Denis Diderot



GIACOMO IL FATALISTA
E IL SUO PADRONE

 

 

 

 

Come si erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano?

Che v'importa? Da dove venivano? Dal posto più vicino. Dove andavano?

Si sa forse dove si va? Che dicevano? Il padrone non diceva niente; e Giacomo diceva che il suo capitano diceva che tutto ciò che quaggiù ci capita di bene e di male, era scritto lassù.

IL PADRONE: E' un gran detto questo.

GIACOMO: Il mio capitano aggiungeva che ogni palla che parte da un fucile ha il suo indirizzo.

IL PADRONE: E aveva ragione...

Dopo una breve pausa, Giacomo esclamò: - Il diavolo si porti l'oste e la sua osteria!

IL PADRONE: Perché mandare al diavolo il prossimo? Non è da cristiano.

GIACOMO: E' che mentre che io mi ubriaco del suo vinaccio, dimentico di portare i nostri cavalli all'abbeveratoio. Mio padre se ne accorge; si arrabbia. Io scuoto la testa; lui prende un bastone e mi ci accarezza un po' duramente le spalle. Passava un reggimento che andava al campo davanti a fontenoy; per dispetto, mi arruolo. Arriviamo; si dà battaglia.

IL PADRONE: E tu ricevi la pallottola col tuo indirizzo.

GIACOMO: L'avete indovinato; una fucilata al ginocchio; e Dio sa le buone e le cattive avventure provocate da questa fucilata. Esse si legano strettamente, né più né meno che le maglie di una catena d'orologio. Senza questa fucilata, per esempio, credo che in vita mia, non sarei mai stato né innamorato né zoppo.

IL PADRONE: Sei dunque stato innamorato?

GIACOMO: Se lo sono stato!

IL PADRONE: A causa di una fucilata?

GIACOMO: Per una fucilata.

IL PADRONE: Non me ne hai mai detto nulla.

GIACOMO: Lo credo bene.

IL PADRONE: E perché?

GIACOMO: E' che ciò non poteva esser detto né più presto né più tardi.

IL PADRONE: E il momento è venuto di conoscere questi amori?

GIACOMO: Chi lo sa.

IL PADRONE: In ogni caso, comincia pure...

Giacomo cominciò la storia dei suoi amori. Era il dopo pranzo: il tempo era afoso; il padrone si addormentò. La notte li sorprese in mezzo ai campi; eccoli fuori strada. Ecco il padrone terribilmente in collera calare grandi colpi di frusta sul domestico, e il povero diavolo dire ad ogni frustata: «Anche questo era evidentemente scritto lassù...».

Vedi, lettore, che sono sulla buona strada, e che solo da me dipenderebbe il farti aspettare un anno, due anni, tre anni, il racconto degli amori di Giacomo, separandolo dal suo padrone e facendo loro, separatamente, capitare tutte le avventure che a me piacesse.

Chi mi impedirebbe di far sposare il padrone e farlo cornificare? di imbarcare Giacomo per le isole? di portarvi il suo padrone? di riportarli tutti e due in Francia sulla stessa nave? Com'è facile fare dei racconti! Ma se la caveranno l'uno e l'altro con una nottataccia, e tu con questa dilazione.

L'alba apparve. Eccoli risaliti in groppa e proseguire il cammino. - E dove andavano? - Ecco la seconda volta che mi fate questa domanda, e la seconda volta che vi rispondo: Che v'importa? Se comincio a parlare del loro viaggio, addio amori di Giacomo... Camminarono per qualche tempo in silenzio. Quando ognuno si fu un po' rimesso dalla propria pena, il padrone disse al domestico: - Ebbene, Giacomo, dove eravamo coi tuoi amori?

GIACOMO: Eravamo, credo, alla rotta dell'esercito nemico. Si fugge, si è inseguiti, ognuno pensa a sé. Io rimango sul campo di battaglia, sepolto sotto la moltitudine dei morti e dei feriti che fu enorme.

L'indomani fui buttato, con una dozzina di altri disgraziati, su una carretta, per essere portato a uno dei nostri ospedali. Ah! signore, non credo che ci siano ferite più crudeli di quelle al ginocchio.

IL PADRONE: Andiamo, Giacomo, tu scherzi.

GIACOMO: Per Dio, nossignore, non scherzo! Ci sono non so quante ossa, quanti tendini, e quante altre cose, che si chiamano non so come...

Una specie di contadino che li seguiva, con una ragazza che portava in groppa, e che li aveva sentiti, prese la parola e disse: - Il signore ha ragione...

Non si sapeva a chi questo "il signore" fosse rivolto, ma fu preso a male da Giacomo e dal suo padrone; e Giacomo disse a questo interlocutore indiscreto: - Di che ti impicci?

- M'impiccio del mio mestiere; sono chirurgo, per servirvi, e vi dimostrerò...

La donna che portava in groppa gli diceva: - Signor dottore, andiamo per la nostra strada e lasciamo questi signori, a cui non piace che si dimostri.

- No, - le rispose il chirurgo,- voglio dimostrare loro, e dimostrerò loro...

E nel girarsi per dimostrare, spinge la sua compagna, le fa perdere l'equilibrio e la butta per terra, con un piede impigliato nella coda della sua giacca e con le sottane rovesciate sulla testa. Giacomo scende, libera il piede di quella povera creatura e le abbassa le gonne. Non so se cominciò con l'abbassare le gonne o con il liberare il piede; ma, se si deve giudicare lo stato di questa donna dalle sue grida, essa si era gravemente ferita. E il padrone di Giacomo diceva al chirurgo: - Ecco che significa dimostrare.

E il chirurgo: - Ecco che significa non volere che si dimostri!...

E Giacomo alla donna caduta, o già rialzata: - Consolatevi, brava donna, non è colpa vostra, né colpa del dottore, né mia, né del mio padrone: era scritto lassù che oggi, su questa strada, a quest'ora, il dottore fosse un chiacchierone, io e il mio padrone fossimo due burberi, che voi aveste una contusione alla testa e che vi si vedesse il culo...

Che cosa non diventerebbe nelle mie mani questa avventura, se mi prendesse il ghiribizzo di spingervi alla disperazione! Darei importanza a questa donna, ne farei la nipote del curato di un villaggio vicino; chiamerei alla riscossa i contadini di questo villaggio; mi preparerei armi ed amori; poiché, insomma, la villanella era bella sotto i suoi panni. Giacomo e il suo padrone se ne erano accorti; l'amore non ha atteso sempre un'occasione così seducente!

Perché Giacomo non potrebbe innamorarsi una seconda volta? Perché non sarebbe una seconda volta il rivale, e perfino il rivale preferito, del suo padrone?

- Questo caso c'era dunque già stato? - Sempre domande! Non volete proprio che Giacomo continui il racconto dei suoi amori? Una buona volta per tutte, spiegatevi; vi farebbe, o non vi farebbe piacere? Se vi farà piacere, rimettiamo la villanella in groppa, dietro al suo accompagnatore, lasciandoli andare e torniamo ai nostri due viaggiatori. Questa volta fu Giacomo che prese la parola e disse al suo padrone:

- Ecco come va il mondo; voi che, in vita vostra, non siete mai stato ferito e non sapete che significa una fucilata al ginocchio, mi sostenete, a me che ho avuto il ginocchio fracassato e che zoppico da vent'anni...

IL PADRONE: Potresti aver ragione. Ma quel chirurgo impertinente è causa del fatto che sei ancora su una carretta con i tuoi compagni, lontano dall'ospedale, lontano dalla guarigione e dall'innamorarti.

GIACOMO: Qualunque cosa vi piaccia pensare di ciò, il dolore del mio ginocchio era eccessivo; aumentava ancora più per la durezza della vettura, per il cattivo stato delle strade, e ad ogni sobbalzo lanciavo un grido acuto.

IL PADRONE: Perché era scritto lassù che gridassi?

GIACOMO: Certamente! Perdevo tutto il sangue, e sarei stato un uomo morto se la nostra carretta, l'ultima della fila, non si fosse fermata davanti a una capanna. Là io chiedo di scendere; mi si mette per terra. Una giovane, che stava dritta sulla porta della capanna, entrò e uscì di nuovo quasi subito, con un bicchiere e una bottiglia di vino. Bevvi in fretta un bicchiere o due. Le carrette che precedevano la nostra sfilarono. Si preparavano a buttarmi di nuovo fra i miei compagni quando, aggrappandomi con forza alle vesti di quella donna e a tutto quello che mi stava intorno, protestai che non sarei risalito e che, morto per morto, preferivo che fosse nel posto in cui mi trovavo piuttosto che due leghe più in là. Nel finire queste ultime parole, caddi svenuto. Quando uscii da questo stato, mi trovai spogliato e disteso in un letto, che occupava uno degli angoli della capanna, con intorno a me un contadino, il padrone del posto, sua moglie, quella stessa che mi aveva soccorso, e alcuni bambini. La donna aveva inzuppato nell'aceto un angolo del grembiule e mi ci strofinava il naso e le tempie.

IL PADRONE: Ah! disgraziato! Ah birbante... Infame, vedo dove vai a parare.

GIACOMO: Padrone mio, credo che non vediate niente.

IL PADRONE: Non è di questa donna che ti innamorerai ?

GIACOMO: E quand'anche mi fossi innamorato di lei, che ci sarebbe da ridire? Non si è forse padroni di innamorarsi o no? E se lo si è, si è forse padroni di agire come se non lo si fosse? Se ciò fosse stato scritto lassù, tutto quello che state per dirmi, io me lo sarei detto; mi fossi schiaffeggiato; mi fossi battuto la testa al muro; mi fossi strappato i capelli: sarebbe stato né più né meno, e il mio benefattore ugualmente cornificato.

IL PADRONE: Ma ragionando a modo tuo, non c'è delitto che non si possa commettere senza rimorso!

GIACOMO: Ciò che mi obiettate m'ha dato da pensare più di una volta; ma con tutto ciò, anche se mio malgrado, torno sempre al detto del mio capitano: «Tutto il bene e tutto il male che ci accade quaggiù è scritto lassù». Conoscete, signore, qualche mezzo per cancellare questa scritta? Posso io non essere io? Ed essendo io, posso fare diversamente da quel che faccio? Posso io essere io e un altro? E da quando sono al mondo, c'è stato un solo istante in cui ciò non sia stato vero? Predicate quanto volete, le vostre ragioni saranno forse buone; ma se è scritto in me o lassù che io le trovi cattive, che volete che ci faccia?

IL PADRONE: Penso a una cosa, se il tuo benefattore sarebbe stato cornificato perché era scritto lassù; o se questo era scritto lassù, perché tu cornificheresti il tuo benefattore.

GIACOMO: Le due cose erano scritte una vicino all'altra. Tutto è stato scritto insieme. E' come un grande rotolo che si svolge a poco a poco...

Tu comprendi, lettore, fin dove potrei spingere questa conversazione su un argomento di cui si è tanto parlato, tanto scritto da duemila anni senza aver fatto un passo avanti. Se la tua gratitudine è scarsa, per ciò che ti dico, dammene molta per ciò che non ti dico.

Mentre i nostri due teologi disputavano senza capirsi, come può succedere in teologia, si avvicinava la notte. Essi attraversavano una contrada sempre poco sicura, e che lo era ancora molto meno dopo che la cattiva amministrazione e la miseria avevano moltiplicato senza fine il numero dei malfattori. Si fermarono alla locanda più miserabile. Furono loro preparate due brande in una camera chiusa da pareti piene ovunque di crepe. Chiesero la cena. Si portò loro acqua di pozzanghera, pane nero e vino inacidito. L'oste, l'ostessa, i bambini, i servi, tutto aveva un aspetto sinistro. Vicino a loro sentivano le risa smodate e l'allegria tumultuosa di una dozzina di briganti che li avevano preceduti e che si erano impadroniti di tutte le provviste. Giacomo era abbastanza tranquillo; il suo padrone era molto lontano dall'esserlo altrettanto. Questi passeggiava in lungo e in largo preoccupato, mentre il suo domestico divorava alcuni pezzi di pane nero e mandava giù tra le smorfie qualche bicchiere di vino cattivo. Erano a questo punto, quando sentirono picchiare alla loro porta: era un servo, che quegli insolenti e pericolosi vicini avevano costretto a portare ai nostri due viaggiatori, su uno dei loro piatti, tutti gli ossi dei polli che avevano mangiati. Giacomo, indignato, prende le pistole del suo padrone.

- Dove vai?

- Lasciatemi fare.

- Dove vai? ti dico.

- A ridurre alla ragione queste canaglie.

- Sai che sono una dozzina?

- Fossero anche cento, il numero non conta, se lassù è scritto che non bastano.

- Al diavolo tu e la tua frase impertinente!

Giacomo sfugge alle mani del padrone, entra nella camera di quei manigoldi, una pistola carica in ognuna delle mani. - Presto a letto, - dice loro, - il primo che si muove, gli brucio le cervella... - Giacomo aveva talmente l'aria e il tono della verità che quei birbanti, che apprezzavano la vita almeno quanto la brava gente, si alzano dalla tavola senza dire una parola, si spogliano e si coricano.

Il suo padrone, incerto sul modo in cui sarebbe finita questa avventura, lo aspettava tremante. Giacomo tornò carico dei vestiti di quella gente; se ne era impadronito perché non fossero tentati di alzarsi di nuovo; aveva spento la luce e chiusa a doppia mandata la loro porta, di cui teneva la chiave insieme a una delle pistole.- Adesso, signore, - disse al suo padrone, - dobbiamo solo barricarci spingendo i nostri letti contro questa porta, e dormire pacificamente...- E si sentì in dovere di spingere i letti, raccontando freddamente e succintamente al suo padrone i particolari di questa spedizione.

IL PADRONE: Giacomo, che diavolo di uomo sei! Credi dunque...

GIACOMO: Non credo né discredo.

IL PADRONE: Se avessero rifiutato di coricarsi?

GIACOMO: Era impossibile.

IL PADRONE: Perché?

GIACOMO: Perché non l'hanno fatto.

IL PADRONE: E se si alzassero di nuovo?

GIACOMO: Tanto peggio o tanto meglio.

IL PADRONE: Se... se... se... e...

GIACOMO: Se, se il mare bollisse, ci sarebbero, come suol dirsi, molti pesci lessi. Che diavolo, signore, poco fa avete creduto che corressi un grande pericolo, e niente era più falso; adesso vi credete in grande pericolo e niente forse è ancora più falso. In questa casa, abbiamo tutti paura gli uni degli altri; il che prova che siamo tutti degli sciocchi...

E così discorrendo, eccolo spogliato, coricato e addormentato. Il suo padrone, mangiando a sua volta un pezzo di pane nero e bevendo un bicchiere di quel vinaccio, tendeva l'orecchio intorno a sé, guardava Giacomo che russava, e diceva: «Che diavolo d'uomo è questo qui!...» Sull'esempio del suo domestico, il padrone si sdraiò anch'egli sul suo giaciglio, ma non ci si addormentò come lui. Appena spuntò il giorno, Giacomo sentì una mano che lo spingeva; era quella del suo padrone che lo chiamava a bassa voce: - Giacomo! Giacomo!

GIACOMO: Che c'è?

IL PADRONE: Fa giorno.

GIACOMO: E' possibile.

IL PADRONE: Alzati dunque.

GIACOMO: Perché?

IL PADRONE: Per uscire di qui al più presto.

GIACOMO: Perché?

IL PADRONE: Perché ci stiamo male.

GIACOMO: Chi lo sa, e chi sa se staremo meglio altrove?

IL PADRONE: Giacomo?

GIACOMO: Ebbene, Giacomo! Giacomo! che diavolo d'uomo siete?

IL PADRONE: Che diavolo d'uomo sei tu! Giacomo, amico mio, te ne prego.

Giacomo si stropicciò gli occhi, sbadigliò più volte, stirò le braccia, si alzò, si vestì senza fretta, spinse via i letti, uscì dalla stanza, scese, andò alla scuderia, sellò e imbrigliò i cavalli, svegliò l'oste che dormiva ancora, pagò il conto, tenne per sé le chiavi delle due camere; ed ecco partiti i nostri eroi.

Il padrone voleva allontanarsi di gran trotto; Giacomo voleva camminare al passo e sempre secondo il suo sistema. Quando furono a una distanza abbastanza grande dal loro triste asilo, il padrone, sentendo risuonare qualcosa nella tasca di Giacomo, gli chiese che fosse: Giacomo gli disse che erano le due chiavi delle camere.

IL PADRONE: E perché non le hai restituite?

GIACOMO: E' perché bisognerà sfondare due porte; quella dei nostri vicini per tirarli fuori della loro prigione, la nostra per dare loro i vestiti, e questo ci farà guadagnar tempo.

IL PADRONE: Benissimo, Giacomo! Ma perché guadagnare tempo?

GIACOMO: Perché, in fede mia, non ne so nulla.

IL PADRONE: E se vuoi guadagnar tempo, perché andare, come fai, al passo?

GIACOMO: E' che non sapendo ciò che è scritto lassù, non si sa né ciò che si vuole, né ciò che si fa, e si segue la propria fantasia che si chiama ragione, o la propria ragione che non è spesso che una pericolosa fantasia, che volge ora verso il bene ora verso il male.

IL PADRONE: Potresti dirmi che cos'è un pazzo e che cos'è un savio?

GIACOMO: Perché no?... Un pazzo... aspettate... è un uomo infelice; e di conseguenza un uomo felice è savio.

IL PADRONE: E cos'è un uomo felice o infelice?

GIACOMO: Quanto a questo, è cosa facile. Un uomo felice è quello la cui felicità è scritta lassù; di conseguenza colui la cui infelicità è scritta lassù, è un uomo infelice.

IL PADRONE: E chi è che ha scritto lassù la felicità e l'infelicità?

GIACOMO: E chi è che ha fatto il grande rotolo, in cui tutto è scritto? Un capitano amico del mio capitano avrebbe dato volentieri un piccolo scudo per saperlo; quanto a lui, non avrebbe dato un obolo, e io nemmeno: a che mi servirebbe? Eviterei per questo la buca nella quale devo andare a rompermi il collo?

IL PADRONE: Credo di sì.

GIACOMO: Io credo di no; poiché bisognerebbe che ci fosse una riga falsa sul grande rotolo che contiene verità, che non contiene che verità, e che contiene ogni verità. Se fosse scritto sul grande rotolo: «Giacomo si romperà il collo il tale giorno», Giacomo non si romperebbe il collo? Credete che ciò possa succedere, chiunque sia l'autore del grande rotolo?

IL PADRONE: Ci sono molte cose da dire su questo punto...

GIACOMO: Il mio capitano credeva che la prudenza fosse una supposizione, nella quale l'esperienza ci autorizza a considerare le circostanze, in cui ci troviamo, come cause di certi effetti da sperare o da temere per l'avvenire.

IL PADRONE: E tu ci capivi qualche cosa?

GIACOMO: Certamente, a poco a poco mi ero abituato al suo linguaggio.

Ma, diceva, chi può vantarsi di avere abbastanza esperienza? Colui che si è lusingato di esserne meglio fornito, non è stato mai ingannato? E poi, c'è un uomo capace di apprezzare esattamente le circostanze in cui si trova? Il calcolo che si fa nelle nostre teste, e quello che è fissato sul registro di lassù, sono molto diversi. Siamo noi che guidiamo il destino, oppure è il destino che ci guida? Quanti progetti saggiamente concertati sono falliti, e quanti falliranno! Quanti progetti insensati sono riusciti e quanti riusciranno! E' ciò che il mio capitano mi ripeteva dopo la presa di Berg-op-Zoom e quella di Port-Mahon; e aggiungeva che la prudenza non ci garantisce affatto un buon successo, ma ci consola e ci scusa di un esito cattivo: così, egli dormiva sotto la sua tenda, alla vigilia di un'azione, come quando era di guarnigione, e andava al fuoco come a un ballo. E' proprio di lui che avreste detto: «Che diavolo d'uomo!...»


Erano a questo punto, quando sentirono a qualche distanza dietro di loro grida e rumore; girarono la testa e videro una banda di uomini armati di pertiche e di forche che si avvicinavano a loro, correndo a gambe levate. Crederete certamente che era la gente dell'osteria, con i servi e i briganti di cui abbiamo parlato. Crederete che, al mattino, in mancanza di chiavi, la porta era stata sfondata e che i briganti si erano immaginati che i nostri due viaggiatori avessero preso il largo con i loro vestiti. Giacomo lo credette e diceva fra i denti: «Siano maledette le chiavi e la fantasia o la ragione che me le fece portare via! Sia maledetta la prudenza! eccetera eccetera».

Crederete che questo piccolo esercito si getterà su Giacomo e sul suo padrone, che ci sarà un'azione sanguinosa, bastonate, pistolettate; dipenderebbe solo da me che tutto questo accadesse; ma, addio verità della storia, addio racconto degli amori di Giacomo. I nostri due viaggiatori non erano per nulla inseguiti; io ignoro ciò che accadde nell'osteria dopo la loro partenza. Essi continuarono la loro strada, camminando sempre senza sapere dove andassero, sebbene sapessero più o meno dove volevano andare; ingannando la noia e la stanchezza con il silenzio e con le chiacchiere, secondo l'abitudine di quelli che camminano, e a volte di quelli che stanno seduti.

E' evidentissimo che non voglio fare un romanzo, visto che trascuro ciò che un romanziere non mancherebbe di impiegare. Colui che prendesse quello che scrivo per verità, sarebbe forse meno in errore di colui che lo considerasse come favola.

Questa volta fu il padrone che parlò per primo e che cominciò con il solito ritornello: - Ebbene! Giacomo, e la storia dei tuoi amori?

GIACOMO: Non so dove ero rimasto. Sono stato così spesso interrotto, che farei ugualmente bene se ricominciassi.

IL PADRONE: No, no. Ripresi i sensi sulla porta della capanna, ti trovasti in un letto, circondato dalla gente che l'abitava.

GIACOMO: Benissimo! La cosa più urgente era avere un chirurgo, e non ce n'era per più di una lega tutt'intorno. Il brav'uomo fece salire a cavallo uno dei suoi figli e lo spedì al posto meno lontano. Intanto, la buona donna aveva fatto riscaldare del vino ordinario e aveva strappato una vecchia camicia di suo marito; e il mio ginocchio fu disinfettato, coperto di compresse e avvolto in panni. Furono messi alcuni pezzetti di zucchero, sottratti alle formiche, in una porzione del vino che aveva servito alla mia medicazione, ed io lo trangugiai; quindi fui esortato ad avere pazienza. Era tardi; quella gente si mise a tavola per cenare. Ecco finita la cena. Intanto, il ragazzo non tornava, e niente chirurgo. Il padre andò in collera. Era un uomo stizzoso per natura; teneva il broncio a sua moglie, non gli andava niente a genio. Mandò a letto burberamente gli altri suoi figli. Sua moglie si sedette su un banco e prese la conocchia. Lui andava su e giù; e camminando avanti e indietro la riprendeva su ogni cosa. - Se fossi stata al mulino come ti avevo detto... e finiva la frase con un cenno della testa indirizzato al mio letto.

«Ci si andrà domani.

- Bisognava andarci oggi, come t'avevo detto... E quei resti di paglia che stanno ancora sul fienile, che aspetti per raccoglierli?

- Li raccoglieremo domani.

-Quella che abbiamo è quasi finita, e avresti fatto meglio a raccoglierli oggi, come ti avevo detto... E quel mucchio d'orzo che si guasta nel granaio, scommetto che non hai pensato a rimuoverlo.

- L'hanno fatto i ragazzi.

- Avresti dovuto farlo tu stessa. Se fossi stata nel granaio, non saresti stata sulla porta».

Arriva intanto un chirurgo, poi un secondo, poi un terzo, con il ragazzetto della capanna.

IL PADRONE: Eccoti fornito di chirurghi come san Rocco di cappelli.

GIACOMO: Il primo era assente, quando il ragazzino era arrivato da lui; ma sua moglie aveva fatto avvisare il secondo, e il terzo aveva accompagnato il ragazzo. - Eh! buona sera, compari; siete qui? - disse il primo agli altri due... Erano venuti il più velocemente possibile, sentivano caldo, erano assetati. Si siedono intorno alla tavola, la cui tovaglia non era stata ancora tolta. La donna scende in cantina, e risale con una bottiglia. Il marito bofonchiava fra i denti: - Eh! che diavolo faceva sulla porta? - Si beve, si parla delle malattie del cantone; ognuno inizia l'enumerazione delle proprie pratiche. Io mi lamento; mi dicono: - Fra un istante siamo da voi -.

Dopo questa bottiglia, ne chiedono una seconda, sul conto della mia cura; poi una terza, una quarta, sempre sul conto della mia cura; e a ogni bottiglia il marito tornava alla sua prima esclamazione: - Eh!

che diavolo faceva sulla porta?

Quale effetto non avrebbe tratto un altro, di questi tre chirurghi, della loro conversazione alla quarta bottiglia, della moltitudine delle loro cure meravigliose, dell'impazienza di Giacomo, del cattivo umore dell'ospite, dei discorsi dei nostri Esculapi di campagna riguardo al ginocchio di Giacomo, dei loro pareri diversi, pretendendo l'uno che Giacomo sarebbe morto se non ci si affrettava a tagliargli la gamba, l'altro che bisognava estrarre la pallottola e il pezzo di vestito che l'aveva seguita, e lasciare la gamba a quel povero diavolo. Intanto si sarebbe visto Giacomo seduto sul letto, intento a guardare pietosamente la sua gamba, e a farle gli ultimi addii, come si vide fare a uno dei nostri generali fra Dufouart e Louis. Il terzo chirurgo avrebbe approvato a volte l'uno a volte l'altro, finché si fosse accesa fra loro una disputa e dalle invettive si fosse venuti alle mani. Ma io vi faccio grazia di tutte queste cose, che troverete nei romanzi, nella commedia antica e in società. Quando sentii l'ospite dire di sua moglie «che diavolo faceva sulla porta», mi ricordai dell'Arpagone di Molière, quando dice di suo figlio: «Che andava a fare in quella galera?» E capii che non si tratta solo di essere veri, ma che per di più bisogna essere divertenti; e che era questa la ragione per cui si direbbe per sempre: "Che andava a fare in quella galera?" e che il detto del mio contadino, "Che faceva sulla porta?" non diventerebbe proverbiale.

Giacomo non usò verso il suo padrone quel riserbo che io uso con voi; egli non omise la minima circostanza, con il rischio di addormentarlo una seconda volta. Se non fu il più abile, fu però il più vigoroso dei tre chirurghi che rimase padrone del paziente.

Non vorrete, mi direte voi, metterci i bisturi sotto gli occhi, tagliare le carni, far scorrere sangue e mostrarci un'operazione chirurgica? Secondo voi, non sarebbe di buon gusto?... Via, lasciamo da parte anche l'operazione; ma permetterete almeno a Giacomo di dire al suo padrone, come fece: - Ah! signore, è una cosa terribile riaggiustare un ginocchio fracassato! - E al suo padrone di rispondergli come prima: - Andiamo, Giacomo, tu scherzi... - Ma quello che non vi lascerò ignorare nemmeno per tutto l'oro del mondo, è che il padrone gli aveva appena data questa risposta impertinente, quando il suo cavallo incespica e cade, il suo ginocchio va a sbattere violentemente contro un sasso aguzzo ed eccolo gridare a squarciagola:

- Sono morto! Ho il ginocchio rotto!...

Anche se Giacomo - la migliore pasta d'uomo che si possa immaginare - era teneramente affezionato al suo padrone, vorrei ben sapere che successe in fondo alla sua anima, se non subito, almeno quando egli fu ben sicuro che la caduta non aveva conseguenze spiacevoli; e se egli poté difendersi da un lieve moto di segreta gioia per una disgrazia che avrebbe fatto capire al suo padrone che cosa è una ferita al ginocchio. Un'altra cosa, che io vorrei mi dicessi, lettore, è se il suo padrone non avrebbe voluto piuttosto essere ferito, anche un po' più gravemente, altrove che non al ginocchio, o se non fosse sensibile più alla vergogna che al dolore.

Quando il padrone si fu un po' ripreso dalla caduta e dall'angoscia, si rimise in sella e diede cinque o sei speronate al suo cavallo, che partì come un fulmine; la cavalcatura di Giacomo fece altrettanto, poiché c'era fra questi due animali la stessa intimità che fra i loro cavalieri; erano due coppie di amici.

Quando i due cavalli ansimanti ripresero il passo abituale, Giacomo disse al suo padrone: - Ebbene, signore, che ne pensate?

IL PADRONE: Di che?

GIACOMO: Della ferita al ginocchio.

IL PADRONE: Sono del tuo parere; è una delle più crudeli.

GIACOMO: Per il vostro?

IL PADRONE: No, no, per il tuo, per il mio, per tutti i ginocchi del mondo.

GIACOMO: Padrone mio, padrone mio, non ci avete guardato bene; credete pure che noi non compiangiamo mai che noi stessi.

IL PADRONE: Che pazzia!

GIACOMO: Ah! se sapessi parlare come so pensare! Ma era scritto lassù che avrei avuto le cose in testa, e che le parole non mi sarebbero venute.

Giacomo s'impantanò in una metafisica assai sottile e fors'anche assai vera. Egli cercava di far capire al suo padrone che la parola dolore è senza idea, e che essa comincia a significare qualche cosa solo nel momento in cui ricorda alla nostra memoria una sensazione da noi provata. Il suo padrone gli chiese se egli avesse mai partorito.

- No, - rispose Giacomo.

- E credi che il partorire produca una grande sofferenza?

- Sicuro!

- Tu compiangi le partorienti?

- Molto.

- Compiangi dunque a volte altri che non te stesso?

- Compiango quelli o quelle che si torcono le braccia, si strappano i capelli, lanciano grida, poiché so per esperienza che non si fa questo senza soffrire; ma quanto al male specifico della donna che partorisce, non lo compiango: grazie a Dio, non so che cos'è! Ma per tornare a una pena che conosciamo tutti e due, la storia del mio ginocchio, che è diventato il vostro a causa della vostra caduta...

IL PADRONE: No, Giacomo; la storia dei tuoi amori che sono diventati i miei, a causa dei miei dispiaceri passati.

GIACOMO: Eccomi fasciato, un po' sollevato; ecco partito il chirurgo e ritirati e coricati i miei ospiti. La loro camera era separata dalla mia soltanto con delle tavole a giorno, sulle quali era stata incollata della carta grigia, e su questa carta c'erano alcune immagini a colori. Io non dormivo, e sentii la donna dire al marito:

- Lasciatemi stare, non ho voglia di ridere. Un povero disgraziato che muore alla nostra porta!...

- Moglie, mi dirai dopo tutto questo.

- No, questo no. Se non la smettete, mi alzo. Non mi farà bene, se ho il cuore gonfio.

- Oh! se ti fai pregare tanto, ne sarai tu stessa la vittima.

- Non è per farsi pregare, ma è che a volte voi siete duro, ma duro!... è che... è che...

Dopo una pausa piuttosto breve, il marito prese la parola e disse: - Via, moglie, convieni ora che, per una compassione fuori posto, ci hai messi in un pasticcio dal quale è quasi impossibile uscire. L'annata è cattiva; possiamo appena bastare ai nostri bisogni e ai bisogni dei nostri figli. Il grano è così caro! Vino niente! Passi ancora se si trovasse da lavorare; ma i ricchi si trincerano; i poveri non fanno niente; per una giornata impiegata, ce ne son quattro perse. Nessuno paga ciò che deve; i creditori sono di un'avidità che fa disperare: ed è questo il momento che tu scegli per ospitare qui uno sconosciuto, un estraneo che resterà quanto piacerà a Dio e al chirurgo che non avrà fretta di guarirlo, perché i chirurghi fanno durare le malattie più che possono; uno straniero che non ha un soldo e che raddoppierà, triplicherà le nostre spese? Ora, moglie, come ti sbarazzerai di quest'uomo? Parla dunque, moglie, dimmi dunque qualche ragione.

- Si può forse parlare con voi?

- Dici che sono di cattiv'umore, che brontolo; eh! chi non lo sarebbe, chi non brontolerebbe? C'era ancora un po' di vino in cantina; Dio sa con quale velocità se ne andrà! I chirurghi ne bevvero ieri sera più di quanto noi e i nostri figli non avremmo fatto in tutta la settimana. E il chirurgo che non verrà qui per niente, come puoi immaginare, chi lo pagherà?

- Già, questo è proprio molto ben detto; e poiché siamo in miseria mi fate fare un figlio, come se non ne avessimo già abbastanza.

- Certo che no!

- Certo che sì; sono certa che rimarrò incinta!

- Dici così tutte le volte.

- E accade immancabilmente quando, dopo, mi prude l'orecchio; e sento ora un prurito come mai.

- Il tuo orecchio non sa quello che dice.

- Non toccarmi! Lascia stare il mio orecchio! Ehi, smettila dunque, uomo; sei matto? Avrai da pentirti.

- No, no; non mi è più successo dalla sera di San Giovanni.

-Farai tanto e così bene che... E poi fra un mese mi metterai il broncio, come se fosse colpa mia.

- No, no.

- E fra nove mesi sarà ancor peggio.

- No, no.

- L'avrai voluto tu?

- Sì, sì.

- Te ne ricorderai? Non dirai come hai detto tutte le altre volte?

- Sì, sì...

Ed ecco che poi, dal no no al sì sì, quest'uomo furioso contro sua moglie per aver essa ceduto a un sentimento d'umanità...

IL PADRONE: E' la riflessione che stavo facendo.

GIACOMO: E' certo che questo marito non era troppo conseguente; ma era giovane e sua moglie graziosa. Non si fanno mai tanti figli come in tempi di miseria.

IL PADRONE: Niente prolifica quanto i pitocchi.

GIACOMO: Un figlio di più non è niente per loro, è la carità pubblica che li nutre. E poi, è il solo piacere che non costa niente; ci si consola durante la notte, senza spesa, della calamità del giorno...

Tuttavia, le riflessioni di quest'uomo non erano sbagliate. Mentre mi dicevo questo, provai un violento dolore al ginocchio e gridai: - Ah, il ginocchio! - E il marito gridò: - Ah, moglie! - E la moglie gridò: - Ah, il mio uomo! ma... ma... quell'uomo che è lì!

- Ebbene, quell'uomo?

- Ci avrà forse sentiti!

- E che abbia pur sentito.

- Domani, non oserò guardarlo in faccia.

- E perché? Non sei forse mia moglie? Non sono forse tuo marito? E un marito ha moglie, e una moglie ha marito per niente?

- Ah! ah!

- Ebbene, che c'è?

- Il mio orecchio!...

- Che ha il tuo orecchio?

- Sta peggio che mai.

- Dormi, ti passerà.

- Non posso davvero. Ah, l'orecchio! Ah, l'orecchio!

- L'orecchio, l'orecchio, è facile dire...

Non vi dirò quel che accadeva fra loro; ma la moglie, dopo aver ripetuto l'orecchio, l'orecchio, parecchie volte di seguito a voce bassa e precipitata, finì col balbettare a sillabe interrotte l'...ore...cchio, e dopo questo o...re... cchio, non so che altro, che insieme al silenzio che seguì, mi fece immaginare che il suo mal d'orecchio s'era calmato, in un modo o nell'altro, non importa come.

Il che mi fece piacere. Ed anche a lei certamente!

IL PADRONE: Giacomo, mettiti la mano sulla coscienza e giurami che non è di questa donna che t'innamorasti.

GIACOMO: Lo giuro.

IL PADRONE: Peggio per te.

GIACOMO: Tanto peggio o tanto meglio. Credete proprio che le donne che hanno un orecchio come il suo, ascoltino volentieri?

IL PADRONE: Credo che stia scritto lassù.

GIACOMO: Io credo che sta scritto poi che non ascoltano a lungo lo stesso uomo, ma che sono soggette anzichenò a prestare l'orecchio a un altro.

IL PADRONE: Può darsi.

Ed eccoli imbarcati in una interminabile disputa sulle donne; sostenendo l'uno che le donne sono buone, l'altro cattive: e avevano tutti e due ragione; l'uno che sono sciocche, l'altro piene di spirito: e avevano tutti e due ragione; l'uno false, l'altro sincere:

e avevano ragione tutti e due; l'uno avare, l'altro liberali: e avevano tutti e due ragione; l'uno belle, l'altro brutte: e avevano tutti e due ragione; l'uno chiacchierone, l'altro discrete; l'uno franche, l'altro simulatrici; l'uno ignoranti, l'altro illuminate; l'uno oneste, l'altro licenziose; l'uno pazze, l'altro sensate; l'uno grandi, l'altro piccine: e avevano tutti e due ragione.

Mentre continuavano in questa disputa, durante la quale avrebbero potuto fare il giro del globo senza tacere un momento e senza mettersi d'accordo, furono colti da una tempesta che li costrinse a dirigersi... - Dove? - Dove? lettore, sei d'una curiosità molto importuna! E che diavolo t'importa? Quando vi avrò detto a Pontoise o a Saint-Germain, a Nostra Signora di Loreto o a San Giacomo di Compostella, ne saprai forse di più? Se insisti, ti dirò che si diressero verso... sì, perché no?... verso un immenso castello, sul frontone del quale si leggeva: «Non appartengo a nessuno e appartengo a tutti. C'eravate prima d'entrarvi, e ci sarete ancora quando ne uscirete». - Entrarono in questo castello? - No, poiché o la scritta mentiva, o essi c'erano già prima d'entrarvi. - Ma ne uscirono almeno? - No, poiché o la scritta mentiva, o essi c'erano ancora quando ne furono usciti. - E che fecero qui? - Giacomo diceva ciò che sta scritto lassù; il suo padrone ciò che volle: e avevano tutti e due ragione. - Che gente vi trovarono? - Mista. - Che si diceva? - Qualche verità e molte menzogne. - C'era gente di spirito? - Dove non ce n'è, e dove non ci sono i maledetti ficcanaso da sfuggire come la peste? Ciò che di più colpì Giacomo e il suo padrone durante tutto il tempo in cui vi passeggiarono... - Vi si passeggiava dunque? - Non si faceva altro, quando non si stava seduti o sdraiati... Ciò che colpì maggiormente Giacomo e il suo padrone, fu di trovarvi una ventina di temerari, che si erano impadroniti dei più splendidi appartamenti, in cui si trovavano quasi sempre rinchiusi; che pretendevano, contro il diritto comune e il vero senso della iscrizione, che il castello fosse stato lasciato loro in piena proprietà; e che, con l'aiuto di un certo numero di buoni a nulla da loro stipendiati, avevano convinto di questo un gran numero di altri fannulloni stipendiati, pronti per pochi soldi a impiccare o ad assassinare il primo che avesse osato contraddirli: tuttavia, al tempo di Giacomo e del suo padrone, si osava farlo a volte. - Impunemente?

- Secondo i casi.

Direte che mi diverto, e che, non sapendo più che farne dei miei viaggiatori, mi butto nell'allegoria, risorsa ordinaria degli spiriti sterili. Vi sacrificherò la mia allegoria e tutti i particolari che potrei tirarne fuori; vi concederò tutto ciò che vi piacerà, ma a condizione che non mi tormentiate su quest'ultimo alloggio di Giacomo e del suo padrone; sia che siano arrivati in una grande città ed abbiano passato la notte con delle donnine; o che abbiano pernottato da un vecchio amico, che li festeggiò meglio che poté; o che si siano rifugiati da frati questuanti, dove furono male alloggiati e mal nutriti per amor di Dio; o che siano stati accolti nella casa di un gran signore, in cui mancarono di tutto quello che è necessario, in mezzo a tutto quello ch'è superfluo; o che siano usciti al mattino da una gran locanda, nella quale fecero loro pagare molto caro una cattiva cena servita in piatti d'argento, e una notte passata fra tende di damasco e lenzuola umide e non stirate; o che abbiano ricevuto ospitalità da un parroco di villaggio a porzione congrua, che corse a mettere a contributo le bassecorti dei suoi parrocchiani, per avere una frittata e una fricassea di polli; o che si siano ubriacati di vini eccellenti, abbiano fatto bisboccia e presa una indigestione ben confezionata in una ricca abbazia di Bernardini; poiché, sebbene tutto questo vi sembri ugualmente possibile, Giacomo non era di questo parere: non c'era di realmente possibile che la cosa che era scritta lassù. Quello che c'è di vero, è che da qualunque parte vi piaccia metterli in cammino non ebbero fatto venti passi che il padrone disse a Giacomo, dopo aver tuttavia, secondo il suo costume, fiutato la sua presa di tabacco: Ebbene! Giacomo, e la storia dei tuoi amori?

Invece di rispondere, Giacomo esclamò: - Al diavolo la storia dei miei amori! Ecco che ho lasciato...

IL PADRONE: Cosa hai lasciato ?

Invece di rispondergli, Giacomo rigirava tutte le sue tasche e si frugava dappertutto inutilmente. Aveva lasciato la borsa da viaggio sotto il capezzale del letto, e lo ebbe appena confessato al suo padrone, che questi esclamò: - Al diavolo la storia dei tuoi amori!

Ecco che il mio orologio è rimasto appeso al camino!

Giacomo non si fece pregare; girò e tornò indietro al passo, poiché non aveva mai fretta... - All'immenso castello? - No, no. Fra i diversi posti possibili, di cui vi ho fatto l'enumerazione di prima, scegliete quello che va meglio alle attuali circostanze.

Intanto il suo padrone continuava ad andare avanti; ma ecco separati padrone e servitore, e non so di quale dei due devo soprattutto occuparmi. Se volete seguire Giacomo, badate; la ricerca della borsa e dell'orologio può diventare così lunga e complicata, da non fargli raggiungere per lungo tempo il suo padrone, solo confidente dei suoi amori, e addio amori di Giacomo. Se poi, abbandonatolo solo in cerca della borsa e dell'orologio, prendete la decisione di far compagnia al suo padrone, sarete cortesi ma vi annoierete molto; non conoscete ancora questo tipo di gente. Ha poche idee per la testa; se le capita di dire qualcosa di sensato, è per reminiscenza o per ispirazione.

Hanno occhi come voi e me; ma il più spesso non si sa se vedono. Non dormono, ma non stanno neppure svegli; si lasciano esistere: è la loro abituale funzione. L'automa andava davanti a sé, girandosi ogni tanto per vedere se Giacomo tornasse; scendeva da cavallo e camminava a piedi; risaliva sulla sua bestia, faceva un quarto di lega, smontava di nuovo e si sedeva per terra, con la briglia del cavallo infilata al braccio e con la testa poggiata sulle due mani. Quando era stanco di questa posizione, si alzava e guardava se non scorgesse Giacomo in lontananza. Ma niente Giacomo. Allora si spazientiva, e senza sapere neppure lui se parlasse o no, diceva: - Boia! cane! briccone! dov'è?

che fa? Ci vuole tanto tempo per riprendere una borsa e un orologio?

Gli darò un fracco di legnate; oh! questo è certo, gli darò un fracco di legnate . Poi cercava l'orologio nel taschino, dove non si trovava, e non finiva di desolarsi poiché non sapeva che fare senza l'orologio, senza la tabacchiera e senza Giacomo: erano queste infatti le tre grandi risorse della sua vita, che passava a prender tabacco, a guardare che ora fosse, a interrogare Giacomo, e ciò in tutte le combinazioni possibili. Privato dell'orologio, non gli restava che la tabacchiera, che apriva e chiudeva di continuo, come faccio io stesso quando mi annoio. Il tabacco che resta la sera nella mia tabacchiera è direttamente proporzionale al divertimento, o inversamente alla noia della mia giornata. Ti supplico, lettore, di familiarizzarti con questo modo di dire, preso a prestito dalla geometria, poiché lo trovo preciso e me ne servirò spesso.

Ebbene, ne avete abbastanza, del padrone; e poiché il domestico non viene a noi, non volete che andiamo a lui? Povero Giacomo! Nel momento in cui noi ne parliamo, egli esclamava dolorosamente: - Era dunque scritto lassù che, in uno stesso giorno, fossi arrestato come svaligiatore, fossi sul punto di andare in prigione, e accusato di aver sedotto una ragazza!

Mentre si avvicinava al passo al castello, no... al luogo in cui avevano ultimamente pernottato, passa accanto a lui uno di quei merciai ambulanti, che si chiamano portaballe, che gli grida: Signor cavaliere, giarrettiere, cinture, cordoni da orologio, tabacchiere all'ultima moda, veri Jabackt, anelli, astucci d'orologio. Un orologio, signore, un orologio, un bell'orologio d'oro, cesellato, a doppia cassa, come nuovo... Giacomo gli risponde: - Ne cerco uno in verità, ma non è quello tuo... - e continua la sua strada, sempre al passo. Camminando, credette di veder scritto lassù che l'orologio propostogli da quell'uomo era l'orologio del suo padrone. Torna sui suoi passi e dice al venditore: - Amico, vediamo il vostro orologio dalla cassa d'oro, ho in mente che potrebbe convenirmi. - In fede mia, dice il merciaio, - non ne sarei sorpreso; è bello, bellissimo, di marca Julien Le Roi. Non mi appartiene che da pochi istanti; l'ho acquistato per un pezzo di pane, lo venderò a poco prezzo. Mi piacciono i piccoli guadagni ripetuti; ma si è ben disgraziati con i tempi che corrono: da qui a tre mesi non mi capiterà una fortuna simile. Voi avete l'aria di un galantuomo e preferisco che ne approfittiate voi piuttosto che un altro...

Così chiacchierando, il merciaio aveva messo per terra la sua balla, l'aveva aperta e ne aveva tirato fuori l'orologio, che Giacomo riconobbe subito, senza stupirsene; poiché se non aveva mai fretta, egli si stupiva raramente. Guarda bene l'orologio: Sì, si dice, è questo... - E al merciaio: - Avete ragione, è bello, bellissimo, e so che è buono... - Poi mettendolo nel taschino dice al merciaio: - Grazie tante, amico!

- Come, grazie tante!

- Già, è l'orologio del mio padrone.

- Non conosco affatto il vostro padrone, quest'orologio è mio, l'ho ben comprato e pagato...

E prendendo Giacomo per il bavero, si preparò a riprendergli l'orologio. Giacomo si avvicina al cavallo, prende una delle sue pistole e appoggiandola al petto del merciaio: - Indietro, gli dice, - o sei morto -. Il merciaio spaventato lascia la presa. Giacomo risale a cavallo e si dirige pian pianino verso la città, dicendosi:

«Ecco recuperato l'orologio, adesso vediamo per la borsa...». Il merciaio chiude in fretta la sua balla, se la rimette sulle spalle e segue Giacomo gridando: - Al ladro! al ladro! all'assassino! aiuto! a me! a me!... - Era la stagione del raccolto: i campi erano pieni di gente al lavoro. Tutti lasciano le falci, si affollano intorno a quest'uomo e gli chiedono dov'è il ladro, dov'è l'assassino.

- Eccolo, eccolo laggiù.

- Come! quello che se ne va al passo verso la porta della città?

- Proprio quello.

- Andiamo, siete matto, non è questo il modo di comportarsi di un ladro.

-E' un ladro, è un ladro, mi ha preso con la forza un orologio d'oro...

Quella gente non sapeva che fare, se credere alle grida del merciaio o alla andatura tranquilla di Giacomo. - Intanto ragazzi miei,- aggiungeva il merciaio,- sono rovinato se non mi aiutate; vale trenta luigi cifra tonda. Aiutatemi, si porta via il mio orologio e se dà di sprone, l'orologio è perduto...

Se Giacomo non era in grado di sentire queste grida, poteva però vedere facilmente l'affollamento, ma non andava per questo più in fretta. Con il miraggio di una ricompensa, il merciaio spinse i contadini a inseguire Giacomo. Ecco dunque una moltitudine di uomini, di donne e di bambini correre gridando: «Al ladro! al ladro!

all'assassino!» e il merciaio che li segue da vicino, per quanto glielo permetteva il fardello di cui era carico, gridando: «Al ladro!

al ladro! all'assassino...» Intanto sono entrati in città, poiché è in una città che Giacomo e il suo padrone erano stati il giorno prima: me ne ricordo proprio adesso.

Gli abitanti lasciano le loro case, si uniscono ai contadini e al merciaio, tutti vanno gridando all'unisono: «Al ladro! al ladro!

all'assassino!...» Raggiungono Giacomo tutti insieme. Il merciaio si lancia su di lui, Giacomo gli affibbia una stivalata da cui è steso a terra, pur gridando tuttavia:- Briccone, furfante, scellerato, ridammi il mio orologio; me lo ridarai e sarai lo stesso impiccato...

Giacomo, conservando il suo sangue freddo, si rivolgeva alla folla che ingrossava ogni momento, e diceva: - C'è qui un magistrato, mi si porti da lui; là, farò vedere che io non sono affatto un furfante, e che quest'uomo potrebbe davvero esserlo lui. Gli ho preso un orologio, è vero: ma questo orologio è quello del mio padrone. Non sono sconosciuto in questa città: io e il mio padrone ci siamo arrivati l'altro ieri sera, e abbiamo soggiornato dal luogotenente generale, suo vecchio amico -. Se non vi ho detto prima che Giacomo e il suo padrone erano passati da Conches, e che avevano alloggiato dal luogotenente generale di questo posto, è che ciò non mi è venuto in mente prima. - Mi si porti dal luogotenente generale,- diceva Giacomo e al tempo stesso mise piede a terra. Lo si poteva vedere al centro del corteo lui, il suo cavallo e il merciaio. Camminano, arrivano alla porta del luogotenente generale. Giacomo, il suo cavallo e il merciaio vanno dentro, Giacomo e il merciaio tenendosi reciprocamente per la giacca. La folla resta fuori.

Che faceva intanto il padrone di Giacomo? Si era assopito sul ciglio della strada maestra, con la briglia del cavallo infilata nel braccio, e l'animale pasceva l'erba intorno al dormiente per quanto glielo permetteva la lunghezza della briglia.

Appena ebbe visto Giacomo, il luogotenente generale gridò: Eh! sei tu, mio povero Giacomo! Che cosa ti porta qui tutto solo?

-L'orologio del mio padrone: egli lo aveva lasciato appeso all'angolo del camino, e l'ho ritrovato nella balla di quest'uomo; la nostra borsa, che ho dimenticata sotto il mio capezzale, e che si ritroverà se voi lo ordinate.

- E se è scritto lassù... - aggiunse il magistrato.

Fece subito chiamare i suoi servi: e subito il merciaio, indicando un gran figuro dalla brutta faccia, e da poco assunto nella casa, disse:

- Ecco quegli che m'ha venduto l'orologio.

Il magistrato, assumendo un'aria severa, disse al merciaio e al suo domestico:- Meritereste entrambi la galera tu per aver venduto l'orologio, e tu per averlo comprato... - Al domestico:- Restituisci il suo danaro a quest'uomo e togliti subito la livrea... - Al merciaio: - Spicciati a sgomberare da questo paese, se non vuoi restarci attaccato per sempre. Fate entrambi un mestiere che porta disgrazia... Giacomo, si tratta ora della tua borsa -. Colei che se ne era appropriata comparve senza farsi chiamare; era una ragazza alta e fatta al tornio. Sono io che ho la borsa signore, - disse al suo padrone; - ma non l'ho affatto rubata: è lui che me l'ha data.

- Io vi ho dato la mia borsa?

- Sì!

- Può darsi, ma il diavolo mi porti se me ne ricordo..

Il magistrato disse a Giacomo: - Andiamo, Giacomo, non indaghiamo più oltre.

- Signore...

- E' graziosa e compiacente, a quanto vedo.

- Signore, vi giuro...

- Quanto c'era nella borsa?

- Circa novecentodiciassette lire.

- Ah! Pettegola! novecentodiciassette lire per una notte, è un po' troppo per te e per lui. Dammi la borsa...

La ragazzona diede la borsa al padrone, che ne cavò fuori uno scudo da sei franchi: - Tieni, - le disse gettandole lo scudo, ecco il prezzo dei tuoi servigi; vali di più, ma per un altro che non Giacomo. Te ne auguro il doppio ogni giorno, ma fuori di casa mia, capisci? E tu, Giacomo, sbrigati, risali a cavallo e torna dal tuo padrone.

Giacomo salutò il magistrato e si allontanò senza rispondere, ma diceva in cuor suo: «Sfrontata! Briccona! era dunque scritto lassù che un altro andasse a letto con lei e che Giacomo pagasse...! Via, Giacomo, consolati; non sei felice di aver ritrovato la tua borsa e l'orologio del tuo padrone, a così poco prezzo?» Giacomo risale a cavallo e fende la calca che si era fatta all'ingresso della casa del magistrato; ma siccome sopportava male che tanta gente lo prendesse per un furfante, tirò fuori di tasca con affettazione l'orologio per guardare che ora fosse; poi diede di sprone al cavallo, che non c'era abituato e che partì con maggiore celerità. Era sua abitudine lasciarlo andare secondo l'estro; poiché trovava tanti inconvenienti a trattenerlo quando galoppava, quanti a fargli fretta quando camminava lentamente. Noi crediamo di guidare il destino, ma è sempre lui che ci guida: e il destino, per Giacomo, era tutto quello che lo riguardava o lo avvicinava, il cavallo, il suo padrone, un monaco, un cane, una donna, un mulo, una cornacchia. Il cavallo lo portava dunque di gran carriera verso il suo padrone, che si era assopito sul lato della strada, con la briglia infilata al braccio, come vi ho già detto. In quel momento il cavallo era attaccato alla briglia; ma quando Giacomo arrivò, la briglia era rimasta al suo posto, e il cavallo non c'era più. Evidentemente un ladruncolo si era avvicinato al dormiente, aveva pian pianino tagliata la briglia e portato via l'animale. Al rumore del cavallo di Giacomo, il padrone si svegliò e le sue prime parole furono: - Arriva, arriva, gaglioffo! Io ti... - E qui sbadigliò a smascellarsi.

- Sbadigliate, sbadigliate pure, signore, a vostro piacimento, - gli disse Giacomo; - ma dov'è il vostro cavallo?

- Il mio cavallo?

- Sì, il vostro cavallo...

Accorgendosi subito che gli avevano rubato il cavallo, il padrone si accingeva a scagliarsi su Giacomo con grandi colpi di briglia, quando Giacomo gli disse:- Piano, signore, oggi non sono in vena di lasciarmi accoppare; riceverò il primo colpo, ma giuro che al secondo sprono il cavallo e vi pianto lì...

Questa minaccia di Giacomo fece cadere di colpo il furore del suo padrone, che gli disse in tono rabbonito: - E il mio orologio?

- Eccolo.

- E la tua borsa?

- Eccola qui.

- Ti c'è voluto davvero molto tempo.

- Non troppo per tutto quello che ho fatto. Ascoltatemi bene. Sono andato, mi sono battuto, ho messo in subbuglio tutti i contadini della campagna, ho provocato un sollevamento in tutti gli abitanti della città, sono stato preso per un ladrone e portato dal giudice, ho subìto due interrogatori, ho fatto quasi impiccare due uomini; ho fatto mettere alla porta un domestico e cacciare una serva, sono stato riconosciuto colpevole di essere andato a letto con una creatura che non avevo mai vista, e che ho dovuto ugualmente pagare; e sono tornato.

- E io aspettandoti...

- Aspettandomi, era scritto lassù che vi addormentaste, e che vi rubassero il cavallo. Ebbene, signore, non ci pensiamo più; è un cavallo perduto, ed è forse scritto lassù che si ritroverà.

- Il mio cavallo! Il mio povero cavallo!

- Quand'anche continuaste fino a domani le vostre lamentele, non sarà né più né meno.

- Che fare?

- Vi prenderò in groppa o, se preferite, ci caveremo gli stivali, li attaccheremo alla sella del mio cavallo e continueremo la nostra strada a piedi.

- Il mio cavallo! Il mio povero cavallo!

Presero la decisione di andare a piedi, esclamando di tanto in tanto il padrone «il mio cavallo! il mio povero cavallo!» e parafrasando Giacomo il riassunto delle sue avventure. Quando fu all'accusa della ragazza, il padrone gli disse:

- Giacomo, non sei davvero andato a letto con quella ragazza?

GIACOMO: No, signore.

IL PADRONE: E l'hai pagata?

GIACOMO: Certo!

IL PADRONE: Sono stato una volta in vita mia più disgraziato di te.

GIACOMO: Pagaste dopo essere andato a letto?

IL PADRONE: L'hai detto.

GIACOMO: Non volete raccontarmelo?

IL PADRONE: Prima di entrare nella storia dei miei amori, bisogna uscire dalla storia dei tuoi. Ebbene, Giacomo, avanti con questi amori, che prenderò per i primi e gli unici della tua vita, nonostante l'avventura con la serva del luogotenente di Conches; poiché, anche se tu fossi andato a letto con lei, non ne saresti stato per ciò l'innamorato. Si va a letto ogni giorno con donne che non si amano, e mai con quelle che si amano. Ma...

GIACOMO: Ebbene, che ma?...

IL PADRONE: Il mio cavallo!... Giacomo, amico mio, non ti arrabbiare; mettiti al mio posto, supponi che io ti abbia perduto, e dimmi se non mi stimeresti maggiormente, sentendomi rammaricarmi così: Giacomo mio!

Mio povero Giacomo!

Giacomo sorrise e disse: - Ero rimasto, mi pare, al discorso del mio ospite con sua moglie, durante la notte della mia prima medicazione.

Riposai un po'. Il mio ospite e sua moglie si alzarono più tardi del solito.

IL PADRONE: Lo credo.

GIACOMO: Al mio risveglio, aprii piano le tende e vidi il mio ospite, sua moglie e il chirurgo in conferenza segreta vicino alla porta. Dopo quanto avevo sentito durante la notte, non mi fu difficile indovinare ciò che si stesse trattando. Tossii. Il chirurgo disse al marito: - E' sveglio; compare, scendete in cantina, berremo un bicchiere, questo rende la mano sicura; toglierò quindi l'apparecchio, poi penseremo al resto.

Arrivata e vuotata la bottiglia, poiché, in termine tecnico, bere un bicchiere significa vuotare almeno una bottiglia, il chirurgo si avvicinò al mio letto e mi disse: - Com'è stata la notte?

- Non c'è male.

- Il braccio... Bene, bene, il polso non è cattivo, non c'è quasi più febbre. Bisogna vedere il ginocchio... Andiamo, comare,- disse all'ospite che stava ritta al piede del mio letto, dietro la tenda, - aiutateci...- L'ospite chiamò uno dei suoi figli... - Non è un ragazzo che ci vuol qui, siete voi; un movimento falso ci darebbe da fare per un mese. Avvicinatevi. - L'ospite si avvicinò con gli occhi bassi... Prendete questa gamba, buona donna, io m'incarico dell'altra. Piano, piano... A me, ancora un po' a me... Amico, giratevi un po' a destra... a destra, vi dico, ed eccoci...

Io tenevo il materasso con tutt'e due le mani, stringevo i denti, il sudore mi scorreva lungo il viso. - Amico, non è cosa lieve.

- Lo sento.

-Eccovici. Comare, lasciate la gamba, prendete il cuscino; avvicinate la sedia e metteteci sopra il cuscino... Troppo vicino...

Un po' più lontano... Amico, datemi la mano, stringetemi forte.

Comare, passate nel corsello e tenetelo di sotto al braccio... A meraviglia... Compare, non resta nulla nella bottiglia?

- No.

-Prendete il posto di vostra moglie, e lei vada a cercarne un'altra... Bene, bene, versate fino all'orlo... Donna, lasciate il vostro uomo dov'è e venite accanto a me... - L'ospite chiamò di nuovo uno dei figli. - Eh! morte al diavolo, ve l'ho già detto, un ragazzo non è ciò che mi occorre. Mettetevi in ginocchio, passate la mano sotto il polpaccio... Comare, tremate come se aveste commesso un misfatto; via dunque, un po' di coraggio... La sinistra sotto il basso della coscia, là, al di sopra della fasciatura... Benissimo! ... - Ecco tagliate le cuciture, disfatte le bende, tolto l'apparecchio e la mia ferita allo scoperto. Il chirurgo tasta di sopra, di sotto, dai lati, e ogni volta che mi tocca dice: - Ignorante! asino! zotico! e un tipo simile si occupa di chirurgia! Questa gamba, una gamba da tagliare? Durerà quanto l'altra: rispondo di ciò.

- Guarirò?

- Ne ho ben guariti altri.

- Camminerò?

- Camminerete.

- Senza zoppicare?

- Questo è un altro affare; diamine, amico mio, come correte! Non vi basta che vi ho salvata la gamba? Del resto, se zoppicate sarà poca cosa. Vi piace il ballo?

- Molto.

- Se camminerete un po' meno bene, non danzerete che meglio...

Comare, il vino caldo... No, prima l'altro: ancora un bicchierino, e la vostra fasciatura non andrà peggio per questo.

Beve: portano il vino caldo, mi si disinfetta, mi si rimette l'apparecchio, mi si stende nel letto, mi si esorta a dormire se posso, si chiudono le tendine, si finisce la bottiglia cominciata, se ne prende un'altra, e la conferenza riprende fra il chirurgo, l'ospite e sua moglie.

L'OSPITE: Compare, sarà lungo?

IL CHIRURGO: Molto lungo... Alla vostra salute, compare.

L'OSPITE: Ma quanto? Un mese?

IL CHIRURGO: Un mese! Mettete due, tre, quattro, chi sa? La rotula è intaccata, il femore, la tibia... Alla vostra salute, comare.

L'OSPITE: Quattro mesi! Misericordia! Perché riceverlo qui? Che diavolo faceva sulla porta?

IL CHIRURGO: Alla mia salute; ché ho lavorato bene.

LA MOGLIE: Amico mio, ecco che ricominci. Non è questo che mi hai promesso stanotte; ma pazienza, ci tornerai.

L'OSPITE: Ma, dimmi, che fare di quest'uomo? Ancora se l'annata non fosse così cattiva...! LA MOGLIE: Se volessi, andrei dal curato.

L'OSPITE: Se ci metti i piedi, ti do un sacco di botte.

IL CHIRURGO: O perché, compare? pure la mia ci va.

L'OSPITE: E' affar vostro.

IL CHIRURGO: Alla mia figlioccia; a proposito, come sta?

LA MOGLIE: Benissimo.

IL CHIRURGO: Andiamo, compare, alla salute di vostra moglie e della mia; sono due brave donne.

L'OSPITE: La vostra è più accorta; essa non avrebbe fatto la sciocchezza...

LA MOGLIE: Ma, compare, c'è l'ospizio delle monache.

IL CHIRURGO: Ah! comare! Un uomo, un uomo dalle monache! E poi c'è una piccola difficoltà, un po' più grande di un dito... Beviamo alle monache, sono brave ragazze.

LA MOGLIE: E quale difficoltà?

