e ne osservò con occhio da intenditore il ricco color rubino. I guizzi delle fiamme illuminavano a tratti il suo volto audace dai lineamenti ben definiti, i grandi occhi grigi, le labbra spesse eppure risolute, e la mascella larga e quadrata, che aveva qualcosa di romano nella sua forza e nella sua animalità. Ogni tanto sorrideva, sprofondato nella sua comoda poltrona. Invero aveva il diritto di sentirsi soddisfatto di sé, poiché quel giorno stesso, nonostante il parere contrario di sei colleghi, aveva eseguito un'operazione che era stata portata a termine due sole volte prima d'allora negli annali della medicina, e il risultato era stato brillante oltre ogni previsione. Nessun altro in tutta Londra avrebbe avuto il coraggio di progettare, o l'abilità di portare a termine, un'impresa tanto rischiosa.

Ma aveva promesso a Lady Sannox di recarsi da lei quella sera, ed erano già le otto e mezzo. La sua mano era tesa verso il campanello per ordinare la carrozza, quando udì il tonfo sordo del battaglio. Dopo un istante, gli giunse uno strascicare di piedi nell'ingresso, e il colpo secco della porta che si chiudeva.

"C'è un cliente, signore, nella sala d'aspetto" annunciò il maggiordomo.

"E' lui il malato?"

"No, signore; credo che sia venuto a chiamarla."

"E' troppo tardi" esclamò Douglas Stone irritato. "Non ci andrò."

"Ecco il suo biglietto da visita, signore." Il maggiordomo glielo porse sul vassoio d'oro che era stato regalato al suo padrone dalla moglie di un Primo Ministro.

"Hamil Ali, Smirne." Hm! Quell'individuo è un turco, suppongo."

"Sì, signore. Sembra uno straniero, signore. Ed è molto agitato."

"Che seccatura, Ho un impegno. Devo uscire. Ma gli parlerò. Fatelo accomodare qui, Pim." Dopo pochi istanti, il maggiordomo aprì nuovamente la porta e fece entrare un ometto piccolo e decrepito, che camminava con la schiena curva, e con il viso proteso e gli occhi socchiusi che denotavano una forte miopia. Aveva il volto olivastro e i capelli e la barba corvini. In una mano teneva un turbante di mussola bianca a righe rosse e nell'altra un sacchetto di camoscio.

"Buonasera" disse Douglas Stone, quando il maggiordomo ebbe richiuso la porta. "Presumo che lei parli inglese."

"Sì, signore. Vengo dall'Asia Minore, ma parlo l'inglese anche se lentamente."

"Lei vuole che io venga con lei, se ho ben capito?"

"Sì, signore. Ci terrei molto che lei vedesse mia moglie."

"Potrei venire domattina, poiché ho un impegno che mi impedisce di recarmi da sua moglie stasera." La risposta del turco fu singolare. Tirò la cordicella che chiudeva l'imboccatura del sacchetto di camoscio, e rovesciò sul tavolo un fiume d'oro.

"Qui ci sono cento sterline" disse "e le prometto che non perderà più di un'ora. Ho alla porta una carrozza." Douglas Stone diede un'occhiata all'orologio. Avrebbe potuto andare ugualmente da Lady Sannox anche un'ora dopo. Ci era andato anche più tardi, in passato. E la ricompensa era estremamente allettante. Negli ultimi tempi era stato perseguitato dai creditori, e non poteva trascurare una simile occasione. Ci sarebbe andato.

"Di che malattia si tratta?" chiese.

"Oh, è una così triste malattia! Così triste! Avete per caso mai sentito parlare dei pugnali degli Almohades?"

"No, mai."

"Ah, si tratta di pugnali orientali antichissimi e dalla forma curiosa, con l'impugnatura simile a ciò che voi chiamate staffa.

Io commercio in oggetti rari, ed è per questo che sono venuto in Inghilterra da Smirne, ma la settimana prossima torno laggiù. Ho portato con me molti oggetti, e qualcuno me ne è rimasto, ma fra questi, con mio grande dolore, c'è uno di questi pugnali."

"La prego di ricordarsi che ho un appuntamento" sbottò il chirurgo con una certa irritazione. "Per favore, si limiti all'indispensabile."

"Vedrà che tutto questo è indispensabile. Oggi mia moglie ha avuto uno svenimento nella stanza in cui tengo la mia merce e, cadendo, si è tagliata il labbro inferiore con questo maledetto pugnale di Almohades."

"Capisco" disse Douglas Stone, alzandosi in piedi. "E lei vuole che io le medichi la ferita?"

"No, no, è molto peggio di così."

"E cioè?"

"Questi pugnali sono avvelenati."

"Avvelenati!"

"Sì, e non esiste oggi nessuno in grado di sapere di che veleno si tratti o quale ne sia la cura. Ma quel poco che si sa, io lo so, poiché mio padre faceva questo mestiere prima di me, e abbiamo avuto un commercio amplissimo con queste armi avvelenate."

"Quali sono i sintomi?"

"Un sonno profondo, e la morte entro trenta ore."

"E lei dice che non esiste cura. Perché dunque mi offre un onorario così lauto?"

"Nessuna medicina può curare, ma il coltello sì."

"E come?"

"Il veleno si assorbe lentamente. Ristagna per ore nella ferita."

"Non si potrebbe eliminarlo lavando la ferita?"

"Sarebbe altrettanto inutile quanto lavare il morso di un serpente. E' un veleno troppo infido e mortale."

"Escissione della ferita, allora?"

"Appunto. Se la ferita è sul dito, tagliate il dito. Così diceva sempre mio padre. Pensi dove si trova questa ferita, e che si tratta di mia moglie. E' spaventoso!" Ma la lunga dimestichezza con queste macabre faccende può talvolta attutire la sensibilità di un uomo. Per Douglas Stone, questo era già un caso interessante, e respinse come trascurabili le deboli obiezioni del marito.

"Mi pare che non abbiamo alternative" disse bruscamente. "E' meglio perdere un labbro che la vita."

"Ah, certo, lo so che lei ha ragione. Be' be', è il destino e bisogna affrontarlo. La carrozza è qui, e lei verrà con me e farà questa cosa." Douglas Stone prese l'astuccio dei bisturi da un cassetto e se lo mise in tasca assieme a un rotolo di bende e a qualche garza. Non aveva tempo da sprecare, se voleva vedere Lady Sannox.

"Sono pronto" dichiarò, infilandosi il soprabito. "Vuol prendere un bicchiere di vino prima di uscire con questo freddo?" L'ospite arretrò, alzando una mano in segno di protesta.

"Lei dimentica che sono un musulmano, e un fedele seguace del Profeta. Ma mi dica, che cos'è quella bottiglietta di vetro verde che si è messa in tasca?"

"Cloroformio."

"Ah, anche quello ci è vietato. E' un'essenza alcoolica, e noi non ci serviamo di simili cose."

"Come, Lei vorrebbe che sua moglie venisse sottoposta a un'operazione senza anestetizzarla?"

"Ah! non sentirà niente, poveretta. Il sonno profondo, che è il primo effetto del veleno, l'ha già ghermita. E poi le ho dato del nostro oppio di Smirne. Andiamo, signore, che si fa tardi." Come uscirono nell'oscurità, furono investiti da uno scroscio di pioggia, e la lampada nell'ingresso, che pendeva dal braccio di una cariatide di marmo, si spense con un soffio. Pim, il maggiordomo, dovette lottare per richiudere il pesante portone, spingendolo con tutto il suo peso per vincere la forza del vento, mentre i due brancolavano in direzione del bagliore giallastro che mostrava dove la carrozza li attendeva. Un istante più tardi, la carrozza partiva.

"E' lontano?" chiese Douglas Stone.

"Oh, no. Abitiamo in un posticino tranquillo vicino a Euston Road." Il chirurgo premette la molla del suo orologio a ripetizione, e ascoltò i piccoli rintocchi che gli dicevano l'ora. Erano le nove e un quarto. Calcolò le distanze, e il poco tempo che gli sarebbe bastato per eseguire un così triviale intervento. Avrebbe dovuto essere da Lady Sannox per le dieci. Attraverso i finestrini appannati, vedeva passare le macchie confuse dei fanali a gas, e ogni tanto il bagliore più grande di una vetrina. La pioggia batteva sul tetto di cuoio della carrozza, e le ruote sciabordavano rotolando fra il fango e le pozzanghere. In faccia a lui, il copricapo bianco del suo compagno riluceva debolmente nell'oscurità. Il chirurgo armeggiò nelle sue tasche, e sistemò i suoi aghi, le sue bende e le spille di sicurezza, in modo da non perdere tempo una volta arrivati. Fremeva dall'impazienza, e tambureggiava il piede sul pavimento.

Infine la carrozza rallentò, e poi si fermò del tutto.

Immediatamente Douglas Stone ne discese, tallonato dal mercante di Smirne.

"Aspetti pure" disse quest'ultimo rivolto al cocchiere.

La casa era squallida, e la via stretta e sordida. Il chirurgo, che conosceva bene la sua Londra, gettò una rapida occhiata attorno a sé, ma non vi era alcunché di riconoscibile - nessun negozio, nessun movimento, nient'altro che una duplice fila di case buie e insignificanti, un duplice rettifilo di lastre di pietra bagnate che rilucevano alla luce dei fanali, e un duplice torrente d'acqua nei rigagnoli che turbinava e gorgogliava verso i tombini. La porta di fronte a cui si trovavano era scrostata e stinta, e la pallida luce che traspariva dalla vetrata a mezzaluna che la sovrastava serviva soltanto a mostrare la polvere e lo sporco di cui era ricoperta. In alto, da una delle finestre delle camere da letto, traspariva un tenue barlume giallastro. Il mercante bussò con forza, e quando si voltò verso la luce, Douglas Stone vide che il suo volto era contratto dall'ansia. Venne tirato un paletto, e una donna anziana con una candela apparve sulla soglia, riparando con una mano nodosa la tenue fiammella.

"Niente di nuovo?" chiese il mercante con voce soffocata.

"La signora è come l'ha lasciata."

"Non ha parlato?"

"No, è addormentata profondamente." Il mercante richiuse la porta, e Douglas Stone percorse lo stretto corridoio, guardandosi attorno con un certo stupore. Non vi erano tende, né tappeto, né attaccapanni. I suoi occhi incontravano soltanto polvere e tele di ragno. Seguendo la vecchia su per le scale, il suono del passo deciso di Stone echeggiava per la casa silenziosa.

La camera da letto era al secondo piano. Douglas Stone vi entrò dietro alla vecchia infermiera, seguito a sua volta dal mercante.

Qui, perlomeno, vi era arredamento in abbondanza: mobiletti turchi, tavoli intarsiati, giubbotti di maglia di ferro, strane pipe ed armi grottesche. Un'unica lampada era infissa in un braccio sulla parete. Douglas Stone se ne impadronì e facendosi strada fra i mobili, si diresse verso un letto nell'angolo, sul quale giaceva una donna vestita alla maniera turca, con 'yashmak' e velo. La parte inferiore del suo viso era esposta, e il chirurgo vide un taglio irregolare che spiccava sul bordo del labbro inferiore.

"Lei scuserà lo 'yashmak'" disse il turco. "Certo conosce il punto di vista dei levantini a proposito delle donne." Ma il chirurgo non stava pensando allo 'yashmak'. Quella lì non era più una donna per lui. Era un caso. Si chinò ed esaminò attentamente la ferita.

"Non vi è nessuna traccia di infiammazione" disse. "Potremmo rimandare l'operazione finché non si sviluppano i sintomi locali." Il marito si torse le mani in preda a un'incontrollabile agitazione.

"Oh, signore" esclamò. "Non indugi. Lei non se ne rende conto, è mortale. Io lo so, e le do la mia parola d'onore che un'operazione è assolutamente indispensabile. Solo il coltello la può salvare."

"Ciononostante preferirei aspettare" ribatté Douglas Stone.

"Basta così" urlò il turco, furibondo. "Ogni minuto è della massima importanza, e io non posso restarmene qui a vedere mia moglie morire. Non ho altra alternativa che di ringraziarla per essere venuto, e chiamare un altro chirurgo prima che sia troppo tardi." Douglas Stone esitò. Non sarebbe stato piacevole restituire quelle cento sterline. Ma naturalmente, se abbandonava il caso, doveva per forza restituirle. E se il turco avesse avuto ragione e la donna fosse morta, la sua posizione di fronte a un medico legale avrebbe potuto essere imbarazzante.

"Lei ha un'esperienza personale di questo veleno?" chiese.

"Sì."

"E mi assicura che un intervento è necessario?"

"Lo giuro su tutto quello che è sacro."

"La donna rimarrà orrendamente sfigurata."

"Capisco che non sarà una bella bocca da baciare." Douglas Stone si voltò inferocito verso l'uomo. Il discorso era brutale. Ma il turco aveva il proprio modo di pensare e parlare, e non c'era tempo per litigare. Douglas Stone trasse dall'astuccio un bisturi, lo aprì, e passò l'indice sulla lama tagliente. Poi avvicinò la lampada al letto. Due occhi scuri lo fissavano attraverso l'apertura nello 'yashmak'. Erano tutta iride, e la pupilla era quasi scomparsa.

"Le avete dato una dose assai massiccia di oppio."

"Sì, ne ha preso una buona dose." Il chirurgo osservò nuovamente gli occhi scuri che guardavano fissamente i suoi. Erano opachi e privi di vivacità, ma mentre li guardava, furono animati da una breve scintilla, e le labbra tremarono.

"Non è del tutto priva di conoscenza" disse.

"Non sarebbe meglio usare il coltello finché sarà insensibile al dolore?" Lo stesso pensiero aveva attraversato la mente del chirurgo.

Afferrò il labbro ferito con la pinza, e con due tagli veloci ne staccò un largo lembo a forma di V. La donna balzò a sedere sul letto con uno spaventoso grido gorgogliante. Si strappò il velo dal viso. Era un volto che lui conosceva. Nonostante quel labbro superiore sporgente e quella carne sanguinante, era un volto che lui conosceva. La donna seguitava a premersi la mano sullo squarcio e a urlare. Douglas Stone si sedette ai piedi del letto con il bisturi e la pinza in mano. La stanza gli girava vorticosamente intorno, e aveva sentito qualcosa cedergli in testa, come un'improvvisa lacerazione. Uno spettatore avrebbe detto che, dei due volti, il suo era il più spettrale. Come in un sogno, o come se fosse stato intento a seguire qualcosa su un palcoscenico, si rese conto che i capelli e la barba del turco giacevano sul tavolo, e che Lord Sannox stava appoggiato contro la parete, con una mano sul fianco, ridendo silenziosamente. Le urla erano ormai cessate, e quell'orribile testa era ricaduta sul cuscino, ma Douglas Stone continuava a sedere immobile, e Lord Sannox continuava a ridere silenziosamente fra sé e sé.

"Per Marion quest'operazione era veramente indispensabile" diss'egli. "Non fisicamente, lei capisce bene, ma moralmente." Douglas Stone si chinò in avanti e cominciò a giocherellare con la frangia del copriletto Il bisturi cadde tintinnando per terra, ma continuava a tenere in mano la pinza.

"Era da molto che volevo darle una piccola lezione" disse Lord Sannox in tono mellifluo. "Il vostro bigliettino di mercoledì scorso sbagliò recapito; ce l'ho qui con me nel mio portafogli. E' stato piuttosto difficile attuare il mio progetto. La ferita, a proposito, è stata prodotta semplicemente dal mio anello." Lanciò un'acuta occhiata al suo compagno ammutolito, e tolse la sicura dalla piccola pistola che teneva nella tasca del soprabito.

Ma Douglas Stone continuava a giocherellare con il copriletto.

"Vede che dopotutto ha mantenuto il suo appuntamento" disse Lord Sannox.

A quelle parole, Douglas Stone cominciò a ridere. Rise a lungo, a gola spiegata. Ma ora Lord Sannox non rideva più. Qualcosa di simile alla paura gli aguzzò e gli indurì i tratti. Uscì dalla stanza, camminando in punta di piedi. La vecchia lo aspettava fuori dalla porta.

"Occupati della tua padrona quando si sveglierà" disse Lord Sannox.

Poi scese in strada. La carrozza era davanti al portone, e il cocchiere alzò una mano al berretto.

"John" disse Lord Sannox "prima di tutto porterai a casa il dottore. Avrà bisogno di aiuto per scendere le scale, credo. Di' al suo maggiordomo che durante una visita si è sentito male."

"Molto bene, signore."

"Poi porterai Lady Sannox a casa."

"E lei, signore?"

"Oh, il mio indirizzo per i prossimi mesi sarà Hotel Roma, Venezia. Procura di farmi recapitare la posta. E di' a Stevens di mandare lunedì alla mostra i crisantemi viola e di telegrafarmi il risultato del mio esperimento di floricultore."

 

 

 

IL TERRORE DEL BLUE JOHN GAP

 

Il seguente resoconto fu trovato fra le carte del dottor James Hardcastle, morto di tisi il 4 febbraio del 1908, in Upper Coventry Flats 36, South Kensington. I suoi migliori amici, pur rifiutandosi di esprimere un'opinione riguardo allo scritto in questione, sono unanimi nell'asserire che egli era un uomo dalla mente sobria e scientificamente dotata, privo del tutto di immaginazione, e incapace di inventare una serie di avvenimenti abnormi. Il documento era chiuso in una busta che recava la scritta: "Breve resoconto degli avvenimenti che si svolsero nella scorsa primavera nei pressi della fattoria delle signorine Allerton nel North-West Derbyshire". La busta era sigillata, e sul retro vi era scritto a matita:

"Caro Seaton, "Ti potrà interessare, e forse addolorare, di apprendere che l'incredulità con cui accogliesti il mio racconto mi ha impedito di riparlare in seguito del problema con chicchessia. Lascio questa breve documentazione che andrà letta dopo la mia morte; potrà forse succedere che degli sconosciuti avranno più fiducia in me che non il mio amico."

Le indagini successive non hanno appurato chi fosse questo Seaton.

Potrei aggiungere che la visita del defunto alla fattoria delle Allerton e il motivo dell'allarme che si ebbe nei dintorni, sono stati verificati e controllati, al di fuori di questa particolare spiegazione. Con questa premessa, faccio seguire il suo resoconto esattamente come lui lo ha lasciato. E' sotto forma di un diario, alcuni brani del quale sono stati ampliati, altri cancellati.

17 aprile. Già sento i benefici di questa meravigliosa aria di collina. La fattoria delle Allerton è a quattrocentotrenta metri sopra il livello del mare, ed è quindi comprensibile che qui il clima sia tanto tonificante. Tranne la solita tosse del mattino, ho pochissimi altri disturbi e, con l'aiuto del latte appena munto e il montone allevato sul luogo, credo proprio che riuscirò a ingrassare un po'. Penso che Saunderson sarà contento.

Le due signorine Allerton sono deliziosamente bizzarre e gentili, due tesori di zitelle laboriose e instancabili, pronte a versare la piena del loro affetto, di cui avrebbero potuto colmare marito e figli, su uno sconosciuto, e invalido per giunta. Invero, la zitella è una figura di grande utilità, una delle più preziose riserve della comunità. La gente parla della donna superflua, ma come se la caverebbe un poveraccio superfluo senza la sua dolce presenza? A proposito, nella loro ingenuità hanno subito lasciato sfuggire il motivo per cui Saunderson mi raccomandò la loro fattoria. Il Professore è di umili natali, e credo che trascorse la sua infanzia giocando proprio in questi campi.

E un luogo assai solitario e le passeggiate sono estremamente pittoresche. La fattoria consiste in terreni da pascolo che giacciono in un fondovalle. Sui due lati sorgono delle fantastiche colline calcaree, formate da pietra così morbida che la si può sgretolare con le mani. L'intera regione è una cava. Se la si potesse percuotere con un gigantesco martello, rimbomberebbe come un tamburo, o forse sprofonderebbe del tutto, rivelando uno sconfinato mare sotterraneo. Un grande mare indubbiamente ci deve essere, perché ovunque i ruscelli scompaiono dentro alla montagna stessa, senza più riapparire. Le rocce sono piene di crepe, e se si entra in una di esse ci si trova poi in enormi caverne, che si insinuano nelle viscere della terra. Ho una piccola lampada a pila, ed è per me una gioia continua portarla in queste misteriose solitudini, e vedere i meravigliosi effetti argentei e neri che si formano, quando getto la sua luce sulle stalattiti che pendono dalle altissime volte. Spengo la lampada, e mi trovo nella più assoluta oscurità. La accendo, ed è una scena da "Mille e una notte".

Ma vi è una di queste strane aperture nella terra che riveste un interesse particolare, poiché non è opera della natura, ma dell'uomo. Non avevo mai sentito parlare di Blue John quando sono venuto da queste parti. E' il nome che danno a uno strano minerale di un bellissimo color viola, che si trova soltanto in uno o due luoghi in tutto il mondo. E' così raro, che un vaso qualsiasi di Blue John avrebbe un valore astronomico. I romani, con lo straordinario istinto da loro posseduto, scoprirono che lo si poteva estrarre in questa valle, e scavarono un profondo pozzo orizzontale nel fianco della montagna. L'imboccatura della loro miniera viene chiamata Blue John Gap, ed è un arco ben delineato nella roccia, la cui apertura è tutta ricoperta di cespugli. E' un pozzo ben lungo, quello che i minatori romani scavarono, e incrocia alcune grandi caverne erose dall'acqua, cosicché chiunque entrasse nel Blue John Gap, farebbe bene a stare molto attento e a portarsi dietro una buona provvista di candele, altrimenti rischierebbe di non rivedere mai più la luce del sole. Per ora non mi ci sono inoltrato di molto, ma oggi stesso mi sono fermato all'imboccatura ad arco del tunnel, e, sbirciando nelle sue nere profondità, ho giurato a me stesso che, non appena mi fossi rimesso in salute, avrei dedicato alcuni giorni di vacanza ad esplorare quelle misteriose profondità e a scoprire fin dove i romani sono penetrati nelle colline del Derbyshire.

Strano come siano superstiziosi questi contadini! Non l'avrei detto del giovane Armitage, poiché egli è un uomo di una certa istruzione e di carattere, e un ottimo giovane per la sua condizione sociale. Io mi trovavo in piedi vicino al Blue John Gap, quando attraversò il campo per venire verso di me.

"Be', dottore" mi disse "non si può dire che lei abbia paura."

"Paura!" gli risposi. "Paura di che?"

"Di quello" disse, indicando con il pollice il nero antro. "Del Terrore che abita nella caverna del Blue John." Com'è assurdamente facile che una leggenda nasca in una campagna solitaria! Lo interrogai sui motivi della sua strana convinzione.

Pare che alcune pecore siano scomparse a intervalli dai campi, portate via di peso, stando ad Armitage. Che le pecore avessero potuto allontanarsi di propria iniziativa e perdersi sulle montagne, era un'ipotesi alla quale lui non volle dare credito.

Una volta trovarono una pozza di sangue, e dei ciuffi di lana.

Anche quello, gli feci notare, poteva avere una spiegazione del tutto naturale. Inoltre, le notti in cui le pecore sparivano, erano immancabilmente notti nuvolose e senza luna. Controbattei molto logicamente che erano proprio quelle le notti che un normale ladro di pecore sceglierebbe per svolgere il suo lavoro. Una volta, mi disse, era stata praticata un'apertura in un muro, e alcune delle pietre erano state ritrovate a una considerevole distanza. Anche questo, secondo me, poteva essere opera di un uomo. Infine, Armitage pose fine alla discussione dicendomi che lui aveva udito la Creatura con i propri orecchi, che, anzi, chiunque poteva udirla se si fermava per un po' davanti al Gap.

Era un rombo lontano di immenso volume. Non potei trattenere un sorriso a questa uscita, conoscendo, come io conosco, gli strani riverberi provocati dai corsi d'acqua sotterranei che scorrono fra le voragini di una formazione calcarea. La mia incredulità irritò Armitage, tanto che mi voltò le spalle e si allontanò bruscamente.

Ed ora vengo alla parte più strana di tutta la faccenda. Ero ancora ritto vicino all'imbocco della caverna, intento a riflettere a proposito delle varie asserzioni di Armitage e a come si potessero facilmente spiegare in modo logico, quando improvvisamente, dalle profondità del tunnel accanto a me, emerse un suono straordinario. Come posso descriverlo? In primo luogo, sembrava che venisse da molto lontano, dalle viscere stesse della terra. In secondo luogo, nonostante questa impressione di lontananza, era molto forte. Infine, non era un rombo, né un tonfo, come potrebbe essere prodotto da una cascata d'acqua o dal rovinio di una pietra ma era piuttosto un lamento altissimo, tremulo e vibrante, quasi come il nitrito di un cavallo. Certo che era un'esperienza notevole e tale, lo ammetto, da dare un nuovo significato alle parole di Armitage. Attesi vicino al Blue John Gap per una mezz'ora e più, ma quel suono non si ripeté, e così tornai alla fattoria, piuttosto sconcertato da quanto era accaduto. Senz'altro esplorerò quella caverna quando mi sarò rimesso in forze. Naturalmente, la spiegazione di Armitage è troppo assurda per essere presa in considerazione, eppure quel suono era molto strano. Anche adesso, mentre scrivo, lo sento ancora risuonare nelle orecchie.

20 aprile. Negli ultimi tre giorni ho fatto varie spedizioni al Blue John Gap, e mi sono anche inoltrato per un breve tratto, ma la mia lampada a pila è così piccola e debole che non oso allontanarmi troppo. Mi organizzerò meglio. Non ho più udito alcun suono, e potrei quasi convincermi di essere rimasto vittima di un'allucinazione, suggerita, forse, dalle parole di Armitage.

Naturalmente, è una cosa assurda, eppure debbo confessare che quei cespugli all'imbocco della caverna danno l'impressione di essere stati calpestati da un'enorme creatura. Comincio a essere profondamente interessato. Non ho detto niente alle signorine Allerton, poiché esse sono già abbastanza superstiziose, ma ho comprato delle candele, e intendo indagare per conto mio.

Stamattina ho osservato che, fra i numerosi ciuffi di lana di pecora cosparsi fra i cespugli vicino alla caverna, ve n'era uno intriso di sangue. Naturalmente, la ragione mi dice che, se le pecore si avventurano in luoghi scoscesi, è facile che si feriscano, eppure in qualche modo quella macchia cremisi mi ha dato un improvviso tuffo al cuore, e per un istante mi sono trovato ad arretrare inorridito da quell'antico arco romano.

Pareva che un alito fetido si sprigionasse dalle nere profondità nelle quali scrutavo. E' davvero possibile che qualche oggetto innominato, qualche spaventosa presenza, si nasconda laggiù? Sarei stato incapace di simili pensieri all'epoca in cui godevo di buona salute, ma si diventa più nervosi e fantasiosi quando la salute vacilla.

Lì per lì, pensai di rinunciare al mio progetto e di lasciare che il segreto dell'antica miniera, se pur esisteva, restasse insoluto per sempre. Ma stasera il mio interesse si è ravvivato e i miei nervi sono più saldi. Spero che domani riuscirò ad approfondire la questione.

22 aprile. Voglio tentare di descrivere il più accuratamente possibile la mia straordinaria esperienza di ieri. Mi incamminai nel pomeriggio verso il Blue John Gap. Confesso che le mie paure mi riassalirono quando mi trovai a scrutarne le nere profondità, e mi pentii di non essermi portato dietro un compagno con cui compiere l'esplorazione. Finalmente, con un ritorno di coraggio, accesi la mia candela, mi feci strada attraverso i rovi e mi inoltrai nel pozzo roccioso.

Il pozzo scende ad angolo acuto per una quindicina di metri, e in questo tratto il terreno è ricoperto di pietre. Da lì si diparte un lungo corridoio diritto, tagliato nella roccia. Non sono un geologo, ma il rivestimento di questo corridoio è indubbiamente di una materia più dura che non la pietra calcarea, poiché vi erano alcuni punti dove riuscivo a vedere i segni lasciati dai picconi degli antichi minatori, altrettanto freschi che se fossero stati lasciati ieri. Incespicando, percorsi questo strano, antico corridoio, mentre la debole fiamma della mia candela gettava attorno un tenue chiarore, che rendeva ancora più nere e minacciose le ombre che mi stavano davanti. Infine, arrivai in un punto dove il tunnel romano si apriva in una caverna prodotta dalle acque: un enorme antro, dal cui soffitto pendevano innumerevoli, lunghi ghiaccioli bianchi di deposito calcareo.

Aguzzando la vista, riuscii a vedere che da questa sala centrale si dipartivano un gran numero di diramazioni, formate da torrenti sotterranei, le quali si inoltravano nelle viscere della terra. Me ne stavo lì fermo, chiedendomi se mi convenisse tornare indietro, o se avevo l'ardire di avventurarmi oltre in quel pericoloso labirinto, quando il mio sguardo cadde su qualcosa ai miei piedi, che attirò prepotentemente la mia attenzione.

Il pavimento della caverna era in genere ricoperto da massi di pietra e da dure incrostazioni di calcio, ma in quel particolare punto vi era stato uno sgocciolio dal soffitto, che aveva lasciato una vasta chiazza di fango molle. Nel bel mezzo di questa, vi era un'enorme infossatura, un segno dai contorni mal definiti, profondo, largo e irregolare, come se vi fosse caduto un pesante masso. Eppure non vidi nessuna pietra rotolata lì vicino, né qualsiasi altra cosa che potesse giustificare quel segno. Era molto, troppo grande per essere l'orma di un qualsiasi animale e, inoltre, ve ne era una sola, e la chiazza di fango era di una misura tale che nessuno avrebbe potuto superarla con un solo passo. Quando rialzai la testa dopo aver esaminato quella singolare traccia e mi fui guardato attorno, in quelle ombre nere che mi circondavano, debbo confessare che provai per un istante uno sgradevole senso di paura e, per quanto tentassi di dominarmi, la candela tremò nella mia mano protesa.

Ben presto comunque riacquistai il mio sangue freddo, riflettendo come fosse assurdo associare una così vasta e informe traccia con l'orma di qualsiasi animale noto all'uomo. Neppure un elefante avrebbe potuto lasciarla. Decisi pertanto che non avrei permesso a delle vaghe e informi paure di impedirmi di portare a termine la mia esplorazione. Prima di proseguire, presi accuratamente nota di una bizzarra formazione calcarea nella parete, dalla quale avrei potuto riconoscere l'entrata del tunnel romano. Era una precauzione indispensabile, poiché la vasta caverna, fin dove potevo vedere, era intersecata da diramazioni. Essendomi garantito il ritorno, e dopo aver riesaminato la scorta delle candele e dei fiammiferi, presi ad avanzare lentamente sul terreno roccioso e sconnesso.

Fu allora che mi capitò l'improvviso e agghiacciante disastro. Un torrentello con poca acqua ma largo cinque o sei metri, attraversava il mio cammino, e io percorsi una certa distanza lungo la riva per trovare un punto che mi permettesse di attraversarlo senza bagnarmi i piedi. Infine, giunsi in un punto dove un unico masso piatto affiorava proprio in mezzo al corso, e che io potevo raggiungere con un solo passo. Purtroppo, invece, sotto la superficie del masso, la pietra era stata consumata dallo scorrere delle acque, cosicché quando ci appoggiai il mio peso si inchinò e mi catapultò nell'acqua gelida. La mia candela si spense, e mi ritrovai immerso nella più completa e totale oscurità.

Mi rialzai incespicando, più divertito che spaventato dalla mia avventura. La candela mi era caduta di mano e si era persa nel fiume, ma ne avevo altre due in tasca, quindi la perdita non era di nessuna importanza. Ne approntai un'altra, e tirai fuori la mia scatola di fiammiferi per accenderla. Soltanto allora mi resi conto della situazione. La scatola si era inzuppata durante il mio tuffo nel fiume. Era impossibile accendere i fiammiferi.

Quando mi resi conto di quel fatto mi sembrò che una gelida mano mi ghermisse il cuore. L'oscurità era densa, orribile, così totale da farmi alzare una mano al viso, come per respingere qualcosa di solido. Rimasi immobile, dominandomi con uno sforzo. Tentai di ricostruire nella mia mente una mappa della caverna, come l'avevo vista per l'ultima volta. Ahimè, gli orientamenti che si erano impressi nella mia mente erano in alto sulle pareti, e non avrei potuto ritrovarli al tatto. Comunque, ricordavo vagamente come fossero disposte le pareti, e sperai, strisciando, di arrivare prima o poi all'entrata del tunnel romano. Muovendomi lentamente, e battendo di continuo contro le rocce, mi accinsi a questo disperato tentativo.

Ben presto però mi resi conto di come fosse impossibile. In quell'oscurità nera e ovattata, l'orientamento si perdeva di colpo. Prima che avessi percorso dieci passi, ero completamente confuso e non avevo la minima idea di dove mi trovassi. Lo scroscio del corso d'acqua, l'unico suono percettibile, mi indicava dove si trovasse, ma, non appena ne abbandonavo la riva, ero irrimediabilmente perso. L'idea di ripercorrere i miei passi nella totale oscurità in quel labirinto di pietra era chiaramente un'impresa impossibile.

Mi sedetti su un masso, e riflettei sulla mia situazione. Non avevo detto a nessuno che intendevo scendere nella miniera, ed era improbabile che mi venissero a cercare laggiù. Dovevo quindi fare affidamento sulle mie sole forze per cavarmi d'impiccio. Vi era una sola speranza, e cioè che i fiammiferi si sarebbero asciugati.

Quando ero caduto nell'acqua, soltanto una metà del mio corpo si era bagnata. La mia spalla sinistra era rimasta fuori dall'acqua.

Perciò presi la scatola di fiammiferi e la misi sotto l'ascella sinistra. La mia speranza era che il calore del mio corpo vincesse l'aria umida della caverna, ma anche nel migliore dei casi, sapevo che non avrei potuto accendere un fiammifero per molte ore. Nel frattempo, non potevo fare altro che aspettare.