IL CHIRURGO: Il vostro uomo non vuole che voi andiate dal curato, e mia moglie non vuole che io vada dalle monache... Ma, compare, ancora un bicchiere, questo ci darà forse un'idea. Avete interrogato quest'uomo? Non è forse senza risorse.

L'OSPITE: Un soldato!

IL CHIRURGO: Un soldato ha padre, madre, fratelli, sorelle, parenti, amici, qualcuno sotto la cappa del cielo... Beviamo ancora un bicchiere, allontanatevi, e lasciatemi fare.

Tale fu, letteralmente, la conversazione fra il chirurgo, l'ospite e sua moglie: ma quale altro colore non sarei stato padrone di darle, introducendo uno scellerato fra questa buona gente? Giacomo si sarebbe visto, o voi avreste visto Giacomo, al momento in cui sarebbe strappato dal suo letto e gettato su una strada o in un precipizio. - Perché non ucciso? - Ucciso no. Avrei saputo bene chiamar qualcuno in suo aiuto; questo qualcuno sarebbe stato un soldato della sua compagnia; ma ciò puzzerebbe di "Cleveland" da ammorbare. La verità, la verità! - La verità, mi direte, è spesso fredda, comune e piatta; per esempio, il vostro ultimo racconto della medicazione di Giacomo è vero, ma che c'è d'interessante? Niente. - D'accordo. - Se bisogna essere veri, è come Molière, Regnard, Richardson, Sedaine; la verità ha i suoi lati piccanti che si colgono quando si ha del genio. - Sì, quando si ha ingegno; ma quando se ne è privi? Quando se ne è privi, non bisogna scrivere. - E se per disgrazia si somigliasse a un certo poeta, che ho mandato a Pondichéry? - Che è questo poeta? - Questo poeta... Ma se tu mi interrompi, lettore, o se io mi interrompo da me ad ogni passo, che sarà degli amori di Giacomo? Credimi, lasciamo stare il poeta... L'ospite e sua moglie si allontanarono... - No, no, la storia del poeta di Pondichéry -. Il chirurgo si avvicinò al letto di Giacomo... - La storia del poeta di Pondichéry, la storia del poeta di Pondichéry. - Un giorno venne da me un giovane poeta, come me ne vengono tutti i giorni... Ma, lettore, che rapporto ha questo con il viaggio di Giacomo il fatalista e del suo padrone?... - La storia del poeta di Pondichéry -. Dopo i complimenti abituali sul mio spirito, il mio genio, il mio gusto, la mia beneficenza, e altri discorsi di cui non credo una parola, benché siano più di vent'anni che me li ripetono, e forse in buona fede, il giovane poeta tira fuori di tasca un manoscritto: sono dei versi, mi dice. - Dei versi! - Sì, signore, e sui quali spero che avrete la bontà di dirmi il vostro parere. - Amate la verità? - Sì, signore, ve la chiedo.- La saprete.

- E che! Siete così sciocco da credere che un poeta viene a cercare la verità da voi? - Sì. - E da dirgliela? - Certamente.- Senza riguardi?- Senza dubbio: il riguardo, confezionato nel modo migliore, non sarebbe che un'offesa grossolana; interpretato fedelmente, significherebbe: siete un cattivo poeta, e poiché non vi credo abbastanza robusto per sentire la verità, voi siete per di più uno sciocco.- E la franchezza vi è sempre andata bene? - Quasi sempre... Lessi dunque i versi del mio giovane poeta e gli dissi: Non solo i vostri versi sono cattivi, ma mi è dimostrato che non ne farete mai di buoni. - Bisognerà dunque che ne faccia di cattivi; poiché non saprei impedirmi di farne. - Che terribile maledizione! Immaginate, signore, in quale avvilimento cadrete? Né gli dèi, né gli uomini, né le colonne hanno mai perdonato la mediocrità ai poeti: è Orazio che l'ha detto. - Lo so. - Siete ricco? - No. - Siete povero?- Poverissimo. - Aggiungerete così alla povertà il ridicolo di cattivo poeta; avrete perduto tutta la vostra vita, sarete vecchio. Vecchio, povero e cattivo poeta, ah! signore, che figura! - Capisco, ma ci sono portato mio malgrado... (Qui Giacomo avrebbe detto: Ma è scritto lassù).- Avete i genitori? - Li ho. - Qual è la loro professione?

Sono gioiellieri. - Farebbero qualcosa per voi? Forse. Ebbene!

Andate a trovare i vostri genitori, proponete loro di prestarvi un po' di gioielli. Imbarcatevi per Pondichéry; farete cattivi versi lungo la strada; una volta arrivato, farete fortuna. Fatto fortuna, tornerete a far qui cattivi versi quanto vi piacerà, purché non li facciate stampare, poiché non bisogna rovinare nessuno... - Erano circa dodici anni che avevo dato questo consiglio al giovanotto, quando questi mi ricomparve; io non lo riconoscevo. Sono io, signore, mi disse, che voi avete mandato a Pondichéry. Ci sono stato, ho messo insieme laggiù circa centomila franchi. Sono tornato; mi sono rimesso a fare versi, ed eccone alcuni che vi porto... Sono sempre cattivi. Sempre; ma la vostra sorte è regolata e acconsento a che continuiate a far cattivi versi. E' proprio la mia intenzione...

Il chirurgo essendosi avvicinato al letto di Giacomo, questi non gli lasciò il tempo di parlare. - Ho sentito tutto, gli disse... Poi, rivolgendosi al suo padrone, aggiunse... Stava per aggiungere, quando il suo padrone lo fermò. Era stanco di camminare si sedette sul ciglio della strada, con la testa rivolta verso un viaggiatore che veniva verso di loro, a piedi, con la briglia del suo cavallo, che lo seguiva, infilata nel braccio.

Crederai, lettore, che questo cavallo è quello rubato al padrone di Giacomo: e ti ingannerai. Accadrebbe così in un romanzo, prima o poi, in questo modo o altrimenti; ma questo non è un romanzo, te l'ho già detto, credo, e te lo ripeto ancora. Il padrone disse a Giacomo: - Vedi quell'uomo che viene verso di noi?

GIACOMO: Lo vedo.

IL PADRONE: Il suo cavallo mi sembra buono.

GIACOMO: Ho servito nella fanteria, e non me ne intendo.

IL PADRONE: Io ho comandato nella cavalleria, e me ne intendo.

GIACOMO: E con ciò?

IL PADRONE: E con ciò? Vorrei che tu andassi a proporre a quest'uomo di cedercelo, pagando si intende.

GIACOMO: E' da pazzi, ma ci vado. Quanto volete spendere?

IL PADRONE: Fino a cento scudi...

Dopo aver raccomandato al suo padrone di non addormentarsi, Giacomo va incontro al viaggiatore, gli propone l'acquisto del suo cavallo, lo paga e porta la bestia con sé. - Ebbene! Giacomo, se tu hai i tuoi presentimenti, vedi che anch'io ho i miei. Questo cavallo è bello; il mercante ti avrà giurato che è senza difetti; ma, in fatto di cavalli, tutti gli uomini sono sensali.

GIACOMO: E in che non lo sono?

IL PADRONE: Tu lo monterai, e mi cederai il tuo.

GIACOMO: D'accordo.

Eccoli entrambi a cavallo, e Giacomo che aggiungeva:

- Quando lasciai la casa, mio padre, mia madre, il mio padrino, mi avevano tutti dato qualcosa, ciascuno secondo i suoi pochi mezzi; e io avevo in riserva cinque luigi, che Jean, il mio fratello maggiore, mi aveva regalato quando partì per il suo disgraziato viaggio a Lisbona... (Qui Giacomo si mise a piangere, e il suo padrone a fargli presente che ciò era scritto lassù). E' vero, signore, me lo sono detto cento volte; e con tutto ciò, non saprei impedirmi di piangere...

Poi ecco Giacomo singhiozzare e piangere sempre di più; e il suo padrone prendere il suo pizzico di tabacco e guardare l'ora all'orologio. Dopo aver messo la briglia fra i denti, ed essersi asciugato gli occhi con tutt'e due le mani, Giacomo continuò:

-Dei cinque luigi di Jean, del mio premio di arruolamento, e dei doni dei miei parenti e amici, avevo fatto un gruzzolo, da cui non avevo ancora sottratto un obolo. Ritrovai questo gruzzolo giusto a proposito; che ne dite, padrone mio?

IL PADRONE: Era impossibile che tu restassi più a lungo nella capanna.

GIACOMO: Anche pagando.

IL PADRONE: Ma che cosa era andato a cercare a Lisbona tuo fratello Jean?

GIACOMO: Mi sembra che vi prendiate la briga di mettermi fuori strada.

Con le vostre domande, avremo fatto il giro del mondo, prima di giungere alla fine dei miei amori.

IL PADRONE: Che importa, purché tu parli e io ascolti? Non sono questi i due punti importanti? Tu brontoli, mentre dovresti ringraziarmi.

GIACOMO: Mio fratello era andato a cercare riposo a Lisbona. Jean, mio fratello, era un ragazzo d'ingegno: è questo che gli ha portato disgrazia; sarebbe stato meglio per lui essere uno sciocco come me; ma era scritto lassù. Era scritto che il frate questuante dei Carmelitani che veniva nel nostro villaggio a cercare uova, lana, canapa, frutta, vino a ogni stagione, alloggiasse da mio padre, seducesse mio fratello Jean e Jean, mio fratello, prendesse l'abito di monaco.

IL PADRONE: Jean, tuo fratello, è stato Carmelitano?

GIACOMO: Sì, signore, e Carmelitano scalzo. Egli era attivo, intelligente, perspicace; era l'avvocato consulente del villaggio.

Sapeva leggere e scrivere e, fin dalla sua prima giovinezza, si occupava a decifrare e a copiare vecchie pergamene. Egli passò per tutte le funzioni dell'ordine, fu successivamente portiere, dispensiere, giardiniere, sagrestano, viceprocuratore e banchiere; di questo passo avrebbe fatto la fortuna di tutti noi. Egli ha maritato, e ben maritato, due delle nostre sorelle e alcune altre ragazze del villaggio. Non passava per le strade senza che padri, madri e figli andassero a lui e gli gridassero: «Buon giorno, frate Jean; come state, frate Jean». Certo è che quando lui entrava in una casa, la benedizione del cielo vi entrava con lui; e che, se c'era una ragazza da marito, due mesi dopo la sua visita essa era maritata. Povero fratello Jean! l'ambizione lo ha perduto. Il procuratore della casa, al quale era stato dato come coadiutore, era vecchio. I monaci dissero che Jean aveva progettato di succedergli dopo la morte di lui e che, a questo fine, egli scompigliò gli archivi, bruciò gli antichi registri e ne fece di nuovi, in modo che alla morte del vecchio procuratore, il diavolo non avrebbe capito un'acca nei titoli della comunità. Se si aveva bisogno di un documento, bisognava perdere un mese a cercarlo e spesso, per di più, non lo si trovava. I frati sventarono l'astuzia di mio fratello Jean, e il suo scopo: presero la cosa dal lato tragico e mio fratello Jean, invece di essere procuratore, come si era lusingato, fu ridotto a pane e acqua e messo a dura disciplina, finché non avesse comunicato ad altri la chiave dei suoi registri. I monaci sono implacabili. Quando si furono strappati a mio fratello Jean tutti i chiarimenti di cui avevano bisogno, lo si fece carbonaio nel laboratorio in cui si distilla "l'acqua dei Carmelitani". Il fratello Jean, prima banchiere dell'ordine e viceprocuratore, ridotto a carbonaio! Egli era orgoglioso, non poté sopportare questa perdita d'importanza e di prestigio, e aspettò solo un'occasione per sottrarsi a questa umiliazione.

Fu allora che arrivò nello stesso convento un giovane frate, che passava per la meraviglia dell'Ordine al tribunale come al pulpito; si chiamava padre Ange. Aveva dei begli occhi, un bel viso, braccia e mani degne di essere scolpite. Eccolo che predica e predica, che confessa e confessa, ecco i vecchi direttori di coscienza abbandonati dai loro fedeli; ecco questi fedeli indirizzarsi a frate Ange; ecco che le vigilie delle domeniche e delle grandi solennità il confessionale di padre Ange è circondato da penitenti di entrambi i sessi, mentre i vecchi frati attendevano inutilmente nei loro confessionali deserti: cosa che li affliggeva molto... Ma, signore, se lasciassi stare la storia di mio fratello Jean e riprendessi quella dei miei amori, sarebbe forse più divertente.

IL PADRONE: No, no; fiutiamo una presa di tabacco, vediamo che ora è, e continua.

GIACOMO: Acconsento, poiché lo volete...

Ma il cavallo di Giacomo fu d'un altro parere; eccolo d'improvviso prendere la mano e precipitarsi su di un sentiero dirupato. Giacomo ha un bello stringerlo con le ginocchia e serrare la briglia, dal fondo del dirupo l'animale cocciuto si slancia e puntando le zampe si mette ad arrampicarsi su un monticello, sul quale si ferma di colpo e dove Giacomo, rivolgendo gli occhi intorno a sé, si vede fra alcune forche patibolari.

Altri non mancherebbero, lettore, di guarnire della loro preda queste forche e di procurare a Giacomo un triste riconoscimento. Se te lo dicessi, tu lo crederesti forse, poiché ci sono casi più singolari di questo, ma la cosa non sarebbe per ciò più vera: quelle forche erano vuote.

Giacomo lasciò riprendere fiato al cavallo, che ridiscese da sé dalla montagna, risalì per il dirupo e rimise Giacomo accanto al suo padrone, che gli disse: - Ah! amico mio, che spavento mi hai fatto!

Ti ho creduto morto... Ma sei pensieroso; a che pensi?

GIACOMO: A quello che ho trovato lassù.

IL PADRONE: O che ci hai trovato?

GIACOMO: Delle forche, un patibolo.

IL PADRONE: Diavolo! Questo è di cattivo augurio: ma ricordati la tua dottrina. Se è scritto lassù, avrai un bel fare, caro amico, sarai impiccato; se non è scritto lassù, il cavallo avrà mentito. Se quest'animale non è ispirato, è soggetto a ubbie; bisogna starci attenti...

Dopo qualche attimo di silenzio, Giacomo si stropicciò la fronte e scosse le orecchie, come si fa quando si cerca di allontanare da sé un pensiero spiacevole, e riprese bruscamente:

- Quei vecchi monaci tennero consiglio fra loro, e decisero, a ogni costo e con qualunque mezzo, di disfarsi di una giovane barba che li umiliava. Sapete che fecero?... Padrone mio, voi non mi ascoltate.

IL PADRONE: Ti ascolto, ti ascolto: continua.

GIACOMO: Si guadagnarono il portiere, che era un vecchio furfante come loro. Questo vecchio briccone accusò il giovane Padre di essersi preso delle libertà con una delle sue fedeli nel parlatorio e assicurò, giurando, che l'aveva visto lui. Forse era vero, forse era falso, non si sa mai! Quello che c'è di divertente, è che il giorno dopo di questa accusa, il priore del convento ebbe l'intimazione di un chirurgo che chiedeva di esser pagato per i rimedi somministrati a quello scellerato di portiere, nel corso di una malattia galante...

Padrone mio, voi non mi ascoltate, e so quello che vi distrae, scommetto che sono quelle forche patibolari.

IL PADRONE: Non saprei non convenirne.

GIACOMO: Sorprendo i vostri occhi fissi sul mio viso; mi trovate forse l'aria sinistra?

IL PADRONE: No, no.

GIACOMO: Cioè, sì, sì. Ebbene! Se vi faccio paura, non abbiamo che da separarci.

IL PADRONE: Via, Giacomo, perdi la ragione; non sei sicuro di te?

GIACOMO: No, signore; e chi è sicuro di sé?

IL PADRONE: Ogni uomo perbene. Forse che Giacomo, l'onesto Giacomo, non ha orrore del delitto?... Via, Giacomo, smettiamo questa disputa e riprendi il tuo racconto.

GIACOMO: In conseguenza di questa calunnia o maldicenza del portiere, ci si credette autorizzati a fare mille diavolerie, mille cattiverie a quel povero Padre Ange, il cui cervello sembrò esserne sconvolto.

Allora si chiamò un medico, che fu corrotto, e che attestò che questo religioso era pazzo e che aveva bisogno di respirare l'aria natìa. Se non si fosse trattato che di allontanare o di far ricoverare Padre Ange sarebbe stata cosa presto fatta; ma fra le devote, di cui egli era il beniamino, c'erano alcune grandi dame a cui bisognava usare riguardo. A esse parlavano del loro confessore con una commiserazione ipocrita: «Ahimè! Quel povero Padre Ange, è veramente un peccato! Era l'aquila della nostra comunità». «Che cosa gli è mai accaduto?» A questa domanda non si rispondeva che gettando un profondo sospiro e alzando gli occhi al cielo; se si insisteva, si chinava il capo e si taceva. A questa pantomima si aggiungeva a volte: «Oh Dio! Che è di noi!... Ha ancora momenti sorprendenti... lampi di genio... La ragione tornerà forse, ma c'è poca speranza... Quale perdita per la religione...» Tuttavia i cattivi procedimenti raddoppiavano; non c'era nulla che non si tentasse per spingere padre Ange al punto in cui lo si diceva; e ci si sarebbe riusciti, se mio fratello Jean non avesse avuto pietà di lui. Che vi dirò di più? Una sera che eravamo tutti addormentati, sentiamo bussare alla nostra porta: ci alziamo; apriamo a Padre Ange e a mio fratello travestiti. Passarono il giorno seguente nella casa; l'indomani, appena fu l'alba, se ne andarono. Se ne andavano con le mani piene di roba; poiché Jean, abbracciandomi, mi disse: «Ho maritato le tue sorelle; se fossi rimasto nel convento due anni di più, ad essere quel che vi ero, saresti uno dei grossi proprietari del cantone: ma tutto è cambiato, ed ecco quanto posso fare per te. Addio, Giacomo, se abbiamo fortuna, il Padre ed io, tu ne beneficerai...» Poi mi lasciò in mano i cinque luigi di cui vi ho parlato, con altri cinque per l'ultima delle ragazze del villaggio, che aveva maritata e che aveva da poco partorito un bel bambino, somigliante a mio fratello Jean come si somigliano due gocce d'acqua.

IL PADRONE (con la tabacchiera aperta e l'orologio rimesso a posto): E che andavano a fare a Lisbona?

GIACOMO: A cercare un terremoto, che non poteva verificarsi senza di loro; a essere schiacciati, inghiottiti, bruciati; come era scritto lassù.

IL PADRONE: Ah! monaci! monaci!

GIACOMO: Il migliore non vale un centesimo.

IL PADRONE: Lo so meglio di te.

GIACOMO: Siete passato per le loro mani?

IL PADRONE: Te lo dirò un altra volta.

GIACOMO: Ma perché sono così cattivi?

IL PADRONE: Credo che sia perché sono monaci... e poi, torniamo ai tuoi amori.

GIACOMO: No, signore, non torniamoci.

IL PADRONE: Non vuoi più che io li sappia?

GIACOMO: Lo voglio sempre; ma il destino, lui, non lo vuole. Non vedete che appena apro bocca, il diavolo ci mette la coda, e accade sempre qualche incidente che mi tronca la parola? Non li finirò mai, vi dico, è scritto lassù.

IL PADRONE: Prova, amico mio.

GIACOMO: Se voi cominciaste la storia dei vostri, forse questo romperebbe l'incanto e in seguito i miei andrebbero meglio. Ho in mente che dipende da ciò; vedete, signore, mi sembra a volte che il destino mi parli.

IL PADRONE: E ti trovi sempre bene ad ascoltarlo?

GIACOMO: Ma sì, prova ne sia il giorno in cui mi disse che il vostro orologio era sulle spalle del merciaio...

Il padrone si mise a sbadigliare; sbadigliando batteva con la mano sulla tabacchiera, e battendo sulla tabacchiera, guardava lontano, e guardando lontano, disse a Giacomo: - Non vedi qualche cosa alla tua sinistra?

GIACOMO: Sì, e scommetto che è qualche cosa che non vorrà che io continui la mia storia, né che voi cominciate la vostra...

Giacomo aveva ragione. Poiché la cosa che essi vedevano veniva verso di loro, ed essi andavano verso di essa; queste due marce in senso contrario abbreviarono la distanza; e ben presto videro un carro drappeggiato di nero, trascinato da quattro cavalli neri, coperti di gualdrappe nere, che circondavano loro la testa e ricadevano fino ai piedi; dietro, due domestici vestiti di nero, quindi altri due pure vestiti di nero, ognuno su un cavallo nero, bardato di nero; a cassetta, un cocchiere nero, con il cappello a falde calate e circondato da un lungo crespo, che gli pendeva lungo la spalla sinistra; questo cocchiere teneva la testa china, lasciava le redini dondolare e guidava i cavalli meno di quanto questi guidassero lui.

Ecco i nostri due viaggiatori arrivare accanto al carro funebre.

Istantaneamente, Giacomo lancia un grido, cade da cavallo più che non scenda, si strappa i capelli, si rotola per terra gridando: - Il mio capitano, il mio povero capitano! è lui, non potrei dubitarne, ecco le sue armi... - C'era infatti nel carro una lunga bara sotto un sudario, sul sudario una spada con un cordone, e accanto alla bara un prete, con il breviario in mano in atto di salmodiare. Il carro camminava sempre, Giacomo lo seguiva lamentandosi, il padrone seguiva Giacomo bestemmiando, e i domestici certificavano a Giacomo che questo funerale era quello del suo capitano, deceduto nella città vicina, da dove lo si trasportava alla sepoltura dei suoi antenati. Da quando questo militare era stato privato, per la morte di un altro militare suo amico, capitano nello stesso reggimento, della soddisfazione di battersi almeno una volta la settimana, era caduto in una malinconia che lo aveva spento nel giro di qualche mese. Dopo aver pagato al suo capitano il tributo di elogi, di rimpianti e di lacrime che gli doveva, Giacomo chiese scusa al suo padrone, risalì a cavallo ed essi continuarono il cammino in silenzio.

Ma, per Dio, autore, mi direte voi, dove andavano?... Ma, per Dio, lettore, ti risponderò, si sa forse dove si va? E tu, dove vai ?

Bisognerà che ti ricordi l'avventura di Esopo? Santippo, suo padrone, gli disse una sera d'estate o d'inverno, poiché i Greci si bagnavano in tutte le stagioni: - Esopo, va' al bagno; se c'è poca gente ci bagneremo... Esopo va. Cammin facendo incontra la pattuglia di Atene.

- Dove vai? - Dove vado? risponde Esopo, - non ne so nulla. - Non ne sai nulla? Vieni in prigione. - Ebbene! - replicò Esopo, - non l'avevo ben detto che non sapevo dove andassi? Volevo andare al bagno, ed ecco che vado in prigione... - Giacomo seguiva il suo padrone, come voi seguite il vostro; il suo padrone seguiva il suo, come Giacomo lo seguiva. - Ma, chi era il padrone del padrone di Giacomo?

- Bravo, si manca forse di padroni in questo mondo? Il padrone di Giacomo ne aveva cento per uno, come voi. Ma, fra tanti padroni del padrone di Giacomo, bisognava bene che ci fosse quello buono; poiché egli cambiava di padrone da un giorno all'altro. - Era uomo. - Uomo appassionato come te, lettore; uomo curioso come te, lettore; uomo importuno come te, lettore; uomo pieno di domande come te, lettore. - E perché interrogava?- Che bella domanda! Interrogava per apprendere e per ridire, come te, lettore...

Il padrone disse a Giacomo: - Non mi sembri disposto a riprendere la storia dei tuoi amori.

GIACOMO: Il mio povero capitano! Se ne va dove noi tutti andiamo, e dove è veramente straordinario che non siamo arrivati prima. Ahi!...

Ahi!...

IL PADRONE: Ma, Giacomo, tu piangi, credo?... «Piangete senza ritegno, perché potete piangere senza vergogna; la sua morte vi affranca dagli scrupoli della buona educazione che vi impacciavano durante la sua vita. Non avete per dissimulare la vostra pena quelle stesse ragioni che avevate per dissimulare la vostra felicità; non si penserà a tirar fuori dalle vostre lacrime le conseguenze che si sarebbero tirate fuori dalla vostra gioia. Si perdona alla infelicità e poi, in questo momento, serve mostrarsi insensibili o ingrati, e, a ben considerare ogni cosa, è meglio mostrare una debolezza che lasciarsi sospettare di un vizio. Voglio che il vostro pianto sia libero perché sia meno doloroso, lo voglio violento perché sia meno lungo. Ricordatevi, esageratevi anche, quel che egli era: la sua penetrazione nel sondare le materie più profonde; la sua sottigliezza nel discutere quelle più delicate; il suo gusto solido che lo portava verso quelle più importanti; la fecondità che egli gettava nelle più sterili; con che arte difendeva gli accusati: la sua indulgenza gli dava mille volte più ingegno di quanto l'interesse o l'amor proprio non ne desse al colpevole; non era severo che verso se stesso. Ben lungi dal cercare scuse alle colpe leggere che gli sfuggivano, si preoccupava con tutta la cattiveria di un nemico di esagerarsele, e con tutto l'animo di un geloso, di sminuire il pregio delle sue virtù, con un esame rigoroso delle ragioni che lo avevano forse determinato a sua insaputa. Non prescrivete al vostro rimpianto se non quel termine che vi porrà il tempo. Sottomettiamoci all'ordine universale quando perdiamo i nostri amici, come vi ci sottometteremo quando gli piacerà di disporre di noi; accettiamo il decreto della sorte che li condanna, senza disperazione, come l'accetteremo senza resistenza quando esso si pronuncerà contro di noi. I doveri della sepoltura non sono gli ultimi doveri delle anime. La terra che viene rimossa in questo momento si consoliderà sulla tomba del vostro amante, ma la vostra anima conserverà tutta la sua sensibilità».

GIACOMO: Padrone mio, questo discorso è bellissimo; ma che diavolo significa? Ho perso il mio capitano, ne sono desolato; e voi mi appioppate, come un pappagallo, un brano della consolazione di un uomo, o di una donna ad un'altra donna, che ha perduto il suo amante.

IL PADRONE: Credo che sia di una donna.

GIACOMO: Per conto mio, credo che sia di un uomo. Ma che sia di un uomo o di una donna, ancora una volta, che diavolo significa? Mi prendete forse per l'amante del mio capitano? Il mio capitano, signore, era un brav'uomo; e quanto a me, sono sempre stato un ragazzo onesto.

IL PADRONE: Giacomo, chi te lo contesta?

GIACOMO: Che diavolo significa dunque la vostra consolazione di un uomo, o di una donna a un'altra donna? A forza di di chiedervelo, forse me lo direte.

IL PADRONE: No, Giacomo, devi trovare da solo.

GIACOMO: Se ci pensassi per il resto della mia vita, non l'indovinerei; ne avrei fino al giorno del giudizio.

IL PADRONE: Giacomo, mi è sembrato che mi ascoltassi con attenzione mentre leggevo.

GIACOMO: Si può forse rifiutare attenzione al ridicolo?

IL PADRONE: Benissimo, Giacomo!

GIACOMO: C'è mancato poco che non scoppiassi a ridere, quando si è trattato di buona educazione rigorosa, che mi impacciava durante la vita del mio capitano, e da cui ero stato liberato dalla sua morte.

IL PADRONE: Benissimo, Giacomo! Ho dunque fatto ciò che mi ero proposto. Dimmi se era possibile fare di meglio per consolarti. Tu piangevi: se ti avessi intrattenuto sull'oggetto del tuo dolore, che sarebbe successo? Che tu avresti pianto molto di più, e che avrei finito per affliggerti maggiormente. Te ne ho distolto, sia con il ridicolo della mia orazione funebre, sia con la piccola disputa che ne è seguita. Convieni ora che il pensiero del tuo capitano è lontano da te quanto il carro funebre che lo porta alla estrema dimora. Penso quindi che puoi riprendere la storia dei tuoi amori.

GIACOMO: Lo penso anch'io.

- Dottore, - dissi al chirurgo, - abitate lontano da qui?

- Un buon quarto di lega almeno.

- Avete un alloggio piuttosto comodo?

- Abbastanza comodo.

- Potreste disporre d'un letto?

- No.

- Come! Neppure pagando, pagando bene?

- Oh! pagando e pagando bene, scusate... Ma, amico mio, non mi sembrate veramente in grado di pagare, e meno ancora di pagar bene.

- E' affar mio. E sarei curato un po' a casa vostra?

- Benissimo. Mia moglie ha curato dei malati per tutta la sua vita; la mia figlia maggiore fa la barba al primo che capita, e sa togliervi una fasciatura così bene quanto me.

- Quanto mi prendereste per l'alloggio, il vitto e le cure ?

Il chirurgo disse grattandosi l'orecchio:- Per l'alloggio... il vitto... le cure... Ma chi mi risponderà del pagamento?

- Pagherò giorno per giorno.

- Ecco ciò che si chiama parlare...

- Ma, signore, credo che non m'ascoltiate.

IL PADRONE: No, Giacomo, era scritto lassù che parlassi questa volta, che non sarà forse l'ultima, senza essere ascoltato.

GIACOMO: Quando non si ascolta colui che parla, o non si pensa a niente, o si pensa ad altro: quale delle due cose stavate facendo?

IL PADRONE: La seconda. Pensavo a ciò che uno dei domestici neri che seguiva il carro funebre ti diceva, che il tuo capitano era stato privato, per la morte del suo amico, del piacere di battersi almeno una volta la settimana. Ci hai capito qualcosa?

GIACOMO: Certo!

IL PADRONE: E' per me un enigma, ti sarei grato se me lo spiegassi.

GIACOMO: E che diavolo ve n'importa?

IL PADRONE: Poca cosa; ma quando tu parli, vuoi evidentemente essere ascoltato?

GIACOMO: Certamente.

IL PADRONE: Ebbene! In coscienza, non saprei risponderti di ciò, fin tanto che questo inintelligibile discorso mi tormenterà il cervello.

Toglimi da quest'impiccio, te ne prego.

GIACOMO: Alla buon'ora! Ma giuratemi almeno che non m'interromperete più.

IL PADRONE: Senza impegno, te lo giuro.

GIACOMO: Il mio capitano, brav'uomo, galantuomo, uomo di merito, uno dei migliori ufficiali del corpo, ma uomo un po' eteroclito, aveva incontrato e fatto amicizia con un altro ufficiale dello stesso corpo, brav'uomo, galantuomo, uomo di merito anche lui, buon ufficiale quanto lui, ma uomo altrettanto eteroclito...

Giacomo stava per cominciare la storia del suo capitano, quando sentirono una banda numerosa di uomini e cavalli che si dirigevano dietro di loro. Era lo stesso carro lugubre che tornava sui suoi passi. Esso era circondato... - Di guardie del Fisco? - No. - Di cavalieri della gendarmeria? Forse. Checché ne sia, questo corteo era preceduto dal prete in sottana e cotta, con le mani legate dietro la schiena, dal cocchiere nero con le mani legate dietro la schiena; e dai due servi neri, con le mani legate dietro la schiena. Chi fu molto sorpreso? Fu Giacomo che gridò: - Il mio capitano, il mio povero capitano non è morto! Sia lodato Iddio!... - Poi Giacomo girata briglia, dà di sproni, corre di gran carriera verso il preteso corteo funebre. Non ne distava che trenta passi, quando le guardie del Fisco o i cavalieri della gendarmeria lo prendono di mira e gli gridano: - Fermati, torna sui tuoi passi, o sei morto... Giacomo si fermò di botto, consultò il destino nella sua testa; gli sembrò che il destino gli dicesse: Torna sui tuoi passi: ciò che fece. Il suo padrone gli disse: - Ebbene, Giacomo, che è?

GIACOMO: In fede mia, non ne so niente.

IL PADRONE: E perché?

GIACOMO: Non ne so di più.

IL PADRONE: Vedrai che sono contrabbandieri, che avranno riempito questa bara di merci proibite, e che saranno state vendute agli agenti del Fisco da quei birbanti stessi, da cui le avevano comprate.

GIACOMO: Ma perché questo carro con le armi del mio capitano?

IL PADRONE: O è un rapimento. Avranno nascosto in questo feretro, chi sa, una donna, una ragazza, una monaca; non è il lenzuolo che fa il morto.

GIACOMO: Ma perché questo carro con le armi del mio capitano?

IL PADRONE: Sarà tutto ciò che ti piacerà; ma finiscimi la storia del tuo capitano.

GIACOMO: Tenete ancora a questa storia? Ma forse il mio capitano è ancora vivo.

IL PADRONE: Che importa?

GIACOMO: Non mi piace parlare dei vivi, perché si è esposti a volte ad arrossire del bene e del male che se ne è detto; del bene che sciupano, del male che riparano.

IL PADRONE: Non essere né insipido panegirista, né censore amaro; di' la cosa come sta.

GIACOMO: Non è facile. Non si ha forse il proprio carattere, il proprio interesse, il proprio gusto, le proprie passioni, secondo le quali si esagera o si attenua? Di' la cosa come sta!... Non succede forse due volte in un giorno, in tutta una grande città. E colui che vi ascolta è meglio disposto di colui che parla? No. Da questo deve derivare che, due volte appena in un giorno, in tutta una grande città, si sia intesi come si parla.

IL PADRONE: Che diavolo, Giacomo, ecco delle massime tali da vietare l'uso della lingua, delle orecchie, da non dire nulla, da non ascoltare nulla e da non credere nulla! Tuttavia, di' come puoi, io ti ascolterò come posso e ti crederò come potrò.

GIACOMO: Mio caro padrone, la vita scorre in "qui pro quo". Ci sono i "qui pro quo" d'amore, i "qui pro quo" d'amicizia, i "qui pro quo" di politica, di finanza, di chiesa, di magistratura, di commercio, di mogli, di mariti...

IL PADRONE: Eh! lascia stare questi "qui pro quo", e cerca di accorgerti che è farne uno grossolano, l'imbarcarti in un capitolo di morale, quando si tratta di un fatto storico, la storia del tuo capitano.

GIACOMO: Se non si dice quasi niente in questo mondo, che sia inteso come lo si dice, c'è di peggio; non vi si fa quasi niente, che sia giudicato come lo si è fatto.

IL PADRONE: Non c'è forse sotto il cielo un'altra testa che contenga tanti paradossi quanto la tua.

GIACOMO: E che male ci sarebbe? Un paradosso non è sempre una falsità.

IL PADRONE: E' vero.

GIACOMO: Passavamo da Orléans, io ed il mio capitano. Nella città non si parlava che di una avventura recentemente capitata a un cittadino chiamato Le Pelletier, uomo penetrato di tanta profonda commiserazione per gli infelici, che dopo aver ridotto, con elemosine smisurate, una fortuna abbastanza considerevole al più stretto necessario, andava di porta in porta a cercare nella borsa altrui dei soccorsi che non era più in grado di attingere nella sua.

IL PADRONE: E tu credi che ci fossero due opinioni sulla condotta di questo uomo?

GIACOMO: Fra i poveri no; ma quasi tutti i ricchi, senza eccezione, lo consideravano come una specie di pazzo; e ci mancò poco che i suoi parenti lo facessero interdire come dissipatore. Mentre noi ci rinfrescavamo in una locanda, una folla di oziosi si era raccolta intorno ad una specie di oratore, il barbiere della strada, e gli diceva: - Voi c'eravate; raccontateci com'è andata la cosa.

- Molto volentieri, - rispose l'oratore, che non chiedeva di meglio che di perorare.- Il signor Aubertot, una delle persone che frequento, la cui casa sta di faccia alla chiesa dei Cappuccini, stava sulla sua porta; il signor Le Pelletier lo avvicina e gli dice:

«Signor Aubertot, non mi darete niente per i miei amici?» poiché è così che chiama i poveri, come sapete.

- Per oggi no, signor Le Pelletier.

Il signor Le Pelletier insiste.- Se sapeste in favore di chi sollecito la vostra carità! E' una povera donna che ha partorito, e che non ha uno straccio per avvolgere il suo bambino.

- Non potrei.

- E' una giovane e bella ragazza, che manca di lavoro e di pane, e che la vostra liberalità salverà forse dalla perdizione.

- Non potrei.

- E' un manovale che non aveva che le sue braccia per vivere, e che si è fracassato una gamba cadendo da un'impalcatura.

- Non potrei, vi dico.

- Via, signor Aubertot, lasciatevi commuovere, e siate sicuro che non avrete mai l'occasione di fare un'azione più meritoria.

- Non potrei, non potrei.

- Mio buono, mio misericordioso signor Aubertot!...

- Signor Le Pelletier, lasciatemi in pace; quando voglio dare, non mi faccio pregare...

E detto ciò, il signor Aubertot gli volta le spalle, passa dalla porta nel magazzino, dove il signor Le Pelletier lo segue; lo segue dal magazzino nel retrobottega, dal retrobottega nell'appartamento; qui, il signor Aubertot, esasperato dall'insistenza dei signor Le Pelletier, gli dà uno schiaffo...

Allora il mio capitano si alza bruscamente, e dice all'oratore: - Ed egli non l'uccise?

- No, signore; si uccide forse così?

- Uno schiaffo, per Bacco! Uno schiaffo! E che fece allora?

- Che fece, dopo aver ricevuto lo schiaffo? Prese un'aria allegra e disse al signor Aubertot: «Questo è per me; ma, e i miei poveri?...» A queste parole tutti gli astanti gridarono di ammirazione, tranne il mio capitano, che diceva loro: - Il vostro Le Pelletier, signori, non è che un pitocco, un disgraziato, un vile, un infame, a cui tuttavia questa spada avrebbe fatto pronta giustizia, se fossi stato lì; e il vostro Aubertot sarebbe stato ben fortunato se non gli fosse costato che il naso e le due orecchie.

L'oratore gli replicò: - Vedo, signore, che non avreste lasciato all'uomo insolente il tempo di riconoscere il suo errore, di gettarsi ai piedi del signor Le Pelletier, e di presentargli la sua borsa.

- Certo che no!

- Voi siete un militare, e il signor Le Pelletier è un cristiano; non avete le stesse idee sullo schiaffo.

- La guancia di tutti gli uomini è la stessa.

- Non è affatto l'opinione del Vangelo.

- Il Vangelo è nel mio cuore e nel fodero della mia spada, e non ne conosco altro...

- Il vostro, padrone mio, non so dove sia; il mio è scritto lassù; ognuno apprezza l'ingiuria e la buona azione a suo modo; e forse non ne diamo lo stesso giudizio in due istanti diversi della nostra vita.

IL PADRONE: Più tardi, maledetto chiacchierone, più tardi...

Quando il padrone di Giacomo andava in collera, Giacomo taceva, si metteva a pensare, e spesso non rompeva il silenzio che con una frase, collegata nella sua mente, ma scucita nella conversazione quanto la lettura di un libro di cui si fossero saltate alcune pagine. E' precisamente quel che gli accadde quando disse: - Mio caro padrone...

IL PADRONE: Ah! la parola ti è finalmente tornata. Me ne rallegro per tutti e due, poiché io cominciavo ad annoiarmi a non sentirti, e tu a non parlare. Parla dunque...

Giacomo stava per cominciare la storia del suo capitano, quando, per la seconda volta, il suo cavallo, gettandosi bruscamente fuori dalla strada maestra, a destra, lo porta attraverso una lunga pianura, a un buon quarto di lega, e si ferma di colpo fra delle forche patibolari... Fra delle forche patibolari! Singolare modo di fare per un cavallo, questo di portare il suo cavaliere al patibolo!... - Che significa ciò? - diceva Giacomo. - E' un avvertimento del destino?

IL PADRONE: Non c è dubbio, amico mio. Il tuo cavallo è ispirato, e ciò che è spiacevole è che tutti questi pronostici, ispirazioni, avvertimenti dell'alto per mezzo di sogni, o di apparizioni, non servono a niente: la cosa succede lo stesso. Caro amico, ti consiglio di mettere a posto la tua coscienza, di mettere in sesto i tuoi affarucci e di sbrigarmi più presto che puoi la storia del tuo capitano e quella dei tuoi amori, poiché mi dispiacerebbe perderti senza averle sentite. Quand'anche ti preoccupassi ancora più di quello che fai, a che ciò porrebbe rimedio? A nulla. Il decreto del destino, pronunciato due volte dal tuo cavallo, si compirà. Vedi un po', non hai niente da restituire a qualcuno? affidami le tue ultime volontà, e sii sicuro che saranno fedelmente eseguite. Se mi hai preso qualcosa, te ne faccio dono; domandane solo perdono a Dio, e durante il tempo più o meno corto che ci resta da vivere insieme, non derubarmi più.

GIACOMO: Ho un bel tornare sul passato, non ci vedo niente da spartire con la giustizia degli uomini. Non ho né ucciso, né rubato, né violato.

II, PADRONE: Tanto peggio; tutto sommato, preferirei che il delitto fosse già stato compiuto, piuttosto che da compiere, e a ragione.

GIACOMO: Ma, signore, non sarà forse per mio conto, ma per conto di un altro, che sarò impiccato.

IL PADRONE: Può darsi.

GIACOMO: E' forse soltanto dopo la mia morte che sarò impiccato.

IL PADRONE: Può darsi ugualmente.

GIACOMO: Non sarò forse impiccato affatto.

IL PADRONE: Ne dubito.

GIACOMO: E' forse scritto lassù che assisterò soltanto al supplizio di un altro; e quest'altro chi sa chi è? Se è vicino, o se è lontano?

IL PADRONE: Signor Giacomo, siate impiccato, poiché la sorte lo vuole, e il vostro cavallo lo dice; ma non siate insolente: finitela con le vostre congetture impertinenti, e raccontate presto la storia del vostro capitano.

GIACOMO: Signore, non vi arrabbiate, si è talvolta impiccata gente molto per bene: è un "qui pro quo" della giustizia.

IL PADRONE Questi "qui pro quo" sono affliggenti. Parliamo d'altro.

Alquanto rassicurato dalle diverse interpretazioni trovate per il pronostico del cavallo, Giacomo disse:

- Quando entrai al reggimento, c'erano due ufficiali pressappoco eguali per età, per nascita, per servizio e per merito. Il mio capitano era uno dei due. La sola differenza che ci fosse fra loro, che l'uno era ricco e l'altro no. Il mio capitano era quello ricco.

Questa conformità doveva produrre o la simpatia o l'antipatia più forte: essa produsse l'una e l'altra...

Qui Giacomo si fermò, e questo gli capitò diverse volte nel corso del suo racconto, ad ogni movimento di testa che il suo cavallo faceva a destra o a sinistra. Allora, per continuare, riprendeva la sua ultima frase, come se avesse avuto il singhiozzo.

- ... Essa produsse l'una e l'altra. C'erano giorni in cui erano i migliori amici del mondo, e altri in cui erano nemici mortali. Nei giorni d'amicizia si cercavano, si festeggiavano, si abbracciavano, si comunicavano le loro pene, i loro piaceri, i loro bisogni; si consultavano sui loro affari più segreti, sui loro interessi domestici, sulle loro speranze, sui loro timori, sui loro progetti di promozione. Si incontravano l'indomani, passavano uno accanto all'altro senza guardarsi, o si guardavano fieramente, si davano del signore, si rivolgevano parole dure, mettevano mano alla spada e si battevano. Se capitava che uno dei due fosse ferito, l'altro si precipitava sul suo compagno, piangeva, si disperava, lo accompagnava a casa, e si stabiliva accanto al suo letto, fino a quando non fosse guarito. Otto giorni, quindici giorni, un mese dopo, era tutto da rifare, e si vedevano, da un momento all'altro, due brave persone...

due brave persone, due amici sinceri, esposti al pericolo di perire l'uno per mano dell'altro, e il morto non sarebbe certamente stato il più da compiangere dei due. Si era parlato loro più volte della stranezza della loro condotta; io stesso, a cui il mio capitano aveva permesso di parlare, gli dicevo: «Ma, signore, se vi capitasse di ucciderlo?» A quelle parole si metteva a piangere e si copriva gli occhi con le mani; correva per il suo appartamento come un pazzo. Due ore dopo, o il suo compagno lo riportava a casa ferito, o egli rendeva al suo compagno lo stesso servigio. Né le mie rimostranze, ... né le mie rimostranze, né quelle degli altri ci potevano fare niente; non si trovò un rimedio che separandoli. Il ministro della guerra fu informato di una perseveranza così singolare in estremi così opposti, e il mio capitano fu nominato al comando di una piazza, con l'ingiunzione espressa di raggiungere immediatamente il suo posto, e con la proibizione di allontanarsene; un altro divieto immobilizzò il suo compagno al reggimento... Credo che questo maledetto cavallo mi farà impazzire... Gli ordini del ministro erano appena arrivati, che il mio capitano, con il pretesto di andare a ringraziare per il favore ottenuto, andò alla Corte, fece presente che egli era ricco e che il suo compagno indigente aveva gli stessi diritti ai favori del re; che il posto che gli era stato accordato avrebbe ricompensato i servigi del suo amico, supplito alle sue poche risorse e che, quanto a lui, ne sarebbe al colmo della gioia. Siccome il ministro non aveva avuto altro intento se non quello di separare questi due uomini bizzarri, e poiché le maniere generose commuovono sempre, fu deciso... Maledetta bestia, vuoi tenere la testa dritta?... Fu deciso che il mio capitano restasse al reggimento e che il suo compagno andasse ad occupare il comando della piazza.

Essi furono appena separati, che sentirono il bisogno che avevano l'uno dell'altro; piombarono in una profonda malinconia. Il mio capitano chiese un congedo semestrale per andare a respirare l'aria natia, ma a due leghe dalla guarnigione, vende il cavallo, si traveste da contadino e si incammina verso la piazza comandata dal suo amico.

Pare che fosse un mezzo concertato fra loro. Egli arriva... Insomma, va' dove vuoi! C'è forse qui qualche patibolo che ti piacerebbe visitare?... Ridete pure, signore, è infatti molto divertente... Egli arriva; ma era scritto lassù che, per quante precauzioni avessero preso per nascondere la soddisfazione che provavano, e per accostarsi solo con i segni esteriori della subordinazione di un contadino nei riguardi di un comandante di piazza, dei soldati, alcuni ufficiali che si trovarono per caso presenti al loro incontro, e che erano informati della loro avventura, si insospettissero e andassero ad avvertire il maggiore della piazza.

Questi, uomo prudente, sorrise dell'avvertimento, ma non tralasciò di darvi tutta l'importanza che meritava. Mise delle spie intorno al comandante. Il loro primo rapporto fu che il comandante usciva poco, e che il contadino non usciva per niente. Era impossibile che questi due uomini vivessero insieme otto giorni di seguito, senza che la loro strana mania li riprendesse; cosa che non mancò di succedere.

Vedi, lettore, come sono cortese; non dipenderebbe che da me dare una frustata ai cavalli che tirano il carro drappeggiato di nero, radunare alla porta del prossimo alloggio, Giacomo, il suo padrone, le guardie del Fisco o i cavalieri della gendarmeria con il resto del loro corteo; interrompere la storia del capitano e farti perdere la pazienza a mio comodo; ma per fare questo bisognerebbe mentire, e io non amo la menzogna, a meno che non sia utile e forzata. Il fatto è che Giacomo e il suo padrone non videro più il carro drappeggiato, e che Giacomo, sempre inquieto per il comportamento del suo cavallo, continuò il racconto:

Un giorno le spie riferirono al maggiore che c'era stata una disputa molto vivace tra il comandante e il contadino; che, in seguito, essi erano usciti, andando avanti il primo, non seguendolo il secondo che a malincuore, e che erano entrati da un banchiere della città, dal quale si trovavano ancora.

Si apprese in seguito che, non sperando di rivedersi più, avevano deciso di battersi all'ultimo sangue, e che, sensibile ai doveri della più tenera amicizia, nel momento stesso della ferocia più inaudita, il mio capitano che era ricco, come vi ho detto... il mio capitano, che era ricco, aveva voluto dal suo compagno che accettasse una lettera di cambio di ventiquattromila lire, che gli assicurasse di che vivere all'estero, nel caso in cui egli fosse ucciso, protestando che non si batterebbe senza questo preliminare; rispondendo l'altro a quest'offerta: «Credi forse, amico mio, che, se ti uccido, ti sopravviverò?...» - Spero, signore, che non mi condannerete a finire il nostro viaggio su questo strano animale...

Uscivano dal banchiere e si avviavano verso le porte della città, quando si videro circondati dal maggiore e da alcuni ufficiali. Benché quest'incontro avesse l'aria di un caso fortuito, i nostri due amici, i nostri due nemici, come vi piacerà chiamarli, non s'ingannarono. Il contadino si lasciò riconoscere per quello che era. Si andò a passare la notte in una casa appartata. L'indomani, sul fare del giorno, il mio capitano, dopo aver abbracciato più volte il suo compagno, se ne separò per non rivederlo mai più. Fu appena arrivato al suo paese, che morì.

IL PADRONE: E chi ti ha detto che era morto?

GIACOMO: E quella bara? e quel carro con le sue armi? Il mio povero capitano è morto, non ne dubito.

IL PADRONE: E quel prete con le mani legate dietro la schiena; e quella gente con le mani legate dietro la schiena, e quelle guardie del Fisco o cavalieri di gendarmeria; e quel ritorno del corteo verso la città? Il tuo capitano è vivo, non ne dubito; ma non sai niente del suo compagno?

GIACOMO: La storia del suo compagno è una bella riga del gran rotolo, o di ciò che c'è scritto lassù.

IL PADRONE: Spero...

Il cavallo di Giacomo non permise al suo padrone di finire; parte come un lampo, senza gettarsi né a destra né a sinistra, ma seguendo la strada maestra. Giacomo non si vide più; e il suo padrone persuaso che la strada portava a forche patibolari, si teneva i fianchi dal ridere.

E poiché Giacomo e il suo padrone non valgono che insieme, e separati non valgono niente più di Don Chisciotte senza Sancio e di Ricciardetto senza Ferraù. cosa che il continuatore del Cervantes e l'imitatore dell'Ariosto, monsignor Forteguerri, non hanno capito abbastanza, lettore, chiacchieriamo insieme fino a che non si siano ritrovati.

Prenderete la storia del capitano di Giacomo per un racconto, e avrete torto. Vi affermo che come egli l'ha raccontata al suo padrone, tale fu il racconto che ne avevo sentito fare agli Invalidi non so in che anno, il giorno di San Luigi, a tavola da un signore di Saint-Etienne, maggiore del Palazzo; e il narratore, che parlava in presenza di parecchi ufficiali della casa, che erano a conoscenza del fatto, era un personaggio grave, che non aveva affatto un'aria scherzosa. Ve lo ripeto, dunque, per ora e per sempre: siate circospetti se non volete prendere in questi discorsi di Giacomo con il suo padrone il vero per il falso, il falso per vero. Eccovi ben avvertiti, e io me ne lavo le mani. - Ecco, mi direte, due uomini veramente straordinari! - Ed è ciò che vi rende diffidenti? Primo, la natura è così varia, soprattutto in fatto d'istinti e di caratteri, che non c'è niente di così bizzarro nella fantasia di un poeta, di cui l'esperienza e l'osservazione non vi offrano un modello nella natura. Io, che vi parlo, ho incontrato il facsimile del "Medico suo malgrado", che avevo fin là considerato come la più pazza e la più gaia delle finzioni.

Come! Il facsimile del marito a cui sua moglie dice: Ho tre bambini sulle braccia; e che le risponde: Mettili per terra... Mi domandano del pane: dà loro la frusta! - Precisamente. Ecco il suo discorso con mia moglie:

- Siete voi, signor Gousse!

- No, signora, non sono un altro.

- Da dove venite?

- Da dove ero andato.

- Che avete fatto laggiù?

- Ho aggiustato un mulino che andava male.

- A chi apparteneva questo mulino?

- Non ne so nulla; non ero andato per aggiustare il mugnaio.

- Siete molto ben vestito contro il vostro solito; perché sotto questo vestito, che è pulitissimo, una camicia sporca?

- E' che ne ho una sola.

- E perché ne avete una sola?

- Perché ho un solo corpo.

- Mio marito non c'è, ma ciò non vi impedirà di pranzare qui.

-No, poiché non gli ho affidato né il mio stomaco né il mio appetito.

- Come sta vostra moglie?

- Come le piace; è affar suo.

- E i vostri figli?

- A meraviglia!

- E quello che ha così begli occhi, una carnagione così bella, che è così grassottello?

- Molto meglio degli altri; è morto.

- Insegnate loro qualche cosa?

- No, signora.

- Come! né a leggere, né a scrivere, né il catechismo?

- Né a leggere, né a scrivere, né il catechismo.

- E perché ?

-E' che a me non hanno insegnato niente, e non sono più ignorante per questo. Se hanno ingegno, faranno come me; se sono scemi, ciò che insegnerei loro non li renderebbe che più sciocchi...

Se mai incontrate quest'originale, non è necessario conoscerlo per avvicinarlo. Attiratelo in una bettola, ditegli l'affar vostro, proponetegli di seguirvi a venti leghe, vi seguirà; dopo esservi serviti di lui rimandatelo via senza un soldo; se ne tornerà soddisfatto.

Avete sentito parlare di un certo Prémontval, che dava a Parigi lezioni pubbliche di matematica? Era suo amico... Ma Giacomo e il suo padrone si sono forse ritrovati: volete che andiamo da loro o volete restare con me?... Gousse e Prémontval reggevano la scuola insieme.

Fra gli scolari che ci andavano in folla, c'era una ragazza chiamata madamigella Pigeon, figlia di quell'abile artista che ha costruito i due bei planisferi, che sono stati trasportati dal Giardino del re nelle sale dell'Accademia delle Scienze. La signorina Pigeon andava lì tutte le mattine, con la sua cartella sotto il braccio e l'astuccio dei compassi nel manicotto. Uno dei professori, Prémontval, si innamorò della sua scolara, e attraverso tutte le proposizioni sui solidi iscritti alla sfera venne fuori un bambino. Il signor Pigeon padre non era uomo da ascoltare pazientemente la verità di questo corollario. La situazione degli amanti diventa imbarazzante; essi si consultano, ma non possedendo niente, ma proprio niente, quale poteva essere il risultato delle loro deliberazioni? Chiamano in loro aiuto l'amico Gousse. Questi, senza dire una parola, vende tutto ciò che possiede, biancheria, vestiti, macchine, mobili, libri; mette insieme una somma, butta i due innamorati su una vettura, li accompagna a spron battuto fino alle Alpi; qui vuota la sua borsa del poco danaro che gli restava, lo dà loro, li abbraccia, augura buon viaggio, e se ne torna a piedi chiedendo l'elemosina fino a Lione, dove guadagnò, dipingendo le pareti di un chiostro di monaci, di che tornare a Parigi senza mendicare. - Ciò è molto bello. - Sicuro! E per quest'azione eroica, credete che Gousse avesse un gran fondo morale? Ebbene, disingannatevi, non ne aveva più di quanto ce n'è nella testa di un luccio. - E' impossibile. - E' così. Io lo avevo impiegato. Gli do un assegno di ottanta lire sui miei committenti; la somma era scritta in cifre; e lui, che fa? Aggiunge uno zero, e si fa pagare ottocento lire. - Ah, che orrore! - Non è più disonesto quando mi deruba di quanto sia onesto quando si spoglia per un amico; è un originale senza principi. Quegli ottanta franchi non gli bastavano, con un tratto di penna se ne procura ottocento di cui ha bisogno. E i libri preziosi di cui mi fa dono? - Che cosa sono questi libri?... - Ma, e Giacomo e il suo padrone? Ma, e gli amori di Giacomo? Ah! lettore, la pazienza con cui mi ascolti prova il tuo poco interesse per i miei due personaggi, e sono tentato di lasciarli dove sono... Avevo bisogno di un libro prezioso e lui me lo porta; qualche tempo dopo ho bisogno di un altro libro prezioso, e me lo porta ancora; voglio pagarli, ne rifiuta il prezzo. Ho bisogno di un terzo libro prezioso. Quanto a questo, - dice, - non l'avrete, me l'avete detto troppo tardi; il mio dottore della Sorbona è morto.

- E che ha di comune la morte del vostro dottore della Sorbona con il libro che desidero? Avete forse preso gli altri due nella sua biblioteca?

- Sicuro!

- Senza il suo permesso?

- Eh! Ne avevo forse bisogno per esercitare una giustizia distributiva? Non ho fatto che dare un posto migliore a questi libri, trasferendoli da un luogo in cui erano inutili, in un altro in cui se ne sarebbe fatto buon uso...- E pronunziatevi dopo ciò sul comportamento degli uomini! Ma la storia di Gousse con sua moglie è magnifica... Vi capisco, ne avete abbastanza, e il vostro parere sarebbe che andassimo a raggiungere i nostri due viaggiatori. Lettore, mi tratti come un automa, non è cortese; raccontate gli amori di Giacomo, non raccontate gli amori di Giacomo... Voglio che mi parliate della storia di Gousse; ne ho abbastanza... Bisogna senza dubbio ch'io segua talvolta la tua fantasia ma bisogna talvolta che tu segua la mia, senza contare che ogni ascoltatore, che mi permette di cominciare un racconto, si impegna a sentirne la fine.

Vi ho detto: primo; ora, dir primo, significa annunciare almeno un secondo. Secondo, dunque... Ascoltatemi, non mi ascoltate, parlerò da solo... Il capitano di Giacomo e il suo compagno potevano essere tormentati da una gelosia violenta e segreta: è un sentimento che non sempre l'amicizia spegne. Nulla è così difficile da perdonare quanto il merito. Non temevano la cessione di un diritto che li avrebbe offesi ugualmente tutti e due? Senza sospettarlo, essi cercavano in anticipo di liberarsi di un concorrente pericoloso, e si tastavano per l'occasione futura. Ma come avere quest'idea di colui che cede così generosamente il comando della piazza al proprio amico indigente? Egli lo cede, è vero; ma se ne fosse stato privato, l'avrebbe forse rivendicato con la punta della spada. La cessione di un diritto fra militari, se non onora colui che ne profitta, disonora il suo rivale.

Ma lasciamo tutto ciò e diciamo che era questo il loro granello di pazzia. Ciascuno non ha forse il suo? Quello dei nostri due ufficiali fu per parecchi secoli quello di tutta l'Europa; lo si chiamava spirito di cavalleria. Tutta questa brillante moltitudine, armata dalla testa ai piedi, decorata di svariate livree d'amore, caracollante su palafreni, con la lancia in pugno, con la visiera alta o abbassata, che si squadravano fieramente, si misuravano con lo sguardo, si minacciavano, si rovesciavano nella polvere, cospargevano lo spazio di un vasto torneo di pezzi d'armi infrante, non erano che amici gelosi del merito in voga. Questi amici, nel momento in cui tenevano le lance in resta, ciascuno a un'estremità della lizza, ficcato lo sprone nel fianco dei loro destrieri, diventavano i più terribili nemici; si precipitavano gli uni sugli altri con lo stesso furore che avrebbero portato su un campo di battaglia. Ebbene! I nostri due ufficiali non erano che due paladini, nati ai nostri giorni, con i costumi degli antichi. Ogni virtù e ogni vizio appare e passa di moda. La forza del corpo ebbe la sua ora, l'abilità negli esercizi ebbe la sua. Il coraggio è ora più, ora meno considerato; più esso è comune, meno se ne è fieri, meno se ne fa l'elogio. Seguite le inclinazioni degli uomini e noterete che ce ne sono che sembrano venuti al mondo troppo tardi: sono di un altro secolo, e che cosa impedirebbe di credere che i nostri due militari fossero stati impegnati in queste lotte quotidiane e pericolose per il solo desiderio di trovare il lato debole del rivale, e di ottenere la superiorità su di lui? I duelli si ripetono nella società sotto tutte le forme, fra i preti, fra i magistrati, fra i letterati, fra i filosofi; ogni categoria ha la sua lancia e i suoi cavalieri, e le nostre più rispettabili, più divertenti assemblee, non sono che piccoli tornei, dove a volte si portano le insegne dell'amore in fondo al cuore, se non sulla spalla. Più spettatori ci sono più la giostra è viva; la presenza di donne stimola l'ardore e l'ostinazione portata a oltranza, e la vergogna di soccombere davanti ad esse non è cosa che si dimentichi.

E Giacomo? ... Giacomo aveva superato le porte della città, attraversato le strade sotto le acclamazioni dei ragazzi, e aveva raggiunto l'estremità del sobborgo opposto, dove il suo cavallo essendosi slanciato sotto una piccola porta bassa, ci fu tra l'arco di questa porta e ~a testa di Giacomo un urto terribile, nel quale bisognava o che l'arco si spostasse o che Giacomo fosse rovesciato all'indietro; come si può bene immaginare, fu questo che accadde.

Giacomo cadde, con la testa spaccata e senza conoscenza. Lo rialzano, viene rianimato per mezzo di acque aromatiche; credo anche che fu salassato dal padrone di casa. - Quest'uomo era dunque un chirurgo?

- No. Intanto il suo padrone era arrivato, e chiedeva notizie di lui a tutti quelli che incontrava. - Non avete per caso visto un uomo alto, magro, che montava un cavallo pomellato?

-E' passato or ora, correva come se l'avesse portato il diavolo; dev'essere arrivato dal suo padrone.

- E chi è il suo padrone?

- Il boia!.

- Il boia!

- Sì, poiché quel cavallo è il suo.

- Dove abita il boia?

- Piuttosto lontano, ma non preoccupatevi d'andarci, ecco i suoi servi che vi portano evidentemente l'uomo magro che cercate, e che abbiamo preso per uno dei suoi domestici...

E chi parlava così con il padrone di Giacomo? Era il padrone di un albergo, alla porta del quale egli si era fermato, non c'era da ingannarsi: era basso e grosso come una botte; con le maniche della camicia rimboccate fino ai gomiti; con un berretto di cotone sulla testa, un grembiule da cucina e un coltellaccio al fianco. - Presto, presto, un letto per questo disgraziato, gli dice il padrone di Giacomo, un chirurgo, un medico, uno speziale... - Intanto Giacomo era stato deposto ai suoi piedi, con la fronte coperta da una spessa ed enorme compressa, e gli occhi chiusi: - Giacomo? Giacomo?

- Siete voi, padrone mio?

- Sì, sono io; guardami dunque.

- Non posso.

- Che t'è mai successo?

- Ah che cavallo! Che maledetto cavallo! Vi dirò tutto questo domani, se non muoio durante la notte.

Mentre lo si trasportava su nella sua camera, il padrone dirigeva la marcia e gridava: - Badate, fate piano; piano, perdinci! gli farete male. Tu che lo tieni per le gambe, gira a destra; tu che gli tieni il capo, gira a sinistra. - E Giacomo diceva a bassa voce: - Era dunque scritto lassù! ...