Per mia fortuna, mi ero ficcato parecchi biscotti in tasca prima di lasciare la fattoria. Li divorai, buttandoli giù con un sorso d'acqua di quel maledetto ruscello che era la causa di tutte le mie disgrazie. Poi mi diedi da fare per trovare fra i massi un sedile comodo e avendo trovato un posto dove poter appoggiare la schiena, allungai le gambe e mi preparai all'attesa. Ero bagnato e infreddolito, ma tentai di rallegrarmi pensando che la medicina moderna prescrive per la mia malattia le finestre aperte e le passeggiate col brutto e col bel tempo. Pian piano, cullato dal monotono gorgoglio del fiume e dalla profonda oscurità, caddi in un sonno agitato.

Non so dire quanto dormii. Forse un'ora, forse parecchie ore.

Improvvisamente balzai a sedere sul mio letto di roccia, con ogni nervo percorso da un fremito, e ogni senso all'erta. Al di là di ogni possibile dubbio, avevo udito un suono, un suono molto diverso dal gorgoglio dell'acqua. Era passato, ma l'eco perdurava ancora nei miei orecchi. Si trattava forse di una spedizione di salvataggio? Ma in quel caso, mi avrebbero certamente chiamato, e per vago che fosse il suono che mi aveva svegliato, era molto diverso dalla voce umana. Rimasi immobile, tremante, incapace di respirare. Eccolo di nuovo! E di nuovo! Adesso era diventato continuo. Era un passo, sì, certamente era il passo di qualche creatura vivente. Ma quale passo! Dava l'impressione di un peso enorme portato da piedi spugnosi, che emettevano un suono attutito e pur pieno. L'oscurità era sempre assoluta, ma il passo era deciso e regolare. E veniva senza alcun dubbio nella mia direzione.

Al suono di quel passo poderoso e risoluto mi si rizzarono i capelli e mi si ghiacciò la pelle. Vi era una creatura lì e, a giudicare dalla velocità con cui avanzava, era un essere che poteva vedere al buio. Mi appiattii sulla roccia, tentando di diventare tutt'uno con essa. I passi si avvicinarono ancora di più, poi si fermarono, e ben presto fui conscio di un rumoroso sciacquio e gorgoglio. La creatura stava abbeverandosi al fiume.

Poi vi fu nuovamente silenzio, interrotto da una successione di respiri e grugniti di tremendo volume e energia. La creatura aveva colto il mio odore? Le mie proprie narici furono colpite da un puzzo fetido, mefitico, abominevole. Poi udii nuovamente i passi.

Adesso erano sulla sponda del fiume dove mi trovavo. Le pietre scricchiolarono a pochi metri di distanza da me. Mi rannicchiai sulla mia roccia, trattenendo perfino il respiro. Poi i passi si allontanarono. Udii gli schizzi mentre la Creatura attraversava nuovamente il fiume, poi il suono si allontanò nella direzione dalla quale era venuto, fino a scomparire del tutto.

Rimasi a lungo disteso sulla roccia, troppo terrorizzato per potermi muovere. Ripensai al suono che avevo udito, proveniente dalle nere viscere della caverna, ripensai alle paure di Armitage, alla strana orma impressa nel fango, ed ora a quest'ultima e irrefutabile prova che vi era davvero qualche inconcepibile mostro, qualcosa di ignoto e di spaventoso, che stava in agguato nel cuore della montagna. Non potevo farmi alcuna idea della sua forma o della sua natura. La lotta fra la ragione, che mi diceva che simili cose non esistono, e i miei sensi, che mi dicevano che esse esistono, infuriava dentro di me mentre giacevo. Infine, ero quasi disposto a convincermi che questa esperienza era stata parte di un angoscioso incubo, e che le mie anormali condizioni di salute avrebbero potuto evocare un'allucinazione. Ma dovevo ancora affrontare un'ulteriore esperienza, la quale rimosse ogni possibile dubbio dalla mia mente.

Avevo preso i fiammiferi dalla mia ascella e li avevo tastati.

Sembravano perfettamente asciutti e rassodati. Chinandomi verso una fessura fra le rocce, tentai di accenderne uno. Con mia grande gioia, prese immediatamente fuoco. Accesi la candela e, con un'ultima occhiata terrorizzata verso le oscure profondità della caverna, mi affrettai in direzione del tunnel romano. Così facendo, passai davanti alla chiazza di fango sulla quale avevo visto la gigantesca orma. Rimasi inchiodato dallo stupore, poiché ora vi erano tre orme uguali sulla sua superficie, enormi di misura, irregolari di contorno, e di una profondità che rivelava il peso poderoso che le aveva impresse. Allora una paura incontrollabile si impossessò di me. Chinandomi e riparando la fiamma della candela con una mano, corsi in preda a un parossismo di paura verso l'arco di pietra, mi affrettai su per la salita, senza mai fermarmi finché, i piedi doloranti e i polmoni in fiamme, non ebbi superato l'ultimo tratto, non mi fui aperto un varco fra i rovi, e non mi fui gettato esausto sulla morbida erba sotto la tranquilla luce delle stelle. Erano le tre del mattino quando raggiunsi la fattoria, e ancora oggi sono agitato e sconvolto dalla mia spaventosa avventura. Per il momento non ne ho parlato a nessuno. Bisogna agire con prudenza. Che cosa potrebbero pensare queste povere donne sole, o questi contadini ignoranti se raccontassi loro la mia esperienza? E' meglio che mi rivolga a qualcuno in grado di capirmi e di consigliarmi.

25 aprile. Sono dovuto restare a letto due giorni dopo la mia incredibile avventura nella caverna. Adopero l'aggettivo nel suo senso più autentico, perché nel frattempo mi è capitata un'esperienza che mi ha sconvolto quasi quanto l'altra. Ho detto come intendessi cercare qualcuno che mi potesse consigliare. Vi è un certo dottor Mark Johnson che esercita a pochi chilometri da qui. E' stato il professor Saunderson a raccomandarmelo. Andai a trovarlo, quando mi fui sufficientemente rimesso, e gli raccontai la mia strana esperienza. Egli mi ascoltò attentamente, poi mi visitò con cura, con particolare riguardo ai miei riflessi e alle pupille degli occhi. Quando ebbe terminato, si rifiutò di parlare della mia avventura, dicendo che non era di sua competenza, ma mi diede un biglietto per il signor Picton di Castleton, consigliandomi di andare immediatamente da lui e di raccontargli la storia esattamente come l'avevo raccontata a lui. Il signor Picton era, secondo lui, l'uomo che faceva al caso mio. Andai dunque alla stazione, e mi recai nella piccola cittadina, che dista una quindicina di chilometri. Il signor Picton doveva essere un tipo di una certa importanza, poiché la sua targa di ottone faceva bella mostra di sé sul portone di uno dei più grossi edifici alla periferia della città. Stavo per suonare il campanello, quando fui assalito da un dubbio e, attraversata la strada, entrai in un negozio, chiedendo all'uomo dietro al banco ragguagli sul signor Picton.

"Ma come" mi disse "è il miglior medico alienista di tutto il Derbyshire, e quello è il suo manicomio." Come potete bene immaginare, mi affrettai a lasciare Castleton e a tornare alla fattoria, maledicendo tutti i pedanti privi di fantasia, incapaci di concepire che possano esistere delle cose nel creato, che essi non abbiano toccato con mano. Dopotutto, adesso che sono più calmo, sono disposto ad ammettere che io stesso non fui più comprensivo nei confronti di Armitage di quanto il dottor Johnson non lo sia stato con me.

27 aprile. Da studente, avevo la fama di essere un uomo coraggioso e intraprendente. Ricordo che quando andammo a caccia di fantasmi a Coltbridge, fui io a vegliare nella casa frequentata dagli spettri. Sono gli anni (ma, dopotutto, ne ho soltanto trentacinque), o è questa malattia fisica la causa della mia degenerazione? Certo che il mio cuore trema di paura, quando penso a quell'orribile caverna nella collina, e alla certezza che in essa risiede qualche mostruoso occupante. Che cosa debbo fare? Mi dibatto continuamente in questa incertezza. Se non dico niente, allora il mistero rimane insoluto. Se viceversa parlo, ho l'alternativa di gettare un angoscioso allarme su tutta la zona, o di suscitare un'assoluta incredulità che potrebbe farmi finire in manicomio. Visto e considerato il problema, credo che mi convenga aspettare, e preparare una spedizione più metodica e meglio organizzata dell'ultima. Il primo passo è stato di recarmi a Castleton per ottenere alcune cose indispensabili: per incominciare una grossa lanterna ad acetilene, e una buona doppietta da caccia. Quest'ultima l'ho noleggiata, ma ho acquistato una dozzina di cartucce per la caccia grossa, capaci di atterrare anche un rinoceronte. Adesso sono pronto per il mio amico troglodita. Se mi sarà concessa un po' di salute e un pizzico di energia, mi sentirò in grado di affrontarlo. Ma chi e che cos'è quella creatura? Ah! è questa la domanda che si frappone fra me e il sonno. Quante ipotesi continuo a formulare, solo per scartarle ad una ad una! E' tutto così inconcepibile. Eppure il grido, l'orma, il passo nella caverna, nessun ragionamento può farli scomparire. Penso alle antiche leggende di draghi e di altri mostri. E' possibile dunque che non fossero, come noi le ritenevamo, puro frutto di fantasia? E' possibile che fossero basate su fatti realmente accaduti, e sono proprio io, fra tutti i mortali, quello prescelto per svelarli?

3 maggio. Per alcuni giorni sono stato costretto a rimanere a letto, grazie ai capricci della primavera inglese. Durante quei giorni vi sono stati degli avvenimenti il cui vero e sinistro significato non può essere compreso da nessuno, tranne che da me.

Aggiungo che ultimamente abbiamo avuto una serie di notti nuvolose e senza luna che, stando alle mie informazioni, erano quelle in cui le pecore sparivano. Be', alcune pecore sono scomparse. Due pecore delle signorine Allerton, una del vecchio Pearson di Cat Walk, e una della signora Moulton. Un totale di quattro, in tre notti. Di esse non è rimasta traccia alcuna, ma nella zona circolano voci sulla presenza di zingari e ladri di bestiame.

E' accaduto però un fatto più grave di questo. E' scomparso anche il giovane Armitage. Ha lasciato la sua casetta nella brughiera mercoledì sera di buonora, e da allora non se ne è più saputo niente. Viveva solo, quindi la sua scomparsa ha destato meno scalpore di quanto non avrebbe fatto se avesse avuto famiglia. La gente dice che lo ha fatto per sfuggire ai suoi debitori, che avrà trovato lavoro da qualche altra parte, e che ben presto scriverà per farsi mandare i suoi effetti personali. Ma io ho dei gravi dubbi. Non è più probabile che la recente scomparsa delle pecore lo abbia indotto a un'azione che potrebbe aver provocato la sua fine? Potrebbe, per esempio, avere teso un trabocchetto alla creatura mostruosa e anonima ed essere stato da essa ghermito e portato nella tana nella montagna. Quale inconcepibile sorte, per un inglese civilizzato del ventesimo secolo! Eppure io sento che è possibile, e perfino probabile. Ma in tal caso, fino a dove sono io responsabile, sia della sua morte che di qualsiasi altro disastro che possa accadere? Sicuramente, essendo al corrente di alcuni fatti, dovrei far prendere qualche provvedimento, o, se necessario, dovrei prenderli io stesso. Ma credo proprio che non mi resti che quest'ultima soluzione, poiché stamattina mi sono recato al posto di polizia locale, e ho raccontato la mia storia.

Mentre parlavo, l'ispettore segnava qualcosa in un grosso libro e poi mi accompagnò alla porta con encomiabile serietà, ma prima che fossi arrivato in fondo al viottolo del suo giardino, udii uno scoppio di risa. Certamente stava raccontando la mia avventura alla sua famiglia.

10 giugno. Sto scrivendo questi appunti seduto a letto; sono passate sei settimane dalle mie ultime annotazioni in questo diario. Ho subìto uno choc terribile, sia psichico che fisico in seguito a un'esperienza che raramente può essere accaduta a un essere umano. Ma ho ottenuto il mio scopo. La fonte del terrore che sopravviveva nel Blue John Gap è scomparsa per sempre. Almeno io, povero invalido, ho fatto questo per il bene comune. Lasciate che racconti il più chiaramente possibile ciò che è accaduto.

La notte di venerdì, 3 maggio, era buia e nuvolosa, proprio il tipo di notte in cui il mostro si sarebbe spinto fuori dalla sua tana. Verso le undici, sono uscito dalla fattoria con la mia lanterna e il mio fucile, dopo aver lasciato un biglietto sul tavolo in camera mia, in cui dicevo che se non fossi tornato, avrebbero dovuto mandare una squadra di soccorso in direzione del Blue John Gap. Mi recai all'imbocco della miniera romana e, dopo essermi appostato fra i massi vicino all'arco, spensi la lanterna e attesi pazientemente con il fucile carico a portata di mano.

Fu un'attesa malinconica. Vedevo lungo il fondovalle le luci sparse delle fattorie, e da lontano giungevano i rintocchi del campanile di Chapel-le-Dale. Questi lontani segni di vita servirono soltanto a farmi sentire più solo, e a rendere necessario uno sforzo maggiore per superare il terrore che mi istigava continuamente a tornare alla fattoria e ad abbandonare per sempre questa pericolosa impresa. Eppure ogni uomo possiede, radicato in sé profondamente, un forte amor proprio che gli rende difficile di abbandonare un'impresa una volta che l'abbia incominciata. Questo orgoglio fu la mia salvezza, e fu soltanto quello a tenermi inchiodato lì, quando ogni mio istinto mi avrebbe trascinato lontano. Adesso sono felice di averne avuto la forza.

Nonostante tutto ciò che mi è costato, la mia dignità non ha subìto affronti.

Suonarono le dodici al lontano campanile, poi l'una, e le due. Era l'ora più buia della notte. Le nuvole vagavano basse, e neanche una stella riluceva nel cielo. Non vi era alcun suono, tranne l'occasionale grido di una civetta e il dolce respiro del vento.

Poi improvvisamente li udii, Da molto lontano in fondo al tunnel, udii quei passi attutiti, così dolci eppure minacciosi. Udii anche il crepitare dei sassi mentre cedevano sotto a quel passo gigantesco. I passi si avvicinarono sempre di più. Mi furono a ridosso. Udii un rovinio fra i cespugli attorno all'imboccatura, e poi a malapena intravidi delinearsi nell'oscurità una forma enorme, una mostruosa creatura rudimentale, che usciva veloce e silenziosa dal tunnel. Fui paralizzato dalla paura e dallo stupore. Per quanto avessi atteso a lungo, adesso che la creatura era veramente apparsa, ero impreparato al colpo. Rimasi disteso, immobile, senza respiro, mentre l'enorme massa scura mi passò accanto e scomparve nella notte.

Mi preparai al suo ritorno. Nessun suono giungeva dalla campagna immersa nel sonno, a raccontare del mostro che vi vagava in libertà. Non potevo in alcun modo giudicare a quale distanza fosse andato, che cosa stesse facendo, o quando sarebbe tornato. Ma il mio coraggio non mi avrebbe abbandonato di nuovo, il mostro non sarebbe passato indisturbato una seconda volta. Lo giurai a denti stretti, mentre appoggiavo il mio fucile puntato sulla roccia.

Eppure, per poco non accadde. Non ebbi alcun avviso che la creatura stesse attraversando il campo. Improvvisamente, come un'enorme ombra vagante, l'immensa mole mi si parò nuovamente davanti, diretta all'ingresso della caverna. Provai ancora una volta quella paralisi della volontà, che mi inchiodava l'indice impotente sul grilletto. Ma riuscii a liberarmene con uno sforzo disperato. Nell'istante stesso in cui i cespugli stormirono, e la mostruosa bestia si confuse con l'ombra del Gap, feci fuoco su quella forma fuggente. Alla luce della fiammata del fucile, intravidi una grande massa irsuta, un qualcosa rivestito di un irto e ruvido pelo di un grigio stinto, che si faceva bianco nelle parti inferiori, il cui corpo enorme poggiava su corte zampe, tozze e ricurve. Ebbi quell'unica fugace visione, poi udii un rotolio di sassi mentre la creatura fuggiva nella sua tana. In un attimo, con una trionfale e improvvisa rivoluzione di sentimenti, avevo gettato le mie paure al vento, e scoprendo la mia potente lanterna, con il fucile in mano, balzai giù dalla mia roccia e mi precipitai dietro al mostro lungo la vecchia miniera romana.

La mia magnifica lampada gettava davanti a me un potente raggio di luce, molto diverso dal tremulo bagliore giallastro che mi aveva rischiarato il cammino soltanto dodici giorni prima. Mentre correvo, vedevo l'immane bestione caracollare davanti a me, con la sua enorme mole che riempiva tutto lo spazio da una parete all'altra. Il suo pelo, simile a una massa di ruvida stoppa sbiadita, ricadeva in lunghi folti ciuffi che ondeggiavano a ogni passo. Il suo vello lo faceva somigliare a un'enorme pecora mai tosata, ma la sua mole oltrepassava quella del più grande elefante, e la sua larghezza era tale quale la sua altezza. Adesso che ci ripenso, sono stupito di aver avuto il coraggio di inseguire un simile mostro nelle viscere della terra, ma quando il proprio sangue bolle nelle vene e la preda ha le ali ai piedi, si risveglia l'antico, primitivo istinto del cacciatore e ogni prudenza viene messa da parte. Fucile imbracciato, correvo a tutta velocità all'inseguimento del mostro.

Mi ero reso conto che la creatura era veloce. Ora dovevo scoprire, a mio danno, che essa era anche molto astuta. Avevo creduto che stesse fuggendo in preda al panico, e che io dovessi soltanto inseguirla. L'idea che potesse rivoltarsi contro di me, non aveva neppure sfiorato la mia mente esaltata. Ho già spiegato come il tunnel lungo il quale correvo, si aprisse in una vasta caverna centrale. Mi precipitai in questa caverna, temendo di perdere ogni traccia del bestione. Ma questi si era girato improvvisamente, e l'istante dopo ci trovammo l'uno di fronte all'altro.

Quell'immagine, vista alla bianca e brillante luce della mia lanterna, è scolpita per sempre nel mio cervello. Il mostro si era impennato sulle zampe posteriori come farebbe un orso, e mi sovrastava, enorme, minaccioso, una creatura come neanche il peggiore degli incubi aveva mai evocato alla mia mente. Ho detto che si era impennato come un orso, e infatti vi era qualcosa dell'orso, se si riesce a concepire un orso dieci volte più grande di qualsiasi orso mai visto sulla terra, nella sua posizione e nel suo atteggiamento, nelle sue grandi zampe anteriori ricurve munite di artigli bianco-avorio, nella sua pelle rugosa, e nelle sue fauci spalancate e rossastre, orlate di mostruose zanne. Soltanto in una cosa esso differiva da un orso, o da qualsiasi altra creatura esistente, e anche in quell'istante supremo, quando vidi che gli occhi che rilucevano al raggio della mia lanterna, erano degli enormi bulbi sporgenti, bianchi e privi di vista, un brivido di orrore mi percorse. Per una frazione di secondo le sue gigantesche zampe rotearono sopra la mia testa. Poi cadde in avanti sopra di me, io e la mia lanterna rotta precipitammo a terra, e non ricordo altro.

Quando ripresi conoscenza, mi trovavo nella fattoria delle Allerton. Erano trascorsi due giorni dalla mia terribile avventura nel Blue John Gap. Pare che fossi rimasto tutta la notte nella caverna, privo di conoscenza in seguito a commozione cerebrale, con il braccio sinistro e due costole fratturati. La mattina dopo era stato trovato il mio biglietto, una dozzina di contadini avevano organizzato una spedizione di soccorso, ed io ero stato trovato e riportato nella mia camera, dove da allora ero rimasto in preda al delirio. Pare che non vi fosse traccia del mostro, né alcuna macchia di sangue a testimoniare che la mia pallottola lo avesse colpito mentre mi passava davanti. Tranne le mie condizioni e le orme nel fango, non vi era niente che dimostrasse che ciò che dicevo era vero.

Adesso sono passate sei settimane, e io sono nuovamente in grado di sedere all'aperto, sotto i tiepidi raggi del sole. Proprio dirimpetto a me si erge la ripida collina, grigia di rocce porose, e laggiù, sul pendio, c'è la nera fessura che segna l'imbocco del Blue John Gap. Ma essa non è più fonte di terrore. Non passerà mai più, per quel sinistro tunnel, alcuna mostruosa creatura per avventurarsi nel mondo degli uomini. Le persone istruite e gli uomini di scienza, il dottor Johnson e i suoi simili potranno sorridere del mio racconto, ma le semplici genti della regione non hanno mai dubitato della sua veridicità. Il giorno dopo che io ebbi ripreso conoscenza, essi si radunarono a centinaia attorno al Blue John Gap. Ecco il resoconto del "Castleton Courier":

"Non è servito a nulla che il nostro corrispondente, o parecchi degli avventurosi giovanotti convenuti da Matlock, Buxton, o altri villaggi, si offrissero di scendere, di esplorare la caverna fino in fondo, e di mettere finalmente alla prova lo straordinario racconto del dottor James Hardcastle. I contadini locali si erano impadroniti della situazione, e fin dalle prime ore del mattino avevano lavorato di lena per bloccare l'ingresso del tunnel. Vi è una ripida discesa subito dopo l'imbocco, e centinaia di mani volonterose hanno spinto un gran numero di enormi massi giù per la china, finché il Gap non è stato completamente ostruito. Così si conclude l'episodio che ha destato tanta agitazione in tutto il paese. L'opinione locale è ferocemente divisa sulla questione. Da una parte, vi sono quelli che fanno notare come la salute del dottor Hardcastle sia compromessa, per cui ci sarebbe la possibilità di lesioni cerebrali di origine tubercolare che hanno dato luogo a strane allucinazioni. Secondo loro, qualche "idée fixe" ha spinto il dottore ad avventurarsi nel tunnel, e una caduta fra le rocce è più che sufficiente per spiegare le sue ferite. D'altra parte, una leggenda a proposito di una strana creatura nel Gap circolava già da vari mesi, e i contadini considerano il racconto del dottor Hardcastle e le sue lesioni come la prova decisiva. Così l'episodio si conclude nell'incertezza, e nell'incertezza perdurerà, poiché ormai non ci sembra più possibile alcuna soluzione definitiva. Una spiegazione scientifica che possa chiarire quanto Hardcastle afferma, trascende le possibilità della mente umana."

Forse, prima che il "Courier" pubblicasse queste parole, sarebbe stato più saggio mandare da me il loro cronista. Ho riflettuto a lungo sull'accaduto, più di quanto chiunque altro possa aver fatto. E' quindi possibile che io avrei potuto eliminare alcuni aspetti apparentemente incredibili del mio racconto, rendendo più plausibile una spiegazione scientifica. Lasciate che esponga l'unica spiegazione che secondo me può chiarire ciò che ho imparato a mie spese, e che so corrispondere a verità. La mia teoria potrà sembrare altamente improbabile, ma perlomeno nessuno oserà dire che sia impossibile.

La mia opinione è, e me la sono formata, come il diario dimostra, prima della mia avventura, che in questa regione dell'Inghilterra esiste un vasto lago o mare sotterraneo, alimentato da numerosi corsi d'acqua che si infiltrano attraverso la pietra calcarea.

Dove esiste una grande quantità di acqua, deve esistere anche dell'evaporazione, nebbia o pioggia, e la possibilità di una determinata vegetazione. A sua volta ciò suggerisce che possa sussistere una vita animale, derivante, allo stesso modo della vita vegetale, da quei semi e da quei prototipi che furono introdotti in un'epoca antichissima della storia del mondo, quando la comunicazione con il mondo esterno era più facile. Questo luogo aveva sviluppato a quei tempi una flora e fauna particolari, ivi compresi dei mostri simili a quello che io ho visto e che potrebbero essere benissimo l'antico orso delle caverne, enormemente ingrandito e modificato dalle nuove condizioni ambientali. Per un numero incalcolabile di millenni, quei due mondi, uno interno e uno esterno, sono rimasti divisi, allontanandosi l'uno dall'altro sempre di più. Poi si deve essere prodotta qualche crepa nelle profondità della montagna, che ha permesso a una di queste creature di salire e, per mezzo del tunnel romano, di raggiungere l'aria aperta. Come tutti gli abitanti del mondo sotterraneo, essa era priva della vista, ma indubbiamente la natura aveva provveduto a dotarla di altre capacità. E' certo che avesse un sistema per orientarsi e per cacciare le pecore sul pendio della collina. In quanto alla sua scelta delle notti oscure, fa parte della mia teoria che la luce è intollerabile per quegli enormi bulbi oculari bianchi, per cui essi possono tollerare soltanto un mondo immerso nella oscurità più completa. Può, anzi, darsi che fu proprio il riverbero della mia lanterna a salvarmi la vita in quello spaventoso istante in cui ci trovammo faccia a faccia. E' così che io spiego l'enigma.

Lascio questi fatti ai miei posteri, e se voi potete spiegarli, fatelo pure; o se preferite diffidatene pure. Né la vostra fiducia né la vostra incredulità possono mutarli, o influire in modo alcuno su una persona il cui compito è quasi terminato.

Così finiva lo strano racconto del dottor James Hardcastle.

 

 

 

IL GATTO BRASILIANO

 

E' duro per un giovanotto trovarsi ad avere gusti costosi, grandi aspettative, parenti aristocratici, ma neanche un soldo in tasca e nessuna professione per procurarseli. Il fatto è che mio padre, un buon uomo ottimista e facilone, si fidava a tal punto della ricchezza e della benevolenza del suo fratello maggiore, Lord Southerton, uno scapolo, da prendere per scontato il fatto che io, l'unico suo figlio, non avrei mai avuto bisogno di guadagnarmi la vita. Egli immaginava che se non ci fosse stato un posto vacante per me nei vasti possedimenti dei Southerton, qualcuno mi avrebbe fatto entrare nel servizio diplomatico, che è tuttora dominio delle nostre classi privilegiate. E' morto troppo presto per rendersi conto di come i suoi calcoli fossero errati. Né mio zio né lo Stato si curarono minimamente di me, o mostrarono il minimo interesse per la mia carriera. Un'occasionale coppia di fagiani o un cesto di lepri furono le sole cose che mi ricordassero che io ero erede di Otwell House, e di una delle più ricche tenute del paese. Nel frattempo, da bravo scapolo e uomo di mondo, abitavo in un appartamento in Grosvenor Mansions, senza alcuna occupazione tranne il tiro al piccione e il giuoco del polo a Hurlingham. Col passare dei mesi, mi resi conto che diventava sempre più difficile poter indurre i mediatori a rinnovare le mie cambiali, o a incassare ulteriori anticipi su un'eredità non vincolata. La rovina mi si parava davanti, e ogni giorno la vedevo avvicinarsi sempre di più, farsi sempre più chiara e inevitabile.

Ciò che contribuiva a farmi sentire più acuta la mia povertà, era il fatto che, a parte la grande ricchezza di Lord Southerton, tutti gli altri miei parenti erano piuttosto benestanti. Il mio parente più prossimo era Everard King, nipote di mio padre e mio cugino di primo grado, il quale aveva trascorso una vita avventurosa nel Brasile ed era tornato da poco in questo paese per vivere di rendita. Non venimmo mai a sapere in quale modo avesse fatto soldi, ma sembrava che ne avesse fatti parecchi, poiché aveva comperato la tenuta di Greylands, vicino a Clipton-on-the- Marsh, nel Suffolk. Durante il primo anno del suo soggiorno in Inghilterra, non si curò di me più di quanto non se ne curasse il mio avaro zio; ma infine, una mattina d'estate, con mia grandissima gioia e sollievo, ricevetti una lettera in cui mi invitava ad andare da lui quel giorno stesso, per trascorrere un breve periodo a Greylands Court. Proprio allora mi aspettavo di dover trascorrere un periodo piuttosto lungo in carcere per i debiti, e questo intervallo mi sembrò quasi un dono della provvidenza. Se soltanto fossi riuscito a mettermi d'accordo con questo sconosciuto parente, forse me la sarei ancora potuta cavare. Per l'onore della famiglia, non poteva lasciarmi andare a picco. Ordinai al mio cameriere personale di prepararmi la valigia, e quella sera stessa partii per Clipton-on-the-Marsh.

Dopo aver cambiato a Ipswich, un trenino locale mi depositò in una piccola stazione del tutto deserta, che sorgeva in una campagna verdeggiante e mossa, dove un fiume pigro e tortuoso si snodava fra una valle e l'altra, chiuso fra sponde alte e cosparse di deposito marino, segno che era a portata della marea. Non c'era nessuno ad attendermi (venni a sapere più tardi che il mio telegramma aveva subìto un ritardo), così noleggiai un calesse dell'alberghetto locale. Il cocchiere, bravissima persona, era pieno di lodi per il mio parente, e da lui seppi che Everard King godeva in quella zona di un certo prestigio. Aveva organizzato un ricevimento per gli alunni della scuola, aveva spalancato i cancelli della sua tenuta ai visitatori, aveva contribuito a innumerevoli beneficenze, per farla breve, la sua benevolenza era così universale, che il mio cocchiere poteva spiegarla soltanto con la supposizione che egli mirasse a un seggio al Parlamento.

La mia attenzione fu distolta dal panegirico, dall'apparizione di un bellissimo uccello che andò a posarsi su un palo telegrafico lungo la strada. A prima vista lo scambiai per una ghiandaia, ma era più grande e aveva il piumaggio più brillante. Il cocchiere ne chiarì subito la provenienza, spiegandomi che apparteneva proprio all'uomo dal quale stavamo andando. Pare che l'acclimatazione degli animali esotici fosse uno dei suoi hobbies, e che egli si fosse portato con sé dal Brasile un certo numero di uccelli e altri animali, che stava tentando di allevare in Inghilterra. Una volta varcato il cancello di Greylands Park, incontrammo prove palesi di questa sua inclinazione. Alcuni piccoli cervi macchiati, un curioso maiale selvatico chiamato, se non sbaglio, pecari, un rigogolo dalle stupende penne, un tipo di armadillo, e un singolare, goffo animaletto simile a un tasso molto pingue. Questi furono alcuni degli animali che osservai mentre il calesse percorreva il viale alberato.

Il signor Everard King, il mio sconosciuto cugino, era ad attendermi di persona sulla scalinata davanti a casa sua, poiché ci aveva visti da lontano, e aveva immaginato che fossi io. Era di aspetto dimesso e benevolo, piccolo e tracagnotto; poteva avere quarantacinque anni circa, e il suo volto tondo e bonario era bruciato dal sole tropicale e solcato da mille rughe. Indossava un abito di lino bianco, in puro stile coloniale, aveva fra le labbra un sigaro e un cappello di paglia spinto verso la nuca. Era una figura come quelle che si associano a un bungalow con veranda, e pareva curiosamente fuori posto davanti a questo imponente castello tutto pietra, con le sue colonne palladiane davanti al portone.

"Mia cara," chiamò egli, voltandosi indietro. "Mia cara, ecco il nostro ospite! Benvenuto, benvenuto a Greylands! Sono lietissimo di fare la tua conoscenza, cugino Marshall, e sono lusingato che tu abbia voluto onorare della tua presenza questo sonnolento paesino di campagna." Non poteva esserci niente di più cordiale dei suoi modi, che mi fecero immediatamente sentire a mio agio. Ma ci voleva tutta la sua cordialità quale compenso alla freddezza e perfino alla maleducazione di sua moglie, una donna alta ed emaciata, che si presentò in risposta al suo richiamo. Credo che fosse di origine brasiliana, benché parlasse un ottimo inglese, e io le perdonai le sue cattive maniere imputandole alla sua ignoranza delle nostre consuetudini. Ciononostante, ella non tentò di nascondere, né allora né in seguito, che io non fossi un ospite molto gradito a Greylands Court. Le poche parole che mi rivolgeva erano generalmente cortesi; ma essa aveva un paio di occhi scuri particolarmente espressivi, e io vi lessi molto chiaramente, fin dal primo istante, il suo desiderio di vedermi ripartire per Londra.

Ma i miei debiti erano troppo pressanti e le mie mire nei confronti del mio ricco cugino troppo vitali, perché mi lasciassi offendere dal cattivo carattere di sua moglie, e quindi ignorai la sua freddezza e viceversa ricambiai l'estrema cordialità del benvenuto di lui. Tutto era stato previsto per rendere gradevole il mio soggiorno. La mia stanza era deliziosa. Mio cugino mi supplicò di dirgli se ci fosse qualcosa che lui avrebbe potuto fare per rendermi felice. Poco ci mancò che gli dicessi che un assegno in bianco avrebbe contribuito materialmente alla mia felicità, ma mi sembrò prematuro allo stadio attuale della nostra conoscenza.

La cena fu ottima, e a pasto terminato, mentre ci intrattenevamo con un buon avana e il caffè, che egli mi disse veniva preparato appositamente nella sua piantagione, mi parve che tutte le lodi del mio cocchiere fossero giustificate, e che io non avessi mai conosciuto un uomo più generoso e ospitale.

Nonostante il suo buon umore, era però un uomo dotato di una forte volontà, incline alla violenza. Di questo ebbi una prova il mattino seguente. La curiosa antipatia che la signora King aveva concepito nei miei riguardi era così forte, che il suo comportamento durante la colazione fu quasi offensivo. Ma la sua mira divenne inconfondibile quando suo marito uscì dalla stanza.

"Il miglior treno è quello delle dodici e un quarto" mi disse.

"Ma io non avevo intenzione di partire oggi" risposi con franchezza, forse anche in tono di sfida, poiché ero deciso a non lasciarmi mettere alla porta da quella donna.

"Oh, se dipende da lei..." replicò la signora King, interrompendosi con un'espressione assai insolente negli occhi.

"Sono sicuro" dissi "che il signor King me lo direbbe, se io prolungassi troppo la mia visita."

"Come? Come?" esclamò una voce e mio cugino apparve nella stanza.

Aveva udito le mie ultime parole, e uno sguardo ai nostri visi gli disse il resto. Di colpo il suo viso allegro e grassoccio si indurì in un'espressione di ferocia assoluta.

"Potrei chiederti di uscire un momento, Marshall?" mi disse. (A proposito, io mi chiamo Marshall King.) Egli richiuse la porta alle mie spalle e, per qualche istante, lo udii parlare a sua moglie con un tono di furia repressa.

Evidentemente, questa grossolana mancanza di ospitalità lo aveva dolorosamente colpito. A me non piace origliare, così me ne andai in giardino. Poco dopo, udii un passo affrettato dietro di me e, voltandomi, vidi la signora, il viso pallido dall'agitazione e gli occhi rossi dal pianto.

"Mio marito mi ha detto di chiederle scusa, signor Marshall King" mi disse, ritta davanti a me e con gli occhi bassi.

"La prego, non parliamone più, signora King." Improvvisamente, i suoi occhi scuri mi trafissero con uno sguardo fiammeggiante.

"Imbecille!" sibilò con una foga disperata, poi, voltandosi bruscamente, si diresse verso la casa.

L'insulto era così oltraggioso, così intollerabile, che potei soltanto restare lì immobile, sconcertato, seguendo la donna con gli occhi. Ero ancora lì, quando il mio ospite mi raggiunse. Era ritornato la persona allegra e pacioccona di sempre.

"Spero che mia moglie ti abbia chiesto scusa per i suoi sciocchi discorsi" mi disse.

"Oh, sì... sì, certo!" Mi prese sottobraccio e passeggiammo su e giù per il prato.

"Non devi prendertela" proseguì mio cugino. "Sarei oltremodo desolato se abbreviassi la tua visita di una sola ora. Il fatto è - e non vi è alcun motivo che ci si debba nascondere qualcosa fra parenti -, che la mia povera moglie è incredibilmente gelosa. Non può sopportare che chiunque, uomo o donna, si intrometta fra noi due, anche per un solo istante. Il suo ideale sarebbe un'isola deserta e un eterno "tête-à-tête". Questo ti può spiegare il suo comportamento, il quale è, lo confesso, assai vicino a una mania.

Rassicurami che non ci penserai più."

"Ma no, no di certo."

"Allora, accenditi questo sigaro, e vieni con me a ispezionare il mio piccolo serraglio." L'intero pomeriggio trascorse in questa ispezione, che comprendeva tutti gli animali, uccelli e perfino rettili, che egli aveva importato. Alcuni erano in libertà, altri in gabbia, altri addirittura in casa. Mio cugino mi parlò con entusiasmo dei suoi successi e dei suoi fiaschi, delle nascite e delle morti, gettando ogni tanto un gridolino di gioia quando, durante la nostra passeggiata, qualche uccello variopinto si alzava in volo, o qualche strano animaletto sgattaiolava nella sua tana. Infine mi condusse lungo un corridoio che si dipartiva da un'ala dell'edificio. In fondo al corridoio, vi era una massiccia porta munita di una persiana scorrevole, e accanto ad essa, infissa nel muro, una manovella di ferro, collegata a una ruota e a un rullo.

Un insieme di robuste sbarre attraversava il corridoio.

"Sto per mostrarti il gioiello della mia collezione" disse mio cugino. "Vi è un solo altro esemplare in Europa, adesso che il cucciolo di Rotterdam è morto. Si tratta di un gatto brasiliano."

"Ma come si differenzia da un qualsiasi altro gatto?"

"Te ne renderai conto assai presto" mi disse, ridendo. "Ti dispiace aprire quella persiana e guardarci dentro?" Feci come mi aveva detto, e scoprii che stavo guardando in una grande stanza vuota, dall'impiantito di pietra e munita, sulla parete di fondo, di piccole finestre sbarrate. Al centro di questa stanza, sdraiato in mezzo a una chiazza dorata di sole, stava disteso un enorme animale, grande come una tigre, ma nero e lucido come l'ebano. Sembrava nient'altro che un gatto gigantesco e molto ben curato; infatti se ne stava rannicchiato, crogiolandosi al sole, esattamente come farebbe un gatto. Era così pieno di grazia, così muscoloso, e così dolcemente e subdolamente diabolico, che non riuscii a distoglierne lo sguardo.

"Non è splendido?" esclamò il mio ospite, pieno di entusiasmo.

"Magnifico! Non ho mai visto una così nobile creatura."

"Alcuni lo chiamano un puma nero, ma in realtà non è per niente un puma. Quest'animale misura quasi tre metri e mezzo dalla testa alla coda. Quattro anni fa era una pallina di pelo nero, con due occhioni gialli che ti fissavano. Mi fu venduto che era un cucciolo appena nato, nella selvaggia regione della sorgente del Rio Negro. Sua madre era stata finita a colpi di lancia, dopo che aveva ucciso una decina di indigeni.

"Dunque, sono animali feroci?"

"Sono le creature più infide e assetate di sangue che esistano sulla faccia terrestre. Prova a parlare di un gatto brasiliano a un indigeno di quelle parti, e vedrai come reagisce. Sono animali che preferiscono cibarsi di esseri umani, che di selvaggina.

Quello che vedi non ha ancora assaggiato sangue umano, ma quando ciò avverrà, sarà il terrore. Ora come ora, nella sua gabbia non tollera nessuno, tranne me. Perfino Baldwin, lo stalliere, non osa avvicinarsi a lui. In quanto a me, gli faccio da padre e da madre." Mentre parlava, con mio grande stupore, aprì improvvisamente la porta e si infilò nella stanza, richiudendola subito alle sue spalle. Al suono della sua voce, l'enorme, agile animale si alzò sbadigliando e gli andò a strofinare affettuosamente il capo nero e rotondo contro il fianco, mentre Everard lo carezzava e lo vezzeggiava.

"Adesso entra nella tua gabbia, Tommy!" gli disse.

L'enorme felino si avviò a un angolo della stanza e si rannicchiò sotto un'inferriata. Everard King uscì, e afferrando la manovella di ferro a cui ho già accennato, prese a girarla. Via via che girava, la fila di sbarre nel corridoio prese a passare attraverso una fessura nella parete e chiuse la parte anteriore di quell'inferriata, in modo da formare una vera e propria gabbia.

Quando fu a posto, egli aprì nuovamente la porta e mi invitò a entrare nella stanza, che era pregna dell'odore acre e pungente proprio ai grossi carnivori.

"E' così che l'abbiamo abituato" mi spiegò. "Di giorno, ha a disposizione tutta la stanza per poter fare un po' di moto, poi la sera lo rinchiudiamo in gabbia. Lo si libera girando la manovella dal corridoio, e si può, come hai visto, rinchiuderlo nello stesso modo. No, no, questo non lo devi fare!" Avevo infilato la mano fra le sbarre per accarezzare il fianco lucido e fremente della belva. Everard me la tirò indietro, con un'espressione seria.

"Ti assicuro che non ci si può fidare di lui. Non credere che chiunque lo possa fare, perché io mi prendo delle libertà con lui.

E' molto esclusivo nelle sue amicizie, vero, Tommy? Ah, sente che sta arrivando la sua cena, Vero, ragazzo?" Infatti udimmo un rumori di passi sull'impiantito del corridoio.

Il felino balzò in piedi e prese a camminare avanti e indietro nell'angusta gabbia, gli occhi gialli che rilucevano e la lingua scarlatta che palpitava fremente sulla candida fila dei denti frastagliati. Uno stalliere entrò con un grosso pezzo di carne su un vassoio e lo gettò all'animale attraverso le sbarre. La bestia l'afferrò, se lo portò in un angolo, e lì, tenendolo fra le zampe, vi affondò voracemente i denti, alzando ogni tanto il muso sporco di sangue per guardarci. Era uno spettacolo crudele eppure affascinante.

"Puoi capire come sia affezionato a Tommy, vero?" disse il mio ospite, mentre uscivamo dalla stanza. "Tanto più se si pensa che sono stato io ad allevarlo. Non è stato facile portarlo fin qui dal centro dell'America meridionale; ma ora è qua, sano e salvo, e come ti ho già detto, esso è di gran lunga l'esemplare più perfetto in tutta l'Europa. La gente dello zoo darebbe non so che cosa per averlo, ma io non potrei separarmene. E adesso, credo proprio di averti inflitto fin troppo il mio hobby, quindi non ci resta che seguire l'esempio di Tommy, e andare a cena." Il mio cugino, chiamiamolo così sudamericano, era talmente preso dalla sua tenuta e dai suoi singolari inquilini, che pareva non avere altri interessi al di fuori di quelli. Che viceversa ne avesse, e molto pressanti, mi fu ben presto dimostrato dal numero di telegrammi che egli riceveva. Arrivavano a tutte le ore, e venivano sempre aperti da lui con un'espressione del viso della massima impazienza e addirittura dell'ansia. Talvolta immaginavo che si trattasse di un suo allibratore, e talvolta del suo agente di cambio, ma certamente si trattava di un affare molto urgente le cui trattative non si svolgevano a Downs nel Suffolk. Durante i sei giorni della mia visita, non ricevette mai meno di tre o quattro telegrammi al giorno, e talvolta perfino sette o otto.

Mi ero così ben destreggiato in quei sei giorni, che al termine di essi ero riuscito a stabilire un rapporto della massima cordialità con mio cugino. Ogni sera eravamo rimasti alzati fino a tardi, nella sala del biliardo, mentre lui mi raccontava i più straordinari racconti delle sue avventure in America, racconti così temerari e spericolati, che mi era quasi impossibile associarli a quell'ometto grassoccio e bruciato dal sole che mi stava davanti. A mia volta, lo intrattenevo con le mie esperienze della vita londinese, che lo interessavano a tal punto da indurlo a dichiarare che sarebbe venuto a trascorrere un lungo periodo da me, a Grosvenor Mansions. Era ansioso di conoscere la vita notturna della città e, modestia a parte, non avrebbe potuto scegliere una guida più competente di me. Fu soltanto l'ultimo giorno della mia visita, che mi azzardai a parlare di ciò che mi stava a cuore. Gli dissi con molta franchezza delle mie difficoltà finanziarie e della mia imminente rovina, e gli chiesi un consiglio, benché sperassi in qualcosa di più concreto. Egli mi ascoltò attentamente, fumando il suo grosso sigaro.

"Ma certo" mi disse "tu sei l'erede del nostro parente, Lord Southerton?"

"Ne sono convinto, ma egli non ha mai voluto assegnarmi una rendita."

"No, no, ho sentito parlare della sua avarizia. Mio povero Marshall, la tua posizione è molto difficile. A proposito, hai avuto recentemente notizie della salute di Lord Southerton?"

"La sua salute è sempre stata critica, fin dalla mia infanzia."

"E magari camperà cent'anni. La tua eredità potrebbe essere ancora molto lontana. Santo cielo, in che brutta situazione ti trovi!"

"Avevo qualche speranza che tu, sapendo come stanno le cose, avresti ritenuto di potermi anticipare..."

"Non dire un'altra parola, mio caro ragazzo" esclamò egli, con la massima cordialità. "Ne riparleremo stasera, e ti do la mia parola che farò quanto è in mio potere..." Non ero del tutto dispiaciuto che la mia visita stesse volgendo al termine, poiché è sgradevole sentire che c'è qualcuno in casa che desidera ardentemente di vederti partire. Il viso giallastro e gli occhi severi della signora King mi diventavano sempre più odiosi.

La donna non era più esplicitamente scortese (il timore di suo marito la tratteneva) ma spingeva la sua insana gelosia al punto di ignorarmi, non parlandomi mai, e industriandosi per rendere il mio soggiorno a Greylands quanto più sgradevole possibile. Il suo atteggiamento nei miei riguardi fu, quell'ultimo giorno, così offensivo, che sarei certamente partito, se non fosse stato per quel colloquio con mio cugino che avrebbe, così mi auguravo, risolto il mio dilemma.

Era molto tardi quando ebbe luogo, poiché il mio parente, che aveva ricevuto, durante la giornata, più telegrammi del solito, si era ritirato nel suo studio dopo pranzo, e ne emerse soltanto quando gli altri membri della casa se ne furono andati a letto. Lo udii fare il giro della casa chiudendo le porte a chiave, come al solito la sera, e infine mi raggiunse nella sala del biliardo. La sua pingue figura era avvolta in una veste da camera, e indossava un paio di pantofole rosse. Prima di sistemarsi in poltrona, si preparò un bicchiere di grog e non potei fare a meno di notare che il whisky predominava di gran lunga sull'acqua.

"Parola mia," esclamò "che nottata da lupi!" Lo era davvero. Il vento ululava e gemeva intorno alla casa, e le finestre vibravano e tintinnavano come se fossero sul punto di cedere. La luce che spandevano le lampade e il profumo dei nostri sigari parevano, per contrasto, più accoglienti e fragranti.

"E ora, ragazzo mio" disse il mio ospite "abbiamo la casa e la serata tutta per noi. Dammi un quadro dei tuoi affari, e io vedrò ciò che si può fare per raddrizzarli. Voglio che tu mi racconti ogni particolare." Così incoraggiato, intrapresi una lunga esposizione nella quale figuravano tutti i miei fornitori e creditori; dal mio padrone di casa al mio cameriere personale. Avevo degli appunti nel portafogli, e conoscevo i miei debiti a menadito; riuscii a dargli un quadro analitico e preciso, oserei dire, delle mie deplorevoli abitudini e della mia precaria situazione. Ero tuttavia avvilito dalla constatazione che gli occhi del mio compagno erano vacui e la sua attenzione rivolta altrove. Quando infatti ogni tanto faceva un commento, era così casuale e privo di senso, che fui sicuro che non aveva minimamente seguito il mio discorso. Ogni tanto si destava e mostrava una parvenza di interesse, chiedendomi di ripetere qualcosa o di spiegarmi meglio, ma sempre per sprofondarsi nuovamente nei propri pensieri. Infine si alzò e gettò il mozzicone del sigaro nel caminetto.

"Ti dirò, ragazzo mio" mi disse. "Le cifre non sono mai state il mio forte, quindi devi scusarmi. Dovresti scrivere tutto quanto su un foglietto, e darmi un appunto del totale. Lo capirò quando lo vedrò nero su bianco." La proposta era incoraggiante. Promisi di farlo.

"E adesso è ora di andare a letto. Per Giove, sta suonando l'una all'orologio dell'ingresso." I rintocchi dell'orologio sovrastarono il frastuono della bufera.

Il vento si avventava sulla casa, con un rombo simile a quello di un grande fiume.

"Bisogna che vada a vedere il mio gatto prima di coricarmi" disse il mio ospite. "Il vento lo eccita. Vuoi venire anche tu?"

"Volentieri."

"Allora cammina in punta di piedi e non parlare, perché gli altri dormono tutti." Attraversammo silenziosamente l'atrio illuminato e ricoperto di tappeti persiani e varcammo la porta nella parete opposta. Il corridoio dall'impiantito di pietra era buio, ma vi era una lanterna appesa ad un gancio, e il mio ospite la staccò e l'accese. Non vidi le sbarre di ferro nel corridoio, perciò capii che la bestia si trovava nella sua gabbia.

"Entra!" disse mio cugino aprendo la porta.

Un sordo ringhio ci accolse quando entrammo; stava a dimostrare che effettivamente la tempesta aveva eccitato l'animale. Alla tremula luce della lanterna lo vedemmo, enorme sagoma nera sdraiata nell'angolo del suo antro, che gettava un'ombra tozza e grottesca sulla parete imbiancata. La sua coda sferzava rabbiosamente la paglia.

"Il povero Tommy non è di un gran buon umore" disse Everard King, alzando la lanterna e affacciandosi alla gabbia. "Sembra proprio un diavolaccio nero, no? Gli darò qualcosa da mangiare per rallegrarlo un poco. Ti dispiace reggere per un momento la lanterna?" Gliela presi di mano ed egli si diresse verso la porta.

"La sua dispensa è proprio qui fuori" mi disse. "Mi scuserai per un istante, vero?" Uscì, e la porta si richiuse alle sue spalle con un colpo secco e metallico.

Quel suono duro e deciso mi agghiacciò il sangue. Un'improvvisa ondata di terrore mi pervase. Fui colto da una vaga percezione di un mostruoso trabocchetto. Balzai verso la porta, ma il lato interno era privo di maniglia.

"Everard," gridai. "Fammi uscire!"

"D'accordo! Ma non fare tanto baccano!" disse mio cugino dal corridoio. "Dopotutto hai la lanterna."

"Sì, ma non ci tengo a rimaner chiuso qui dentro da solo."

"Davvero?" Udii la sua risata cordiale e divertita. "Non rimarrai solo a lungo."

"Fammi uscire, Everard!" ripetei furibondo. "Non mi piacciono gli scherzi di questo genere."

"Un momento" disse egli, con un'altra odiosa risata. Poi udii improvvisamente, fra l'infuriare della tempesta, il cigolio e lo scricchiolio della manovella che girava, e il rumore delle sbarre che passavano attraverso la scanalatura. Gran Dio, stava liberando il gatto brasiliano!

Alla luce della lanterna, vidi le sbarre scivolare davanti a me lentamente. Già vi era un'apertura di una trentina di centimetri sul lato opposto. Con un urlo, afferrai l'ultima sbarra con le mani e la tirai con la forza di un invasato. Ero invasato, dalla furia e dall'orrore. Per un minuto, o fors'anche più, riuscii a tenere immobile la sbarra. Sapevo che egli premeva sulla manovella con tutte le sue forze e sapevo che il potere della leva l'avrebbe ben presto avuta vinta. Cedevo centimetro per centimetro, i miei piedi scivolavano sulle pietre, e tutto il tempo supplicavo e pregavo questo mostro disumano di salvarmi da questa orribile morte. Gli rammentai la nostra parentela. Gli ricordai che ero suo ospite; lo implorai di dirmi che male gli avevo mai fatto. Le sue sole risposte furono gli strappi della manovella, ognuno dei quali, nonostante i miei sforzi disperati, tirava un'altra sbarra attraverso la scanalatura. Fui trascinato, aggrappato e avviticchiato, attraverso tutta la larghezza della gabbia, finché finalmente, con i polsi dolenti e le dita lacerate, rinunciai all'inutile lotta. Le sbarre scomparvero con un rumore di ferraglia quando mollai, e dopo un istante udii lo scalpiccio delle pantofole nel corridoio, e il tonfo della porta lontana. Poi tutto tacque.

Nel frattempo l'animale non si era mosso. Giaceva immobile nell'angolo, aveva smesso di agitare la coda. Questo spettacolo di un uomo aggrappato alle sbarre e trascinato urlante davanti a lui, apparentemente lo aveva riempito di stupore. Avevo lasciato cadere la lanterna quando mi ero afferrato alle sbarre, ma essa non si era spenta, e feci una mossa per riprenderla, con l'idea che in qualche modo la luce mi avrebbe protetto. Ma nell'istante in cui mi mossi, la bestia emise un ringhio profondo e minaccioso. Mi arrestai e rimasi immobile, tremando di paura dalla testa ai piedi. Il gatto (se si può attribuire un nome così pacifico a un tanto orribile animale) giaceva a non più di tre metri da me. I suoi occhi rilucevano come due dischi fosforescenti nell'oscurità.

Mi riempivano di terrore, eppure mi affascinavano. Non riuscivo a distoglierne lo sguardo. La natura ci giuoca degli strani scherzi in simili momenti di tensione, e il bagliore di quegli occhi pareva aumentare e diminuire con un ritmo regolare. Talvolta parevano essere minuscoli punti di una brillantezza estrema, piccole scintille elettriche nella nera oscurità, altre volte invece si ingrandivano sempre più fino a riempire della loro luce sinistra e cangiante tutto l'angolo della stanza. Poi, improvvisamente, si spensero del tutto.

La bestia aveva chiuso gli occhi. Non so se vi sia qualcosa di vero nell'idea che attribuisce un potere particolare allo sguardo umano, o se invece l'enorme gatto fosse semplicemente assonnato, ma resta il fatto che, lungi dal mostrare qualsiasi intenzione di aggredirmi, la bestia appoggiò il liscio capo nero sulle grosse zampe anteriori e parve addormentarsi. Rimasi immobile, non osando muovermi nel timore di ridestarlo. Ero in grado perlomeno di pensare chiaramente, ora che non sentivo più su di me quello sguardo minaccioso. Dunque eccomi qua, rinchiuso per la notte con quella belva feroce. I miei propri istinti, per non parlare delle parole di quell'infida carogna che mi aveva teso questo tranello, mi dicevano che l'animale era altrettanto feroce del suo padrone.

Come avrei potuto tenerlo a bada fino al mattino? Né la porta, né le strette finestre munite di inferriate offrivano alcuna speranza di salvezza. Non vi era riparo alcuno nella nuda stanza. Sarebbe stato assurdo gridare aiuto. Sapevo che questa tana era esterna al corpo vero e proprio dell'edificio, e che il corridoio che la collegava era lungo almeno trenta metri. Inoltre, la bufera che infuriava avrebbe attutito le mie grida. Avevo soltanto il mio coraggio e la mia prontezza d'animo su cui fare affidamento.

E allora, con una nuova ondata di terrore, i miei occhi caddero sulla lanterna. La candela era quasi del tutto consumata, e già la fiamma stava vacillando. Entro dieci minuti si sarebbe spenta.

Così mi restavano soltanto dieci minuti in cui fare qualcosa, poiché sentivo che quando fossi rimasto al buio con quella belva spaventosa, sarei stato incapace di agire. Il solo pensiero mi paralizzava. Disperato, mi guardai attorno in quella cella di morte, e i miei occhi si soffermarono sull'unico punto che pareva promettere, se non la salvezza, perlomeno un pericolo meno immediato e imminente che non il terreno aperto.

Ho detto che la gabbia era munita in alto di un'inferriata orizzontale, che la chiudeva a mo' di soffitto, oltre che di un'inferriata verticale che la divideva dal resto della stanza, e questo soffitto rimaneva al suo posto quando l'inferriata verticale veniva ritratta attraverso l'apertura nella parete. Il soffitto della gabbia era composto di una fila di sbarre a pochi centimetri di distanza l'una dall'altra, e ricoperto da una robusta rete di filo metallico, e le due estremità poggiavano su un grosso palo. Si ergeva come un grande baldacchino metallico sopra la figura accovacciata nell'angolo. Fra questa mensola di ferro e il soffitto vero e proprio c'era uno spazio di un'ottantina di centimetri. Se solo fossi riuscito a inerpicarmi lassù, racchiuso fra le sbarre e il soffitto, avrei avuto un solo lato vulnerabile. Sarei stato difeso dalla parte inferiore, da quella posteriore e dai due lati. Avrei potuto essere attaccato unicamente dalla parte anteriore, aperta. Da quella parte, è vero, non avrei avuto alcuna protezione; ma perlomeno sarei stato fuori dai piedi, quando la belva avesse preso a camminare avanti e indietro per la tana. E avrebbe dovuto fare uno sforzo per raggiungermi. Dovevo tentare subito o mai più, perché una volta che la luce si fosse spenta, sarebbe stato impossibile. Inghiottii spasmodicamente, poi feci un balzo, afferrai il bordo della mensola, e con una spinta possente di tutto il corpo mi ci trovai sopra. Ansimando, mi divincolai bocconi in avanti nell'angusto spazio, e mi trovai a guardare in giù, dritto nei terribili occhi e nella bocca sbadigliante del gatto. Il suo alito fetido mi colpì in faccia, come il vapore da una pentola puzzolente.

Comunque, pareva più incuriosito che adirato. Con un fremito della lunga groppa nera si alzò, si stirò, poi, alzandosi sulle zampe posteriori, appoggiò una delle zampe anteriori contro la parete, sollevò l'altra, e passò gli artigli lungo la rete metallica sotto di me. Un uncino bianco e tagliente sbranò i miei pantaloni bianchi, poiché ero ancora in abito da sera, e mi scavò un solco nel ginocchio. Non era inteso come un attacco, ma piuttosto come un esperimento, poiché al mio improvviso grido di dolore, l'animale si lascio ricadere a terra, e, balzando agilmente nella stanza, prese a percorrerla rapidamente avanti e indietro, gettando ogni tanto uno sguardo nella mia direzione. In quanto a me, mi trascinai indietro finché non mi trovai a giacere con la schiena contro il muro, rannicchiandomi nel minor spazio possibile. Più lontano mi rintanavo, più difficilmente mi poteva attaccare.

Adesso che aveva incominciato a muoversi, sembrava più eccitato, e correva velocemente e silenzioso in giro per la tana, passando continuamente sotto il letto di ferro sul quale giacevo. Era meraviglioso vedere un simile bestione passare come un'ombra, senza alcun suono tranne il fruscio leggero delle zampe vellutate.

La candela era ormai agli sgoccioli per cui a malapena riuscivo a intravedere la belva. Poi, con un ultimo guizzo, si spense del tutto. Ero solo al buio col gatto!

E' più facile affrontare un pericolo quando si sa di aver fatto tutto ciò che è possibile fare. A quel punto, non resta altro che attendere tranquillamente l'esito. In questo caso, il solo posto che offrisse una qualche speranza di salvezza era precisamente quello dove mi trovavo. Perciò mi sdraiai lungo disteso e giacqui in silenzio, senza quasi respirare, sperando che la belva si sarebbe dimenticata della mia presenza se io non avessi fatto niente per ricordargliela. Calcolai che dovevano essere già le due. Alle quattro sarebbe stata l'alba. Dovevo attendere soltanto due ore, prima che fosse giorno.

Fuori, la tempesta continuava a infuriare, e la pioggia sferzava senza soste le piccole finestrelle. All'interno, l'aria era irrespirabile. Non potevo vedere né udire il gatto. Tentai di pensare ad altro, ma vi era un solo pensiero che avesse il potere di distogliere la mia mente dalla mia tremenda situazione: il considerare la malvagità di mio cugino, la sua ipocrisia senza precedenti, il suo perfido odio per me. Sotto quel volto bonario, si nascondeva lo spirito di un assassino di tipo medioevale. E ripensando a quanto era accaduto, vidi chiaramente con quanta astuzia egli avesse eseguito il suo piano. Apparentemente, egli era andato a letto insieme agli altri. Senza dubbio, aveva dei testimoni pronti a dimostrarlo. Poi, a loro insaputa, era sceso di nascosto, mi aveva attirato in questa tana e mi aveva abbandonato.

La sua versione sarebbe stata assolutamente semplice: mi aveva lasciato nella sala dei biliardi, a finire il mio sigaro. Io ero andato per conto mio a dare un'ultima occhiata al gatto. Ero entrato nella stanza senza accorgermi che la gabbia era aperta, ed ero stato aggredito. Come accusarlo di un simile delitto?

Sospetti, forse, ma prove, mai!

Come passarono lentamente quelle due terribile ore! Una volta udii un suono basso, raschiante, e pensai che fosse l'animale che si lisciava il pelo. Più di una volta quegli occhi fosforescenti mi guardarono nel buio, ma mai a lungo, e si rafforzò in me la speranza di essere stato dimenticato o ignorato. Finalmente, un tenue chiarore illuminò le finestre, dapprima le intravidi a malapena come due riquadri grigi sulla parete nera, poi il grigio si trasformò in bianco, e potei nuovamente vedere il mio tremendo compagno. Ed egli, ahimè, poteva vedere me!

Fu subito evidente che era di umore molto più pericoloso e aggressivo di quando lo avevo visto l'ultima volta. Il freddo mattutino lo aveva irritato, inoltre aveva fame. Con un ringhio continuo, camminava velocemente su e giù per il lato della stanza più distante dal mio nascondiglio, con i baffi rabbiosamente irti, e la coda sferzante. Ogni volta che faceva dietro front, alzava su di me i suoi occhi selvaggi, pieni di una terribile minaccia.

Capii allora che intendeva uccidermi. Eppure, anche in un momento simile, non potei fare a meno di ammirare la grazia sinuosa di quel diabolico animale, i suoi lunghi movimenti ondulati, la lucentezza dei magnifici fianchi, il vivo, palpitante scarlatto della lingua luccicante che pendeva dal muso nerissimo. E tutto il tempo quel ringhio profondo e minaccioso saliva e saliva in un crescendo ininterrotto. Seppi che il momento della crisi era giunto.

Era un'ora infelice per incontrare una simile morte, così fredda, così severa; tremavo nel mio leggero abito da sera sul letto di tortura dove ero sdraiato. Tentai di farmi forza per poter affrontare quella morte, di innalzare la mia anima al di sopra di essa, e al medesimo tempo, con la lucidità che sopravviene nei momenti di tale disperazione, tentai di escogitare un mezzo per fuggire. Una cosa era chiara: se le sbarre che formavano la parete anteriore della gabbia fossero state nuovamente al loro posto, avrei potuto trovare dietro ad esse un rifugio sicuro. Mi sarebbe stato possibile riportarle al loro posto? Non osavo muovermi per paura di attirare la bestia su di me. Lentamente, molto lentamente, protesi una mano finché non afferrò l'estremità di quella parete mobile, l'ultima sbarra che sporgeva dal muro. Con mia grande sorpresa, cedette facilmente al mio strattone.

Naturalmente la difficoltà di tirarla dipendeva dal fatto che io vi ero appoggiato. Tirai ancora, e altri cinque centimetri emersero dalla parete. Evidentemente scorreva su ruote. Tirai ancora... e allora il gatto balzò!

Fu così rapido, così improvviso, che non vidi neppure come avvenne. Udii soltanto il ringhio selvaggio, e dopo neanche un istante i gialli occhi fiammeggianti, la testa nera e appiattita con la sua lingua rossa e i denti balenanti mi furono vicinissimi.

L'impatto della belva scosse le sbarre sulle quali giacevo, finché pensai (per quel poco che potevo pensare in un momento simile) che non avrebbero resistito. Il gatto ondeggiò lì per un istante, la testa e le zampe anteriori vicinissime a me, annaspando per cercare un appiglio sul bordo delle sbarre. Udii il raspare degli artigli sulla rete metallica, e il fiato della belva mi diede il voltastomaco. Ma aveva calcolato male il suo balzo. Non riuscì a mantenere la sua posizione. Lentamente, con un ghigno furibondo e annaspando follemente sulle sbarre, si girò indietro e cadde pesantemente a terra. Con un ringhio si girò immediatamente verso di me, accovacciandosi, pronto a balzare nuovamente.

Sapevo che i prossimi istanti avrebbero deciso della mia sorte.

L'animale aveva imparato con l'esperienza. Non avrebbe più sbagliato i suoi calcoli. Dovevo agire immediatamente, intrepidamente, se volevo avere qualche speranza di salvezza. In un istante ideai il mio piano. Togliendomi la giacca, la gettai giù sulla testa della belva. Nello stesso istante, mi lasciai cadere a terra, afferrai la prima sbarra e la tirai freneticamente verso di me.

Cedette più facilmente di quanto non mi fossi aspettato. Mi precipitai attraverso la stanza, tirandomela dietro; ma purtroppo, correndo, mi trovai sul lato esterno della gabbia. Se fosse stato all'incontrario, avrei potuto cavarmela impunemente. Così come andarono le cose, viceversa, vi fu un attimo di sosta mentre mi fermai e tentai di infilarmi attraverso l'apertura che mi ero lasciato. Quell'attimo fu sufficiente all'animale per sbarazzarsi della giacca con la quale lo avevo accecato e per balzarmi addosso. Mi scagliai attraverso l'apertura e chiusi le sbarre dietro di me, ma la belva afferrò la mia gamba prima che avessi il tempo di ritirarla. Un solo colpo di quell'immane zampa mi strappò via il polpaccio, come un truciolo di legno sollevato dalla pialla. L'istante dopo, sanguinante e semi-svenuto, ero disteso fra la putrida paglia, con una fila di amichevoli sbarre fra me e la belva che vi si gettava contro tanto freneticamente.

Ferito in modo troppo grave per potermi muovere, e troppo debole per aver paura, potevo soltanto restare sdraiato, più morto che vivo, e guardarlo. Premeva il suo largo petto nero contro le sbarre e tentava di agguantarmi con le sue zampe ricurve, così come ho visto fare a un gattino davanti alla trappola di un topo.

Mi strappava i vestiti, ma per quanto si sforzasse, non ce la faceva ad arrivare fino a me. Ho sentito parlare del curioso intorpidimento provocato dalle ferite dei grandi animali carnivori, ed ora ero destinato a sperimentarlo di persona, poiché avevo perso qualsiasi senso della realtà, e provavo lo stesso interesse nella sconfitta o nel successo della belva, come se si fosse trattato di un giuoco che io stessi guardando. A poco a poco, la mia mente si perse in strani e vaghi sogni, sempre popolati da quel muso nero e da quella lingua rossa, e così mi smarrii nel nirvana del delirio, che aiuta coloro che troppo hanno sofferto.

Ricostruendo in seguito gli avvenimenti, sono giunto alla conclusione che rimasi privo di conoscenza per quasi due ore. Ciò che mi ridestò fu quel suono secco e metallico che era stato il precursore della mia terribile esperienza. Era il riaprirsi della serratura. Poi, prima che i miei sensi fossero sufficientemente desti per capire chiaramente ciò che vedevano, fui conscio del volto grassoccio e benevolo di mio cugino che si era affacciato alla porta. Ciò che vide dovette stupirlo. Il gatto era accovacciato per terra. Io ero sdraiato supino in maniche di camicia dentro alla gabbia, con i calzoni ridotti a brandelli, e una gran pozza di sangue intorno a me. Ancora oggi rivedo il suo viso stupefatto, illuminato da un raggio di sole. Mi guardò, e mi guardò ancora. Poi si chiuse la porta alle spalle, e si diresse verso la gabbia per accertarsi che fossi davvero morto.

Non sono in grado di raccontare ciò che avvenne. Non ero in condizioni da seguire o da riferire simili avvenimenti. Posso soltanto dire che mi resi improvvisamente conto che il viso di mio cugino non era più rivolto verso di me, stava guardando l'animale.

"Buono, Tommy!" gridò. "Buono, Tommy!" Poi si avvicinò alle sbarre, sempre volgendomi la schiena.

"Giù, stupida bestiaccia!" ruggì. "Giù, Tommy! Non riconosci il tuo padrone?" Di colpo, nella mia mente confusa si fece strada il ricordo delle parole di mio cugino, quando mi aveva detto che il sapore del sangue avrebbe trasformato quel gatto in un demonio. Era stato il mio sangue a compiere la trasformazione, ma lui avrebbe pagato.