Appena coricato, si addormentò profondamente. Il suo padrone passò la notte al suo capezzale, tastandogli il polso e umettando senza posa la compressa con acqua vulneraria. Al suo risveglio Giacomo lo sorprese in questa funzione e gli disse: Che state facendo?

IL PADRONE: Ti veglio. Tu sei il mio servitore quando sono ammalato o sto bene; ma io sono il tuo quando stai male.

GIACOMO: Sono ben contento di sapere che siete umano; non è una qualità troppo frequente dei padroni verso i loro servi.

IL PADRONE: Come va la testa?

GIACOMO: Bene, quanto la trave contro la quale ha lottato.

IL PADRONE: Prendi questo panno fra i denti e scuoti forte... Che hai sentito?

GIACOMO: Nulla; la bocca mi sembra senza incrinatura.

IL PADRONE: Meglio così. Vuoi alzarti, credo?

GIACOMO: E che volete che faccia qui?

IL PADRONE: Voglio che ti riposi.

GIACOMO: Per conto mio, il mio parere è che pranziamo e partiamo.

IL PADRONE: E il cavallo?

GIACOMO: L'ho lasciato dal suo padrone, un onest'uomo, un galantuomo che lo ha ripreso per quanto ce l'ha venduto.

IL PADRONE: E sai chi è quest'onest'uomo, questo galantuomo?

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Te lo dirò quando saremo per strada.

GIACOMO: E perché non ora? Che mistero c'è sotto?

IL PADRONE: Mistero o no, che necessità c'è di dirtelo in questo momento o in un altro?

GIACOMO: Nessuna.

IL PADRONE: Ma ti occorre un cavallo.

GIACOMO: Il padrone di questa locanda non chiederà forse di meglio che di cedercene uno dei suoi.

IL PADRONE: Dormi ancora un po', vado a provvedere.

Il padrone di Giacomo scende, ordina il pranzo, compra un cavallo, risale e trova Giacomo vestito. Ecco che hanno pranzato e sono di nuovo partiti; protestando Giacomo che non era onesto andarsene senza aver fatto una visita di cortesia al cittadino, alla porta del quale si era quasi accoppato, e che lo aveva così cortesemente soccorso; tranquillizzandolo il suo padrone sulla sua delicatezza, con l'assicurazione di aver ben ricompensato i servi che lo avevano portato alla locanda; pretendendo Giacomo che il danaro dato ai servi non lo disimpegnava nei confronti del loro padrone; che è così che si ispira agli uomini il rincrescimento e il disgusto del bene fatto, e che si dà a se stessi un'aria d'ingratitudine. - Padrone mio, capisco tutto ciò che quest'uomo dice di me, da ciò che io direi di lui, se egli fosse al mio posto e io al suo...

Uscivano dalla città quando incontrarono un uomo alto e vigoroso, con sulla testa un cappello listato e un gallone su ogni cucitura dell'abito, che camminava solo, se togliete due grandi cani che lo precedevano. Giacomo lo ebbe appena scorto, che scendere di cavallo, gridare: «è lui!» e gettarglisi al collo, fu affare di un istante.

L'uomo coi due cani sembrava molto impacciato dalle carezze di Giacomo, lo respingeva garbatamente, e gli diceva: - Signore, mi fate troppo onore.

- Oh no! Vi devo la vita, non potrei ringraziarvi abbastanza.

- Voi non sapete chi sono.

- Non siete il cortese cittadino che mi ha soccorso, che mi ha salassato e bendato, quando il mio cavallo...

- E' vero.

-Non siete l'onesto cittadino che ha ripreso questo cavallo allo stesso prezzo al quale me l'aveva venduto?

- Lo sono -. E Giacomo a ribaciarlo su una guancia e sull'altra, e il suo padrone a sorridere, mentre i due cani si tenevano dritti, con il naso in aria e come meravigliati di una scena che vedevano per la prima volta. Giacomo, dopo aver aggiunto alle dimostrazioni di gratitudine parecchie riverenze, che il benefattore non gli rendeva, e molti complimenti che venivano ricevuti freddamente, risale a cavallo e dice al suo padrone:- Ho la più profonda venerazione per quest'uomo che dovete farmi conoscere.

IL PADRONE: E perché, Giacomo, egli è così venerabile ai tuoi occhi?

GIACOMO: Perché se non annette nessuna importanza ai servigi che rende, bisogna che sia cortese per natura e che abbia una lunga abitudine a fare del bene.

IL PADRONE: E da che lo deduci?

GIACOMO: Dall'aria fredda e indifferente con cui ha ricevuto il mio ringraziamento; non mi saluta, non mi dice una parola, sembra non conoscermi, e forse adesso dice in cuor suo con un sentimento di disprezzo: «Bisogna che la beneficenza sia molto estranea a questo viaggiatore, e che l'esercizio della giustizia gli sia davvero penoso, poiché ne è così colpito...» Che c'è dunque di così assurdo in quello che vi dico, per farvi ridere così allegramente!... Qualsiasi cosa sia, ditemi il nome di quest'uomo, affinché lo noti.

IL PADRONE: Ben volentieri; scrivi.

GIACOMO: Dite.

IL PADRONE: Scrivi: l'uomo per il quale ho la più profonda venerazione...

GIACOMO: La più profonda venerazione...

IL PADRONE: E'...

GIACOMO: E'...

IL PADRONE: Il boia di ... .

GIACOMO: Il boia!

IL PADRONE: Sì, sì, il boia.

GIACOMO: Potreste dirmi dov'è il sale di questo scherzo?

IL PADRONE: Non scherzo affatto. Segui gli anelli della tua catena. Tu hai bisogno di un cavallo, la sorte ti indirizza a un passante, e questo passante è un boia. Il cavallo ti conduce due volte fra le forche patibolari; la terza, ti deposita da un boia; qui tu cadi inanimato; di là ti si trasporta, dove? in una locanda, un alloggio, un asilo pubblico. Giacomo, conosci la storia della morte di Socrate?

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Era un saggio di Atene. Già da molto tempo la parte di saggio è pericolosa fra i pazzi. I suoi concittadini lo condannarono a bere la cicuta. Ebbene, Socrate fece come tu hai fatto ora; si comportò verso il boia che gli presentò la cicuta così cortesemente come te. Giacomo, tu sei una specie di filosofo, devi convenirne. So bene che è una razza d'uomini odiosa ai potenti, davanti ai quali essi non piegano le ginocchia; ai magistrati, protettori per posizione dei torti che processano; ai preti, che li vedono raramente ai piedi dei loro altari; ai poeti, gente senza principi e che considera scioccamente la filosofia come la scure delle belle arti, senza contare che quegli stessi di loro che si sono esercitati nel genere odioso della satira, non sono stati che degli adulatori; ai popoli, in ogni tempo schiavi dei tiranni che li opprimono, dei furfanti che li ingannano, e dei buffoni che li divertono. Così io conosco tutto il pericolo, come vedi, della tua professione e tutta l'importanza della confessione che ti chiedo; ma non abuserò del tuo segreto. Giacomo, amico mio, tu sei un filosofo, ne sono spiacente per te; e se è permesso leggere nelle cose presenti quelle che devono accadere un giorno, e se ciò che è scritto lassù si manifesta a volte agli uomini molto tempo prima dell'evento, presumo che la tua morte sarà filosofica e che riceverai la corda di buona grazia, come Socrate ricevette la coppa della cicuta.

GIACOMO: Padrone mio, un profeta non direbbe meglio; ma fortunatamente...

IL PADRONE: Non ci credi gran che; è ciò che finisce di dare forza al mio presentimento.

GIACOMO: E voi ci credete, signore?

IL PADRONE: Ci credo; non ci credessi, sarebbe senza conseguenza.

GIACOMO: E perché?

IL PADRONE: Perché non c'è pericolo che per quelli che parlano; e io taccio.

GIACOMO: E quanto ai presentimenti?

IL PADRONE: Ne rido, ma confesso che lo faccio tremando. Ce ne sono che hanno un carattere così impressionante! Ci hanno così per tempo ripetuto simili racconti! Se i tuoi sogni si fossero realizzati cinque o sei volte, e ti fosse capitato di sognare che il tuo amico è morto, tu saresti andato la mattina prestissimo da lui, per sapere che ne è.

Ma i presentimenti da cui è impossibile difendersi, sono soprattutto quelli che si presentano al momento in cui la cosa accade lontano da noi, e che hanno un'aria simbolica.

GIACOMO: Siete a volte così profondo e sublime, che non vi capisco.

Non potreste chiarirmi ciò con un esempio?

IL PADRONE: Niente di più facile. Una donna viveva in campagna con suo marito, un ottuagenario ammalato di calcoli. Il marito lascia la moglie e va in città a farsi operare. Il giorno prima dell'operazione scrive a sua moglie: «All'ora in cui riceverai questa lettera, sarò sotto il bisturi di frate Cosme..." Tu conosci quelle fedi di matrimonio che si separano in due parti, su ciascuna delle quali sono incisi i nomi dello sposo e di sua moglie Ebbene! Questa donna ne aveva al dito una simile, quando aprì la lettera di suo marito. Nello stesso istante, le due metà dell'anello si separano; quella che portava il suo nome resta al dito; quella che portava il nome del marito cade spezzata sulla lettera che leggeva... Dimmi, Giacomo, credi che ci siano teste abbastanza solide, anime abbastanza forti, da non essere più o meno scosse da un simile incidente, e in una circostanza simile? Questa donna credette di morirne. Le sue ansie durarono fino al giorno del corriere seguente, con il quale suo marito le scriveva che l'operazione era stata fatta felicemente, che egli era fuori pericolo e sperava di riabbracciarla prima della fine del mese.

GIACOMO: E la riabbracciò realmente?

IL PADRONE: Sì.

GIACOMO: Vi ho fatto questa domanda perché ho notato più volte che il destino è cauto. Gli si dice dapprima che avrà mentito, e si trova poi che ha detto il vero. Così dunque, signore, voi mi credete nel caso del presentimento simbolico; e, vostro malgrado, mi credete minacciato della morte del filosofo?

IL PADRONE: Non saprei dissimulartelo; ma per allontanare questa triste idea, non potresti?...

GIACOMO: Riprendere la storia dei miei amori?...

Giacomo riprese la storia dei suoi amori. L'avevamo lasciato, credo, con il chirurgo.

IL CHIRURGO: Temo che per il vostro ginocchio ci sia da fare per più di un giorno.

GIACOMO: Ce ne sarà giusto per tutto il tempo che è scritto lassù, che importa?

IL CHIRURGO: A tanto al giorno per l'alloggio, il vitto e le mie cure, farà una grossa somma.

GIACOMO: Dottore, non si tratta della somma per tutto questo tempo; ma di quanto al giorno.

IL CHIRURGO: Venticinque soldi, sarebbe troppo?

GIACOMO: Troppo, troppo; andiamo dottore, sono un povero diavolo:

riduciamo dunque la cosa alla metà, e provvedete il più presto possibile a farmi trasportare da voi.

IL CHIRURGO: Dodici soldi e mezzo, non è molto; metterete tredici soldi?

GIACOMO: Dodici soldi e mezzo, tredici soldi... Affare fatto.

IL CHIRURGO: E pagherete ogni giorno?

GIACOMO: E' la condizione.

IL CHIRURGO: Vedete, ho un diavolo di moglie che non sente storie.

GIACOMO: Oh dottore, fatemi trasportare presto presso questo diavolo di moglie.

IL CHIRURGO: Un mese a tredici soldi al giorno fa diciannove lire e dieci soldi. Ne darete bene venti?

GIACOMO: Sia pure venti.

IL CHIRURGO: Volete essere ben nutrito, ben curato, guarito prontamente. Oltre il vitto, l'alloggio e le cure ci saranno forse le medicine, la biancheria, ci sarà...

GIACOMO: Che ancora?

IL CHIRURGO In fede mia, il tutto varrà bene ventiquattro franchi.

GIACOMO: Vada per ventiquattro franchi; ma senza coda.

IL CHIRURGO: Un mese a ventiquattro franchi; due mesi, faranno quarantotto; tre mesi settantadue. Ah, come sarebbe contenta la dottoressa se poteste anticiparle, arrivando, la metà di queste settantadue lire!

GIACOMO: Acconsento.

IL CHIRURGO: Essa sarebbe ancor più contenta...

GIACOMO: Se pagassi ancora un quarto? Lo pagherò.

Giacomo aggiunse: - Il chirurgo andò a trovare i miei ospiti, li avvertì del nostro accordo, e un momento dopo l'uomo, la donna e i bambini si radunarono intorno al mio letto con aria serena; furono domande senza fine sulla mia salute e sul mio ginocchio, elogi del chirurgo loro compare e di sua moglie, auguri a tutto andare, la più bella affabilità, e un interesse, una premura a servirmi! Tuttavia il chirurgo non aveva detto loro che avevo un po' di danaro, ma essi conoscevano l'uomo; egli mi prendeva in casa sua e loro lo sapevano.

Pagai a questa gente ciò che dovevo, feci dei regalucci ai bambini, che il padre e la madre non lasciarono a lungo nelle loro mani. Era il mattino. L'ospite partì per andare ai suoi campi, sua moglie si mise la sporta sulle spalle e si allontano; i bambini rattristati e scontenti di essere depredati, scomparvero, e quando si trattò di tirarmi fuori dal mio giaciglio, di vestirmi e di adagiarmi sulla barella, non si trovò nessuno al di fuori del dottore, che si mise a gridare a squarciagola e che nessuno ascoltò.

IL PADRONE: E Giacomo, a cui piace parlare a se stesso, si diceva evidentemente: Non pagate mai prima, se non volete essere malserviti.

GIACOMO: No, padrone mio; non era il momento di fare la morale, ma quello di perdere la pazienza e di bestemmiare. Mi spazientii, bestemmiai, feci poi la morale: e mentre facevo la morale, il dottore che mi aveva lasciato solo, tornò con due contadini che aveva presi a mie spese per farmi trasportare, cosa che non mi lasciò ignorare.

Questi uomini mi propinarono tutte le cure preliminari alla mia installazione su quella specie di barella, che mi fecero con un materasso steso su due pertiche.

IL PADRONE: Sia lodato Iddio! Eccoti in casa del chirurgo, e innamorato della moglie o della figlia del dottore.

GIACOMO: Credo, padrone mio, che v'inganniate.

IL PADRONE: E tu credi che passerò tre mesi in casa del dottore prima di aver sentito l'inizio dei tuoi amori? Ah, Giacomo! Non è possibile.

Fammi grazia, ti prego, della descrizione della casa, e del carattere del dottore e dell'umore della dottoressa, e dei progressi della tua guarigione; salta, salta tutto ciò. Al fatto, andiamo al fatto! Ecco il tuo ginocchio quasi guarito, eccoti rimesso abbastanza, e tu ami.

GIACOMO: Amo dunque, poiché avete tanta fretta.

IL PADRONE: E chi ami?

GIACOMO: Una grande bruna di diciott'anni, ben tornita, occhioni neri, boccuccia vermiglia, belle braccia, graziose mani... Ah! padrone mio, che mani graziose!... Quelle mani...

IL PADRONE: Credi di tenerle ancora.

GIACOMO: Siete voi che le avete prese e tenute più di una volta di nascosto, e solo da esse è dipeso se non ne avete fatto tutto ciò che vi piaceva.

IL PADRONE: In fede mia, Giacomo, non mi aspettavo una cosa simile.

GIACOMO: Io neppure.

IL PADRONE: Ho un bel pensarci, non mi ricordo né di una grande bruna né di graziose mani: cerca di spiegarti.

GIACOMO: Acconsento: ma a condizione che torneremo sui nostri passi e che entreremo di nuovo nella casa del chirurgo.

IL PADRONE: Credi che sia scritto lassù?

GIACOMO: Me lo direte voi; ma è scritto quaggiù che "chi va piano va sano".

IL PADRONE: E che "chi va sano va lontano", ed io vorrei proprio arrivare.

GIACOMO: Ebbene, che avete deciso?

IL PADRONE: Quello che vorrai.

GIACOMO: In questo caso, eccoci di nuovo dal chirurgo; ed era scritto lassù che ci torneremmo. - Il dottore, sua moglie e i suoi figli si misero d'accordo così bene per vuotare la mia borsa di piccole rapine, che ci riuscirono in fretta. La guarigione del mio ginocchio sembrava molto inoltrata senza esserlo, la piaga si era quasi chiusa, potevo uscire con l'aiuto di una stampella, e mi rimanevano ancora diciotto franchi. Non c'è gente che ami parlare più dei balbuzienti, né gente che ami camminare più degli zoppi. Un giorno d'autunno, un pomeriggio che faceva bel tempo, progettai una lunga passeggiata; dal villaggio in cui abitavo, al villaggio vicino c'erano circa due leghe.

IL PADRONE: E questo villaggio si chiamava?

GIACOMO: Se lo nominassi, sapreste tutto. Arrivato là, entrai in un'osteria, mi riposai, mi rinfrescai. Il giorno cominciava a declinare, e mi preparavo a tornare a casa, quando da dove mi trovavo, sentii una donna che lanciava le grida più acute. Uscii; la gente si era affollata intorno a lei. Essa era per terra, si strappava i capelli; e diceva, mostrando i cocci di una grande brocca: - Sono rovinata, sono rovinata per un mese; durante questo tempo, chi nutrirà i miei poveri bambini? L'intendente che ha l'anima più dura di una pietra non mi farà grazia di un soldo. Come sono disgraziata! Sono rovinata! Sono rovinata!... - Tutti la compiangevano; non sentivo intorno a lei che «Povera donna!» Ma nessuno metteva mano alla tasca.

Io mi avvicinai bruscamente e le dissi: - Brava donna, che cosa vi è capitato? - Che m'è capitato! Non lo vedete? Mi hanno mandato a comprare una brocca d'olio: ho fatto un passo falso, sono caduta e la mia brocca si è rotta, ed ecco l'olio di cui era piena... - In quel momento sopraggiunsero i bambini della donna, erano quasi nudi, e i poveri vestiti della loro madre mostravano tutta la miseria della famiglia; e la madre e i bambini si misero a gridare. Così come mi vedete, bastava dieci volte meno per commuovermi; le mie viscere si mossero a compassione, le lacrime mi vennero agli occhi. Chiesi alla donna, con voce spezzata, quanto olio ci fosse nella sua brocca. - Quanto? mi rispose levando le mani in alto. - Per nove franchi, più di quanto non potrei guadagnare in un mese... Subito, aprendo la mia borsa e dandole due grossi scudi, Tenete, buona donna, le dissi, - eccone dodici... - e, senza attendere i suoi ringraziamenti, ripresi la strada del villaggio.

IL PADRONE: Jacques, facesti una bella cosa.

JACQUES: Non vi dispiaccia, feci una sciocchezza. Non ero a cento passi dal villaggio che me lo dissi; non fui a mezza strada che me lo dissi ancora meglio; arrivato dal mio chirurgo, con la scarsella vuota, lo sentii ben altrimenti.

IL PADRONE: Potresti aver ragione e il mio elogio potrebbe essere fuori posto quanto la mia commiserazione... No, no, Jacques, insisto nel mio primo giudizio, ed è l'oblio del tuo proprio bisogno che costituisce il merito principale della tua azione. Ne vedo le conseguenze: sarai esposto alla inumanità del tuo chirurgo e di sua moglie; ti cacceranno di casa; ma quand'anche dovessi morire alla loro porta sul letame, su questo letame saresti soddisfatto di te.

JACQUES: Padrone mio, non sono forte a questo punto. Camminavo mogio mogio; e poiché devo confessarlo, rimpiangendo i miei due grossi scudi, che ormai erano stati dati, e sciupando con il mio rincrescimento l'opera che avevo fatta. Mi trovavo a uguale distanza dai due villaggi e la notte era scesa completamente, quando tre banditi escono dai cespugli che costeggiavano la strada, si buttano su di me, mi gettano a terra, mi frugano e sono stupiti di trovarmi addosso tanto poco danaro. Contavano su una preda migliore; testimoni dell'elemosina che avevo fatta al villaggio, s'immaginavano che colui che può disfarsi alla leggera di un mezzo luigi dovesse averne ancora una ventina. Per la rabbia di veder delusa la loro speranza e di essersi esposti ad aver rotte le ossa su un patibolo per una manciata di spiccioli, se li avessi denunciati, se fossero stati presi e li avessi riconosciuti, si chiesero per un momento se dovessero assassinarmi. Fortunatamente sentirono rumore; fuggirono ed io me la cavai con alcune contusioni che mi feci cadendo e che ricevetti mentre mi derubavano. Allontanatisi i banditi, mi ritirai; raggiunsi il villaggio come potei: vi arrivai alle due del mattino, pallido, disfatto, con il dolore al ginocchio molto aumentato e soffrendo in diversi punti per le botte che avevo prese. Il dottore... Padrone mio, che avete? Stringete i denti, vi agitate come se foste in presenza d'un nemico.

IL PADRONE: Infatti lo sono; ho la spada in mano; mi precipito sui ladri e ti vendico. Dimmi come mai colui che ha scritto il grande rotolo ha potuto scrivere che questa sarebbe stata la ricompensa di un'azione generosa? Perché io, che non sono che un miserabile impastato di difetti, prendo le tue difese, mentre lui che ti ha visto tranquillamente aggredito, gettato in terra, maltrattato, calpestato, lui che si dice essere l'insieme di tutte le perfezioni !...

GIACOMO: Padrone mio, piano, piano; ciò che dite sa diabolicamente d'eresia.

IL PADRONE: Che guardi?

GIACOMO: Guardo se intorno a noi non c'è nessuno che vi abbia sentito... Il dottore mi tastò il polso e mi trovò la febbre. Mi coricai senza parlare della mia avventura, riflettendo sul mio giaciglio, avendo da fare con due esseri... Dio! che esseri! non avendo più un soldo, e senza il minimo dubbio che l'indomani, al mio risveglio, si sarebbe preteso il prezzo convenuto per ogni giornata.

A questo punto, il padrone buttò le braccia al collo del suo domestico, esclamando: - Mio povero Giacomo, che farai? Che sarà di te? La tua situazione mi spaventa.

GIACOMO: Padrone mio, rassicuratevi, eccomi qua.

IL PADRONE: Non ci pensavo; ero al domani, accanto a te, dal dottore, nel momento in cui ti svegli e vengono a chiederti il danaro.

GIACOMO: Padrone mio, nella vita non si sa di che rallegrarsi né di che affliggersi. Il bene provoca il male, il male provoca il bene. Noi camminiamo nella notte sotto ciò che è scritto lassù, ugualmente insensati nei nostri desideri, nella nostra gioia e nelle nostre afflizioni. Quando piango, trovo sovente che sono uno stolto.

IL PADRONE: E quando ridi?

GIACOMO: Trovo pure che sono uno stolto; tuttavia, non posso impedirmi né di piangere né di ridere: ed è questo che mi fa stizzire. Ho provato cento volte... Non chiusi occhio tutta la notte...

IL PADRONE: No, no, dimmi cosa provavi.

GIACOMO: A burlarmi di tutto. Ah, se avessi potuto riuscirci!

IL PADRONE: A che ti sarebbe servito?

GIACOMO: A liberarmi delle preoccupazioni, a non aver bisogno più di niente, a rendermi perfettamente padrone di me, a trovare che la mia testa sta altrettanto bene contro una pietra miliare all'angolo della strada, che su un buon cuscino. A volte sono così; ma il male è che non dura, e che, duro e fermo come una roccia nelle grandi occasioni, accade spesso che una piccola contraddizione, una inezia mi faccia andare in bestia; è da prendersi a schiaffi. Vi ho rinunciato; ho scelto di essere come sono; e ho visto, pensandoci un po', che è quasi lo stesso, aggiungendo: Che importa come si è? E' un'altra specie di rassegnazione, più facile e più comoda.

IL PADRONE: Più comoda, questo è certo.

GIACOMO: Appena giorno, il chirurgo aprì le tendine della mia camera e mi disse: - Su, amico, il ginocchio; perché devo andare lontano.

- Dottore, - gli dissi in tono dolente, - ho sonno.

- Tanto meglio! E' buon segno.

- Lasciatemi dormire, non m'importa di essere medicato.

- Non è un grande inconveniente, dormite.

Detto questo, chiude le tendine, e io non dormo. Un'ora dopo, la dottoressa tirò le tende e mi disse: - Su, amico, prendete i vostri crostini zuccherati.

- Dottoressa, - le risposi con aria dolente, - non ho appetito.

- Mangiate, mangiate, non pagherete né più né meno.

- Non voglio mangiare.

- Tanto meglio! Sarà per i miei bambini e per me.

E detto questo, richiude le tende, chiama i bambini ed eccoli che si mettono a divorare i miei crostini zuccherati.

Lettore, se facessi qui una pausa, e riprendessi la storia dell'uomo che aveva una sola camicia perché non aveva che un corpo, vorrei ben sapere, che ne penseresti? Che mi sono ficcato in una "impasse", come direbbe Voltaire, o volgarmente in un culo di sacco, da dove non so come uscire, e che mi butto in un racconto a piacer mio per guadagnar tempo e cercare qualche modo per uscire da quello che ho cominciato.

Ebbene, lettore, ti inganni di sana pianta! So come Giacomo uscirà dalla sua brutta situazione, e quello che ti dirò di Gousse, l'uomo con una sola camicia perché non aveva che un corpo, non è per niente un racconto.

Era il giorno di Pentecoste, la mattina, quando ricevetti un biglietto di Gousse, nel quale mi supplicava di andarlo a trovare in una prigione dov'era rinchiuso. Nel vestirmi, pensavo alla sua avventura; e pensavo che il suo sarto, il suo fornaio, il suo vinaio o il suo oste avevano ottenuto e messo a esecuzione contro di lui un mandato d'arresto. Arrivo, e lo trovo che faceva camerata comune con altri personaggi, con certe facce di presagi neri. Gli domandai che tipo di gente fosse quella.

- Il vecchio con gli occhiali sul naso, è un uomo abile che conosce il calcolo in modo superiore, e che cerca di far quadrare i registri che copia con i suoi conti. E' una cosa difficile, ne abbiamo parlato, ma non dubito che ci riesca.

- E quell'altro?

- E' uno sciocco.

- E che altro ancora?

-Uno sciocco, che aveva inventato una macchina per contraffare i biglietti di banca, una cattiva macchina, una macchina viziosa che pecca in venti maniere.

- E il terzo, vestito di una livrea e che suona il contrabbasso?

- E' qui di passaggio; forse stasera o domani mattina, poiché la sua è una faccenda da niente, sarà trasferito a Bicêtre.

- E voi?

- Io? La mia faccenda è d'importanza ancora minore.

Dopo questa risposta, si alza, posa il berretto sul letto, e subito i suoi tre compagni di prigione spariscono. Quando ero entrato, avevo trovato Gousse in veste da camera, seduto tranquillamente come se fosse stato a casa sua. Eccoci soli.

- E voi che fate qui?

- Lavoro, come vedete.

- E chi vi ci ha fatto mettere?

- Io.

- Come, voi?

- Io, sissignore.

- E come avete fatto?

-Come avrei fatto per un altro. Mi sono fatto un processo; l'ho vinto, e a seguito della sentenza ottenuta contro di me, e al decreto che ne è seguito, sono stato preso e portato qui.

- Siete pazzo?

- Nossignore; vi dico la cosa come è.

-Non potreste farvi un altro processo, vincerlo, e in seguito a un'altra sentenza e a un altro decreto, farvi liberare ?

- Nossignore.

Gousse aveva una bella servetta, che gli serviva da metà più spesso della sua legittima moglie. Questa ripartizione disuguale aveva turbato la pace domestica. Benché niente fosse più difficile che il turbare quest'uomo, fra tutti gli uomini quello che meno temeva la maldicenza, egli aveva preso la decisione di lasciare sua moglie e di vivere con la serva. Ma tutta la sua fortuna era costituita da mobili, macchine, disegni, strumenti e altri effetti mobiliari; ed egli preferiva lasciare nuda sua moglie piuttosto che andarsene a mani vuote; di conseguenza ecco il progetto che concepì. Fece alla sua domestica delle cambiali, questa ne avrebbe chiesto il pagamento e ottenuto il sequestro e la vendita delle sue cose, che sarebbero andate così dal ponte Saint-Michel nell'appartamento in cui egli si proponeva di stabilirsi con lei. E' entusiasta di quest'idea, fa le cambiali, si obbliga, prende due procuratori. Eccolo correre dall'uno e dall'altro, intentando un processo a se stesso con tutto il vigore possibile, attaccandosi bene, difendendosi male; eccolo condannato a pagare sotto la minaccia delle pene stabilite dalla legge; eccolo impadronirsi in ispirito di tutto quello che poteva esserci nella sua casa; ma le cose non andarono così lisce. Aveva da fare con una birbona molto astuta che, invece di fare eseguire la sentenza sui mobili, la rivolse contro la sua persona, lo fece prendere e mettere in prigione; in modo che, per quanto strane fossero le risposte enigmatiche che mi aveva date, esse non erano meno vere.

Mentre vi narravo questa storia, che prendete per un racconto...- E quello dell'uomo in livrea, che raschiava il contrabbasso? Lettore, te lo prometto; sul mio onore, non lo perderai; ma permettimi di tornare a Giacomo e al suo padrone. Giacomo e il suo padrone erano arrivati nel posto in cui dovevano passare la notte. Era tardi; la porta della città era chiusa, ed essi erano stati costretti a fermarsi nel sobborgo. Qui, sento un chiasso... - Sentite?! Ma se non c'eravate!

Non si tratta di voi. - E' vero. Ebbene, Giacomo... il suo padrone...

Si sente un fracasso spaventoso. Vedo due uomini... Non vedete nulla; non si tratta di voi, voi non c'eravate. E' vero. C'erano due uomini a tavola, che chiacchieravano tranquillamente alla porta della camera da essi occupata; una donna con i pugni sui fianchi vomitava su di loro un torrente d'ingiurie, e Giacomo tentava di calmare questa donna, che non ascoltava le sue pacifiche rimostranze più di quanto i due personaggi, ai quali essa si rivolgeva, badassero alle sue invettive... - Via, buona donna,- le diceva Giacomo,pazienza, calmatevi; vediamo un po', di che si tratta? Questi signori mi sembrano brave persone.

- Costoro, brave persone! Sono dei bruti, gente senza pietà, senza umanità, senza nessun sentimento. Oh, che male faceva loro quella povera Nicole, per maltrattarla così? Ne resterà forse storpia per il resto della sua vita.

- Il male non è forse grande quanto credete.

- Il colpo è stato terribile, vi dico; ne rimarrà storpia.

- Bisogna vedere; bisogna mandare a cercare il chirurgo.

- Sono andati.

- Farla mettere a letto.

-C'è già, e getta grida tali da spezzare il cuore. La mia povera Nicole!...

In mezzo a queste lamentele, si suonava da un lato, e si gridava: - Ostessa, del vino!... - Essa rispondeva: Veniamo. Si suonava da un altro lato, e si gridava:- Ostessa, la biancheria-. Essa rispondeva: - Veniamo. - Le cotolette e l'anatra! - Veniamo. - Un boccale, un vaso da notte! Veniamo, veniamo -. E da un altro angolo della casa un forsennato gridava:- Maledetto chiacchierone!

Chiacchierone arrabbiato! Di che ti impicci! Hai deciso di farmi attendere fino a domani? Giacomo! Giacomo!

L'ostessa, rimessa un po' del suo dolore e del suo furore, disse a Giacomo: - Signore, lasciatemi stare, siete troppo buono.

- Giacomo! Giacomo!

- Correte presto. Ah, se sapeste tutte le disgrazie di questa povera creatura!...

- Giacomo! Giacomo!

- Andate dunque, è il vostro padrone che vi chiama, credo.

- Giacomo! Giacomo!

Era infatti il padrone di Giacomo che si era spogliato da solo, che moriva di fame e si spazientiva di non essere servito. Giacomo salì, e un attimo dopo Giacomo, l'ostessa, che aveva l'aria davvero prostrata:

- Signore, - disse al padrone di Giacomo, - mille scuse; ci sono nella vita certe cose che non si possono digerire. Che volete? Ho dei polli, dei piccioni, un eccellente lombo di lepre, dei conigli: è la regione dei buoni conigli. Preferireste un uccello acquatico? - Giacomo ordinò la cena per il suo padrone e per sé, secondo il suo solito. Si servì, e divorando, il padrone diceva a Giacomo: - O che diavolo facevi laggiù?

GIACOMO: Forse del bene, forse del male: chi lo sa?

IL PADRONE: E che bene o che male facevi laggiù?

GIACOMO: Impedivo a questa donna di farsi accoppare da due uomini, che stanno laggiù e che hanno rotto almeno un braccio alla serva.

IL PADRONE: Forse sarebbe stato per lei un bene essere accoppata...

GIACOMO: Per dieci ragioni le une migliori delle altre. Una delle più grandi fortune che mi siano capitate in vita mia, a me che vi parlo...

IL PADRONE: E' di essere stato accoppato?... Da bere.

GIACOMO: Sì, signore, accoppato, accoppato sulla strada maestra, di notte; tornando dal villaggio, come vi dicevo, dopo aver fatto, secondo me la sciocchezza, secondo voi la bell'azione, di dare il mio danaro.

IL PADRONE: Mi ricordo... Da bere... E l'origine della lite che tu cercavi di calmare laggiù, e del cattivo trattamento inflitto alla figlia o alla serva dell'ostessa?

GIACOMO: In fede mia, lo ignoro.

IL PADRONE: Ignori il merito di una faccenda e te ne immischi!

Giacomo, questo non è né secondo prudenza, né secondo giustizia, né secondo i principi... Da bere...

GIACOMO: Non so che cosa siano i principi, se non delle regole che si prescrivono agli altri per sé. Io penso in un modo e non saprei impedirmi di agire in un altro. Tutti i sermoni assomigliano ai preamboli degli editti del Re; tutti i predicatori vorrebbero che si mettessero in pratica le loro lezioni, perché ce ne troveremmo forse meglio; ma quanto a loro, sicuramente... La virtù...

IL PADRONE: La virtù, Giacomo, è una buona cosa; i cattivi ed i buoni ne dicono bene... Da bere.

GIACOMO: Perché e gli uni e gli altri ci trovano il loro tornaconto.

IL PADRONE: E come mai fu per te una fortuna così grande essere accoppato?

GIACOMO: E' tardi, avete ben cenato ed io pure; siamo tutti e due stanchi; credete a me, corichiamoci.

IL PADRONE: Non è possibile, e poi l'ostessa ci deve ancora qualche cosa. In attesa, riprendi la storia dei tuoi amori.

GIACOMO: A che punto ero? Vi prego, padrone mio, per questa volta e per tutte le altre, di rimettermi sulla buona strada.

IL PADRONE: Me ne incarico io e, per entrare nella mia funzione di suggeritore, tu eri nel tuo letto, senza danaro, senza libertà di movimenti, mentre la moglie del dottore e i suoi figli mangiavano i tuoi crostini zuccherati.

GIACOMO: Allora si sentì una carrozza fermarsi alla porta di casa. Un servo entra e chiede: - Non è qui che abita un pover'uomo, un soldato che cammina con una stampella, che è tornato ieri sera dal villaggio vicino?

- Sì, - risponde la dottoressa, - che volete da lui?

- Prenderlo in questa carrozza e portarlo con noi.

- E' in quel letto; tirate le cortine e parlategli.

Giacomo era a questo punto, quando l'ostessa entrò e disse loro:- Che volete per finire?

IL PADRONE: Quello che avete.

Senza darsi la pena di scendere, l'ostessa gridò dalla camera: Nanon, porta la frutta, biscotti, marmellata...

Alla parola Nanon, Giacomo disse in cuor suo: «Ah, è sua figlia che è stata maltrattata, si andrebbe in collera per meno.».

E il padrone disse all'ostessa: - Eravate molto arrabbiata poco fa?

L'OSTESSA: E chi non si adirerebbe? La povera creatura non aveva fatto nulla; era appena entrata nella loro camera, che la sento lanciare delle grida, ma delle grida... Grazie a Dio, sono un po' rassicurata; il chirurgo dice che non sarà nulla; tuttavia ha due enormi contusioni, una alla testa, l'altra alla spalla.

IL PADRONE: E' molto tempo che l'avete?

L'OSTESSA: Una quindicina tutt'al più. Era stata abbandonata alla posta vicina.

IL PADRONE: Come, abbandonata?

L'OSTESSA: Eh, mio Dio, sì. C'è gente più dura della pietra. Ha creduto di annegare passando il fiume che scorre qui vicino; è arrivata qui per miracolo, e l'ho accolta per carità.

IL PADRONE: Che età ha?

L'OSTESSA: Più d'un anno e mezzo, credo...

A queste parole, Giacomo scoppia a ridere ed esclama: - E' una cagna!

L'OSTESSA: La più graziosa bestia del mondo; non darei la mia Nicole per dieci luigi. Povera Nicole!

IL PADRONE: La signora ha il cuore tenero.

L'OSTESSA: L'avete detto, tengo alle mie bestie e ai miei domestici.

IL PADRONE: Molto bene. E chi sono quelli che hanno maltrattato la vostra Nicole?

L'OSTESSA: Due borghesi della città vicina. Si parlano di continuo all'orecchio; credono che non si sappia quello che dicono, e che si ignori la loro avventura. Da meno di tre ore stanno qui, e non mi manca una parola di tutta la loro faccenda. E' divertente; e se non aveste più fretta di me di coricarvi, ve la racconterei come il loro domestico l'ha detta alla mia serva, per caso sua compaesana, che l'ha riferita a mio marito, che me l'ha riferita. La suocera del più giovane dei due è passata da qui non più di tre mesi fa; andava piuttosto suo malgrado in un convento di provincia, dove non ha avuto il tempo di invecchiare; essa vi è morta; ed ecco perché i nostri due giovanotti sono in lutto... Ma ecco che, senza accorgermene, vi comincio la loro storia. Arrivederci, signori, e buona notte. Avete trovato buono il vino?

IL PADRONE: Ottimo.

L'OSTESSA: Siete contenti della vostra cena?

IL PADRONE: Contentissimi. I vostri spinaci erano un po' salati.

L'OSTESSA Qualche volta ho la mano pesante. Avrete un buon letto, con lenzuola di bucato; non servono mai due volte qui.

Detto questo, l'ostessa si ritirò, e Giacomo e il suo padrone si misero a letto ridendo del "qui pro quo" che aveva fatto prender loro una cagna per la figlia o per la serva di casa, e della passione dell'ostessa per una cagna sperduta che possedeva da quindici giorni.

Giacomo disse al suo padrone, legando il cordone del suo berretto da notte. - Scommetto che di tutto quello che vive nell'albergo, questa donna non ama che la sua Nicole . Il suo padrone gli rispose: - E' probabile, Giacomo; ma dormiamo.

Mentre Giacomo e il suo padrone riposano, rispetterò la mia promessa, con il racconto dell'uomo della prigione, che raschiava il contrabbasso, o piuttosto con il racconto del suo compagno, messer Gousse.

- Il terzo, - mi disse lui, - era l'intendente di una grande casa.

Si era innamorato di una pasticciera della via dell'Università. Il pasticciere era un brav'uomo, che badava più al suo forno che alla condotta di sua moglie. Se non era la sua gelosia, era la sua assiduità che importunava i nostri due amanti. Che fecero questi per liberarsi di questa noia? L'intendente presentò al suo padrone una supplica, nella quale il pasticciere era dipinto come un uomo di cattivi costumi, un ubriacone che stava sempre alla taverna, un bruto che batteva sua moglie, la più onesta e la più infelice delle donne.

Con questa supplica egli ottenne un ordine di arresto, e quest'ordine di arresto, che disponeva della libertà del marito, fu messo nelle mani di un ufficiale di polizia, perché lo eseguisse senza indugio.

Successe per caso che quest'ufficiale di polizia fosse un amico del pasticciere. Essi andavano insieme ogni tanto all'osteria; il pasticciere forniva i pasticcini, il poliziotto pagava una bottiglia.

Munito dell'ordine d'arresto, questi passa davanti alla porta del pasticciere e gli fa il segno convenuto. Eccoli entrambi occupati a mangiare e ad annaffiare i pasticcini; ed ecco il poliziotto chiedere al suo compagno come andasse il suo commercio.

- Benissimo.

- Se non avesse nessuna seccatura?

- Nessuna.

- Se non avesse nemici?

- Non se ne conosceva.

- Come viveva coi suoi parenti, i suoi vicini, sua moglie?

- In pace e amicizia.

- Da dove può venire dunque, - aggiunse il poliziotto, l'ordine che ho di arrestarti? Se facessi il mio dovere, ti prenderei per il collo, ci sarebbe qui vicino una carrozza e ti porterei al luogo prescritto da quest'ordine di arresto. Tieni, leggi...

Il pasticciere lesse e impallidì. Il poliziotto gli disse:

Tranquillizzati, vediamo soltanto insieme quel che abbiamo di meglio a fare per la mia sicurezza e per la tua. Chi frequenta la tua casa?

- Nessuno.

- Tua moglie è civettuola e graziosa.

- La lascio fare a modo suo.

- Nessuno ha gli occhi su di lei?

- In fede mia no, se non un certo intendente che viene qualche volta a raccontarle delle frottole; ma è nella mia bottega, davanti a me, in presenza dei miei garzoni, e credo che non succeda tra di loro niente che non sia assolutamente onesto.

- Sei un brav'uomo!

- E' possibile; ma il meglio è di credere onesta la propria moglie, ed è quello che faccio.

- E questo intendente, con chi sta?

- Col signor de Saint-Florentin.

- E da quali uffici credi che venga l'ordine d'arresto?

- Dagli uffici del signor de Saint-Florentin, forse.

- Dici bene.

- Oh! mangiare i miei pasticcini, baciare mia moglie e farmi arrestare, questa è troppo nera e non potrei crederlo!

- Sei un dabben uomo! Da qualche giorno, come trovi tua moglie?

- Più triste che allegra.

- E l'intendente, è molto tempo che non l'hai visto?

- Ieri, credo; sì era ieri.

- Non hai notato niente?

- Sono assai poco osservatore; ma mi è sembrato che, separandosi, si facessero dei cenni del capo, come quando l'uno dice di sì e l'altro dice di no.

- Qual era la testa che diceva di sì?

- Quella dell'intendente.

- Sono innocenti o sono complici. Ascolta, amico mio, non tornare a casa; rifugiati in un posto sicuro, al Tempio, alla Badia, dove vorrai, e intanto lasciami fare; soprattutto ricordati bene...

- Di non farmi vedere in giro e di star zitto.

- Proprio così.

Nello stesso momento la casa del pasticciere e circondata da spie. Dei delatori, sotto ogni specie di spoglie, si rivolgono alla pasticciera e le chiedono di suo marito: essa risponde a uno che è malato, a un altro che è partito per una festa, a un terzo per uno sposalizio.

Quando tornerà? Lei non ne sa niente.

Il terzo giorno, verso le due del mattino, vengono ad avvertire il poliziotto che era stato visto un uomo, imbacuccato fino al naso in un mantello, aprire furtivamente la porta che dà sulla strada e scivolare pian pianino nella casa del pasticciere. Subito il poliziotto accompagnato da un commissario, da un fabbro, da un fiacre e da alcuni arcieri, si va sul posto. La porta è sprangata, il poliziotto e il commissario salgono senza fare rumore. Bussano alla porta della camera della pasticciera: nessuna risposta; bussano ancora: nessuna risposta; la terza volta qualcuno chiede dal di dentro: - Chi è?

- Aprite.

- Chi è?

- Aprite, in nome del re.

-Bene! - diceva l'intendente alla pasticciera con la quale era a letto; - nessun pericolo: è la polizia che viene per eseguire l'ordine. Aprite; dirò il mio nome; la polizia si ritirerà, e tutto sarà finito.

La pasticciera, in camicia, apre e si rimette a letto.

IL POLIZIOTTO: Dov'è vostro marito?

LA PASTICCIERA: Non c'è.

IL POLIZIOTTO (tirando le cortine): Chi c'è qui allora?

L'INTENDENTE: Sono io; sono l'intendente del signor de Saint- Florentin.

IL POLIZIOTTO: Mentite, siete il pasticciere, poiché il pasticciere è colui che va a letto con la pasticciera. Alzatevi, vestitevi e seguitemi.

Bisognò obbedire; lo si portò qui. Il ministro, informato della scelleratezza del suo intendente, ha approvato la condotta del poliziotto, che deve venire stasera sul far della notte a prenderlo in questa prigione per trasferirlo a Bicêtre, dove, grazie all'economia degli amministratori, mangerà il suo quarto di pane nero, la sua oncia di carne di vacca, e raschierà il suo contrabbasso dalla mattina alla sera... Ma, se andassi pure io a posare la testa su un guanciale, aspettando il risveglio di Giacomo e del suo padrone; che ne pensate?

L'indomani Giacomo si alzò di buon mattino, mise il naso alla finestra per vedere che tempo facesse, vide che faceva un tempo orribile, si ricoricò e ci lasciò dormire, il suo padrone e me, quanto ci piacque.

Giacomo, il suo padrone e gli altri viaggiatori che si erano fermati alla stessa locanda, credettero che il cielo si sarebbe schiarito verso mezzogiorno; non fu così; e la pioggia avendo ingrossato il fiumicello che separava il sobborgo dalla città, al punto che sarebbe stato pericoloso attraversarlo, tutti quelli la cui strada portava da questa parte scelsero di perdere una giornata e di aspettare. Gli uni si misero a chiacchierare; gli altri andavano e venivano, mettevano il naso fuori la porta, guardavano il cielo e tornavano dentro bestemmiando e pestando i piedi; parecchi parlavano di politica e bevevano. Molti giocavano; il resto fumava, dormiva o non faceva niente. Il padrone disse a Giacomo: - Spero che Giacomo riprenderà la storia dei suoi amori, mentre il cielo, che vuole che io abbia la soddisfazione di sentirne la fine, ci trattiene qui con il brutto tempo.

GIACOMO: Il cielo che vuole! Non si sa mai quello che il cielo vuole o non vuole, e forse non ne sa niente egli stesso. Il mio povero capitano, che non è più, me l'ha ripetuto cento volte; e più ho vissuto, più ho dovuto riconoscere che aveva ragione... A voi, padrone mio.

IL PADRONE: Capisco. Eri arrivato alla carrozza e al servo, a cui la dottoressa ha detto di tirare le cortine e di parlarti.

GIACOMO: Questo servo si avvicina al mio letto e mi dice: - Su, amico, in piedi; vestitevi e partiamo -. Gi risposi di fra le lenzuola e le coperte in cui tenevo la testa affondata, senza vederlo e senza esserne visto: - Amico, lasciatemi dormire e andatevene -.

Il servo mi replica che ha gli ordini del suo padrone e che deve eseguirli.

- E il vostro padrone, che dispone di un uomo che non conosce, ha ordinato di pagare quello che devo qui?

- E' cosa fatta. Sbrigatevi, tutti vi aspettano al castello, dove vi garantisco che starete meglio di qui, se la realtà corrisponde alla curiosità che hanno di vedervi.

Mi lascio persuadere; mi alzo, mi vesto, mi prendono sottobraccio.

Faccio i miei addii alla moglie del dottore, e stavo per salire in carrozza quando questa donna, avvicinandosi a me, mi tira per la manica e mi prega di andare in un angolo della camera, perché aveva una parola da dirmi.

-Ecco, amico nostro, - disse, - credo che non abbiate di che lamentarvi di noi; il dottore vi ha salvato una gamba, io vi ho curato per bene e spero che al castello non ci dimenticherete.

- Che potrei fare per voi?

- Chiedere che mio marito venga a medicarvi; c'è molta gente lì! E' la migliore clientela del cantone; il signore è un uomo generoso, si è profumatamente pagati: non sta che a voi fare la nostra fortuna. Mio marito ha tentato più volte d'introdurvisi, ma inutilmente.

- Ma, signora dottoressa, non c'è un chirurgo al castello?

- Certamente!

- E se costui fosse vostro marito, sareste contenta che gli si rendesse un simile servigio e che fosse espulso?

- Questo chirurgo è un uomo a cui non dovete niente, mentre credo che a mio marito dobbiate qualche cosa: se camminate con due piedi come prima, è opera sua.

- E perché vostro marito mi ha fatto del bene, bisogna ch'io faccia del male a un altro? Passi se il posto fosse vacante...

Giacomo stava per continuare, quando l'ostessa entrò tenendo fra le braccia Nicole tutta fasciata,baciandola,commiserandola, accarezzandola, parlandole come al suo bambino: - Mia povera Nicole, non ha fatto che gridare tutta la notte. E voi, signori, avete dormito bene?

IL PADRONE: Benissimo.

L'OSTESSA: Il tempo è cattivo in tutte le direzioni.

GIACOMO: Ne siamo molto spiacenti.

L'OSTESSA: Lor signori vanno lontano?

GIACOMO: Non ne sappiamo nulla.

L'OSTESSA: Lor signori seguono qualcuno?

GIACOMO: Non seguiamo nessuno.

L'OSTESSA: Vanno, o si fermano, secondo gli affari che hanno per via?

GIACOMO: Non ne abbiamo alcuno.

L'OSTESSA: Lor signori viaggiano per il loro piacere?

GIACOMO: O per la loro pena.

L'OSTESSA: Mi auguro che sia per il primo.

GIACOMO: Il vostro augurio non ci potrà niente; sarà secondo quanto è scritto lassù.

L'OSTESSA: Oh! è un matrimonio?

GIACOMO: Forse che sì, forse che no.

L'OSTESSA: Signori, badate. Quell'uomo che è laggiù, e che ha maltrattato così la mia povera Nicole, ne ha fatto uno veramente curioso... Vieni, povera bestia, vieni che ti baci; ti prometto che non succederà più. Vedete come trema in tutte le membra!

IL PADRONE: Che ha dunque di così singolare il matrimonio di quest'uomo?

A questa domanda del padrone di Giacomo l'ostessa disse: Sento rumore da basso, vado a dare gli ordini e torno a raccontarvi tutto...

Suo marito, stanco di gridare: «Moglie, moglie», sale, e dietro di lui il suo compare, che egli non vedeva. L'oste disse a sua moglie: - Eh!

che diavolo stai facendo?...- Poi volgendosi, e scorgendo il compare: - Mi portate del danaro?

IL COMPARE: No, compare, sapete bene che non ne ho.

L'OSTE: Non ne hai? Saprò ben trovarne io con il tuo aratro, i tuoi cavalli, i tuoi buoi e il tuo letto! ... Come, furfante...

IL COMPARE: Non sono affatto un furfante.

L'OSTE: E che sei, dunque? Sei nella miseria, non sai dove prendere di che seminare i tuoi campi; il tuo padrone stanco di farti degli anticipi non vuol darti più niente. Vieni da me; questa donna intercede; questa maledetta pettegola, che è causa di tutte le sciocchezze della mia vita, mi convince a farti un prestito; ti presto; riprometti di restituire; manchi di parola dieci volte. Oh! ti prometto, io, che non mi scapperai. Esci di qui...

Giacomo e il suo padrone si preparavano a difendere il povero diavolo; ma l'ostessa, posando il dito sulle labbra, fece loro segno di tacere.

L'OSTE: Esci di qui.

IL COMPARE: Compare, quello che dite è vero; ma è anche vero che gli uscieri sono a casa mia e che fra un istante io, mia figlia e il mio ragazzo saremo costretti ad andarcene con la bisaccia.

L'OSTE: E' la sorte che meriti. Che sei venuto a fare qui stamattina?

Smetto di riempire le bottiglie, risalgo dalla cantina e non ti trovo.

Esci di qui, ti dico.

IL COMPARE: Compare, ero venuto; temevo l'accoglienza che mi fate; sono tornato via; e ora me ne vado.

L'OSTE: Farai bene.

IL COMPARE: Ecco dunque la mia povera Marguerite, che è così savia e graziosa, che andrà come serva a Parigi!

L'OSTE: Come serva a Parigi! Ne vuoi dunque fare un'infelice?

IL COMPARE: Non sono io che lo voglio; è l'uomo duro a cui parlo.

L'OSTE: Io, un uomo duro! Non lo sono affatto: non lo sono mai stato; e tu lo sai bene.

IL COMPARE: Non sono più in grado di nutrire mia figlia né il mio ragazzo; mia figlia andrà a servizio, il mio ragazzo andrà soldato.

L'OSTE: Ed io ne sarei la causa! Non sarà così. Sei un uomo crudele; fin tanto che vivrò, sarai il mio supplizio. Qua, vediamo quello che ti serve.

IL COMPARE: Non mi serve niente. Sono desolato di dovervi qualche cosa, ma non sarò vostro debitore per tutta la vita. Fate più male con le vostre ingiurie che bene con i vostri servigi. Se avessi del danaro, ve lo getterei in faccia; ma non ne ho. Sarà di mia figlia quel che piacerà a Dio; il mio ragazzo si farà uccidere se occorre; quanto a me, andrò a mendicare, ma non sarà alla vostra porta. Non voglio più obblighi a un uomo cattivo come voi. Intascate pure il danaro dei miei buoi, dei miei cavalli e dei miei utensili: buon pro' vi faccia. Siete nato per fare degli ingrati, e io non voglio esserlo.

Addio.

L'OSTE: Moglie mia, se ne va; fermalo dunque.

L'OSTESSA Via, compare, cerchiamo il mezzo di venirvi in aiuto.

IL COMPARE: I suoi soccorsi non li voglio, sono troppo cari...

L'oste ripeteva piano a sua moglie: «Non lasciarlo andare, fermalo dunque. Sua figlia a Parigi! suo figlio nell'esercito! lui alla porta della parrocchia! Non potrei sopportarlo».

Intanto sua moglie faceva sforzi inutili; il contadino, che era orgoglioso, non voleva accettare niente e non c'era verso di tenerlo.

L'oste con le lacrime agli occhi si rivolgeva a Giacomo e al suo padrone e diceva loro: - Signori, cercate di piegarlo... - Giacomo e il suo padrone aggiunsero le loro voci; tutti insieme scongiuravano il contadino. Se ho mai visto... Se avete mai visto! Ma voi non c'eravate. Dite se si è mai visto. Ebbene sia. Se si è mai visto un uomo confuso da un rifiuto, felice che si volesse accettare il suo denaro, era quest'oste: egli abbracciava sua moglie, abbracciava il suo compare, abbracciava Giacomo e il suo padrone, gridava: Presto, si vada a cacciare da casa sua quegli esecrabili uscieri...

IL COMPARE: Convenite anche. ..

L'OSTE: Convengo che sciupo tutto; ma, compare, che vuoi? Come sono, eccomi qua. La natura mi ha fatto l'uomo più duro e più tenero; non so né accordare né rifiutare.

IL COMPARE: Non potreste essere diverso?

L'OSTE: Sono nell'età in cui non ci si corregge più; ma se quelli che per primi si sono rivolti a me mi avessero strapazzato come hai fatto tu, sarei forse diventato migliore. Compare, ti ringrazio della tua lezione, forse ne approfitterò... Moglie mia, va' presto, scendi e dagli quello che gli serve. Che diavolo, sbrigati dunque, perdinci!

Sbrigati, va'!... Moglie mia, ti prego di fare un po' più presto e di non farlo aspettare; tornerai dopo a ritrovare questi signori, con i quali mi sembra che ti trovi bene...

La donna e il compare scesero; l'oste rimase ancora un momento e, quando se ne fu andato, Giacomo disse al suo padrone:- Che uomo singolare! Il cielo che aveva mandato questo tempaccio che ci trattiene qui, perché voleva che sentiste la storia dei miei amori, che vuole ora?

Il padrone stendendosi nella sua poltrona, sbadigliando, battendo sulla sua tabacchiera, rispose: - Giacomo, abbiamo più di un giorno da vivere insieme, a meno che...

GIACOMO: Vuol dire che per oggi il cielo vuole che io taccia, e che sia l'ostessa a parlare; è una chiacchierona che non chiede di meglio; parli dunque.

IL PADRONE: Vai in collera.

GIACOMO: E' che anche a me piace parlare.

IL PADRONE: Il tuo turno verrà.

GIACOMO: O non verrà.

Mi sembra di sentirti, lettore; ecco, dici tu, il vero scioglimento del "Burbero benefico". Lo penso anch'io. Avrei introdotto in questa commedia, se ne fossi stato l'autore, un personaggio che si sarebbe preso per episodico, e che non lo sarebbe stato affatto. Questo personaggio sarebbe apparso ogni tanto, e la sua presenza sarebbe stata motivata. La prima volta sarebbe venuto a chieder grazia; ma il timore di una cattiva accoglienza lo avrebbe fatto andar via prima dell'arrivo di Geronte. Spinto dall'irruzione degli uscieri in casa sua, avrebbe avuto la seconda volta il coraggio di aspettare Geronte; ma questi avrebbe rifiutato di vederlo. Infine l'avrei fatto venire allo scioglimento, dove avrebbe fatto esattamente la parte del contadino con l'oste; avrebbe avuto, come il contadino, una figlia da sistemare presso una modista, un figlio da ritirare dalla scuola per farlo entrare a servizio; quanto a lui, avrebbe deciso di andar mendicando fino a quando si fosse annoiato di vivere. Si sarebbe visto il Burbero benefico ai piedi di quest'uomo; si sarebbe sentito il Burbero benefico rimproverato come si meritava; sarebbe stato costretto a rivolgersi a tutta la famiglia che l'avrebbe circondato, per piegare il suo debitore e costringerlo ad accettare nuovi aiuti.

Il Burbero benefico sarebbe stato punito; avrebbe promesso di correggersi: ma nello stesso istante sarebbe tornato al suo carattere, spazientendosi contro i personaggi in scena, che si sarebbero fatti delle cerimonie per rientrare nella casa; avrebbe detto bruscamente:

"Il diavolo si porti le ceri..." Ma si sarebbe fermato di botto a metà della frase e, in tono raddolcito, avrebbe detto alle sue nipoti: Su, nipoti mie, datemi la mano e andiamo. - E affinché questo personaggio fosse legato al fondo della commedia, ne avreste fatto un protetto del nipote di Geronte? - Benissimo! - E sarebbe stato sulla preghiera del nipote che lo zio avrebbe prestato il suo danaro? - A meraviglia!

- E questo prestito sarebbe stato un motivo di rimprovero per lo zio contro il nipote? - Proprio così. - E lo scioglimento di questa piacevole commedia non sarebbe stato una ripetizione generale, con tutta la famiglia insieme, di quello ch'egli ha fatto prima con ognuno di essi in particolare? Avete ragione. - E se mai incontro il signor Goldoni, gli reciterò la scena della locanda. - E farete bene; è uomo più abile di quanto non occorra per trarne profitto.

L'ostessa risalì, sempre con Nicole fra le braccia, e disse: Spero che avrete un buon desinare; il bracconiere è appena arrivato; il guardiacaccia non tarderà... - E così dicendo, prendeva una sedia.

Eccola seduta, ed ecco che il suo racconto comincia.

L'OSTESSA: Bisogna diffidare dei domestici; i padroni non hanno nemici peggiori...

GIACOMO: Signora, non sapete quel che dite; ce ne sono di buoni, ce ne sono di cattivi, e si contano forse più buoni servi che buoni padroni.

IL PADRONE: Giacomo, tu non ti controlli; e commetti precisamente la stessa indiscrezione che ti ha colpito.

GIACOMO: E' che i padroni...

IL PADRONE: E' che i domestici...

Ebbene! lettore, che ci vorrebbe per suscitare una violenta disputa fra i tre personaggi? Così che l'ostessa fosse presa per le spalle e buttata fuori dalla stanza; che Giacomo fosse preso per le spalle e cacciato dal suo padrone; che l'uno se ne andasse da una parte e l'altro dall'altra; e che tu non sentissi né la storia dell'ostessa, né il seguito degli amori di Giacomo? Ma rassicurati, non ne farò niente. L'ostessa dunque riprese: Bisogna ammettere che se ci sono uomini molto cattivi, ci sono pure delle donne molto cattive.

GIACOMO: E che non bisogna andar lontano per trovarle.

L'OSTESSA: Di che vi immischiate? Sono una donna, conviene a me dire delle donne quel che mi piace; non so che farmene della vostra approvazione.

GIACOMO: La mia approvazione vale bene quella di un altro.

L'OSTESSA: Signore, avete un domestico che fa il saputo e che vi manca di rispetto. Ho anch'io dei servi, e vorrei bene che saltasse loro in mente di...

IL PADRONE: Taci, Giacomo, e lascia parlare la signora.

Incoraggiata da queste parole da padrone, l'ostessa si alza, si burla di Giacomo, si mette i pugni sui fianchi, dimentica che tiene Nicole, la lascia, ed ecco Nicole sul pavimento, malconcia e dimenantesi nella fasciatura, abbaiare a più non posso, mentre l'ostessa mischiava le sue grida ai latrati di Nicole, Giacomo le sue risate ai latrati di Nicole e alle grida dell'ostessa, e il padrone apriva la tabacchiera, fiutava una presa di tabacco, e non poteva impedirsi di ridere. Ecco tutta la locanda in subbuglio. - Nanon, Nanon, presto, presto, porta la bottiglia dell'acquavite... La mia povera Nicole è morta...

Togliete le fasce... Come siete goffa!

- Faccio del mio meglio.

- Come strilla! Toglietevi di là, lasciatemi fare... morta!... Ridi pure, scioccone; c'è di che ridere infatti... La mia povera Nicole è morta!

- No, signora, no, credo che se la caverà; eccola che si muove.

E Nanon a stropicciare con l'acquavite il naso della cagna e a fargliela ingoiare; e l'ostessa a lamentarsi, a scatenarsi contro i domestici impertinenti; e Nanon, a dire: - Ecco, signora, apre gli occhi; ecco che vi guarda.

- Povera bestia, sembra che parli! chi non ne sarebbe commosso?

- Signora, accarezzatela un po'; ditele qualche cosa.

-Vieni, mia povera Nicole; grida, bimba mia, grida se ciò può sollevarti. C'è destino per le bestie come per gli uomini; manda la felicità a dei fannulloni ringhiosi, strilloni e mangioni, e le disgrazie a un'altra creatura che sarà la migliore creatura del mondo.

- La signora ha proprio ragione, non c'è giustizia quaggiù.

- Taci, fasciala di nuovo, portala sotto il mio cuscino e bada che al minimo grido che getterà, me la prenderò con te. Vieni, povera bestia, che io ti baci ancora una volta prima che ti portino via. Avvicinala, dunque, sciocca che sei... Questi cani sono così buoni; valgono più...

GIACOMO: Che padre, madre, fratelli, sorelle, figli, domestici, mariti...