"Vai via!" urlò. "Va' via, diavolaccio!... Baldwin! Baldwin! Oh, accidenti!" E poi lo udii cadere, e rialzarsi, e cadere di nuovo, con un rumore simile a una tela da sacco che viene lacerata. I suoi urli si fecero più deboli, poi si persero nel ringhio furioso della belva. Infine, quando già lo credevo morto, vidi, come in un incubo, una figura lacera, cieca, grondante sangue che correva follemente per la stanza, e quella fu l'ultima volta che lo vidi prima di perdere nuovamente i sensi.

La mia degenza durò molti mesi, ma in effetti non posso dire di essere mai guarito, poiché fino alla fine dei miei giorni dovrò servirmi di un bastone come ricordo della notte che passai col gatto brasiliano. Baldwin, lo stalliere, e gli altri domestici non furono in grado di capire ciò che era successo, quando, attirati dalle grida mortali del loro padrone, trovarono me dietro le sbarre e i suoi resti, o ciò che in seguito scoprirono essere i suoi resti, nelle grinfie dell'animale che egli aveva allevato. Lo allontanarono con dei ferri ardenti, e poi dovettero sparargli attraverso la serratura della porta, prima di riuscire a liberarmi. Mi portarono nella mia stanza, e lì, sotto il tetto di colui che aveva tentato di uccidermi, rimasi fra la vita e la morte per parecchie settimane. Era stato convocato un chirurgo da Clipton e un'infermiera da Londra, e dopo un mese potei essere portato alla stazione, e così ritornai a Grosvenor Mansions.

Ho un ricordo di quel periodo, che potrebbe essere stato frutto del sempre cangiante panorama evocato dal delirio, se non fosse così saldamente fissato nella mia memoria. Una notte, quando l'infermiera si era allontanata, la porta della mia camera si aprì, e una donna alta, in gramaglie, scivolò nella stanza. Venne verso di me, e quando chinò il suo volto giallastro, vidi, al debole chiarore del lumino da notte, che era la donna brasiliana che mio cugino aveva sposato. Mi guardò fissamente in viso, e la sua espressione era più gentile di quanto non l'avessi mai vista.

"E' in sé?" mi chiese.

Annuii appena, poiché ero ancora molto debole.

"Bene, allora volevo soltanto dirle che deve rimproverare soltanto se stesso. Non ho forse fatto tutto ciò che ho potuto per lei?

Tentai di mandarla via di casa fin dall'inizio. Tentai in ogni modo, tranne che tradendo mio marito, di salvarla da lui. Sapevo che lui aveva una ragione per portarla qui. Sapevo che non l'avrebbe mai più lasciato andar via. Nessuno lo conosceva come lo conoscevo io, che con lui avevo tanto sofferto. Non osavo dirle tutto questo. Egli mi avrebbe uccisa. Ma ho fatto del mio meglio per salvarla. Così come le cose sono andate, lei è stato il miglior amico che io abbia mai avuto. Mi ha liberata, e io pensavo che solo con la morte sarei stata libera. Mi dispiace che sia stato ferito, ma non posso rimproverarmi. Glielo dissi che lei era un imbecille... e imbecille è stato." Uscì dalla stanza in punta di piedi, quella donna strana e amara, e non la rividi mai più. Con quanto ereditò da suo marito, ritornò nella sua terra nativa; in seguito ho sentito dire che aveva preso il velo a Pernambuco.

Non fu che parecchio tempo dopo il mio ritorno a Londra che i medici mi dichiararono in grado, fisicamente, di potermi occupare dei miei affari. Non era un permesso molto piacevole, poiché temevo che sarebbe stato il segnale per un'invasione di creditori:

ma fu Summers, il mio avvocato, il primo ad approfittarne.

"Sono lieto che stia molto meglio" disse. "E' da tanto che aspetto per porgerle i miei rallegramenti."

"Che intende dire, Summers? Non mi sembra il momento di scherzare."

"Voglio dire proprio ciò che sto dicendo" mi rispose. "Lei è Lord Southerton da sei settimane, ma temevamo di ritardare la sua guarigione, dicendoglielo prima." Lord Southerton! Uno dei più ricchi Pari d'Inghilterra! Non potevo credere ai miei orecchi. Poi di colpo pensai al tempo che era trascorso, e come esso coincidesse con l'epoca in cui ero rimasto ferito.

"Allora Lord Southerton dev'essere morto all'incirca lo stesso giorno in cui sono rimasto ferito?"

"La sua morte avvenne proprio il medesimo giorno." Mentre parlavo Summers mi guardò fissamente e sono convinto, poiché egli è un uomo molto perspicace, che avesse indovinato il vero retroscena della vicenda. Si interruppe per un momento, come in attesa di una mia conferma, ma io non vedevo l'utilità di confermare un simile scandalo familiare.

"Sì, una coincidenza molto strana" continuò con lo stesso sguardo di chi la sa lunga. "Naturalmente, lei sa che suo cugino Everard King era il secondo in linea di eredità al titolo e alla successione. Quindi, se fosse stato lei invece di lui a essere sbranato da quella tigre, o quel che diavolo fosse, naturalmente adesso sarebbe lui Lord Southerton."

"Indubbiamente" replicai.

"Egli si interessava molto al problema" disse Summers. "E' accaduto poi che io venissi a sapere che il cameriere personale di Lord Southerton era prezzolato da suo cugino, e che quest'ultimo riceveva ogni poche ore dei telegrammi da lui nei quali si informava delle condizioni di salute del suo padrone. Doveva essere più o meno l'epoca in cui lei si trovava laggiù. Non è strano che egli desiderasse essere tanto bene informato, dal momento che sapeva di non essere l'erede diretto?"

"Molto strano" dissi. "E adesso, Summers, se vuole portarmi i miei conti e un nuovo libretto degli assegni, cominceremo a sistemare i miei affari."

 

 

 

 

 I RACCONTI DEL MISTERO

 

 

IL TRENO SCOMPARSO

 

La confessione di Herbert de Lernac, che adesso è a Marsiglia in attesa di venir condannato a morte, ha fatto luce su uno dei più inspiegabili delitti di questo secolo, un caso che non credo abbia precedenti negli annali criminali di nessun paese. Nonostante vi sia una certa riluttanza a parlare di questa vicenda negli ambienti ufficiali, e ben poche notizie siano state rilasciate alla stampa, vi sono comunque indicazioni sufficienti per dimostrare che la dichiarazione di questo arci-criminale è corroborata dai fatti, e che è stata finalmente trovata la soluzione a una vicenda sbalorditiva. Poiché il caso è successo otto anni fa, e poiché la sua importanza è stata alquanto oscurata da una crisi politica che a quell'epoca occupava la pubblica opinione, sarà meglio riepilogare i fatti per quanto ci è stato possibile appurarli. Li abbiamo raccolti dai giornali di Liverpool, dal resoconto dell'inchiesta svolta in seguito alla morte di John Slater, il macchinista, e dagli archivi della "London and West Coast Railway Company", che mi sono stati messi a disposizione. In breve, essi sono i seguenti:

Il 3 giugno, 1890, un signore che disse di chiamarsi Louis Caratal, chiese di parlare con il signor James Bland, sovrintendente della stazione "London and West Coast Central" di Liverpool. Questo Caratal era un uomo piccolo e bruno, di mezza età, con un portamento così incurvato da suggerire qualche deformità della spina dorsale. Era accompagnato da un amico, un uomo dal fisico imponente, i cui modi rispettosi e la cui costante attenzione mostravano come fosse lì in qualità di sottoposto.

Questo amico o compagno, di cui non venne fatto il nome, era certamente uno straniero e, a giudicare dalla sua carnagione olivastra, probabilmente uno spagnolo o un sudamericano. Fu notato in lui uno strano particolare. Egli teneva nella mano sinistra una piccola custodia di pelle nera, e un impiegato della stazione, dalla vista acuta, notò che quella custodia era assicurata al suo polso mediante un laccio. Allora non venne attribuita importanza alcuna al fatto, ma ciò che successe in seguito gli conferì un preciso significato.

Il signor Caratal fu accompagnato nell'ufficio del signor Bland, mentre il suo compagno rimase ad attenderlo fuori dalla porta.

Caratal chiarì subito il motivo della sua visita. Era arrivato quel pomeriggio stesso dall'America centrale. Affari della massima importanza gli imponevano di recarsi a Parigi nel minor tempo possibile. Aveva perso il rapido per Londra. Era indispensabile che gli mettessero a disposizione un treno speciale. Non si preoccupava della spesa. Il tempo era il solo fattore che contasse. Se la compagnia gli avesse fornito i mezzi per partire immediatamente, avrebbe potuto fissare i propri prezzi.

Il signor Bland premette un pulsante, chiamò Potter Hood, l'incaricato addetto al movimento ferroviario, e in cinque minuti furono presi gli accordi necessari. Il treno sarebbe partito dopo tre quarti d'ora. Quel tempo era necessario per assicurarsi che la linea fosse sgombra. La potente locomotiva, chiamata Rochdale (numero 247 nel registro della compagnia), venne attaccata a due vagoni, con dietro il vagoncino del capotreno. Il primo vagone serviva unicamente per attenuare il disagio derivante dall'oscillazione. Il secondo era diviso, come al solito, in quattro scompartimenti: uno di prima classe, uno di prima classe per fumatori, uno di seconda, e uno di seconda per fumatori. Il primo scompartimento, quello più vicino alla locomotiva, era quello destinato ai viaggiatori. Gli altri tre erano vuoti. Il capotreno del convoglio speciale era James McPherson, il quale da parecchi anni era alle dipendenze della compagnia. Il macchinista John Slater e il fuochista William Smith, che era stato appena assunto.

Il signor Caratal, uscendo dall'ufficio del sovrintendente, raggiunse il suo compagno, ed entrambi manifestarono la massima impazienza di partire. Avendo pagato la cifra richiesta, che ammontava a cinquanta sterline e cinque scellini, alla consueta tariffa per treni speciali di tre scellini al chilometro, chiesero di essere accompagnati al loro scompartimento, dove presero immediatamente i loro posti, nonostante essi fossero stati informati che avrebbe dovuto trascorrere quasi un'ora prima che la linea potesse essere libera. Nel frattempo, una singolare coincidenza aveva avuto luogo nell'ufficio che il signor Caratal aveva appena lasciato.

Una richiesta per un treno speciale non è un fatto molto raro in un ricco centro commerciale, ma che ne venissero richiesti due nello stesso pomeriggio era assolutamente insolito. Accadde, tuttavia, che pochi istanti dopo che Bland aveva congedato il primo viaggiatore, se ne presentasse un secondo con una richiesta identica. Si trattava stavolta di un certo signor Horace Moore, un tipo dall'aspetto militaresco, il quale dichiarò che la grave e improvvisa malattia di sua moglie a Londra rendeva assolutamente imperativo che egli la raggiungesse senza perdere un solo istante.

La sua pena e la sua ansia erano così evidenti, che Bland fece il possibile per accontentarlo. Un secondo treno speciale era fuori discussione, poiché il normale servizio era già stato un po' messo in crisi dal primo. Vi era tuttavia l'alternativa, che il signor Moore dividesse le spese del treno con il signor Caratal, e viaggiasse nell'altro scompartimento, vuoto, di prima classe, nel caso che il signor Caratal si fosse dichiarato contrario alla sua presenza nel proprio scompartimento.

Sembrava che non ci potesse essere niente da obbiettare per un simile accordo, eppure il signor Caratal, quando la proposta gli venne avanzata da Potter Hood, rifiutò assolutamente di prenderla in considerazione. Il treno era suo, egli disse, ed egli insisteva che gliene fosse riservato l'uso esclusivo. Nessun argomento poté prevalere sulle sue scortesi obbiezioni, e infine il piano dovette essere abbandonato. Il signor Horace Moore lasciò la stazione assai abbattuto, dopo avere appurato che la sola cosa che gli restasse da fare era di prendere il normale treno accelerato che partiva da Liverpool alle sei. Alle quattro e trentuno esatte all'orologio della stazione, il treno speciale con a bordo lo storpio signor Caratal e il suo gigantesco compagno lasciò la stazione di Liverpool. La linea a quell'ora era libera, e non avrebbero dovuto esserci intoppi fino a Manchester.

I treni della "London and West Coast Railway" usufruiscono delle linee di un'altra compagnia fino a quella città, dove il treno speciale avrebbe dovuto arrivare qualche minuto prima delle sei.

Alle sei e un quarto, un telegramma da Manchester, in cui si diceva che il treno non era ancora arrivato, provocò stupore e costernazione fra i funzionari della stazione. Una richiesta diretta a Saint-Helens, che si trova a un terzo della distanza fra le due città, suscitò la seguente risposta:

"A James Bland, Sovrintendente, Central London and West Coast Railway, Liverpool. Treno speciale transitato ore 4,52, perfetto orario. Dowser, Saint-Helens." Questo telegramma fu recapitato alle sei e quaranta. Alle sei e cinquanta, un secondo messaggio venne ricevuto da Manchester:

"Nessun segno del treno speciale da voi annunciato." E dopo dieci minuti un terzo, più sconcertante ancora:

"Riteniamo che abbiate commesso un errore segnalando orario treno speciale. Treno locale da Saint-Helens che secondo vostre informazioni avrebbe dovuto giungere dopo treno speciale è appena arrivato e non ne ha visto traccia. Vi preghiamo di telegrafarci dei chiarimenti. Manchester." La faccenda andava assumendo un aspetto sbalorditivo, benché da un certo punto di vista l'ultimo telegramma recasse un certo sollievo alle autorità di Liverpool. Se il treno speciale aveva avuto un incidente, sembrava impossibile che il treno locale avesse potuto transitare per la stessa linea senza accorgersene. Eppure, qual era l'alternativa? Dove poteva essere finito il treno? Era forse stato deviato, per qualche ragione, su un binario morto, onde lasciar passare il treno più lento? Una spiegazione simile era possibile, nel caso che si fosse resa necessaria una piccola riparazione. Venne inviato un telegramma a ognuna delle stazioni fra Saint-Helens e Manchester, e il sovrintendente e l'addetto al movimento ferroviario, in preda a grande ansia, attesero vicino all'apparecchio la serie di risposte che li avrebbe messi in grado di dire con certezza ciò che era capitato al treno scomparso.

Le risposte giunsero nell'ordine in cui erano state inviate le domande, e cioè l'ordine delle stazioni a partire da Saint-Helens:

"Treno speciale transitato ore 17. Collins Green."

"Treno speciale transitato ore 17,06. Earlestown."

"Treno speciale transitato ore 17,10. Newton."

"Treno speciale transitato ore 17,20. Kenyon Junction."

"Nessun treno speciale transitato di qui. Barton Moss." I due funzionari si guardarono in faccia sbalorditi.

"E' un fatto senza precedenti nei miei trent'anni di esperienza" disse il signor Bland.

"Senza precedenti e del tutto inspiegabile, signore. Il treno speciale deve essersi guastato fra Kenyon Junctions e Barton Moss."

"Eppure non vi sono binari morti, per quanto io ricordi, fra le due stazioni. Il treno deve essere uscito dai binari."

"Ma com'è possibile che l'accelerato delle sedici e cinquanta sia passato per la stessa linea senza accorgersene?"

"Non ci sono alternative, signor Hood. Deve essere così. Può darsi che il personale del treno locale abbia notato qualcosa che possa chiarire la faccenda. Telegraferemo a Manchester per chiedere ulteriori informazioni, e a Kenyon Junction pregandoli di controllare immediatamente la linea fino a Barton Moss." La risposta da Manchester arrivò dopo pochi minuti.

"Nessuna notizia del treno scomparso. Macchinista e capotreno dell'accelerato sicurissimi nessun incidente fra Kenyon Junction e Barton Moss. Binari sgombri e nessun segno di irregolarità.

Manchester."

"Quei due, il macchinista e il capotreno, dovranno essere licenziati" disse il signor Bland furibondo. "C'è stato un incidente e non se ne sono accorti. Quel treno speciale è evidentemente deragliato senza ingombrare la linea; come questo sia potuto accadere, supera la mia capacità di immaginazione, ma deve essere così, e ben presto riceveremo un telegramma da Kenyon o da Barton Moss in cui ci avvertono di averlo trovato in fondo a una scarpata." Ma non era destino che la previsione del signor Bland si avverasse. Trascorse mezz'ora, e arrivò il seguente messaggio dal capo stazione di Kenyon Junction:

"Nessuna traccia del treno scomparso. E' assodato che il treno è transitato di qui e che non è giunto a Barton Moss. Abbiamo staccato locomotiva dal treno merci e io stesso ho percorso la linea, ma è del tutto sgombra e non vi sono tracce di incidenti." Il signor Bland si strappò i capelli al colmo della disperazione.

"E' pura follia, Hood!" esclamò. "Le pare possibile che un treno svanisca nel nulla, qui in Inghilterra, in pieno giorno? E' assurdo. Una locomotiva, un tender, due vagoni, un vagoncino, cinque esseri umani... tutti scomparsi su un tratto di binari perfettamente diritto! A meno di non ricevere qualche notizia positiva entro un'ora, prenderò l'ispettore Collins e andrò lì di persona." Infine accadde qualcosa di positivo. Venne sotto forma di un altro telegramma da Kenyon Junction.

"Rattristati dovervi informare che cadavere di John Slater, macchinista del treno speciale, è stato appena rinvenuto fra i cespugli a quattro chilometri da Kenyon Junction. E' caduto dalla locomotiva, rotolato giù per il terrapieno e finito fra i cespugli. Le ferite alla testa provocate dalla caduta sembra siano la causa della morte. La zona all'intorno è stata attentamente controllata ma non vi è traccia del treno mancante." La nazione, come già abbiamo detto, era travagliata da una crisi politica, e l'attenzione del pubblico era ulteriormente distolta da importanti e sensazionali avvenimenti a Parigi, dove un enorme scandalo minacciava di far saltare il governo e di rovinare le reputazioni di molti fra i personaggi più in vista della Francia.

I giornali erano pieni di questi avvenimenti, e la singolare scomparsa del treno speciale attirò meno attenzione di quanto non avrebbe fatto in momenti più tranquilli. La grottesca natura del caso contribuì a minimizzarne l'importanza, poiché i giornali erano poco propensi a credere ai fatti di cui erano stati informati. Più di un giornale londinese considerò la faccenda alla stregua di un'abile beffa, finché l'istruttoria riguardo allo sfortunato macchinista (istruttoria che non appurò niente di importante) non li convinse della tragica natura del caso.

Il signor Bland, accompagnato dall'ispettore Collins, l'investigatore con la massima anzianità di grado alle dipendenze della compagnia, si recò a Kenyon Junction la sera stessa, e le loro ricerche durarono tutta la giornata successiva, ma con risultati assolutamente negativi. Non soltanto non venne trovata alcuna traccia del treno mancante, ma non poté essere avanzata alcuna ipotesi che potesse comunque spiegare l'accaduto. Al tempo stesso, il rapporto ufficiale dell'ispettore Collins (che ho qui sotto i miei occhi mentre scrivo) servì a mostrare che le possibilità erano più numerose di quanto non ci si potesse aspettare.

"Nel tratto di linea ferroviaria fra queste due località" vi si legge "la campagna è punteggiata da ferriere e da miniere di carbone. Di queste ultime, alcune vengono ancora sfruttate e altre sono state abbandonate Almeno dodici di queste miniere dispongono di linee a scartamento ridotto per portare i carrelli trasportatori alla linea principale. Naturalmente, le possiamo escludere. Oltre a queste, però, ve ne sono sette che hanno, o avevano, linee a scartamento normale collegate alla linea principale, per trasportare i loro prodotti direttamente dall'imbocco della miniera ai grandi centri di distribuzione.

Tutte queste linee, senza eccezione, non superano tratti di pochi chilometri. Delle sette linee, quattro appartengono a miniere ormai abbandonate, o perlomeno a pozzi che non vengono più sfruttati. Queste sono le miniere di Redgauntlet, Hero, Slough of Despond e Heartsease; quest'ultima, dieci anni fa, era una delle principali miniere del Lancashire. Possiamo eliminare queste quattro diramazioni dalla nostra indagine, poiché, per evitare possibili incidenti, i binari più vicini alla linea principale sono stati tolti, e non vi è più nessun collegamento. Restano altre tre diramazioni che conducono: la prima alle Ferriere Carnstock; la seconda alla Miniera Big Ben e la terza alla Miniera Perseverance.

"Di queste, la linea che porta alla Miniera Big Ben è lunga appena mezzo chilometro, e termina davanti a un deposito di carbone posto proprio all'imbocco della miniera, in attesa di essere caricato.

Nessuno lì ha visto o udito niente di particolare. La linea della Ferriera Carnstock è stata bloccata tutto il giorno 3 giugno da sedici vagoni di ematite. E' a binario unico, e pertanto non potrebbe essere transitato nessun altro treno. Quanto alla linea della Miniera Perseverance, si tratta di un doppio binario di una certa lunghezza, dove si svolge un notevole traffico, poiché la produzione della miniera è molto forte. Il 3 giugno, questo traffico si svolgeva come al solito; centinaia di uomini, compresa una squadra di operai addetta alla riparazione delle massicciate, lavoravano lungo i tre chilometri e mezzo che costituiscono la lunghezza totale della linea, ed è inconcepibile che un treno possa essere transitato inopinatamente per di là senza destare l'attenzione generale. Possiamo, inoltre, aggiungere che questa diramazione è più vicina a Saint-Helens di quanto non lo sia il punto dove è stato rinvenuto il macchinista, per cui possiamo ritenere con fondate ragioni che il treno ha sorpassato la diramazione.

"In quanto a John Slater, non possiamo ricavare nessun indizio dal suo aspetto né dalle sue ferite. Possiamo soltanto dire che, a quanto ci risulta, egli è morto cadendo dalla locomotiva; ma perché egli sia caduto, o che cosa sia capitato alla locomotiva dopo la sua caduta, è una domanda alla quale non ritengo di poter rispondere." In seguito, l'ispettore diede le sue dimissioni dal consiglio di amministrazione, indispettito dall'essere stato accusato di incompetenza dalla stampa.

Trascorse un mese, durante il quale sia la polizia che la compagnia continuarono a svolgere le loro indagini, senza il minimo successo. Fu offerta una ricompensa e fu promesso il perdono nel caso di un delitto, ma nessuna delle due cose sortì un effetto.

Ogni giorno il pubblico apriva il giornale convinto che un mistero tanto grottesco sarebbe stato finalmente risolto, ma le settimane passavano, e la soluzione restava un pio desiderio. Un treno con i suoi occupanti era scomparso in pieno giorno, in un pomeriggio di giugno, nella regione più densamente popolata dell'Inghilterra, come se un esperto in chimica occulta l'avesse trasformato in un gas. In effetti, fra le varie ipotesi formulate dalla stampa, ve ne erano alcune che sostenevano con tutta serietà che vi fossero coinvolte delle forze soprannaturali, o, perlomeno, preternaturali, e che il deforme signor Caratal era probabilmente una persona che è meglio conosciuta sotto altro, e meno lusinghiero, nome. Altri sostennero che fosse il suo olivastro compagno l'autore del guaio, ma che cosa esattamente egli avesse fatto, mai si fu in grado di formulare.

Fra le molte teorie avanzate dai vari giornali o privati cittadini, ce n'erano una o due abbastanza plausibili da colpire l'attenzione del pubblico. Una di queste, che apparve sul Times, firmata da un filosofo dilettante che a quell'epoca godeva di una certa fama, tentava di chiarire la vicenda in maniera critica e semi-scientifica. Sarà sufficiente citarne qui un estratto, anche se il lettore curioso potrà leggere tutta la lettera nel numero del 3 luglio.

"E' uno dei princìpi elementari del pensiero pratico" egli commentava "che quando l'impossibile sia stato eliminato, ciò che resta, per quanto improbabile, deve contenere la verità. E' certo che il treno sia transitato per Kenyon Junction. E' certo che esso non è mai arrivato a Barton Moss. E' estremamente improbabile, ma non impossibile, che abbia imboccato una delle sette diramazioni esistenti. E' chiaramente impossibile che un treno vada dove non ci sono rotaie e, pertanto, possiamo ridurre il numero delle nostre improbabilità alle tre diramazioni aperte, e cioè la ferriera Carnstock e le miniere Big Ben e Perseverance. Esiste una società segreta, una Camorra inglese, in grado di distruggere sia un treno che i suoi passeggeri? E' improbabile, ma non impossibile. Confesso di non essere in grado di suggerire altre soluzioni. Consiglierei vivamente alla compagnia di incanalare tutte le sue energie nell'effettuare un controllo di queste tre linee, e degli operai che vi lavoravano. Un attento esame dei monti di pegno nella zona potrebbe dare dei frutti interessanti." Il fatto che il suggerimento provenisse da un'autorità indiscussa in queste faccende creò un interesse notevole e una feroce opposizione da parte di coloro che ritenevano che una tale dichiarazione fosse una gratuita calunnia nei confronti di una così onesta e meritevole categoria. L'autore della lettera si limitò a rispondere a queste critiche, sfidando gli obbiettori a offrire al pubblico una più plausibile spiegazione.

Ne giunsero due, in risposta (Times, 7 e 9 luglio). La prima suggeriva che il treno poteva essere uscito dai binari ed essere sprofondato nel Lancashire and Staffordshire Canal, il quale corre parallelo alla ferrovia per qualche centinaia di metri. Questo suggerimento fu decisamente scartato per via della profondità del canale, del tutto insufficiente per nascondere una simile mole. Il secondo interlocutore scriveva, richiamando l'attenzione alla custodia che pareva essere il solo bagaglio che i viaggiatori si fossero portati appresso, e suggerendo che qualche nuovo esplosivo, di immenso potere polverizzante, vi potesse essere stato nascosto. L'evidente assurdità nell'immaginare che l'intero treno potesse essere polverizzato mentre le rotaie rimanevano indenni, ridusse una simile spiegazione a una farsa. Le indagini erano giunte a questo punto morto, quando avvenne un nuovo e del tutto inaspettato sviluppo.

Si trattava di una lettera scritta alla signora McPherson da parte di suo marito, James McPherson, il capotreno scomparso. La lettera, datata 5 luglio, 1890, era stata imbucata a New York e giunse a destinazione il 14 luglio. Qualcuno espresse un dubbio sulla sua autenticità, ma la signora McPherson riconobbe la scrittura di suo marito, e il fatto che vi fossero allegati cento dollari in biglietti da cinque dollari fu sufficiente per dissipare il sospetto di uno scherzo. La lettera non conteneva alcun indirizzo; eccone il testo:

"Mia cara moglie, "Ti ho molto pensato in questi giorni, ed è assai duro rinunciare a te. Lo stesso vale per Lizzie. Cerco di essere forte, ma non credo che ce la farò.. Ti mando dei quattrini, che potrai cambiare in una ventina di sterline. Dovrebbero bastare per far venire in America sia te che Lizzie; vedrai che le navi che partono da Amburgo e che fanno scalo a Southampton sono molto buone, e meno care di quelle che partono da Liverpool. Se tu potessi venire qui e fermarti alla Johnson House, farei del mio meglio per farti sapere dove ci potremo incontrare, ma per ora sono in una situazione piuttosto difficile, e mi sento molto infelice all'idea di dover rinunciare a voi due. Basta per oggi, un abbraccio affettuoso da tuo marito. James McPherson."

Per un po', nessuno mise in dubbio che questa lettera non sarebbe servita per chiarire tutta la faccenda, tanto più quando fu accertato che un passeggero molto somigliante al capotreno scomparso aveva viaggiato sotto il nome di Summers sulla nave Vistula della linea Amburgo-New York, salpata il 7 giugno. La signora McPherson e sua sorella Lizzie Dolton andarono a New York secondo le istruzioni, e si fermarono per tre settimane alla Johnson House, ma senza ricevere alcuna notizia da parte dell'uomo scomparso. E' probabile che alcuni incauti commenti della stampa lo avessero avvisato che la polizia si serviva delle due donne come esca. Questo comunque non è certo, ma è certo che lui né scrisse né si fece vivo di persona, per cui le due donne furono costrette a tornare a Liverpool.

A questo punto rimase la vicenda, e ha continuato a rimanere fino ad oggi, 1898. Per incredibile che possa sembrare, in questi otto anni non è emerso nulla che abbia gettato la minima luce sulla straordinaria scomparsa del treno speciale che portava il signor Caratal e il suo compagno. Le approfondite ricerche svolte per chiarire i trascorsi dei due viaggiatori sono servite soltanto a stabilire il fatto che Caratal era assai noto come finanziere e agente politico nell'America centrale, e che durante il suo viaggio in Europa egli si era mostrato esageratamente ansioso di raggiungere Parigi. Il suo compagno, che dalle liste dei passeggeri risultò chiamarsi Eduardo Gomez, era un uomo dal passato violento, con una reputazione di sicario e di prepotente.

Risultava chiaro, tuttavia, che egli aveva avuto sinceramente a cuore gli interessi del signor Caratal, e che quest'ultimo, essendo di debole costituzione, aveva assunto Gomez come sua guardia personale. Possiamo aggiungere che da Parigi non giunse alcuna informazione che si riferisse alle ragioni del frettoloso viaggio intrapreso dal signor Caratal. Questi sono tutti i fatti noti inerenti al caso, fino alla pubblicazione nei giornali di Marsiglia della recente confessione di Herbert de Lernac, ora in attesa della condanna a morte per l'omicidio di un mercante a nome Bonvalot. Tale dichiarazione può essere letteralmente tradotta come segue:

"Non è per puro orgoglio o vanteria che do le seguenti informazioni; se infatti fosse quello il mio scopo, potrei raccontare una decina di imprese altrettanto splendide; lo faccio, invece, perché certi signori di Parigi si mettano bene in testa che io, così come mi accingo a raccontare la fine del signor Caratal, sono anche in grado di fare i nomi delle persone nel cui interesse e per cui richiesta il fatto avvenne, a meno che non mi venga al più presto concessa la grazia che sto attendendo. State quindi attenti, signori, prima che sia troppo tardi, Voi conoscete Herbert de Lernac, e sapete che egli mantiene ciò che dice.

Affrettatevi dunque, o siete perduti!

"Per ora non farò nomi - se solo sentiste i nomi, che cosa non pensereste, - ma vi dirò soltanto con quanta abilità io abbia agito. Allora io fui leale con i miei superiori, e non dubito che essi saranno leali con me adesso. Lo spero, e finché non sarò convinto che essi mi hanno tradito, questi nomi, che sconvolgerebbero l'Europa, non saranno divulgati. Ma quel giorno... be', non voglio aggiungere altro!

"Dunque, venendo al sodo, vi fu un famoso processo a Parigi nel 1890, a proposito di un mostruoso scandalo politico e finanziario.

Nessuno era in grado di sapere quanto mostruoso fosse quello scandalo, tranne quegli agenti confidenziali quale io ero. L'onore e la carriera di numerosi uomini più importanti della Francia erano in gioco. Vi sarà capitato di vedere un gruppo di birilli in fila, tutti rigidi, impettiti e severi. Poi da molto lontano arriva la palla e pop, pop, pop, i birilli si rovesciano tutti.

Be', immaginate che alcuni dei più grandi uomini della Francia fossero questi birilli, e che il signor Caratal fosse la palla e che la si potesse veder giungere da lontano. Se lui fosse arrivato, sarebbe stato pop, pop, pop per tutti i birilli. Si decise che egli non sarebbe arrivato.

"Non accuso tutti, naturalmente, di essere stati al corrente di quanto stava per accadere. Vi erano in gioco, come ho già detto, enormi interessi sia finanziari che politici e venne organizzato una specie di trust che si doveva occupare della faccenda. Alcuni si iscrissero senza neppur sapere molto chiaramente quali fossero i suoi obbiettivi. Ma altri li conoscevano benissimo, e costoro possono star certi che non ho dimenticato i loro nomi. Essi furono avvertiti dell'arrivo del signor Caratal molto tempo prima che egli partisse dal Sud America, ed essi sapevano che le prove che egli avrebbe portato con sé avrebbero significato la rovina per tutti loro. Questo "trust" disponeva di una quantità illimitata di fondi. Ripeto: assolutamente illimitata. I suoi membri cercarono un agente che fosse in grado di esercitare questo enorme potere.

L'uomo prescelto doveva essere risoluto, malleabile e pieno di fantasia, un uomo fra un milione di altri uomini. Scelsero Herbert de Lernac, e devo ammettere che scelsero bene.

"I miei incarichi erano di scegliere i miei subordinati, di servirmi liberamente del potere conferitomi dal denaro, e di assicurarmi che il signor Caratal non giungesse mai a Parigi. Con la mia caratteristica energia mi misi al lavoro non appena ebbi ricevuto le istruzioni, e i passi che intrapresi erano i migliori e i più atti allo scopo che mente umana potesse escogitare.

"Un uomo di mia fiducia fu mandato immediatamente nel Sud America per compiere il viaggio di ritorno con il signor Caratal. Se solo fosse arrivato in tempo, la nave non sarebbe mai giunta a Liverpool; ma, ahimè, essa era partita prima dell'arrivo del mio agente. Feci attrezzare un piccolo brigantino armato per intercettarla, ma nuovamente la fortuna non mi arrise. Come tutti i grandi organizzatori, avevo tuttavia previsto gli eventuali insuccessi ed avevo già pronte una serie di alternative, di cui almeno una avrebbe funzionato. Non dovete sottovalutare le difficoltà della mia impresa, né immaginare che un semplice e comune omicidio sarebbe bastato. Dovevamo distruggere non soltanto il signor Caratal, ma anche i suoi documenti, e i suoi compagni, se ci fossero stati fondati motivi di credere che egli avesse comunicato loro i suoi segreti. Dovete considerare inoltre che essi stavano in guardia, estremamente sospettosi di eventuali attentati. Era un compito, sotto ogni aspetto, degno di me, poiché è proprio dove gli altri vacillano, che io sono maggiormente audace.

"Avevo predisposto ogni cosa per l'arrivo del signor Caratal a Liverpool, ed ero tanto più impaziente perché mi risultava che egli aveva preso accordi per godere di una massiccia sorveglianza fin dal suo arrivo a Londra. Qualsiasi cosa intendessi fare, andava fatta fra il momento in cui metteva piede sul molo di Liverpool e il suo arrivo alla stazione di Londra. Preparammo sei piani, di cui uno più elaborato dell'altro; di quale dei sei ci saremmo serviti, ciò sarebbe dipeso dalle mosse del nostro avversario. Qualsiasi cosa avesse fatto, noi eravamo pronti. Se si fosse trattenuto a Liverpool, eravamo pronti. Se avesse preso un accelerato, un rapido, o un treno speciale, tutto era pronto.

Tutto era stato previsto: avevamo provveduto a tutto.

"Come potete ben immaginare, non potevo fare tutto questo da solo.

Cosa potevo saperne io delle linee ferroviarie inglesi? Ma i quattrini possono procurare agenti volenterosi in tutto il mondo, e ben presto ebbi dalla mia, per assistermi, una delle menti più acute d'Inghilterra. Non voglio fare nomi, ma sarebbe ingiusto che io mi rivendicassi tutto il merito. Il mio alleato inglese era degno di tale alleanza. Conosceva a fondo la linea "London and West Coast", ed aveva alle sue dipendenze una squadra di uomini fidati e intelligenti. Il piano fu suo, e il mio giudizio si rese necessario solo nei particolari. Corrompemmo vari funzionari, fra i quali il più importante era James McPherson, che secondo i nostri accertamenti ci risultava essere l'uomo che aveva le maggiori probabilità di venir prescelto quale capotreno di un treno speciale. Smith, il fuochista, era anch'egli dei nostri.

John Slater, il macchinista, era stato abbordato, ma si era mostrato testardo e pericoloso, e pertanto desistemmo. Non eravamo certi che il signor Caratal avrebbe richiesto un treno speciale, ma lo ritenevamo molto probabile, poiché era oltremodo importante per lui raggiungere rapidamente Parigi.

"Per questa contingenza noi predisponemmo le cose in modo particolare e molto tempo prima che la sua nave avvistasse le coste dell'Inghilterra. Forse vi potrà divertire il sapere che vi era uno dei miei uomini nel battello pilota che condusse in porto quella nave.

"Nell'istante in cui Caratal giunse a Liverpool, comprendemmo che egli intuiva il pericolo e che stava in guardia. Si era portato come scorta un tipo pericoloso, un certo Gomez, un uomo armato e che non avrebbe certo esitato a servirsi delle sue armi. Era lui a portare le carte confidenziali di Caratal, ed era pronto a proteggere sia quelle che il suo padrone. Probabilmente Caratal lo aveva messo al corrente dei suoi segreti, e quindi liberarsi di Caratal senza liberarsi di Gomez sarebbe stato uno spreco di energie. Era indispensabile per noi che quei due facessero la stessa fine, e i nostri progetti in quel senso furono assai facilitati dalla loro richiesta di un treno speciale.

"Tenete in mente che, su quel treno speciale, due dei tre dipendenti della compagnia erano assoldati da noi, per una cifra che li avrebbe resi indipendenti per il resto della loro vita. Non voglio arrivare a dire che gli inglesi siano più onesti di qualsiasi altro popolo, però mi sono accorto che l'onestà ha per loro un prezzo più alto.

"Ho già parlato del mio agente inglese, il quale ha un promettente avvenire davanti a sé, a meno che un qualche disordine delle corde vocali non se lo porti via prima del tempo. Egli era incaricato di compiere i passi necessari a Liverpool, mentre io mi trovavo nell'albergo di Kenyon, dove aspettavo un segnale cifrato per mettermi in moto. Quando furono presi gli accordi per il treno speciale, il mio agente mi telegrafò istantaneamente e mi disse l'ora per cui avrei dovuto tenermi pronto. Egli stesso, sotto il nome di Horace Moore, fece a sua volta un'immediata richiesta per un treno speciale, nella speranza di riuscire a viaggiare nello stesso treno del signor Caratal, cosa che, in certe circostanze, avrebbe potuto esserci assai utile. Se per esempio, il nostro grande colpo avesse fatto fiasco, sarebbe stato compito del mio agente di sparare a entrambi e di distruggere le loro carte.

Caratal, invece, stava bene in guardia, e rifiutò la presenza di altri passeggeri. Quindi il mio agente si allontanò dalla stazione, vi rientrò da un altro ingresso, salì nel vagoncino del capotreno dal lato opposto a quello della banchina, e compì il tragitto con McPherson, il capotreno.

"Vi potrà interessare sapere quali fossero le mie mosse nel frattempo. Tutto era ormai pronto da parecchi giorni, e mancavano soltanto gli ultimi tocchi. La diramazione che avevamo scelto era un tempo collegata alla linea principale, ma era stata interrotta.

Bastava riattare alcuni metri di rotaie per ricollegarla al resto della derivazione. Avevamo già rimesso il maggior numero di rotaie che era possibile mettere senza correre il rischio di attirare l'attenzione, e ora si trattava soltanto di completare la congiunzione con la linea principale, e di sistemare gli scambi nella loro posizione originale. Le traversine non erano mai state tolte, e le rotaie e i grossi chiodi, che avevamo tolti da un binario morto della diramazione abbandonata, erano lì pronti. Con la mia piccola ma capace squadra di operai, sistemammo tutto molto tempo prima che giungesse il treno speciale. Quando infine arrivò, infilò la diramazione così facilmente che i due passeggeri non parvero neanche avvedersi della scossa provocata dallo scambio.

"Il nostro progetto prevedeva che Smith, il fuochista, cloroformizzasse John Slater, il macchinista, in modo che quest'ultimo scomparisse con gli altri. Sotto questo aspetto, e unicamente sotto questo aspetto, i nostri piani fallirono. Sorvolo sulla criminale follia che spinse McPherson a scrivere a sua moglie. Il nostro fuochista fece la sua parte con tanta goffaggine che Slater, dibattendosi, cadde dalla locomotiva, e nonostante che la fortuna fosse dalla nostra, poiché, cadendo, si ruppe il collo, tuttavia egli rimane una macchia nera su quello che altrimenti sarebbe stato uno di quei capolavori assoluti, che si possono contemplare soltanto in una specie di muta ammirazione. L'esperto in criminologia troverà in John Slater l'unico difetto nella nostra ammirevole regia. Un uomo che ha avuto i trionfi che ho avuto io, può permettersi di essere franco, e quindi io metto un dito su John Slater, e lo definisco un "difetto".

"Ma ora il nostro treno sta percorrendo la breve diramazione lunga circa due chilometri, che porta, o piuttosto portava, alla miniera abbandonata di Heartsease, che ai suoi tempi era una delle più grandi miniere di carbone dell'Inghilterra. Voi mi chiederete come fosse possibile che nessuno abbia visto il treno percorrere questa linea ormai in disuso. Io vi rispondo che la linea, per tutta la sua lunghezza, si snoda in un profondo avvallamento, e che, a meno che non si fosse stati sul ciglio di quell'avvallamento, nessuno avrebbe potuto vederlo. Ma vi era qualcuno sul ciglio di quell'avvallamento. Io ero lì. Ecco che cosa vidi:

"Il mio assistente era rimasto vicino allo scambio in modo da sovrintendere al deviamento del treno. Aveva con sé quattro uomini armati, così che se il treno avesse deragliato, cosa che ritenevamo possibile, perché gli scambi erano molto arrugginiti, avremmo potuto ugualmente far fronte alla situazione. Una volta che il treno ebbe felicemente superato lo scambio, egli cedette a me la responsabilità dell'azione. Io aspettavo in un punto che guarda dall'alto l'imbocco della miniera, ed ero anch'io armato, come lo erano i miei due compagni. Qualsiasi cosa fosse potuta accadere, io ero sempre pronto.

"Non appena il treno ebbe percorso un breve tratto della linea, Smith, il fuochista, rallentò la locomotiva, e poi, dopo averla spinta nuovamente alla massima velocità, lui e McPherson, con il mio agente inglese, balzarono giù prima che fosse troppo tardi.

Può darsi che sia stato questo rallentamento a richiamare l'attenzione dei viaggiatori, ma il treno correva di nuovo a tutta velocità prima che le loro teste si fossero affacciate al finestrino aperto. Mi viene da sorridere, al pensiero del loro smarrimento. Provate a immaginarvi ciò che voi stessi avreste provato se, affacciandovi dal vostro lussuoso scompartimento, vi foste improvvisamente accorti che i binari sui quali state viaggiando sono arrugginiti, corrosi, rossastri, giallastri per il mancato uso. Che tuffo al cuore dovettero provare, quando di colpo capirono che non era Manchester, ma la Morte, che li attendeva al termine di quel sinistro viaggio.

"Il treno viaggiava a velocità folle, rullando e oscillando sui binari marci, mentre le ruote emettevano un gemito spaventoso sulla superficie rugginosa. Io ero vicino a loro e potei vedere i loro volti. Caratal stava pregando, credo; aveva qualcosa di simile a un rosario che gli pendeva dalla mano. L'altro ruggiva come un toro che sente l'odore del sangue del macello. Ci vide fermi sul ciglio e ci fece dei cenni frenetici. Poi si strappò qualcosa dal polso, e gettò la custodia fuori dal finestrino, verso di noi. Naturalmente, il significato del suo gesto era chiaro. Ecco le prove, ed essi ci avrebbero garantito il silenzio, se noi avessimo salvato loro la vita. Sarebbe stato molto simpatico poterlo fare ma gli affari sono affari. Inoltre, il treno era ormai fuori dal nostro dominio, quanto lo era dal loro.

"Gomez cessò di urlare quando il treno imboccò la curva ed essi videro la nera bocca della miniera spalancarsi davanti a loro.

Avevamo tolto le assi che la ricoprivano e avevamo sgombrato l'entrata. Un tempo, i binari si fermavano molto vicini al pozzo per poter caricare più facilmente il carbone, e dovemmo soltanto aggiungere due o tre tronchi di binario per farli giungere proprio all'orlo del pozzo. In effetti, poiché i binari non coincidevano del tutto, la linea superava l'orlo di circa un metro. Vedemmo le due teste al finestrino: Caratal in basso, Gomez sopra; ciò che avevano visto, li aveva ridotti al silenzio. Eppure non riuscivano a tener dentro la testa. Pareva fossero paralizzati.

"Mi ero chiesto come il treno, procedendo a così forte velocità, avrebbe imboccato il pozzo nel quale lo avevo guidato, e ci tenevo molto a vederlo. Uno dei miei colleghi riteneva che il treno lo avrebbe addirittura superato, ed effettivamente poco ci mancò. Per fortuna, invece, non ce la fece a superare il vuoto, e i respingenti della locomotiva colpirono l'altra sponda del pozzo con uno schianto fragoroso. La ciminiera volò via. Tender, vagoni e vagoncino si sfasciarono in un solo mucchio di ferraglia, che, insieme ai resti della locomotiva, ostruirono per un minuto e più l'imboccatura del pozzo. Poi qualcosa cedette nel mezzo, e tutta la massa di ferro verde, di carboni fumanti, rifiniture di ottone, ruote, rivestimenti in legno, e cuscini franarono assieme e precipitarono nella miniera. Udimmo il frastuono dei rottami che urtavano le pareti del pozzo, poi, dopo parecchio tempo, ci giunse un rombo immane: i resti del treno cozzavano contro il fondo. Può darsi anche che fosse scoppiata la caldaia, poiché al rombo fece seguito uno schianto secco, e una densa nube di vapore e fumo uscì turbinando dalle nere profondità, ricadendo attorno ai noi come pioggia. Poi il vapore si dileguò in nuvolette leggere, che si allontanarono nel chiaro cielo estivo, e il silenzio ricadde sulla miniera di Heartsease.

"Eseguiti i piani con tanto successo, per noi rimaneva solo il problema di cancellare le nostre tracce. La piccola squadra di operai all'altro capo della linea aveva già divelto i binari e staccato la diramazione dalla linea principale, rimettendo ogni cosa al punto di prima. Noi eravamo ugualmente affaccendati alla miniera. La ciminiera e altri frammenti furono gettati dentro, il pozzo fu ricoperto come prima da assi, e i binari che vi conducevano furono divelti e portati via. Poi, senza fretta, ma senza perdere tempo, lasciammo il paese, la maggioranza di noi diretti a Parigi, il mio collega inglese a Manchester, e McPherson a Southampton, donde emigrò in America. Possono testimoniare i giornali inglesi di quell'epoca con quanta precisione e meticolosità compimmo il nostro lavoro, e con quanta abilità riuscimmo a far perdere le nostre tracce ai più abili dei loro investigatori.

"Gomez aveva gettato dal finestrino la sua cartella con i documenti; è inutile che vi dica che io me ne impossessai immediatamente portandoli ai miei superiori. Oggi tuttavia potrà interessare i miei superiori di sapere che tolsi dalla cartella uno o due fogli, una specie di ricordo del fatto. Non ho alcun desiderio di rendere noto il contenuto di quei fogli; però a questo mondo, ciascuno deve badare ai propri interessi e cos'altro posso fare, se i miei amici non vorranno aiutarmi quando io ho bisogno di loro? Credetemi pure, signori, Herbert de Lernac è altrettanto temibile come nemico che come amico, ed egli non è uomo da andare alla ghigliottina finché non vi ha visti tutti quanti "en route" per la Nuova Caledonia. Per amor vostro, se non per il mio, affrettatevi, "Monsieur de...", e "Général...", e "Baron..." (potete riempire voi stessi i puntini di sospensione leggendo queste mie righe). Vi prometto che nella prossima edizione non vi saranno vuoti da riempire."

"Post Scriptum - Rileggendo queste mie righe, mi accorgo di un'unica omissione. Si riferisce al disgraziato McPherson, che fu tanto sciocco da scrivere a sua moglie e da fissarle un appuntamento a New York. E' evidente che, quando ci sono in gioco degli interessi come i nostri, non potevamo affidarli alla probabilità che un uomo della sua classe sociale tradisse i suoi segreti con una donna. Avendo mancato una volta alla sua parola con la lettera alla moglie, non potevamo più fidarci di lui. Ci premunimmo, dunque, perché l'amico non fosse in grado di rivedere la donna. Talvolta ho pensato che sarebbe stato cortese scriverle, assicurandole che non esiste impedimento alcuno per un suo nuovo matrimonio."

 

 

 

L'UOMO DAGLI OROLOGI

 

Ci sono certamente parecchie persone che ricordano ancora le singolari circostanze che, sotto il titolo "Il mistero di Rugby", riempirono molte colonne dei quotidiani nella primavera del 1892.

Capitando infatti in un periodo eccezionalmente scarso di notizie, il fatto attirò forse più attenzione di quanto non meritasse; tuttavia esso offriva al pubblico quel miscuglio di assurdo e di tragico che è il dato più stimolante per l'immaginazione popolare.

L'interesse però decadde quando, dopo settimane di infruttuose ricerche, fu chiaro che non sarebbe sopraggiunta alcuna definitiva spiegazione ai fatti. La tragedia è parsa finora rimanere in un oscuro catalogo di delitti inspiegabili e senza imputati. Un recente comunicato, la cui autenticità pare essere indiscutibile, ha gettato tuttavia una nuova e più chiara luce sulla faccenda.

Prima di renderlo noto al pubblico sarà utile, penso, rinfrescarne la memoria, relativamente ai singolari fatti sui quali si basa questo comunicato. I fatti sono questi:

Alle ore cinque pomeridiane del 18 marzo dell'anno già menzionato, un treno diretto a Manchester lasciava "Euston Station". Pioveva e tirava un forte vento e, col passare delle ore, il tempo si faceva sempre più burrascoso, tanto che non era certamente la giornata in cui una persona avrebbe scelto di viaggiare, a meno di non esservi costretta. Quel treno, tuttavia, è il preferito dagli uomini di affari di Manchester che rientrano da Londra, poiché compie il tragitto in quattro ore e venti minuti, effettuando tre sole fermate. Nonostante quindi la serata inclemente il treno era quasi al completo. Il capotreno era un fedele dipendente della compagnia, un uomo che aveva lavorato per ventidue anni, senza che nessuno avesse mai trovato da ridire sul suo lavoro. Si chiamava John Palmer.

Le lancette dell'orologio della stazione segnavano le diciassette e il capotreno stava per dare il consueto segnale al macchinista, quando si avvide che due passeggeri ritardatari si stavano affrettando lungo la banchina. Uno di essi era un uomo eccezionalmente alto, e indossava un lungo cappotto nero con collo e polsi di astrakan. Ho già detto che la serata era inclemente, e il viaggiatore aveva alzato il bavero per proteggersi il collo dal gelido vento di marzo. Doveva avere, per quanto il capotreno potesse giudicare da una tanto affrettata osservazione, fra i cinquanta e i sessant'anni. Tuttavia aveva conservato il passo risoluto ed energico della giovinezza. Aveva con sé una valigetta di pelle color marrone. Era accompagnato da una signora, alta e di portamento eretto, la quale camminava con un passo vigoroso che distanziava il suo compagno. Indossava un lungo spolverino marrone chiaro, un cappello nero aderente e un velo scuro che le nascondeva quasi tutto il viso. I due avrebbero potuto benissimo passare per padre e figlia. Camminavano rapidamente lungo la teoria dei vagoni, gli occhi rivolti ai finestrini, fintanto che il capotreno, John Palmer, non li raggiunse.

"Si affretti, signore, il treno sta partendo" diss'egli.

"Prima classe" rispose l'uomo.

Il capotreno girò la maniglia dello sportello più vicino. Nello scompartimento, sedeva un uomo con in bocca un sigaro. Il suo aspetto rimase impresso nella memoria del capotreno, poiché, in seguito, fu in grado di descriverlo. Era un uomo sui trentaquattro, trentacinque anni, vestito di grigio, dall'espressione sveglia, il volto rossiccio e provato dalle intemperie, il naso aguzzo e con una piccola barba nera tagliata molto corta. Alzò gli occhi quando lo sportello fu aperto. L'uomo alto indugiò, col piede già sul predellino.

"Questo è uno scompartimento per fumatori. Alla signora dà fastidio il fumo" disse, rivolgendosi al capotreno.

"Va bene, Ecco qua, signore!" replicò John Palmer. Sbatté lo sportello dello scompartimento per fumatori, aprì quello accanto, che era vuoto, e aiutò i due a salirvi. Nello stesso istante diede il segnale di partenza e le ruote del treno cominciarono a girare.

L'uomo col sigaro si era affacciato al finestrino del suo scompartimento, e gridò qualcosa al capotreno mentre gli passava davanti, ma le parole si persero nel frastuono della partenza. Il capotreno salì nel suo vagoncino, quando giunse alla sua altezza, e non pensò più all'incidente.

Dodici minuti dopo la partenza, il treno raggiunse Willesden Junction, dove si fermò per una brevissima sosta. Un successivo controllo dei biglietti dimostrò che nessuno scese o salì sul treno durante la sosta, e che nessun passeggero fu visto scendere sulla banchina. Alle diciassette e quattordici il treno ripartì, e raggiunse Rugby alle diciotto e cinquanta, con un ritardo di cinque minuti.

A Rugby, i funzionari della stazione notarono che lo sportello di uno degli scompartimenti di prima classe era aperto. Un esame di quello scompartimento, e di quello attiguo, rivelò una situazione quanto mai preoccupante.

Lo scompartimento per fumatori nel quale era stato visto l'uomo dal viso rubicondo e la barba nera, adesso era vuoto. Tranne un sigaro fumato per metà, non vi era alcuna traccia del suo occupante. Lo sportello di questo scompartimento era chiuso. Nello scompartimento attiguo, quello che aveva richiamato l'attenzione, non vi era traccia alcuna né del signore con il bavero di astrakan, né della giovane donna che lo accompagnava. Tutti e tre i passeggeri erano scomparsi. Viceversa, trovarono sul pavimento di questo scompartimento, quello occupato dal viaggiatore alto e dalla signora, un giovane, elegantemente vestito e di aspetto distinto. Giaceva con le ginocchia piegate e la testa appoggiata contro lo sportello del lato opposto, e i gomiti, uno di qua, uno di là, sui due sedili. Una pallottola gli aveva trapassato il cuore, e la sua morte doveva essere stata istantanea. Nessuno aveva visto quell'uomo salire sul treno, e nessun biglietto ferroviario fu rinvenuto nelle sue tasche, né vi erano segni particolari nei suoi abiti, e tantomeno documenti od oggetti personali che potessero servire a identificarlo. Chi egli fosse, donde venisse, e in che modo avesse trovato la morte, erano tre interrogativi tanto misteriosi quanto era misterioso ciò che era accaduto alle tre persone che un'ora e mezzo prima, a Willesden, erano in quei due scompartimenti.

Ho detto che non vi erano oggetti personali che servissero a identificarlo, ma viceversa vi era in questo giovanotto sconosciuto un particolare assai strano che a quell'epoca destò non pochi commenti. Nelle sue tasche furono rinvenuti nientemeno che sei costosi orologi d'oro, tre nelle varie tasche del panciotto, due nel taschino della giacca, e uno piccolo, legato a un cinturino di cuoio e fissato sul polso sinistro. La spiegazione più ovvia, e cioè che il giovanotto fosse un borsaiolo e che gli orologi costituissero il suo bottino, era screditata dal fatto che tutti e sei erano americani, e di un tipo assai raro in Inghilterra. Tre di essi recavano il marchio di fabbrica della "Rochester Watchmaking Company"; uno proveniva dalla "Mason Company" di Elmira; uno era senza marchio; e quello piccolo, incrostato di gioielli, proveniva da "Tiffany", di New York.

Inoltre, nelle sue tasche furono rinvenuti un temperino di avorio munito di cavaturacciolo della ditta "Rodgers", di Sheffield; un piccolissimo specchio rotondo, di un paio di centimetri di diametro; una contromarca del "Lyceum Theatre"; una scatoletta d'argento piena di fiammiferi; un portasigari di cuoio marrone con due sigari, e due sterline e quattordici scellini in contanti. Era quindi chiaro, che qualsiasi fossero i motivi che avevano causato la sua morte, la rapina non vi era compresa. Come ho già detto, non vi erano etichette sui suoi vestiti, che sembravano nuovi, né il nome del sarto sul cappotto. Di aspetto era giovane, piuttosto piccolo, aveva i lineamenti delicati e la carnagione liscia. Uno dei suoi incisivi aveva una vistosa otturazione d'oro.

Dopo la scoperta del cadavere, fu effettuato un immediato controllo dei biglietti di tutti i passeggeri, e furono contati i passeggeri stessi. Risultarono esservi soltanto tre biglietti in sovrappiù, corrispondenti ai tre viaggiatori mancanti. Il treno poté quindi riprendere il viaggio, accompagnato però da un nuovo capotreno, e John Palmer fu trattenuto a Rugby come testimone. Il vagone che comprendeva i due scompartimenti in questione fu staccato e avviato su un binario morto. Poi, all'arrivo dell'ispettore Vane, di Scotland Yard, e del signor Henderson, un investigatore alle dipendenze della compagnia ferroviaria, fu svolta un'esauriente indagine.

Che un delitto fosse stato commesso era indiscutibile. La pallottola, che sembrava provenire da un piccola pistola o da un revolver, era stata sparata da una certa distanza, poiché gli abiti non erano bruciacchiati. Nello scompartimento non venne trovata alcuna arma (il che eliminò l'ipotesi di suicidio), né vi fu più traccia della valigetta di pelle marrone che il capotreno aveva visto in mano al viaggiatore alto. Un ombrello da signora fu trovato sulla reticella, ma non vi era nessun'altra traccia, nei due scompartimenti dei viaggiatori. A parte il delitto, l'interrogativo di come o perché tre passeggeri (tra cui una donna) fossero scesi dal treno e un altro salito durante l'ininterrotta corsa fra Willesden e Rugby, era tale da destare la massima curiosità nel pubblico, e diede adito nella stampa londinese a una serie di congetture.

John Palmer, il capotreno, fu in grado di fornire alcune informazioni all'istruttoria preliminare, che gettò un po' di luce sulla vicenda. Vi era un punto fra Tring e Cheddington, stando alla sua dichiarazione, dove, per restauri alla linea, il treno aveva rallentato per qualche minuto la sua andatura a un velocità non superiore ai dodici - quindici chilometri orari. In quel punto, un uomo o anche una donna eccezionalmente svelta, avrebbe potuto scendere dal treno senza gravi conseguenze. Vero è che vi era una squadra di operai addetti alla posa delle rotaie, e che essi non avevano visto niente, ma era loro consuetudine, quando passava un treno, di aspettare fra un binario e l'altro, e lo sportello aperto dello scompartimento si trovava sull'altro lato, di modo che era plausibile che qualcuno fosse sceso senza essere visto, tanto più che a quell'ora doveva essere ormai quasi buio.

Un ripido terrapieno avrebbe immediatamente nascosto agli occhi degli operai chiunque fosse balzato dal treno.

Il capotreno dichiarò inoltre che vi era parecchio movimento sulla banchina di Willesden Junction, e benché risultasse che nessuno fosse salito sul treno o ne fosse disceso lì, era comunque possibile che qualcuno dei passeggeri fosse passato da uno scompartimento all'altro senza essere visto. Non era affatto raro che un viaggiatore finisse di fumare un sigaro in uno scompartimento per fumatori, e poi si trasferisse in uno con l'aria più respirabile. Supponendo che l'uomo con la barba nera avesse fatto ciò a Willesden (e il sigaro fumato a metà sul pavimento pareva confermare l'ipotesi), naturalmente si era spostato nello scompartimento più vicino, venendo in tal modo a trovarsi in compagnia degli altri due protagonisti del dramma. Il primo atto della vicenda poteva così essere ricostruito senza eccessivo sforzo di immaginazione. Ma quale fosse stato il secondo atto, o come si fosse svolto quello finale, né il capotreno né gli investigatori, per quanto abili, furono in grado di suggerirlo.

Un attento sopralluogo alla linea fra Willesden e Rugby favorì una scoperta che poteva o meno avere un rapporto con la tragedia.

Vicino a Tring, proprio dove il treno aveva rallentato, venne trovata in fondo al terrapieno una piccola Bibbia tascabile, assai logora e consunta. Era stampata dalla "Bible Society" di Londra, e recava una dedica sulla prima pagina:

"Da John a Alice. 13 gennaio, 1856". Sotto vi era scritto: "James, 4 luglio, 1859". E sotto ancora: "Edward, 1 novembre, 1869".

Tutte le annotazioni risultavano fatte dalla stessa mano. Questo fu il solo indizio, se indizio lo si può chiamare, che la polizia scoprì e il verdetto del magistrato inquirente di "Omicidio per mano di persona o persone ignote" fu l'insoddisfacente finale di un caso singolare. Inserzioni, ricompense e ricerche si dimostrarono ugualmente infruttuose, e non fu trovato niente di sufficientemente concreto per costituire da base a una proficua indagine.

Sarebbe tuttavia un errore supporre che non fossero formulate ipotesi per spiegare la vicenda. Al contrario, la stampa, sia in Inghilterra che in America, pullulava di suggerimenti e supposizioni, gran parte dei quali palesemente assurdi. Il fatto che gli orologi fossero di fabbricazione americana, e qualche particolare riguardo all'otturazione d'oro dell'incisivo parevano indicare che il defunto fosse cittadino degli Stati Uniti, nonostante che i suoi abiti e stivali fossero indubbiamente inglesi. Alcuni ritennero che egli si era nascosto sotto il sedile, e che, essendo stato scoperto, fosse stato ucciso per qualche ragione dai suoi compagni di viaggio, forse per aver udito i loro colpevoli segreti. Collegata con alcuni luoghi comuni che circolavano sulla ferocia e sull'astuzia degli anarchici e di altre società segrete, questa ipotesi trovò i suoi seguaci.

Il fatto che egli fosse privo di biglietto, pareva avallare l'ipotesi che avesse voluto nascondersi, ed era risaputo che le donne ricoprivano un ruolo importante nella propaganda nichilista.

D'altra parte, era chiaro, dalla dichiarazione del capotreno, che l'uomo doveva essersi nascosto lì prima che gli altri arrivassero, e com'era improbabile la coincidenza che i cospiratori capitassero proprio nello scompartimento nel quale una spia era già nascosta!

Inoltre, questa spiegazione non teneva conto dell'uomo nello scompartimento per fumatori, e non forniva alcuna ragione per la sua simultanea scomparsa. La polizia non ebbe difficoltà a dimostrare che una simile teoria non teneva sufficientemente conto dei fatti, ma non fu in grado, per mancanza di prove, di avanzare una diversa alternativa.

Apparve nel "Daily Gazette" una lettera, firmata da un noto detective, che provocò a quell'epoca una nutrita polemica. Egli aveva formulato un'ipotesi che, se non altro, era ingegnosa. Potrà essere utile trascriverla qui.

"Qualsiasi possa essere la verità" diceva la lettera "essa deve dipendere da una bizzarra e rara combinazione di eventi, per cui non dobbiamo esitare a dare questi eventi per scontati se vogliamo spiegarli. In mancanza di dati, dobbiamo abbandonare il metodo analitico o scientifico dell'indagine, e dobbiamo abbordarla in maniera sintetica. In altre parole, invece di partire da eventi conosciuti e dedurre da essi ciò che è accaduto, dobbiamo fabbricare una spiegazione ipotetica, che dovrà però corrispondere agli elementi che conosciamo. Metteremo poi alla prova la nostra spiegazione con ogni nuovo fatto che possa emergere. Se tutti i fatti combaceranno, ciò dimostrerà che siamo sulla giusta via; e con ogni nuovo fatto, questa probabilità aumenta in progressione geometrica finché la prova non diventi decisiva e convincente.

"Ora, vi è un fatto oltremodo suggestivo e interessante che non ha avuto l'attenzione che meritava. Vi è un treno locale che fa servizio fra Harrow e King's Langley, che, stando all'orario, deve essere stato raggiunto dal treno rapido all'incirca nel momento in cui quest'ultimo stava rallentando la sua velocità a dodici chilometri orari per via dei lavori sulla linea. Quindi i due treni stavano viaggiando nella stessa direzione, a uguale velocità e su linee parallele. Tutti quanti sanno, per averlo sperimentato di persona, come, in casi analoghi, l'occupante di ogni scompartimento possa vedere benissimo i passeggeri del vagone dirimpetto a lui. Le luci del rapido erano state accese a Willesden, di modo che ogni scompartimento era illuminato, e del tutto visibile a un osservatore esterno.

"Dunque, la sequenza degli eventi così come io li ho ricostruiti sarebbe questa: il giovanotto con l'abnorme quantità di orologi era solo in uno scompartimento del treno locale. Il suo biglietto, assieme ai suoi giornali e guanti e altri oggetti, era, supporremo, sul sedile accanto a lui. Si trattava probabilmente di un americano, e probabilmente di un uomo di scarsa intelligenza.

Indossare un numero eccessivo di gioielli è un precoce sintomo di certe forme di pazzia.

"Mentre se ne stava seduto a guardare gli scompartimenti del rapido che andavano (per via delle condizioni della linea) alla sua stessa velocità, vi vide improvvisamente delle persone che egli conosceva. Immaginiamo, ai fini della nostra teoria, che queste persone fossero una donna che egli amava e un uomo che egli odiava, e che a sua volta odiava lui. Il giovane era eccitabile e impulsivo. Aperto lo sportello del suo scompartimento, passò dal predellino del treno locale a quello del rapido, aprì l'altro sportello e si trovò in presenza degli altri due. L'impresa (sempre che i due treni stessero viaggiando alla stessa velocità) non è tanto difficile come si potrebbe pensare.

"Ecco dunque che il nostro giovanotto, senza biglietto, si trova nello scompartimento nel quale stanno viaggiando il signore anziano e la giovane donna, e non è difficile immaginare che ne conseguì una violenta scenata. E' possibile che anche la coppia fosse americana, anzi, assai probabile, dal momento che l'uomo era armato, cosa assai insolita in Inghilterra. Se la nostra ipotesi di pazzia incipiente è esatta, è facile pensare che il giovanotto abbia aggredito il suo rivale. L'esito della lotta fu che l'uomo anziano sparò all'intruso e poi fuggì dallo scompartimento, portando con sé la giovane donna. Riteniamo che tutto questo si sia svolto molto rapidamente, e che il treno andasse ancora a una velocità tale da consentir loro di scendere. Una donna può essere in grado di scendere da un treno che viaggia a dodici chilometri l'ora. In effetti, noi sappiamo che questa donna lo ha fatto.

"E ora dobbiamo situare nel quadro l'uomo con il sigaro.

Presumendo di avere ricostruito correttamente la tragedia fino a questo punto, non vi è niente in quest'altro uomo che ci induca a cambiare le nostre conclusioni. Stando alla mia teoria, quest'uomo ha visto il giovanotto passare da un treno all'altro, lo ha visto aprire lo sportello, ha udito il colpo di pistola, ha visto i due fuggiaschi balzare a terra, si è reso conto che un omicidio era stato commesso e, balzato a terra a sua volta, ha tentato di inseguirli. Da allora non si è più saputo nulla di lui: forse è andato incontro alla morte durante l'inseguimento o, cosa assai più probabile, gli è stato detto che il fatto non lo riguardava.

Si tratta di una alternativa che ora come ora non siamo in grado di chiarire. Ammetto che vi sono alcuni punti oscuri. A prima vista, può sembrare improbabile che in un momento simile un omicida abbia voluto intralciare la sua fuga con una valigia di pelle marrone. La mia risposta è che egli sapeva bene che se la valigia fosse stata ritrovata, avrebbero potuto identificarlo facilmente. Era assolutamente indispensabile che lui se la portasse con sé. La mia teoria regge o cade su un particolare, e faccio appello alla compagnia ferroviaria di svolgere una immediata inchiesta per stabilire se venne trovato un biglietto privo di proprietario sul treno locale che fa servizio fra Harrow e King's Langley il giorno 18 marzo. Se tale biglietto è stato trovato, la mia ipotesi è confermata. In caso contrario, la mia ipotesi può ugualmente essere esatta, poiché è concepibile che egli viaggiasse senza biglietto, o che il suo biglietto fosse andato smarrito." La risposta della polizia e della compagnia ferroviaria a questa elaborata e plausibile ipotesi fu, in primo luogo, che nessun biglietto del genere era mai stato ritrovato; in secondo luogo, che il treno locale non percorre mai quella linea contemporaneamente al rapido; e, in terzo luogo, che il treno locale era fermo alla stazione di King's Langley, quando il rapido, viaggiando a ottanta chilometri orari, lo aveva sorpassato. Fu così smantellata la sola spiegazione soddisfacente, e cinque anni sono trascorsi senza che se ne presentasse un'altra.