L'OSTESSA: Sì, non c'è proprio da ridere; sono innocenti, fedeli, non fanno mai male a nessuno, mentre che il resto...

GIACOMO: Vivano i cani! non c'è niente di più perfetto sotto il cielo.

L'OSTESSA: Se c'è qualcosa di più perfetto, non è certo l'uomo. Vorrei che conosceste quello del mugnaio, è l'innamorato della mia Nicole; non ce n'è uno, fra voi uomini, tutti quanti siete, che quello non faccia arrossire di vergogna. Viene, fin dallo spuntare del giorno, da più di una lega; si pianta davanti a questa finestra, e sono sospiri, sospiri da far pietà. Con qualsiasi tempo, resta lì; la pioggia gli cade sopra; il suo corpo sprofonda nella sabbia; gli si vedono appena le orecchie e la punta del naso. Fareste altrettanto per la donna che voi più amate?

IL PADRONE: Questo è molto galante.

GIACOMO: Già, ma dov'è la donna degna di tante cure quanto la vostra Nicole?...

Tuttavia la passione dell'ostessa per le bestie non era la sua passione dominante, come si potrebbe immaginare; era quella di parlare. Quanto più piacere e pazienza si aveva ad ascoltarla, tanto più si aveva merito; perciò essa non si fece pregare per riprendere la storia interrotta del matrimonio singolare; vi pose solo come condizione che Giacomo tacesse. Il padrone promise per Giacomo.

Giacomo si sdraiò noncurantemente in un angolo, con gli occhi chiusi, il berretto tirato sulle orecchie, girando a mezzo le spalle all'ostessa. Il padrone tossì, sputò, si soffiò il naso; tirò fuori l'orologio, guardò che ora fosse, cavò di tasca la tabacchiera, batté sul coperchio, prese un pizzico di tabacco; e l'ostessa si sentì in dovere di gustare il delizioso piacere di perorare.

L'ostessa stava per cominciare, quando sentì gridare la cagna. Nanon, bada dunque a quella povera bestia... Questo mi turba, non so più a che punto ero.

GIACOMO: Non avete ancora fiatato.

L'OSTESSA: Quei due uomini con i quali stavo litigando a causa della povera Nicole, quando voi siete arrivato, signore...

GIACOMO: Dite: signori.

L'OSTESSA: Perché mai?

GIACOMO: Perché fin qui ci hanno usato questa cortesia, e mi ci sono abituato. Il mio padrone mi chiama Giacomo; gli altri signor Giacomo.

L'OSTESSA: Io non vi chiamo né Giacomo né signor Giacomo, a voi non parlo... ("Signora?- Che c'è? - Il conto del numero cinque. - Guardate sul camino"). Questi uomini sono due bravi gentiluomini; vengono da Parigi e vanno nelle terre del più anziano.

GIACOMO: Chi lo sa?

L'OSTESSA: Loro, che lo dicono.

GIACOMO: Bella ragione!...

Il padrone fece un cenno all'ostessa, dal quale questa capì che Giacomo non aveva il cervello a posto. L'ostessa rispose al cenno del padrone con un gesto compassionevole delle spalle, e aggiunse: - Alla sua età! E' molto increscioso.

GIACOMO: Incresciosissimo non sapere mai dove si va.

L'OSTESSA: Il più vecchio dei due si chiama marchese des Arcis. Era un gaudente, molto amabile, che credeva poco alla virtù delle donne.

GIACOMO: Aveva ragione.

L'OSTESSA Signor Giacomo, voi m'interrompete.

GIACOMO: Signora ostessa del "Gran Cervo", a voi non parlo.

L'OSTESSA: Tuttavia il marchese ne trovò una abbastanza bizzarra per dargli del filo da torcere. Si chiamava Madame de La Pommeraye. Era una vedova dai costumi severi, d'alto lignaggio, facoltosa e altera.

Il marchese des Arcis ruppe con tutte le sue conoscenze, si legò soltanto a Madame de La Pommeraye, le fece la corte con la più grande assiduità, tentò di provarle con tutti i sacrifici immaginabili che l'amava, le propose anche di sposarla; ma questa donna era stata così infelice col primo marito che. .. ("Signora? - Che c'è? - La chiave della cassa dell'avena? - Guardate al chiodo, e se non c'è, guardate alla cassa") che avrebbe preferito esporsi a ogni specie di disgrazie, piuttosto che al pericolo di un secondo matrimonio.

GIACOMO: Ah! Se ciò era stato scritto lassù!

L'OSTESSA: Questa donna viveva molto ritirata. Il marchese era un vecchio amico di suo marito; essa lo aveva ricevuto prima, e continuava a riceverlo. Se gli si perdonava il suo gusto effeminato per la galanteria, era quello che si dice un uomo d'onore. Le costanti assiduità del marchese, assecondate dalle sue qualità personali, dalla sua giovinezza, dal suo aspetto, dalle apparenze della più vera passione, dalla solitudine, dalla naturale inclinazione alla tenerezza, insomma da tutto quello che ci abbandona alla seduzione degli uomini... ("Signora? Che c'è? - La posta. - Mettila nella camera verde, e distribuiscila come al solito") ebbero il loro effetto, e la signora de La Pommeraye, dopo aver lottato parecchi mesi contro il marchese, contro se stessa, e ottenuti secondo l'uso i giuramenti più solenni, rese felice il marchese, che avrebbe goduto della sorte più dolce se avesse potuto conservare verso la sua amante i sentimenti giurati e che essa aveva per lui. Vedete, signore, non ci sono che le donne che sappiano amare; gli uomini non ne capiscono niente... ("Signora? - Che c'è? Il frate questuante. - Dagli dodici soldi per questi signori che sono qui, sei soldi per me, e mandalo nelle altre camere"). In capo a qualche anno il marchese cominciò a trovare la vita con la signora de La Pommeraye troppo uniforme. Le propose di andare in società: lei vi acconsentì; di ricevere qualche donna e qualche uomo: essa acconsentì; di tenere una cena: essa acconsentì. A poco a poco, egli passò un giorno, poi due senza vederla; a poco a poco, mancò ad una cena che aveva combinato lui stesso; a poco a poco abbreviò le sue visite; ebbe degli affari che lo chiamavano: quando arrivava, diceva una parola, si sdraiava in una poltrona, prendeva un opuscolo, lo gettava, parlava al cane e si addormentava. La sera, la sua salute, che diventava cagionevole, richiedeva che si ritirasse di buon'ora: era il parere di Tronchin. - Tronchin è un grand'uomo! Dico davvero! Non dubito che tirerà fuori dagli impicci la nostra amica, di cui gli altri disperavano -. E così dicendo, prendeva il bastone e il cappello e se ne andava, dimenticando a volte di darle un bacio. La signora de La Pommeraye...

("Signora? - Che c'è? - Il bottaio. - Scenda in cantina e visiti le due botti"). La signora de La Pommeraye intuì che non era più amata; bisognò accertarsene, ed ecco come fece... ("Signora?- Vengo, vengo").

L'ostessa, stanca di queste interruzioni, scese e prese evidentemente le misure per farle smettere.

L'OSTESSA: Un giorno dopo pranzo disse al marchese:- Amico mio, siete pensoso.

- Anche voi, marchesa.

- E' vero, e piuttosto tristemente per giunta.

- Cosa avete?

- Nulla.

-Non è vero. Via, marchesa,- egli disse sbadigliando, raccontatemi; questo ci guarirà dalla noia, voi e me.

- Vi annoiate forse?

- No; ma ci sono giorni...

- In cui ci si annoia.

- Vi ingannate, amica mia; vi giuro che vi ingannate: è che in realtà ci sono giorni... Non si sa da che dipende.

- Amico mio, da molto tempo sono tentata di farvi una confidenza; ma temo di affliggervi.

- Potete affliggermi voi?

- Forse; ma il cielo mi è testimone della mia innocenza... ("Signora?

Signora? Signora? - Per chiunque e per checchessia, vi ho proibito di chiamarmi, chiamate mio marito. - E' assente"). Signori, vi domando scusa, sono a voi fra un istante.

Ecco l'ostessa scendere, risalire e riprendere il suo racconto:

- ... Ciò è accaduto senza il mio consenso, a mia insaputa; per una maledizione a cui tutta la specie umana è evidentemente soggetta, poiché io, io stessa non ho potuto sottrarmici.

- Ah! è di voi... E aver paura!... Di che si tratta?

- Marchese, si tratta... Sono desolata; vi farò pena e, ben considerata ogni cosa, è meglio che taccia.

- No, amica, parlate; avreste in fondo al cuore un segreto per me ?

La prima delle nostre convenzioni non fu che le nostre anime si aprirebbero l'una all'altra senza riserva?

- E' vero, ed è ciò che mi pesa; è un rimprovero che ne accresce un altro molto più importante che mi faccio. Non vi accorgete che non ho più la stessa gaiezza? Ho perso l'appetito; non bevo e non mangio che per dovere; non posso dormire. Le nostre frequentazioni più intime mi dispiacciono. La notte, mi interrogo e mi dico: Forse è meno amabile?

No. Avreste da rimproverargli qualche relazione sospetta? No. Forse la sua tenerezza per voi è diminuita? No. Perché il vostro amico essendo lo stesso, il vostro cuore è dunque cambiato? Poiché lo è: non potete nascondervelo; non l'aspettate più con la stessa impazienza; non provate più lo stesso piacere a vederlo; quell'inquietudine quando tardava a tornare; quella dolce emozione al rumore della sua carrozza, quando lo si annunciava, quando appariva, voi non la provate più.

- Come, signora!

Allora la marchesa de la Pommeraye si coprì gli occhi con le mani, chinò il capo e tacque un momento, dopo di che aggiunse: Marchese, mi aspettavo il vostro stupore e tutte le cose amare che mi direte.

Marchese! Risparmiatemi... No, non mi risparmiate, ditemele; le ascolterò con rassegnazione, perché le merito. Sì, mio caro marchese, è vero... Sì, io sono... Ma non è una disgrazia abbastanza grande che la cosa sia accaduta, per non aggiungervi ancora la vergogna, il disprezzo di esser falsa, dissimulandovela? Voi siete lo stesso, ma la vostra amica è cambiata; la vostra amica vi riverisce, vi stima come prima e più che mai; ma... ma una donna abituata come lei ad esaminare da vicino quel che accade nelle pieghe più segrete della sua anima e a non simulare su niente, non può nascondersi che l'amore ne è uscito.

La scoperta è orribile ma non è per questo meno reale. La marchesa de La Pommeraye, io, io, incostante! Leggera!... Marchese, infuriatevi, cercate i nomi più odiosi, io me li sono dati di già; datemeli, sono pronta ad accettarli tutti..., tutti; tranne quello di donna falsa, che mi risparmierete, spero, poiché in verità non lo sono... ("Moglie?

Che c'è? - Nulla. - Non si ha un momento di riposo in questa casa, neppure i giorni che non c'è quasi nessuno e si crede di non aver niente da fare. Com'è da compiangere una donna nella mia condizione, soprattutto con un animale di marito!") Detto ciò, la signora de La Pommeraye si rovesciò sulla sua poltrona e si mise a piangere. Il marchese si precipitò alle sue ginocchia, e le disse: - Siete una donna incantevole, una donna adorabile, una donna impareggiabile. La vostra franchezza, la vostra onestà mi confonde e dovrebbe farmi morire di vergogna. Ah! Quale superiorità questo momento vi dà su di me! Come vi vedo grande e come mi trovo piccino! Siete voi che avete parlato per prima e sono io che fui per primo colpevole. Amica mia, la vostra sincerità mi stimola; sarei un mostro se non mi stimolasse, e vi confesserò che la storia del vostro cuore è parola per parola la storia del mio. Tutto quello che avete detto, io me lo sono detto; ma tacevo, soffrivo, e non so quando avrei avuto il coraggio di parlare.

- Davvero, amico mio?

- Niente di più vero; non ci resta che congratularci reciprocamente di aver perduto nello stesso tempo il sentimento fragile e ingannevole che ci univa.

-Difatti, che disgrazia se il mio amore avesse continuato ad esistere mentre il vostro fosse finito!

- O se fosse in me finito per primo.

- Avete ragione, lo sento.

- Non mi siete mai sembra così amabile, così come in questo momento; e se l'esperienza del passato non mi avesse reso circospetto, mi sembrerebbe di amarvi più che mai -. E il marchese, parlandole così, le prendeva le mani e gliele baciava... ("Moglie? - Che c'è? - Il mercante di paglia. Guarda sul registro. - E il registro?... resta, resta, l'ho trovato"). La signora de La Pommeraye, chiudendo in se stessa il dispetto mortale da cui era straziata, riprese la parola e disse al marchese: - Marchese, che accadrà di noi?

- Non abbiamo simulato né l'uno né l'altra; voi avete diritto a tutta la mia stima; io non credo di aver perso interamente il diritto alla vostra: continueremo a vederci, ci abbandoneremo alla fiducia della più tenera amicizia. Ci saremo risparmiate tutte quelle noie, tutte quelle piccole perfidie, tutti quei rimproveri, tutta quella collera, che accompagnano comunemente le passioni al tramonto; saremo unici nella nostra specie. Voi riprenderete tutta la vostra libertà, e mi renderete la mia; viaggeremo per il mondo; io sarò il confidente delle vostre conquiste; non vi nasconderò niente delle mie, se ne faccio qualcuna, cosa di cui dubito molto, poiché mi avete reso difficile.

Sarà delizioso! Voi mi aiuterete con i vostri consigli, io non vi rifiuterò i miei, nelle circostanze critiche in cui crederete di averne bisogno. Chi sa quel che può accadere?

GIACOMO: Nessuno.

L'OSTESSA: E' molto verosimile che quanto più andrò avanti, tanto più voi guadagnerete nei confronti, e che tornerò a voi più appassionato, più tenero, più convinto che mai, che la signora de La Pommeraye era la sola donna fatta per la mia felicità; e dopo questo ritorno, c'è tutto da scommettere che resterò con voi fino alla fine della mia vita.

- E se accadesse che, al vostro ritorno, non mi trovaste più? Perché insomma, marchese, non si è sempre giusti; e non sarebbe impossibile che mi invaghissi, mi incapricciassi, mi appassionassi anche, di un altro che non vi valesse.

- Ne sarei certamente desolato; ma non potrei lamentarmi; non me la prenderei che con la sorte, che ci avrebbe separati quando eravamo uniti, e che ci riavvicinerebbe quando non potremmo più esserlo...

Dopo questa conversazione, si misero a moraleggiare sull'incostanza del cuore umano, sulla frivolezza dei giuramenti, sui legami del matrimonio... ("Signora? - Che c'è? - La diligenza"). Signori, - disse l'ostessa, - bisogna che vi lasci. Stasera, quando tutte le mie faccende saranno terminate, tornerò e vi finirò quest'avventura, se ne siete curiosi... ("Signora? - Moglie?... - Ostessa?... - Vengo, vengo").

Partita l'ostessa, il padrone disse al domestico: - Giacomo, hai notato una cosa?

GIACOMO: Quale?

IL PADRONE: Che questa donna racconta molto meglio che non convenga a una locandiera.

GIACOMO: E' vero. Le frequenti interruzioni della gente di casa mi hanno spazientito più volte.

IL PADRONE: Anche me.

E tu, lettore, parla sinceramente; poiché, vedi bene che siamo in vena di franchezza; vuoi che lasciamo stare quest'elegante e prolissa chiacchierona di ostessa, e che riprendiamo gli amori di Giacomo? Per me, io non tengo a niente.

Quando questa donna risalirà, quel chiacchierone di Giacomo non chiederà di meglio che riprendere la sua parte, e chiuderle la porta sul naso; se la sbrigherà dicendole dal buco della serratura: - Buona notte, signora; il mio padrone dorme; io mi sto coricando: bisognerà rimandare il resto al nostro passaggio.

«Il primo giuramento che si fecero due esseri in carne ed ossa, fu al piede di una rupe che si sfaceva in polvere; chiamarono a testimone della loro costanza un cielo che non è lo stesso un istante solo; tutto passava in loro e intorno a loro ed essi credevano i loro cuori affrancati dalle vicissitudini. Bambini! Sempiterni bambini...». Non so di chi siano queste riflessioni, se di Giacomo, del suo padrone o mie; è certo che sono di uno dei tre, e che furono precedute e seguite da molte altre che ci avrebbero portati, Giacomo, il suo padrone e me, fino alla cena, dopo la cena, fino al ritorno dell'ostessa, se Giacomo non avesse detto al suo padrone: - Vedete, signore, tutte queste grandi sentenze che avete tirato fuori a sproposito, non valgono una vecchia favola che si raccontava alle veglie del mio villaggio.

IL PADRONE: E qual è questa favola?

GIACOMO: E' la favola della Guaina e del Coltellino. Un giorno la Guaina e il Coltellino litigarono; il Coltellino disse alla Guaina: - Guaina, amica mia, siete una briccona, poiché ogni giorno ricevete nuovi Coltellini... - La Guaina rispose al Coltellino: - Coltellino, amico mio, siete un briccone, poiché ogni giorno cambiate di Guaina...

- Guaina, non è questo che mi avete promesso... - Coltellino, mi avete ingannata per primo. - Questa disputa si era accesa a tavola; quello che era seduto fra la Guaina e il Coltellino, prese la parola e disse loro: Voi, Guaina e voi Coltellino, faceste bene a cambiare, giacché il cambiamento vi piaceva; ma aveste torto di promettervi che non cambiereste. Coltellino, non vedevi che Dio ti fece per andare a più Guaine; e tu, Guaina, per ricevere più di un Coltellino? Voi consideravate come pazzi certi Coltellini che facevano voto di privarsi di ogni Guaina, e come pazze certe Guaine che facevano voto di chiudersi a ogni Coltellino. E non pensavate che eravate quasi altrettanto pazzi quando giuravate, tu, Guaina, di startene a un sol Coltellino; tu, Coltellino, di startene a una sola Guaina.

Qui il padrone disse a Giacomo: - La tua favola non è molto morale; ma è allegra. Non sai l'idea singolare che mi passa per la testa. Ti marito alla nostra ostessa; e cerco come avrebbe fatto un marito a cui piace parlare, con una moglie che non smette di parlare.

GIACOMO: Come ho fatto io i primi dodici anni della mia vita, che ho passati dai miei nonni.

IL PADRONE: Come si chiamavano? Che professione avevano?

GIACOMO: Erano rigattieri. Mio nonno Jason ebbe parecchi figli. Tutta la famiglia era seria; si alzavano, si vestivano, andavano ai loro affari; tornavano, pranzavano, se ne andavano di nuovo senza aver detto una parola. La sera si mettevano a sedere; la madre e le figlie filavano, cucivano, lavoravano all'uncinetto senza dire una parola; i ragazzi si riposavano; il padre leggeva l'Antico Testamento.

IL PADRONE: E tu, che facevi?

GIACOMO: Correvo per la stanza con un bavaglio.

IL PADRONE: Con un bavaglio!

GIACOMO: Sì, con un bavaglio; ed è a questo maledetto bavaglio che devo la smania di parlare. La settimana passava a volte senza che si fosse aperta bocca in casa di Jason. Durante tutta la sua vita, che fu lunga, mia nonna non aveva detto che "cappello da vendere", e mio nonno, che si vedeva alle aste, ritto, con le mani sotto le code della giacca, non aveva detto che "un soldo". C'erano giorni in cui era tentato di non credere alla Bibbia.

IL PADRONE: E perché?

GIACOMO: Per via delle ripetizioni, che considerava come chiacchiere indegne dello Spirito Santo. Diceva che quelli che si ripetono sono degli sciocchi, che prendono per sciocchi quelli che li ascoltano.

IL PADRONE: Giacomo, e se per ripagarti del lungo silenzio osservato durante i dodici anni di bavaglio presso tuo nonno, e mentre l'ostessa parlava...

GIACOMO: Riprendessi la storia dei miei amori?

IL PADRONE: No; ma un'altra, sulla quale mi hai lasciato in asso, quella del compagno del tuo capitano.

GIACOMO: Oh! padrone, che crudele memoria avete!

IL PADRONE: Giacomo mio, mio piccolo Giacomo...

GIACOMO: Di che ridete?

IL PADRONE: Di una cosa che mi farà ridere più di una volta: di vederti nella tua giovinezza in casa di tuo nonno con il bavaglio.

GIACOMO: Mia nonna me lo toglieva quando non c'era nessuno; e quando mio nonno se ne accorgeva, non era proprio contento; le diceva: - Continuate così, e questo ragazzo sarà il più sfrenato chiacchierone che sia mai esistito -. La sua predizione si è avverata.

IL PADRONE: Andiamo, Giacomo mio, mio piccolo Giacomo, la storia del compagno del tuo capitano.

GIACOMO: Non mi rifiuterò; ma non ci crederete.

IL PADRONE: E' dunque veramente straordinaria!

GIACOMO: No, è che essa è già accaduta ad un altro, a un militare francese, chiamato, credo, signor de Guerchy.

IL PADRONE: Ebbene! Dirò come un poeta francese, che aveva fatto un epigramma piuttosto buono, diceva a qualcuno che se lo attribuiva in sua presenza: - Perché il signore non l'avrebbe fatto? l'ho ben fatto io... - Perché la storia di Giacomo non sarebbe successo al compagno del suo capitano, visto che è successa al militare francese de Guerchy? Ma, raccontandomela, prenderai due piccioni con una fava, mi farai conoscere l'avventura di questi due personaggi, visto che io la ignoro.

GIACOMO: Meglio così! ma giuratemelo.

IL PADRONE: Te lo giuro.

Lettore, sarei tentato di esigere da te lo stesso giuramento; ma ti farò solo notare nel carattere di Giacomo una stranezza che gli veniva evidentemente da suo nonno Jason, il rigattiere silenzioso; al contrario dei chiacchieroni, Giacomo, benché amasse molto parlare, aveva una vera avversione per le ripetizioni. Per questo diceva a volte al suo padrone: - Voi mi preparate il più triste avvenire; che sarà di me quando non avrò più niente da dire?

- Ricomincerai.

- Giacomo ricominciare! Il contrario è scritto lassù; e se mi succedesse di ricominciare, non potrei impedirmi di gridare: «Ah! se tuo nonno ti sentisse!...» e rimpiangerei il bavaglio.

GIACOMO: Al tempo in cui si giocava ai giochi d'azzardo alle fiere di Saint-Germain e di Saint-Laurent...

IL PADRONE: Ma è a Parigi, e il compagno del tuo capitano era comandante di una piazzaforte di frontiera.

GIACOMO: Per Dio, lasciatemi finire... Alcuni ufficiali entrarono in una bottega, e vi trovarono un altro ufficiale che parlava con la padrona. Uno di essi propose a costui di giocare a passadieci; poiché dovete sapere che dopo la morte del mio capitano, il suo compagno, diventato ricco, era anche diventato giocatore. Egli dunque, o il signor di Guerchy, accetta. La sorte mette il bussolotto in mano al suo avversario, che vince vince vince e non finiva più di vincere. Il giuoco si era scaldato, e si era giocata la posta, la posta tutta intera, le metà piccole, le metà grandi, la posta grande, la posta grande tutta intera, quando uno dei presenti pensò bene di dire al signor de Guerchy, o al compagno del mio capitano, che avrebbe fatto bene a smettere perché l'altro ne sapeva più di lui. A queste parole, che non erano che uno scherzo, il compagno del mio capitano, o il signor de Guerchy, credette di avere a che fare con un furfante; mise di colpo la mano in tasca, ne tirò fuori un coltello ben appuntito, e quando il suo antagonista mise la mano sui dadi per metterli nel bussolotto, gli pianta il coltello nella mano, e gliela inchioda sulla tavola, dicendogli:- Se i dadi sono falsi, siete un briccone; se sono buoni, ho torto io... - I dadi furono trovati buoni. Il signor de Guerchy disse: - Sono molto spiacente, ed offro la riparazione che si vorrà... - Non furono le parole del compagno del mio capitano; egli disse: - Ho perduto il mio danaro; ho bucato la mano a un galantuomo; ma in cambio ho ritrovato il piacere di battermi quanto mi piacerà...

- L'ufficiale ferito si ritira e va a farsi medicare. Quando è guarito, viene a trovare il feritore e gli chiede ragione; questi, cioè il signor de Guerchy, trova giusta la richiesta. L'altro, il compagno del mio capitano, gli butta le braccia al collo e gli dice:

- Vi aspettavo con un'impazienza che non saprei esprimervi... Vanno sul terreno; il feritore, signor de Guerchy, o il compagno del mio capitano, riceve un buon colpo di spada; l'altro lo rialza, lo fa portare a casa, e gli dice: - Signore, ci rivedremo... Il signor de Guerchy non rispose niente; il compagno del mio capitano gli rispose:

- Ci conto, signore -. Si batterono una seconda, una terza, fino a otto o dieci volte, e sempre il provocatore restò sul terreno. Erano tutti e due ufficiali di distinzione, tutti e due persone di merito; la loro avventura fece un gran rumore; il ministero intervenne. Uno fu trattenuto a Parigi; l'altro fu inchiodato da un ordine al suo posto.

Il signor de Guerchy si sottomise agli ordini della corte; il compagno del mio capitano ne fu desolato; tale è la differenza fra due uomini coraggiosi per carattere, ma di cui l'uno è savio, e l'altro ha un pizzico di pazzia.

Fin qui l'avventura del signor de Guerchy e del compagno del mio capitano è comune a entrambi: ed ecco la ragione per la quale li ho nominati tutti e due, capite, padrone? Qui li separerò e non vi parlerò più che del compagno del mio capitano, poiché il resto non appartiene che a lui. Ah! signore, qui vedrete quanto poco noi siamo padroni del nostro destino, e quante cose bizzarre sono scritte nel grande rotolo!

Il compagno del mio capitano, o il feritore, sollecita il permesso di far un giro nella sua provincia: lo ottiene. La sua strada passava per Parigi. Prende posto in una vettura pubblica. Alle tre del mattino, questa vettura passa davanti al Teatro dell'Opera; la gente usciva dal ballo. Tre o quattro giovani sventati, in maschera, progettano di andare a pranzo con i viaggiatori; si arriva sul fare del giorno al posto stabilito per il pranzo. I presenti si osservano. Chi di loro fu sorpreso? Fu il ferito nel riconoscere il suo feritore. Questi gli tende la mano, lo abbraccia e gli si dichiara felicissimo di un incontro così fortunato; subito vanno dietro un fienile, mettono mano alla spada, l'uno in giacca, l'altro in domino; il feritore, o il compagno del mio capitano, è ancora una volta steso per terra. Il suo avversario gli manda i soccorsi necessari, si mette a tavola con i suoi amici e gli altri viaggiatori, mangia e beve allegramente. Gli uni si disponevano a continuare la loro strada, e gli altri a tornare nella capitale, in maschera e su cavalli di posta, quando l'ostessa riapparve e mise fine al racconto di Giacomo.

Eccola risalita, e ti avverto, lettore, che non è più in mio potere di mandarla via. - Perché mai? - Perché si presenta con due bottiglie di "Champagne", una per mano, ed è scritto lassù che ogni oratore che si rivolgerà a Giacomo con un simile esordio, si farà necessariamente ascoltare da lui.

Essa entra, posa le due bottiglie sulla tavola, e dice: - Via, signor Giacomo, facciamo la pace...- L'ostessa non era nella prima giovinezza; era una donna alta e grossa; ben piantata, di buona cera, piena di rotondità, con la bocca un po' grande, ma con bei denti, guance larghe, occhi a fior di testa, fronte quadrata, bellissima carnagione, fisionomia aperta, viva e gaia, le braccia grassottelle, ma mani superbe, degne di essere dipinte o modellate. Giacomo la prese per la vita e la baciò forte; il suo rancore non aveva mai resistito al buon vino e a una bella donna; questo era scritto lassù di lui, di te, lettore, di me e di molti altri. - Signore, - disse lei al padrone, - ci lascerete bere soli soli? Vedete, aveste ancora cento leghe da fare, non ne berreste di migliore in tutta la strada -. Così parlando, aveva messo una delle due bottiglie fra le sue ginocchia e ne tirava il tappo; fu con abilità singolare che ne coprì l'orlo con il pollice, senza lasciar sfuggire una goccia di vino. - Su, - disse a Giacomo; presto, presto, il vostro bicchiere -. Giacomo avvicina il bicchiere; l'ostessa, spostando un poco il pollice, dà aria alla bottiglia, ed ecco il viso di Giacomo tutto coperto di spuma. Giacomo si era prestato a questa monelleria, e l'ostessa a ridere, e Giacomo e il suo padrone a ridere. Si bevvero uno sull'altro alcuni bicchieri ben colmi, per assicurarsi della saggezza della bottiglia, poi l'ostessa disse:- Grazie a Dio! Sono tutti a letto, non mi interromperanno più, e posso riprendere il mio racconto -. Giacomo, guardandola con occhi di cui il vino di "Champagne" aveva aumentato la vivacità naturale, disse a lei o al suo padrone: - La nostra ostessa è stata bella come un angelo; che ne pensate, signore?

IL PADRONE: E' stata! Per Dio, Giacomo, lo è ancora!

GIACOMO: Signore, avete ragione; è che non la paragono a un'altra donna, ma a lei stessa quando era giovane.

L'OSTESSA: Non valgo gran che ora; è quando mi si sarebbe presa fra le prime due dita di ogni mano che bisognava vedermi! Si faceva un giro di quattro leghe per alloggiare qui. Ma lasciamo stare le teste savie e pazze che ho fatto girare, e torniamo alla signora de La Pommeraye.

GIACOMO: Se bevessimo prima un bicchiere alle teste pazze che avete fatto girare, o alla mia salute?

L'OSTESSA: Molto volentieri; ce n'erano che ne valevano la pena, contando o non contando la vostra. Sapete che sono stata per dieci anni la risorsa dei militari, onestamente parlando? Ne ho aiutati un buon numero, che sarebbero stati in grande difficoltà a fare la loro campagna senza il mio aiuto. Sono brave persone, non ho da lamentarmi di nessuno, né loro di me. Mai una cambiale; mi hanno fatto aspettare qualche volta; in capo a due, a tre, a quattro anni il mio danaro mi è ritornato...

E quindi eccola che si mette a enumerare gli ufficiali che le avevano fatto l'onore di attingere alla sua borsa, e il signor tale, colonnello del reggimento di ..., e il signor tal altro, capitano al reggimento di ..., ed ecco Giacomo che lancia un grido: - Il mio capitano, il mio povero capitano!, l'avete conosciuto?

L'OSTESSA: Se l'ho conosciuto? un uomo alto, ben fatto, un po' secco, dall'aria nobile e severa, il garretto ben teso, due punticini rossi alla tempia destra. Avete dunque servito nell'esercito?

GIACOMO: Se ho servito!

L'OSTESSA: Mi piacete di più per questo; vi devono restare delle buone qualità dalla vostra prima professione. Beviamo alla salute del vostro capitano.

GIACOMO: Se è ancora vivo.

L'OSTESSA: Morto o vivo, che importa? Un militare non è fatto per essere ucciso? Non deve essere motivo di rabbia, dopo dieci assedi e cinque o sei battaglie, il morire in mezzo a queste canaglie di esseri neri!... Ma torniamo alla nostra storia, e beviamo ancora un bicchiere.

IL PADRONE: Parola mia, ostessa nostra, avete ragione.

L'OSTESSA: Sono molto contenta che voi pensiate così.

IL PADRONE: Dato che il vostro vino è eccellente.

L'OSTESSA: Ah! è del mio vino che parlavate? Ebbene! avete ancora ragione. Vi ricordate dove eravamo?

IL PADRONE: Sì, alla conclusione della più perfida delle confidenze.

L'OSTESSA: Il marchese des Arcis e la signora de La Pommeraye si abbracciarono, rapiti l'uno dell'altra, e si separarono. Più la signora aveva finto in sua presenza, più fu violento il suo dolore quando egli se ne fu andato. - E' fin troppo vero, dunque, - essa esclamò, - non mi ama più! ... - Non vi racconterò i particolari di tutte le nostre stravaganze quando siamo abbandonate, ne sareste troppo lusingati. Vi ho detto che questa donna era orgogliosa; ma essa era ben altrimenti vendicativa. Quando i primi furori si furono calmati, e lei fu in tutta la tranquillità della sua indignazione, pensò di vendicarsi, ma di vendicarsi in modo crudele, in modo da spaventare tutti quelli che fossero tentati in futuro di sedurre e ingannare una donna onesta. Si è vendicata, si è vendicata crudelmente; la sua vendetta si è compiuta e non ha corretto nessuno; noi siamo state poi ugualmente e villanamente sedotte e ingannate.

GIACOMO: Va bene per le altre, ma voi!...

L'OSTESSA: Ahimè! Io per la prima. Oh! Come siamo sciocche! Se almeno quei furfanti di uomini guadagnassero nel cambio! Ma lasciamo stare.

Che farà essa? Non ne sa ancora niente; ci penserà; ci pensa.

GIACOMO: Se mentre ci pensa...

L'OSTESSA: Ben detto. Ma le nostre due bottiglie sono vuote... ("Jean. - Signora. - Due bottiglie, di quelle che sono in fondo in fondo, dietro le fascine. - Capisco"). A forza di pensarci, ecco cosa le venne in mente. La signora de La Pommeraye aveva conosciuto in altri tempi una provinciale che un processo aveva chiamata a Parigi, con sua figlia, giovane, bella e ben educata. Aveva saputo che questa donna, rovinata per la perdita del suo processo, era stata ridotta a tenere una bisca. Ci si riuniva da lei, si giocava, si cenava, e di solito uno o due dei convitati restavano, passavano la notte con la signora e la signorina, a loro scelta. Essa incaricò un suo domestico di cercare queste due creature. Furono scovate e invitate a far visita alla signora de La Pommeraye, di cui si ricordavano appena. Queste donne, che avevano preso il nome di signora e signorina d'Aisnon, non si fecero aspettare; già l'indomani, la madre andò dalla signora de La Pommeraye. Dopo le prime cerimonie, la signora de La Pommeraye chiese alla d'Aisnon che cosa aveva fatto, che cosa facesse dopo la perdita del suo processo.

- Per parlarvi sinceramente, - le rispose la signora d'Aisnon,- faccio un mestiere rischioso, infame, poco lucrativo, e che mi dispiace, ma necessità fa legge. Ero quasi decisa a mettere mia figlia all'Opéra, ma lei non ha che una vocetta da camera, ed è sempre stata una danzatrice mediocre. Durante e dopo il mio processo l'ho portata con me dai magistrati, dai potenti, dai prelati, dai finanzieri, che hanno fatto i propri comodi con lei per un certo tempo e l'hanno quindi piantata. Non che non sia bella come un angelo, che non abbia grazia e finezza; ma non ha nessuno spirito di libertinaggio, nessuno di quei talenti adatti a svegliare il languore degli uomini ormai sazi. Ma quello che ci ha nuociuto di più, è che essa si era incapricciata di un abatino nobile, empio, miscredente, dissoluto, ipocrita, antifilosofo, di cui non vi dirò il nome; ma è l'ultimo di quelli che, per arrivare all'episcopato, hanno preso la strada che al tempo stesso è la più sicura e richiede meno talento. Non so che cosa desse a intendere a mia figlia alla quale veniva a leggere ogni mattina i resoconti dei suoi pranzi, delle sue cene e i suoi libelli.

Sarà vescovo, non lo sarà? Fortunatamente hanno litigato. Avendogli mia figlia chiesto un giorno se conoscesse quelli contro i quali scriveva, e l'abate avendo risposto di no; se avesse sentimenti diversi da quelli che metteva in ridicolo, e l'abate avendole risposto di no, essa si lasciò prendere dalla sua vivacità e gli fece presente che la sua parte era quella del più cattivo e più falso degli uomini.

La signora de La Pommeraye le chiese se fossero molto conosciute.

- Troppo, disgraziatamente.

- A quanto vedo, non tenete alla vostra condizione?

- Per niente, e mia figlia mi ripete ogni giorno che lo stato più infelice le sembra preferibile al suo; ne è d'una malinconia tale che finisce di allontanare da lei...

- Se mi mettessi in testa di farvi ad entrambe la più brillante fortuna, acconsentireste dunque?

- Per molto meno.

-Ma si tratta di sapere se potete promettermi di attenervi rigorosamente ai consigli che vi darò.

- Quali che siano, potete contarci.

- E sarete ai miei ordini quando vorrò?

- Li aspetteremo con impazienza.

- Mi basta; potete andare; non tarderete a riceverli. Intanto, sbarazzatevi dei vostri mobili, vendete tutto, non conservate nemmeno le vostre vesti, se ne avete di sgargianti: non sarebbe conforme ai miei progetti.

Giacomo, che cominciava a interessarsi, disse all'ostessa: - E se bevessimo alla salute della signora de La Pommeraye ?

L'OSTESSA: Volentieri.

GIACOMO: E a quella della signora d'Aisnon.

L'OSTESSA: Cincìn.

GIACOMO: E non rifiuterete quella della signorina d'Aisnon, che ha una vocetta da camera, poco talento per la danza e una malinconia che la riduce alla triste necessità di accettare ogni sera un nuovo amante.

L'OSTESSA: Non ridete, è la cosa più crudele. Se sapeste che tortura quando non si ama!...

GIACOMO: Alla signorina d'Aisnon, per via della sua tortura.

L'OSTESSA: Cincìn.

GIACOMO: Ostessa, amate vostro marito?

L'OSTESSA: Né tanto né poco.

GIACOMO: Allora siete veramente da compiangere; perché mi sembra in buona salute.

L'OSTESSA: Non è oro tutto ciò che luccica.

GIACOMO: Alla buona salute del nostro oste.

L'OSTESSA: Bevete da solo.

IL PADRONE: Giacomo, Giacomo, amico mio, alzi un po' troppo il gomito.

L'OSTESSA: Non temete. signore, il vino è sincero; e domani non ne resterà traccia.

GIACOMO: Poiché domani non ne resterà traccia, e stasera non faccio un gran caso alla mia ragione, padrone mio, mia bella ostessa, ancora un brindisi, un brindisi che mi sta molto a cuore, alla salute dell'abate della signorina d'Aisnon.

L'OSTESSA: Via, signor Giacomo; un ipocrita, un ambizioso, un ignorante, un calunniatore, un intollerante; poiché è così che si chiamano, credo, quelli che sgozzerebbero volentieri chiunque non la pensi come loro.

IL PADRONE: E' che voi non sapete, ostessa, che questo nostro Giacomo è una specie di filosofo e dà grandissima importanza a quei piccoli imbecilli che disonorano se stessi e la causa che difendono così male.

Dice che il suo capitano li chiamava il controveleno degli Huet, dei Nicole, dei Bossuet. Non capiva niente di ciò, e voi nemmeno... Vostro marito è a letto?

L'OSTESSA: Da un bel pezzo.

IL PADRONE: E vi lascia chiacchierare così?

L'OSTESSA: I nostri mariti sono corazzati... La signora de La Pommeraye sale in carrozza, percorre i sobborghi più lontani dal quartiere della d'Aisnon, affitta un appartamentino in una casa per bene, nelle vicinanze della parrocchia, lo fa ammobiliare il più succintamente possibile, invita a pranzo la d'Aisnon e sua figlia, le sistema, il giorno stesso o qualche giorno dopo, lasciando loro le esatte disposizioni sulla condotta da tenete.

GIACOMO: Ostessa, abbiamo dimenticato la salute della signora de La Pommeraye, quella del marchese des Arcis; ah! non sta bene.

L'OSTESSA: Fate pure, signor Giacomo, la cantina non è vuota... Ecco queste disposizioni, o quanto me ne ricordo:

«Non frequenterete le passeggiate pubbliche; perché occorre che non siate scoperte.

Non riceverete nessuno, neppure i vostri vicini e le vostre vicine, perché bisogna che ostentiate il più profondo riserbo.

Indosserete, fin da domani, l'abito delle devote, perché bisogna che vi si creda tali.

Non terrete in casa che libri di devozione, perché non deve esserci niente intorno a voi che possa tradirvi.

Osserverete la più grande assiduità alle funzioni della parrocchia, giorni festivi e giorni feriali.

Vi darete da fare per ottenere l'ingresso nel parlatorio di qualche convento; le chiacchiere di quelle recluse non ci saranno inutili.

Farete stretta conoscenza col curato e i preti della parrocchia, perché posso aver bisogno della loro testimonianza.

Non ne riceverete abitualmente nessuno.

Andrete a confessarvi e vi accosterete ai sacramenti almeno due volte al mese.

Riprenderete il vostro nome di famiglia, perché è un nome onesto, e si chiederanno presto o tardi informazioni nella vostra provincia.

Farete di tanto in tanto qualche piccola elemosina, ma non ne riceverete sotto nessun pretesto. Bisogna che non vi credano né povere né ricche.

Filerete, cucirete, lavorerete d'uncinetto, ricamerete, e darete alle dame di carità il vostro lavoro da vendere.

Vivrete nella più grande sobrietà; due porzioncine da trattoria, e niente più.

Vostra figlia non uscirà mai senza di voi, né voi senza di lei. Di tutti i mezzi di edificare con poca spesa, non ne trascurerete nessuno.

Soprattutto, ve lo ripeto, mai in casa vostra né preti, né monaci, né devote.

Andrete per la strada a occhi bassi; in chiesa non vedrete che Dio».

- Ne convengo, questa vita è austera, ma non durerà a lungo e ve ne prometto la più grande ricompensa. Vedete, consigliatevi: se questa costrizione vi pare al di sopra delle vostre forze, confessatemelo; non ne sarò né offesa, né sorpresa. Dimenticavo di dirvi che sarebbe opportuno che acquisiste un frasario mistico, e che la storia dell'Antico e del Nuovo Testamento vi diventasse familiare, affinché vi si prenda per devote di vecchia data. Fatevi gianseniste o moliniste, come vi piacerà; ma il meglio sarebbe che aveste su questo l'opinione del vostro curato. Non mancate, a proposito o a sproposito, in ogni occasione, di scagliarvi contro i filosofi; gridate che Voltaire è l'Anticristo, sappiate a memoria l'opera del vostro abatino e diffondetela, se serve...

La signora de La Pommeraye aggiunse: - Io non verrò a trovarvi a casa vostra; non sono degna di frequentare delle donne così sante; ma non abbiate nessuna inquietudine: voi verrete qui qualche volta clandestinamente, e ci rifaremo, fra di noi, del vostro regime di penitenti. Ma, pur recitando la parte delle devote, badate di non impelagarvici. Quanto alle spese di casa, è affare mio. Se il mio progetto riesce, non avrete più bisogno di me; se fallisce non per colpa vostra, io sono abbastanza ricca per assicurarvi una sorte onesta e migliore della situazione che mi avrete sacrificata. Ma soprattutto, sottomissione, sottomissione assoluta, illimitata alle mie volontà, senza di che non rispondo di niente per il presente e non m'impegno a niente per l'avvenire.

IL PADRONE (battendo sulla tabacchiera e guardando all'orologio che ora è): Che terribile testa di donna! Mi guardi Dio dall'incontrarne una simile.

L'OSTESSA: Pazienza, pazienza, non la conoscete ancora.

GIACOMO: In attesa, mia bella, nostra incantevole ostessa, se dicessimo due parole alla bottiglia?

L'OSTESSA: Signor Giacomo, il mio vino di Champagne mi abbellisce ai vostri occhi.

IL PADRONE: Sono da molto tempo così tentato di farvi una domanda, forse indiscreta, che non saprei più resistervi.

L'OSTESSA: Fate Ia vostra domanda.

IL PADRONE: Sono sicuro che non siete nata in una locanda.

L'OSTESSA: E' vero.

IL PADRONE: Che da una posizione più elevata, vi siete stata portata da circostanze straordinarie.

L'OSTESSA: Ne convengo.

IL PADRONE: E se sospendessimo per un momento la storia della signora de La Pommeraye...

L'OSTESSA: Non è possibile. Racconto volentieri le avventure degli altri, ma non le mie. Sappiate solo che sono stata educata a Saint - Cyr, dove ho letto poco il Vangelo e molti romanzi. Dall'Abbazia reale alla locanda che conduco, ci corre un po'.

IL PADRONE: Basta; fate conto che non vi abbia detto niente.

L'OSTESSA: Mentre le nostre due devote edificavano, e si diffondeva intorno il buon odore della loro pietà e della santità dei loro costumi, la signora de La Pommeraye osservava con il marchese le manifestazioni esteriori della stima, dell'amicizia, della fiducia più perfetta. Sempre il benvenuto, mai rimproveri, mai il broncio, neppure dopo lunghe assenze: egli le raccontava tutte le sue piccole fortunate avventure, e lei sembrava divertirsene sinceramente. Gli dava i suoi consigli nel caso di un successo difficile; gli parlava a volte di matrimonio, ma con un tono così disinteressato, che non si poteva sospettarla di parlare per sé. Se il marchese le rivolgeva qualcuna di quelle frasi tenere o galanti, di cui non si può dispensarsi con una donna che si è conosciuta, essa ne sorrideva o le lasciava cadere. A crederla, il suo cuore era placato; e, cosa che non avrebbe mai immaginato, essa sentiva che un amico come lui bastava alla felicità della vita; e poi non era più nella prima giovinezza e i suoi gusti si erano mitigati parecchio.

- Come! Non avete niente da confidarmi?

- No.

- E il contino, amica mia, che vi corteggiava così vivacemente già al tempo del mio regno?

- Gli ho chiuso la porta e non lo vedo più.

- E' una bizzarria! E perché averlo allontanato?

- Perché non mi piace.

- Ah! Signora, credo di indovinare: mi amate ancora.

- E' possibile.

- Contate sul mio ritorno.

- Perché no?

- E vi riservate tutti i vantaggi di una condotta irreprensibile.

- Lo credo.

- E se avessi la fortuna o la disgrazia di riprendere, vi fareste per lo meno un merito del silenzio che conservereste sui miei torti.

- Mi credete molto delicata e generosa.

- Amica mia, dopo quello che avete fatto, non c'è nessuna specie di eroismo di cui non siate capace.

- Non mi dispiace molto che lo pensiate.

- Parola mia, con voi corro il più gran pericolo, ne sono sicuro.

GIACOMO: E io pure.

L'OSTESSA: Erano circa tre mesi che stavano allo stesso punto, quando la signora de La Pommeraye credette che fosse tempo di mettere in gioco i suoi grandi mezzi. Un giorno d'estate che faceva bel tempo, e aspettava il marchese a pranzo, fece dire alla d'Aisnon ed a sua figlia di andare al Giardino del re. Il marchese venne: si servì di buon'ora; si pranzò: si pranzò allegramente. Dopo pranzo, la signora de La Pommeraye propose al marchese una passeggiata, se non avesse niente di più piacevole da fare. Non c'era quel giorno né Opera, né Commedia; fu il marchese che lo osservò; e per ripagarsi di uno spettacolo divertente con uno spettacolo utile, il caso volle che fosse egli stesso a invitare la marchesa ad andare a visitare il Gabinetto del re. Non gli fu rifiutato, come potete ben pensare. Ecco attaccati i cavalli; eccoli partiti; eccoli arrivati al Giardino del re; ed eccoli mischiati alla folla, guardando tutto, e non vedendo nulla, come gli altri.

Lettore, avevo dimenticato di descriverti com'erano sistemati i tre personaggi di cui si tratta qui, Giacomo, il suo padrone e l'ostessa; per colpa di questa disattenzione, li hai sentiti parlare, ma non li hai visti; meglio tardi che mai. Il padrone, a sinistra, in berretto da notte, in veste da camera, stava sdraiato negligentemente in una grande poltrona istoriata, con il fazzoletto posato sul bracciolo della poltrona, e con la tabacchiera in mano. L'ostessa sul fondo, di fronte alla porta, vicino alla tavola, con il bicchiere davanti.

Giacomo, senza cappello, alla sua destra, i due gomiti appoggiati sulla tavola, e la testa china fra le due bottiglie; altre due stavano a terra accanto a lui.

Uscendo dal Gabinetto del re, il marchese e la sua buona amica passeggiarono nel giardino. Seguivano il primo viale che è a destra entrando, vicino alla scuola degli alberi, quando la signora de La Pommeraye lanciò un grido di sorpresa, dicendo: Non m'inganno, credo che siano esse; sì, sono proprio loro.

Lì per lì lascia il marchese e va incontro alle due devote. La d'Aisnon figlia era bella da incantare, in quell'acconciatura semplice che, senza attirare lo sguardo, fissa tuttavia l'attenzione interamente sulla persona.

- Ah! Siete voi, signora?

- Sì, sono io.

- Come state, cos'avete fatto in tutta questa eternità?

- Conoscete le nostre disgrazie; è stato necessario rassegnarvisi, e vivere ritirate come conveniva alle nostre poche risorse; allontanarsi dalla società, dato che non si può più comparirvi decentemente.

- Ma io, abbandonare me che non appartengo alla società, e che ho sempre il buon senso di trovarla noiosa qual è!

-Uno degli inconvenienti della sfortuna è la diffidenza che essa ispira: gli indigenti temono di essere importuni.

- Voi, importune per me! Questo sospetto è una bella ingiuria.

- Signora, ne sono affatto innocente, vi ho ricordata alla mamma, ma essa mi diceva: «La signora de La Pommeraye... nessuno, figlia mia, pensa più a noi».

- Che ingiustizia! Sediamoci, chiacchiereremo. Ecco il marchese des Arcis; è un mio amico; e la sua presenza non ci disturberà. Come si è fatta grande la signorina! Come è diventata bella da quando non ci siamo più viste!

- La nostra posizione ha questo di vantaggioso, che essa ci priva di tutto ciò che nuoce alla salute: guardate il suo viso, guardate le sue braccia; ecco ciò che si deve alla vita frugale e regolata, al sonno, al lavoro, alla buona coscienza; è qualche cosa... - Si sedettero, conversarono amichevolmente. La d'Aisnon madre parlò molto, la d'Aisnon figlia parlò poco. Il tono della devozione fu quello dell'una e dell'altra, ma con disinvoltura e senza verecondia affettata. Molto prima del far della notte, le nostre due devote si alzarono. Si fece osservare loro che era ancora presto; la d'Aisnon madre disse abbastanza forte, all'orecchio della signora de La Pommeraye, che avevano ancora da compiere una piccola missione, e che era loro impossibile restare più a lungo. Erano già a una certa distanza, quando la signora de La Pommeraye si rimproverò di non aver chiesto loro l'indirizzo, e di non aver dato il suo: - E' un errore,- aggiunse, - che non avrei commesso in altri tempi.

Il marchese corse a ripararlo; esse accettarono l'indirizzo della signora de La Pommeraye, ma per quanto il marchese insistesse, non poté ottenere il loro. Non osò offrire la sua carrozza, pur confessando alla signora de La Pommeraye che ne era stato tentato.

Il marchese non mancò di chiedere alla signora de La Pommeraye chi fossero quelle due donne -Sono due creature più felici di noi. Vedete di che buona salute esse godono! quale serenità regna sul loro viso! l'innocenza, la decenza che detta le loro parole! Questo non si vede, non si sente neppure nei nostri ambienti. Noi compiangiamo i devoti; i devoti ci compiangono: e, tutto sommato, sono propensa a credere che hanno ragione.

- Marchesa, sareste forse tentata di diventare devota?

- Perché no?

- Badate, non vorrei che la nostra rottura, se è una rottura, vi spingesse fin là.

- Preferireste che riaprissi la porta al contino?

- Molto più.

- E me lo consigliereste?

- Senza esitare...

La signora de La Pommeraye disse al marchese quello che sapeva del nome, della provincia, dell'antica condizione e del processo delle due devote, mettendovi tutto l'interesse e tutto il "pathos" possibile, poi aggiunse:- Sono due donne di un merito raro, soprattutto la figlia. Capite bene che, con un aspetto come il suo, qui non si manca di niente quando si vuol trarne profitto; ma esse hanno preferito un'onesta modicità ad un'agiatezza vergognosa; quel che resta loro è così ben poco che, in verità, non so come facciano per sopravvivere.

Lavorano giorno e notte. Sopportare l'indigenza quando ci si è nati, è quel che i più sanno fare, ma passare dall'opulenza allo stretto necessario, accontentarsene, trovarvi la felicità, è quello che non capisco. Ecco a che serve la religione. I nostri filosofi hanno un bel dire, la religione è una buona cosa.

- Soprattutto per gl'infelici.

- E chi non lo è più o meno?

- Voglio morire se non state divenendo devota.

- Che gran disgrazia! Questa vita è così poca cosa, quando la si paragona ad un'eternità a venire!

- Ma voi parlate già come un missionario.

-Parlo come una donna convinta. Ecco, marchese, rispondetemi la verità: tutte le nostre ricchezze non sarebbero ben poveri stracci ai nostri occhi, se fossimo più compenetrati dell'attesa dei beni e del timore delle pene di un'altra vita? Corrompere una fanciulla o una donna attaccata a suo marito con la convinzione che si può morire fra le sue braccia, e cadere di colpo in supplizi senza fine, convenite che sarebbe il più incredibile delirio.

- Questo succede tuttavia ogni giorno.

- E' che non si ha fede, che ci si stordisce.

- E' che le nostre opinioni religiose hanno poca influenza sui nostri costumi. Ma, amica mia, vi giuro che vi incamminate a gran velocità verso il confessionale.

- E' davvero quello che potrei fare di meglio.

- Via, siete matta; avete ancora una ventina d'anni di bei peccati da fare: non mancate di farli; in seguito ve ne pentirete, e andrete a vantarvene ai piedi del prete, se vi conviene... Ma ecco una conversazione dalla piega ben seria; la vostra fantasia diventa furiosamente nera, ed è effetto dell'abominevole solitudine in cui vi siete sprofondata. Credetemi, richiamate al più presto il contino, non vedrete più né diavolo né inferno, e sarete incantevole come prima.

Temete che ve lo rimproveri, se mai ci mettiamo di nuovo insieme; ma, anzitutto, forse ciò non avverrà; per un'apprensione bene o mal fondata, vi private del più dolce piacere; e, in verità, l'onore di valere più di me non vale questo sacrifizio.

- Dite il vero, ma non è questo che mi trattiene...

Dissero molte altre cose ancora, di cui non mi ricordo.

GIACOMO: Ostessa, beviamo un bicchiere: ciò rinfresca la memoria.

L'OSTESSA: Beviamo un bicchiere... Dopo alcuni giri per i viali, la signora de La Pommeraye e il marchese risalirono in carrozza. La signora de La Pommeraye disse: - Come tutto ciò m'invecchia! Quando venne a Parigi, era alta quanto un soldo di cacio.

- Parlate della figlia di quella signora, che abbiamo incontrato alla passeggiata?

- Sì. E' come in un giardino, dove le rose appassite fanno posto alle rose novelle. L'avete guardata?

- Non ho mancato di farlo.

- Come la trovate?

-E' la testa di una vergine di Raffaello sul corpo della sua "Galatea"; e poi, una voce così dolce!

- Una modestia nello sguardo!

- Una compostezza nel portamento!

- Una decenza nel parlare, che in nessuna fanciulla mi ha colpito come in questa. Ecco l'effetto dell'educazione.

- Quando è preparato da un'indole buona Il marchese lasciò la signora de La Pommeraye alla sua porta; e la signora de La Pommeraye non ebbe niente di più urgente dell'attestare alle nostre due devote quanto fosse soddisfatta del modo in cui avevano recitato la loro parte.

GIACOMO: Se continuano com'hanno cominciato, marchese des Arcis, non ve la caverete, foste anche il diavolo.

IL PADRONE: Vorrei proprio sapere qual è il loro progetto.

GIACOMO: A me rincrescerebbe molto: questo sciuperebbe ogni cosa.

L'OSTESSA: Da quel giorno, il marchese diventò più assiduo dalla signora de La Pommeraye, che se ne accorse senza chiedergliene la ragione. Essa non gli parlava mai per prima delle due devote; aspettava che lui affrontasse l'argomento: cosa che il marchese faceva sempre con impazienza e con indifferenza mal simulata.

IL MARCHESE: Avete visto le vostre amiche?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: No.

IL MARCHESE: Sapete che non sta bene? Voi siete ricca: esse sono nel disagio; e non le invitate neppure a pranzo qualche volta!

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Mi credevo conosciuta un po' meglio dal signor marchese. L'amore mi prestava in altri tempi delle virtù; oggi l'amicizia mi presta dei difetti. Le ho invitate dieci volte senza aver potuto ottenerlo una sola. Rifiutano di venire da me per delle strane idee; e quando vado a visitarle, bisogna che lasci la mia carrozza all'ingresso della strada e che ci vada vestita modestamente, senza belletto e senza diamanti. Non bisogna stupirsi troppo della loro circospezione: un falso rapporto basterebbe per alienare loro lo spirito di un certo numero di benefattori e per privarle dei loro soccorsi. Marchese, evidentemente costa molto fare il bene.

IL MARCHESE: Soprattutto ai devoti.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Poiché il più leggero pretesto basta per dispensarmeli. Se si sapesse che mi interesso di loro, si direbbe subito: la signora de La Pommeraye le protegge: non hanno dunque bisogno di niente... Ed ecco soppresse le elemosine.

IL MARCHESE: Le elemosine!

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Sissignore, le elemosine!

IL MARCHESE: Voi le conoscete, e sono all'elemosina?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Ancora una volta, marchese, vedo bene che non mi amate più e che una parte della vostra stima se ne è andata con la vostra tenerezza. E chi vi ha detto che, se queste donne fossero nella necessità di ricevere le elemosine della parrocchia, sarebbe per colpa mia?

IL MARCHESE: Mille scuse, signora, mille scuse, ho torto. Ma quale ragione per rifiutare la benevolenza di una amica?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Ah! marchese, siamo ben lontani noi, gente mondana, dal conoscere le delicatezze scrupolose delle anime timorate.

Esse non credono di poter accettare i soccorsi di ogni persona indistintamente.

IL MARCHESE: Significa toglierci il mezzo migliore per espiare le nostre folli dissipazioni.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Niente affatto. Suppongo, per esempio, che il marchese des Arcis sia mosso a compassione per esse; perché non fa passare i suoi soccorsi per mani più degne?

IL MARCHESE: E meno sicure.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Può darsi.

IL MARCHESE: Ditemi, se mandassi loro una ventina di luigi, credete che li rifiuterebbero?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Ne sono certa; e questo rifiuto vi sembrerebbe fuori luogo in una madre che ha una figlia incantevole?

IL MARCHESE: Sapete che sono stato tentato di andare a trovarle?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Lo credo. Marchese, marchese, badate a voi; ecco un moto di compassione troppo improvviso e sospetto

IL MARCHESE: Checché ne sia, mi avrebbero ricevuto?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Certamente no! Con l'apparato della vostra carrozza, dei vostri abiti, dei vostri domestici e le grazie della giovane persona, non servirebbe di più per dare esca al pettegolezzo dei vicini, delle vicine, e perderle.

IL MARCHESE: Mi affliggete; perché certo non era questo il mio intento. Bisogna dunque rinunciare a soccorrerle e a vederle.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Lo credo.

IL MARCHESE: Ma se facessi arrivare loro i miei soccorsi tramite voi?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Non credo questi soccorsi abbastanza puri per incaricarmene.

IL MARCHESE: E' una crudeltà!

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Sì, una crudeltà: è la parola giusta.

IL MARCHESE: Che visione! Marchesa, vi burlate di me. Una fanciulla che ho visto una volta sola.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Ma del piccolo numero di quelle che non si dimenticano quando le si è viste.

IL MARCHESE: E' vero che visi simili ci inseguono.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Marchese, attento a voi; vi preparate delle afflizioni; e preferisco evitarvi un guaio al dovervi consolare.

Non confondete questa con quelle che avete conosciute: non c'è nessuna somiglianza; queste non si tentano, non si seducono, non ci si avvicina loro, non ascoltano, non se ne viene a capo.

Dopo questa conversazione il marchese si ricordò all'improvviso che aveva un affare urgente; si alzò bruscamente e uscì con aria preoccupata.

Per un periodo di tempo abbastanza lungo, il marchese non passò quasi un giorno senza vedere la signora de La Pommeraye; ma arrivava, si sedeva, rimaneva in silenzio; la signora de La Pommeraye era la sola a parlare; il marchese, dopo un quarto d'ora, si alzava e se ne andava.

Ci fu quindi un'eclissi di quasi un mese, dopo il quale ricomparve; ma triste, ma malinconico, ma disfatto. La marchesa vedendolo gli disse:

- Come vi siete ridotto! Da dove uscite? Avete forse passato tutto questo tempo nel vostro piedatterra?

IL MARCHESE: Pressappoco, parola mia. Per disperazione, mi sono precipitato in uno spaventoso libertinaggio.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Come! Per disperazione?

IL MARCHESE: Sì, per disperazione...

Dopo queste parole si mise a camminare su e giù senza dir parola, andava alla finestra, guardava il cielo, si fermava davanti alla signora de La Pommeraye; andava alla porta, chiamava i suoi domestici ai quali non aveva niente da dire; li rimandava via; rientrava; tornava dalla signora de La Pommeraye, che lavorava senza guardarlo; voleva parlare, non osava; finalmente la signora de La Pommeraye ne ebbe pietà e gli disse:- Cosa avete? Si sta un mese senza vedervi; ricomparite con un viso smorto e andate su e giù come un'anima in pena.

IL MARCHESE: Non posso più resistere, bisogna che vi dica tutto. Sono stato vivamente colpito dalla figlia della vostra amica; ho fatto tutto, ma tutto, per dimenticarla; e più ho fatto, più mi sono ricordato di lei. Questa creatura angelica mi ossessiona; rendetemi un servigio importante.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Quale?

IL MARCHESE: Bisogna assolutamente che la riveda e che ne abbia obbligo a voi. Ho sguinzagliato i miei grigioni. Ogni loro venuta, ogni loro andata è da casa loro alla chiesa e dalla chiesa a casa.

Dieci volte mi sono presentato a piedi sulla loro strada; non mi hanno neppure visto; mi sono piantato inutilmente sulla loro porta. Mi hanno prima reso libertino come una scimmia, poi devoto come un angelo; non ho mancato la messa una volta, da quindici giorni. Ah! Amica mia, che viso! Com'è bella!...

La signora de La Pommeraye sapeva tutto ciò. - Vuol dire, rispose al marchese,- che dopo aver messo all'opera tutto per guarire, non avete trascurato niente per ammattire, ed è quest'ultima decisione che vi è riuscita?

IL MARCHESE: E' riuscita non saprei dirvi fino a che punto. Non avrete compassione di me e non dovrò a voi la felicità di rivederla?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: La cosa è difficile, e me ne occuperò, ma a una condizione: cioè che lascerete in pace queste sfortunate e smetterete di tormentarle. Non vi nasconderò che mi hanno scritto con amarezza della vostra persecuzione, ed ecco la loro lettera...