Ora, finalmente, giunge una precisazione che soddisfa ogni particolare, e che dobbiamo considerare emessa in perfetta buona fede. E' stata presentata sotto forma di una lettera spedita da New York, indirizzata allo stesso detective la cui ipotesi ho citato. Viene riprodotta qui per esteso, eccezion fatta per i primi due paragrafi, che sono di carattere strettamente personale:

"Lei mi scuserà, se non faccio molti nomi. In questo, sono meno giustificato adesso di quanto non lo fossi cinque anni fa, quando mia madre era ancora viva. Ma nonostante ciò, preferisco nascondere le mie tracce quanto più mi è possibile. Ma le devo una spiegazione, poiché anche se la sua versione dell'accaduto era completamente sbagliata, essa era comunque molto ingegnosa. Dovrò rifarmi a parecchi anni fa, perché lei possa rendersi conto della vicenda.

"I miei erano originari del Bucks, Inghilterra, ed emigrarono negli Stati Uniti verso il 1850. Si stabilirono a Rochester, nello Stato di New York, dove mio padre aprì un negozio di mercerie.

Aveva due figli: James, io, appunto, ed Edward, mio fratello. Io avevo dieci anni più di mio fratello, e dopo la morte di mio padre gli feci io da padre: da bravo fratello maggiore. Era un ragazzo vivace e intelligente, e una delle più belle creature che siano mai esistite. Ma fin da piccolo c'era in lui qualcosa di corrotto e, come la muffa nel formaggio, si allargava sempre più. Per quanto si tentasse, non si riusciva a bloccarlo. Nostra madre se ne rendeva conto quanto me, ma ugualmente continuò a viziarlo, perché Edward ci sapeva fare così bene, che era impossibile rifiutargli alcunché. Usai ogni mezzo per tenergli testa, e lui appunto per questo mi odiava.

"Infine ne combinò di ogni colore e, per quanto tentassimo, nessuno riuscì più a bloccarlo. Si rifugiò a New York e le cose andarono rapidamente di male in peggio. All'inizio, era soltanto dissoluto, poi divenne un piccolo delinquente; poi, dopo un anno o due, divenne uno dei più famigerati giovani furfanti della città.

Aveva stretto amicizia con Sparrow MacCoy, un individuo degno di lui, truffatore notissimo. Si misero a fare i bari, frequentando i migliori alberghi di New York. Mio fratello era un ottimo attore (avrebbe potuto diventare qualcuno, se solo lo avesse voluto) e, a seconda delle necessità di Sparrow MacCoy, si fingeva un giovane titolato inglese, un semplice ragazzo del West, o uno studente universitario. Poi un giorno si travestì da ragazza, e recitò così bene la parte, funzionando tanto bene da esca, che da allora quello fu il loro giochetto preferito. Erano riusciti a corrompere Tammany Hall e la polizia, e pareva che niente li avrebbe mai fermati, perché allora non esisteva ancora il comitato Lexow, e se uno era ben introdotto, poteva fare quanto voleva.

"Niente li avrebbe bloccati se si fossero accontentati delle partite a carte e di rimanere a New York; invece pensarono di venire a Rochester e di apporre una firma falsa su un assegno. Fu mio fratello a farlo, ma tutti sapevano che era stato ispirato da Sparrow MacCoy. Fui costretto a coprire quell'assegno, e mi costò una bella cifra. Poi andai da mio fratello, glielo misi sotto il naso, e giurai di denunciarlo se non avesse lasciato il paese. In un primo momento, mi rise in faccia. Non potevo denunciarlo, disse, se non volevo spezzare il cuore a nostra madre, e lui sapeva che io non potevo agire così. Gli feci capire, tuttavia, che il cuore di nostra madre era comunque spezzato, e che io preferivo vederlo in una prigione di Rochester che non in un albergo di New York. Cedette infine, e mi promise solennemente che non avrebbe mai più visto Sparrow MacCoy, che se ne sarebbe andato in Europa, e che si sarebbe dedicato a qualsiasi lavoro io gli avessi procurato. Senza perdere tempo lo accompagnai da un vecchio amico di famiglia, Joe Wilson, che esporta orologi e sveglie americane, e lo indussi ad affidargli un'agenzia a Londra, con un piccolo salario e una provvigione del quindici per cento su tutte le vendite. Il suo aspetto e il suo comportamento gli valsero l'immediata fiducia del mio vecchio amico, ed entro una settimana partì per Londra con una valigia di campioni.

"Ebbi l'impressione che la faccenda dell'assegno fosse stata una salutare lezione per mio fratello, e che ci fosse ancora qualche speranza. Mia madre gli aveva parlato a lungo, e ciò che gli aveva detto lo aveva commosso, perché lei era sempre stata la migliore delle madri, e lui naturalmente era stato il grande dolore della sua vita. Ma io sapevo che questo Sparrow MacCoy aveva una grandissima influenza su di lui, e che soltanto troncando i legami fra loro potevo sperare che mio fratello si salvasse. Avevo un amico nella polizia di New York e, tramite costui, tenni d'occhio Sparrow MacCoy. Quando, neanche due settimane dopo la partenza di Edward, venni a sapere che MacCoy aveva prenotato un passaggio sull'"Etruria", fui certo, come se me lo avesse detto, che andava in Inghilterra per indurre Edward a riprendere la vita di prima.

Decisi immediatamente che ci sarei andato anch'io, e che avrei fatto valere la mia influenza su quella di MacCoy. Sapevo che era una battaglia persa in partenza, ma io ritenevo, e mia madre pure riteneva, che fosse mio dovere agire in questo modo. Passammo l'ultima sera pregando insieme per il mio successo, e lei mi diede la Bibbia che mio padre le aveva regalato il giorno del loro matrimonio nella loro vecchia patria, di modo che io potessi tenerla sempre vicino al cuore.

"Sulla nave, ero compagno di viaggio di Sparrow MacCoy, e almeno ebbi la magra consolazione di rovinargli i suoi programmi per la traversata. La prima sera del viaggio mi recai nella sala da giuoco e lo trovai seduto a un tavolo con una mezza dozzina di giovanotti che portavano in Europa i loro portafogli imbottiti e le loro zucche vuote. MacCoy si stava preparando a raccogliere un assai lauto bottino. Non persi tempo.

"Signori" dissi, "vi rendete conto chi è l'uomo con cui state giuocando?"

"E a lei cosa gliene importa? Si occupi degli affari suoi!" replicò MacCoy, con una bestemmia.

"Chi è, si può sapere?" chiese uno di quei giovani imbecilli.

"Sparrow MacCoy, il più famigerato baro degli Stati Uniti."

"MacCoy balzò in piedi con una bottiglia in mano, ma si ricordò di essere sotto la giurisdizione della vecchia Europa, dove imperano la legge e l'ordine, e dove Tammany Hall non ha alcun potere. Il carcere e la forca puniscono la violenza e l'omicidio, e su un transatlantico non ci si mette in salvo scappando dalla porta di servizio.

"Provi quello che ha detto, cane maledetto!" gridò MacCoy.

"Lo farò" replicai. "Se lei tira su la manica destra della camicia fino alla spalla, proverò le mie parole o me le rimangerò."

"MacCoy impallidì e non aggiunse parola. Vede, io conoscevo alcuni dei suoi trucchi, e sapevo che uno di essi, di cui si servono lui e i suoi colleghi, consiste in un elastico che scende lungo il braccio con una molletta proprio al di sopra del polso. E' per mezzo di questa molletta che essi si liberano delle carte indesiderate che si trovano in mano, mentre vi sostituiscono altre carte da un altro nascondiglio. Contavo sulla presenza di quella molletta, e infatti c'era. Lui mi maledisse, uscì dalla sala con la coda fra le gambe, e non si fece più vedere per tutta la traversata. Per una volta, almeno, avevo prevalso sul signor Sparrow MacCoy.

"Non tardò a prendersi la sua vendetta naturalmente, poiché, quando si trattava di influenzare mio fratello, lui mi batteva comunque. Edward si era comportato bene le prime settimane a Londra, e aveva fatto qualche buon affare con i suoi orologi americani, finché quel furfante non lo andò a cercare. Io feci del mio meglio, ma il mio meglio non era sufficiente. Poco dopo sentii dire che in uno degli alberghi di Northumberland Avenue vi era stato uno scandalo: un cliente era stato spogliato di una grossa somma da due bari americani, e la faccenda era nelle mani di Scotland Yard. Appresi l'accaduto dal giornale della sera, ed ebbi immediatamente la certezza che mio fratello e MacCoy avevano ripreso le loro vecchie abitudini. Mi affrettai subito all'alloggio di Edward. Mi dissero che lui e un signore alto (capii che si trattava di MacCoy) se ne erano andati insieme, e che lui aveva disdetto la camera, portandosi via la sua roba.

L'affittacamere li aveva sentiti dare varie istruzioni al cocchiere, terminando con Euston Station, e per caso aveva sentito dire al signore alto qualcosa a proposito di Manchester. La donna riteneva che quella fosse la loro destinazione.

"Un'occhiata all'orario mi convinse che il treno più probabile era quello delle diciassette, benché forse avrebbero potuto prendere anche quello delle sedici e trentacinque. Ormai io non potevo acciuffare che quello delle diciassette e dei due non vidi traccia né alla stazione, né nel treno. Dovevano aver preso quello precedente; mi risolsi lo stesso a seguirli a Manchester e a cercarli negli alberghi di quella città. Un ultimo appello a mio fratello, ricordandogli nostra madre e tutto ciò che aveva fatto per lui, poteva ancora essere la sua salvezza. Avevo i nervi tesi, e per calmarli accesi un sigaro. In quell'istante, proprio mentre il treno stava per partire, lo sportello del mio scompartimento si aprì di colpo, e vidi sulla banchina MacCoy e mio fratello.

"Erano entrambi travestiti, e con ragione, poiché sapevano che la polizia di Londra era sulle loro tracce. MacCoy aveva un grande collo di astrakan che gli lasciava liberi solo gli occhi e il naso. Mio fratello era vestito da donna, ma naturalmente il suo abbigliamento non mi trasse in inganno, e non mi avrebbe ingannato anche se non avessi saputo che spesse volte in passato si era travestito in tal modo. Come stavo per alzarmi, MacCoy mi riconobbe. Disse qualcosa, il capotreno sbatté lo sportello e li introdusse nello scompartimento attiguo. Tentai di far fermare il convoglio per poterli seguire, ma già le ruote si muovevano ed era troppo tardi.

"Quando ci fermammo a Willesden, cambiai subito scompartimento.

Pare che nessuno mi abbia notato, e non me ne meraviglio, poiché la stazione era assai affollata. Naturalmente MacCoy mi stava aspettando, e aveva trascorso il tempo fra Euston e Willesden dicendo tutto ciò che poteva per indurire il cuore di mio fratello e mettermelo contro. Questo io lo intuii, poiché non lo avevo mai visto così irremovibile. Tentai ogni mezzo; gli descrissi il suo avvenire in un carcere inglese; gli parlai del dolore di sua madre quando le avrei recato la notizia; dissi tutto ciò che potevo per commuoverlo, ma inutilmente. Se ne stava lì sogghignando, mentre ogni tanto MacCoy mi apostrofava con espressioni beffarde, o rivolgeva a mio fratello parole di incoraggiamento per indurlo a tener duro.

"Perché non va a dirigere una scuola parrocchiale?" mi diceva, e poi subito, rivolto a mio fratello: "Quello ti crede senza spina dorsale. Ti tratta come un bamboccio. Crede di poterti costringere a fare ciò che vuole. Sta scoprendo soltanto adesso che sei un uomo esattamente come lui."

"Furono quelle sue parole a farmi perdere la pazienza. Nel frattempo avevamo lasciato Willesden, perché tutto questo andò avanti per un bel po'. Persi le staffe, e per la prima volta in vita mia mi comportai duramente con mio fratello. Forse sarebbe stato meglio se lo avessi fatto prima e più spesso.

"Un uomo!" esclamai. "Be', mi fa piacere che almeno il tuo amico lo pensi, perché nessuno lo sospetterebbe, vedendoti conciato come una scolaretta. Non credo che in tutto il paese ci sia un essere più spregevole di te, seduto lì con quel vestituccio da femmina." Edward, che era un uomo vanitoso, arrossì alle mie parole, e si dimostrò sconcertato della mia derisione.

"E' soltanto uno spolverino" disse, togliendoselo. "Bisogna pur sfuggire ai poliziotti, e non avevo altro modo." Si levò il cappello con il velo e mise sia quello che il soprabito nella valigetta marrone. "Comunque, posso farne a meno finché non viene il capotreno" aggiunse.

"Non ti serviranno neanche allora" replicai, e afferrando la valigia, la scagliai con tutta la forza dal finestrino. "Stammi a sentire, non ti vestirai più da donnicciola finché vi sono io presente. Se fra te e la prigione non c'è altro che quel travestimento, vuol dire che andrai in prigione."

"Era così che andava trattato. Sentii subito di avere un vantaggio. La sua debole natura cedeva più facilmente alla durezza che non alle suppliche. Arrossì dalla vergogna, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Ma anche MacCoy si avvide del mio vantaggio, ed era deciso a non lasciarmelo sfruttare.

"Edward è il mio compagno, e lei non farà il prepotente con lui" esclamò.

"E' mio fratello, e lei non lo rovinerà" replicai. "Credo che un soggiorno in carcere sia il miglior modo per tenervi lontani, e questo soggiorno sarà lei a farlo, quant'è vero il Padreterno."

"Ah, vuol fare la spia, eh?" gridò, tirando fuori la sua pistola.

Mi avventai contro la sua mano, ma vidi che era troppo tardi e balzai in disparte. Nello stesso istante MacCoy fece fuoco, e la pallottola destinata a me trapassò il cuore del mio povero fratello.

"Cadde a terra senza un lamento, e MacCoy ed io, ugualmente inorriditi, ci inginocchiamo accanto a lui, tentando di richiamare in lui qualche segno di vita. MacCoy teneva ancora in mano la pistola carica, ma la sua ira contro di me e il mio risentimento contro di lui erano entrambi stati annientati da questa improvvisa tragedia. Fu lui il primo a rendersi conto della situazione. Per qualche ragione, in quel tratto il treno stava procedendo molto lentamente, ed egli intravide l'occasione per mettersi in salvo.

In un lampo aprì lo sportello, ma io fui altrettanto svelto e, saltandogli addosso, cademmo ambedue dal predellino rotolando avvinghiati giù per la ripida scarpata. Arrivati in fondo, andai a sbattere il capo contro una pietra e non ricordo altro. Quando rinvenni, ero sdraiato fra dei bassi cespugli non lontano dai binari; qualcuno mi passava sulla fronte un fazzoletto bagnato.

Era Sparrow MacCoy.

"Non me la sono sentita di lasciarla" mi disse. "Non volevo macchiarmi del sangue di tutti e due voi lo stesso giorno. Lei amava suo fratello, non ne dubito affatto; ma non lo amava un briciolo più di quanto non lo amassi io, benché lei dirà che avevo uno strano modo di mostrare il mio affetto. Comunque, il mondo mi sembra maledettamente vuoto adesso che lui non c'è più, e non me ne importa un fico se lei mi denuncia."

"MacCoy si era slogato una caviglia nella caduta, e ce ne stavamo lì, lui col suo piede immobilizzato e io con la mia testa malconcia; parlammo finché a poco a poco la mia amarezza si attenuò e si trasformò in qualcosa di molto simile alla compassione. A che pro vendicare la morte di mio fratello su di un uomo che era altrettanto addolorato da quella morte quanto lo ero io? E poi, riprendendo a ragionare lucidamente, cominciai a rendermi conto che, oltre a tutto, non potevo fare niente contro MacCoy che non si sarebbe ritorto contro mia madre e me stesso.

Come potevamo farlo condannare senza che fosse resa di pubblico dominio tutta la carriera di mio fratello, proprio la cosa che noi volevamo evitare? In effetti, era altrettanto nel nostro interesse che nel suo di tenere celata la storia, e dall'essere un vendicatore del delitto, mi trovai trasformato in un cospiratore contro la giustizia. Il luogo in cui ci trovavamo era una di quelle riserve di caccia così comuni in Europa, e mentre la attraversavamo brancolando, mi trovai intento a consultare l'uccisore di mio fratello sul miglior modo per tener nascosto l'accaduto.

"Mi resi conto dalle parole di MacCoy che se non ci fossero stati dei documenti, di cui peraltro non sapevamo niente, nelle tasche di mio fratello, non vi era alcun mezzo per la polizia di identificarlo, o di capire come avesse fatto a trovarsi su quel treno. Il suo biglietto e lo scontrino per alcune valigie che avevano lasciato alla stazione erano in tasca di MacCoy. Come la maggior parte degli americani, Edward aveva trovato più comodo e più economico rinnovare il proprio guardaroba a Londra piuttosto che portarselo dietro da New York, di modo che i suoi abiti erano nuovi e privi di segni di identificazione. La valigia contenente lo spolverino che io avevo gettato dal finestrino, doveva essere finita fra dei cespugli dove si trova tuttora, o forse se ne era impossessato qualche vagabondo, o forse la polizia l'ha ritrovata, e non ne ha fatto parola. Comunque, i giornali non ne hanno parlato. In quanto agli orologi, essi facevano parte del campionario che gli era stato affidato per promuoverne la vendita.

Può darsi che egli si stesse recando a Manchester proprio per questo motivo, ma... be', è inutile ormai rinvangare il passato.

"La polizia non ha nessuna colpa dello scacco subìto. Non vedo come avrebbe potuto succedere diversamente. Vi era un solo indizio che avrebbe potuto aiutarli, ma era molto limitato. Mi riferisco allo specchietto rotondo che fu rinvenuto in tasca a mio fratello.

E' un oggetto piuttosto insolito in tasca a un giovanotto, non le pare? Ma un giocatore sarebbe stato in grado di spiegare ciò che uno specchietto di questo genere può significare per un baro. Se uno si siede un po' distante dal tavolo e si pone lo specchio sul grembo, si possono vedere, mentre si distribuiscono, tutte le carte che si danno al proprio avversario. Non è difficile dire se sia il caso di "vedere" o di rilanciare, quando si conoscono le carte dell'avversario come le proprie. E' uno dei ferri del mestiere del baro, così come lo è l'elastico con la molletta di Sparrow MacCoy. Se la polizia avesse capito il significato dello specchietto, e lo avesse collegato alle recenti truffe negli alberghi, forse avrebbe trovato il bandolo della matassa.

"Non credo che ci sia altro da spiegare. Quella sera arrivammo in un paesetto che si chiama Amersham. Passavamo per turisti, e in seguito tornammo a Londra, donde MacCoy ripartì per il Cairo. Io proseguii per New York. Mia madre morì sei mesi dopo, e sono lieto di dire che non seppe mai ciò che era successo. Si illuse fino all'ultimo che Edward si stesse guadagnando la vita a Londra, onestamente, e io non ebbi mai il coraggio di dirle la verità. Non ricevette sua posta, naturalmente: tuttavia. non le scriveva mai neanche prima, e quindi nulla cambiava. Le ultime parole di mia madre furono per lui.

"Vi è un solo favore che vorrei chiederle, signore, in cambio di questa lunga spiegazione, e le sarei molto grato se lo potesse fare. Si ricorderà certo della Bibbia ritrovata. La portavo sempre nel taschino interno della mia giacca, e dev'essere caduta durante il mio ruzzolone. Mi è molto cara, poiché era la Bibbia di famiglia, con il nome mio e di mio fratello scritti da mio padre nella prima pagina. La pregherei di farsela dare da chi di dovere e di inviarmela. Non vedo come possa servire ad altri. Se la indirizza a X, Libreria Bassano, Broadway, New York, essa mi giungerà certamente."

 

 

  

IL DOTTORE NERO

 

Bishop's Crossing è un piccolo villaggio a quindici chilometri a sud-ovest di Liverpool. In quel villaggio venne a stabilirsi, verso l'anno 1870, un medico che si chiamava Aloysius Lana. I locali non sapevano niente delle sue origini né delle ragioni che lo avevano spinto a stabilirsi in questo piccolo borgo del Lancashire. Due sole cose si sapevano sul suo conto: la prima, che si era laureato in medicina a pieni voti a Glasgow; l'altra, che egli discendeva indubbiamente da una razza tropicale, ed era infatti così scuro che poteva quasi avere del sangue indiano nelle vene. Le sue caratteristiche predominanti erano tuttavia europee; e la sua cortesia cerimoniosa e il suo portamento solenne suggerivano un'origine spagnola. La pelle olivastra, i capelli corvini e gli occhi scuri e lucenti sotto le folte sopracciglia formavano uno strano contrasto con gli abitanti del luogo biondi o castani, e il nuovo venuto fu ben presto conosciuto come "Il dottore nero di Bishop's Crossing". In un primo tempo, era una definizione spregiativa; ma, con il passare degli anni, divenne un titolo di rispetto; egli era noto infatti in tutta la regione, la sua fama aveva superato di gran lunga i ristretti confini del villaggio.

Il nuovo venuto si era mostrato un abile chirurgo e un bravissimo internista. Prima del suo arrivo, il medico di quella condotta era Edward Rowe, figlio di Sir William Rowe, il noto medico consulente di Liverpool, ma egli non aveva ereditato il talento del padre, e il dottor Lana, grazie al suo aspetto e al suo comportamento, prese ben presto il suo posto. Il successo mondano del dottor Lana fu altrettanto rapido di quello professionale. Uno straordinario intervento chirurgico praticato all'onorevole James Lowry, figlio minore di Lord Belton, servì a introdurlo nella buona società della contea, dove divenne assai ricercato grazie al fascino della sua conversazione e all'eleganza dei modi. L'assenza di antenati e di familiari può essere talvolta di giovamento piuttosto che d'ostacolo nell'ascesa sociale, e la distinta personalità del bel dottore era la sua migliore commendatizia.

I suoi clienti gli trovavano un solo difetto. Si era fatto la fama di scapolo incorreggibile. Questo era tanto più strano, in quanto la casa dove abitava era molto grande, e inoltre era risaputo che il suo successo professionale gli aveva permesso di mettere da parte delle cifre notevoli. In un primo tempo, le comari locali si affannavano ad accoppiare il suo nome a quello di una o dell'altra delle giovani donne da marito, ma via via che gli anni passavano e il dottor Lana non accennava a volersi sposare, si sparse la voce che qualche ragione lo induceva a rimanere scapolo. Alcuni arrivarono persino a dire che era già sposato, e che era proprio per sfuggire a un matrimonio sbagliato che egli era venuto a seppellirsi a Bishop's Crossing. Poi, proprio quando le comari si erano finalmente date per vinte, improvvisamente fu annunciato il suo fidanzamento con la signorina Frances Morton, di Leigh Hall.

La signorina Morton era una giovane assai conosciuta nella zona perché suo padre, James Haldane Morton, era stato il signorotto di Bishop's Crossing. Entrambi i suoi genitori erano però morti, ed essa abitava con il suo unico fratello, Arthur Morton, il quale aveva ereditato la tenuta di famiglia. La Morton era alta e imponente, nota per il suo temperamento focoso e impulsivo e per la sua forza di carattere. Conobbe il Lana a una festa all'aperto e fra i due sorse un'amicizia che ben presto si trasformò in amore. Essi si amavano di un amore tenerissimo. Vi era fra loro una certa differenza di età, avendo egli trentasette anni ed essa appena ventiquattro; ma a parte questo particolare, non poteva esserci la minima obiezione al loro matrimonio. Il fidanzamento ebbe luogo in febbraio, e fu deciso che il matrimonio si sarebbe svolto in agosto.

Il 3 giugno, il dottor Lana ricevette una lettera dall'estero. In un piccolo villaggio, il titolare dell'ufficio postale, grazie alla sua posizione, detiene spesso anche il primato dei pettegolezzi, e il signor Bankley, di Bishop's Crossing, era a conoscenza di molti dei segreti dei suoi compaesani. Di questa particolare lettera, egli notò soltanto che la busta era di forma insolita, che era indirizzata con una scrittura maschile, che il timbro era di Buenos Ayres e il francobollo della Repubblica argentina. A quanto gli risultava, questa era la prima lettera che Lana aveva ricevuto finora dall'estero, ed era questo il motivo per cui la studiò con particolare attenzione prima di affidarla al postino. La lettera venne consegnata con la distribuzione della sera.

Il mattino seguente, e cioè il 4 giugno, il dottor Lana andò a far visita alla signorina Morton e ne seguì un lungo colloquio, al termine del quale egli fu visto rientrare a casa in uno stato di grande agitazione. La Morton rimase rinchiusa tutto il giorno, e la cameriera la trovò più d'una volta in lacrime. Entro una settimana, era un segreto noto a tutto il villaggio che il fidanzamento era stato buttato all'aria, che il dottor Lana si era comportato in maniera vergognosa nei confronti della giovane, e che Arthur Morton, suo fratello, si riprometteva di dargli una buona lezione. Quale fosse l'esatta natura del vergognoso comportamento del medico, nessuno era in grado di saperlo: chi diceva una cosa e chi un'altra; ma fu osservato, e interpretato come un evidente segno di cattiva coscienza, che egli preferiva fare un giro assai lungo piuttosto che passare sotto le finestre di Leigh Hall, e che aveva rinunciato a recarsi in chiesa la domenica, per timore di imbattersi nella giovane. Fu notata inoltre un'inserzione nel Lancet che si riferiva alla cessione di una clientela avviata, dove non si facevano nomi, ma che secondo alcuni si riferiva a Bishop's Crossing e ciò significava che Lana era in procinto di abbandonare la scena del suo successo. Questa la situazione quando, la sera di lunedì 21 giugno, avvenne un fatto imprevisto che trasformò ciò che era stato un semplice scandalo locale in una tragedia che richiamò l'attenzione di tutto il paese. E' necessario addentrarsi nei particolari, affinché i fatti di quella sera si possano presentare in tutta la loro importanza.

Gli unici abitanti nella casa del medico erano la sua governante, una donna anziana e di provata moralità, che si chiamava Martha Woods, e una giovane cameriera, Mary Pilling. Il suo assistente e il cocchiere erano alloggiati altrove. Il medico era solito trattenersi la sera nel suo studio, che si trovava accanto al gabinetto medico nell'ala della casa più lontana dalle stanze della servitù. Quest'ala dell'edificio aveva un'entrata di svincolo, per maggior comodità dei pazienti, di modo che era possibile per il medico far entrare e ricevere un paziente all'insaputa di tutti. Effettivamente, quando i pazienti si recavano da lui a tarda ora, era sua abitudine farli entrare e uscire da quella porta, poiché la cameriera e la governante erano solite andare a letto assai presto.

La sera in questione, Martha Woods entrò nello studio del medico alle nove e mezzo, e lo trovò intento a scrivere alla sua scrivania. Gli augurò la buona notte, mandò la cameriera a letto, quindi si occupò di alcune faccende casalinghe fino alle undici meno un quarto. Suonavano le undici all'orologio nell'ingresso quando la donna si ritirò in camera. Dopo un quarto d'ora o venti minuti al massimo, udì un grido o un richiamo, che sembrava provenire dall'interno della casa. Rimase un istante in attesa, ma il grido non si ripeté. Allarmata, poiché il grido era stato fortissimo e urgente, indossò la vestaglia e corse a precipizio verso lo studio del medico.

"Chi è?" gridò una voce, quando lei bussò alla porta.

"Sono io, la signora Woods."

"Mi lasci in pace, per favore. Se ne torni subito in camera sua" gridò la voce, che era, a quanto pareva, quella del suo padrone.

Il tono era così duro e diverso dal solito tono di voce del suo padrone, che la donna ne fu stupita e offesa.

"Mi pareva di averla sentita chiamare, signore" disse a mo' di spiegazione, ma non ricevette alcuna risposta. La Woods diede un'occhiata all'orologio mentre tornava in camera sua, ed erano allora le undici e mezzo.

Fra le undici e la mezzanotte (la donna non riuscì in seguito a ricordare l'ora esatta) una cliente si recò dal medico ma senza riceverne alcuna risposta. Questa cliente ritardataria era la signora Madding, la moglie del droghiere del paese, il quale era gravemente ammalato di tifo. Il dottor Lana le aveva detto di passare da lui sul tardi, per dargli notizie di suo marito. La donna osservò che la luce nello studio era accesa, ma, dopo aver bussato varie volte alla porta del gabinetto medico, concluse che il medico doveva essere stato chiamato altrove, e pertanto se ne tornò verso casa.

Vi è un breve vialetto tortuoso con una lampada in fondo che unisce la casa del medico alla strada. Proprio mentre la signora Madding usciva dal cancello, vide venirle incontro un uomo.

Pensando che si trattasse del dottor Lana che tornava da una visita a un suo paziente, rimase ad attenderlo, e fu stupita di accorgersi che si trattava di Arthur Morton. Alla luce della lampada, si avvide che l'uomo appariva sconvolto e che teneva in mano un grosso frustino. Stava entrando dal cancello, quando lei lo apostrofò.

"Il dottore non è in casa, signore" gli disse.

"Come fa a saperlo?" le chiese Morton aspramente.

"Ho appena bussato alla porta dello studio."

"Vedo una luce" osservò il giovane, guardando verso la casa.

"Quello è il suo studio, no?"

"Certamente, ma sono sicura che il dottore non è in casa."

"Be', prima o poi dovrà rientrare" disse il giovane Morton, e varcò il cancello mentre la Madding si avviava verso casa.

Alle tre del mattino, suo marito ebbe una forte ricaduta, e la donna, spaventata dai sintomi, decise di andar a chiamare senza indugi il medico. Varcando il cancello, fu stupita di vedere qualcuno appostato fra i cespugli di alloro. Era sicuramente un uomo, e le sembrò di riconoscere il signor Arthur Morton. Assorta nei propri guai, non gli prestò particolare attenzione, ma proseguì per la sua strada.

Quando fu giunta alla casa, si avvide con stupore che la luce nello studio era ancora accesa. Pertanto bussò alla porta del gabinetto medico. Non ebbe risposta. Continuò a bussare ripetutamente, ma senza effetto. Le sembrò improbabile che il medico fosse andato a letto o fosse uscito lasciando accesa una luce così forte, e la donna pensò che forse egli si era addormentato nella poltrona. Bussò pertanto alla finestra dello studio, ma inutilmente. Poi, avvedendosi che vi era uno spiraglio fra la tenda e la cornice della finestra, sbirciò dentro.

La piccola sala era brillantemente illuminata da una grande lampada sul tavolo centrale, il cui piano era cosparso di libri e di strumenti medici. La signora Madding non vide nessuno, né notò nulla di insolito, se non che in un angolo, nell'ombra proiettata dal tavolo, un guanto bianco sporco giaceva sul tappeto. E poi, improvvisamente, a mano a mano che i suoi occhi si abituavano alla luce, uno stivale emerse all'altro capo dell'ombra, e la donna si rese conto, con orrore, che ciò che aveva preso per un guanto era la mano di un uomo, disteso per terra. Intuendo che qualcosa di anormale era accaduto, andò a suonare alla porta principale, svegliò la Woods, e le due donne si introdussero nello studio, dopo aver mandato la cameriera al comando di polizia.

Accanto al tavolo, dal lato opposto della finestra, trovarono il dottor Lana disteso supino, morto. Fu subito evidente che, prima, era stato brutalmente picchiato, poiché aveva un occhio pesto e recava tracce di lividi sul viso e sul collo. Un leggero gonfiore e ispessimento dei tratti pareva indicare che la morte era avvenuta per strangolamento. Era vestito dei suoi soliti abiti professionali, ma indossava delle pantofole di panno, le cui suole erano perfettamente pulite. Il tappeto recava ovunque, e in particolare in prossimità della porta, tracce di scarpe sporche, presumibilmente lasciate dall'assassino. Era evidente che qualcuno era entrato dalla porta dello studio, aveva ucciso il medico, ed era poi fuggito senza essere visto. Che l'assassino fosse un uomo era indubbio, a giudicare dalle dimensioni delle orme e dalla natura delle ferite. Ma al di là di questo, la polizia non aveva molto su cui basarsi.

Non vi erano tracce di furto, e l'orologio d'oro del medico fu rinvenuto nella sua tasca. Egli era solito tenere i suoi quattrini in una robusta cassetta nello studio, e questa fu trovata chiusa a chiave, ma vuota. La signora Woods aveva l'impressione che solitamente egli vi tenesse delle forti somme, ma quel giorno stesso il medico aveva pagato un grosso conto; si pensò quindi che fosse dovuto a questo fatto, e non a un ladro, se la scatola era vuota. Un solo oggetto mancava nella stanza, ma quell'oggetto dava da pensare. Il ritratto della signorina Morton, che di solito stava sul tavolino accanto alla poltrona, era stato tolto dalla cornice e portato via. La Woods l'aveva visto lì poche ore prima quando era andata ad augurare la buona notte al suo padrone, e adesso era scomparso. Viceversa, fu trovata a terra una benda verde per occhi, che la governante non ricordava di avere mai vista. Tuttavia, una benda del genere poteva forse anche far parte dell'attrezzatura di un medico, e niente indicava che fosse in alcun modo collegata con il delitto.

I sospetti potevano confluire in un'unica direzione, e Arthur Morton venne immediatamente arrestato. Le prove a suo carico erano indiziarie, ma schiaccianti. Egli era affezionatissimo a sua sorella, e fu dimostrato che più volte, dopo la rottura fra lei e il Lana, era stato udito esprimersi in termini violenti nei riguardi dell'ex-fidanzato. Era stato visto, come abbiamo già detto, imboccare il vialetto della casa del medico verso le undici, con un frustino in mano. In seguito, stando alla versione della polizia, egli aveva fatto irruzione nello studio del Lana, il cui grido di spavento o di ira era stato tanto forte da attirare l'attenzione della signora Woods. Quando la Woods aveva bussato, il Lana aveva nel frattempo deciso di riparlarne con il suo ospite, e aveva pertanto pregato la governante di ritornare in camera sua. La conversazione era durata a lungo, facendosi sempre più accesa, ed era degenerata in un corpo a corpo, nel corso del quale il medico aveva trovato la morte. Il fatto, rivelato dall'autopsia, che egli soffriva di una grave malattia di cuore, malattia di cui nessuno aveva sospettato, faceva supporre che la morte in questo caso potesse essersi verificata in seguito a ferite che non sarebbero state letali per un uomo in buone condizioni di salute. Arthur Morton si era poi impossessato del ritratto di sua sorella e se n'era andato a casa, nascondendosi nei cespugli di alloro per evitare di incontrare la signora Madding sul cancello. Questa la tesi dell'accusa, e le prove a carico di Morton parevano schiaccianti.

Viceversa, anche la difesa aveva delle buone carte. Morton era focoso e impulsivo, come sua sorella, ma era rispettato e amato da tutti, e la sua natura onesta e generosa pareva incapace di un simile delitto. La sua versione era che egli era ansioso di avere un colloquio con il Lana riguardo a urgenti questioni familiari (dal principio alla fine si rifiutò di fare il nome di sua sorella). Non tentò di negare che questo colloquio sarebbe stato certamente spiacevole. Era stato informato da una paziente che il medico non era in casa, e aveva perciò atteso il suo ritorno fin verso le tre del mattino, ma poiché a quell'ora non era ancora rientrato, aveva rinunciato ed era tornato a casa sua. Quanto alla sua morte, non ne sapeva niente più di ciò che non ne sapesse il poliziotto che l'aveva arrestato. In precedenza, era stato amico intimo del defunto; ma le circostanze, di cui preferiva non parlare, avevano mutato i suoi sentimenti.

Vi erano parecchi fatti che confermavano la sua innocenza. Pareva accertato che il Lana fosse vivo e nel suo studio alle undici e mezzo. La signora Woods era disposta a giurare che a quell'ora aveva sentito la sua voce. Gli amici dell'imputato opponevano che era probabile che a quell'ora il dottor Lana non fosse solo. Il grido che aveva richiamato l'attenzione della governante, e l'insolita impazienza del suo padrone per essere lasciato in pace, parevano confermare questa versione dei fatti. Se così era, allora pareva probabile che egli fosse stato ucciso nell'intervallo di tempo intercorso fra il momento in cui la governante aveva sentito la sua voce e il momento in cui la Madding si era recata da lui per la prima volta, senza essere riuscita a richiamare la sua attenzione. Ma se era questa l'ora della sua morte, allora era dimostrato che Arthur Morton non poteva essere il colpevole, poiché era dopo questo fatto che la donna aveva incontrato il giovane davanti al cancello.

Se questa ipotesi era esatta, e se qualcuno si trovava davvero con il dottor Lana prima che la Madding incontrasse Arthur Morton, chi era dunque questo qualcuno, e quale motivo poteva avere per desiderare la morte del medico? Era universalmente riconosciuto che se gli amici dell'imputato fossero riusciti a chiarire questo interrogativo, avrebbero praticamente dimostrato la sua innocenza.

Ma nel frattempo il pubblico era libero di dire, come infatti diceva, che non vi era alcuna prova che qualcuno fosse stato lì tranne il giovane Morton; mentre, d'altra parte, vi erano ampie prove che le ragioni della sua visita erano assai poco amichevoli.

Quando la Madding si era recata lì la prima volta, il medico poteva essersi recato in camera sua, o poteva; come la donna pensò allora, essere uscito e in seguito tornato per trovare Arthur Morton che lo aspettava. Alcuni sostenitori dell'imputato sottolineavano il fatto che il ritratto di sua sorella Frances, che era stato sottratto dallo studio del medico, non era stato trovato in possesso del giovane. Questo argomento, tuttavia, non aveva molto peso, poiché egli aveva avuto tempo sufficiente prima del suo arresto per bruciarlo o distruggerlo. In quanto agli unici indizi concreti nel caso, le orme di fango sul pavimento, erano talmente imprecisi per via della morbidezza del tappeto, che era impossibile trarne delle deduzioni decisive. Il massimo che se ne potesse dire, era che il loro aspetto non era in contrasto con la teoria che esse vi fossero state lasciate dall'imputato; inoltre, risultava che la sera in questione i suoi stivali erano ben infangati: aveva piovuto copiosamente quel pomeriggio, e probabilmente tutti gli stivali erano nelle stesse condizioni.

Questo è il nudo resoconto della singolare e romantica serie di eventi che richiamò l'attenzione del pubblico su questa tragedia del Lancashire. L'ignota origine del medico, la sua curiosa e raffinata personalità, la posizione dell'uomo accusato dell'assassinio, e la storia d'amore che aveva preceduto il delitto, tutto contribuiva a fare della vicenda uno di quei drammi che assorbono l'interesse dell'intera nazione. Ovunque in Gran Bretagna, gli uomini discutevano il caso del dottore nero di Bishop's Crossing, e molte furono le tesi avanzate per spiegare i fatti; ma si può dire, senza tema di smentita, che fra tutte non ve n'era una che preparasse il pubblico allo straordinario colpo di scena, che provocò tanto scalpore il primo giorno del processo, giungendo al punto culminante il secondo.

Ho davanti a me mentre scrivo la raccolta del "Lancashire Weekly" con il suo ampio resoconto del caso, ma debbo accontentarmi di dare una sintesi del processo fino al momento in cui, la sera del primo giorno, la testimonianza della signorina Frances Morton gettò una singolare luce sulla vicenda.

Porlock Carr, il Pubblico Ministero, aveva presentato la sua tesi con l'abilità che gli era propria e, col trascorrere delle ore, diveniva sempre più evidente come fosse arduo il compito di Humphrey, l'avvocato difensore. Vari testimoni furono chiamati a riferire le minacciose frasi che il giovane Morton si era lasciato sfuggire nei riguardi del medico, e la collera con la quale aveva reagito al supposto maltrattamento di sua sorella. La Madding ripeté la sua testimonianza riguardo alla visita fatta dall'imputato al defunto, e un altro teste dimostrò che l'imputato era a conoscenza della consuetudine del medico di trascorrere le serate in quell'ala isolata dell'edificio, e che egli aveva scelto quell'ora inoltrata per recarsi lì, sapendo che la vittima sarebbe stata alla sua mercé. Un domestico di casa Morton fu costretto ad ammettere di aver sentito il suo padrone rincasare verso le tre del mattino, il che confermava la dichiarazione della signora Madding, secondo cui la donna lo aveva visto fra i cespugli di alloro nei pressi del cancello, in occasione della sua seconda visita. Gli stivali infangati e una supposta somiglianza delle orme furono debitamente sfruttati, e l'opinione generale, al termine della tesi dell'accusa, fu che, per quanto indiziaria essa fosse, era tuttavia così completa e così convincente da far ritenere che il destino dell'imputato fosse deciso, a meno che la difesa non rivelasse qualcosa di assolutamente inatteso. Erano le quindici quando l'accusa concluse. Alle sedici e trenta, quando l'udienza venne ripresa, si verificò una nota del tutto inattesa.

Riporto l'incidente, o parte di esso, basandomi sul giornale cui ho già accennato, e tralasciando i discorsi preliminari della difesa.

Vi fu un grande scalpore nell'aula affollata quando la prima teste chiamata dalla difesa risultò essere la signorina Frances Morton, sorella dell'imputato. I nostri lettori rammenteranno che la giovane era stata fidanzata del Lana, e si riteneva appunto che fosse l'ira per l'improvvisa fine di questo fidanzamento ad aver spinto suo fratello a commettere il delitto. La Morton non era stata, tuttavia, in alcun modo implicata nel caso, né durante l'inchiesta né durante l'istruttoria, e la sua comparsa come testimone principale per la difesa destò grande sorpresa fra il pubblico.

La signorina Frances Morton, una bella giovane, alta e bruna, rese la sua testimonianza a voce bassa ma chiara, benché fosse evidente durante tutta la sua deposizione che era in preda a una forte emozione. Alluse al fidanzamento con il medico, accennò brevemente alla sua fine, dovuta, ella disse, a questioni private della famiglia di lui, e sorprese la corte dichiarando che ella aveva sempre ritenuto lo sdegno di suo fratello irragionevole e immotivato. In risposta a una domanda diretta dell'avvocato difensore, la giovane replicò che non si riteneva in alcun modo offesa dal dottor Lana, e che secondo lei aveva agito in modo del tutto onorevole. Suo fratello, non essendo a completa conoscenza dei fatti, aveva assunto un atteggiamento differente, ed essa fu costretta a riconoscere che, nonostante le sue suppliche, egli aveva proferito minacce contro il medico, ed aveva, la sera della tragedia, annunciato la sua intenzione di "vedersela con lui". La giovane aveva fatto del suo meglio per indurlo a ragionare, ma suo fratello era un tipo molto testardo e assai poco controllato quando erano in gioco le sue emozioni o i suoi pregiudizi.

Fino a questo punto, la deposizione della giovane donna era sembrata andare più a carico dell'imputato, che non a suo favore.

Le domande dell'avvocato difensore gettarono, tuttavia, ben presto una luce assai diversa sulla vicenda, e rivelarono un'inaspettata linea di difesa.

Humphrey: Lei ritiene suo fratello colpevole di questo delitto?

Giudice: Non posso permettere questa domanda, signor Humphrey.

Siamo qui per vagliare i fatti, non le opinioni.

Humphrey: Lei sa con certezza che suo fratello non è colpevole della morte del dottor Lana?

Frances Morton: Sì.

Humphrey: Come fa a saperlo?

Frances Morton: Perché il dottor Lana non è morto.

Seguì nell'aula un lungo brusio che interruppe l'interrogatorio della teste.

Humphrey: E come fa a sapere, signorina Morton, che il dottor Lana non è morto?

Frances Morton: Perché ho ricevuto una lettera da lui dopo la data della sua presunta morte.

Humphrey: Ha con sé questa lettera?

Frances Morton: Sì, ma preferirei non mostrarla.

Humphrey: Ha la busta?

Frances Morton: Sì eccola qua.

Humphrey: Che timbro reca?

Frances Morton: Liverpool.

Humphrey: E la data?

Frances Morton: 22 giugno.

Humphrey: Cioè il giorno successivo alla sua presunta morte. E' disposta a giurare che si tratta della sua scrittura, signorina Morton?

Frances Morton: Certamente.

Humphrey: Sono pronto a chiamare altri sei testimoni, Vostro Onore, per attestare che questa lettera è stata scritta dal dottor Lana.

Giudice: Allora dovrà chiamarli domani.

Porlock Carr, Pubblico Ministero: Nel frattempo, Vostro Onore, chiediamo che ci venga consegnato questo documento, in modo da potere far eseguire una perizia che dimostri fino a che punto sia stata contraffatta la scrittura di questo signore, che noi tuttora affermiamo con sicurezza essere morto. Mi pare inutile far osservare che la tesi, così inaspettatamente presentataci, potrebbe dimostrarsi un espediente escogitato dagli amici dell'imputato allo scopo di sviare la nostra indagine. Vorrei però richiamare l'attenzione sul fatto che la signorina doveva essere, stando alle sue proprie parole, in possesso di questa lettera durante l'inchiesta e l'istruttoria preliminare. La signorina vorrebbe farci credere di aver lasciato che questi preliminari avessero luogo, benché avesse in tasca una prova tale che avrebbe potuto in qualsiasi momento interromperli.

Humphrey: Può spiegarci questo, signorina Morton?

Frances Morton: Il dottor Lana voleva che il suo segreto fosse rispettato.

Porlock Carr: E allora perché lo avete reso di pubblico dominio?

Frances Morton: Per salvare mio fratello.

Un mormorio di compassione, subito represso dal giudice, proruppe nell'aula.

Giudice: Ammettendo la vostra linea di difesa, sta a lei, signor Humphrey, far luce sull'identità dell'uomo il cui corpo è stato riconosciuto da tanti amici e pazienti del dottor Lana come il corpo dello stesso medico.

Un membro della giuria: Esiste qualcuno che abbia precedentemente espresso qualche dubbio sul riconoscimento?

Porlock Carr: Non che io sappia.

Humphrey: Ci auguriamo di poter chiarire la vicenda.

Giudice: Allora l'udienza è sospesa e rinviata fino a domani mattina.

Questo nuovo sviluppo del caso suscitò nel pubblico un grandissimo interesse. I commenti della stampa erano ostacolati dal fatto che il processo era tuttora in corso, ma ovunque la gente si chiedeva fin dove fosse veritiera la dichiarazione della signorina Morton, e fin dove potesse essere un audace trucco per salvare suo fratello. L'evidente dilemma nel quale si trovava il medico scomparso era che se per uno straordinario caso non era morto, allora egli doveva essere ritenuto responsabile della morte dello sconosciuto trovato nel suo studio, e che gli somigliava in modo così impressionante. La lettera che la Morton si rifiutava di esibire poteva essere una confessione di colpevolezza, e poteva darsi che lei si trovasse nella terribile posizione di potere salvare suo fratello dalla forca unicamente con il sacrificio del suo ex-fidanzato. Il mattino seguente l'aula era stipata all'inverosimile, e un mormorio di eccitazione la percorse quando l'avvocato Humphrey fu visto entrare in uno stato di grande agitazione, che neanche i suoi nervi ben muniti di grasso potevano dominare, e conferire con il Pubblico Ministero. Poche frettolose parole, parole che lasciarono un'espressione stupefatta sul volto del signor Porlock Carr, furono scambiate fra di loro, e poi l'avvocato difensore, rivolgendosi al giudice, annunciò che, con il consenso della parte avversa, la giovane donna che aveva deposto nella seduta precedente non sarebbe stata richiamata.

Giudice: Ma ho l'impressione, signor Humphrey, che la questione sia rimasta in sospeso.

Humphrey: Vostro Onore, forse il mio prossimo teste potrà chiarirla.

Giudice: Allora chiamate il teste.

Humphrey: Chiamo il dottor Aloysius Lana.

Molte furono le frasi decisive pronunciate dall'illustre avvocato durante la sua carriera, ma certamente egli non suscitò mai una simile sensazione con una frase così breve. La corte fu semplicemente fulminata dallo stupore, mentre proprio l'uomo la cui sorte era stata causa di tanta discordia, comparve di persona davanti a loro sul banco dei testimoni. Quelli fra il pubblico che lo avevano conosciuto a Bishop's Crossing lo videro adesso, magro ed emaciato, il volto profondamente segnato dal dolore. Ma nonostante il suo malinconico atteggiamento e la sua espressione abbattuta, ben pochi potevano dire di aver mai visto un uomo di più distinto aspetto. Inchinandosi al giudice, chiese il permesso di fare una dichiarazione, ed essendo stato debitamente informato che qualsiasi cosa egli avesse detto avrebbe potuto essere usata contro di lui, si inchinò nuovamente e cominciò a parlare:

"E' mio desiderio" egli disse "di non nascondere niente, ma di raccontare con perfetta franchezza tutto ciò che accadde la sera del 21 giugno. Se avessi saputo che degli innocenti stavano soffrendo, e che tanto dolore si era rovesciato su coloro che io amo di più al mondo, mi sarei fatto vivo molto tempo prima, ma vi erano motivi che impedirono a queste cose di giungermi a orecchio.

Era mio intento che un disgraziato scomparisse dal mondo. Ma non avevo previsto che altri avrebbero sofferto delle mie azioni.

Lasciatemi, per quanto mi è possibile, rimediare al male fatto.

"A chiunque conosca la storia della Repubblica argentina, il nome di Lana è ben noto. Mio padre, che discendeva da una delle migliori famiglie della vecchia Spagna, ricoprì le più alte cariche dello Stato, e sarebbe divenuto presidente se non fosse morto nella rivolta di San Juan. Una brillante carriera avrebbe potuto schiudersi davanti a Ernest, mio fratello gemello e a me, se dei rovesci finanziari non ci avessero messi in condizioni di doverci guadagnare la vita. Chiedo scusa, Vostro Onore, se questi particolari possono sembrare irrilevanti, ma essi sono un'indispensabile premessa a ciò che deve seguire "Come ho già detto, avevo un fratello gemello di nome Ernest. Egli mi somigliava talmente che anche quando eravamo insieme la gente non riusciva a vedere alcuna differenza fra noi due. Eravamo identici fin nel più piccolo particolare. Con gli anni, questa somiglianza si fece meno marcata perché le nostre espressioni non erano simili, ma in determinati momenti la differenza nei nostri volti era minima.

"Non desidero parlare troppo di una persona che è morta, tanto più che egli era il mio unico fratello, ma lascio un giudizio sul suo carattere a coloro che lo conoscevano meglio. Dirò soltanto, poiché debbo dirlo, che in gioventù io concepii un vero orrore per lui, e che l'avversione che mi riempiva era motivata. La mia stessa reputazione ebbe a soffrire per causa sua, poiché, per via della nostra somiglianza, ero spesso ritenuto responsabile di molte sue azioni. Infine, in occasione di un episodio particolarmente vergognoso, egli fece in modo di far ricadere tutto l'odio su di me in maniera tale, che fui costretto a lasciare l'Argentina per sempre, e cercarmi un lavoro in Europa.

L'essermi liberato della sua odiata presenza mi ricompensava abbondantemente della perdita della mia terra natia. Avevo abbastanza denaro per pagarmi gli studi di medicina a Glasgow, e mi stabilii in seguito nella condotta di Bishop's Crossing, con la ferma convinzione che in quel remoto paesetto del Lancashire non avrei mai più saputo nulla di lui.

"Per anni le mie speranze si realizzarono, ma poi finalmente Ernest mi scoprì. Un tale di Liverpool, recatosi per caso a Buenos Ayres, lo mise sulle mie tracce. Aveva perso tutto il suo denaro, e pensò di raggiungermi e di spartirsi il mio. Conoscendo l'orrore che nutrivo per lui, pensò esattamente che sarei stato disposto a pagarlo purché mi lasciasse in pace. Ricevetti una sua lettera, in cui mi annunciava il suo arrivo. Mi trovavo in un momento delicato, e temevo che il suo arrivo avrebbe arrecato guai a coloro che io ero tenuto in particolar modo a proteggere da una cosa del genere. Intrapresi pertanto dei passi per assicurarmi che qualsiasi danno ne potesse venire, ricadesse soltanto su di me, e fu lui" qui il medico si voltò a guardare l'imputato "il motivo della mia condotta così severamente giudicata. Il mio unico desiderio era di difendere coloro che mi erano cari da ogni possibile pericolo di scandalo o di disonore.

"Mio fratello giunse una sera, non molto tempo dopo l'arrivo della sua lettera. Mi trovavo nel mio studio dopo che i domestici erano andati a letto, quando udii un passo sulla ghiaia del giardino, e dopo un istante vidi il suo volto che mi fissava attraverso la finestra. Neanche lui aveva la barba, come non ce l'ho io, e la somiglianza fra noi due era ancora così pronunciata che, per un istante, pensai che si trattasse della mia propria immagine riflessa nel vetro. Egli portava una benda scura su un occhio, ma i nostri lineamenti erano assolutamente identici. Poi Ernest sorrise con quel ghigno sardonico che era stato suo fin da ragazzo, e io capii che era lo stesso fratello che mi aveva cacciato dalla mia terra, coprendo di vergogna un nome onorato.

Andai alla porta e lo feci entrare. Saranno state circa le ventidue.

"Quando entrò nel raggio di luce della lampada, vidi subito che era molto malconcio. Era giunto a piedi da Liverpool, ed era stanco e ammalato. Fui sconvolto dalla sua espressione. Le mie nozioni mediche mi dissero che egli soffriva di una grave malattia. Inoltre aveva bevuto, e il suo viso recava i segni di una rissa sostenuta con dei marinai. Soltanto per coprirsi l'occhio pesto egli portava la benda, ma se la tolse entrando nella stanza. Indossava un giaccone da marinaio e una camicia di flanella, e i suoi stivali consunti lasciavano intravedere i piedi nudi. Eppure la miseria lo aveva soltanto reso più ferocemente vendicativo nei miei confronti. Il suo odio sfiorava la pazzia. Io facevo una vita da nababbo, secondo lui, mentre lui moriva di fame nell'America meridionale. Non occorre ripeta le sue minacce, o gli insulti di cui mi ricoperse. La mia impressione è che la miseria e la dissolutezza gli avessero sconvolto il cervello. Camminava su e giù per la stanza come una belva in gabbia, chiedendomi da bere, chiedendomi denaro, e tutto nel linguaggio più osceno. Io perdo facilmente il controllo, ma per fortuna in quella occasione mi padroneggiai, e mai alzai la mano su di lui. La mia freddezza servì soltanto a irritarlo maggiormente. Farneticava, bestemmiava, mi scuoteva i pugni davanti al viso, poi improvvisamente un orribile spasimo gli contrasse il volto, si batté una mano sul petto, e con un grido altissimo mi cadde ai piedi. Lo sollevai e lo adagiai sul divano, ma i miei richiami non ebbero risposta, e la mano che tenevo nella mia era fredda e viscida. Il cuore aveva ceduto. La sua violenza lo aveva ucciso.

"Rimasi a lungo seduto come in preda a uno spaventoso incubo, fissando il corpo di mio fratello. Fui destato dalla Woods che bussava alla porta. Era stata disturbata da quel grido di morte.

La mandai a letto. Poco dopo, una paziente bussò alla porta dello studio medico, ma poiché io non mi mossi, lui o lei che fosse, se ne andò. A poco a poco, gradatamente, mentre mene stavo lì seduto, un piano prendeva forma nella mia mente, in quel curioso modo automatico in cui i piani si formano. Quando mi alzai dalla sedia, i miei movimenti futuri erano irrevocabilmente decisi senza che io avessi consapevolmente formulato dei pensieri. Era l'istinto che mi spingeva irresistibilmente in una direzione.

"Fin da quel mutamento nella mia vita al quale ho accennato, Bishop's Crossing mi era diventata intollerabile. I miei progetti per l'avvenire erano stati rovinati, e mi ero imbattuto in giudizi affrettati, ero stato trattato in modo crudele proprio là dove mi ero aspettato di essere compreso. E' vero che qualsiasi pericolo di scandalo da parte di mio fratello era scomparso con la sua morte; ma ero addolorato dal passato, e sentivo che le cose non avrebbero potuto essere mai più come una volta. Può darsi che la mia sensibilità mi avesse giocato un brutto scherzo e che non fossi sufficientemente comprensivo verso gli altri, ma i miei sentimenti erano quelli. Non vedevo l'ora che mi si presentasse un'occasione per lasciare Bishop's Crossing e tutti i suoi abitanti. Ed ecco presentarsi un'occasione quale non avrei mai osato sperare, un'occasione che mi avrebbe dato modo di dare un taglio netto al passato.

"C'era quest'uomo morto disteso sul divano, così simile a me, che, tranne una certa gonfiezza e grossolanità dei lineamenti, non vi era nulla che da me lo differenziasse. Nessuno lo aveva visto arrivare, e nessuno si sarebbe accorto della sua scomparsa. Né io né lui portavamo la barba, e i suoi capelli erano circa della stessa lunghezza dei miei. Se io avessi scambiato i nostri abiti, il dottor Aloysius Lana sarebbe stato trovato morto nel suo studio, e sarebbe stata la fine di un disgraziato con una carriera rovinata. Avevo abbastanza danaro liquido e avrei potuto portarmelo dietro; avrei potuto così ricostruirmi una vita altrove. Vestito degli abiti di mio fratello, avrei potuto camminare nottetempo fino a Liverpool senza richiamare l'attenzione, e in quel grande porto avrei potuto trovare modo assai presto di andarmene dal paese. Dopo il crollo delle mie speranze, la più umile esistenza in un luogo dove fossi sconosciuto era di gran lunga preferibile, nel mio giudizio, a una carriera, per quanto brillante, a Bishop's Crossing, dove in un momento qualsiasi potevo trovarmi faccia a faccia con coloro che, se possibile, desideravo dimenticare. Decisi di effettuare lo scambio.

"E così feci. Non entrerò in particolari, perché il ricordo mi è altrettanto doloroso dell'esperienza stessa; ma un'ora dopo mio fratello giaceva, rivestito fin nei minimi particolari, con i miei abiti, mentre io me la svignavo per l'ingresso dello studio, e prendendo il viottolo sul retro che portava attraverso i campi, mi misi in cammino verso Liverpool, dove giunsi la notte stessa. La borsa col mio danaro e un certo ritratto erano le sole cose che mi portai dietro; nella fretta lasciai nello studio la benda che mio fratello portava sull'occhio. Recai con me anche quanto gli era appartenuto.

"Le do la mia parola, Vostro Onore, che neanche per un istante mi passò per la mente l'idea che la gente avrebbe potuto pensare che io fossi stato assassinato, e neppure immaginai che qualcuno avrebbe potuto trovarsi in grave pericolo a causa di questo stratagemma, tramite il quale io tentavo di rifarmi una nuova vita. Al contrario, era proprio il pensiero predominante di liberare gli altri dal fardello della mia presenza. Un veliero salpava da Liverpool quel giorno stesso diretto a La Coruna, e su di esso decisi di imbarcarmi, sperando che il viaggio mi avrebbe dato il tempo di ritrovare il mio equilibrio, e di decidere per l'avvenire. Ma prima di partire, ebbi un ripensamento. Riflettei che vi era una sola persona al mondo alla quale non volevo causare neanche un'ora di dolore. Lei mi avrebbe pianto in cuor suo, per quanto rigidi e ostili potessero essere i suoi parenti. Lei aveva capito e apprezzato le ragioni che mi avevano spinto ad agire come avevo agito, e se il resto della sua famiglia mi disprezzava lei, almeno, non mi avrebbe dimenticato. Perciò le scrissi una lettera sotto il vincolo della segretezza per risparmiarle un dolore immotivato. Se, sotto la pressione degli eventi, essa ha rotto quel vincolo, essa ha tutta la mia comprensione e il mio perdono.

"Soltanto ieri sera sono ritornato in Inghilterra, e in tutto questo tempo non avevo saputo niente dello scalpore suscitato dalla mia presunta morte, né del fatto che ne era stato incriminato Arthur Morton. Lessi il resoconto della seduta di ieri in un giornale della sera, e sono arrivato qui stamani con tutta la velocità consentitami da un treno diretto, per attestare la verità."

Questa fu la stupefacente dichiarazione del dottor Aloysius Lana, che provocò l'improvvisa conclusione del processo. Una successiva indagine la corroborò fino al punto da individuare la nave sulla quale suo fratello Ernest Lana aveva compiuto la traversata dall'America meridionale. Il medico di bordo fu in grado di attestare che egli si era lamentato durante il viaggio di disturbi cardiaci, e che i suoi sintomi erano compatibili con una morte come quella descritta.

Quanto ad Aloysius Lana, egli fece ritorno al villaggio dal quale era così drammaticamente scomparso, e una completa riconciliazione ebbe luogo fra lui e il giovane Morton, dopo che quest'ultimo ebbe riconosciuto di avere grossolanamente frainteso i motivi che avevano spinto l'altro a porre fine al suo fidanzamento. Un'altra riconciliazione ebbe luogo successivamente e i risultati si possono dedurre da un trafiletto apparso nel "Morning Post":

"Il 19 settembre è stato celebrato un matrimonio dal reverendo Stephen Johnson della parrocchia di Bishop's Crossing. Gli sposi erano Aloysius Xavier Lana, figlio di Alfredo Lana, ex-Ministro degli esteri della Repubblica argentina, e Frances Morton, figlia del compianto James Morton di Leigh Hall, Bishop's Crossing nel Lancashire."

 

 

 

LA STANZA DEGLI INCUBI

 

Il salotto dei Mason era una stanza assai singolare. Una parte di esso era arredata lussuosamente. I morbidi divani, le ampie, basse poltrone, le voluttuose statuette, e i ricchi tendaggi che scendevano da alte e decorative griglie di ferro battuto, formavano una degna cornice alla bellissima padrona di casa.

Appariva evidente che Mason, giovane ma ricco uomo d'affari, aveva fatto di tutto pur di accontentare ogni desiderio e capriccio della sua incantevole moglie. Era naturale che così fosse, poiché essa aveva rinunciato a molto per amor suo. La più famosa ballerina di tutta la Francia, l'eroina di una dozzina di romantiche storie d'amore, aveva rinunciato alla sua vita di sfavillanti piaceri per condividere la sorte del giovane americano, il cui austero comportamento differiva tanto dal suo.

In tutto quello che la ricchezza poteva procurare, egli tentava di ripagarla per ciò che aveva perduto. C'era forse chi pensava che sarebbe stato di miglior gusto non sbandierare questo fatto, e tantomeno permettere che venisse reso pubblico ma, tranne alcune stranezze di questo tipo, il suo comportamento era quello di un marito che non ha mai smesso neppure per un attimo di essere anche amante.

La presenza di altre persone non ostacolava del resto la pubblica esibizione del suo travolgente amore.

Eppure la stanza era strana. In un primo momento sembrava accogliente, ma un più approfondito esame rivelava le sue sinistre peculiarità. Era silenziosa, molto silenziosa. Nessun rumore di passi poteva udirsi su quei ricchi e pesanti tappeti. Una lotta, perfino la caduta di un corpo, non avrebbe fatto alcun rumore.

Inoltre, era stranamente priva di colore, sotto una luce che pareva sempre smorzata. Né la sala era arredata con un gusto coerente. Si sarebbe detto che quando il giovane banchiere aveva speso dei milioni in questo boudoir, questo scrigno per il suo più prezioso possedimento, egli si fosse dimenticato di calcolare le spese e fosse stato bruscamente interrotto da una minaccia alla propria solvibilità. Era lussuosa dalla parte che si affacciava sulla strada affollata. Dal lato opposto, era nuda, spartana, e rifletteva più il gusto di un asceta che non quello di un essere avido di piaceri. Forse per questo la donna vi trascorreva poche ore della sua giornata, talvolta due, talvolta quattro, ma mentre era lì viveva intensamente, e, fra le pareti di questa stanza degli incubi, Lucille Mason era un essere molto diverso e molto più pericoloso che non altrove.

Pericoloso, ecco la definizione. Chi poteva dubitarne, vedendo la sua delicata figura reclinata sulla grande pelle di orso che ricopriva il divano. Stava appoggiata sul gomito destro, il mento delicato ma volitivo appoggiato sulla mano, mentre i grandi occhi languidi, incantevoli ma inesorabili, guardavano davanti a sé con una fissità che possedeva qualcosa di intenso e vagamente terribile. Era un volto incantevole, un volto di fanciulla, eppure la natura vi aveva posto un marchio sottile, un'espressione indefinibile, che poteva far presumere che in lei albergava un'anima diabolica. Era stato notato che i cani la fuggivano, e che i bambini urlavano rifiutando le sue carezze. Vi sono istinti più profondi della ragione.

In un particolare pomeriggio qualcosa l'aveva turbata enormemente Aveva in mano una lettera che leggeva e rileggeva, aggrottando quelle delicate piccole sopracciglia e serrando le deliziose labbra. Improvvisamente trasalì, e un'ombra di paura ammorbidì la felina minaccia dei suoi lineamenti. Si sollevò sul braccio, e i suoi occhi erano ansiosamente fissi sulla porta. Ascoltava intenta, tesa a percepire qualcosa che temeva. Per un attimo, un sorriso di sollievo illuminò il suo volto. Poi, con uno sguardo di orrore, si cacciò la lettera nel corpetto dell'abito. Aveva a malapena finito, quando la porta si aprì, e un giovane entrò a gran passi nella stanza. Era Archie Mason, suo marito, l'uomo che essa aveva amato, l'uomo al quale aveva sacrificato la sua fama, l'uomo che adesso lei considerava come l'unico ostacolo a una nuova e meravigliosa esperienza.

L'americano era un tipo di una trentina d'anni, atletico, vestito assai bene, con un abito aderente, che delineava il suo corpo perfetto. Si fermò accanto alla porta, le braccia conserte, guardando attentamente sua moglie. Il volto avrebbe potuto essere una bella maschera abbronzata se non fosse stato per quegli occhi intensi. La donna era ancora reclinata, ma i suoi occhi erano fissi su quelli di lui. Vi era qualcosa di terribile in quel dialogo muto. Ciascuno dei due interrogava l'altro, e ciascuno dei due trasmetteva la sensazione che la risposta alla propria domanda era di vitale importanza. Pareva che lui le chiedesse: "Che cos'hai fatto?". Lei a sua volta sembrava domandargli: "Che cosa sai?". Infine, lui le si avvicinò, si sedette sulla pelle d'orso accanto a lei, e prendendole dolcemente l'orecchio delicato fra le dita, girò il viso verso di lui.

"Lucille" disse l'uomo "mi stai avvelenando?" La donna al suo contatto si ritrasse, il viso pieno di orrore, le labbra pronte a protestare. Troppo turbata per poter parlare, il suo stupore e la sua collera parevano mostrarsi piuttosto nelle mani gesticolanti e nei lineamenti convulsi. Tentò di alzarsi, ma la mano di lui le serrava il polso. Ancora una volta il marito le pose una domanda, ma questa volta il suo terribile significato si era fatto più pressante.

"Lucille, perché mi stai avvelenando?"

"Sei pazzo, Archie! Pazzo!" ansimò la donna.

La risposta di Mason le raggelò il sangue. Con le pallide labbra socchiuse e le guance sbiancate, poté soltanto fissarlo in muta impotenza, mentre egli traeva una bottiglietta dalla sua tasca e gliela metteva davanti agli occhi.

"Era nel tuo scrigno!" esclamò.

Per due volte, essa tentò di parlare, senza riuscirvi. Finalmente le parole uscirono lentamente una ad una dalla sua bocca contorta:

"Perlomeno non me ne sono mai servita." Di nuovo l'uomo si infilò in tasca una mano. Ne trasse un foglio di carta, che egli aprì mostrandoglielo.