La lettera che si dava da leggere al marchese era stata concertata fra di loro. Era la d'Aisnon figlia che sembrava averla scritta per ordine di sua madre: e vi si era messo, di onesto, di dolce, di commovente, di eleganza e di spirito, tutto quello che poteva sconvolgere la testa del marchese. Perciò egli ne accompagnava ogni parola con una esclamazione; non una frase che non rileggesse; piangeva di gioia; diceva alla signora de La Pommeraye: - Convenite dunque, signora, che non si può scrivere meglio di così.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Ne convengo.

IL MARCHESE: E che ad ogni riga ci si sente penetrati di ammirazione e di rispetto per delle donne di un simile carattere!

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Così dovrebbe essere.

IL MARCHESE: Manterrò la parola; ma cercate, ve ne supplico, di non mancare alla vostra.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: In verità, marchese, sono pazza quanto voi. Bisogna che abbiate conservato un terribile imperio su di me; questo mi spaventa.

IL MARCHESE: Quando la rivedrò?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Non ne so nulla. Bisogna occuparsi prima di tutto del mezzo di combinare la cosa, e di evitare ogni sospetto.

Esse non possono ignorare i vostri disegni; vedete che colore avrebbe ai loro occhi la mia compiacenza, se immaginassero che agisco d'accordo con voi... Ma, marchese, fra noi, che bisogno ho io di un imbroglio simile? Che mi importa che voi amiate o che non amiate? Che facciate delle stravaganze? Dipanate voi stesso la vostra matassa. La parte che mi fate fare è anche troppo singolare.

IL MARCHESE: Amica mia, se mi abbandonate sono perduto! Non vi parlerò di me, poiché vi offenderei, ma vi scongiurerò per queste interessanti e degne creature che vi sono così care; voi mi conoscete, risparmiate loro tutte le pazzie di cui sono capace. Andrò da loro; sì, andrò, vi avverto; forzerò la loro porta; entrerò loro malgrado, mi siederò, non so quello che dirò, quello che farò; poiché che cosa non dovete temere dello stato violento in cui mi trovo?...

- Noterete, signori, - disse l'ostessa,- che dall'inizio di quest'avventura fino a questo momento, il marchese des Arcis non aveva detto una parola che non fosse una pugnalata al cuore della signora de La Pommeraye. Lei soffocava d'indignazione e di rabbia; per questo rispose al marchese con voce rotta e tremante:

- Ma avete ragione. Ah! se fossi stata amata così, forse... Lasciamo stare... Non è per voi che agirò, ma mi lusingo almeno, signor marchese, che mi darete tempo.

IL MARCHESE: Il meno, il meno che potrò.

GIACOMO: Ah! ostessa, che diavolo di donna! l'inferno non è peggiore.

Ne tremo: e bisogna che beva un bicchiere per rinfrancarmi... Mi lascerete bere da solo?

L'OSTESSA: Per me, non ho paura... La signora de La Pommeraye diceva:

- Io soffro, ma non sono sola a soffrire. Uomo crudele! ignoro quale sarà la durata del mio tormento; ma eternerò il tuo... - Essa tenne il marchese circa un mese nell'attesa dell'incontro promesso, gli lasciò, cioè, tutto il tempo di partire, di inebriarsi per bene, e con il pretesto di mitigare la lunghezza dell'indugio, gli permise di parlarle della sua passione.

IL PADRONE: E di fortificarla parlandone.

GIACOMO: Che donna! che diavolo di donna! Ostessa, il mio spavento raddoppia.

L'OSTESSA: Il marchese veniva dunque ogni giorno a discorrere con la signora de La Pommeraye, che finiva di irritarlo, di indurirlo e di perderlo con i discorsi più artificiosi. Egli si informava della patria, dell'origine, della educazione, della fortuna e del disastro di quelle donne; vi tornava sopra senza posa, non si credeva mai abbastanza informato e commosso. La marchesa gli faceva notare i progressi dei suoi sentimenti, e gliene rendeva familiare il termine con il pretesto d'ispirargliene spavento. - Marchese, gli diceva, - badate, questo vi porterà lontano; potrebbe succedere un giorno che la mia amicizia, di cui fate uno strano abuso, non mi scusasse né ai miei occhi né ai vostri. Non è che ogni giorno non si facciano più grandi follie. Marchese, temo fortemente che non otteniate questa fanciulla che a condizioni che, fin qui, non sono state di vostro gusto.

Quando la signora de La Pommeraye credette il marchese ben preparato per il successo del suo disegno, combinò con le due donne che sarebbero venute a pranzo da lei; e con il marchese che, per ingannarle, egli le avrebbe sorprese in tenuta di campagna: il che fu eseguito.

Erano alla seconda portata quando venne annunciato il marchese. Il marchese, la signora de La Pommeraye e le due d'Aisnon simularono l'imbarazzo in modo superiore.- Signora, - disse lui alla signora de La Pommeraye, - arrivo dalle mie terre; è troppo tardi per tornare a casa dove non mi aspettano che stasera, e mi sono lusingato che non mi rifiutereste il pranzo... - Così parlando, aveva preso una sedia e si era messo a tavola. Il coperto era stato disposto in modo che egli si trovasse accanto alla madre e di fronte alla figlia. Ringraziò con un ammiccare d'occhio la signora de La Pommeraye per questa delicata attenzione. Dopo il turbamento del primo istante, le nostre due devote si rassicurarono. Si chiacchierò, si fu perfino allegri. Il marchese usò la più grande attenzione per la madre, e la cortesia più riservata verso la figlia. Era un divertimento segreto, molto piacevole per queste tre donne, lo scrupolo del marchese a non dir niente, a non permettersi niente che potesse urtarle. Furono spietate al punto da farlo parlare di devozione per tre ore di seguito, e la signora de La Pommeraye gli diceva: - I vostri discorsi sono un meraviglioso elogio dei vostri genitori; le prime lezioni che se ne riceve non si cancellano mai. Capite tutte le sottigliezze dell'amore divino, come se san Francesco di Sales fosse stato il vostro solo nutrimento. Non sareste stato un po' quietista?

- Non me ne ricordo più...

E' inutile dire che le nostre devote misero nella conversazione tutto quel che possedevano di grazia, di spirito, di seduzione e di finezza.

Si sfiorò il capitolo delle passioni, e la signorina Duquenoi (era questo il suo nome di famiglia) pretese che ce n'è una sola che sia pericolosa. Il marchese fu del suo parere. Fra le sei e le sette, le due donne si ritirarono, senza che fosse possibile trattenerle; pretendendo la signora de La Pommeraye con la signora Duquenoi che bisogna di preferenza soddisfare il proprio dovere, senza di che non ci sarebbe quasi nessuna giornata la cui dolcezza non fosse alterata dal rimorso. Eccole partite con gran rammarico del marchese, e il marchese a quattr'occhi con la signora de La Pommeraye.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Ebbene! marchese, bisogna davvero che io sia buona! Trovatemi a Parigi un'altra donna che faccia altrettanto.

IL MARCHESE (gettandosi alle sue ginocchia): Ne convengo; non ce n'è una che vi somigli. La vostra bontà mi confonde: siete la sola amica vera che ci sia al mondo.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Siete proprio sicuro che stimerete sempre allo stesso modo il pregio del mio modo di procedere?

IL MARCHESE: Sarei un mostro d'ingratitudine se lo sminuissi.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Cambiamo argomento. In che stato è il vostro cuore?

IL MARCHESE: Devo confessarvelo francamente? Bisogna che abbia questa fanciulla o che soccomba.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: L'avrete senza dubbio, ma bisogna sapere in quale sede.

IL MARCHESE: Vedremo.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Marchese, marchese, vi conosco e le conosco: c'è poco da vedere.

Il marchese rimase circa due mesi senza comparire dalla signora de La Pommeraye; ed ecco ciò che fece in questo intervallo. Fece conoscenza con il confessore della madre e della figlia. Era un amico dell'abatino di cui vi ho parlato. Questo prete, dopo aver creato tutte le difficoltà ipocrite che si possono portare in un intrigo disonesto, e venduto al prezzo più caro possibile la santità del suo ministerio, si prestò a tutto quello che volle il marchese.

La prima scelleratezza dell'uomo di Dio fu di alienare la benevolenza del curato e di convincerlo che queste due protette della signora de La Pommeraye ottenevano dalla parrocchia una elemosina, di cui privavano degli indigenti degni di maggiore compassione di loro. Il suo scopo era di piegarle ai suoi disegni tramite la miseria.

Egli si adoperò quindi al tribunale della confessione per gettare la discordia tra la madre e la figlia. Quando sentiva la madre lamentarsi della figlia, aggravava i torti di questa e irritava il risentimento dell'altra. Se era la figlia a lamentarsi della madre, le insinuava che la potenza dei genitori sui figli è limitata, e che se la persecuzione di sua madre fosse spinta fino ad un certo punto, non sarebbe forse impossibile sottrarla a una autorità tirannica. Poi le dava come penitenza di tornare a confessarsi.

Un'altra volta le parlava delle sue grazie, ma abilmente: era uno dei doni più pericolosi che Dio potesse fare a una donna; dell'impressione che ne aveva provata un onest'uomo che egli non nominava, ma che non era difficile indovinare. Passava quindi alla misericordia infinita del cielo e alla sua indulgenza per dei peccati che certe circostanze rendono necessari; alla debolezza della natura, di cui ognuno trova in se stesso la scusa; alla violenza e alla generalità di certe inclinazioni, di cui gli uomini più santi non sono esenti. Le chiedeva poi se non avesse desideri, se la sua natura non le parlasse nei sogni, se non la turbasse la presenza degli uomini. In seguito, agitava la questione se una donna deve cedere o resistere a un uomo appassionato, e lasciar morire e dannare colui per cui è stato versato il sangue di Gesù Cristo; e non osava deciderla. Mandava poi profondi sospiri; alzava gli occhi al cielo, pregava per la tranquillità delle anime in pena... La fanciulla lo lasciava fare. Sua madre e la signora de La Pommeraye, alla quale riferiva fedelmente i discorsi del confessore, le suggerivano delle confidenze che tendevano tutte a incoraggiarlo.

GIACOMO: La vostra signora de La Pommeraye è una donna cattiva.

IL PADRONE: Si fa presto a dire, Giacomo. Di dove le viene la sua cattiveria? Dal marchese des Arcis. Rifallo quale aveva giurato e quale avrebbe dovuto essere, e trovami poi qualche difetto nella signora de La Pommeraye. Quando saremo in viaggio, tu la accuserai ed io mi incaricherò di difenderla. Quanto a questo prete, vile e seduttore, lo abbandono alle tue mani.

GIACOMO: E' un uomo così malvagio che, dopo questa faccenda, credo che non andrò più a confessarmi. E voi, ostessa?

L'OSTESSA: Quanto a me continuerò le visite al mio vecchio curato, che non è curioso e sente solo quello che gli si dice.

GIACOMO: Se bevessimo alla salute del vostro curato?

L'OSTESSA: Per questa volta vi darò ragione; perché è un brav'uomo che, la domenica e i giorni di festa, lascia ballare le ragazze e i ragazzi e che permette agli uomini e alle donne di venire da me, purché non escano ubriachi. Al mio curato!

GIACOMO: Al vostro curato.

L'OSTESSA: Le nostre donne non dubitavano che il sant'uomo avrebbe osato al più presto consegnare una lettera alla sua penitente: cosa che fu fatta; ma con quali riguardi! Egli non sapeva di chi fosse; non dubitava che fosse di qualche anima caritatevole e benefattrice che aveva scoperto la loro miseria, e che offriva loro dei soccorsi; egli ne consegnava spesso di simili. «Del resto, voi siete saggia, vostra madre è prudente ed esigo che non l'apriate che in sua presenza». La signorina Duquenoi accettò la lettera e la consegnò a sua madre, che la trasmise subito alla signora de La Pommeraye. Questa, munita di un tale documento, fece venire il prete, lo riempì dei rimproveri che meritava, e lo minacciò di deferirlo ai suoi superiori, se sentiva ancora parlare di lui.

In questa lettera il marchese si profondeva in elogi per la propria persona, in elogi per la signorina Duquenoi; dipingeva la sua passione violenta come era, e proponeva soluzioni estreme, perfino un rapimento.

Dopo aver fatto una sfuriata al prete, la signora de La Pommeraye fece venire il marchese da lei, gli fece presente che la sua condotta era molto poco degna di un galantuomo; fino a che punto essa poteva essere compromessa; gli mostrò la lettera e protestò che, malgrado la tenera amicizia che li univa, non poteva dispensarsi dal produrla in tribunale, o di consegnarla alla signora Duquenoi se fosse accaduta alla figlia qualche avventura sensazionale. - Ah, marchese, - gli disse,l'amore vi corrompe; siete malato, poiché colui che fa le grandi cose non ve ne ispira che di avvilenti. E che vi hanno fatto queste povere donne per aggiungere l'ignominia alla miseria? Perché questa fanciulla è bella e vuole restare virtuosa, bisogna che voi ne diventiate il persecutore? Sta a voi il farle detestare uno dei più bei doni del cielo? Per quale motivo ho io meritato, io, di essere vostra complice? Via, marchese, gettatevi ai miei piedi, chiedetemi perdono, e giurate di lasciare in pace le mie disgraziate amiche -.

Il marchese le promise di non intraprendere niente senza il suo consenso; ma che gli era necessario avere quella fanciulla ad ogni costo.

Il marchese non fu affatto fedele alla sua parola. La madre era informata: egli non esitò a rivolgersi a lei. Confessò il suo progetto criminoso; offrì una somma considerevole, delle speranze che il tempo potrebbe addurre; e la sua lettera fu accompagnata da uno scrigno di ricche gioie.

Le tre donne tennero consiglio. La madre e la figlia erano propense ad accettare; ma non era questo il disegno della signora de La Pommeraye.

Essa tornò sulla parola che le si era data; minacciò di rivelare ogni cosa; e con gran rammarico delle nostre due devote, di cui la giovane staccò dalle sue orecchie degli orecchini che le andavano così bene, lo scrigno e la lettera furono restituiti con una risposta piena di fierezza e di indignazione.

La signora de La Pommeraye si lamentò con il marchese della poca fiducia che si doveva avere nelle sue promesse. Il marchese si scusò adducendo l'impossibilità di proporle una commissione così indecente.

- Marchese, marchese, gli disse la signora de La Pommeraye, - vi ho avvertito, e ve lo ripeto: non siete al punto che vorreste; ma non è più tempo di farvi la predica, sarebbero parole perdute: non ci sono più risorse.

Il marchese confessò che la pensava come lei, e le chiese il permesso di fare un ultimo tentativo; quello di assicurare delle rendite considerevoli alle due creature; di dividere la sua fortuna con le due donne, e di renderle proprietarie a vita di una delle sue case in città, e di un'altra in campagna. Fate,- gli disse la marchesa; - non vi proibisco che la violenza; ma credete, amico mio, che l'onore e la virtù, quando questa è vera, non hanno prezzo agli occhi di quelli che hanno la fortuna di possederli. Le vostre nuove offerte non avranno esito migliore delle precedenti: conosco quelle donne e ci scommetterei.

Le nuove proposte vengono fatte. Altro conciliabolo fra le tre donne.

La madre e la figlia aspettavano in silenzio la decisione della signora de La Pommeraye. Questa andò su e giù un momento senza parlare. - No, no, - disse, - questo non basta al mio cuore esulcerato -. E subito pronunciò il rifiuto; e subito le due donne si sciolsero in lacrime, si gettarono ai suoi piedi e le fecero presente quanto fosse terribile per loro respingere una fortuna immensa, che potevano accettare senza nessuna conseguenza spiacevole. La signora de La Pommeraye rispose loro seccamente: - Vi immaginate forse che ciò che faccio lo faccio per voi? Chi siete voi? Che cosa vi devo? Che ci vorrebbe perché vi rimandassi l'una e l'altra alla vostra bisca? Se quel che vi si offre è troppo per voi, è troppo poco per me. Scrivete, signora, la risposta che vi detterò e che parta sotto i miei occhi -.

Queste donne se ne tornarono ancora più spaventate che afflitte.

GIACOMO: Questa donna ha il diavolo in corpo, e che vuole dunque?

Come! il raffreddamento d'un amore non è abbastanza punito con il sacrificio della metà di una grande fortuna?

IL PADRONE: Giacomo, tu non sei mai stato donna, ancora meno donna onesta, e giudichi secondo il tuo carattere che non è quello della signora de La Pommeraye! Vuoi che te lo dica? Ho proprio paura che il matrimonio del marchese des Arcis con una sgualdrina sia scritto lassù.

GIACOMO: Se è scritto lassù, si farà.

L'OSTESSA: Il marchese non tardò a ricomparire dalla signora de La Pommeraye. - Ebbene, - ella gli disse, - e le vostre nuove offerte?

IL MARCHESE: Fatte e respinte. Ne sono disperato. Vorrei strappare questa infelice passione dal mio cuore; vorrei strapparmi il cuore, e non potrei farlo. Marchesa, guardatemi; non trovate che ci sono fra questa fanciulla e me alcuni tratti di somiglianza?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Non ve ne avevo detto nulla, ma me ne ero accorta. Non si tratta di questo: che decidete?

IL MARCHESE: Non posso decidermi a niente. Mi prende la voglia di gettarmi in una carrozza e di correre fino all'estremo limite della terra; un momento dopo la forza mi abbandona; sono come annientato, la testa mi si confonde: divento stupido e non so che accadrà di me.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Non vi consiglio di viaggiare; non vale la pena di andare fino a Villejuif e tornare.

L'indomani il marchese scrisse alla marchesa che partiva per la sua campagna; che vi sarebbe rimasto quanto potrebbe, e che la supplicava di aiutarlo presso le sue amiche, se l'occasione se ne fosse presentata; la sua assenza fu breve: tornò con la decisione di sposare.

GIACOMO: Questo povero marchese mi fa pietà.

IL PADRONE: A me non troppo.

L'OSTESSA: Scese alla porta della signora de La Pommeraye. Lei era uscita. Al ritorno trovò il marchese steso in una poltrona, con gli occhi chiusi e assorto nei più profondi pensieri. - Ah! marchese, siete qui? La campagna non ha avuto lunghe attrattive per voi.

- No, - rispose lui, - non sto bene in nessun posto e arrivo deciso alla più alta sciocchezza che un uomo della mia condizione, della mia età e del mio carattere possa fare. Ma è meglio sposare che soffrire.

Sposo.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Marchese, la faccenda è grave e richiede riflessione.

IL MARCHESE: Non ne ho fatta che una, ma è solida: è che non potrei mai essere più infelice di quanto sono.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Potreste ingannarvi.

GIACOMO: Che traditora!

IL MARCHESE: Ecco dunque finalmente, amica mia, una negoziazione di cui posso, mi sembra, incaricarvi onestamente. Vedete la madre e la figlia; interrogate la madre, sondate il cuore della figlia, e dite loro il mio disegno.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Piano, marchese, ho creduto di conoscerle abbastanza per quello che mi bastava; ma ora si tratta della felicità del mio amico, ed egli mi permetterà di esaminare la cosa più da vicino. Mi informerò nella loro provincia, e vi prometto di seguirle passo passo per tutta la durata del loro soggiorno a Parigi.

IL MARCHESE: Queste precauzioni mi sembrano piuttosto superflue. Delle donne in miseria, che resistono all'esca che ho loro offerto, non possono essere che le più rare creature. Con le mie offerte sarei venuto a capo di una duchessa. D'altronde, non mi avete detto voi stessa...

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Sì, ho detto tutto ciò che vi piace; ma con ciò, permettetemi di sincerarmi.

GIACOMO: Che cagna! Che briccona! Che furia! E perché mai attaccarsi a una donna simile?

IL PADRONE: E perché mai sedurla e staccarsene?

L'OSTESSA: Perché smettere di amarla di punto in bianco?

GIACOMO (mostrando il cielo col dito): Ah! padrone mio.

IL MARCHESE: Perché, marchesa, non vi maritate anche voi?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Con chi, di grazia?

IL MARCHESE: Con il contino; ha talento, alto lignaggio, ricchezze.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: E chi mi risponderà della sua fedeltà? Voi forse!

IL MARCHESE: No; ma mi sembra che si faccia facilmente a meno della fedeltà di un marito.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: D'accordo; ma potrei essere abbastanza bizzarra per offendermene; e sono vendicativa.

IL MARCHESE: Ebbene! vi vendichereste, non c'è bisogno di dirlo.

Prenderemmo una casa in comune e formeremmo tutti e quattro la più piacevole compagnia.

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Tutto ciò è bellissimo; ma non mi marito.

Il solo uomo che sarei stata forse tentata di sposare...

IL MARCHESE: Sono io?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Posso confessarvelo ora senza conseguenze.

IL MARCHESE: E perché non avermelo detto?

LA SIGNORA DE LA POMMERAYE: Dati gli eventi, ho fatto bene. Quella che avrete vi conviene in ogni punto più di me.

L'OSTESSA: La signora de La Pommeraye diede alle sue informazioni tutta l'esattezza e la celerità che volle. Essa produsse le attestazioni più lusinghiere; ce n'erano di Parigi, ce n'erano della provincia. Chiese al marchese ancora una quindicina di giorni, affinché egli si esaminasse di nuovo. Questa quindicina a lui parve eterna; finalmente la marchesa fu costretta a cedere alla sua impazienza e alle sue preghiere. Il primo colloquio avviene in casa delle sue amiche; ci si accorda su tutto, si fanno le pubblicazioni; si stipula il contratto; il marchese fa dono alla signora de La Pommeraye di un superbo diamante, e il matrimonio è consumato.

GIACOMO: Che trama e che vendetta!

IL PADRONE: Essa è incomprensibile.

GIACOMO: Liberatemi dal pensiero della prima notte di nozze, e fin qui non ci vedo un gran male.

IL PADRONE: Taci, sciocco.

L'OSTESSA: La notte di nozze andò benissimo.

GIACOMO: Credevo...

L'OSTESSA: Credete quello che il vostro padrone vi ha detto or ora...

- E così parlando essa sorrideva, e sorridendo passava la mano sul viso di Giacomo e gli stringeva il naso... Ma fu l'indomani...

GIACOMO: L'indomani, non fu come la sera prima?

L'OSTESSA: Non del tutto. L'indomani, la signora de La Pommeraye scrisse al marchese un biglietto invitandolo a recarsi da lei al più presto, per un affare importante. Il marchese non si fece attendere.

Lo si ricevette con un viso in cui l'indignazione si dipingeva in tutta la sua forza; il discorso che gli fu tenuto non fu lungo; eccolo: - Marchese, - essa gli disse, - imparate a conoscermi. Se le altre donne si stimassero abbastanza per provare il mio stesso risentimento, i vostri simili sarebbero meno comuni. Avevate ottenuto una donna onesta che non avete saputo conservare; questa donna sono io; essa ora si è vendicata facendovene sposare una degna di voi.

Uscite di casa mia e andate in via Traversière, a palazzo di Hambourg, dove vi si spiegherà che sporco mestiere vostra moglie e vostra suocera hanno esercitato per dieci anni, sotto il nome di d'Aisnon.

La sorpresa e la costernazione di quel povero marchese non si possono descrivere. Non sapeva che cosa pensare; ma la sua incertezza non durò che il tempo di andare da una parte all'altra della città. Non tornò a casa per tutto il giorno; vagò per le vie. Sua suocera e sua moglie ebbero qualche sospetto di quello che era successo. Al primo colpo del battente, la suocera si rifugiò nel suo appartamento e vi si rinchiuse a chiave; sua moglie lo aspettò da sola. All'avvicinarsi del suo sposo essa gli lesse in viso il furore che lo possedeva. Si gettò ai suoi piedi, con il viso contro il pavimento, senza dire una parola. - Ritiratevi, infame, - le disse lui, - lontano da me... - Essa volle alzarsi: ma ricadde con il viso a terra, le braccia stese fra i piedi del marchese. - Signore, - gli disse, - calpestatemi, schiacciatemi, poiché l'ho meritato; fate di me tutto ciò che vi piacerà; ma risparmiate mia madre...

- Andatevene, - replicò il marchese, - andate via! Basta l'infamia di cui m'avete ricoperto; risparmiatemi un delitto...

La povera creatura rimase nell'atteggiamento in cui si trovava e non gli rispose niente. Il marchese era seduto in una poltrona, la testa fra le braccia, e il corpo piegato a metà sui piedi del letto, urlando a intervalli, senza guardarla:- Andate via!Il silenzio e l'immobilità dell'infelice lo sorpresero; le ripeté con voce ancora più forte: - Andatevene, non mi sentite?... Quindi egli si chinò, la spinse duramente e accorgendosi che era priva di sensi e quasi priva di vita, la prese per i fianchi, la stese su un canapè, posò per un momento su di lei degli sguardi in cui si dipingevano alternamente la commiserazione e il corruccio. Suonò: dei domestici entrarono; si chiamarono le cameriere, alle quali egli disse: - Prendete la vostra padrona che si sente male; portatela nei suoi appartamenti e soccorretela... - Pochi istanti dopo mandò segretamente a chiedere sue notizie. Gli si disse che era tornata in sé dal primo svenimento; ma che, succedendosi rapidamente le crisi di deliquio, queste diventavano così lunghe e frequenti che non si poteva rispondergli di niente. Una o due ore dopo egli mandò di nuovo segretamente a chiedere del suo stato. Gli si disse che soffocava e che era stata colta da una specie di singhiozzo che si sentiva fino nel cortile. La terza volta, verso il mattino, gli si riferì che aveva pianto molto, che il singhiozzo si era calmato e che sembrava assopirsi.

L'indomani, il marchese fece attaccare i cavalli alla sua carrozza, e scomparve per quindici giorni, senza che si sapesse che cosa fosse accaduto di lui. Tuttavia, prima di allontanarsi, aveva provveduto a tutto ciò che era necessario alla madre e alla figlia, con l'ordine di ubbidire alla signora come a lui stesso.

Durante quest'intervallo, le due donne rimasero l'una di fronte all'altra, senza quasi parlarsi, mentre la figlia singhiozzava, gettava di tanto in tanto delle grida, si strappava i capelli, si torceva le braccia, senza che la madre osasse avvicinarsele per consolarla. L'una mostrava il viso della disperazione, l'altra quello della durezza. La figlia disse venti volte alla madre:- Mamma, andiamo via di qui; fuggiamo -. Altrettante volte la madre si oppose, e le rispose: - No, figlia mia, bisogna restare; vedremo ciò che accadrà: quest'uomo non ci ucciderà... - Eh! piacesse a Dio che l'avesse già fatto! ... rispondeva la figlia. Sua madre le replicava:

- Fareste meglio a tacere, piuttosto che parlare come una sciocca.

Al suo ritorno, il marchese si rinchiuse nel suo gabinetto e scrisse due lettere, una a sua moglie, l'altra a sua suocera. Questa partì il giorno stesso e si recò al convento delle Carmelitane nella città vicina, dov'è morta da qualche giorno. Sua figlia si vestì e si trascinò nell'appartamento di suo marito, dove evidentemente egli le aveva ordinato di venire. Appena sulla soglia, si gettò alle sue ginocchia. - Alzatevi, le disse il marchese.

Anziché alzarsi, avanzò verso di lui sulle ginocchia; tremava in tutte le membra: era scapigliata; il corpo un po' curvo, le braccia protese verso di lui, il capo rialzato, gli occhi fissi negli occhi di lui, e il viso inondato di lacrime. Mi sembra,gli disse, mentre un singhiozzo seguiva a ogni parola, - che il vostro cuore giustamente irritato si è raddolcito e che forse, con il tempo, otterrò misericordia. Signore, di grazia, non affrettatevi a perdonarmi. Tante fanciulle oneste sono diventate donne disoneste, che forse sarò io un esempio del contrario. Non sono ancor degna che vi riavviciniate a me; aspettate, lasciatemi solo la speranza del perdono. Tenetemi lontana da voi; vedrete la mia condotta; la giudicherete: felice, mille volte troppo felice, se vi degnate di chiamarmi qualche volta! Mostratemi l'angolo più oscuro della vostra casa, in cui permettete che io abiti; vi resterò senza mormorare. Ah! se potessi strapparmi il nome e il titolo che mi hanno fatto usurpare, e dopo morire, sareste soddisfatto all'istante! Mi sono lasciata guidare per debolezza, per seduzione, per autorità, per minacce, a un'azione infame; ma non crediate, signore, che io sia cattiva: non lo sono perché non ho esitato a comparire davanti a voi quando mi avete chiamata e oso ora alzare gli occhi su di voi e parlarvi. Ah! se poteste leggere in fondo al mio cuore e vedere quanto le mie colpe passate sono lontane da me; quanto i costumi delle mie simili mi sono estranei! La corruzione si è posata su di me; ma essa non vi si è attaccata. Mi conosco ed è una giustizia che mi rendo, sapere che per i miei gusti, per i miei sentimenti, per il mio carattere, ero nata degna dell'onore di appartenervi. Ah! se mi fosse stato dato vedervi liberamente, non avrei avuto che una parola da dire, e credo che ne avrei avuto il coraggio. Signore, disponete di me come vi piacerà; fate entrare i vostri domestici; mi spoglino, mi gettino sulla strada di notte: sottoscrivo tutto. Qualunque sia la sorte che mi preparate, mi ci sottometto: il fondo di una campagna, l'oscurità di un chiostro può sottrarmi per sempre ai vostri occhi:

parlate e ci vado. La vostra felicità non è irrimediabilmente perduta, e potete dimenticarmi...

- Alzatevi, - le disse con dolcezza il marchese; - vi ho perdonato:

nel momento stesso dell'ingiuria ho rispettato in voi mia moglie; non è uscita dalla mia bocca una parola che l'abbia umiliata, o almeno me ne pento, e protesto che essa non ne sentirà più nessuna che l'umilii, se si ricorderà che non si può rendere infelice il proprio sposo senza diventarlo. Siate onesta, siate felice, e fate che io lo sia.

Alzatevi, ve ne prego, moglie mia, alzatevi e abbracciatemi; marchesa, alzatevi, non siete al vostro posto; signora des Arcis, alzatevi...

Mentre parlava così, lei era rimasta con il viso nascosto fra le mani e la testa appoggiata sulle ginocchia del marchese; ma alle parole "moglie mia", alle parole "signora des Arcis", lei si alzò bruscamente e si precipitò verso il marchese, lo teneva abbracciato, mezzo soffocata dal dolore e dalla gioia; poi si separava da lui, si buttava per terra e gli baciava i piedi.

- Ah, - le diceva il marchese, - vi ho perdonato, ve l'ho detto, e vedo che non ci credete.

- Bisogna che questo sia e che io non lo creda mai,- lei gli rispondeva.

Il marchese aggiungeva: - In verità, credo che non mi pento di niente e che quella Pommeraye, anziché vendicarsi, mi avrà reso un gran favore. Moglie mia, andate a vestirvi, mentre si occuperanno di fare i vostri bagagli. Partiamo per le mie terre, dove resteremo fino a quando potremo ricomparire qui senza conseguenze per voi e per me...

Essi passarono circa tre anni di seguito assenti dalla capitale.

GIACOMO: E scommetterei bene che questi tre anni passarono come un solo giorno, e che il marchese des Arcis fu uno dei migliori mariti ed ebbe una delle migliori mogli che ci siano mai state al mondo.

IL PADRONE: Mi associo alla scommessa; ma in verità non so perché, visto che non sono stato affatto soddisfatto di questa ragazza durante tutto il corso degli intrighi della signora de La Pommeraye e di sua madre. Non un momento di timore, non il minimo segno d'incertezza, non un rimorso; l'ho vista prestarsi, senza nessuna ripugnanza, a questa lunga serie di orrori. Tutto quello che si è voluto da lei, lei non ha mai esitato a farlo; va a confessarsi; si comunica, si burla della religione e dei suoi ministri. Mi è sembrata falsa, spregevole, cattiva quanto le altre due... Ostessa, voi raccontate abbastanza bene; ma non siete ancora profonda nell'arte drammatica. Se volevate che questa fanciulla interessasse, bisognava darle della franchezza, e mostrarcela vittima innocente e costretta da sua madre e dalla Pommeraye, bisognava che il trattamento più crudele la trascinasse, malgrado la sua franchezza, a concorrere a una serie di furfanterie continue durante un anno; bisognava preparare così la riconciliazione di questa donna con suo marito. Quando si introduce un personaggio sulla scena, bisogna che la sua parte sia una: ora io vi chiederò, nostra incantevole ostessa, se la fanciulla che complotta con due scellerate è veramente la moglie supplichevole che abbiamo vista ai piedi di suo marito. Avete peccato contro le regole di Aristotele, di Orazio, di Vida e di Le Bossu, detto il gobbo.

L'OSTESSA: Non conosco né gobbo né dritto; vi ho raccontato la cosa com'è successa, senza omettere niente, senza niente aggiungervi. E chi sa quello che accadeva in fondo al cuore di quella fanciulla e se, nei momenti in cui essa ci sembrava agire il più disinvoltamente possibile, non era segretamente divorata dalla pena?

GIACOMO: Ostessa, per questa volta bisogna che io sia del parere del mio padrone che me lo perdonerà, poiché questo mi succede così raramente; del suo gobbo che non conosco; e di quegli altri signori che ha citati e che non conosco lo stesso. Se la signorina Duquenoi, già d'Aisnon, fosse stata una brava ragazza, si sarebbe visto.

L'OSTESSA: Brava ragazza o no, tant'è che è una moglie eccellente; che con lei suo marito è contento come un re e non la cambierebbe con nessun'altra.

IL PADRONE: Mi congratulo con lui: è stato più fortunato che saggio.

L'OSTESSA: E io vi auguro una buona notte. E' tardi, e bisogna che io sia l'ultima a coricarmi e la prima ad alzarmi. Che maledetto mestiere. Buona sera, signori, buona sera. Vi avevo promesso, non so più a che proposito, la storia di uno strambo matrimonio: e credo di aver mantenuto la parola. Signor Giacomo, credo che non avrete difficoltà ad addormentarvi, poiché i vostri occhi sono chiusi più che a metà. Buona sera, signor Giacomo.

IL PADRONE: Ebbene, ostessa, non c'è dunque modo di sapere le vostre avventure?

L'OSTESSA: No.

GIACOMO: Avete un gusto spiccato per i racconti!

IL PADRONE: E' vero; mi istruiscono e mi divertono. Un buon narratore è un uomo raro.

GIACOMO: Ed ecco precisamente perché i racconti non mi piacciono, a meno che non li faccia io stesso.

IL PADRONE: Preferisci parlare male piuttosto che tacere.

GIACOMO: E' vero.

IL PADRONE: E io preferisco sentire parlar male, piuttosto che non sentire nulla.

GIACOMO: Il che ci soddisfa pienamente tutti e due.

Non so che cosa l'ostessa, Giacomo e il suo padrone avessero fatto del loro ingegno, per non aver trovato una sola delle cose che c'erano da dire a favore della signorina Duquenoi. Questa fanciulla capì forse qualcosa negli artifici della signora de La Pommeraye, prima della soluzione? Non avrebbe forse preferito accettare le offerte piuttosto che la mano del marchese, e averlo per amante piuttosto che per marito? Non era forse continuamente sotto le minacce e il dispotismo della marchesa? La si può biasimare per la sua terribile avversione verso una professione infame? e se si decide di stimarla di più, si può esigere da lei molta delicatezza, molto scrupolo nella scelta dei mezzi per uscirne?

E tu credi, lettore, che l'apologia della signora de La Pommeraye sia più difficile da fare? Ti sarebbe stato forse più piacevole sentire su quest'argomento Giacomo e il suo padrone? Ma essi avevano da parlare di tante altre cose più interessanti, che verosimilmente avrebbero trascurato questa qui. Permettimi dunque di occuparmene un momento.

Tu diventi furibondo al nome della signora de La Pommeraye, ed esclami:- Ah! che donna orribile! ah che ipocrita! ah che scellerata!...- Niente esclamazioni, niente cruccio, niente parzialità: ragioniamo. Si fanno ogni giorno azioni più nere, senza nessun talento. Puoi odiare; puoi temere la signora de La Pommeraye; ma non puoi disprezzarla. La sua vendetta è atroce: ma non è macchiata da nessun motivo d'interesse. Non ti è stato detto che aveva gettato in faccia al marchese il bel diamante di cui egli le aveva fatto dono; ma essa lo fece: lo so dalla fonte più sicura. Non si tratta né di accrescere la sua fortuna, né di acquistare qualche titolo onorifico.

E che! se questa donna avesse fatto tanto, per ottenere a un marito la ricompensa dei suoi servigi; se si fosse prostituita a un ministro o anche a un primo commesso, per un'onorificenza o per il comando di una prima compagnia: al depositario della lista dei Benefici, per una ricca abbazia, questo ti sembrerebbe semplicissimo, e la consuetudine ti darebbe ragione: e quando essa si vendica di una perfidia, ti rivolti contro di lei anziché vedere che il suo risentimento ti indigna solo perché tu sei incapace di provarne uno così profondo, o per il fatto che non fai quasi nessuna attenzione alla virtù delle donne. Hai riflettuto un po' sui sacrifici che la signora de La Pommeraye aveva fatto per il marchese? Non ti dirò che la sua borsa gli era stata aperta, in ogni occasione, e che durante parecchi anni egli non aveva avuto altra casa, altra tavola se non quella di lei:

questo ti farebbe scuotere il capo, ma essa si era sottomessa a tutte le sue fantasie, a tutti i suoi gusti; per piacergli aveva capovolto il piano della sua vita. Godeva della più alta considerazione in società, per l'illibatezza dei suoi costumi: e si era abbassata sulla linea comune. Si disse di lei, quando ebbe accettato l'omaggio del marchese des Arcis: finalmente questa meravigliosa signora de La Pommeraye è diventata come una di noi... Essa aveva notato intorno a sé i sorrisi ironici; aveva sentito i frizzi, e spesso ne aveva arrossito e abbassato gli occhi; aveva trangugiato tutto il calice dell'amarezza preparato alle donne la cui condotta regolata ha fatto troppo a lungo la satira dei cattivi costumi di quelle che le circondano; aveva sopportato tutte le chiacchiere scandalose, con cui ci si vendica delle imprudenti virtuose che si ammantano di onestà.

Era orgogliosa e sarebbe morta di dolore piuttosto che portare in giro, dopo la vergogna della virtù perduta, il ridicolo di una donna abbandonata. Era arrivata al punto in cui la perdita di un amante non si ripara più. Il suo carattere era tale che quest'evento la condannava alla noia e alla solitudine. Un uomo ne pugnala un altro per un gesto, per una smentita; e non sarà permesso a una donna onesta che si è perduta, disonorata, tradita, di buttare il traditore fra le braccia di una cortigiana? Ah! lettore, sei ben leggero nei tuoi elogi, e ben severo nei tuoi biasimi. Ma, mi dirai, è il modo piuttosto che la cosa, che rimprovero alla marchesa. Non posso abituarmi a un risentimento di così lunga durata; a una trama di furberie, di menzogne, che dura quasi un anno. Neppure io, né Giacomo, né il suo padrone, né l'ostessa. Ma tu perdoni tutto a un impulso; e io ti dirò che, se l'impulso degli altri è corto, quello della signora de La Pommeraye e delle donne del suo carattere è lungo. La loro anima resta a volte per tutta la vita come al primo momento dell'ingiuria; e quale inconveniente, quale ingiustizia c'è in questo? Io non ci vedo che tradimenti meno comuni; e approverei molto una legge che condannasse alle cortigiane colui che avesse sedotto e abbandonato una donna onesta; l'uomo comune alle donne comuni.

Mentre io disserto, il padrone di Giacomo russa come se mi avesse ascoltato; e Giacomo, al quale i muscoli delle gambe rifiutavano di servirlo, gironzola per la stanza, in camicia e scalzo, rovescia tutto quello che incontra e sveglia il padrone che gli dice di fra le cortine: - Giacomo, sei ubriaco.

- Poco ci manca.

- A che ora hai deciso di coricarti?

- Fra un momento, signore; è che c'è... è che c'è...

- Che c'è?

- In questa bottiglia un resto che si guasterebbe. Ho orrore delle bottiglie semivuote; mi tornerebbe in mente quando sarei coricato; e non ci vorrebbe di più per impedirmi di chiudere occhio. Parola mia, la nostra ostessa è una donna eccellente e il suo "Champagne" è un vino eccellente; sarebbe peccato lasciarlo svaporare... Eccolo subito al coperto... così non si guasterà più.

E così biascicando, Giacomo scalzo e in camicia aveva vuotato d'un fiato due o tre bicchieri colmi, senza punteggiatura, come diceva lui, cioè dalla bottiglia al bicchiere, dal bicchiere alla bocca. Ci sono due versioni su quello che seguì dopo che ebbe spento le luci. Gli uni pretendono che si mise ad andare tastoni lungo i muri senza riuscire a ritrovare il letto, e che diceva: «In fede mia, non c'è più, o se c'è, è scritto lassù che non lo ritroverò; nell'uno e nell'altro caso, bisogna farne a meno»; e che si decise a sdraiarsi su delle sedie. Gli altri, che era scritto lassù che s'impiglierebbe i piedi fra le sedie, sarebbe caduto sul pavimento e vi sarebbe rimasto. Di queste due versioni, domani, dopodomani, a testa riposata sceglierete quella che meglio vorrete.

I nostri due viaggiatori, che si erano coricati tardi, con la testa un po' calda di vino, dormirono fino a tardi; Giacomo per terra o sulle sedie; secondo la versione che avrete preferito; il suo padrone più comodamente nel letto. L'ostessa salì e annunciò loro che la giornata non sarebbe stata bella; ma che, quand'anche il tempo permettesse loro di continuare il viaggio, avrebbero messo a repentaglio la loro vita o sarebbero stati fermati dalla piena delle acque del fiumicello che avrebbero dovuto attraversare; e che parecchi cavalieri, che non avevano voluto crederlo, erano stati costretti a tornare sui loro passi. Il padrone disse a Giacomo:- Giacomo, cosa faremo? - Giacomo rispose:- Faremo anzitutto colazione con la nostra ostessa: il che ci porterà consiglio -. L'ostessa giurò che il pensiero era saggio.

Si servì da mangiare. L'ostessa non chiedeva di meglio che di essere allegra; il padrone di Giacomo vi si sarebbe prestato; ma Giacomo cominciava a sentirsi male; mangiò di mala voglia, bevve poco, tacque.

Quest'ultimo sintomo soprattutto dava da pensare; era la conseguenza della cattiva notte passata e del cattivo letto che aveva avuto. Si lamentava di dolori nelle membra, la sua voce rauca annunciava un mal di gola. Il suo padrone gli consigliò di coricarsi: egli non volle farlo. L'ostessa gli proponeva una zuppa di cipolle. Egli chiese che accendesse il fuoco nella camera, poiché aveva dei brividi; che gli si preparasse della tisana e gli si portasse una bottiglia di vin bianco:

questo che fu subito fatto. Ecco uscita l'ostessa e Giacomo a quattr'occhi col suo padrone. Questi andava alla finestra diceva: «Che diavolo di tempo!», guardava al suo orologio (poiché era il solo in cui avesse fiducia) che ora fosse, prendeva un pizzico di tabacco, ricominciava la stessa cosa di ora in ora, esclamando ogni volta: «Che diavolo di tempo!», girandosi verso Giacomo e aggiungendo: - Che bell'occasione per riprendere e finire la storia dei tuoi amori! Ma si parla male d'amore e d'ogni altra cosa quando si è sofferenti. Vedi un po', saggia te stesso, se puoi continuare, continua; se no, bevi la tisana e dormi.

Giacomo affermò che il silenzio gli faceva male; che lui era un animale ciarliero; e che il principale vantaggio della sua condizione, quello che apprezzava di più, era la libertà di rifarsi dei dodici anni di bavaglio passati con suo nonno che Dio abbia in misericordia.

IL PADRONE: Parla dunque, visto che fa piacere a tutti e due. Eri arrivato a non so quale proposta disonesta della moglie del chirurgo; si trattava, credo, di espellere quello che serviva al castello e di metterci suo marito.

GIACOMO: Ci sono; ma un momento, per favore. Annaffiamo.

Giacomo riempì un gran bicchiere di tisana, vi versò un po' di vino bianco e la trangugiò. Era una ricetta che aveva avuta dal suo capitano e che il signor Tissot, che l'aveva ricevuta da Giacomo, raccomanda nel suo trattato sulle malattie popolari. Il vino bianco, dicevano Giacomo e il signor Tissot, fa orinare, è diuretico, corregge l'insipidezza della tisana e tonifica lo stomaco e gli intestini.

Bevuto il bicchiere di tisana, Giacomo continuò:

- Eccomi uscito dalla casa del chirurgo, salito in carrozza, arrivato al castello e circondato da tutti quelli che lo abitavano.

IL PADRONE: Vi eri forse conosciuto?

GIACOMO: Sicuro! Vi ricordate di una certa donna dalla brocca d'olio?

IL PADRONE: Benissimo.

GIACOMO: Quella donna faceva le commissioni per l'intendente e per i domestici. Jeanne aveva glorificato al castello l'atto di commiserazione che avevo esercitato verso di lei; la mia opera buona era arrivata alle orecchie del padrone: non gli si erano lasciate ignorare le pedate e i pugni con cui era stata ricompensata, la notte, sulla strada maestra. Egli aveva ordinato che mi si cercasse e mi si trasportasse da lui. Eccomici. Mi si guarda, mi si interroga, mi si ammira. Jeanne mi abbracciava e mi ringraziava. - Sia alloggiato comodamente, diceva il padrone ai domestici, e non lo si lasci mancare di niente-; al chirurgo di casa:- Lo visiterete assiduamente... - Tutto fu eseguito a puntino. Ebbene, padrone mio, chi sa quello che è scritto lassù? Si dica ora che è bene o male dare il proprio danaro; che è una disgrazia essere accoppato... Senza questi due eventi, il signor Desglands non avrebbe mai sentito parlare di Giacomo.

IL PADRONE: Desglands, signore di Miremont! E' al castello di Miremont che ti trovi? dal mio vecchio amico, il padre del signor Desforges, l'intendente della provincia?

GIACOMO: Proprio. E la brunetta dalla vita snella, dagli occhi neri...

IL PADRONE: E' Denise, la figlia di Jeanne?

GIACOMO: Lei stessa.

IL PADRONE: Hai ragione, è una delle creature più belle e più oneste che ci siano per venti leghe intorno. Io e la maggior parte di quelli che frequentavano il castello di Desglands avevamo tutto messo in opera inutilmente per sedurla; e non c'era uno di noi che non avrebbe fatto grandi sciocchezze per lei, a condizione che lei ne facesse una piccola per lui.

Giacomo avendo qui smesso di parlare, il suo padrone gli disse: - A che pensi? Che fai?

GIACOMO: Dico la mia preghiera.

IL PADRONE: Tu preghi?

GIACOMO: Qualche volta.

IL PADRONE: E che dici?

GIACOMO: Dico: «Tu che hai scritto il grande rotolo, chiunque tu sia, e il cui dito ha tracciato tutto quanto è scritto lassù, tu hai saputo in tutti i tempi ciò che mi serviva; sia fatta la tua volontà. Amen».

IL PADRONE: Non faresti ugualmente bene se tacessi?

GIACOMO: Forse che sì, forse che no. Prego per ogni evenienza; e, qualsiasi cosa mi succeda, non me ne rallegrerei né me ne lamenterei, se fossi padrone di me; ma sono inconseguente e violento, dimentico i miei principi o le lezioni del mio capitano, e rido e piango come uno sciocco.

IL PADRONE: Il tuo capitano non piangeva, non rideva mai?

GIACOMO: Raramente... Una mattina Jeanne portò da me sua figlia; e rivolgendosi dapprima a me, mi disse: - Signore, eccovi in un bel castello, dove starete un po' meglio che dal vostro chirurgo.

All'inizio soprattutto, oh! sarete curato in modo incantevole; ma conosco i domestici, da troppo tempo io stessa lo sono; a poco a poco il loro zelo si raffredderà. I padroni non penseranno più a voi; e se la vostra malattia dura molto, sarete dimenticato, ma tanto bene dimenticato, che se vi saltasse il ticchio di morire di fame, questo vi riuscirebbe... - Poi, rivolgendosi verso sua figlia: - Ascolta, Denise, - le disse, - voglio che visiti questo brav'uomo quattro volte al giorno: la mattina, all'ora di pranzo, verso le cinque e all'ora di cena. Voglio che tu gli ubbidisca come a me. E' detto, e non mancare di farlo.

IL PADRONE: Sai che cosa è successo a quel povero Desglands?

GIACOMO: No, signore; ma se i voti che ho fatti per la sua prosperità non si sono adempiuti, non è perché non fossero sinceri. E' lui che mi diede al commendatore de La Boulaye, che morì passando a Malta; fu il commendatore de La Boulaye che mi diede al suo fratello maggiore, il capitano, che è forse morto adesso della fistola; fu questo capitano che mi diede al suo fratello minore, avvocato generale di Tolosa, che divenne pazzo, e che la famiglia fece mettere in manicomio. Fu il signor Pascal, avvocato generale di Tolosa, che mi diede al conte de Tourville, che preferì lasciarsi crescere la barba sotto una tonaca di cappuccino piuttosto che esporre la sua vita; fu il conte de Tourville che mi diede alla marchesa du Belloy, che è fuggita a Londra con uno straniero; fu la marchesa du Belloy che mi diede a uno dei suoi cugini, che si è rovinato con le donne ed è andato alle isole; fu questo cugino che mi raccomandò a un certo signor Hérissant, usuraio di professione, che gestiva il danaro del signor de Rusai, dottore della Sorbona, che mi fece entrare dalla signorina Isselin, da voi mantenuta, che mi piazzò presso di voi, a cui dovrò un tozzo di pane nella mia vecchiaia, poiché me l'avete promesso, se vi resto attaccato: e non c'è indizio che ci separiamo. Giacomo è stato fatto per voi, e voi foste fatto per Giacomo.

IL PADRONE: Ma, Giacomo, hai girato per tante case in un tempo piuttosto breve.

GIACOMO: E' vero, qualche volta sono stato mandato via.

IL PADRONE: Perché?

GIACOMO: Perché sono nato chiacchierone, e tutta questa gente voleva che si tacesse. Non era come voi, che mi dareste domani il benservito se tacessi. Avevo proprio il vizio che vi conviene. Ma cosa è dunque accaduto al signor Desglands? Ditemelo, mentre mi preparo un bicchiere di tisana.

IL PADRONE: Hai dimorato nel suo castello e non hai mai sentito parlare del suo impiastro?

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Quest'avventura sarà per il viaggio; l'altra è corta. Egli aveva fatto la sua fortuna al gioco. Si legò a una donna, che avrai potuto vedere nel suo castello, donna di talento, ma seria, taciturna, originale e dura. Questa donna gli disse un giorno: - O voi mi preferite al gioco, e in questo caso datemi la vostra parola d'onore che non giocherete mai più; o preferite il gioco, e in questo caso non mi parlate più della vostra passione, e giocate quanto vi piace... - Desglands diede la sua parola d'onore, che non giocherebbe più. - Né grosso, né piccolo gioco? - Né grosso, né piccolo. Erano circa dieci anni che vivevano insieme nel castello che conosci, quando Desglands, chiamato in città per un affare d'interesse, ebbe la disgrazia di incontrare dal notaio una delle sue antiche conoscenze di gioco, che lo trascinò a cena in una bisca, dove perdette in una sola seduta tutto quello che possedeva. La sua amante fu inflessibile; essa era ricca; costituì a Desglands una modica pensione e si separò da lui per sempre.

GIACOMO: Ne sono spiacente, era un galantuomo.

IL PADRONE: Come va la gola?

GIACOMO: Male.

IL PADRONE: E' che parli troppo, e non bevi abbastanza.

GIACOMO: E' che non mi piace la tisana, e mi piace parlare.

IL PADRONE: Ebbene! Giacomo, eccoti da Desglands, vicino a Denise, ed ecco Denise autorizzata da sua madre a farti almeno quattro visite al giorno. Briccona! Preferire un Giacomo!

GIACOMO: Un Giacomo! un Giacomo, signore, è un uomo come un altro.

IL PADRONE: Giacomo, t'inganni, un Giacomo non è affatto un uomo come un altro.

GIACOMO: E' a volte meglio di un altro.

IL PADRONE: Giacomo, dimentichi te stesso. Riprendi la storia dei tuoi amori, e ricordati che non sei e non sarai mai altro che un Giacomo.

GIACOMO: Se, nella capanna dove trovammo quei birbanti, Giacomo non fosse valso un po' più del suo padrone...

IL PADRONE: Giacomo, sei un insolente; abusi della mia bontà. Se ho avuto la stoltezza di tirarti fuori dal tuo posto, saprò bene rimettertici. Giacomo, prendi la bottiglia e la cuccuma, e scendi giù.

GIACOMO: Vi piace dirlo, signore; io mi trovo bene qui, e non scenderò giù.

IL PADRONE: Ti dico che scenderai.

GIACOMO: Sono sicuro che non dite il vero. Come, signore, dopo avermi abituato per dieci anni a vivere da pari e amico...

IL PADRONE: Mi piace che ciò finisca.

GIACOMO: Dopo aver sofferto tutte le mie impertinenze...

IL PADRONE: Non voglio più soffrirne.

GIACOMO: Dopo avermi fatto sedere a tavola accanto a voi, avermi chiamato vostro amico...

IL PADRONE: Tu non sai che cos'è il nome di amico dato da un superiore al suo subalterno.

GIACOMO: Quando si sa che tutti i vostri ordini non valgono un fico secco, se non sono stati ratificati da Giacomo; dopo aver accoppiato il vostro nome al mio così bene, che l'uno non va mai senza l'altro, e che tutti dicono Giacomo e il suo padrone, di colpo vi piacerà separarli! No, signore, non sarà mai. E' scritto lassù che finché Giacomo vivrà, finché il suo padrone vivrà, e anche dopo che saranno morti tutti e due, si dirà: Giacomo e il suo padrone.

IL PADRONE: E io dico, Giacomo, che tu scenderai, e che scenderai subito, perché te lo ordino io.

GIACOMO: Signore, ordinatemi tutt'altra cosa, se volete che vi obbedisca.

Qui, il padrone di Giacomo si alzò, lo prese per il bavero, e gli disse gravemente: - Scendi.

Giacomo gli rispose freddamente:

- Non scendo.

Il padrone scuotendolo forte, gli disse:

- Scendi, gaglioffo! Ubbidiscimi.

Giacomo gli replicò di nuovo freddamente:

- Gaglioffo, quanto vi piace; ma il gaglioffo non scenderà. Vedete, signore, quello che ho in testa, come si dice, non ce l'ho sotto i piedi. Vi riscaldate inutilmente, Giacomo resterà dov'è, e non scenderà.

E poi, Giacomo e il suo padrone, dopo essersi contenuti fino a questo momento, vanno fuori dai gangheri entrambi nello stesso tempo, e si mettono a gridare a squarciagola:

- Scenderai.

- Non scenderò.

- Scenderai.

- Non scenderò.

A questo chiasso, l'ostessa salì e chiese cosa succedesse; ma non fu subito che le si rispose; si continuò a gridare: Scenderai. - Non scenderò -. Poi il padrone, con il cuore gonfio, camminando per la stanza, diceva bofonchiando: - Si è mai visto niente di simile? - L'ostessa stupefatta e in piedi: - Ebbene! signori, di che si tratta?

Giacomo, senza commuoversi, all'ostessa: - E' il mio padrone, a cui dà di volta il cervello; è matto.

IL PADRONE: E' una bestia, vuoi dire.

GIACOMO: Come vi piace.

IL PADRONE (all'ostessa): Lo avete sentito?

L'OSTESSA: Ha torto; ma, calma, calma; parlate o l'uno o l'altro, e che io sappia di che si tratta.

IL PADRONE (a Giacomo): Parla, gaglioffo.

GIACOMO (al suo padrone): Parlate voi piuttosto.

L'OSTESSA (a Giacomo): Via, signor Giacomo, parlate, il vostro padrone ve lo ordina; dopo tutto, un padrone è un padrone...

Giacomo spiegò la cosa all'ostessa. L'ostessa, dopo aver ascoltato, disse loro: - Signori, volete accettarmi come arbitro?

GIACOMO e il PADRONE (insieme): Molto volentieri, molto volentieri, nostra ostessa.

L'OSTESSA: E vi impegnate sull'onore a eseguire la mia sentenza?

GIACOMO e il PADRONE: Sull'onore, sull'onore...

Allora l'ostessa, sedendosi sulla tavola, e prendendo il tono e l'atteggiamento grave di un magistrato, disse:

- Sentita la dichiarazione del signor Giacomo, e dati i fatti che tendono a provare che il suo padrone è un buono, un buonissimo, un troppo buon padrone; e che Giacomo non è affatto un cattivo servitore, sebbene un po' soggetto a confondere il possesso assoluto e inamovibile con la concessione passeggera e gratuita, annullo l'uguaglianza che si è stabilita fra loro per una certa durata, e la ricreo istantaneamente. Giacomo scenderà, e quando sarà sceso, risalirà: egli rientrerà in tutte le prerogative di cui ha goduto fino a questo giorno. Il suo padrone gli tenderà la mano e gli dirà amichevolmente: «Buon giorno, Giacomo, sono ben lieto di rivederti...» Giacomo gli risponderà: «Ed io, signore, sono contentissimo di ritrovarvi...» E faccio divieto che sia mai questione fra loro di questa faccenda, e che la prerogativa di padrone e di servitore sia messa in questione per l'avvenire. Vogliamo che l'uno ordini e che l'altro obbedisca, ciascuno facendo del suo meglio; e che sia lasciata, fra ciò che l'uno può e ciò che l'altro deve, la stessa oscurità di prima.

Finendo questo testo, che essa aveva preso in qualche opera del tempo, pubblicata in occasione di una lite in tutto simile, e in cui si era sentito, da un estremo all'altro del regno, il padrone gridare al suo servitore: «Scenderai!» e il servitore gridare dal canto suo: «Non scenderò!»:- Via, - disse a Giacomo, - voi, datemi il braccio senza parlamentare più oltre...

Giacomo esclamò dolorosamente: - Era dunque scritto lassù che sarei sceso!...

L'OSTESSA (a Giacomo): Era scritto lassù che dal momento che si prende un padrone, si scenderà, si salirà, si avanzerà, si 'indietreggerà, si resterà, e questo senza che i piedi siano mai liberi di rifiutarsi agli ordini della testa. Mi si dia il braccio, e sia eseguito il mio ordine...

Giacomo diede il braccio all'ostessa; ma ebbero appena varcata la soglia della camera, che il padrone si precipitò su Giacomo e lo abbracciò; lasciò Giacomo per abbracciare l'ostessa; e abbracciandoli entrambi, diceva: - E' scritto lassù che non mi disfarò mai di quest'originale, e che finché vivrò egli sarà il mio padrone ed io sarò il suo servitore... - L'ostessa aggiunse: - E che, a vista di tutti, non starete peggio né l'uno né l'altro.

Dopo aver appianato questa disputa, che lei prese per la prima e che non era che la centesima della stessa specie, e dopo aver rimesso Giacomo al suo posto, l'ostessa se ne andò alle sue faccende, e il padrone disse a Giacomo: - Ora che abbiamo di nuovo tutto il nostro sangue freddo, e siamo in grado di giudicare sanamente, non ammetterai?

GIACOMO: Ammetterò che quando si è data la propria parola d'onore, bisogna mantenerla; e poiché abbiamo promesso al giudice sulla nostra parola di non tornare su questa faccenda, non bisogna più parlarne.

IL PADRONE: Hai ragione.

GIACOMO: Ma senza tornare su questa faccenda, non potremmo prevenirne altre cento con un accordo ragionevole?

IL PADRONE: Acconsento.

GIACOMO: Stipuliamo: 1) Atteso che è scritto lassù che io vi sono essenziale, e che sento, che so, che voi non potete fare a meno di me, abuserò di questi vantaggi tutte quante le volte che se ne presenterà l'occasione.

IL PADRONE: Ma, Giacomo, non si è mai stipulato niente di simile.

GIACOMO: Stipulato o no, questo si è fatto in ogni tempo, si fa oggi e si farà finché il mondo duri. Credete che gli altri non abbiano cercato di sottrarsi a questo decreto e che voi sarete più abile di loro? Disfatevi di quest'idea, e sottomettetevi alla legge di un bisogno, di cui non è in vostro potere affrancarvi. Stipuliamo: 2) Atteso che è tanto impossibile a Giacomo di non conoscere il suo ascendente e la sua forza sul suo padrone, quanto al suo padrone di misconoscere la sua debolezza e di spogliarsi della sua indulgenza, bisogna che Giacomo sia insolente, e che, per la pace, il suo padrone non se ne accorga. Tutto questo si è combinato a nostra insaputa, tutto questo è stato decretato lassù al momento in cui la natura fece Giacomo e il suo padrone. Fu decretato che voi avreste i titoli, e io avrei la cosa. Se voleste opporvi alla volontà di natura, non fareste che un buco nell'acqua.

IL PADRONE: Ma, tutto sommato, la tua parte varrebbe più della mia.

GIACOMO: E chi dice di no?

IL PADRONE: Ma, tutto sommato, non ho che da prendere il tuo posto e tu metterti al mio.

GIACOMO: Sapete che ne deriverebbe? Voi vi perdereste il titolo e non avreste la cosa. Restiamo come siamo, stiamo benissimo entrambi, e che il resto della nostra vita sia impiegato a fare un proverbio.

IL PADRONE: Quale proverbio?

GIACOMO: Giacomo fa filare il suo padrone. Saremo i primi dei quali si sarà detto; ma lo si ripeterà di mille altri che valgono più di voi e di me.

IL PADRONE: Mi sembra duro, molto duro.

GIACOMO: Padrone, mio caro padrone, recalcitrerete contro un pungolo che non pungerà che più vivamente. Ecco dunque quello che è convenuto fra noi.

IL PADRONE: E che importa il nostro consenso a una legge necessaria?

GIACOMO: Molto. Credete che sia inutile sapere una buona volta, nettamente, chiaramente, a cosa attenersi? Tutte le nostre dispute si sono verificate fin qui perché non ci eravamo ancora ben detto, voi che vi chiamereste mio padrone, e che io sarei il vostro. Ma ecco che ciò è ora inteso; e non abbiamo più che da marciare in conseguenza.

IL PADRONE: Ma dove diavolo hai imparato tutto ciò?

GIACOMO: Nel grande libro. Ah! padrone mio, si ha un bel riflettere, meditare, studiare in tutti i libri del mondo, non si resta che un piccolo chierico quando non si è letto nel grande libro...

Il pomeriggio, il sole si rischiarò. Alcuni viaggiatori assicurarono che il fiumicello era guadabile. Giacomo scese; il suo padrone pagò profumatamente l'ostessa. Ecco alla porta della locanda un numero parecchio grande di viaggiatori, che il cattivo tempo vi aveva trattenuti, prepararsi a continuare la loro strada; fra questi passeggeri, Giacomo e il suo padrone, l'uomo dal curioso matrimonio e il suo compagno. I pedoni hanno preso i loro bastoni e le loro bisacce; altri prendono posto nei loro furgoni o nelle loro carrozze; i cavalieri sono sui loro cavalli, e bevono il bicchiere della staffa.

L'ostessa affabile tiene in mano una bottiglia, presenta i bicchieri, li riempie, senza dimenticare il suo; le si dicono delle galanterie, vi risponde con cortesia e gaiezza. Si dà di sprone, ci si saluta e ci si allontana. Capitò che Giacomo e il suo padrone, il marchese des Arcis e il suo compagno di viaggio, avessero la stessa strada da fare.

Di questi quattro personaggi, non c'è che l'ultimo che non vi sia conosciuto. Egli aveva raggiunto appena l'età di ventidue o ventitre anni. Era di una timidezza che gli si dipingeva sul viso; teneva la testa un po' china sulla spalla sinistra; era silenzioso e non aveva quasi nessuna nozione degli usi del mondo. Se faceva una riverenza, inclinava la parte superiore del corpo senza muovere le gambe; seduto, aveva la mania di prendere le code della giacca, e di incrociarle sulle cosce; di tenere le mani nelle fenditure e di ascoltare quelli che parlavano con gli occhi quasi chiusi. A queste maniere singolari, Giacomo lo identificò; e avvicinatosi all'orecchio del suo padrone, gli disse: - Scommetto che questo giovanotto ha portato la tonaca.

- E perché, Giacomo?

- Vedrete.

I nostri quattro viaggiatori andarono insieme, intrattenendosi parlando della pioggia, del bel tempo, dell'ostessa, dell'oste, della lite del marchese des Arcis a proposito di Nicole. Questa cagna affamata e sudicia veniva senza posa a strofinarsi contro le sue calze; dopo averla inutilmente cacciata con la salvietta, spazientito le aveva appioppato una pedata piuttosto violenta. Ed ecco quindi spostarsi la conversazione su questo singolare attaccamento delle donne per gli animali. Ognuno disse il suo parere. Il padrone, rivolgendosi a Giacomo, gli disse: - E tu, Giacomo, che ne pensi?

Giacomo chiese al suo padrone se non avesse notato che, per quanto grande sia la miseria della gente minuta, che non ha pane neppure per sé, questa ha tuttavia dei cani; se non avesse notato che questi cani essendo tutti ammaestrati a fare dei giochi, a camminare su due zampe, a danzare, a riportare gli oggetti, a saltare per il re e per la regina, a fare il morto, questa educazione ha fatto di essi le bestie più infelici del mondo. Da questo egli concluse che ogni uomo vuol comandare a un altro; e che trovandosi nella società l'animale immediatamente al di sotto della classe degli ultimi cittadini comandati da tutte le altre classi, questi prendono un animale per comandare anche loro su qualcuno. - Ebbene! disse Giacomo, - ognuno ha il suo cane. Il ministro è il cane del re, il primo commesso è il cane del ministro, la moglie è il cane del marito, e il marito il cane della moglie; Favori è il cane di costei, e Thibaud è il cane dell'uomo che sta all'angolo. Quando il mio padrone mi fa parlare mentre vorrei tacere, cosa che, in verità, mi succede raramente, - continuò Giacomo; - quando mi fa tacere mentre vorrei parlare, ciò che è molto difficile; quando mi chiede la storia dei miei amori mentre preferirei parlare d'altro; quando ho cominciato la storia dei miei amori, e lui l'interrompe: che sono io se non il suo cane? gli uomini deboli sono i cani degli uomini solidi.

IL PADRONE: Ma, Giacomo, quest'attaccamento per gli animali non lo noto solo fra la gente minuta; conosco delle nobildonne circondate da una muta di cani, senza contare i gatti, i pappagalli, gli uccelli.

GIACOMO: E' la loro satira, e di ciò che le circonda. Non amano nessuno; nessuno le ama: buttano ai cani un sentimento di cui non sanno che fare.

IL MARCHESE DES ARCIS: Amare gli animali o buttare il proprio cuore ai cani, è un punto di vista singolare.

IL PADRONE: Ciò che si dà a questi animali basterebbe al nutrimento di due o tre disgraziati.

GIACOMO: Allo stato dei fatti ne siete sorpreso?

IL PADRONE: No.

Il marchese des Arcis guardò Giacomo, sorrise delle sue idee; poi rivolgendosi al suo padrone, gli disse: - Avete un servitore poco comune.

IL PADRONE: Un servitore! siete molto buono: sono io che sono il suo, ed è mancato poco che, non più tardi di stamattina, me lo provasse in piena regola.

Si arrivò chiacchierando al posto in cui passare la notte, e si fece camerata comune. Il padrone di Giacomo e il marchese des Arcis cenarono insieme. Giacomo e il giovanotto furono serviti a parte. Il padrone raccontò in quattro parole al marchese la storia di Giacomo e del suo modo di pensare fatalista. Il marchese parlò del giovanotto che lo accompagnava. Era stato nell'ordine dei premonstratesi. Era uscito dal convento per un'avventura bizzarra; degli amici glielo avevano raccomandato; e lui ne aveva fatto il suo segretario in attesa di meglio. Il padrone di Giacomo disse: - E' divertente.

IL MARCHESE DES ARCIS: E che vi trovate di divertente?

IL PADRONE: Parlo di Giacomo. Eravamo appena entrati nella casa che abbiamo lasciata, che Giacomo mi disse a bassa voce: Signore, guardate bene quel giovanotto, scommetterei che è stato monaco.

IL MARCHESE: Ha indovinato, non so come. Andate a letto di buon'ora?

IL PADRONE: Di solito no; e tanto meno stasera, poiché non abbiamo viaggiato che mezza giornata.

IL MARCHESE: Se non avete niente che vi occupi più utilmente o più piacevolmente, vi racconterò la storia del mio segretario; è una storia non comune.

IL PADRONE: L'ascolterò volentieri.

Ti sento, lettore: mi dici: E gli amori di Giacomo?... Credi che non ne sia curioso quanto te? Hai dimenticato che Giacomo amava parlare, e soprattutto parlare di sé; mania generale della gente della sua condizione; mania che la tira fuori dalla sua abiezione, la mette sulla tribuna, e la trasforma di colpo in personaggio interessante?

Qual è, secondo te, il motivo che attira la plebaglia alle esecuzioni pubbliche? La mancanza di umanità? Ti inganni: il popolo non è per niente disumano; quel disgraziato intorno al cui patibolo esso si affolla, lo strapperebbe dalle mani della giustizia, se potesse. Va a cercare sulla Grève una scena che possa raccontare al suo ritorno al sobborgo; quella o un'altra, gli è indifferente, purché abbia una parte da fare, purché raduni i suoi vicini e si faccia ascoltare da loro. Date sul viale una festa divertente e vedrete che la piazza delle esecuzioni sarà vuota. Il popolo è avido di spettacoli, e vi corre perché ne è divertito mentre ne gode, e ancora più divertito dal racconto che ne fa al ritorno. Il popolo è terribile nel suo furore; ma questo non dura molto. La sua propria miseria lo ha reso compassionevole; distoglie gli occhi dallo spettacolo di orrore che è andato a cercare; si intenerisce, se ne torna piangendo... Tutto questo che ti sto spacciando, lettore, lo devo a Giacomo; te lo confesso, perché non mi piace farmi vanto dello spirito altrui.

Giacomo non conosceva né il nome di vizio, né quello di virtù; affermava che si è felicemente o infelicemente nati. Quando sentiva pronunciare le parole ricompense o castighi, alzava le spalle. Secondo lui, la ricompensa è un incoraggiamento per i buoni; il castigo uno spavento per i cattivi. Come sarebbe diversamente, diceva, se non c'è libertà e se il nostro destino è scritto lassù? Egli credeva che un uomo si avvia necessariamente alla gloria o all'ignominia, come una sfera che avesse coscienza di sé segue il pendio di una montagna; e che, se il concatenamento delle cause e degli effetti che formano la vita di un uomo, dal momento della sua nascita fino al suo ultimo respiro, ci fosse conosciuto, resteremmo convinti che egli non ha fatto se non quello che era necessario fare. L'ho contraddetto più volte, ma senza successo e senza frutto. Infatti, che cosa replicare a chi che vi dice: Qualunque sia la somma degli elementi di cui sono composto, io sono uno; ora, una causa non ha che un effetto; io sono sempre stato una causa una; non ho dunque avuto mai che un effetto da produrre; la mia durata non è quindi che un seguito di effetti necessari. E' così che Giacomo ragionava, secondo l'insegnamento del suo capitano. La distinzione tra un mondo fisico e un mondo morale gli sembrava priva di senso. Il suo capitano gli aveva ficcato in testa tutte queste opinioni che aveva attinte, lui, nel suo Spinoza che sapeva a memoria. Secondo questo sistema, si potrebbe immaginare che Giacomo non si rallegrasse, non si affliggesse di niente; però questo non era vero. Egli si comportava più o meno come voi e me. Ringraziava il suo benefattore affinché questi gli facesse ancora del bene. Andava in collera contro l'uomo ingiusto; e quando gli si obiettava che somigliava allora al cane che morde la pietra che l'ha colpito: - Mai più,- diceva;- la pietra addentata dal cane non si corregge; l'uomo ingiusto è modificato dal bastone -. Era spesso inconseguente come voi e me, e soggetto a dimenticare i suoi principi, eccetto che in qualche circostanza in cui evidentemente la sua filosofia lo dominava; è allora che diceva: - Bisognava che fosse così, poiché era scritto lassù -. Cercava di prevenire il male; era prudente con il più grande disprezzo per la prudenza. Quando la disgrazia era accaduta, si rifaceva al suo ritornello; ed era consolato. Del resto, brav'uomo, franco, onesto, coraggioso, costante, fedele, molto testardo, ancor di più chiacchierone, e afflitto come voi e me di avere incominciato la storia dei suoi amori senza quasi speranza di finirla. Perciò ti consiglio, lettore, di fare la tua scelta, e in mancanza degli amori di Giacomo, di accontentarti delle avventure del segretario del marchese des Arcis. D'altronde, lo vedo quel povero Giacomo, con il collo avvolto in un largo fazzoletto; con la sua fiaschetta, già piena di buon vino, che non contiene più che tisana; tossire, bestemmiare contro l'ostessa che hanno lasciata, e contro il suo vino di "Champagne", cosa che non farebbe se si ricordasse che tutto è scritto lassù, perfino il suo raffreddore.

E poi, lettore, sempre racconti d'amore; uno, due, tre, quattro racconti d'amore che ti ho raccontato; tre o quattro racconti d'amore che ti toccheranno ancora: fanno molti racconti d'amore. E' vero d'altra parte che, poiché si scrive per te, bisogna o fare a meno del tuo applauso, o servirti secondo il tuo gusto, e che tu ne hai uno molto pronunciato per i racconti d'amore. Tutte le vostre novelle in verso o in prosa sono storie d'amore; quasi tutti i vostri poemi, elegie, egloghe, idilli, canzoni, epistole, commedie, tragedie, opere, sono racconti d'amore. Quasi tutte le vostre pitture e sculture non sono che racconti d'amore. Da quando esisti hai per nutrimento storie d'amore, e non te ne stanchi. Vi si tiene a questo regime e vi si terrà per molto tempo ancora, uomini e donne, grandi e piccini, senza che ve ne stanchiate. In verità è meraviglioso. Vorrei che la storia del segretario del marchese des Arcis fosse anch'essa un racconto d'amore; ma ho paura che non sia così e che tu ne possa essere annoiato. Tanto peggio per il marchese des Arcis, per il padrone di Giacomo, per te, lettore, e per me.

Viene un momento in cui ragazze e ragazzi cadono quasi tutti nella malinconia; sono tormentati da un'inquietudine vaga che si posa su tutto, e che non trova niente che la calmi. Cercano la solitudine; piangono; il silenzio dei chiostri li commuove; l'immagine della pace che sembra regnare nei monasteri li seduce. Prendono per la voce di Dio che li chiama a sé i primi moti di un temperamento che si sviluppa: ed è precisamente quando li sollecita la natura, che abbracciano un genere di vita contrario al voto della natura. L'errore non dura; l'espressione della natura diventa più chiara: la si riconosce; e l'essere sequestrato cade nei rimpianti, nel languore, nei malesseri, nella follia o nella disperazione... Tale fu il preambolo del marchese des Arcis. - Disgustato del mondo all'età di diciassette anni, Richard (è il nome del mio segretario) fuggì dalla casa paterna e vestì la tonaca di premonstratese.

IL PADRONE: Premonstratese? Mi piace. Sono bianchi come cigni, e san Norberto che li fondò non omise che una cosa nella loro regola.

IL MARCHESE: Di assegnare un'anima gemella a ciascuno dei suoi frati.

IL PADRONE: Se gli amorini non usassero andare nudi, si travestirebbero da norbertini. Regna in quest'ordine una politica singolare. Vi si permette la duchessa, la marchesa, la contessa, la presidentessa, la consiglieressa, perfino la finanziera, ma non la donna borghese; per quanto bella sia la bottegaia, vedrete raramente un norbertino in una bottega.

IL MARCHESE: E' quello che Richard mi aveva detto. Richard avrebbe pronunciato i voti dopo due anni di noviziato, se i suoi genitori non vi si fossero opposti. Suo padre pretese che tornasse a casa e che lì gli sarebbe permesso di mettere alla prova la sua vocazione, osservando tutte le regole della vita monastica durante un anno:

trattato che fu fedelmente adempiuto da una parte e dall'altra.

Passato, sotto gli occhi della sua famiglia, l'anno di prova, Richard chiese di pronunciare i voti. Suo padre gli rispose:- Vi ho accordato un anno per prendere un'ultima risoluzione, spero che non me ne rifiuterete uno per la stessa cosa; consento solo che andiate a passarlo dove vi piacerà -. In attesa della fine di questo secondo termine, l'abate dell'ordine lo prese con sé. E' in questo intervallo che egli fu implicato in una delle avventure che accadono solo nei conventi. C'era allora alla testa di una delle case dell'ordine un superiore dal carattere straordinario: si chiamava padre Hudson. Il padre Hudson aveva un viso dei più interessanti: una fronte grande, un viso ovale, un naso aquilino, grandi occhi azzurri, belle guance larghe, una bella bocca, bei denti, il sorriso più fine, la testa coperta da una selva di capelli bianchi, che aggiungevano la dignità all'interesse della sua figura; aveva talento, sapere, gaiezza, il portamento e il parlare più onesto, l'amore dell'ordine, quello del lavoro; ma le passioni più ardenti, il gusto più sfrenato dei piaceri e delle donne, il genio dell'intrigo spinto all'estremo, i costumi più dissoluti, il dispotismo più assoluto nel suo convento. Quando gliene fu data l'amministrazione, questo era infettato da un giansenismo ignorante; gli studi vi si facevano male, gli affari temporali erano in disordine, i doveri religiosi vi erano caduti in desuetudine, gli uffici divini vi si celebravano con indecenza, gli alloggi superflui vi erano occupati da pensionanti dissoluti. Il padre Hudson convertì o allontanò i giansenisti, presiedé egli stesso agli studi, ristabilì gli affari temporali, rimise in vigore la regola, espulse i pensionanti scandalosi, introdusse nella celebrazione degli uffici la regolarità e la decenza, e fece della sua una delle più edificanti comunità. Ma da questa austerità alla quale assoggettava gli altri, quanto a lui, se ne dispensava; questo giogo di ferro sotto il quale teneva i suoi subalterni, egli non era tanto stupido da condividerlo; per questo quelli erano animati contro il padre Hudson da un furore represso, quindi più violento e più pericoloso. Ognuno era suo nemico e la sua spia; ognuno si dava da fare, in segreto, per penetrare le tenebre della sua condotta; ognuno teneva separatamente una lista dei suoi disordini nascosti; ognuno aveva deciso di perderlo; egli non faceva un passo che non fosse seguito; appena imbastiti, i suoi intrighi erano conosciuti.

L'abate dell'ordine aveva una casa attigua al monastero. Questa casa aveva due porte, una che dava sulla strada, l'altra nel chiostro; Hudson ne aveva forzato le serrature; la casa abbaziale era diventata il ridotto delle sue scene notturne, e il letto dell'abate quello dei suoi piaceri. Era dalla porta di strada, a notte inoltrata, che introduceva egli stesso, negli appartamenti dell'abate, donne di ogni ceto: era là che si facevano cene delicate. Hudson aveva un confessionale, e aveva corrotto tutte quelle fra le sue penitenti che ne valevano la pena. Fra queste penitenti c'era una piccola dolciera che faceva rumore nel quartiere, per la sua civetteria e le sue grazie; Hudson, che non poteva frequentare la casa di lei, la rinchiuse nel suo serraglio. Questa specie di rapimento non si poté fare senza suscitare sospetti nei parenti e nello sposo. Questi gli fecero visita. Hudson li ricevette con aria costernata. Mentre questa brava gente gli stava esponendo le ragioni della loro afflizione, suona la campana; erano le sei di sera: Hudson impone il silenzio, si toglie il cappello, si alza, fa un gran segno di croce e dice in tono affettuoso e penetrato: "Angelus Domini nuntiavit Mariae..."- Ed ecco il padre della dolciera e i suoi fratelli, vergognosi dei loro sospetti, dire, scendendo le scale, allo sposo: - Figlio mio, siete uno sciocco... Fratello mio, non avete vergogna? Un uomo che dice l'"Angelus", un santo!

Una sera, d'inverno, mentre se ne tornava al suo convento, egli fu avvicinato da una di quelle creature che sollecitano i passanti; gli sembra bella: la segue; è appena entrato, che giunge la ronda.

Quest'avventura avrebbe perduto un altro; ma Hudson era uomo d'ingegno e quest'incidente gli conciliò la benevolenza e la protezione del magistrato di polizia. Portato in sua presenza, ecco come gli parlò:

- Mi chiamo Hudson, sono il superiore del mio convento. Quando vi sono entrato tutto era in disordine; non c'era né scienza, né disciplina, né buoni costumi; le cose spirituali vi erano neglette fino allo scandalo; il cattivo stato di quelle temporali minacciava il convento di una prossima rovina. Ho ristabilito ogni cosa; ma sono un uomo, ed ho preferito rivolgermi a una donna corrotta, piuttosto che indirizzarmi a una donna onesta. Potete ora disporre di me come vi piacerà...- Il magistrato gli raccomandò di essere più circospetto in futuro, gli promise il segreto su quest'avventura, e gli testimoniò il desiderio di conoscerlo più intimamente.

Intanto i nemici di cui era circondato avevano, ognuno per suo conto, inviato al generale dell'ordine dei memoriali, in cui ciò che essi sapevano della cattiva condotta di Hudson era esposto. Il confronto di questi memoriali ne aumentava la forza. Il generale era giansenista, e per conseguenza disposto a trarre vendetta della specie di persecuzione che Hudson aveva esercitata contro gli aderenti alle sue opinioni. Sarebbe stato contentissimo di estendere sulla setta intera il rimprovero dei costumi corrotti di un solo difensore della bolla e della morale rilassata. Di conseguenza, mise i diversi memoriali dei fatti e delle gesta di Hudson fra le mani di due commissari che spedì segretamente, con l'ordine di procedere alla loro verifica e di constatarla giuridicamente; ingiungendo loro soprattutto nella condotta di questa faccenda la più grande circospezione, solo mezzo per schiacciare immediatamente il colpevole, e sottrarlo alla protezione della corte e di Mirepoix, agli occhi del quale il giansenismo era il più grande di tutti i delitti, e la sottomissione alla bolla "Unigenitus", la prima delle virtù. Richard, il mio segretario, fu uno dei due commissari.

Ecco questi due uomini partiti dal noviziato, installati nel convento di Hudson, procedere sordamente alle indagini. Essi ebbero presto raccolta una lista di furfanterie maggiore di quanto non servisse per mettere cinquanta monaci nell'"in pace". Il loro soggiorno era stato lungo, ma le loro manovre così abili che non ne era trapelato niente.

Hudson, per quanto fosse astuto, si avvicinava al momento della sua rovina senza averne il minimo sospetto. Tuttavia la poca sollecitudine che questi nuovi venuti mettevano nel fargli la corte, il segreto del loro viaggio, le loro uscite, ora insieme, ora separati, le loro frequenti conferenze con gli altri frati, la specie di gente che visitavano e da cui erano visitati, gli provocarono qualche inquietudine. Li spiò, li fece spiare; e ben presto l'oggetto della loro missione fu evidente per lui. Egli non si sconcertò; si occupò profondamente del modo, non di sfuggire alla tempesta che lo minacciava, ma di attirarla sulla testa dei due commissari: ed ecco la decisione veramente straordinaria alla quale si attenne.

Egli aveva sedotto una fanciulla che teneva nascosta in una piccola abitazione del sobborgo Saint-Médard. Corre da lei e le fa il seguente discorso:- Ragazza mia, tutto è scoperto, siamo perduti; non passeranno otto giorni che sarete arrestata, e ignoro ciò che faranno di me. Niente disperazione, niente grida; riprendetevi dal vostro turbamento. Ascoltatemi, fate quello che vi dirò, fatelo bene, e io mi incarico del resto. Domani parto per la campagna. Durante la mia assenza, andate a trovare due frati, di cui vi dirò il nome. (E le nominò i due commissari). Chiedete di parlare loro in segreto. Sola con loro, gettatevi alle loro ginocchia, implorate il loro aiuto, implorate la loro giustizia, implorate la loro mediazione presso il generale, sullo spirito del quale sapete che possono molto; piangete, singhiozzate, strappatevi i capelli; e piangendo, singhiozzando, strappandovi i capelli, raccontate loro tutta la nostra storia, e raccontatela nel modo più adatto a ispirare commiserazione per voi, orrore di me.

- Come, signore, dirò loro...

- Sì, direte loro chi siete, a chi appartenete, che io vi ho sedotta al tribunale della confessione, rapita dalle braccia dei vostri genitori, e relegata nella casa in cui siete. Dite che dopo avervi tolto l'onore e precipitata nel delitto, vi ho abbandonata alla miseria; dite che non sapete più che fare.

- Ma, padre...

- Eseguite ciò che vi prescrivo, e ciò che mi resta da prescrivervi, o decidete la vostra perdita e la mia. Questi due monaci non mancheranno di compiangervi, di assicurarvi della loro assistenza e di chiedervi un secondo colloquio, che accorderete loro. Essi si informeranno di voi e dei vostri genitori, e poiché non avrete detto loro niente che non sia vero, non potete diventare sospetta. Dopo questo primo e il loro secondo incontro, vi prescriverò quello che dovrete fare al terzo. Pensate solo di fare bene la vostra parte.

Tutto accadde come Hudson lo aveva immaginato. Egli fece un secondo viaggio. I due commissari ne avvisarono la fanciulla; questa tornò al convento. Essi le chiesero di nuovo il racconto della sua disgraziata storia. Mentre essa raccontava all'uno, l'altro prendeva degli appunti. Gemettero sulla sua sorte, la informarono sulla desolazione dei suoi genitori, che era fin troppo reale, e le promisero sicurezza per la sua persona e pronta vendetta sul suo seduttore; ma a condizione che firmasse la sua dichiarazione. Questa proposta parve all'inizio disgustarla; si insisté: lei acconsentì. Non era più questione che del giorno, dell'ora e del posto nel quale si sarebbe steso questo documento, che richiedeva tempo e comodo... - Dove siamo, non si può fare; se il priore tornasse e mi vedesse... Da me, non oserei proporvelo... - La ragazza e i commissari si separarono; mettendosi d'accordo reciprocamente sulla data, per ovviare a queste difficoltà.

Fin dallo stesso giorno, Hudson fu informato di quanto era successo.

Eccolo al culmine della gioia, si avvicina al momento del suo trionfo; presto insegnerà a questi due sbarbatelli con che uomo hanno da fare.

- Prendete la penna, - dice alla ragazza, - e date loro appuntamento nel posto che vi indicherò. Quest'appuntamento andrà loro bene, ne sono certo. La casa è onesta, e la donna che la occupa gode, nel vicinato, e fra gli altri inquilini, della migliore reputazione.

Tuttavia questa donna era una di quelle intriganti che recitano la commedia della devozione, che si insinuano nelle migliori case, che hanno il tono dolce, affettuoso, mellifluo, e che sorprendono la fiducia delle madri e delle fanciulle, per attirarle nel disordine.

Era questo l'uso che Hudson faceva di costei; era la sua mezzana.

Mise, non mise l'intrigante a conoscenza del segreto? è quello che ignoro.

Infatti, i due inviati del generale accettarono l'appuntamento. Eccoli con la ragazza. La mezzana si ritira. Si cominciava a stendere il verbale, quando si sente un gran rumore nella casa.

- Signori, chi volete? - Vogliamo la signora Simion. (Era il nome dell'intrigante). - Siete alla sua porta.

Si bussa violentemente alla porta. - Signori, - dice la fanciulla ai due frati, - devo rispondere?

- Rispondete.

- Devo aprire?

- Aprite...

Quello che intimava di aprire era un commissario con cui Hudson era in stretti rapporti; giacché, chi non conosceva? Gli aveva rivelato il pericolo e dettata la sua parte. - Ah! ah! - disse il commissario entrando, - due frati a colloquio con una ragazza! E' carina -. La fanciulla si era vestita così leggermente, che era difficile ingannarsi sulla sua professione e su quello che poteva avere a spartire con due frati, il più vecchio dei quali non aveva trent'anni.

Questi protestavano la loro innocenza. Il commissario sghignazzava passando la mano sotto il mento della ragazza che si era gettata ai suoi piedi e chiedeva grazia. - Siamo in un posto onesto, - dicevano i monaci.

- Sì, sì, in un posto onesto, - diceva il commissario.

Che erano venuti per un affare importante.

- L'affare importante che conduce qui, lo conosciamo. Parlate, signorina.

- Signor commissario, quello che assicurano questi signori è la pura verità.

Intanto il commissario verbalizzava a sua volta, e siccome non c'era nel suo processo verbale se non l'esposto puro e semplice del fatto, i due monaci furono costretti a firmare. Scendendo, trovarono tutti gli inquilini sui pianerottoli dei loro appartamenti, alla porta una folla numerosa, un fiacre, alcuni arcieri che li misero nel fiacre, nel rumore confuso delle invettive e dei fischi. Si erano coperti il viso con i mantelli, si disperavano. Il perfido commissario gridava: - Eh!

perché, padri, frequentare luoghi simili e siffatte creature? Ma non sarà niente; ho ordine dalla polizia di depositarvi fra le mani del vostro superiore, che è un galantuomo e indulgente; non darà al fatto più importanza di quanto ne abbia. Non credo che usi nei vostri conventi come dai crudeli cappuccini. Se aveste a che fare con i cappuccini, credete a me, vi compiangerei.

Mentre il commissario parlava loro, il fiacre si dirigeva verso il convento, la folla ingrossava, lo circondava, e lo seguiva di gran corsa. Si sentiva di qua: «Cos'è...» Di là: «Sono dei monaci...» «Che hanno fatto?» «Li hanno beccati dalle donnine...» «I premonstratesi dalle donnine!» «Eh sì; corrono sulle tracce dei carmelitani e dei cordiglieri...» Eccoli arrivati, il commissario scende, picchia alla porta, picchia ancora, picchia una terza volta; finalmente questa si apre. Si avvertì il superiore Hudson, che si fece aspettare una mezz'ora almeno, per far sì che lo scandalo prendesse più ampie proporzioni. Finalmente appare. Il commissario gli parla all'orecchio; ha l'aria di intercedere; Hudson di rifiutare con rudezza la preghiera; infine, prendendo un atteggiamento severo e un tono fermo, questi dice: - Non ho frati dissoluti nella mia casa; costoro sono due stranieri che mi sono ignoti, forse due furfanti travestiti, di cui potete fare quel che vi piace.

A queste parole la porta si chiude; il commissario risale in carrozza e dice ai nostri due poveri diavoli più morti che vivi:- Ho fatto tutto quello che ho potuto; non avrei mai creduto padre Hudson così duro. Ma perché diavolo andate dalle prostitute?

- Se colei con cui ci avete trovati lo è, non è il libertinaggio che ci ha portati da lei.

- Ah! ah! padri; e è a un vecchio commissario che lo dite! Chi siete?

- Siamo monaci; e la tonaca che portiamo è la nostra.

- Pensate che domani bisognerà che la vostra faccenda si chiarisca; dite il vero; posso forse servirvi.

- Vi abbiamo detto la verità... Ma dove andiamo?

- Al piccolo Châtelet.

- Al piccolo Châtelet! In prigione!

- Mi dispiace.

Richard e il suo compagno furono infatti depositati lì; ma il disegno di Hudson non era quello di lasciarveli. Era salito in vettura, ed era arrivato a Versailles; parlava al ministro; gli traduceva la faccenda nei termini che convenivano a lui. Ecco, monsignore, a che ci si espone quando si introduce la riforma in una casa dissoluta, e se ne cacciano gli eretici. Ancora un momento, ed ero perduto, ero disonorato. La persecuzione non si fermerà qui; tutti gli errori di cui è possibile macchiare un uomo dabbene, voi li sentirete; ma spero, monsignore, che vi ricorderete che il nostro generale...

- So, so, e vi compiango. I servigi che avete resi alla chiesa e al vostro ordine non saranno dimenticati. Gli eletti del Signore sono stati esposti in ogni tempo a delle disgrazie: essi hanno saputo sopportarle; bisogna saper imitare il loro coraggio. Contate sulla benevolenza e sulla protezione del re. I monaci! i monaci! lo sono stato anch'io, ed ho conosciuto per esperienza di che cosa sono capaci.

-Se la fortuna della chiesa e dello stato volesse che vostra eminenza mi sopravviva, persevererei senza timore.

- Non tarderò a tirarvi fuori di là. Andate.

- No, monsignore, no, non mi allontanerò senza un ordine espresso che liberi questi due cattivi frati...

- Credo che l'onore della religione e del vostro abito vi tocchi al punto da farvi dimenticare le ingiurie personali; questo è davvero cristiano, e ne sono edificato senza esserne sorpreso da parte di un uomo come voi. Questa faccenda non avrà risonanza.

- Ah monsignore, riempite la mia anima di gioia! In questo momento è tutto quello che temevo.

- Mi occuperò della cosa.

Fin dalla stessa sera Hudson ebbe l'ordine di liberazione, e l'indomani Richard e il suo compagno, sul fare del giorno, erano a venti leghe da Parigi, sotto scortati da un poliziotto che li riportò alla casa madre. Egli era anche latore di una lettera che ingiungeva al generale di smettere simili intrighi, e di imporre la pena claustrale ai nostri due frati.

Questa avventura buttò la costernazione fra i nemici di Hudson; non c'era nel suo convento un monaco che il suo sguardo non facesse tremare. Alcuni mesi dopo gli fu data una ricca abbazia. Il generale ne concepì un dispetto mortale. Era vecchio, e c'era tutto da temere che l'abate Hudson dovesse succedergli. Egli amava teneramente Richard. - Mio povero amico, - gli disse un giorno, - che succederebbe di te se cadessi sotto l'autorità di quello scellerato di Hudson? Ne sono atterrito. Non sei definitivamente ordinato; se tu mi dessi retta, lasceresti la tonaca... - Richard seguì questo consiglio, e tornò alla casa paterna, che non era lontana dall'abazia di Hudson.

Hudson e Richard frequentavano le stesse case, era impossibile che non si incontrassero, e infatti si incontrarono. Richard era un giorno dalla signora di un castello posto fra Châlons e Saint-Dizier, ma più vicino a Saint-Dizier che a Châlons, e a un tiro di fucile dall'abbazia di Hudson. La signora gli disse: Abbiamo qui il vostro antico priore:

è molto amabile, ma, in fondo, che uomo è?

- Il migliore degli amici e il più pericoloso dei nemici.

- Non sareste tentato di vederlo?

- Proprio no...

Aveva appena risposto così, che si sentì il rumore di un calesse che entrava nel cortile, e se ne vide scendere Hudson con una delle più belle donne del cantone. - Lo vedrete vostro malgrado, - gli disse la signora del castello, è proprio lui.

La castellana e Richard vanno incontro alla signora del calesse e a Hudson. Le signore si abbracciano: Hudson, avvicinandosi a Richard e riconoscendolo, esclama: - Eh! siete voi, mio caro Richard? Avete voluto perdermi, ve lo perdono; perdonatemi la vostra visita al piccolo Châtelet, e non pensiamoci più.

- Convenite, signor abate, che eravate un gran briccone.

- E' possibile.

- Che, se vi fosse stata resa giustizia, la visita allo Châtelet, non io, ma voi l'avreste fatta.

- E' possibile... E', credo, al pericolo che ho corso allora che devo i miei nuovi costumi. Ah! mio caro Richard, quanto ciò mi ha fatto riflettere, e come sono cambiato!

- Questa donna con cui siete venuto è incantevole.

- Non ho più occhi per simili vezzi.

- Che vitino!

- La cosa mi è diventata davvero indifferente.

- Che rotondità!

-Ci si stanca presto o tardi di un piacere che non si prende che sulla cima di un tetto, con il rischio a ogni movimento di rompersi il collo.

- Ha le più belle mani del mondo.

- Ho rinunciato all'uso di simili mani. Una testa bennata ritorna allo spirito della sua professione, alla sola vera felicità.

-E quegli occhi che rivolge su di voi di sfuggita; convenite che voi, che siete un conoscitore, non ne avete attratti molti di più brillanti e più dolci. Che grazia, che leggerezza e che nobiltà nel suo passo, nel suo portamento!

- Non penso più a queste vanità; leggo la Scrittura, medito i Padri.

- E di tanto in tanto le perfezioni di questa signora. Abita lontano dal Moncetz? Suo marito è giovane?...

Spazientito da queste domande, e ben convinto che Richard non lo prenderebbe per un santo, Hudson gli disse bruscamente: - Mio caro Richard, voi mi sf..., e avete ragione.

Caro il mio lettore, perdonami la proprietà di questa espressione; e convieni che qui come in un'infinità di buoni racconti, quale per esempio quello della conversazione di Piron e del fu abate Vatri, la parola decente sciuperebbe tutto. Cos'è questa conversazione di Piron e dell'abate Vatri?. - Vai a chiederla all'editore delle sue opere che non ha osato scriverla; ma che non si farà pregare per dirtela.

I nostri quattro personaggi si riunirono al castello; si pranzò bene, si pranzò allegramente e verso sera ci si separò con la promessa di ritrovarsi... Ma mentre il marchese des Arcis chiacchierava con il padrone di Giacomo, Giacomo da parte sua non stava zitto con il segretario Richard, che lo trovava francamente originale, cosa che accadrebbe più spesso fra gli uomini, se prima l'educazione, e poi il grande uso del mondo, non li consumasse come quelle monete d'argento che, a forza di circolare, perdono la loro impronta. Era tardi; la pendola avvertì padroni e domestici che era l'ora di andare a riposare, ed essi seguirono il suo avviso.

Nello spogliare il suo padrone, Giacomo gli disse: - Signore, amate i quadri?

IL PADRONE: Sì, ma nei racconti: poiché in colore e sulla tela, benché ne giudichi con la decisione di un conoscitore, ti confesserò che non me ne intendo per nulla; che sarei nell'imbarazzo se dovessi distinguere una scuola da un'altra; che mi si darebbe un Boucher per un Rubens o per un Raffaello; che prenderei una cattiva copia per un originale sublime; che valuterei mille scudi una crosta da sei franchi, e sei franchi una tela da mille scudi; e che mi sono sempre provvisto al ponte Nôtre-Dame, da un certo Tremblin, che era ai miei tempi una risorsa per la miseria o il libertinaggio, e una rovina per il talento dei giovani allievi di Vanloo.

GIACOMO: Come mai?

IL PADRONE: Che t'importa? Descrivimi il tuo quadro e sii breve, perché muoio di sonno.

GIACOMO: Mettetevi davanti alla fontana degli Innocenti o vicino alla porta Saint-Denis; sono due accessori che arricchiranno la composizione.

IL PADRONE: Ci sono.

GIACOMO: Vedete in mezzo alla strada un fiacre, con la correggia a sospensione rotta, e rovesciato sul fianco.

IL PADRONE: Lo vedo.

GIACOMO: Un monaco e due ragazze ne sono scesi. Il monaco fugge a gambe levate. Il cocchiere si affretta a scendere di cassetta. Un cane barbone dal fiacre si è messo a inseguire il monaco e l'ha afferrato per la tonaca; il monaco fa ogni sforzo per sbarazzarsi del cane. Una delle ragazze, discinta, con il petto scoperto, si tiene i fianchi a forza di ridere. L'altra ragazza, che si è fatto un bernoccolo sulla fronte, è appoggiata contro lo sportello, e si stringe la testa con le mani. Intanto la gente si è affollata, i monelli accorrono e lanciano grida, i bottegai e le bottegaie stanno sulla soglia delle loro botteghe, e altri spettatori alle finestre.

IL PADRONE: Che diavolo! Giacomo, la tua composizione è ben ordinata, ricca, piacevole, varia e piena di movimento. Al nostro ritorno a Parigi, porta questo soggetto a Fragonard; e vedrai cosa saprà farne.

GIACOMO: Dopo quanto mi avete confessato sui vostri lumi in fatto di pittura, posso accettare il vostro elogio senza abbassare gli occhi.

IL PADRONE: Scommetto che è una delle avventure dell'abate Hudson?

GIACOMO: E' vero.

Lettore, mentre questa brava gente dorme, avrei da proporti una piccola domanda che puoi discutere sul tuo origliere: che cosa sarebbe stato il figlio nato dall'abate Hudson e dalla signora de La Pommeraye? - Forse un onest'uomo. - Forse un sublime furfante -. Me lo dirai domattina.

Ecco venuto il mattino, ed ecco separati i nostri viaggiatori; poiché il marchese des Arcis non faceva più la stessa strada di Giacomo e del suo padrone. - Possiamo dunque riprendere il seguito degli amori di Giacomo? - Lo spero; ma quel che è sicuro, è che il padrone sa che ora è, ha fiutato la sua presa di tabacco e ha detto a Giacomo: - Ebbene! Giacomo, e i tuoi amori?

Anziché rispondere a questa domanda, Giacomo diceva: - Se non è il diavolo! Dalla mattina alla sera dicono male della vita e non possono decidersi a lasciarla! Sarebbe forse perché la vita presente non è, tutto sommato, una cosa così cattiva, o perché ne temono una peggiore in futuro?

IL PADRONE: L'uno e l'altro. A proposito, Giacomo, credi tu alla vita futura?

GIACOMO: Non credo né discredo; non ci penso. Godo al mio meglio di quella che ci è stata data come anticipo sull'eredità.

IL PADRONE: Quanto a me, mi considero come una crisalide; e mi piace convincermi che la farfalla, o la mia anima, venendo un giorno a bucare il guscio, volerà verso la giustizia divina.

GIACOMO: La vostra immagine è incantevole.

,IL PADRONE: Non è mia; l'ho letta, credo, in un poeta italiano chiamato Dante, che ha fatto un'opera intitolata: la "Commedia dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso".

GIACOMO: Che singolare soggetto di commedia!

IL PADRONE: Per Dio, ci sono delle belle cose, soprattutto nel suo inferno. Rinchiude gli eretici in tombe di fuoco, da cui sfugge la fiamma e porta la rovina lontano; gli ingrati, in nicchie in cui versano lacrime che gelano sui loro visi; e i pigri, in altre nicchie; e dice di questi ultimi che il sangue sfugge dalle loro vene, e che è raccolto da vermi sdegnosi... Ma a che proposito la tua sortita contro il nostro disprezzo di una vita che temiamo di perdere?

GIACOMO: A proposito di quello che il segretario del marchese des Arcis mi ha raccontato del marito della bella donna del calesse.

IL PADRONE: E' vedova!

GIACOMO: Ha perduto il marito in un viaggio che lei ha fatto a Parigi; e quel diavolo d'uomo non voleva sentir parlare dei sacramenti. Fu la signora del castello, dove Richard incontrò l'abate Hudson, che venne incaricata di riconciliarlo con il cappuccio.

IL PADRONE: Che vuoi dire con il tuo cappuccio?

GIACOMO: Il cappuccio è la cuffia che si mette ai neonati!

IL PADRONE: Capisco. E come fece per incappucciarlo?

GIACOMO: Si fece circolo intorno al fuoco. Il medico, dopo aver tastato il polso al malato, che trovò molto basso, venne a sedersi vicino agli altri. La signora di cui si tratta si avvicinò al letto, e fece al malato alcune domande; ma senza alzare la voce più di quanto non servisse affinché quest'uomo non perdesse una parola di quello che bisognava fargli sentire; dopo di che si accese la conversazione fra la signora, il dottore e alcuni altri presenti, come vi riferirò.

LA SIGNORA: Ebbene, dottore, ci darete notizie della principessa di Parma?

IL DOTTORE: Esco da una casa in cui mi è stato assicurato che sta così male, che non c'è più speranza.

LA SIGNORA: Questa principessa ha dato sempre segni di pietà. Appena si è sentita in pericolo, ha chiesto di confessarsi e di ricevere i sacramenti.

IL DOTTORE. Il curato di Saint-Roch le porta oggi una reliquia a Versailles, ma questa arriverà troppo tardi.

LA SIGNORA: L'Infanta non è la sola a dare tali esempi. Il duca de Chevreuse, che è stato molto malato, non ha aspettato che gli si proponessero i sacramenti, li ha richiesti lui stesso: cosa che ha fatto un gran piacere alla sua famiglia.

IL DOTTORE: Sta molto meglio.

UNO DEI PRESENTI: E' certo che ciò non fa morire; al contrario.

LA SIGNORA: In verità, appena si è in pericolo, si dovrebbero compiere questi doveri. I malati non concepiscono evidentemente quanto sia duro per quelli che li circondano, e quanto tuttavia sia indispensabile farne loro la proposta!

IL DOTTORE: Sono stato da un malato che mi ha detto, due giorni fa:

- Dottore, come mi trovate?

- Signore, la febbre è forte, e gli accessi frequenti.

- Ma credete che presto ne arriverà uno?

- No, lo temo solo per stasera.

-Se è così, farò avvertire una certa persona, con cui ho un affaruccio particolare, per regolarlo mentre ho ancora tutti i miei sentimenti...

Si confessò, ricevette i sacramenti. Tornai la sera, e niente accesso.

Ieri stava meglio; oggi è fuori pericolo. Ho visto molte volte, nel corso della mia pratica, un simile effetto dei sacramenti.

IL MALATO (al domestico): Portami il pollo.

GIACOMO: Glielo servono, vuole tagliarlo e non ne ha la forza; gliene tagliano un'ala a pezzettini; chiede del pane, vi si getta su, si sforza di masticarne un boccone, che non può inghiottire e risputa nel tovagliolo; chiede del vino puro; vi bagna l'orlo delle labbra, e dice: - Sto bene... - Sì, ma una mezz'ora dopo era finito.

IL PADRONE: La signora aveva tuttavia agito abilmente... ma, e i tuoi amori?

GIACOMO: E la condizione che avete accettata?

IL PADRONE: Capisco... Sei installato nel castello di Desglands, e la vecchia domestica Jeanne ha ordinato alla sua giovane figlia Denise di visitarti quattro volte al giorno, e di curarti. Ma, prima di andare avanti, dimmi, Denise aveva il suo pulzellaggio.

GIACOMO (tossendo): Lo credo.

IL PADRONE: E tu?

GIACOMO: Il mio, era un pezzo che batteva la campagna.

IL PADRONE: Non eri allora ai tuoi primi amori?

GIACOMO: Perché mai?

IL PADRONE: E' che si ama colei a cui lo si dà, come si è amati da colei a cui lo si toglie.

GIACOMO: Qualche volta sì, qualche volta no.

IL PADRONE: E come lo perdesti?

GIACOMO: Non l'ho perduto, l'ho semplicemente barattato.

IL PADRONE: Dimmi due parole su questo baratto.

GIACOMO: Sarà il primo capitolo di san Luca, una filza di "genuit" da non finire più, dalla prima fino a Denise, l'ultima.

IL PADRONE: Che credette di averlo e non lo ebbe.

GIACOMO: E prima di Denise, le due vicine della nostra capanna.

IL PADRONE: Che credettero di averlo e non lo ebbero affatto.

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Mancare un pulzellaggio in due, non è molto abile.

GIACOMO: Vedete, padrone, indovino, dall'angolo destro del vostro labbro che si solleva, e dalla vostra narice sinistra che si raggrinza, che tanto vale che io faccia la cosa di buona grazia, piuttosto che farmi pregare; tanto più che sento aumentare il mio mal di gola, che il seguito dei miei amori sarà lungo, e che non ho più coraggio che per una o due piccole storie.

IL PADRONE: Se Giacomo volesse farmi piacere...

GIACOMO: Come farebbe?

IL PADRONE: Comincerebbe con la perdita del suo pulzellaggio. Vuoi che te lo dica? Sono stato sempre ghiotto del racconto di questo grande evento.

GIACOMO: E perché, di grazia?

IL PADRONE: Perché, di tutti i racconti di questo genere, è il solo che sia piccante; gli altri non ne sono che insipide e comuni ripetizioni. Di tutti i peccati di una vezzosa penitente, sono sicuro che il confessore bada solo a questo.

GIACOMO: Padrone mio, padrone mio, vedo che avete lo spirito corrotto, e che alla vostra agonia il diavolo potrebbe riservarvi un supplizio simile a quello di Ferraù.

IL PADRONE: E' possibile. Ma tu fosti scaltrito, scommetto, da una vecchia impudica del tuo villaggio?

GIACOMO: Non scommettete, perdereste.

IL PADRONE: Dalla serva del tuo curato?

GIACOMO: Non scommettete, perdereste ancora.

IL PADRONE: Fu allora da sua nipote?

GIACOMO: Sua nipote crepava di umor nero e di devozione, due qualità che stanno bene insieme, ma che non fanno per me.

IL PADRONE: Questa volta, credo di esserci.

GIACOMO: Non ci credo.

IL PADRONE: Un giorno di fiera o di mercato...

GIACOMO: Non era né un giorno di fiera, né un giorno di mercato.

IL PADRONE: Andasti in città.

GIACOMO: Non andai affatto in città.

IL PADRONE: Era scritto lassù che avresti incontrato in una taverna qualcuna di quelle creature servizievoli; che ti saresti ubriacato...

GIACOMO: Ero a digiuno; ed è scritto lassù che, all'ora presente, vi esaurireste in false ipotesi; e che guadagnereste un difetto del quale mi avete corretto, la frenesia di indovinare, e sempre a rovescio.

Così come mi vedete, signore, sono stato una volta battezzato.

IL PADRONE: Se ti proponi di cominciare la perdita del tuo pulzellaggio all'uscita dal fonte battesimale, non arriveremo tanto presto.

GIACOMO: Ebbi dunque un padrino e una madrina. Mastro Bigre, il più famoso carradore del villaggio, aveva un figlio. Bigre il padre fu il mio padrino, e Bigre il figlio era mio amico. Fra i diciotto e i diciannove anni, c'invaghimmo tutti e due nello stesso tempo di una sartina chiamata Justine. Essa non passava per essere particolarmente crudele; ma giudicò a proposito di segnalarsi con un primo rifiuto, e la sua scelta cadde su di me.

IL PADRONE: Ecco una di quelle stranezze delle donne, di cui non si capisce niente.

GIACOMO: Tutto l'alloggio del carradore mastro Bigre, mio padrino, consisteva in una bottega e in una soffitta. Il suo letto era in fondo alla bottega. Bigre figlio, il mio amico, dormiva nella soffitta, alla quale ci si arrampicava con una scaletta, posta all'incirca a uguale distanza dal letto di suo padre e dalla porta della bottega.

Quando il mio padrino Bigre era addormentato per bene, il mio amico Bigre apriva pian pianino la porta e Justine saliva nella soffitta per la scaletta. L'indomani, allo spuntare del giorno, prima che Bigre padre fosse sveglio, Bigre figlio scendeva dalla soffitta, riapriva la porta, e Justine se ne andava com'era venuta.

IL PADRONE: Per andare poi a visitare qualche soffitta, la sua o un'altra.

GIACOMO: Perché no? La relazione fra Bigre e Justine era piuttosto tranquilla; ma bisognava che fosse turbata: era scritto lassù, quindi lo fu.

IL PADRONE: Dal padre?

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Dalla madre?

GIACOMO: No, era morta.

IL PADRONE: Da un rivale?

GIACOMO: Eh! no, no, per tutti i diavoli! no. Padrone mio, è scritto lassù che ne avete per il resto dei vostri giorni; finché vivrete farete l'indovino, ve lo ripeto, e indovinerete a rovescio.

Una mattina che il mio amico Bigre, più stanco del solito o per il lavoro della vigilia o per il piacere della notte, riposava dolcemente fra le braccia di Justine, ecco una voce formidabile che si fa sentire al piede della scaletta:- Bigre, Bigre! Maledetto poltrone!

l'"Angelus" è suonato, sono quasi le cinque e mezzo, e sei ancora nella tua soffitta! Hai deciso di restarci fino a mezzogiorno? Bisogna che io salga e te ne faccia scendere più presto di quanto non vorresti? Bigre, Bigre!

- Padre?

- E quest'asse che quel vecchio brontolone di fittavolo aspetta; vuoi che torni di nuovo qui a riprendere le sue urla?

- Il suo asse è pronto e l'avrà prima di un quarto d'ora...

Vi lascio immaginare la paura di Justine e del mio povero amico, Bigre figlio.

IL PADRONE: Sono sicuro che Justine si ripromise di non ritrovarsi più nella soffitta, e che c'era di nuovo la stessa sera. Ma come ne uscirà stamattina?

GIACOMO: Se vi sentite in dovere di indovinarlo, io taccio... Intanto Bigre figlio si era precipitato giù dal letto, con le gambe nude, i calzoni in mano e la giacca sulle braccia. Mentre si veste, Bigre padre bofonchia fra i denti: - Da quando si è messo in testa questa sgualdrinella, tutto va di traverso. Questo finirà; non potrebbe durare, comincia a stancarmi. Passi ancora se la ragazza ne valesse la pena; ma una sgualdrina! Dio sa che sgualdrina! Ah! Se la mia povera defunta, che era onesta fino alla punta dei capelli, avesse visto ciò, avrebbe da un pezzo bastonato l'uno, e strappato gli occhi all'altra, all'uscita dalla messa di mezzogiorno, sotto il portico, davanti a tutti; perché niente poteva trattenerla: ma se sono stato troppo buono fino ad ora, e immaginano che continuerò, si sbagliano.

IL PADRONE: E questi discorsi Justine li sentiva dalla soffitta?

GIACOMO: Non ne dubito. Intanto Bigre il figlio se ne era andato dal fittavolo, con il suo asse sulla spalla, e Bigre il padre si era messo al lavoro. Dopo alcuni colpi di maglio, il suo naso gli domanda una presa di tabacco; cerca la tabacchiera nelle sue tasche, al capezzale del letto; non la trova. - E' quel briccone, - dice, - che se ne è impadronito come al solito; vediamo se non l'ha lasciata lassù... - Ed eccolo che sale nella soffitta. Un momento dopo si accorge che gli mancano la pipa e il coltello; e risale nella soffitta.

IL PADRONE: E Justine?

GIACOMO: Aveva raccolto in fretta le sue vesti, e si era ficcata sotto il letto dov'era stesa ventre a terra, più morta che viva.

IL PADRONE: E il tuo amico Bigre figlio?

GIACOMO: Portato l'asse, messolo a posto e ricevutone il prezzo, era corso da me e mi aveva esposto il terribile impiccio in cui si trovava. Dopo essermi divertito un po', - ascolta, - gli dissi, - Bigre, vattene a spasso per il villaggio, o dove vorrai, ti tirerò fuori dai guai. Non ti chiedo che una cosa, di lasciarmene il tempo...

- Sorridete, signore, che c'è?

IL PADRONE: Niente.

GIACOMO: Il mio amico Bigre esce. Io mi vesto, poiché non ero ancora alzato. Vado da suo padre, il quale mi ebbe appena visto che lanciando un grido di sorpresa e di gioia, mi disse: - Eh! figlioccio, sei qui!

Da dove spunti, e che vieni a fare così presto? - Il mio padrino Bigre aveva molta amicizia per me; per questo gli risposi con franchezza: - Non si tratta di sapere da dove vengo, ma come rientrerò a casa.

-Ah! figlioccio, diventi libertino; ho veramente paura che tu e Bigre facciate un bel paio. Hai passato la notte fuori.

- E mio padre non sente ragione su questo punto.

- Tuo padre ha ragione, figlioccio, se non sente ragione su questo.

Ma cominciamo col mangiare, la bottiglia ci porterà consiglio.

IL PADRONE: Giacomo, quest'uomo era di buoni principi.

GIACOMO: Gli risposi che non avevo bisogno né voglia di bere o di mangiare, e che morivo di stanchezza e di sonno. Il vecchio Bigre, che ai suoi tempi non la cedeva ai suoi compagni, aggiunse sghignazzando:

- Figlioccio, era bella, e te ne sei fatto omaggio. Ascolta, Bigre è uscito; sali in soffitta e gettati sul suo letto... Ma una parola, prima che torni. E' amico tuo; quando vi troverete soli, digli che sono scontento, molto scontento. E' una certa Justine che tu devi conoscere (perché, quale ragazzo del villaggio non la conosce?) che me l'ha traviato; mi renderesti un vero servigio, se lo staccassi da quella sgualdrina. Prima era quello che si dice un bravo ragazzo; ma da quando ha fatto questa disgraziata conoscenza... Non mi ascolti; i tuoi occhi si chiudono; sali e va' a riposarti.

Salgo, mi spoglio, sollevo la coperta e i lenzuoli, tasto dappertutto, e niente Justine. Intanto Bigre, il mio padrino, diceva:- Che ragazzi! Che maledetti ragazzi! Eccone ancora uno che affligge suo padre! - Poiché Justine non era nel letto, sospettai che fosse sotto il letto. Il bugigattolo era tutto scuro. Mi chino, cerco con le mani, trovo un braccio, lo afferro, lo attiro a me; essa esce di sotto la cuccetta tremando. L'abbraccio, la rassicuro, le faccio segno di coricarsi. Essa giunge le mani, si getta ai miei piedi, mi stringe le ginocchia. Non avrei forse resistito a questa scena muta, se la luce l'avesse rischiarata; ma quando le tenebre non rendono timidi, esse rendono intraprendenti. D'altronde, avevo sul cuore i suoi antichi disdegni. Come risposta, la spinsi verso la scala che portava alla bottega. Essa lanciò un grido di spavento. Bigre che lo sentì disse:

- Sogna... Justine svenne; le mancarono le ginocchia; nel suo delirio, essa diceva con voce soffocata: - Sta venendo... viene... lo sento salire... sono perduta!... - No, no, - le risposi con voce soffocata, rimettetevi, tacete e coricatevi... - Essa insiste nel suo rifiuto; io tengo duro; lei si rassegna: ed eccoci l'uno accanto all'altra.

IL PADRONE: Traditore! scellerato! Sai quale delitto stai per commettere? Stai per violare questa ragazza, se non con la forza, almeno con il terrore. Accusato al tribunale delle leggi, ne proveresti tutto il rigore riservato agli autori di ratto.

GIACOMO: Non so se la violai, ma so bene che non le feci del male, e che essa non me ne fece affatto. Dapprima, stornando la bocca dai miei baci, l'avvicinò al mio orecchio e mi disse piano: - No, no, Giacomo, no... - A queste parole, feci finta di scendere dal letto e di andare verso la scala. Essa mi trattenne e mi disse all'orecchio: - Non vi avrei mai creduto così cattivo; vedo che non bisogna aspettarsi da voi nessuna pietà; ma, almeno, promettetemi, giuratemi...

- Che cosa?

- Che Bigre non ne saprà niente.

IL PADRONE: Tu promettesti, tu giurasti, e tutto andò benissimo.

GIACOMO: E poi benissimo ancora.

IL PADRONE: E poi ancora benissimo?

GIACOMO: E' precisamente come se foste stato presente. Intanto, il mio amico Bigre, impaziente, preoccupato e stanco di gironzare intorno alla casa senza incontrarmi, torna da suo padre che gli dice con collera: - Hai speso molto tempo per niente... - Bigre gli risponde con più collera ancora:- O non è occorso assottigliare alle due estremità quel maledetto asse che era troppo grosso?

- Ti avevo avvertito; ma tu vuoi sempre fare di testa tua.

- E' più facile toglierne che aggiungerne.

- Prendi questo quarto di ruota, e va' a finirlo sulla porta.

- Perché sulla porta?

- Perché il rumore sveglierebbe il tuo amico Giacomo.

- Giacomo!...

- Sì, Giacomo, è lassù in soffitta, che riposa. Ah! come i padri sono da compiangere; se non è per una cosa, è per un'altra! Ebbene! ti muovi? Mentre resti lì come un imbecille, a testa bassa, con la bocca spalancata, e con le braccia ciondoloni, il lavoro non si fa da solo... Il mio amico Bigre, furibondo, si slancia verso la scala; il mio padrino Bigre lo trattiene dicendogli:-Dove vai? lascia dormire quel povero diavolo, che è estenuato di stanchezza. Al suo posto, saresti contento che si disturbasse il tuo riposo?

IL PADRONE: E Justine sentiva pure tutto questo?

GIACOMO: Come mi sentite voi.

IL PADRONE: E tu che facevi?

GIACOMO: Ridevo.

IL PADRONE: E Justine?

GIACOMO: Si era tolta la cuffietta; si tirava i capelli; levava gli occhi al cielo, almeno lo presumo; si torceva le braccia.

IL PADRONE: Giacomo, sei un barbaro; hai un cuore di bronzo.

GIACOMO: Nossignore, non manco di sensibilità, ma la riservo per migliori occasioni. I dissipatori di questa ricchezza ne hanno prodigata tanta, mentre bisognava esserne economi, che non se ne trovano più quando bisognerebbe esserne prodighi... Intanto io mi vesto e scendo. Bigre padre mi dice: - Ne avevi bisogno, ti ha fatto bene; quando sei venuto avevi l'aria di un cadavere; ed eccoti fresco e vermiglio come un bambino che ha appena succhiato. Il sonno è una buona cosa! ... Bigre, scendi in cantina e porta una bottiglia, così mangeremo. Ora, figlioccio, mangerai volentieri?

- Molto volentieri... - La bottiglia arriva ed è posta sul banco, e noi intorno, in piedi. Bigre padre riempie il suo bicchiere ed il mio, Bigre figlio, allontanando il suo, dice in tono feroce: - Io non ho sete di così buon'ora.

- Non vuoi bere?

- No.

- Ah! so cos'è; ecco, figlioccio, sento puzza di Justine qua dentro; sarà passato da lei, o non l'avrà trovata, o l'avrà sorpresa con un altro; questo broncio contro la bottiglia non è naturale; è come ti dico.

IO: Potreste bene avere indovinato.

BIGRE FIGLIO: Giacomo, basta con gli scherzi, a proposito o a sproposito, non mi piacciono.

BIGRE PADRE: Poiché non vuole bere, non bisogna che questo ci impedisca di farlo. Alla tua salute, fìglioccio.

IO: Alla vostra, padrino; Bigre, amico mio, bevi con noi. Ti affliggi troppo per una cosa da poco.

BIGRE FIGLIO: Vi ho già detto che non bevo.

IO: Ebbene! se tuo padre ha indovinato, che diavolo, la rivedrai, vi spiegherete, e ammetterai che hai torto.

BIGRE PADRE: Eh! lascialo fare; non è giusto che questa sgualdrina lo castighi della pena che mi causa? Qua, ancora un bicchiere, e veniamo alla tua faccenda. Penso che bisogna che io ti porti da tuo padre; ma che vuoi che gli dica?

IO: Tutto ciò che vorrete, tutto ciò che gli avete sentito dire cento volte quando vi ha riportato vostro figlio.

BIGRE PADRE: Andiamo...

Esce, lo seguo, arriviamo alla porta di casa; io lo lascio entrare da solo. Curioso della conversazione fra Bigre padre ed il mio, mi nascondo in un angolo, dietro una parete, da dove non perderei una parola.

BIGRE PADRE: Via, compare, bisogna perdonargli questa volta ancora.

- Perdonargli, e che cosa?

- Fai lo gnorri.

- No, non so niente.

- Sei arrabbiato, e hai ragione di esserlo.

- Non sono affatto arrabbiato.

- Lo sei, ti dico.

- Se vuoi che lo sia, non chiedo di meglio; ma che io sappia prima che sciocchezza ha fatta.

- D'accordo, tre volte, quattro volte; ma non è l'abitudine. Ci si trova insieme una comitiva di giovanotti e di ragazze; si beve, si ride, si balla; le ore passano presto; e intanto la porta di casa si chiude...

Abbassando la voce, Bigre aggiunse: - Non ci sentono; ma, diciamo la verità, siamo forse stati più savi di loro alla loro età? Sai quali sono i cattivi padri? Quelli che hanno dimenticato gli errori della loro giovinezza. Dimmi, non abbiamo forse mai dormito fuori casa?

- E tu, Bigre, compare mio, dimmi, non abbiamo forse mai avuto relazioni che dispiacevano ai nostri genitori?

- Per questo, grido più forte di quanto non soffra. Fai lo stesso.

- Ma Giacomo non ha affatto dormito fuori casa, almeno stanotte, ne sono sicuro.

- Ebbene! se non è questa, è un'altra. Tant'è, non ne vuoi al tuo ragazzo?

- No.

- E quando sarò andato via, non lo maltratterai?

- Per niente.

- Mi dài la tua parola?

- Te la do.

- La tua parola d'onore?

- La mia parola d'onore.

- Tutto è detto, e me ne vado...

Mentre il mio padrino Bigre era sulla soglia, mio padre, battendogli piano la spalla, gli diceva: - Bigre, amico mio, qui gatta ci cova; il tuo ragazzo e il mio sono due birbe matricolate; e temo fortemente che ce n'abbiano data una a bere oggi; ma con il tempo si scoprirà.

Addio, compare.

IL PADRONE: E quale fu la fine dell'avventura fra il tuo amico Bigre e Justine?