"E' il certificato del dottor Angus. Dimostra la presenza di dodici grani di antimonio. Ho anche la testimonianza di Du Val, il farmacista che l'ha venduto." Il viso di Lucille era terribile. Non poteva dire niente. Poteva soltanto restare lì sdraiata, con quello sguardo fisso e privo di speranza, come un animale feroce caduto in una trappola mortale.

"Ebbene?" fece Mason.

Non vi fu risposta, tranne un gesto di disperazione e di supplica.

"Perché?" proseguì Mason. "Voglio sapere il perché." Mentre parlava, il suo occhio colse un lembo della lettera che essa si era nascosta nel seno. In un lampo, l'ebbe in mano. Con un grido disperato, la donna tentò di recuperarla, ma lui la tenne discosta mentre i suoi occhi scorrevano rapidamente il testo.

"Campbell!" esclamò con voce soffocata. "Era Campbell!" Lucille aveva ritrovato il suo sangue freddo. Non aveva più niente da nascondere. Il volto le si indurì. Gli occhi fiammeggiavano.

"Sì" disse "è Campbell."

"Perdiana! Proprio Campbell!" Mason si alzò, andando su e giù per la stanza a grandi passi.

Campbell, il miglior uomo che lui avesse mai conosciuto, un essere la cui vita intera era una testimonianza di abnegazione, di coraggio, di tutte le qualità che contraddistinguono un uomo superiore. Eppure, anche lui era caduto preda di questa sirena, ed era stato costretto ad abbassarsi al punto di tradire, nelle intenzioni se non nei fatti, l'uomo la cui mano egli stringeva in segno di amicizia. Era incredibile, eppure aveva sotto gli occhi l'appassionata, implorante lettera nella quale costui supplicava sua moglie di fuggire e di tentare la sorte con un tipo che praticamente non possedeva il becco d'un quattrino. Ogni parola della lettera dimostrava che almeno Campbell non pensava affatto alla morte di Mason, quale mezzo per rimuovere ogni ostacolo.

Quella diabolica soluzione era frutto della tortuosa e perversa mente che covava sotto un'apparenza perfetta.

Mason era un tipo straordinario, un tipo di filosofo, di pensatore, provvisto di grande comprensione verso gli altri. Per un attimo, il suo animo era stato sopraffatto dall'amarezza. In quel breve intervallo, avrebbe potuto uccidere sia sua moglie che Campbell, e affrontare la propria morte con la serenità di uno che ha soltanto fatto il suo dovere. Ma pochi secondi dopo, mentre camminava su e giù per la stanza, pensieri più equilibrati avevano cominciato a prevalere. Come poteva incolpare Campbell? Conosceva il diabolico potere di questa donna. Non si trattava soltanto della sua meravigliosa bellezza fisica. Essa aveva l'impareggiabile dote di mostrarsi interessata a un uomo, di intrufolarsi nel più profondo del suo animo, in quelle parti della natura che erano troppo sacre per mostrarle di fronte al mondo, e di fingere di stimolarlo all'ambizione e perfino alla virtù. Era proprio lì che si affermava il letale potere della sua rete. Mason ricordava come fossero andate le cose nel suo caso. Lei allora era libera, o così aveva creduto, e aveva potuto sposarla. Ma supponiamo che non fosse stata libera. Supponiamo che fosse già sposata. E supponiamo che essa si fosse impossessata della sua anima nello stesso modo. Lui si sarebbe fermato lì? Sarebbe stato in grado di allontanarsi da lei con i suoi desideri insoddisfatti?

Fu costretto ad ammettere che, nonostante la sua forza d'animo, non avrebbe potuto farlo. Perché, allora, doveva provare tanta amarezza nei confronti del suo disgraziato amico che era nella sua stessa situazione? Furono dei sentimenti di pietà, di umana comprensione a riempirgli la mente mentre pensava a Campbell.

E lei? Eccola là, distesa sul divano, una povera farfalla spezzata, con i suoi sogni infranti, il suo complotto scoperto, il suo avvenire buio e incerto. Anche per lei, omicida non ancora arrivata all'ultimo atto, il suo cuore si impietosì. Egli conosceva il suo passato, sapeva che fin dalla nascita era stata una bambina viziata, che era stata un essere incontrollato, che aveva travolto ogni cosa con la sua sensitività, la bellezza, e il fascino. Non aveva mai conosciuto ostacoli. Ed ora uno le si parava davanti, e lei, con folle perfidia, aveva tentato di farlo fuori. Ma se aveva provato il desiderio di eliminarlo, non era quello un segno intrinseco che lui, Mason, era stato trovato mancante, che non era lui l'uomo che potesse darle serenità e tranquillità? L'americano era troppo rigido e riservato per quella natura allegra e volubile. Lui era un tipo nordico, lei era meridionale e per un certo periodo erano stati fortemente attratti l'uno verso l'altra appunto perché tanto diversi, ma essi non erano fatti per un legame duraturo. Egli avrebbe dovuto prevederlo, avrebbe dovuto capirlo. Era su di lui, con la sua superiore intelligenza, che ricadevano le responsabilità della situazione. Ebbe verso di lei della tenerezza, come verso un bambino che, senza alcuna colpa, si trovi nei guai. Mentre rifletteva, Mason aveva camminato su e giù per la stanza in silenzio, le labbra serrate, i pugni stretti. Ora, con un movimento improvviso, si sedette accanto a lei e prese una delle sue mani fredde e inerti. Un pensiero gli martellava nel cervello.

"E' generosità o è debolezza, la mia?" L'interrogativo gli risuonava nelle orecchie, si formulava davanti ai suoi occhi, poteva quasi immaginarlo materializzato, scritto a chiare lettere in modo che tutto il mondo potesse leggerlo.

Una dura lotta, ma Mason aveva vinto.

"Sceglierai fra noi due, mia cara" le disse infine. "Se sei veramente sicura, sicura capisci, che Campbell ti potrà far felice come marito, io non ti ostacolerò."

"Divorzio?" esclamò la donna con voce soffocata.

La mano di Mason si strinse sulla bottiglietta di veleno. "Puoi averlo" disse.

Una nuova, strana luce splendeva negli occhi di Lucille mentre guardava suo marito. Quest'uomo le era sconosciuto, l'americano duro e concreto era scomparso. Le parve di vedere al suo posto un eroe, un santo, un essere capace di assurgere a vette sovrumane di altruismo. Stringeva con le due mani quella di lui, stretta sulla fiala letale.

"Archie" esclamò la donna "sapresti perdonarmi anche questo!" Mason la guardò sorridendo. "Dopotutto, sei soltanto una bambina capricciosa." Lucille gli stava tendendo le braccia quando bussarono alla porta e la cameriera entrò nello strano modo silenzioso in cui ogni cosa si muoveva in quella stanza degli incubi. Portava su un vassoio un biglietto. Lucille vi gettò un'occhiata.

"Il capitano Campbell, Non voglio vederlo." Mason balzò in piedi.

"Al contrario, che sia il benvenuto. Lo faccia passare immediatamente."

Dopo poco, un giovane alto e abbronzato fece il suo ingresso nella sala. Entrò con un sorriso sul volto attraente, ma come la porta si richiuse alle sue spalle, e le due persone davanti a lui riassumevano la loro espressione naturale, egli si fermò indeciso e guardò l'uno poi l'altra.

"Ebbene?" chiese.

Mason gli si avvicinò e gli appoggiò una mano sulla spalla.

"Non ti serbo rancore."

"Rancore?"

"Sì, so tutto. Ma forse avrei fatto lo stesso anch'io, se la situazione fosse stata capovolta." Campbell indietreggiò e guardò la donna con sguardo interrogativo.

Essa annuì, alzando le belle spalle. Mason sorrise.

"Non temere, non è una trappola per costringerti a confessare.

Lucille e io ne abbiamo parlato con tutta franchezza. Senti, Jack, tu sei sempre stato un buon giocatore. Ecco qua una bottiglia. Non mi chiedere da dove proviene. Se uno di noi due la beve, risolverebbe la situazione." Parlava in modo incontrollato, quasi delirante. "Lucille, scegli, chi dei due deve berla?" Una strana forza si era imposta nella stanza degli incubi. Un terzo uomo era lì presente, benché non uno dei tre che si trovavano nel momento cruciale della loro vita aveva il tempo o la voglia di pensare a lui. Da quanto tempo si trovasse lì, o quanto avesse udito, nessuno era in grado di dirlo. Nell'angolo più lontano dal piccolo gruppo, egli giaceva rannicchiato contro la parete, una sinistra, serpentina figura, muta e quasi immobile, tranne una contrazione nervosa della mano destra serrata. Era nascosto, coperto da una cassetta quadrata e da un panno scuro astutamente appeso sopra ad essa, in modo da celare il suo volto.

Attento, osservando ansiosamente ogni nuovo sviluppo del dramma, era quasi giunto al momento del suo intervento. Ma i tre non pensavano a quello. Assorti nelle proprie emozioni, avevano dimenticato l'esistenza di una forza più potente di loro stessi, una forza che avrebbe potuto dominare la scena da un momento all'altro.

"Ci stai, Jack?" chiese Mason.

Il militare annuì.

"No,... per l'amor di Dio, no!" gridò la donna.

Mason aveva stappato la bottiglietta e, andando verso il tavolino, prese un mazzo di carte. Carte e bottiglia erano vicine.

"Non possiamo lasciare a lei la responsabilità" disse Mason. "Su, Jack, la carta più alta." Il militare si avvicinò al tavolo. Le sue dita sfiorarono le carte fatali. La donna, appoggiata su una mano, protese il volto e fissò i due uomini con occhi affascinati.

Allora, e soltanto allora, il fulmine squarciò l'atmosfera:

L'estraneo si era alzato, pallido e grave.

Tutti e tre furono improvvisamente consci della sua presenza. Si rivolsero a lui, con uno sguardo di impaziente interrogativo. Egli li guardò freddamente, con tristezza, con qualcosa di didascalico nel suo atteggiamento.

"Com'era?" gli chiesero, insieme.

"Schifoso!" replicò lui. "Schifoso! Domani dovremo girare daccapo la scena."

 

 

 

 

LO SPECCHIO D'ARGENTO

3 gennaio. Questa revisione dei conti di White e Wotherspoon si sta rivelando un'impresa titanica. Vi sono venti grossi libri mastri da esaminare e controllare. Ecco cosa capita, quando si è il socio più giovane in una ditta. Comunque, è la prima volta che mi viene affidato un vero e proprio incarico, e debbo dimostrarmi all'altezza. Ma devo portarlo a termine, questo incarico, in modo che gli avvocati possano averne l'esito in tempo utile per il processo. Johnson ha detto stamattina che dovrò controllare tutto entro il venti del mese. Santo cielo! Be', farò del mio meglio, e se mente umana e sistema nervoso resisteranno allo sforzo, me la caverò. Ciò significherà lavorare in ufficio dalle dieci alle diciassette, e poi rimettermi al lavoro dalle venti all'una del mattino. Anche la vita di un contabile può essere drammatica.

Quando, nelle silenziose ore notturne, mentre tutto il mondo dorme, mi trovo intento a cercare accanitamente in una colonna dopo l'altra quelle cifre mancanti che trasformeranno un rispettabile assessore municipale in un delinquente, capisco che la mia non è poi una professione tanto prosaica.

Lunedì ho individuato la prima traccia di appropriazione indebita.

Mai nessun cacciatore provò maggior emozione, scorgendo per primo le tracce della preda. Guardo i venti libri mastri, e penso alla giungla attraverso la quale dovrò inseguire la mia preda prima di poterla afferrare. Un duro lavoro... ma anche un divertimento emozionante, in un certo senso! Ho avuto occasione di incontrare l'individuo in questione a una cena ufficiale; ricordo il suo faccione rubicondo al di sopra del tovagliolo bianco. Stava guardando un ometto pallido seduto in fondo al tavolo. Anche lui sarebbe stato pallido, se avesse saputo il compito che avrei dovuto svolgere.

6 gennaio. Che assurdità da parte dei medici, ordinare il riposo quando il riposo è fuori questione! Idioti! Tanto varrebbe gridare a un uomo inseguito da un branco di lupi che la cosa di cui ha bisogno è l'assoluta tranquillità. Devo concludere la verifica delle cifre entro una data precisa; se non lo faccio, perderò un'occasione unica, e quindi come diavolo posso riposare? Mi prenderò una settimana di vacanza dopo il processo.

Forse è stato sciocco da parte mia l'essere andato dal dottore. Ma divento nervoso e iperteso quando sto seduto al tavolino, di notte. Non si tratta di un dolore, ma di una specie di confusione in testa, e ogni tanto di un annebbiamento alla vista. Avevo pensato che forse del bromuro, o della valeriana, o qualcosa del genere avrebbero potuto giovarmi. Ma interrompere il lavoro?

Assurdo pretendere una cosa simile. E' come quando si partecipa a una lunga corsa. Dapprima ci si sente strani, il cuore martella e i polmoni ansimano, ma se soltanto si ha la forza di tener duro, si riprende fiato. Continuerò a lavorare e aspetterò di riprendere fiato. Se non lo riprenderò, pazienza, continuerò ugualmente a lavorare. Due libri mastri sono finiti, e il terzo è già a buon punto. Quel mascalzone ha nascosto bene le sue tracce, ma io le scoprirò nonostante tutto.

9 gennaio. Non avevo alcuna intenzione di tornare dal medico.

Eppure ho dovuto farlo. "Sta compiendo uno sforzo eccessivo, rischia un grave esaurimento nervoso, mette perfino in giuoco la sua sanità mentale." Bella roba, sentirsi dire una frase simile.

Be', resisterò allo sforzo e correrò il rischio, e fintanto che sarò in grado di star seduto in una sedia e di muovere la penna, seguirò le orme di quel vecchio furfante.

A proposito, tanto vale che annoti qui la strana esperienza che mi ha spinto a recarmi dal medico per la seconda volta. Terrò un'esatta documentazione dei miei sintomi e delle mie sensazioni, perché sono interessanti in se stessi, "un curioso studio psico - fisico", dice il medico; e anche perché sono sicurissimo che quando li avrò superati, mi sembreranno confusi e irreali, come uno strano sogno fatto nel dormi - veglia. Così ora, finché sono freschi, li appunterò, se non altro per distrarmi da quelle interminabili cifre.

Nella mia stanza ho un antico specchio con la cornice d'argento.

Mi è stato regalato da un amico, appassionato di oggetti antichi, il quale, a quanto pare, lo aveva comperato a una vendita all'asta e non aveva la minima idea di dove provenisse. E' un oggetto piuttosto grande, largo un metro e alto un'ottantina di centimetri e, mentre scrivo, si trova alla mia sinistra, appoggiato alla parete sopra a una credenza. La cornice è piatta, larga circa sei centimetri, e molto vecchia; di gran lunga troppo vecchia per avere marchi di fabbrica o altri segni in base ai quali poter determinare la sua età. Lo specchio ne emerge, con un bordo smussato, e possiede quella qualità di riflettere le immagini in modo eccezionale, che si trova soltanto, secondo me, negli specchi molto antichi. Specchiandovisi, dà un senso di prospettiva come nessuno specchio moderno potrà mai dare.

Lo specchio è sistemato in modo tale che, quando sto al mio tavolo, non riesco a vedervi altro se non il riflesso dei tendaggi rossi della finestra. Ma ieri sera è avvenuta una cosa strana.

Stavo lavorando da parecchie ore, e assai svogliatamente con continui ritorni di quel disturbo alla vista cui ho già accennato.

Più d'una volta sono stato costretto a interrompere e a riposare gli occhi. Be', in uno di quegli intervalli il caso ha voluto che guardassi lo specchio. Aveva un aspetto stranissimo. I tendaggi rossi che avrebbero dovuto esservi riflessi non si vedevano più, ma lo specchio pareva essere rannuvolato e coperto di vapore, non in superficie, poiché riluceva come l'acciaio, ma in profondità, nella fibra stessa dello specchio. Questa opacità, mentre la fissavo intensamente, parve roteare lentamente, prima da una parte, poi dall'altra, fino a trasformarsi in una spessa nube bianca che turbinava in pesanti volute. Tanto l'immagine era reale e concreta, e tanto io ero in me, che ricordo di essermi voltato, convinto che i tendaggi avessero preso fuoco. Ma tutto nella stanza era mortalmente immobile: nessun suono tranne il ticchettio dell'orologio, nessun movimento tranne il lento turbinare di quella strana, soffice nube, profondamente radicata nel cuore dell'antico specchio.

Poi, mentre guardavo, il vapore, o il fumo, o la nuvola, in qualsiasi modo la si voglia definire, parve concentrarsi e solidificarsi in due punti piuttosto ravvicinati, e mi avvidi, con un brivido di interesse anziché di paura, che quei punti erano due occhi che guardavano nella stanza. Potevo intravedere anche il vago contorno di una testa... una testa di donna a giudicare dai capelli, ma quella parte restava nell'ombra. Soltanto gli occhi spiccavano, ma quali occhi! Scuri, luminosi, colmi di una fortissima emozione, furia od orrore. Mai ho visto occhi così pieni di vita intensa e fremente. Non erano intenti su di me, ma guardavano fissamente nella stanza. Poi, come mi raddrizzai, passandomi una mano sulla fronte e facendo uno sforzo su me stesso per dominarmi, la vaga figura scomparve nell'opacità, lo specchio lentamente si schiarì e vidi nuovamente apparire i tendaggi rossi.

Uno scettico direbbe indubbiamente che mi ero addormentato sulle mie cifre, e che la mia esperienza era un sogno. A dire il vero non sono mai stato così sveglio in vita mia. Ero in grado di discuterne perfino mentre guardavo quell'immagine, e di dirmi che si trattava di un'impressione soggettiva, di uno scherzo dei nervi, nato dalla preoccupazione e dall'insonnia. Ma perché proprio quella forma? E chi era quella donna, quale la terribile emozione che leggo in quei magnifici occhi castani? Essi si frappongono fra me e il mio lavoro. Per la prima volta, sono venuto meno al compito quotidiano che mi ero prefisso. Forse è per ciò che stasera non ho provato nessuna sensazione abnorme. Domani devo rimettermi al lavoro, succeda quello che succeda.

11 gennaio. Tutto bene; proseguo nel mio lavoro. Tendo la rete, un capo dopo l'altro, attorno a quel corpo massiccio. Forse però sarà lui a trionfare, se i miei nervi si spezzeranno nella fatica. Lo specchio sembra essere una specie di barometro che segna la pressione nel mio cervello. Ogni notte ho notato che si è appannato prima che giungessi alla fine del mio compito.

Il dottor Sinclair (che è, a quanto pare, un po' uno psicologo) si è talmente interessato al mio racconto, che stasera è venuto a trovarmi per dare un'occhiata allo specchio. Avevo già notato che qualcosa stava scarabocchiato sul retro della cornice, a caratteri antichi. Il medico li ha esaminati con una lente, ma non è riuscito a decifrarli. "Sanc. X. Pal." è ciò che ne ha ricavato, ma questo non ci è stato di grande aiuto. Mi ha consigliato di mettere lo specchio in un'altra stanza; ma, dopo tutto, qualsiasi cosa io vi veda, lo ha ammesso lui stesso, è soltanto un sintomo.

Il pericolo sta nella causa. I venti libri mastri, e non lo specchio d'argento, dovrebbero essere riposti, se solo potessi farlo. Sono già all'ottavo, quindi faccio progressi.

13 gennaio. Forse, dopo tutto, avrei fatto bene a portare altrove lo specchio. La notte scorsa esso mi ha procurato una straordinaria esperienza. Eppure lo trovo così interessante, così pieno di fascino, che continuerò ugualmente a lasciarlo al suo posto. Che cosa diavolo può significare tutto ciò?

Dovevano essere circa l'una, e io stavo chiudendo i libri in procinto di buttarmi sul letto, quando vidi la donna, lì davanti a me. La fase di annebbiamento e di formazione doveva essere passata inosservata, e improvvisamente eccola là, in tutta la sua bellezza e passione e pena, così viva come se fosse stata davvero davanti a me in pelle e ossa. La figura era piccola, ma molto netta, tanto che ogni suo lineamento e ogni particolare del suo abito sono impressi nella mia memoria. E' seduta nella zona sinistra dello specchio. Una figura indistinta è accovacciata accanto a lei, riesco a malapena a distinguere che si tratta di un uomo; dietro a loro c'è una nuvola, nella quale vedo altre figure, figure in movimento. Non è semplicemente un quadro che vedo. E' una scena vivente, un vero e proprio episodio. La donna si stringe le braccia, tutta fremente. L'uomo accanto a lei sta rannicchiato, in preda al terrore. L'interesse da me provato allontana ogni mio timore. Mi rende furioso il poter vedere tanto, ma non di più.

Posso almeno descrivere la donna fin nel più piccolo particolare.

A mio giudizio è molto bella e piuttosto giovane, e non può avere più di venticinque anni. I capelli sono di un bellissimo colore bruno, con dei caldi riflessi castani che si tramutano in oro. Una piccola cuffietta aderente di trine bordata di perle le delimita la fronte. La fronte è alta, troppo alta forse perché la sua bellezza sia perfetta, ma non si potrebbe desiderare che fosse altrimenti, poiché dà un tocco di autorevolezza e di forza a un volto che altrimenti sarebbe dolcemente femminile. Le sopracciglia formano un arco delicato al di sopra delle palpebre pesanti. Gli occhi sono stupendi: così grandi, così scuri, così colmi di un'incontrollabile emozione, di rabbia e di orrore, in lotta con la volontà di controllarsi che la trattiene dalla disperazione! Le guance sono pallide, le labbra sbiancate dall'agonia, il mento e il collo squisitamente tondeggianti. La figura, seduta su una sedia, si protende in avanti, tesa e rigida, folle di orrore.

L'abito è di velluto nero, un gioiello le splende come una fiamma sul seno, e un crocifisso d'oro arde cupo nell'ombra di una piega.

Questa è la dama la cui immagine vive ancora nell'antico specchio d'argento. Quale può essere lo spaventoso fatto che ha lasciato lì la sua impronta, facendo sì che oggi, in un'altra epoca, non appena lo spirito di un uomo sia sufficientemente provato, egli possa essere consapevole della sua presenza?

Ancora un particolare: in basso, sul lato sinistro dell'abito nero vi era, o così mi parve a prima vista, un informe nodo di nastri bianchi. Poi, guardando con maggior attenzione, o forse definendosi più chiaramente la visione, capii ciò che era. Era la mano di un uomo, contratta e sbiancata dall'agonia, avvinghiata con una stretta convulsa alla piega dell'abito. Il resto della figura accovacciata era appena una vaga ombra, ma quella mano aggrappata spiccava chiaramente sullo sfondo scuro, con un sinistro senso di tragedia nel suo disperato gesto. L'uomo è spaventato, terribilmente spaventato. Questo lo discerno chiaramente. Che cosa lo ha terrorizzato a quel punto? Perché stringe l'abito della donna? La risposta sta nelle figure sullo sfondo. Esse sembrano portare pericolo sia a lei che a lui.

L'interesse della scena mi teneva avvinto. Non ho più pensato al suo rapporto con i miei nervi. Guardavo fissamente come fossi stato a teatro. Ma non sono andato oltre. La nebbia si è diradata.

Vi furono movimenti affannosi in cui tutte le figure si trovavano vagamente coinvolte. Poi lo specchio fu di nuovo limpido.

Il medico dice che devo smetterla di lavorare per un giorno, e invero posso farlo perché ho proceduto alacremente negli ultimi tempi. E' evidentissimo che le visioni dipendono solo dalla condizione dei miei nervi, perché stasera sono rimasto seduto per un'ora davanti allo specchio, senza alcun risultato. La giornata di riposo ha cacciato ogni visione. Mi domando se riuscirò mai a comprendere appieno il loro significato.

Stasera ho esaminato lo specchio con una buona luce; accanto alla misteriosa scritta "Sanc. X. Pal.", sono riuscito a scoprire tracce di uno stemma araldico, appena appena visibili sull'argento. Devono essere antichissime, poiché sono quasi del tutto scomparse. Se ho decifrato bene, si tratta di tre punte di lancia, due in alto e una in basso. Le mostrerò al medico quando verrà domani.

14 gennaio. Mi sento nuovamente in forma, e non intendo che qualcosa si frapponga fra me e il mio lavoro, almeno finché non avrò concluso. Ho mostrato al medico le scritte sullo specchio e lui era d'accordo nel sostenere che si tratta di uno stemma araldico. E' estremamente interessato a tutto ciò che gli ho raccontato, anzi ha voluto che lo informassi su ogni particolare.

Mi diverte notare come egli sia diviso fra due desideri contrastanti: da una parte, che il suo paziente guarisca dai sintomi; dall'altra, che il medium, poiché tale mi considera, riesca a risolvere questo mistero del passato. Mi ha consigliato di rimettermi quieto, a riposo, ma non si è ribellato troppo alla mia dichiarazione che un fatto simile è impensabile finché i rimanenti dieci libri mastri non siano stati controllati.

17 gennaio. Per tre notti non ho avuto ulteriori esperienze; il mio giorno di riposo ha dato i frutti sperati. Mi resta da fare soltanto un quarto del mio compito, ma si tratterà di una marcia forzata, poiché gli avvocati reclamano a gran voce il materiale.

Ne avrò fin troppo di materiale da consegnar loro. Ne ho scoperte di belle, sul conto di quel delinquente. Quando si renderanno conto di quanto infido e astuto sia quel mascalzone, dovrei trarne un certo prestigio. Fatture falsificate, bilanci alterati, dividendi attinti dal capitale, perdite segnate come guadagni, soppressione di costi, giochetti con la piccola cassa... un bel primato!

18 gennaio. Mal di testa, tic nervosi, annebbiamenti alla vista, le tempie scoppiano: tutti i cenni premonitori di guai vicini, e i guai non si sono fatti aspettare. Eppure, il mio vero dispiacere non è tanto che la visione mi si presenti, quanto che si interrompa prima che tutto sia stato svelato.

Ma stanotte ho visto di più. L'uomo accovacciato era altrettanto ben visibile quanto la dama alla cui veste egli si stringeva. E' un uomo piccolo, di pelle scura, con una barba nera e appuntita.

Indossa un'ampia veste bordata di pelliccia. Il colore predominante sul suo abito è il rosso. Com'è terrorizzato, quel poveretto! Si rannicchia, tutto tremante, e guarda alle sue spalle con sguardo malevolo. Ha in una mano un piccolo pugnale, ma è assolutamente intimorito e vile per servirsene. Ora comincio a distinguere vagamente le figure sullo sfondo. Volti feroci, barbuti e scuri, prendono forma nella nebbia. Vedo un essere spaventoso, uno scheletro vivente, le guance incavate e gli occhi infossati nella testa. Anche costui ha in mano un coltello. Un uomo alto, molto giovane, dai capelli biondi, dal volto torvo e duro sta in piedi sulla destra della donna. La bellissima dama alza gli occhi verso di lui con sguardo supplichevole. Altrettanto fa l'uomo rannicchiato accanto a lei. Questo giovane pare essere l'arbitro del loro destino. L'uomo accovacciato si avvicina ancora di più alla donna, nascondendosi fra le sue gonne. Il giovane alto si china e tenta di strapparlo da lei. Tutto questo ho visto stanotte prima che lo specchio ridiventasse limpido. Non saprò mai come finisce questa storia? Non si tratta di semplice immaginazione, di ciò sono più che certo. Questa scena è accaduta in un luogo, in una determinata epoca e l'immagine si è riflessa nell'antico specchio. Ma dove?... Quando?...

20 gennaio. Il mio lavoro sta per giungere alla fine, ed era ora.

Sento una tensione, un senso di costrizione intollerabile che mi dice che qualcosa deve succedere. Ho lavorato fino allo stremo delle mie forze. Questa dovrebbe essere però l'ultima sera. Con uno sforzo supremo dovrei finire l'ultimo libro mastro e concludere il caso prima di alzarmi dalla sedia. Devo riuscirci.

Ci riuscirò.

7 febbraio. Ci sono riuscito. Ma che esperienza, Non so ancora se le mie forze mi consentiranno di metterla per iscritto.

Permettete che, prima di tutto, io spieghi come stia scrivendo questi appunti nella clinica privata del dottor Sinclair, circa tre settimane dopo l'ultima annotazione nel mio diario. La notte del 20 gennaio il mio sistema nervoso ha finalmente ceduto, e non ricordo più nulla di quanto è accaduto in seguito, finché non mi sono ritrovato qui, tre giorni fa, in una casa di cura. Ora posso riposare con la coscienza in pace. Prima di crollare ho portato a termine il mio lavoro. Le mie cifre sono in mano agli avvocati. La caccia è finita.

Adesso devo descrivere l'ultima nottata. Avevo giurato di finire il mio lavoro, e mi ci dedicai con tanta costanza, benché mi sentissi scoppiare la testa, che mi rifiutai cocciutamente di alzare gli occhi fin quando non avessi finito di controllare l'ultima colonna di cifre. Eppure era una imposizione crudele, poiché sapevo che per tutto il tempo nello specchio stavano succedendo cose meravigliose. Me lo diceva ogni nervo del mio corpo. Ma se avessi alzato gli occhi, sarebbe stata la fine del mio lavoro. Non sollevai dunque lo sguardo finché non ebbi finito tutto. Allora, quando gettai la penna con la testa in fiamme e alzai gli occhi, quale visione!

Lo specchio nella sua cornice d'argento era una specie di palcoscenico meravigliosamente illuminato, sul quale si stava svolgendo un dramma. Non vi era più nebbia. La tensione dei miei nervi aveva provocato questa stupefacente chiarezza. Ogni espressione, ogni movimento era nitido come in una scena di vita reale. Strano come io, uno stanco contabile, l'essere più prosaico della razza umana, davanti a me i libri mastri di un astuto delinquente, debba essere stato scelto fra tutti gli uomini per contemplare una simile scena!

La scena era la stessa e uguali erano i personaggi, ma il dramma aveva progredito. Il giovane alto stava stringendo fra le braccia la donna. Lei cercava di sfuggire alla stretta e lo guardava con espressione d'odio. Avevano allontanato con la forza dalla donna l'uomo rannicchiato. Una dozzina di esseri selvaggi e barbuti, lo circondavano. Lo stavano massacrando a colpi di pugnale. Pareva che lo colpissero all'unisono. Le loro braccia si alzavano e ricadevano. Il sangue non sgorgava da lui: zampillava. La veste rossa ne era tutta macchiata. Egli si gettava da una parte e dall'altra, grondante di rosso sangue, come una susina troppo matura. Eppure essi continuavano a pugnalarlo, e il sangue continuava a zampillare. Era orribile!... Lo trascinarono verso la porta mentre lui tentava ancora di scalciare. La donna voltò la testa per guardarlo, la bocca spalancata. Non udivo nulla, eppure sapevo che stava urlando. Poi, non so se per via della terrificante visione che mi stava di fronte, o se invece per l'eccesso di fatica delle ultime settimane, la stanza prese a girarmi attorno, il pavimento parve sprofondare sotto i miei piedi; dopodiché non ricordo più nulla. L'indomani mattina, di buonora, la padrona di casa mi ha trovato steso, privo di sensi, davanti allo specchio d'argento, ma io stesso non ricordo altro finché non mi sono svegliato tre giorni fa nella pace assoluta della casa di cura del mio medico.

9 febbraio. Soltanto oggi ho raccontato al dottor Sinclair la mia esperienza. Finora non mi aveva permesso di parlare di questo argomento. Mi ha ascoltato con profondo interesse.

"Lei non crede di poter identificare tutto questo con un noto episodio storico?" mi chiese sospettoso.

Lo assicurai che non conosco la storia.

"Non ha proprio idea dell'origine di quello specchio, né a chi appartenesse una volta?" continuò il medico.

"E lei lo sa?" chiesi a mia volta, poiché la sua domanda mi era parsa densa di significato.

"E' incredibile" disse Sinclair "eppure come si può spiegarlo altrimenti? Le scene che lei mi aveva descritto precedentemente lo suggerivano, ma adesso le cose sono andate oltre ogni possibilità di coincidenza! Questa sera le porterò alcuni appunti." Ed ecco quanto mi disse quella sera. Permettete che annoti le sue parole quanto più esattamente possibile. Ha esordito appoggiando vari volumi ammuffiti sul mio letto.

"Questi li potrà consultare con suo comodo" mi ha detto. "Ho qui degli appunti che lei potrà controllare. Non vi è alcun dubbio che ciò che lei ha visto è l'assassinio di Rizzio da parte dei nobili scozzesi alla presenza della regina Mary, che avvenne nel marzo del 1566. La descrizione da lei fatta della donna è assai precisa.

La fronte alta e le palpebre pesanti accoppiate a una grande bellezza, difficilmente potrebbero riferirsi a due donne. Il giovane alto era suo marito, Darnley. Rizzio, dice la cronaca, "era vestito di un'ampia veste da camera bordata di pelliccia, con calze di velluto color ruggine". Con una mano si aggrappava alla veste di Mary, con l'altra teneva un pugnale. L'uomo dall'espressione feroce e dagli occhi infossati era Ruthven, appena rimesso da lunga malattia. Ogni particolare corrisponde."

"Ma perché a me?" chiesi, sconcertato. "Perché di tutti gli uomini, proprio a me?"

"Perché lei era in una condizione mentale idonea a ricevere l'impressione. Perché per puro caso possedeva lo specchio..."

"Lo specchio!" gridai. "Lei è dunque convinto si tratti dello specchio della regina Mary.. che si trovasse nella stanza dove successe il fatto storico?"

"Sono convinto che si tratti dello specchio di Mary. Essa era stata regina di Francia. I suoi oggetti personali avrebbero recato l'insegna reale. Ciò che lei ha scambiato per tre punte di lancia erano in realtà i gigli di Francia."

"E la scritta?"

"Sanc. X. Pal" la si può spiegare con "Sanctae Crucis Palatium".

Qualcuno ha segnato sullo specchio il luogo donde proveniva. Era il Palazzo della Santa Croce."

"Holyrood!" esclamai.

"Precisamente. Il suo specchio proveniva da Holyrood. Lei ha avuto un'esperienza unica ed è riuscito a liberarsene. Mi auguro che non si metterà mai più in condizioni di doverne affrontare una analoga."

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