GIACOMO: Quale doveva essere. Egli si arrabbiò, lei si arrabbiò più forte di lui; lei pianse, lui si intenerì; lei gli giurò che io ero il migliore amico che avesse; io gli giurai che lei era la ragazza più onesta del villaggio. Lui ci credette, ci chiese perdono, ci amò e ci stimò tutti e due di più. Ed ecco l'inizio, il mezzo e la fine della perdita del mio pulzellaggio. Adesso, signore, vorrei bene che mi spiegaste il fine morale di questa storia impertinente.

IL PADRONE: A conoscere meglio le donne.

GIACOMO: E avevate bisogno di questa lezione?

IL PADRONE: A conoscere meglio gli amici.

GIACOMO: E avete creduto mai che ce ne sia uno solo che conservi rancore a vostra moglie o a vostra figlia, se questa si fosse proposta la sua disfatta?

IL PADRONE: A conoscere meglio i padri e i figli.

GIACOMO: Andiamo, signore, questi sono stati in ogni tempo, e saranno sempre, alternativamente, lo zimbello gli uni degli altri.

IL PADRONE: Quello che dici è una verità eterna, ma sulla quale non si potrebbe insistere troppo. Qualunque sia il racconto che mi hai promesso dopo di questo, sii certo che non sarà privo d'insegnamento che per uno sciocco; e continua.

Lettore, mi viene uno scrupolo, quello di aver fatto l'onore a Giacomo o al suo padrone di alcune riflessioni che ti appartengono di diritto; se è così, puoi riprenderle senza che si formalizzino. Ho creduto di accorgermi che la parola Bigre ti dispiace. Vorrei ben sapere perché.

E' il vero nome della famiglia del mio carradore; gli estratti di battesimo, gli estratti mortuari, i contratti di matrimonio sono firmati Bigre. I discendenti di Bigre, che occupano oggi la bottega, si chiamano Bigre. Quando i loro figli, che sono carini, passano per la via, si dice: «Ecco i piccoli Bigre». Quando tu pronunci il nome di Boule, ti ricordi del più grande ebanista che ci sia stato. Non si pronuncia ancora, nella contrada di Bigre, il nome di Bigre senza ricordarsi del più grande carradore di cui si abbia memoria. Quel Bigre, di cui si legge il nome alla fine di tutti i libri di funzioni religiose dell'inizio di questo secolo, fu uno dei suoi parenti. Se mai un pronipote di Bigre si segnali per qualche grande azione, il nome personale di Bigre non sarà meno imponente per te di quello di Cesare o di Condé. E c'è Bigre e Bigre, come Guillaume e Guillaume. Se dico Guillaume senz'altro, non sarà né il conquistatore della Gran Bretagna, né il mercante di stoffa dell'"Avocat Patelin"; il nome di Guillaume senz'altro non sarà né eroico né borghese: così è di Bigre.

Bigre senz'altro non è né il famoso carradore, né qualcuno dei suoi piatti discendenti. In buona fede, un nome personale può essere di buono o di cattivo gusto? Le strade sono piene di cani che si chiamano Pompeo. Sbarazzati dunque della tua falsa delicatezza, o farò con te come milord Chatham con i membri del parlamento; egli disse loro: - Zucchero, Zucchero, Zucchero; che c'è di ridicolo in ciò... - Ed io ti dirò: Bigre, Bigre, Bigre; perché non ci si chiamerebbe Bigre? - Come diceva un ufficiale al suo generale, il gran Condé, c'è un fiero Bigre, come Bigre il carradore; un buon Bigre, come te e me; dei piatti Bigre, come un'infinità di altri.

GIACOMO: Era a una festa di nozze; mio fratello Jean aveva sposato la figlia di uno dei suoi vicini. Io facevo da paggio. Mi avevano messo a tavola fra i due burloni della parrocchia; io avevo l'aria di un semplicione, benché non lo fossi quanto credevano. Essi mi fecero qualche domanda sulla notte di nozze; risposi piuttosto stupidamente, ed ecco che scoppiano a ridere, e le mogli di questi due capiscarichi gridano dall'altro capo della tavola: - Che c'è mai? Siete molto allegri laggiù. - E' troppo buffo, - rispose uno dei nostri mariti a sua moglie; te lo racconterò stasera -. L'altra, che non era meno curiosa, fece la stessa domanda a suo marito, che le diede la stessa risposta. Il pranzo continua, e così le domande e le mie balordaggini, e le risate e la sorpresa delle donne. Dopo il pranzo, il ballo; dopo il ballo, il ritiro degli sposi, il dono della giarrettiera, io nel mio letto, i miei burloni nei loro, a raccontare alle loro mogli la cosa incomprensibile, incredibile, cioè che a ventidue anni, grande e vigoroso com'ero, abbastanza ben fatto, arzillo e punto stolto, ero così nuovo, ma così nuovo come all'uscire dal ventre di mia madre, e le due donne a meravigliarsene quanto i loro mariti. Ma già l'indomani, Suzanne mi fa segno e mi dice:

- Giacomo, non hai niente da fare?

- No, vicina; che posso per servirvi?

-Vorrei... vorrei - e dicendo vorrei, mi stringeva la mano e mi guardava in modo così singolare; - vorrei che prendessi la nostra roncola e che venissi qui vicino per aiutarmi a tagliare due o tre fascine, perché è una fatica troppo dura per me sola...

- Molto volentieri, donna Suzanne...

Prendo la roncola e andiamo. Strada facendo, Suzanne lasciava cadere il capo sulla mia spalla, mi prendeva per il mento, mi tirava gli orecchi, mi pizzicava sui fianchi. Arriviamo. Il posto era in pendio.

Suzanne si sdraia lunga lunga per terra nel posto più alto, con i piedi staccati uno dall'altro e le braccia sotto la testa. Io stavo più sotto, menando la roncola sui cespugli, e Suzanne ripiegava le gambe, avvicinando le calcagna alle natiche; le sue ginocchia alzate rendevano le sue gonne molto corte, e io menavo sempre la roncola sui cespugli, non badando molto dove battevo e spesso battevo a vuoto.

Finalmente, Suzanne mi disse: - Giacomo, avrai finito presto?

- Quando vorrete, donna Suzanne.

-Non vedi,- disse lei, a mezza voce, - che voglio che tu smetta?... - Finii quindi, ripresi fiato, e finii di nuovo; e Suzanne...

IL PADRONE: Ti toglieva il pulzellaggio che non avevi?

GIACOMO: E' vero; ma Suzanne non si ingannò, e sorrise e mi disse: - Ne hai data una bella ad intendere al nostro uomo; sei un furfante.

- Che volete dire, donna Suzanne?

- Niente, niente; mi capisci abbastanza. Ingannami ancora qualche volta così, te lo perdono... - Io legai le fascine, me le misi sulle spalle; e ritornammo lei a casa sua io alla nostra.

IL PADRONE: Senza fare una pausa lungo la strada?

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Non c'era dunque molta strada dalla campagna al villaggio?

GIACOMO: Non più che dal villaggio alla campagna.

IL PADRONE: Essa valeva solo questo?

GIACOMO: Valeva forse di più per un altro, per un altro giorno: ogni momento ha il suo valore.

Qualche tempo dopo, donna Marguerite, la moglie dell'altro burlone, aveva del grano da far macinare e non aveva tempo di andare al mulino; venne a chiedere a mio padre uno dei suoi ragazzi, che ci andasse per lei. Poiché ero il più grande, lei non dubitava che la scelta di mio padre sarebbe caduta su di me, cosa che non mancò di succedere. Donna Marguerite esce; io la seguo; carico il sacco sul suo asino e lo porto da solo al mulino. Ecco il suo grano macinato, e ce ne tornavamo, l'asino ed io, alquanto tristi, perché pensavo che avrei fatto la fatica per niente. Mi ingannavo. C'era fra il villaggio e il mulino un boschetto da attraversare; fu qui che trovai donna Marguerite sul ciglio della strada. Il giorno cominciava a declinare. Giacomo, - mi disse,- eccoti finalmente! Sai che ti aspetto da più di un'ora mortale?...

Lettore, tu sei troppo cavilloso. D'accordo, l'"ora mortale" si addice alle signore della città; e un'ora intera a donna Marguerite.

GIACOMO: E' che l'acqua era bassa, il mulino girava lentamente, il mugnaio era ubriaco e per quanto abbia fatto diligentemente, non ho potuto tornare più presto.

MARGUERITE: Siediti qui, e chiacchieriamo un po'.

GIACOMO: Donna Marguerite, con piacere...

Eccomi seduto accanto a lei per chiacchierare, e intanto conservavamo tutti e due il silenzio. Le dissi allora: - Ma, donna Marguerite, non mi dite niente e noi non chiacchieriamo.

MARGUERITE: E' che penso a quello che mio marito mi ha detto di te.

GIACOMO: Non credete niente di quello che vostro marito vi ha detto; è un burlone.

MARGUERITE: Mi ha assicurato che non sei mai stato innamorato.

GIACOMO: Oh! quanto a questo, ha detto il vero.

MARGUERITE: Come! mai in vita tua?

GIACOMO: In vita mia.

MARGUERITE: Come! alla tua età non sapresti che cos'è una donna?

GIACOMO: Scusatemi, donna Marguerite.

MARGUERITE: E cos'è una donna?

GIACOMO: Una donna?

MARGUERITE: Sì, una donna.

GIACOMO: Aspettate... E' un uomo che ha una gonnella, una cuffia da notte e grossi seni.

IL PADRONE: Ah! scellerato!

GIACOMO: L'altra non si era ingannata; e io volevo che costei si ingannasse. Alla mia risposta, donna Marguerite scoppiò a ridere a più non posso; e io, tutto sbalordito, le chiesi che avesse da ridere tanto. Donna Marguerite mi disse che rideva della mia semplicità: - Come! grande come sei, davvero, non ne sapresti di più?

- No, donna Marguerite.

Qui donna Marguerite tacque, e io pure. - Ma, donna Marguerite,- le dissi di nuovo, - siamo seduti per chiacchierare ed ecco che non dite una parola e che non chiacchieriamo. Donna Marguerite, cosa avete?

Siete pensierosa.

MARGUERITE: Sì, io penso... penso... penso...

Pronunciando questi «penso», il suo petto si sollevava, la sua voce si affievoliva, le sue membra tremavano, i suoi occhi si erano chiusi, la sua bocca era semiaperta; gettò un profondo sospiro; venne meno e io feci finta di credere che era morta, e mi misi a gridare col tono dello spavento:- Donna Marguerite! donna Marguerite; parlatemi; donna Marguerite, vi sentite male?

MARGUERITE: No, ragazzo mio; lasciatemi riposare un momento... Non so che mi ha preso... Mi è venuto improvvisamente.

IL PADRONE: Mentiva.

GIACOMO: Sì, mentiva.

MARGUERITE: E' che pensavo.

GIACOMO: Pensate così la notte accanto a vostro marito?

MARGUERITE: Qualche volta.

GIACOMO: Deve spaventarlo.

MARGUERITE: C'è abituato...

Marguerite si rimise a poco a poco dal suo svenimento, e mi disse: - Pensavo che alla festa, otto giorni fa, il mio uomo e quello della Suzanne si sono burlati di te; questo mi ha fatto pietà, e mi sono sentita tutta rimescolare.

GIACOMO: Siete troppo buona.

MARGUERITE: Non mi piace si prenda in giro la gente. Pensavo che alla prima occasione ricomincerebbero più di prima, e che questo mi farebbe ancora dispiacere.

GIACOMO: Ma non starebbe che a voi che questo non succedesse più.

MARGUERITE: E come?

GIACOMO: Insegnandomi...

MARGUERITE: Cosa mai?

GIACOMO: Ciò che ignoro, e che faceva tanto ridere il vostro uomo e quello della Suzanne, che non riderebbero più.

MARGUERITE: Oh, no, no. So bene che sei un bravo ragazzo, e che non lo diresti a nessuno: ma non oserei...

GIACOMO: E perché?

MARGUERITE: Perché non oserei.

GIACOMO: Ah! donna Marguerite, insegnatemi, vi prego, ve ne sarò fortemente obbligato, insegnatemi...- Nel supplicarla così, le stringevo le mani, e lei pure me le stringeva; io le baciavo gli occhi, e lei mi baciava la bocca. Intanto si faceva completamente notte. Io le dissi dunque: - Vedo bene, donna Marguerite, che non mi volete abbastanza bene per insegnarmi; ne sono davvero rattristato.

Andiamo, alziamoci; torniamo via... Donna Marguerite tacque; riprese una delle mie mani, non so dove la portò, ma fatto si è che io esclamai: - Non c'è niente! non c'è niente!

IL PADRONE: Scellerato, due volte scellerato!

GIACOMO: Fatto sta che lei era molto discinta, e che io pure lo ero molto. Fatto sta che io tenevo sempre la mano là dove in lei non c'era niente, e che lei aveva piazzato la sua mano dove da me non era affatto lo stesso. Il fatto si è che io mi trovai sotto di lei e di conseguenza lei sopra di me. Il fatto si è che non alleviandole io nessuna fatica, bisognava che se la sbrigasse lei tutta intera. Il fatto si è che si dava a istruirmi tanto di buon cuore che arrivò un momento in cui credetti che ne sarebbe morta. Fatto sta che turbato al pari di lei, e non sapendo cosa mi dicessi, gridai:- Ah! donna Suzanne, che dolce che mi fate!

IL PADRONE: Vuoi dire donna Marguerite.

GIACOMO: No, no. Il fatto si è che scambiai un nome per l'altro; e che invece di dire donna Marguerite, dissi donna Suzon. Fatto sta che confessai a donna Marguerite che quello che lei credeva di insegnarmi quel giorno, donna Suzon me l'aveva insegnato, in verità un po' diversamente, tre o quattro giorni prima. Fatto sta che lei disse: E che! è Suzon e non io? ... - Fatto sta che io le risposi: - Non è né l'una né l'altra. Fatto sta che, mentre si faceva beffe di se stessa, di Suzon, dei due mariti, e a me rivolgeva tante piccole ingiurie, io mi trovai sopra di lei, e di conseguenza lei sotto di me, e che, confidandomi che questo le aveva procurato un piacere grande ma non altrettanto che nell'altra posizione, lei si ritrovò sopra di me, e di conseguenza io sotto di lei. Fatto sta che dopo una pausa di riposo e di silenzio, non mi trovai né lei sotto, ne io sopra, né lei sopra, né me sotto, giacché eravamo l'uno e l'altra di fianco; lei aveva la testa chinata in avanti e le due natiche incollate contro le mie cosce. Fatto sta che se fossi stato meno esperto, la buona donna Marguerite mi avrebbe insegnato tutto quello che si può insegnare.

Fatto sta che avemmo una gran pena a riguadagnare il villaggio. Fatto si è che il mio mal di gola è cresciuto di molto, e che tutte le apparenze vogliono che io non riesca a parlare per quindici giorni.

IL PADRONE: E non hai rivisto quelle donne?

GIACOMO: Scusatemi, più di una volta.

IL PADRONE: Tutt'e due?

GIACOMO: Tutt'e due.

IL PADRONE: Non hanno litigato?

GIACOMO: Utili l'una all'altra, si sono amate di più.

IL PADRONE: Le nostre avrebbero fatto altrettanto, ma ciascuna con il suo uomo... Tu ridi.

GIACOMO: Tutte le volte che mi ricordo dell'omino che gridava, bestemmiava, ribolliva, dibattendosi con la testa, con i piedi, con le mani, con tutto il corpo, e sul punto di gettarsi giù dall'alto del fienile, a rischio di uccidersi, non potrei impedirmi di riderne.

IL PADRONE: E quest'omino, chi è? Il marito di donna Suzon?

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Il marito di donna Marguerite?

GIACOMO: No... Sempre lo stesso: continuerà fin tanto che vivrà.

IL PADRONE: Chi è mai?

Giacomo non rispose a questa domanda, e il padrone aggiunse:

- Dimmi almeno chi era l'omino.

GIACOMO: Un giorno un bambino, seduto ai piedi del banco di una merciaia, gridava a più non posso. La merciaia, infastidita dalle sue grida, gli disse: - Amico, perché gridate?

- Perché vogliono farmi dire A.

- E perché non volete dire A?

- Perché avrò appena detto A, che vorranno farmi dire B...

E che vi avrò appena detto il nome dell'omino, e bisognerà che vi dica il resto.

IL PADRONE: Può darsi.

GIACOMO: E' cosa certa.

IL PADRONE: Via, amico Giacomo, nominami l'omino. Ne muori dalla voglia, non è così? Soddisfa te stesso.

GIACOMO: Era una specie di nano, gobbo, ricurvo, balbuziente, guercio, geloso, dissoluto, innamorato e forse amato da Suzon. Era il vicario del villaggio.

Giacomo somigliava al bambino della merciaia come una goccia d'acqua, con questa differenza che, da quando aveva male alla gola, si aveva difficoltà a fargli dire A, ma una volta in movimento, andava da sé fino alla fine dell'alfabeto.

- Ero nel fienile di Suzon, solo con lei.

IL PADRONE: E non eri lì per non far niente?

GIACOMO: No. Il vicario arriva, va in collera, brontola, chiede imperiosamente a Suzon cosa facesse a quattr'occhi con il più dissoluto giovanotto del villaggio, nel posto più appartato della capanna.

IL PADRONE: Avevi già una bella reputazione, a quanto vedo.

GIACOMO: E abbastanza ben meritata. Egli era veramente arrabbiato; a queste parole ne aggiunge altre anche meno cortesi. Io mi arrabbio per conto mio. Da un'ingiuria all'altra, veniamo alle mani. Afferro una forca, gliela passo fra le gambe, una di qua e l'altra di là, e lo lancio sul fienile; né più né meno, come una balla di paglia.

IL PADRONE: E quel fienile era alto?

GIACOMO: Dieci piedi almeno, e l'omino non ne sarebbe sceso senza rompersi il collo.

IL PADRONE: E poi?

GIACOMO: Poi, allento il fazzoletto che Suzon aveva al collo, le prendo i seni, li accarezzo; essa si difende ma non troppo. C'era lì un basto d'asino del quale la comodità ci era nota; la spingo sul basto.

IL PADRONE: Le alzi le gonne?

GIACOMO: Le alzo le gonne.

IL PADRONE: E il vicario vedeva la scena?

GIACOMO: Come ora io vedo voi.

IL PADRONE: E taceva?

GIACOMO: No, prego. Non contenendo più la sua rabbia, si mise a gridare: - All'ass... all'ass... all'assassino! al fuo... al fuo...

al fuoco! al la... al la... al ladro!... - Ed ecco accorrere il marito che credevamo lontano.

IL PADRONE: Ne sono spiacente: i preti non mi piacciono.

GIACOMO: E sareste stato felicissimo che sotto gli occhi di costui...

IL PADRONE: Ne convengo.

GIACOMO: Suzon aveva avuto il tempo di rialzarsi; io mi rassetto, me la do a gambe, ed è Suzon che mi ha raccontato quanto segue. Il marito, che vede il vicario appollaiato sul fienile, si mette a ridere. Il vicario gli diceva: - Ri... ri... ridi bene... scio...

scio... sciocco che sei... - Il marito gli obbedisce, e ride più di prima, e gli domanda chi l'ha cacciato lassù. Il vicario: - Me...

me... mettimi a te... a te. .. a terra... - Il marito ride ancora, e gli chiede come deve fare. Il vicario: - Co... co... come ci... ci...

ci... sono sa... sa... salito, con... con... con la for... for...

forca... - Per dindirindina, avete ragione; vedete che significa aver studiato?...- Il marito prende la forca, la presenta al vicario; questi si inforca come l'avevo inforcato io; il marito gli fa fare una o due volte il giro del fienile in cima all'utensile da bassacorte, accompagnando questa passeggiata con una specie di canto di chiesa; e il vicario gridava: - Me... me... mettimi a te... a terra, ga...

ga... gaglioffo, vu... vu... vuoi me... me... mettermi a te... terra?- E il marito gli diceva: - Che ci vuole, signor vicario, perché io vi mostri così in tutte le strade del villaggio? Non vi si sarebbe mai vista una processione così bella... Tuttavia il vicario se la cavò con la paura, e il marito lo mise a terra. Non so quello che disse allora al marito, poiché Suzon se l'era squagliata; ma sentii: - Di... di... disgraziato! Tu... tu... ba... ba... batti un... un pre...

pre... prete; io... io... ti... ti... ti... sco... sco... scomunico; tu... tu... sa... sarai da... da... dannato... - Era l'omino che parlava; ed era il marito che lo inseguiva a colpi di forca. Io arrivo con molti altri; appena il marito mi vede da lontano, mettendo la forca in resta: - Avvicinati, avvicinati, - mi disse.

IL PADRONE: E Suzon?

GIACOMO: Se la cavò.

IL PADRONE: Male?

GIACOMO: Le donne se la cavano sempre bene quando non sono sorprese in flagrante delitto... Di che ridete?

IL PADRONE: Di quello che mi farà ridere, come te, tutte le volte che mi ricorderò del pretino in cima alla forca del marito.

GIACOMO: Fu poco tempo dopo quest'avventura, arrivata alle orecchie di mio padre che ne rise anche lui, che mi arruolai, come vi ho detto...

Dopo qualche momento di silenzio, o di tosse da parte di Giacomo, dicono gli uni, o dopo aver riso ancora, dicono gli altri, il padrone rivolgendosi a Giacomo, gli disse: - E la storia dei tuoi amori? - Giacomo crollò il capo e non rispose.

Come un uomo sensato, che ha buoni costumi, che si picca di filosofia, può divertirsi a spacciare racconti di una simile oscenità? - Anzitutto, lettore, non sono racconti, è una storia, e non mi sento più colpevole, anzi forse meno, quando scrivo le sciocchezze di Giacomo, che non Svetonio quando ci tramanda le gozzoviglie di Tiberio. Tuttavia tu leggi Svetonio e non gli fai nessun rimprovero.

Perché non aggrotti le sopracciglia davanti a Catullo, a Marziale, a Orazio, a Giovenale, a Petronio, a La fontaine e a tanti altri? Perché non dici allo stoico Seneca: Che bisogno abbiamo noi delle crapule del vostro schiavo dagli specchi concavi? Perché non hai indulgenza che per i morti? Se rifletti un po' a questa parzialità, vedrai che essa proviene da qualche principio vizioso. Se sei innocente, tu non mi leggerai; se sei corrotto, mi leggerai senza conseguenze. E poi, se quello che ti sto dicendo non ti soddisfa, apri la prefazione di Jean- Baptiste Rousseau, e ci troverai la mia apologia. Chi di voi oserebbe biasimare Voltaire per aver composto la "Pucelle"? Nessuno. Hai dunque due bilance per le azioni degli uomini? Ma, dirai tu, la "Pucelle" di Voltaire è un capolavoro! - Peggio ancora, poiché sarà ancora più letta. - E il vostro "Giacomo" non è che un'insipida rapsodia di fatti, reali gli uni, immaginari gli altri, scritti senza grazia e distribuiti senza ordine. - Tanto meglio, il mio "Giacomo" sarà meno letto. Da qualunque lato ti giri, hai torto. Se la mia opera è buona, ti farà piacere; se è cattiva, non farà male. Non c'è un libro più innocente di un cattivo libro. Mi diverto a scrivere sotto nomi falsi le sciocchezze che tu fai; le tue sciocchezze mi fanno ridere; il mio scritto ti fa andare in collera. Lettore, per parlarti francamente, trovo che il più cattivo di noi due, non sono io. Quanto sarei soddisfatto se mi fosse così facile garantirmi dalle tue perfidie, come a te dalla noia o dal pericolo della mia opera! Brutti ipocriti, lasciatemi in pace! F...ttete come asini senza basto; ma permettetemi di dire f...ttere; io vi passo il fatto, passate a me la parola. Tu pronunci arditamente uccidere, rubare, tradire, e l'altra non l'oseresti che fra i denti! Forse quanto meno di queste pretese impurità esprimi in parole, tanto più te ne restano nel pensiero? E che ti ha fatto l'atto genitale, così naturale, così necessario e così giusto, per escluderne il segno dalle tue conversazioni, e per immaginare che la tua bocca, i tuoi occhi, le tue orecchie ne sarebbero insudiciati? E' bene che le espressioni meno usate, meno scritte, meglio taciute, siano le meglio sapute e le più generalmente conosciute; infatti è così; e la parola "futuo" non è meno familiare che la parola pane; nessuna età l'ignora, nessun idioma ne è privo; ha mille sinonimi in tutte le lingue, è impressa in ognuna senza essere espressa, senza voce, senza figura, e il sesso che lo fa di più, usa tacerlo di più. Ti sento di nuovo, tu gridi: - Uh, che cinico! Uh, che impudente! Uh, che sofista!... - Coraggio, insulta per benino un autore degno di stima, che hai continuamente fra le mani, e di cui io non sono qui che il traduttore. La licenza del suo stile mi è quasi garanzia della purezza dei suoi costumi; è Montaigne. «Lasciva est nobis pagina, vita proba».

Giacomo e il suo padrone passarono il resto della giornata senza aprire bocca. Giacomo tossiva e il suo padrone diceva: - Che brutta tosse! - Guardava al suo orologio che ora fosse senza saperlo, apriva la tabacchiera senza accorgersene, e fiutava una presa di tabacco senza sentirlo; quello che me lo prova, è che faceva queste cose tre o quattro volte di seguito e nello stesso ordine. Un momento dopo, Giacomo tossiva ancora, e il suo padrone diceva: - Che diavolo di tosse! Non per niente ti sei riempito fino al gozzo con il vino dell'ostessa. Ieri sera, con il segretario, non ti sei risparmiato di più; quando sei salito barcollavi, non sapevi quel che dicessi; e oggi hai fatto dieci pause e scommetto che non ti resta più una goccia di vino nella tua fiaschetta . - Poi bofonchiava fra i denti, guardava l'orologio, e gratificava le sue narici.

Ho dimenticato di dirti, lettore, che Giacomo non andava mai senza una fiaschetta piena del vino migliore; essa era sospesa all'arcione della sua sella. Ogni volta che il suo padrone interrompeva il suo racconto con qualche domanda un po' lunga, egli staccava la fiaschetta, ne beveva un sorso a garganella, e non la rimetteva a posto che quando il suo padrone aveva smesso di parlare. Avevo inoltre dimenticato di dirti che, nei casi che richiedevano riflessione, il suo primo moto era quello di interrogare la sua fiaschetta. Bisognava risolvere una questione di morale, discutere un fatto, preferire una strada a un'altra, iniziare, proseguire o abbandonare un affare, pesare i vantaggi o gli svantaggi di un'operazione politica, di una speculazione di commercio o di finanza, la saggezza o la follia di una legge, la sorte di una guerra, la scelta di una locanda, in una locanda la scelta di un appartamento, in un appartamento la scelta di un letto, la sua prima parola era: «Interroghiamo la fiaschetta». La sua ultima era: «E' il parere della fiaschetta ed il mio». Quando il destino era muto nella sua testa, si esprimeva per mezzo della fiaschetta, una specie di Pizia portatile, silenziosa appena vuota. A Delfo, la Pizia, con le sottane rialzate, seduta sul treppiede col di dietro nudo, riceveva la sua ispirazione dal basso in alto Giacomo, sul suo cavallo, con la testa alzata verso il cielo, la fiaschetta sturata e l'orlo piegato verso la sua bocca, riceveva la sua ispirazione dall'alto in basso. Quando la Pizia e Giacomo pronunciavano i loro oracoli, erano ebbri tutti e due. Egli pretendeva che lo Spirito Santo era sceso sugli apostoli in un fiasco; chiamava la Pentecoste la festa dei fiaschi. Ha lasciato un trattatello di ogni specie di divinazioni, trattato profondo in cui dà la preferenza alla divinazione di Bacbuc, o per mezzo del fiasco. Accusa di falso, malgrado tutta la venerazione che aveva per lui, il curato di Meudon, che interrogava la diva Bacbuc dal rumore della pancia. «Amo Rabelais, - diceva, - ma preferisco la verità a Rabelais». Lo chiama eretico «Engastrimita»; e prova con cento ragioni, le une migliori delle altre, che i veri oracoli di Bacbuc, o del fiasco, non si facevano sentire che attraverso il collo di questo. Egli annovera nella schiera dei distinti settatori di Bacbuc, dei veri ispirati del fiasco in questi ultimi secoli, Rabelais, La Fare, Chapelle, Chaulieu, La fontaine, Molière, Panard, Gallet, Vadé, Platone e Jean-Giacomo Rousseau, che predicano il buon vino senza berne, sono secondo lui dei falsi seguaci del fiasco. Il fiasco ebbe in altri tempi alcuni santuari celebri: la Pomme-de-Pin, il Temple e la Guinguette, santuari di cui egli scrive separatamente la storia. Fa il quadro più magnifico dell'entusiasmo, del calore, del fuoco da cui i Bacbucciani o Perigordini erano e sono stati ancora invasi ai nostri giorni, quando sul finire del pranzo, con i gomiti appoggiati alla tavola, la diva Bacbuc o il sacro fiasco appariva loro, era deposto in mezzo a loro, fischiava, gettava lontano la sua cuffia, e ricopriva i suoi adoratori con la sua schiuma profetica. Il suo manoscritto è ornato di due ritratti, al piede dei quali si legge: «Anacreonte e Rabelais, l'uno fra gli antichi, l'altro fra i moderni, sovrani pontefici del fiasco».

- E Giacomo si è servito del termine "Engastrimita"?...

-Perché no, lettore? Il capitano di Giacomo era Bacbucciano; ha potuto conoscere quest'espressione, e Giacomo, che raccoglieva tutto ciò che quello diceva, ricordarsela; ma la verità è che l'Engastrimita è mio, e che nel testo originale si legge: «Ventriloquo».

- Tutto questo è bellissimo, - tu aggiungi, - ma, e gli amori di Giacomo? - Gli amori di Giacomo, non c'è che lui che li sappia; ed eccolo tormentato da un mal di gola che riduce il suo padrone al suo orologio e alla tabacchiera; indigenza che l'affligge quanto te.- Che sarà dunque di noi? - In fede mia, non ne so niente. Sarebbe davvero il caso d'interrogare qui la diva Bacbuc o il fiasco sacro; ma il suo culto cade, i suoi templi sono deserti. Come alla nascita del nostro divino Salvatore, gli oracoli del paganesimo cessarono, alla morte di Gallet gli oracoli di Bacbuc furono muti; per ciò non più grandi poemi, non più passi di eloquenza sublime, non più produzioni che portano l'impronta dell'ebbrezza e del genio; tutto è ragionato, compassato, accademico e piatto. O diva Bacbuc! o fiasco sacro! o divinità di Giacomo! Tornate fra noi!... Mi viene voglia, lettore, di intrattenerti sulla nascita della diva Bacbuc, dei prodigi che la accompagnarono e la seguirono, delle meraviglie del suo regno e dei disastri della sua sparizione; e se il mal di gola del nostro amico Giacomo dura a lungo, e il suo padrone si ostina a mantenere il silenzio, bisognerà bene che ti accontenti di quest'episodio, che cercherò di prolungare fino a che Giacomo guarisca e riprenda la storia dei suoi amori...

C'è qui una lacuna davvero deplorevole nella conversazione di Giacomo con il suo padrone. Un giorno un discendente di Nodot, del presidente de Brosses, di Freinshemius, o del padre Brottier, la colmerà forse; e i discendenti di Giacomo o del suo padrone, proprietari del manoscritto, ne rideranno molto.

Sembra che Giacomo, ridotto al silenzio dal suo mal di gola, abbia sospeso la storia dei suoi amori; e che il suo padrone abbia iniziata quella dei suoi. Non è che una congettura, che do per ciò che vale.

Dopo alcune righe punteggiate, che annunciano la lacuna, si legge:

«Niente è più triste in questo mondo che l'essere sciocco...» E' Giacomo che proferisce questo apoftegma? E' il suo padrone? Sarebbe l'argomento di una lunga e spinosa dissertazione. Se Giacomo era abbastanza insolente per indirizzare queste parole al suo padrone, questi era abbastanza franco per indirizzarle a se stesso. Comunque sia, è evidente, evidentissimo, che è il padrone che continua.

IL PADRONE: Era la vigilia della sua festa, e io non avevo danaro. Il cavaliere de Saint-Ouin, mio intimo amico, non era mai messo in imbarazzo da niente. Non hai danaro? - mi disse.

- No.

- Ebbene! non c'è che da trovarne.

- E tu sai come si fa a trovarne?

-Senza dubbio-. Si veste, usciamo, e mi porta, attraverso parecchie strade fuori mano, in una casetta oscura, in cui saliamo, per una piccola scala sporca, a un terzo piano dove entro in un appartamento abbastanza spazioso e singolarmente ammobiliato. C'erano fra l'altro tre cassettoni di fronte, tutti e tre di forma diversa; dietro quello di mezzo, un grande specchio con una cornice troppo alta per il soffitto, in modo che un buon mezzo piede di questo specchio era nascosto dal cassettone; su questi cassettoni, mercanzie di ogni genere: due trictrac; tutt'intorno nell'appartamento, delle sedie abbastanza belle, ma non una che avesse la compagna; ai piedi di un letto senza cortine una superba poltrona allungata; contro una delle finestre una voliera senza uccelli, ma nuova nuova; all'altra finestra un lampadario sospeso a un manico di scopa, e il manico di scopa posato per le due estremità sulle spalliere di due cattive sedie di paglia; e poi a destra e a sinistra dei quadri, gli uni appesi ai muri, gli altri ammucchiati.

GIACOMO: Tutto ciò sa di usuraio nel raggio di una lega.

IL PADRONE: Hai indovinato. Ed ecco il cavaliere e il signor Le Brun (è questo il nome del nostro rigattiere e usuraio) precipitarsi l'uno nelle braccia dell'altro... - Eh! siete voi, signor cavaliere?

- Già, sono io, mio caro Le Brun.

- Ma che ne è di voi? E' un'eternità che non vi si è più visto. I tempi sono molto tristi; non è vero?

-Molto tristi, mio caro Le Brun. Ma non si tratta di questo; ascoltatemi, avrei una parola da dirvi...

Mi siedo. Il cavaliere e Le Brun si ritirano in un angolo, e si parlano. Non posso riferirti della loro conversazione che qualche parola che colsi a volo...

- E' buono?

- Eccellente.

- Maggiorenne?

- Assolutamente maggiorenne.

- E' il figlio?

- Il figlio.

- Sapete che i nostri due ultimi affari?...

- Parlate più piano.

- Il padre?

- Ricco.

- Vecchio?

- E di salute precaria.

Le Brun ad alta voce - Vedete, signor cavaliere, non voglio più impicciarmi di niente, ciò ha sempre conseguenze spiacevoli. E' vostro amico, e va bene! Il signore ha senz'altro l'aria d'un galantuomo; ma...

- Mio caro Le Brun!

- Non ho danaro.

- Ma avete delle conoscenze!

-Sono tutti dei pitocchi, dei furfanti matricolati. Signor cavaliere, non siete stanco di passare per simili mani?

- Necessità non conosce legge.

- La necessità che vi stringe è una piacevole necessità, una partita a carte, un giro di lotteria, qualche ragazza.

- Caro amico!...

- Sono sempre io, sono debole come un bambino; e poi voi, non so a chi non fareste giurare il falso. Andiamo, suonate, perché sappia se Fourgeot è a casa sua... No, non suonate, Fourgeot vi porterà da Merval.

- Perché non voi?

- Io! Ho giurato che quest'abominevole Merval non lavorerebbe più né per me né per i miei amici. Bisognerà che voi rispondiate del signore, che forse, che senza dubbio è un onest'uomo; che io risponda di voi a Fourgeot, e che Fourgeot risponda di me a Merval...

Intanto la serva era entrata dicendo: - E' dal signor Fourgeot?

Le Brun alla serva: - No, non è da nessuno... Signor cavaliere, non posso assolutamente, non posso.

Il cavaliere lo abbraccia, lo accarezza: - Mio caro Le Brun! Mio caro amico!... - Io mi avvicino, unisco le mie istanze a quelle del cavaliere: - Signor Le Brun! mio caro signore!...

Le Brun si lascia convincere.

La serva che sorrideva di questa mimica, esce, e in un attimo riappare con un ometto zoppo, vestito di nero, il bastone in mano, balbuziente, il viso secco e rugoso, l'occhio vivo. Il cavaliere si gira dalla sua parte e gli dice: - Andiamo, signor Mathieu de Fourgeot, non abbiamo un istante da perdere, portateci presto...

Fourgeot, senza avere l'aria di ascoltarlo, slegava i cordoni di una piccola borsa di camoscio.

Il cavaliere a Fourgeot: - Scherzate, tocca a noi...- Io mi avvicino, tiro fuori un piccolo scudo che passo al cavaliere, che lo dà alla serva passandole la mano sotto il mento. Intanto Le Brun diceva a Fourgeot: - Ve lo proibisco; non portate là questi signori.

FOURGEOT: Signor Le Brun, perché mai?

LE BRUN: E' un briccone, è un furfante.

FOURGEOT: So bene che il signor de Merval... ma, a ogni peccato misericordia; e poi, non conosco che lui che abbia danaro in questo momento.

LE BRUN: Signor Fourgeot, fate come vi piace; signori, me ne lavo le mani.

FOURGEOT (a Le Brun): Signor Le Brun, non venite con noi?

LE BRUN: Io! Dio mi salvi. E' un infame che non rivedrò mai più in vita mia.

FOURGEOT: Ma, senza di voi, non concluderemo niente.

IL CAVALIERE: E' vero. Andiamo, mio caro Le Brun, si tratta di rendermi un servigio, si tratta di aiutare un galantuomo che è alle strette; non me lo rifiuterete; verrete.

LE BRUN: Andare da un Merval! io! io!

IL CAVALIERE: Sì, voi, verrete per me...

A forza di sollecitazioni Le Brun si lascia trascinare, ed eccoci, lui Le Brun, il cavaliere, Mathieu de Fourgeot, in cammino, mentre il cavaliere batteva amichevolmente nella mano di Le Brun e mi diceva: - E' l'uomo migliore, l'uomo più servizievole del mondo, la migliore conoscenza...

LE BRUN: Credo che il cavaliere mi farebbe battere moneta falsa.

Eccoci da Merval.

GIACOMO: Mathieu de Fourgeot...

IL PADRONE: Ebbene! Che vuoi dire con questo?

GIACOMO: Mathieu de Fourgeot... Voglio dire che il Cavaliere de Saint- Ouin conosce questa gente per nome e soprannome: e che è un furfante, d'accordo con tutte queste canaglie.

IL PADRONE: Potresti bene aver ragione... E' impossibile conoscere un uomo più dolce, più civile, più onesto più cortese, più umano, più compassionevole, più disinteressato del signor de Merval. Ben constatate la mia età di maggiorenne e la mia solvibilità, il signor de Merval prese un'aria tutta affettuosa e triste e ci disse, con il tono della compunzione, che era disperato: che era stato quella mattina stessa costretto a soccorrere uno dei suoi amici in preda ai bisogni più urgenti, e che era del tutto a secco. Poi, rivolgendosi a me, aggiunse: Signore, non vi rincresca di non essere venuto prima; sarei stato afflitto di dovervi dare un rifiuto, ma l'avrei fatto:

l'amicizia prima di tutto...

Eccoci tutti stupefatti: ecco il cavaliere, lo stesso Le Brun e Fourgeot ai piedi di Merval, e il signor de Merval che diceva loro: - Signori, mi conoscete tutti; mi piace rendere servigi e cerco di non sciupare i miei servigi facendomeli sollecitare; ma, in fede di uomo d'onore, non ci sono quattro luigi in casa...

Quanto a me, io somigliavo, in mezzo a quella gente, ad un paziente che ha sentito la sua sentenza. Dicevo al cavaliere:Cavaliere, andiamocene, poiché questi signori non possono fare niente -. E il cavaliere tirandomi in disparte: - Non ci pensare nemmeno, è la vigilia della sua festa. L'ho avvertita, te ne avverto; e lei si aspetta una galanteria da parte tua. Tu la conosci: non è che sia interessata, ma è come tutte le altre, a cui non piace essere ingannate nella loro aspettativa. Se ne sarà già vantata con il padre, la madre, le zie, le amiche; e, dopo ciò, non avere niente da mostrar loro, è mortificante... E poi eccolo di nuovo da Merval, facendogli pressioni più vive. Merval, dopo essersi fatto pregare per benino, dice: - Ho l'anima più sciocca del mondo; non posso vedere la gente in pena. Penso: e mi viene un'idea.

IL CAVALIERE: E quale idea?

MERVAL: Perché non prendereste delle mercanzie?

IL CAVALIERE: Ne avete?

MERVAL: No; ma conosco una donna che ve ne fornirà; una brava donna, una donna onesta.

LE BRUN: Sì, ma che ci fornirà degli stracci, che ci venderà a peso d'oro, e da cui non ricaveremo niente.

MERVAL: Niente affatto, saranno bellissime stoffe, gioielli d'oro e d'argento, seterie d'ogni specie, delle perle, alcune gemme; ci sarà pochissimo da perdere su questi effetti. E' una brava persona che si accontenterà di poco, purché abbia delle garanzie; sono merci d'occasione, che le costano molto poco. Del resto, vedetele, non vi costerà niente...

Feci presente a Merval e al cavaliere che non ero in condizione di vendere; e che, quand'anche questo sistema non mi ripugnasse, la mia situazione non mi lascerebbe il tempo di trarne profitto. Quei servizievoli di Le Brun e Mathieu de Fourgeot dissero insieme:- Questo non ha importanza, noi venderemo per voi; è questione di una mezza giornata... - E la riunione fu rimandata al pomeriggio dal signor de Merval che, battendomi dolcemente sulla spalla, mi diceva in tono untuoso e compenetrato: Signore, sono felicissimo di rendervi servigio; ma, credete a me, fate raramente simili prestiti; finiscono sempre con il rovinare. Sarebbe un miracolo, in questo paese, se aveste a trattare ancora una volta con persone così oneste come i signori Le Brun e Mathieu de Fourgeot...

Le Brun e Fourgeot de Mathieu, o Mathieu de Fourgeot, lo ringraziarono con un inchino, dicendogli che era molto buono e che essi avevano cercato fino ad ora di fare il loro piccolo commercio con coscienza, e che non c'era di che lodarli.

MERVAL: Vi ingannate, signori, poiché, chi ha coscienza oggi? Chiedete al cavaliere de Saint-Ouin, che deve saperne qualche cosa...

Eccoci usciti da Merval, che ci chiede, dall'alto della scala, se può contare su di noi e fare avvertire la mercantessa. Gli rispondiamo di sì; e andiamo tutti e quattro a pranzare in una locanda vicina, in attesa dell'ora dell'appuntamento.

Fu Mathieu de Fourgeot che ordinò il pranzo, un buon pranzo. Alle frutta, due ragazze si avvicinarono alla nostra tavola con le loro mandole; Le Brun le fece sedere. Le si fece bere, le si fece chiacchierare, le si fece suonare. Mentre i miei tre commensali si divertivano a sgualcire le gonne dell'una, la sua compagna, che era accanto a me, mi diceva piano: - Signore, siete in pessima compagnia:

non c'è una di queste persone che non abbia il suo nome sul libro rosso.

Lasciammo la locanda all'ora convenuta, e ci recammo da Merval.

Dimenticavo di dirti che questo pranzo esaurì la borsa del cavaliere e la mia, e che, strada facendo, Le Brun disse al cavaliere, che me lo riferì, che Mathieu de Fourgeot esigeva dieci luigi di commissione, che era il meno che gli si potesse dare; che se fosse stato soddisfatto di noi, avremmo avuto le mercanzie a miglior prezzo, e recuperata questa somma sulla vendita.

Eccoci da Merval, dove la sua mercantessa ci aveva preceduti con le sue merci. La signorina Bridoie (era questo il suo nome) ci riempì di cortesie e di riverenze, e ci mostrò delle stoffe, delle tele, dei merletti, degli anelli, dei diamanti, delle scatole d'oro. Prendemmo di tutto. Furono Le Brun, Mathieu de Fourgeot e il cavaliere, che misero il prezzo alle cose; ed era Merval che teneva la penna. Il totale ammontò a diecimila settecento settantacinque lire, di cui stavo per fare la cambiale, quando la signorina Bridoie mi disse, facendo una riverenza (poiché non si rivolgeva mai a nessuno senza riverirlo):- Signore, il vostro disegno è di pagare le vostre cambiali alla loro scadenza?

- Sicuro, - le risposi.

- In questo caso, - mi replicò lei, - vi è indifferente farmi delle cambiali o delle lettere di cambio.

Il termine lettera di cambio mi fece impallidire. Il cavaliere se ne accorse, e disse alla signorina Bridoie: - Delle lettere di cambio, signorina! ma queste lettere di cambio circolano, e non si sa in che mani potrebbero capitare.

-Scherzate, signor cavaliere: conosciamo un po' i riguardi dovuti alle persone del vostro rango... - E qui una riverenza .- Si tengono questi pezzi di carta nel portafoglio; non li si produce che a tempo debito. Ecco, guardate.. Cava di tasca il portafoglio; legge una quantità di nomi di ogni ceto e di ogni posizione. Il cavaliere si era avvicinato a me, e mi diceva: Delle lettere di cambio; la cosa è maledettamente seria! Vedi quello che vuoi fare. Questa donna mi sembra onesta, e poi, prima della scadenza, tu sarai in fondi, o lo sarò io.

GIACOMO: E voi firmaste le lettere di cambio?

IL PADRONE: E' vero.

GIACOMO: E' abitudine dei padri, quando i loro figli partono per la capitale, di fare loro un sermoncino. Non frequentate cattive compagnie; rendetevi graditi ai vostri superiori con l'esattezza nel compiere i vostri doveri; conservate la vostra religione; fuggite le ragazze di mala vita, i cavalieri d'industria, e soprattutto non firmate mai lettere di cambio.

IL PADRONE: Che vuoi, io feci come gli altri; la prima cosa che dimenticai fu la lezione di mio padre. Eccomi provvisto di merci da vendere, ma era il danaro che ci serviva. C'erano alcune paia di manichini di merletto, bellissimi: il cavaliere se ne impadronì al prezzo di costo dicendomi: - Ecco già una parte dei tuoi acquisti, su cui non perderai niente -. Mathieu de Fourgeot prese un orologio e due scatole d'oro, di cui mi avrebbe saldato subito l'importo; Le Brun prese in deposito il resto da lui. Io mi misi in tasca una superba guarnizione con i manichini; era uno dei fiori del mazzo che dovevo offrire. Mathieu de Fourgeot tornò in un batter d'occhio con sessanta luigi: ne trattenne dieci per sé, ed io ricevetti gli altri cinquanta.

Mi disse che non aveva venduto né l'orologio né le due scatole, ma che li aveva impegnati.

GIACOMO: Impegnati?

IL PADRONE: Sì.

GIACOMO: So da chi.

IL PADRONE: Da chi?

GIACOMO: Dalla signorina che faceva le riverenze, la Bridoie.

IL PADRONE: E' vero. Con il paio di manichini e la guarnizione, presi ancora un bell'anello, con una scatola per i nei, placcata d'oro.

Avevo cinquanta luigi nella mia borsa; ed eravamo, io e il cavaliere, veramente allegri.

GIACOMO: Tutto questo va benissimo. Non c'è che una cosa che mi incuriosisce; è il disinteresse di messer Le Brun; costui non ebbe forse niente del bottino?

IL PADRONE: Andiamo, Giacomo, tu scherzi, non conosci il signor Le Brun. Gli proposi di ricompensare i suoi buoni uffici; egli si arrabbiò, mi rispose che lo prendevo evidentemente per un Mathieu de Fourgeot; che lui non aveva mai teso la mano. - Ecco il mio caro Le Brun, esclamò il cavaliere, è sempre lo stesso; ma noi arrossiremmo che fosse più onesto di noi...- E subito prese fra le nostre mercanzie due dozzine di fazzoletti, una pezza di mussolina, che gli fece accettare per sua moglie e sua figlia. Le Brun si mise a considerare i fazzoletti, che gli parvero così belli, la mussolina che trovò così fine; questo gli era offerto di così buona grazia, egli aveva un'occasione così prossima di prendersi la rivincita con noi con la vendita degli effetti che restavano nelle sue mani, che si lasciò vincere; ed eccoci partiti, dirigendoci di gran carriera in fiacre verso la dimora di colei che amavo, e a cui la guarnizione, i manichini e l'anello erano destinati. Il dono riuscì a meraviglia. La bella fu incantevole. Provò subito la guarnizione e i manichini; l'anello sembrava essere stato fatto per il suo dito. Si cenò, e allegramente come puoi pensare.

GIACOMO: E voi passaste la notte lì.

IL PADRONE: No.

GIACOMO: Allora fu il cavaliere?

IL PADRONE: Lo credo.

GIACOMO: All'andatura alla quale vi si portava, i vostri cinquanta luigi non durarono a lungo.

IL PADRONE: No. In capo a otto giorni andammo da Le Brun per vedere che cosa avesse prodotto il resto dei nostri effetti.

GIACOMO: Niente, o poca cosa. Le Brun fu triste, si scagliò contro il Merval e la signorina dalle riverenze, li chiamò miserabili, infami, furfanti, giurò di nuovo che non avrebbe più niente a spartire con loro, e vi consegnò sette o ottocento franchi.

IL PADRONE: Pressappoco; ottocento settanta lire.

GIACOMO: Così, se so calcolare un po', ottocento settanta lire da Le Brun, cinquanta luigi da Merval o da Fourgeot, la guarnizione, i manichini e l'anello, facciamo ancora cinquanta luigi, ed ecco quello che avete recuperato delle vostre diciannovemila settecento settantacinque lire, in mercanzie. Diavolo! è onesto. Merval aveva ragione, non capita tutti i giorni di trattare con gente così degna.

IL PADRONE: Dimentichi i manichini presi dal cavaliere a prezzo di costo.

GIACOMO: E che il cavaliere non ve ne ha parlato mai più.

IL PADRONE: Ne convengo. E delle due scatole d'oro e dell'orologio impegnati da Mathieu, non dici nulla.

GIACOMO: E' che non so che dirne.

IL PADRONE: Intanto la scadenza delle lettere di cambio arrivò.

GIACOMO: E non arrivarono né i vostri fondi né quelli del cavaliere.

IL PADRONE: Fui costretto a nascondermi. Si informarono i miei genitori; uno dei miei zii venne a Parigi. Egli presentò un memoriale alla polizia contro tutti quei birbanti. Questo memoriale fu trasmesso a uno dei commessi; questo commesso era un protettore stipendiato di Merval. Si rispose che, essendo la faccenda nelle mani della giustizia, la polizia non ci poteva fare niente. Quegli che aveva prestato su pegno, a cui Mathieu aveva affidato le due scatole, fece citare Mathieu. Io intervenni in questo processo. Le spese giudiziali furono così enormi che, dopo la vendita dell'orologio e delle scatole, mancavano ancora cinque o seicento franchi perché ci fosse di che pagare tutto.

Tu, lettore non ci crederai. E se ti dicessi quanto segue: un caffettiere deceduto qualche tempo fa nel mio vicinato, lasciò due poveri orfanelli in tenera età. Il commissario va in casa del defunto; si mettono i sigilli. Tolti i sigilli, si fa un inventario, una vendita; la vendita produce da otto a novecento franchi. Di questi novecento franchi, prelevate le spese giudiziali, restano due soldi per ciascuno dei due orfanelli; si mettono loro i due soldi in mano, e li si porta all'ospizio.

IL PADRONE: E' orribile.

GIACOMO: E ciò dura ancora.

IL PADRONE: Frattanto mio padre morì. Io pagai le lettere di cambio, uscii dal mio nascondiglio in cui, per l'onore del cavaliere e della sua amica, confesserò che mi furono compagni piuttosto fedeli.

GIACOMO: Ed eccovi innamorato pazzo come prima del cavaliere e della vostra bella; mentre la vostra bella vi lascia più che mai con l'acquolina in bocca.

IL PADRONE: E perché, Giacomo?

GIACOMO: Perché? Padrone della vostra persona e possessore di una discreta fortuna, bisognava fare di voi uno sciocco completo, un marito.

IL PADRONE: In fede mia, credo che era questo il loro progetto; ma non ci riuscirono.

GIACOMO: Siete molto fortunato, o essi sono stati molto maldestri.

IL PADRONE: Mi sembra che la tua voce sia meno rauca, e che parli più liberamente.

GIACOMO: Vi sembra, ma non è così.

IL PADRONE: Non potresti dunque riprendere la storia dei tuoi amori?

GIACOMO: No.

IL PADRONE: Ed è tuo parere che io continui la storia dei miei?

GIACOMO: E' mio parere di fare una pausa, e di alzare il fiasco.

IL PADRONE: Come! con il tuo mal di gola hai fatto riempire la fiaschetta?

GIACOMO: Sì; ma, per tutti i diavoli, di tisana; per questo non ho idee, sono istupidito; e lo sarò finché nella fiaschetta non ci sarà che della tisana.

IL PADRONE: Che fai?

GIACOMO: Verso a terra la tisana; temo che ci porti disgrazia.

IL PADRONE: Sei pazzo.

GIACOMO: Savio o pazzo, non ne resterà una lacrima nella fiaschetta.

Mentre Giacomo vuota per terra la fiaschetta, il suo padrone guarda l'orologio, apre la tabacchiera e si prepara a continuare la storia dei suoi amori. Ed io, lettore, sono tentato di chiudergli la bocca mostrandogli da lontano un vecchio militare a cavallo, con le spalle curve, che va di gran passo; o una contadinella con il cappellino di paglia, le gonne rosse, che fa la sua strada a piedi o su un asino. E perché il vecchio militare non sarebbe il capitano di Giacomo o il compagno del suo capitano?- Ma questi è morto. - Lo credi?...

Perché la giovane contadina non sarebbe donna Suzon, o donna Marguerite, o l'ostessa del "Gran Cervo", o Jeanne, o anche Denise, sua figlia? Un facitore di romanzi non mancherebbe di farlo; ma io non amo i romanzi, a meno che si tratti di quelli di Richardson. Io faccio la storia, questa storia interesserà o no: è la più piccola delle mie preoccupazioni. Il mio progetto è di essere vero, e l'ho adempiuto.

Non farò quindi tornare da Lisbona il fratello Jean; questo grosso priore che viene verso di noi in calesse, vicino a una donna giovane e bella, non sarà l'abate Hudson. - Ma l'abate Hudson è morto? - Lo credi? Hai assistito alle sue esequie ? - No . - Non l'hai visto sotterrare?- No.- Allora è morto o vivo, come mi piacerà. Non dipenderebbe che da me fermare questo calesse, e farne uscire con il priore e la sua compagna di viaggio un seguito di avvenimenti a causa dei quali tu non sapresti né gli amori di Giacomo, né quelli del suo padrone; ma io disdegno simili risorse, vedo solo che, con un po' d'immaginazione e di stile, niente è più facile che filare un romanzo.

Restiamo nel vero, e in attesa che passi il mal di gola di Giacomo, lasciamo parlare il suo padrone.

IL PADRONE: Una mattina, il cavaliere mi sembrò molto triste; era l'indomani di un giorno che avevamo passato in campagna, il cavaliere, la sua amica o la mia, o forse l'amica di entrambi, il padre, la madre, le zie, le cugine ed io. Egli mi chiese se non avessi commessa qualche indiscrezione che avesse rischiarato i genitori sulla mia passione. Mi fece sapere che il padre e la madre, allarmati dalle mie assiduità, avevano fatto delle domande alla loro figlia; che se avevo intenzioni oneste niente era più facile che il confessarle; che si sarebbero fatti un onore di ricevermi a queste condizioni; ma che se non mi fossi spiegato nettamente entro una quindicina di giorni, mi avrebbero pregato di smettere delle visite che si notavano, sulle quali si chiacchierava, e che facevano torto alla loro figlia, allontanando da lei partiti vantaggiosi che potevano presentarsi senza tema di rifiuto.

GIACOMO: Ebbene! padrone mio, Giacomo ha naso?

IL PADRONE: Il cavaliere aggiunse: - Fra una quindicina! Il termine è alquanto breve. Voi amate, siete amato; che farete fra quindici giorni? - Risposi chiaro e tondo al cavaliere che mi sarei ritirato.

- Vi ritirerete! Non amate, allora?

-Amo, e molto; ma ho genitori, un nome, una posizione, delle pretese, e non mi deciderò mai a sotterrare tutti questi vantaggi nel magazzino di una piccola borghese.

- E devo dichiararlo loro?

- Se volete. Ma, cavaliere, mi stupisce l'improvvisa e scrupolosa delicatezza di questa gente. Hanno permesso alla loro figlia di accettare i miei regali; mi hanno lasciato venti volte solo con lei; essa va ai balli, alle riunioni, agli spettacoli, alle passeggiate in campagna e in città, con il primo che ha una buona carrozza da offrirle; dormono profondamente mentre si fa musica o si conversa da lei; tu frequenti la casa quando ti piace; e, fra noi, cavaliere, quando tu sei ammesso in una casa, vi si può ammettere altri. La loro figlia si è fatta notare. Non crederò, non negherò tutto quello che se ne dice; ma converrai che questi genitori avrebbero potuto badare un po' prima ad essere gelosi dell'onore della loro figlia. Vuoi che ti dica la verità? Mi hanno preso per una specie di sempliciotto che si ripromettevano di menare per il naso ai piedi del parroco. Si sono ingannati. Trovo madamigella Agathe affascinante; ne ho il cervello sconvolto: e si vede, credo, dalle spese spaventevoli che ho fatte per lei. Non mi rifiuto di continuare, ma bisognerebbe almeno che fosse con la certezza di trovarla un po' meno severa in avvenire.

- Il mio progetto non è di perdere eternamente alle sue ginocchia un tempo, una fortuna e dei sospiri che potrei impiegare più utilmente altrove. Dirai queste ultime parole alla signorina Agathe, e tutto quello che le ha precedute ai suoi genitori... Bisogna che la nostra relazione cessi o che io sia ammesso su un altro piede, e che madamigella Agathe faccia di me qualcosa di meglio di quel che ha fatto finora. Quando m'introduceste presso di lei, convenite, cavaliere, che mi faceste sperare delle buone cose che non ho trovato affatto. Cavaliere, mi avete alquanto ingannato.

IL CAVALIERE: In fede mia, mi sono un po' ingannato per primo io stesso. Chi diavolo avrebbe mai immaginato che con l'aria spigliata, le maniere libere e gaie, questa pazzerella fosse invece un piccolo mostro di virtù?

GIACOMO: Diavolo! signore, questa è veramente straordinaria. Siete stato dunque coraggioso una volta in vita vostra?

IL PADRONE: Ci sono giorni così. Avevo sullo stomaco l'avventura degli usurai, il mio ritiro a Saint-Jean-de-Latran, a causa della signorina Bridoie, e più di tutto, i rigori di madamigella Agathe. Ero un po' stanco di essere preso in giro.

GIACOMO: E, in base a questo coraggioso discorso rivolto al vostro caro amico cavalier de Saint-Ouin, che faceste?

IL PADRONE: Mantenni la parola, interruppi le mie visite.

GIACOMO: Bravo! Bravo! mio caro maestro!

IL PADRONE: Passò una quindicina senza che sentissi parlare di niente, eccetto che dal cavaliere che mi informava puntualmente degli effetti della mia assenza sulla famiglia, e che mi incoraggiava a tener duro.

Egli mi diceva: - Cominciano a stupirsi, ci si guarda, si parla; ci si interroga sui motivi di scontento che ti si sono potuti dare. La ragazza si para di dignità; parla con una indifferenza affettata, attraverso la quale si vede facilmente che è piccata: non si vede più quel signore, evidentemente non vuol più che lo si veda; alla buon'ora, è affar suo... Poi fa una piroetta, si mette a canterellare, va alla finestra, ritorna, ma con gli occhi rossi; tutti si accorgono che ha pianto.

- Che ha pianto!

- Poi si siede; prende il lavoro; vuole lavorare, ma non lavora. Si chiacchiera, essa tace; si cerca di divertirla, e va in collera; le si propone un gioco, una passeggiata, uno spettacolo: accetta; e quando tutto è pronto, è un'altra cosa che le piace o le dispiace un momento dopo... Oh! ecco che ti turbi! Non ti dirò più niente.

- Ma cavaliere, credete dunque che, se ricomparissi...

-Credo che saresti uno sciocco. Bisogna resistere, bisogna aver coraggio. Se torni senza essere richiamato, sei perduto. Bisogna insegnare a vivere a questa piccola gente.

- Ma se non mi richiamano?

- Ti richiameranno.

- Se si tarda molto a richiamarmi?

-Ti si richiamerà ben presto. Diamine! un uomo come te non si sostituisce facilmente. Se torni spontaneamente, ti si farà il broncio, ti si farà pagar caro l'affronto, ti si imporrà la legge che si vorrà importi; bisognerà sottomettervisi; bisognerà piegare le ginocchia. Vuoi essere il padrone o lo schiavo, lo schiavo più malmenato? Scegli. A dirti il vero, il tuo modo di procedere è stato un po' leggero; non si può dedurne che si tratti di un uomo molto innamorato; ma quel che è fatto è fatto; e se è possibile trarne vantaggio, non bisogna mancare di farlo.

- Essa ha pianto!

- Ebbene! ha pianto. E' preferibile che sia lei a piangere piuttosto che tu.

- Ma se non mi si richiama?

- Ti si richiamerà, ti dico. Quando io arrivo, non parlo di te più che se tu non esistessi. Mi si interroga velatamente, lascio fare; finalmente mi si chiede se ti ho visto; rispondo indifferentemente, ora sì, ora no; poi si parla d'altro; ma non si tarda a tornare sulla tua eclissi. La prima parola viene o dal padre, o dalla madre, o dalla zia, o da Agathe, e si dice: Dopo tutti i riguardi che abbiamo avuti per lui! l'interesse che abbiamo tutti mostrato per la sua ultima faccenda! Le cortesie che mia nipote gli ha fatte! Le gentilezze di cui l'ho colmato! Tante proteste di attaccamento che ne abbiamo ricevuto! E poi, fidatevi degli uomini!... Dopo ciò, aprite la vostra casa a quelli che si presentano!... Credete agli amici!

- E Agathe?

- C'è la costernazione, te l'assicuro io.

- E Agathe?

- Agathe mi tira in disparte, e dice: «Cavaliere, capite qualche cosa del vostro amico? Mi avete assicurato tante volte che ero amata da lui; lo credevate, senza dubbio, e perché non l'avreste creduto? Lo credevo bene, io...» E poi si interrompe, la sua voce si altera, i suoi occhi si inumidiscono... Ebbene! ecco che ora tu fai lo stesso!

Non ti dirò più niente, è deciso. Vedo quello che desideri, ma non se ne farà niente, assolutamente niente. Poiché hai fatto la sciocchezza di ritirarti senza né rima né ragione, non voglio che tu la raddoppi andando a gettarti nelle loro braccia. Bisogna trar partito da questo incidente per far progredire la tua faccenda con Madamigella Agathe; bisogna che lei veda che non ti possiede così bene da non poterti perdere, a meno che non faccia del suo meglio per conservarti. Dopo quello che hai fatto, essere ancora a baciarle la mano! Ma vediamo, cavaliere, la mano sulla coscienza, siamo amici; e puoi senza indiscrezione spiegarti con me; davvero, non hai ottenuto niente da lei?

- No.

- Menti, fai l'uomo discreto.

- Lo farei forse, se avessi ragione di farlo; ma ti giuro che non ho la fortuna di mentire.

- E' inconcepibile, perché, dopo tutto, non sei senza esperienza.

Come! non c'è stato il minimo momento di debolezza!

- No.

- Ci sarà stato, non te ne sarai accorto, e l'avrai mancato. Ho paura che tu sia stato un po' coglione; le persone dabbene, delicate e tenere come te ci sono portate.

- Ma voi, cavaliere, - gli dissi, - che ci state a fare?

- Niente.

- Non avete avuto qualche pretesa?

- Scusate, scusate, le mie pretese sono state anche troppo lunghe; ma tu venisti, vedesti, vincesti. Mi sono accorto che ti si guardava molto, e che non mi si guardava quasi più; me lo sono tenuto per detto. Siamo rimasti buoni amici; mi si confidano i pensierucci, si seguono a volte i miei consigli; e in mancanza di meglio, ho accettato la parte di subalterno alla quale tu mi hai ridotto.

GIACOMO: Signore, due cose: l'una è che io non ho mai potuto continuare la mia storia senza che un diavolo o l'altro mi interrompesse, e che la vostra va tutta di seguito. Ecco come va la vita; uno corre attraverso i rovi senza pungersi; l'altro ha un bel badare a dove mette i piedi, trova dei rovi sulla strada più bella, e arriva a casa scorticato vivo.

IL PADRONE: Hai dimenticato forse il tuo ritornello; e il grande rotolo, e quello che è scritto lassù?

GIACOMO: L'altra cosa è che insisto nell'idea che il vostro cavaliere de Saint-Ouin è un gran furfante; e che dopo aver diviso il vostro danaro con gli usurai Le Brun, Merval, Mathieu de Fourgeot o Fourgeot de Mathieu, e la Bridoie, cerca di appiopparvi la sua amante, onestamente si intende, davanti al notaio e al curato, per dividere con voi anche vostra moglie... Ahi! la gola!...

IL PADRONE: Sai che stai facendo? una cosa molto comune e molto impertinente.

GIACOMO: Ne sono ben capace.

IL PADRONE: Ti lamenti di essere stato interrotto, e interrompi a tua volta.

GIACOMO: E' l'effetto del cattivo esempio che mi avete dato. Una madre vuole essere galante, e vuole che sua figlia sia savia; un padre vuole essere dissipatore, e vuole che suo figlio sia economo; un padrone vuole...

IL PADRONE: Interrompere il suo domestico, interromperlo quanto gli piace, e non esserne interrotto.

Lettore, non hai paura di veder rinnovarsi qui la scena della locanda in cui uno gridava: «Scenderai»; l'altro «Non scenderò»? Da che dipenderebbe che ti facessi sentire:«interromperò;non interromperai»? E' certo che, per poco che io stuzzichi Giacomo o il suo padrone, ecco accesa la disputa, e se la faccio cominciare, chi sa come finirà? Ma la verità è che Giacomo rispose modestamente al suo padrone:- Signore, io non vi interrompo; ma chiacchiero con voi, come voi me ne avete dato il permesso.

IL PADRONE: Passi; ma non è tutto.

GIACOMO: Quale altra incongruenza posso aver commesso?

IL PADRONE: Vai anticipando su colui che racconta, e gli togli il piacere che si è ripromesso dalla tua sorpresa; in modo che, avendo per una ostentazione di sagacia del tutto fuori posto indovinato quello che lui aveva da dirti, non gli rimane più che tacere; ed io taccio.

GIACOMO: Ah! padrone mio!

IL PADRONE: Siano maledette le persone di spirito!

GIACOMO: D'accordo; ma non avrete la crudeltà...

IL PADRONE: Ammetti per lo meno che lo meriteresti.

GIACOMO: D'accordo; ma con tutto ciò, guarderete al vostro orologio che ora è, prenderete la vostra presa di tabacco, la vostra collera finirà, e continuerete la vostra storia.

IL PADRONE: Questo mariuolo fa di me tutto quello che vuole...

- Alcuni giorni dopo questo colloquio con il cavaliere, questi ricomparve da me; aveva un'aria trionfante. - Ebbene amico, mi dice, - un'altra volta crederete alle mie previsioni? Ve l'avevo ben detto, siamo i più forti, ed ecco una lettera della piccina; sì, una lettera, una lettera di lei...

Questa lettera era molto dolce; dei rimproveri, dei lamenti "et caetera"; ed eccomi di nuovo installato nella casa.

Lettore, tu sospendi qui la tua lettura; che c'è? Ah! credo di capire, vorresti vedere questa lettera. La signora Riccoboni non avrebbe mancato di mostrartela. E quella che la signora de La Pommeraye dettò alle due devote, sono certo che l'hai rimpianta. Benché fosse più difficile da fare che non quella di Agathe, e benché io non abbia una presunzione infinita sul mio talento, credo che me la sarei cavata, ma essa non sarebbe stata originale; sarebbe stato come le sublimi arringhe di Tito Livio nella sua "Storia di Roma", o del cardinale Bentivoglio nelle sue "Guerre di Fiandra". Si leggono con piacere, ma distruggono l'illusione. Uno storiografo, che attribuisce ai suoi personaggi discorsi che non hanno mai fatto, può attribuire loro anche azioni che non hanno compiuto. Ti supplico dunque di voler fare a meno di queste due lettere e di continuare la lettura.

IL PADRONE: Mi si chiese ragione della mia eclissi, dissi quello che volli; si accontentarono di ciò che dissi e tutto riprese come al solito.

GIACOMO: Cioè, voi continuaste le vostre spese, e le vostre faccende amorose non progredirono di più.

IL PADRONE: Il cavaliere me ne chiedeva notizie e sembrava spazientirsene.

GIACOMO: E se ne spazientiva forse davvero.

IL PADRONE: Perché mai?

GIACOMO: Perché? perché egli...

IL PADRONE: Finisci dunque.

GIACOMO: Me ne guarderò bene; bisogna lasciare a colui che racconta...

IL PADRONE: Trai profitto delle mie lezioni, me ne rallegro... Un giorno il cavaliere mi propose una passeggiata da solo a solo. Andammo a passare la giornata in campagna. Partimmo di buon'ora. Pranzammo in locanda; vi cenammo; il vino era eccellente, ne bevemmo molto, chiacchierando del governo, di religione e di galanteria. Il cavaliere non mi aveva mai manifestato tanta fiducia, tanta amicizia; mi aveva raccontato tutte le avventure della sua vita, con la più incredibile franchezza, non nascondendomi né il bene né il male. Beveva, mi abbracciava, piangeva di tenerezza; io bevevo, lo abbracciavo, piangevo a mia volta. Non c'era in tutta la sua vita passata che una sola azione che si rimproverasse; ne porterebbe il rimorso fino alla tomba.

- Cavaliere, confessatevi al vostro amico, questo vi solleverà.

Ebbene, di che si tratta? di qualche peccatuccio di cui la vostra delicatezza vi esagera il valore?

- No, no, - esclamava il cavaliere prendendosi la testa fra le mani, e coprendosi il viso per la vergogna;- è una nefandezza, una nefandezza imperdonabile. Lo crederete? Io, cavaliere de Saint-Ouin, ho una volta ingannato, ingannato, sì, ingannato il mio amico!

- E come è stato?

- Ahimè! frequentavamo tutti e due la stessa casa, come voi e me.

C'era una fanciulla come madamigella Agathe; lui ne era innamorato, ed io, io ne ero amato; egli si rovinava in spese per lei, ed ero io che godevo dei suoi favori. Non ho mai avuto il coraggio di confessarglielo; ma se ci troveremo di nuovo insieme, gli dirò tutto.

Questo spaventoso segreto che porto in fondo al mio cuore, lo opprime, è un fardello di cui bisogna che mi liberi assolutamente.

- Cavaliere, farete bene.

- Me lo consigliate?

- Certo, ve lo consiglio.

- E come credete che il mio amico prenderà la cosa?

- Se è vostro amico, se è giusto, troverà la vostra scusa in se stesso; sarà commosso della vostra franchezza e del vostro pentimento; vi getterà le braccia al collo; farà quello che io farei al suo posto.

- Lo credete?

- Lo credo.

- Ed è così che voi fareste?

- Certamente...

Istantaneamente il cavaliere si alza, avanza verso di me, con le lacrime agli occhi, le braccia aperte, e mi dice:- Amico mio, abbracciatemi dunque.

-Come! cavaliere, - gli dissi, - siete voi? Sono io? quella briccona di Agathe?

- Sì, amico mio; vi rendo ancora la vostra parola, siete padrone di agire con me come vi piace. Se pensate, come me, che la mia offesa sia senza scusa, non mi scusate; alzatevi, lasciatemi, non rivedetemi più che con disprezzo, e abbandonatemi al mio dolore e alla mia vergogna.

Ah! amico mio, se sapeste tutto il potere che quella piccola scellerata aveva preso sul mio cuore! Sono nato onesto; giudicate quanto ho dovuto soffrire della parte indegna alla quale mi sono abbassato. Quante volte ho distolto i miei occhi da lei, per posarli su di voi, gemendo del suo tradimento e del mio. E' inaudito che non ve ne siate mai accorto...

Intanto io restavo immobile come un pilastro; sentivo appena il discorso del cavaliere. Esclamai: - Ah! indegno! cavaliere! voi, voi, il mio amico!

- Sì, lo ero, e lo sono ancora, poiché dispongo, per togliervi dai lacci di questa creatura, di un segreto che è più suo che mio. Quello che mi fa disperare, è che voi non ne abbiate ottenuto niente che vi ripaghi di tutto quello che avete fatto per lei. (Qui Giacomo si mette a ridere e a fischiare).

- Ma è "La verità nel vino", di Collé... - Lettore, non sai quello che dici; a forza di voler mostrare dello spirito, non sei che un somaro. E' così poca la verità nel vino che, proprio al contrario, è falsità nel vino. Ti ho detto una villania, ne sono spiacente e te ne chiedo scusa.

IL PADRONE: La mia collera scemò a poco a poco. Abbracciai il cavaliere; egli si rimise sulla sua sedia, con i gomiti appoggiati sulla tavola, i pugni chiusi sugli occhi; non osava guardarmi.

GIACOMO: Era così afflitto! e voi aveste la bontà di consolarlo?... (E Giacomo a fischiare di nuovo).

IL PADRONE: La decisione che mi sembrò migliore, fu di girare la cosa allo scherzo. Ad ogni parola allegra, il cavaliere confuso mi diceva:

- Non esiste un uomo come voi; siete unico; valete cento volte più di me. Dubito che io avrei avuto la generosità o la forza di perdonarvi un'ingiuria simile, e voi ci scherzate; è senza esempio. Amico mio, che potrò fare per riparare?... Ah! no, no, questo non si ripara. Mai, mai dimenticherò né il mio delitto né la vostra indulgenza; sono due tratti profondamente incisi qui. Mi ricorderò dell'uno per detestarmi, dell'altro per ammirarvi, per raddoppiare l'attaccamento per voi.

- Via, cavaliere, non ci pensate, voi sopravvalutate la vostra azione e la mia. Beviamo alla vostra salute. Cavaliere, alla mia allora, poiché non volete che sia alla vostra... Il cavaliere a poco a poco riprese coraggio. Mi raccontò tutti i particolari del suo tradimento, coprendosi da sé degli epiteti più duri; fece a pezzi e la figlia, e la madre, e il padre, e le zie, e tutta la famiglia, che mi mostrò come una accozzaglia di canaglie indegne di me, ma ben degne di lui; sono le sue stesse parole.

GIACOMO: Ed ecco perché consiglio alle donne di non andare mai a letto con gente che si ubriaca. Non disprezzo meno il vostro cavaliere per la sua indiscrezione in amore che per la sua perfidia in amicizia. Che diavolo! non aveva che da... essere un galantuomo, e parlarvi prima di tutto... Ma ecco, signore, insisto, è un furfante, un furfante matricolato. Non so più come andrà a finire; ho paura che vi inganni ancora mentre vi disinganna. Toglietemi, toglietemi voi stesso subito subito da questa locanda e dalla compagnia di quell'uomo...

Qui Giacomo riprese la sua fiaschetta, dimenticando che non c'era né tisana né vino. Il padrone si mise a ridere. Giacomo tossì mezzo quarto d'ora di seguito. Il padrone cavò l'orologio e la tabacchiera, e continuò la sua storia che io interromperò, se vi va; non fosse che per fare arrabbiare Giacomo, provandogli che non era scritto lassù, come lui credeva, che lui sarebbe stato sempre interrotto e che il suo padrone non lo sarebbe mai.

IL PADRONE (al cavaliere): Dopo quello che me ne state dicendo, spero che non li rivedrete più.

- Io, rivederli!... Ma quello che sarebbe disperante, sarebbe andarsene senza vendicarsi. Si sarà tradito, giocato, beffato, spogliato un galantuomo; si sarà abusato della passione e della debolezza di un altro galantuomo, poiché oso ancora considerarmi tale, per impelagarlo in una serie d'orrori; si sarebbero esposti due amici al pericolo di odiarsi e forse di sgozzarsi reciprocamente, poiché insomma, mio caro, convenite che, se aveste scoperto le mie mene indegne, siete coraggioso, ne avreste forse concepito un tale risentimento...

- No, non sarebbe andata fin là. E perché mai? e per chi? per una colpa che nessuno potrebbe affermare di non commettere? E' forse mia moglie? E se anche lo fosse? E' forse mia figlia? No, è una sgualdrinella; e credete che per una sgualdrinella... Via, amico mio, lasciamo andare e beviamo. Agathe è giovane, viva, bianca, grassottella, rotondetta; sono le carni più sode, non è vero? e la pelle più dolce? Il godimento dev'esserne delizioso, e immagino che eravate troppo felice tra le sue braccia per non pensare molto ai vostri amici.

-E' certo che se i vezzi della persona e il piacere potessero attenuare la colpa, nessuno sotto il cielo sarebbe meno colpevole di me.

- Ah, cavaliere, torno sui miei passi, mi riprendo la mia indulgenza, e voglio mettere una condizione all'oblio del vostro tradimento.

- Parlate, amico mio, ordinate, dite; devo gettarmi dalla finestra, impiccarmi, annegarmi, sprofondarmi questo coltello nel petto?...

E istantaneamente il cavaliere afferra un coltello che era sulla tavola, stacca il colletto, apre la camicia, e, con gli occhi stralunati, si mette la punta del coltello con la mano destra nella fossetta della clavicola sinistra, e sembra non attendere che il mio ordine per spacciarsi all'antica.

- Non si tratta di questo, cavaliere, lasciate stare quel maledetto coltello.

- Non lo lascio, e quello che merito; fate un segno.

- Lasciate quel coltellaccio, vi dico, non metto un prezzo così alto alla vostra espiazione...

Intanto la punta del coltello era sempre sospesa sulla fossetta della clavicola sinistra; gli afferrai la mano, gli strappai il coltello che gettai lontano da me, poi avvicinando la bottiglia al suo bicchiere, e riempiendolo, gli dissi: - Prima di tutto, beviamo; e saprete dopo a quale terribile condizione sospendo il vostro perdono. Agathe è dunque ben succulenta, ben voluttuosa?

- Ah! amico mio, perché non potete saperlo come me!

- Aspetta, bisogna che ci portino una bottiglia di "Champagne", e poi mi farai la storia di una delle tue notti. Traditore incantevole, la tua assoluzione è alla fine di questa storia. Su, comincia: non mi capisci?

- Vi capisco.

- La mia sentenza ti pare troppo dura?

- No.

- Sei pensieroso?

- Penso!

- Che ti ho chiesto?

- Il racconto di una delle mie notti con Agathe.

- E' così.

Intanto il cavaliere mi misurava dalla testa ai piedi, e si diceva: - E' la stessa statura, più o meno la stessa età, e seppure ci fosse qualche differenza, senza luce, con l'immaginazione prevenuta che si tratta di me, lei non sospetterà niente...

- Ma, cavaliere, a che pensi? il tuo bicchiere resta pieno, e tu non inizi!

-Penso, amico mio, ci ho pensato, è tutto detto: abbracciatemi, saremo vendicati, sì, lo saremo. E' una scelleratezza da parte mia; se è indegna di me, non lo è di quella piccola briccona. Voi mi chiedete la storia di una delle mie notti?

- Sì: è esigere troppo?

- No; ma se, invece della storia, vi procurassi la notte?

- Sarebbe un po' meglio. (Giacomo si mette a fischiare).

Detto fatto, il cavaliere tira fuori di tasca due chiavi, una piccola e l'altra grande. - La piccola, - mi dice, - è la chiave di strada, la grande è quella dell'anticamera di Agathe; eccole, sono tutte e due a vostra disposizione. Ecco come io mi comporto ogni giorno, da circa sei mesi; farete anche voi così. Le sue finestre sono sul davanti, come sapete. Io passeggio nella strada fino a quando le vedo illuminate. Un vaso di basilico messo fuori è il segnale convenuto; allora io mi avvicino alla porta d'ingresso, la apro, entro, la richiudo, salgo il più piano che posso, giro per il piccolo corridoio che è a destra; la prima porta a sinistra in questo corridoio è la sua, come sapete. Apro questa porta con la chiave grande, passo nel piccolo guardaroba che è a destra, qui trovo un lumino da notte, al chiarore del quale mi spoglio con mio comodo. Agathe lascia dischiusa la porta della sua camera; io entro, e vado a trovarla nel suo letto.

Capite?

- Benissimo.

- Siccome c'è gente intorno a noi, non parliamo.

- E poi, credo che abbiate di meglio da fare che non chiacchierare.

- In caso d'incidente, posso saltare dal suo letto e rinchiudermi nel guardaroba, ma questo non è mai successo. E' nostra abitudine separarci verso le quattro del mattino. Quando il piacere o il riposo ci porta più lontano, ci alziamo dal letto insieme; lei scende, io rimango nel guardaroba, mi vesto, leggo, mi riposo, aspetto che sia l'ora di comparire. Scendo, saluto, abbraccio come se non facessi che arrivare.

- Stanotte, siete atteso?

- Sono atteso tutte le notti.

- E mi cedereste il vostro posto?

- Con tutto il cuore. Che voi preferiate la notte al racconto, questo non mi affligge; ma quello che desidererei, è che...

- Finite; ci sono poche cose che non mi senta il coraggio di intraprendere per farvi piacere.

- E' che restiate fra le sue braccia fino a giorno; io arriverei e vi sorprenderei.

- Oh! no, cavaliere, sarebbe troppo cattivo.

- Troppo cattivo? Non lo sono quanto pensate. Prima mi spoglierei nel guardaroba.

- Via, cavaliere, avete il diavolo in corpo. E poi, questo non è possibile: se mi date le chiavi, voi non le avrete più.

- Ah! amico mio, quanto sei sciocco!

- Ma non tanto, mi sembra.

- E perché non entreremo tutti e due insieme? Voi andreste a trovare Agathe; io resterei nel guardaroba fino a quando voi fareste un segnale che stabiliremo.

- In fede mia, è così divertente, così pazzesco, che per poco non acconsento. Ma, cavaliere, tutto considerato, preferirei riservare questa facezia per qualcuna delle notti seguenti.

- Ah! capisco, il vostro progetto è di vendicarvi più di una volta.

- Se lo gradite.

- Assolutamente.

GIACOMO: Il vostro cavaliere sconvolge tutte le mie idee.

Immaginavo...

IL PADRONE: Immaginavi?

GIACOMO: No, signore, potete continuare.

IL PADRONE: Bevemmo, dicemmo cento pazzie, sia sulla notte che si avvicinava, sia su quelle seguenti, e su quella in cui Agathe si sarebbe trovata fra il cavaliere e me. Il cavaliere era diventato di una gaiezza incantevole, e l'argomento della nostra conversazione non era triste. Mi dava precetti di condotta notturna che non erano tutti ugualmente facili da seguire; ma dopo una lunga serie di notti ben impiegate, potevo tenere alto l'onore del cavaliere alla mia prima, per quanto meraviglioso egli si pretendesse, e furono dei particolari che non finivano più sui talenti, le perfezioni, i vezzi di Agathe. Il cavaliere aggiungeva con arte incredibile l'ebbrezza della passione a quella del vino. Il momento dell'avventura o della vendetta ci sembrava arrivare lentamente; intanto ci alzammo di tavola. Il cavaliere pagò; era la prima volta che questo gli succedeva. Salimmo nella nostra carrozza; eravamo ubriachi; il nostro cocchiere e i nostri domestici lo erano ancora più di noi.

Lettore, chi mi impedirebbe di gettare qui il cocchiere, i cavalli, la carrozza, i padroni e i domestici in un precipizio? Se il precipizio ti fa paura, chi mi impedirebbe di portarli sani e salvi in città, dove la loro carrozza ne investirebbe un'altra, in cui metterei altri giovanotti ubriachi? Ci sarebbero parole ingiuriose, una lite, spade sfoderate, una rissa in piena regola. Chi mi impedirebbe, se non ti piacciono le zuffe, di sostituire madamigella Agathe con una delle sue zie? Ma non ci fu niente di tutto ciò. Il cavaliere e il padrone di Giacomo arrivarono a Parigi. Questi prese gli abiti del cavaliere. E' mezzanotte, essi stanno sotto le finestre di Agathe; la luce si spegne, il vaso di basilico è al suo posto. Fanno ancora un giro da una parte all'altra della via, mentre il cavaliere ricorda la lezione al suo amico. Si avvicinano alla porta, il cavaliere la apre, introduce il padrone di Giacomo, conserva per sé la chiave di strada, gli dà quella del corridoio, richiude la porta d'ingresso, si allontana, e dopo questo racconto minuzioso fatto laconicamente, il padrone di Giacomo riprese la parola e disse:

- Conoscevo il locale. Salgo in punta di piedi, apro la porta del corridoio, la richiudo, entro nel guardaroba, dove trovai la piccola lampada da notte: mi spoglio; la porta della camera era socchiusa, entro; vado all'alcova, dove Agathe non dormiva. Apro le cortine; e immediatamente sento due braccia nude gettarsi intorno a me e attirarmi; mi lascio andare, mi corico, sono riempito di carezze, che restituisco. Eccomi il mortale più felice che ci sia al mondo; lo sono ancora quando...

Quando il padrone di Giacomo si accorse che Giacomo dormiva o faceva finta di dormire: - Tu dormi, - gli disse, - tu dormi, gaglioffo, nel momento più interessante della mia storia!...ed è a questo stesso momento che Giacomo aspettava il suo padrone.- Ti vuoi svegliare?

- Credo di no.

- E perché?

- Perché se mi sveglio, il mio mal di gola potrà svegliarsi anche lui, e penso che sia meglio che riposiamo entrambi...

Ed ecco che Giacomo lascia ricadere la testa ciondoloni.

- Ti romperai il collo.

- Sicuro, se è scritto lassù. Non siete fra le braccia di madamigella Agathe?

- Sì.

- Non vi ci trovate bene?

- Benissimo - E restateci.

- Restarci, è facile dirlo.

- Almeno fino a che sappia la storia dell'impiastro di Desglands.

IL PADRONE: Ti vendichi, traditore.

GIACOMO: E quand'anche così fosse, padrone mio, dopo aver interrotto la storia dei miei amori con mille domande, con altrettante fantasie, senza il minimo brontolio da parte mia, non potrei supplicarvi di interrompere la vostra, per farmi conoscere la storia dell'impiastro di quel bravo Desglands, verso il quale ho tanti obblighi, che mi ha portato via dalla casa del chirurgo nel momento in cui, senza danaro, non sapevo più che fare, e dal quale ho fatto la conoscenza di Denise, Denise senza la quale non vi avrei detto una parola in tutto questo viaggio? Padrone mio, mio caro padrone, la storia dell'impiastro di Desglands; sarete breve come vorrete, e intanto l'assopimento che mi prende, e del quale non sono padrone, si dissiperà, e potrete contare su tutta la mia attenzione.

IL PADRONE (dice alzando le spalle). C'era nel vicinato di Desglands una vedova incantevole, che aveva parecchie qualità comuni con una celebre cortigiana del secolo scorso. Giudiziosa per calcolo, libertina per temperamento, desolata il giorno dopo delle sciocchezze del giorno prima, costei ha passato tutta la sua vita andando dal piacere al rimorso e dal rimorso al piacere, senza che l'abitudine del piacere abbia soffocato il rimorso, senza che l'abitudine del rimorso abbia soffocato il gusto del piacere. Io l'ho conosciuta nei suoi ultimi momenti; diceva che sfuggiva finalmente a due grandi nemici.

Suo marito, indulgente sul solo difetto che avesse da rimproverarle, la compianse finché ella visse, e la rimpianse a lungo dopo la sua morte. Pretendeva che sarebbe stato ridicolo da parte sua impedire a sua moglie di amare, come impedirle di bere. Le perdonava la moltitudine delle sue conquiste a causa della delicatezza che lei metteva nella scelta. Non accettò mai gli omaggi di uno stolto o di un malvagio: i suoi favori furono sempre la ricompensa del talento o della probità. Dire di un uomo che era, o che era stato, il suo amante, significava assicurare che era uomo di merito. Siccome conosceva la sua leggerezza, lei non si impegnava ad esser fedele. - Non ho fatto, - diceva, - che un giuramento falso in vita mia, è il primo -. Anche se si perdeva il sentimento provato per lei, o anche se lei perdeva quello che le si era ispirato, tuttavia si restava amici con lei. Non ci fu esempio più caratteristico della differenza che corre fra la probità e la severità dei costumi. Non si poteva dire che fosse di costumi severi; e si confessava che era difficile trovare una creatura più onesta. Il suo curato la vedeva raramente ai piedi dell'altare; ma trovava sempre la sua borsa aperta per i poveri. Essa diceva spiritosamente, della religione e delle leggi, che sono un paio di stampelle che non bisogna togliere a coloro che hanno le gambe deboli. Le donne che temevano la sua frequentazione per i loro mariti, la desideravano per i loro figli.

GIACOMO (dopo aver detto fra i denti:- Me lo pagherai questo maledetto ritratto, - aggiunse): Non siete stato innamorato pazzo di una donna simile?

IL PADRONE: Lo sarei diventato certamente, se Desglands non avesse fatto prima di me. Desglands se ne innamorò...

GIACOMO: Signore, la storia del suo impiastro e quella dei suoi amori sono talmente collegate che non si potrebbe separarle?

IL PADRONE: Si può separarle; l'impiastro è un incidente, la storia è il racconto di tutto quello che è successo mentre si amavano.

GIACOMO: E sono successe molte cose?

IL PADRONE: Molte.

GIACOMO: In questo caso, se date a ognuna di esse la stessa portata che al ritratto dell'eroina, non ne usciremo da qui a Pentecoste, ed è finita con i vostri amori e con i miei.

IL PADRONE: Perché dunque, Giacomo, mi hai messo fuori strada?... Non hai visto da Desglands un ragazzino?

GIACOMO: Cattivo, testardo, insolente e malaticcio? Sì, l'ho visto.

IL PADRONE: E' un figlio naturale di Desglands e della bella vedova.

GIACOMO: Quel ragazzo gli darà molte afflizioni. E' figlio unico, buona ragione per non essere che un buono a niente; sa che sarà ricco, altra buona ragione per essere un fannullone.

IL PADRONE: E siccome è malaticcio, non gli si insegna nulla; non lo si disturba, non lo si contraddice in niente, terza buona ragione per non essere che un buono a nulla.

GIACOMO: Una notte questo piccolo matto si mise a gettare grida inumane. Ecco tutta la casa in allarme; si accorre. Vuole che il suo papà si alzi.

- Il vostro papà dorme.

- Non importa, voglio che si alzi, lo voglio, lo voglio...

- E' ammalato.

- Non importa, bisogna che si alzi, lo voglio, lo voglio...

Svegliano Desglands; questi si getta la veste da camera sulle spalle e arriva.

- Ebbene! piccino mio, eccomi qua, che vuoi?

- Voglio che li si faccia venire.

- Chi?

- Tutti quelli che sono nel castello.

Li si fa venire; padroni, domestici, stranieri, commensali, Jeanne, Denise, io con il mio ginocchio malato, tutti, tranne una vecchia portinaia inferma, a cui si era accordato un ritiro in una capanna a circa un quarto di lega dal castello. Vuole che si vada a cercarla.

- Ma, figlio mio, è mezzanotte.

- Lo voglio, lo voglio.

- Sai che abita molto lontano.

- Lo voglio, lo voglio.

- Che è vecchia e non potrebbe camminare.

- Lo voglio, lo voglio.

Bisognò che la povera portinaia venisse; la portano, perché quanto a venire essa avrebbe piuttosto mangiato la strada.

Quando siamo tutti radunati. vuole che lo si alzi e che lo si vesta.

Eccolo alzato e vestito. Vuole che passiamo tutti nel grande salone e che lo si metta in mezzo, nella grande poltrona del suo papà. Ecco fatto. Vuole che ci prendiamo tutti per mano. Vuole che facciamo un girotondo, e ci mettiamo a fare il girotondo. Ma è il resto che è incredibile...

IL PADRONE: Spero che mi farai grazia del resto?

GIACOMO: No, no signore, sentirete il resto... Egli crede che mi avrà fatto impunemente un ritratto della madre, lungo quattro canne...

IL PADRONE: Giacomo, io ti vizio.

GIACOMO: Peggio per voi.

IL PADRONE: Hai sullo stomaco il lungo e noioso ritratto della vedova; ma credo che mi hai ben resa questa noia con la lunga e seccante storia dei grilli di suo figlio.

GIACOMO: Se è questo il vostro parere, riprendete la storia del padre; ma basta con i ritratti, padrone mio; odio a morte i ritratti.

IL PADRONE: E perché odii i ritratti?

GIACOMO: Perché somigliano così poco che, se per caso capita di incontrare gli originali, non li si riconosce. Raccontatemi i fatti, riferitemi fedelmente i discorsi, e saprò subito con quale uomo ho da fare. Una parola, un gesto mi hanno a volte insegnato di più che le chiacchiere di tutta una città.

IL PADRONE: Un giorno Desglands...

GIACOMO: Quando siete assente, entro a volte nella vostra biblioteca, prendo un libro, ed è di solito un libro di storia.

IL PADRONE: Un giorno Desglands...

GIACOMO: Leggo tutti i ritratti di sfuggita.

IL PADRONE: Un giorno Desglands...

GIACOMO: Scusate, padrone mio, la macchina era caricata, e bisognava che corresse fino alla fine.

IL PADRONE: C'è arrivata?

GIACOMO: C'è arrivata.

IL PADRONE: Un giorno Desglands invitò a pranzo la bella vedova con alcuni gentiluomini dei dintorni. Il regno di Desglands era al suo declino; e fra i suoi convitati ce n'era uno verso il quale l'incostanza della vedova cominciava a farla inclinare. Erano a tavola, Desglands e il suo rivale uno vicino all'altro e di fronte alla bella vedova. Desglands usava tutto il suo spirito per animare la conversazione; rivolgeva alla vedova i discorsi più galanti; ma lei, distratta, non sentiva niente e teneva gli occhi fissi sul suo rivale.

Desglands aveva in mano un uovo fresco; un tremito convulso, causato dalla gelosia, lo prende; stringe i pugni, ed ecco l'uovo scacciato dal suo guscio e sparso sul viso del suo vicino. Questi fa un gesto con la mano. Desglands gli prende il polso, lo ferma, e gli dice all'orecchio: - Signore, lo tengo per ricevuto... Si fa un profondo silenzio; la bella vedova si sente male. Il pranzo fu triste e breve.

Al termine, essa fece chiamare Desglands e il suo rivale in un appartamento separato; tutto quello che una donna può fare decentemente per riconciliarli, lei lo fece: supplicò, pianse, svenne, ma sul serio; stringeva le mani a Desglands, girava gli occhi inondati di lacrime verso l'altro. Diceva a questo: - E voi mi amate! ... - a quello: - E voi mi avete amata... - ad entrambi: - Volete perdermi, volete rendermi la favola, oggetto dell'odio e del disprezzo di tutta la provincia! Qualunque sia di voi due quello che toglierà la vita al suo nemico, non vorrò più rivederlo; egli non può essere né mio amico né il mio amante; gli voto un odio che finirà solo con la mia vita...

- Poi veniva meno di nuovo, e venendo meno diceva:- Crudeli, sfoderate le vostre spade e affondatele nel mio seno; se spirando vi vedrò abbracciati, spirerò senza rimpianto!.. - Desglands e il suo rivale restavano immobili o la soccorrevano, e qualche lacrima sfuggiva dai loro occhi. Bisognò tuttavia separarsi. Si riaccompagnò a casa la bella vedova più morta che viva.

GIACOMO: Ebbene! signore, che bisogno avevo del ritratto che mi avete dipinto di questa donna? Non so adesso tutto quanto me ne avete detto?

IL PADRONE: L'indomani Desglands andò a fare visita alla sua bella infedele; vi trovò il suo rivale. Chi fu molto stupito? Furono l'uno e l'altra nel vedere a Desglands la guancia destra coperta da un grande tondo di taffetà nero. - Cos'è ? - gli dice la vedova.

DESGLANDS: Non è niente.

IL RIVALE: Una nevralgia?

DESGLANDS: Passerà Dopo una breve conversazione, Desglands uscì, e nell'uscire fece al suo rivale un cenno che fu capito benissimo. Questi scese; passarono, uno da un lato, l'altro dal lato opposto della strada; si incontrarono dietro il giardino della bella vedova, si batterono, e il rivale di Desglands restò steso sul terreno, gravemente, ma non mortalmente ferito. Mentre lo portano a casa, Desglands torna dalla vedova, si siede, e i due discorrono ancora dell'incidente della vigilia. Lei gli chiede che cosa significhi quell'enorme e ridicola voglia che gli copre la guancia. Lui si alza, si guarda allo specchio: - Infatti, dice, - la trovo un po' troppo grande... - Prende le forbici della signora, stacca il suo tondo di taffetà, lo riduce tutt'intorno di una linea o due, lo rimette a posto, dice alla vedova: - Come mi trovate ora?

- Ma, di una linea o due meno ridicolo di prima.

- E' già qualche cosa.

Il rivale di Desglands guarì. Secondo duello, in cui la vittoria rimase a Desglands: così cinque o sei volte di seguito; e Desglands ad ogni combattimento restringeva il suo tondino di taffetà di una piccola striscia, rimettendo il resto sulla gota.

GIACOMO: Quale fu la fine di quest'avventura? Quando mi portarono al castello di Desglands, mi sembra che non avesse più il suo tondino nero.

IL PADRONE: No. La fine di quest'avventura fu quella della bella vedova. La lunga afflizione che ne provò, finì di rovinare la sua salute debole e malferma.

GIACOMO: E Desglands?

IL PADRONE: Un giorno che passeggiavamo insieme, riceve un biglietto; l'apre e dice:- Era un uomo molto coraggioso, ma non posso affliggermi per la sua morte... - E subito strappa dalla sua guancia il resto del tondino nero quasi ridotto dai frequenti ritagli alla grandezza d'un neo ordinario. Ecco la storia di Desglands. E Giacomo è soddisfatto; posso sperare che ascolterà la storia dei miei amori, o che lui riprenderà quella dei suoi?

GIACOMO: Né l'uno, né l'altro.

IL PADRONE: E la ragione di ciò?

GIACOMO: Fa caldo, sono stanco, questo posto è incantevole, saremo all'ombra sotto quegli alberi, e prendendo il fresco in riva a quel ruscello ci riposeremo.

IL PADRONE: Acconsento; ma il tuo raffreddore?

GIACOMO: E' un raffreddore d'estate; e i medici dicono che i contrari si guariscono coi contrari.

IL PADRONE: E' vero per il morale come per il fisico. Ho notato una cosa molto singolare, che non c'è massima morale di cui non si sia fatto un aforisma di medicina, e reciprocamente pochi aforismi di medicina di cui non si sia fatta una massima morale.

GIACOMO: Deve essere così.

Scendono da cavallo, si stendono sull'erba. Giacomo dice al suo padrone: - Siete sveglio? dormite? Se siete sveglio, io dormo; se dormite veglio io.

Il padrone gli disse: - Dormi, dormi.

-Posso dunque essere certo che resterete sveglio? Perché questa volta potremmo perdere tutti e due i cavalli.

Il padrone tirò fuori fuori l'orologio e la tabacchiera; Giacomo si sentì in obbligo di dormire; ma si svegliava continuamente di soprassalto, e batteva in aria una contro l'altra le mani. Il suo padrone gli disse: - Con chi te la prendi?

GIACOMO: Con le mosche e le zanzare. Vorrei bene che mi si dicesse a che servono queste bestie noiose.

IL PADRONE: Perché tu l'ignori, credi che non servano a niente? La natura non ha fatto nulla di inutile o di superfluo.

GIACOMO: Lo credo; poiché dato che una cosa esiste, bisogna che essa sia.

IL PADRONE: Quando tu hai o troppo sangue o del sangue guasto, che fai? Chiami un chirurgo che te ne toglie due o tre provette. Ebbene!

queste zanzare, di cui ti lamenti, sono un nuvolo di piccoli chirurghi alati, che vengono con le loro lancette a pungerti e a cavarti il sangue a goccia a goccia.

GIACOMO: Sì, ma senza discernimento, senza sapere se ne ho troppo o troppo poco. Fate venire qui un tisico, e vedrete se i piccoli chirurghi alati non lo pungeranno. Essi pensano a sé; e tutto nella natura pensa a sé e solo a sé. Che questo faccia male agli altri, che importa, purché ci si trovi bene...

Quindi batteva di nuovo in aria le mani, e diceva: - Al diavolo i piccoli chirurghi alati!

IL PADRONE: Giacomo, conosci la favola di Garo?

GIACOMO: Sì.

IL PADRONE: Come la trovi?

GIACOMO: Cattiva.

IL PADRONE: E' presto detto.

GIACOMO: E presto provato. Se invece di ghiande la quercia avesse prodotto delle zucche, forse che quell'animale di Garo si sarebbe addormentato sotto una quercia? E se non si fosse addormentato sotto una quercia, che sarebbe importato alla sicurezza del suo naso che ne cadessero delle zucche o delle ghiande? Fate leggere questo ai vostri figli.

IL PADRONE: Un filosofo che porta il tuo nome non lo permette.

GIACOMO: E' che ognuno ha il suo parere, e Jean-Giacomo non è Giacomo.

IL PADRONE: E tanto peggio per Giacomo.

GIACOMO: Chi può saperlo, prima di essere arrivato all'ultima parola dell'ultima riga della pagina del grande rotolo che si sta riempiendo?

IL PADRONE: A cosa pensi?

GIACOMO: Penso che, mentre voi mi parlavate e io vi rispondevo, voi mi parlavate senza volerlo, e io vi rispondevo senza volerlo.

IL PADRONE: E poi?

GIACOMO: E poi? Che noi siamo due vere macchine viventi e pensanti.

IL PADRONE: Ma adesso che vuoi?

GIACOMO: Credete a me, è sempre lo stesso. Non c'è nelle due macchine che una molla di più in gioco.

IL PADRONE: E questa molla?...

GIACOMO: Voglio che il diavolo mi porti se concepisco che possa scattare senza motivo. Il mio capitano diceva: - Data una causa, ne segue un effetto; da una causa debole, un debole effetto; da una causa momentanea, l'effetto di un momento; da una causa intermittente, un effetto intermittente; da una causa contrariata, un effetto rallentato; da una causa cessante, un effetto nullo.

IL PADRONE: Ma mi sembra di sentire dentro di me che sono libero, come sento che penso.

GIACOMO: Il mio capitano diceva: - Sì, ora che non volete niente; ma vogliate precipitarvi giù dal vostro cavallo.

IL PADRONE: Ebbene! mi precipiterò.

GIACOMO: Allegramente, senza ripugnanza, senza sforzo, come quando vi piace di scenderne alla porta di una locanda?

IL PADRONE: Non proprio così; ma che importa, purché mi precipiti e provi così che sono libero?

GIACOMO: Il mio capitano diceva: - Come! non vedete che, se non vi avessi contraddetto, non vi sarebbe mai saltato in mente di rompervi il collo? Sono dunque io, che vi prendo per il piede e vi getto giù di sella. Se la vostra caduta prova qualche cosa, non è che siete libero, ma che siete pazzo -. Il mio capitano diceva pure che il godimento di una libertà che potesse esercitarsi senza motivo, sarebbe il vero carattere di un maniaco.

IL PADRONE: E' troppo difficile per me; ma, a dispetto tuo e del tuo capitano, crederò sempre che voglio quando voglio.

GIACOMO: Ma se siete e se siete sempre stato padrone di volere, perché non volete ora amare una bertuccia; e perché non avete smesso di amare Agathe tutte le volte che avete voluto? Padrone mio, si passano i tre quarti della propria vita a volere, senza fare.

IL PADRONE: E' vero.

GIACOMO: E a fare senza volere.

IL PADRONE: Mi dimostrerai anche questo?

GIACOMO: Se volete.

IL PADRONE: Voglio.

GIACOMO: Sarà fatto, e parliamo d'altro...

Dopo queste sciocchezze e alcuni altri discorsi della stessa importanza, tacquero; e Giacomo, sollevando il suo enorme cappello; parapioggia con il cattivo tempo, parasole nelle stagioni calde, copricapo in ogni tempo, tenebroso santuario sotto il quale uno dei migliori cervelli che siano mai esistiti consultava il destino nelle grandi occasioni...; le tese di questo cappello, una volta rialzate, gli mettevano il viso pressappoco in mezzo al corpo; abbassate, egli vedeva appena a dieci passi davanti a sé: cosa che gli aveva dato l'abitudine di tenere il naso al vento: e allora si poteva dire del suo cappello:

Os illi sublime dedit, coelumque tueri Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus.

Dunque Giacomo, rialzando il suo enorme cappello e spingendo lo sguardo lontano, vide un contadino che arava, che riempiva inutilmente di legnate uno dei due cavalli attaccati al suo aratro. Questo cavallo, giovane e vigoroso, si era coricato sul solco, e l'aratore aveva un bel scuoterlo per la briglia, pregarlo, accarezzarlo, minacciarlo, bestemmiare, picchiare: l'animale rimaneva immobile, e rifiutava ostinatamente di alzarsi.

Dopo essere rimasto pensieroso qualche tempo a questa scena, Giacomo disse al suo padrone, la cui attenzione era stata pure attratta:- Sapete, signore, che cosa succede lì?

IL PADRONE: E che vuoi che succeda se non quello che vedo?

GIACOMO: Non indovinate niente?

IL PADRONE: No. E tu, cosa indovini?

GIACOMO: Indovino che quello stupido, orgoglioso, fannullone di animale è un abitante della città che, fiero della sua prima professione di cavallo da sella, disprezza l'aratro; e per dirvi tutto, in una parola, che è il vostro cavallo, simbolo del vostro Giacomo qui presente, e di tanti altri vili furfanti come lui, che hanno lasciato le campagne per venire a portare una livrea nella capitale, e che preferirebbero mendicare il loro pane per le vie, o morire di fame, piuttosto che tornare all'agricoltura, il più utile e il più onorevole dei mestieri.

Il padrone si mise a ridere; e Giacomo, rivolgendosi all'aratore che non lo sentiva, diceva: - Povero diavolo, picchia, picchia quanto vorrai: ha preso l'abitudine e consumerai più di uno sverzino alla tua frusta, prima di ispirare a quel gaglioffo un po' di vera dignità e un po' di gusto per il lavoro... - Il padrone continuava a ridere.

Giacomo, un po' spazientito, un po' impietosito, si alza, va verso l'aratore, e non ha fatto duecento passi che rivolgendosi verso il suo padrone si mette a gridare: - Signore, venite, venite; è il vostro cavallo, è il vostro cavallo.

Infatti lo era. Appena l'animale ebbe riconosciuto Giacomo e il suo padrone, si alzò da sé, scosse la criniera, nitrì, si impennò, e avvicinò teneramente il muso al muso del suo compagno. Intanto Giacomo, indignato, diceva fra i denti: Furfante, buono a nulla, pigraccio, chi mi trattiene dal darti venti stivalate?... - Il suo padrone al contrario, lo baciava, gli passava una mano sul fianco, gli batteva dolcemente la groppa con l'altra, e quasi piangendo di gioia, gridava: Cavallo mio, mio povero cavallo, ti ritrovo finalmente!

Il contadino non ci capiva niente. - Vedo, signori, - disse loro, - che questo cavallo è stato vostro; tuttavia, io lo possiedo legittimamente; l'ho comprato all'ultima fiera. Se voleste riprenderlo per i due terzi del prezzo che mi è costato, mi rendereste un gran servigio, poiché non posso farne niente. Quando bisogna farlo uscire dalla scuderia, fa il diavolo a quattro; quando bisogna attaccarlo, è peggio ancora; quando è arrivato sul campo, si corica, e si lascerebbe accoppare piuttosto che fare il minimo sforzo o sopportare un sacco sulla schiena. Signori, mi fareste la carità di sbarazzarmi di questo maledetto animale? E' bello, ma è buono solo a scalpitare sotto un cavaliere, e non è questo affar mio... - Gli si propose un cambio con quello degli altri due che gli convenisse di più; acconsentì e i nostri due viaggiatori tornarono pian pianino al luogo in cui si erano riposati e da dove videro, con soddisfazione, il cavallo che avevano ceduto all'aratore prestarsi senza ripugnanza al suo nuovo mestiere.

GIACOMO: Ebbene! signore?

IL PADRONE: Ebbene! niente è più certo che sei ispirato; è da Dio, è dal diavolo? Lo ignoro. Giacomo, mio caro amico, temo che tu abbia il diavolo in corpo.

GIACOMO: Perché il diavolo?

IL PADRONE: Perché fai dei prodigi, e la tua dottrina è molto sospetta.

GIACOMO: E che c'è di comune fra la dottrina che si professa e i prodigi che si operano?

IL PADRONE: Vedo che non hai letto Dom la Taste.

GIACOMO: E questo Dom la Taste che non ho letto, che dice mai?

IL PADRONE: Dice che Dio e il diavolo fanno ugualmente miracoli.

GIACOMO: E come distingue i miracoli di Dio dai miracoli del diavolo?

IL PADRONE: Dalla dottrina. Se la dottrina è buona, i miracoli sono di Dio; se è cattiva, i miracoli sono del diavolo.

GIACOMO (qui Giacomo si mise a fischiare, poi aggiunse): E chi insegnerà a me povero ignorante, se la dottrina dell'autore di miracoli è buona o cattiva? Andiamo, signore, risaliamo sulle nostre bestie. Che vi importa che sia per mezzo di Dio o di Belzebù che il vostro cavallo è stato ritrovato? La cosa sarà meno buona per questo?

IL PADRONE: No. Tuttavia, Giacomo, se tu fossi posseduto...

GIACOMO: Che rimedio ci sarebbe?

IL PADRONE: Il rimedio! sarebbe, in attesa dell'esorcismo... sarebbe di prendere acqua benedetta come sola bevanda.

GIACOMO: Io, signore, all'acqua! Giacomo all'acqua benedetta!

Preferirei che mille legioni di diavoli mi restassero in corpo, piuttosto che berne una goccia; benedetta o no. Non vi siete accorto che sono idrofobo?...

Ah! "idrofobo"? Giacomo ha detto "idrofobo"?... No, lettore, no; confesso che la parola non è sua. Ma, con una simile severità di critica, ti sfido a leggere una scena di commedia o di tragedia, un solo dialogo, per quanto ben fatto, senza sorprendere le parole dell'autore nella bocca del suo personaggio. Giacomo ha detto:

«Signore, non vi siete ancora accorto che la rabbia mi prende alla vista dell'acqua?...» Ebbene! dicendo diversamente sono stato meno vero, ma più breve di lui.

Risalirono a cavallo; e Giacomo disse al suo padrone: - Eravate al momento dei vostri amori in cui, dopo essere stato felice due volte, vi apprestavate ad esserlo per la terza.

IL PADRONE: Quando di colpo si apre la porta del corridoio. Ecco la camera piena di una folla di gente in tumulto; vedo delle luci, sento voci di uomini e di donne che parlano tutti insieme. Le cortine vengono aperte violentemente; e vedo il padre, la madre, le zie, i cugini, le cugine e un commissario, che diceva loro gravemente:- Signori e signore, non fate fracasso; il delitto è flagrante; il signore è un galantuomo: non c'è che un modo di riparare il male; e questo signore preferirà prestarvisi da sé, piuttosto che farvisi costringere dalle leggi... - Ad ogni parola era interrotto dal padre e dalla madre che mi riempivano di rimproveri; dalle zie e dalle cugine che rivolgevano gli epiteti meno misurati ad Agathe, che si era avvolta la testa nelle coperte. Io ero stupefatto e non sapevo che dire. Il commissario, rivolgendosi a me, mi disse ironicamente: - Signore, vi trovate benissimo; bisogna tuttavia che vi piaccia alzarvi e vestirvi... - Cosa che feci, ma con i miei vestiti che erano stati sostituiti a quelli del cavaliere. Si avvicinò una tavola; il commissario si mise a verbalizzare. Intanto la madre si faceva tenere da quattro persone per non accoppare la figlia, e il padre le diceva:

- Piano, moglie, piano; quando avrai accoppata tua figlia, la cosa non cambierà. Tutto si aggiusterà per il meglio... Gli altri personaggi stavano qua e là seduti, nei diversi atteggiamenti, del dolore, dell'indignazione e della collera. Il padre, rimproverando di tanto in tanto sua moglie, le diceva: - Ecco che significa non vegliare sulla condotta della propria figlia... - La madre gli rispondeva: - Con un'aria così buona e onesta, chi si sarebbe aspettato da questo signore?... - Gli altri conservavano il silenzio. Redatto il processo verbale, me lo si lesse; e poiché non conteneva che la verità, lo firmai e scesi con il commissario, che mi pregò molto cortesemente di salire in una carrozza che stava alla porta, da dove mi si portò, in corteo, piuttosto numeroso, dritto dritto al For-l'Evêque.

GIACOMO: Al For-l'Evêque! in prigione!

IL PADRONE: In prigione; e poi ecco un processo abominevole. Si trattava nientemeno che di sposare madamigella Agathe; i parenti non volevano saperne di altri accomodamenti. Fin dalla mattina il cavaliere comparve nel mio ritiro. Sapeva tutto. Agathe era desolata; i suoi parenti erano furibondi; egli aveva dovuto subire i più crudeli rimproveri sulla perfida conoscenza che aveva procurata loro; era lui la causa principale della loro disgrazia e del disonore della loro figlia; quella povera gente faceva pietà. Aveva chiesto di parlare ad Agathe da solo a solo; non l'aveva ottenuto senza difficoltà. Agathe aveva voluto cavargli gli occhi, gli aveva dato i nomi più odiosi. Se lo aspettava; egli aveva lasciato sbollire il suo furore; dopo di che aveva tentato di riportarla a qualche cosa di ragionevole; ma la ragazza diceva una cosa a cui, aggiungeva il cavaliere, non so replicare:- Mio padre e mia madre mi hanno sorpresa con il vostro amico; devo far sapere loro che, andando a letto con lui, credevo che fosse con voi?... - Egli le rispondeva: - Ma in buona fede, credete che il mio amico possa sposarvi?... No, - diceva lei, - siete voi, indegno, siete voi, infame, che dovreste esservi condannato.

- Ma, - dissi al cavaliere, - non dipenderebbe che da voi tirarmi fuori da quest'impiccio.

- E come ?

- Come? dichiarando le cose come stanno.

- Ho minacciato Agathe di farlo; ma, certo, non lo farò. Non è sicuro che questo mezzo possa utilmente servirci, ed è certissimo che ci coprirebbe d'infamia. Inoltre, è colpa vostra.

- Colpa mia?

-Sì, colpa vostra. Se aveste approvato il tiro che vi proponevo, Agathe sarebbe stata sorpresa fra due uomini, e tutto ciò sarebbe finito in derisione. Ma ora non è così, e si tratta di uscire da questo brutto passo.

- Però, cavaliere, potreste spiegarmi un piccolo incidente? E' il fatto che i miei vestiti sono stati ripresi e i vostri rimessi nel guardaroba; in fede mia, ho un bel riflettere, è un mistero nel quale mi confondo. Questo fatto mi ha reso Agathe piuttosto sospetta; mi è venuto in mente che lei si sia accorta della soperchieria, che ci fosse fra lei e i suoi non so che connivenza.

-Vi avranno forse visto salire; quello che è certo, è che voi eravate appena spogliato, che mi furono rimandati i miei abiti e richiesti i vostri.

- Tutto questo si chiarirà col tempo...

Mentre il cavaliere ed io ci affliggevamo, ci consolavamo, ci accusavamo, ci ingiuriavamo, e ci chiedevamo perdono, entrò il commissario; il cavaliere impallidì e uscì bruscamente. Questo commissario era un galantuomo, come ce n'è ancora qualcuno, il quale, rileggendo il processo verbale, si ricordò che in altri tempi aveva fatto i suoi studi con un giovane che portava il mio nome; gli venne in mente che io potevo ben essere un parente, o anche il figlio, del suo antico compagno di collegio: ed era infatti così. La sua prima domanda fu chi fosse l'uomo che se l'era squagliata quando lui era entrato.

- Non se l'è affatto squagliata, - gli dissi; - è uscito; è il mio intimo amico, cavaliere de Saint-Ouin.

- Vostro amico! Avete davvero un piacevole amico! Sapete, signore, che è lui che è venuto ad avvertirmi? Era accompagnato dal padre e da un altro parente.

- Lui!

- Lui stesso.

- Siete ben sicuro del fatto vostro?

- Sicurissimo; ma come l'avete chiamato?

- Cavaliere de Saint-Ouin.

- Oh! il cavaliere de Saint-Ouin, ci siamo. E sapete che cos'è il vostro amico, il vostro intimo amico cavaliere de Saint-Ouin? Un truffaldino, un individuo segnalato per cento male azioni. La polizia lascia a questa specie di uomini la libertà di circolare, solo a causa dei servigi che ne ricava a volte. Sono furfanti e delatori dei furfanti; e li si trova evidentemente più utili per il male che prevengono o che rivelano, che nocivi per quello che fanno...

Raccontai al commissario la mia triste avventura, come si era svolta.

Egli non la vide con occhio molto più favorevole; poiché tutto quello che poteva assolvermi non si poteva né allegare, né dimostrare al tribunale delle leggi. Tuttavia si incaricò di chiamare il padre e la madre, di mettere la figlia alle strette, di informare compiutamente il magistrato, e di non trascurare niente di quello che potesse servire a mia giustificazione; avvertendomi però che, se quella gente era ben consigliata, l'autorità avrebbe potuto fare ben poco.

- Come! signor commissario, mi si potrebbe costringere a sposare?

-Sposare! sarebbe ben duro, e perciò non lo temo; ma ci saranno degli indennizzi, e in questo caso sono considerevoli... Ma, Giacomo, credo che hai qualcosa da dirmi.

GIACOMO: Sì; volevo dirvi che foste infatti più disgraziato di me, che pagai e non andai a letto. Per il resto, avrei, credo, capito la vostra storia da me, se Agathe fosse stata incinta.

IL PADRONE: Non rinunciare ancora alle tue congetture; poiché, qualche tempo dopo la mia detenzione, il commissario mi fece sapere che era venuta a fare da lui la dichiarazione della sua gravidanza.

GIACOMO: Ed eccovi padre di un figlio...

IL PADRONE: Al quale non ho nuociuto.

GIACOMO: Ma che non avete fatto.

IL PADRONE: Né la protezione del magistrato, né tutti i passi fatti dal commissario poterono impedire a questa faccenda di seguire il corso della giustizia, ma poiché la fanciulla e i suoi genitori avevano cattiva fama, non fui costretto a sposare in piena regola. Fui condannato ad una ammenda considerevole, alle spese del parto, e a provvedere alla sussistenza e all'educazione di un bambino proveniente dalle gesta del mio amico cavaliere de Saint-Ouin, di cui era il ritratto in miniatura. Fu un bambino grassottello, che madamigella Agathe mise al mondo fra il settimo e l'ottavo mese, e al quale si diede una buona balia, di cui ho pagato fino ad oggi il mensile.

GIACOMO: Che età può avere il vostro signor figlio?

IL PADRONE: Presto dieci anni. L'ho lasciato tutto questo tempo in campagna, dove il maestro gli ha insegnato a leggere, a scrivere e a fare di conto. Non è lontano dal luogo in cui andiamo; e approfitto della circostanza per pagare a questa gente ciò che le è dovuto, portarlo via, e metterlo a un mestiere.

Giacomo e il suo padrone si fermarono ancora una volta per dormire lungo la loro strada. Erano troppo vicini al termine del loro viaggio perché Giacomo riprendesse la storia dei suoi amori; d'altronde, il suo mal di gola era lontano dall'essere guarito. L'indomani giunsero..

. - Dove? - Sul mio onore, non ne so niente. - E che dovevano fare, dove andavano? - Tutto quello che vi piacerà. Forse che il padrone di Giacomo raccontava i fatti suoi a tutti? Comunque sia, questi non richiedevano più di quindici giorni di soggiorno. Si conclusero bene, si conclusero male? Lo ignoro ancora. Il mal di gola di Giacomo passò, con due rimedi che gli erano antipatici, la dieta e il riposo.

Una mattina il padrone disse al suo domestico: - Giacomo, metti briglia e sella ai cavalli e riempi la fiaschetta; bisogna andare dove sai -. Detto fatto. Eccoli in cammino verso il posto in cui da dieci anni, a spese del padrone di Giacomo, veniva nutrito il figlio del cavaliere de Saint-Ouin. A qualche distanza dalla locanda che avevano appena lasciata, il padrone si rivolse a Giacomo con queste parole. - Giacomo, che dici dei miei amori?

GIACOMO: Che ci sono strane cose scritte lassù. Ecco un bambino fatto Dio sa come! Chi sa quale ruolo questo piccolo bastardo avrà nel mondo? Chi sa se non è nato per la fortuna o lo sconvolgimento di un impero?

IL PADRONE: Ti rispondo di no. Ne farò un buon tornitore o un buon orologiaio. Prenderà moglie e avrà figli che torniranno per sempre in questo mondo gambe di sedie.

GIACOMO: Sì, se è scritto lassù. Ma perché non uscirebbe un Cromwell dalla bottega di un tornitore? Quello che fece tagliare la testa al suo re, non era uscito dalla bottega di un birraio, e non si dice oggi?...

IL PADRONE: Lasciamo stare. Tu stai bene, conosci i miei amori; non puoi in coscienza dispensarti dal riprendere la storia dei tuoi.

GIACOMO: Tutto vi si oppone. Primo, la poca strada che ci rimane da fare; secondo, ho dimenticato a che punto ero; terzo, un diavolo di presentimento... che questa storia non deve finire; che questo racconto ci porterà disgrazia, e che l'avrò appena ripreso che sarà interrotto da una catastrofe o da un evento fortunato.

IL PADRONE: Se è fortunato, tanto meglio?

GIACOMO: D'accordo; ma ho qui... che sarà sfortunato.

IL PADRONE: Sfortunato! sia pure; ma che tu parli o taccia, non accadrà lo stesso?

GIACOMO: Chi lo sa?

IL PADRONE: Sei nato con un ritardo di due o tre secoli.

GIACOMO: No, signore, sono nato a tempo come tutti.

IL PADRONE: Saresti stato un grande augure.

GIACOMO: Non so precisamente cosa sia un augure, né mi interessa saperlo.

IL PADRONE: E' uno dei capitoli importanti del tuo trattato di divinazione.

GIACOMO: E' vero; ma è tanto tempo che è stato scritto, che non me ne ricordo una parola. Signore, vedete, ecco chi ne sa più di tutti gli auguri, oche fatidiche e polli sacri della repubblica; è la fiaschetta. Interroghiamola.

Giacomo prese la fiaschetta e la consultò lungamente. Il suo padrone tirò fuori l'orologio e la tabacchiera, guardò che ora fosse, prese un pizzico di tabacco, e Giacomo disse: - Mi sembra ora di vedere il destino meno nero. Ditemi a che punto ero.

IL PADRONE: Al castello di Desglands, con il ginocchio un po' rimesso, e Denise incaricata da sua madre di curarti.

GIACOMO: Denise fu ubbidiente. La ferita del mio ginocchio si era quasi chiusa; avevo perfino potuto fare il girotondo la famosa notte del figlio; tuttavia soffrivo a intervalli di dolori inauditi. Venne in testa al chirurgo del castello, che ne sapeva un po' di più del suo confratello, che queste sofferenze, il cui ritorno era così ostinato, non potevano avere altra causa che la presenza di un corpo estraneo, rimasto nella carne, dopo l'estrazione della pallottola. Di conseguenza arrivò nella mia camera una mattina presto; fece avvicinare una tavola al mio letto, e quando le cortine furono tirate, vidi questa tavola coperta di strumenti taglienti; Denise seduta al mio capezzale, che piangeva a calde lacrime; sua madre in piedi, con le braccia conserte, e abbastanza triste; il chirurgo spogliato della sua casacca, con le maniche della giacca rimboccate, e la mano destra armata di un bisturi.

IL PADRONE: Mi spaventi.

GIACOMO: Anch'io lo fui. - Amico, - mi disse il chirurgo, siete stanco di soffrire?

- Stanchissimo.

- Volete che finisca e volete conservare la gamba?

- Certamente.

- Mettetela allora fuori del letto, e lasciatemi lavorare a mio comodo.

Io presento la gamba. Il chirurgo si mette il manico del bisturi fra i denti, passa la mia gamba sotto il suo braccio sinistro, ve lo fissa fortemente, riprende il bisturi, ne introduce la punta nell'apertura della mia ferita, e mi fa un'incisione larga e profonda. Non battei ciglio, ma Jeanne girò altrove la testa, e Denise lanciò un grido acuto e si sentì male...

Qui, Giacomo fece una pausa al racconto e diede un nuovo assalto alla fiaschetta. Questi assalti erano tanto più frequenti quanto più le distanze erano brevi, o, come dicono i geometri, in ragione inversa delle distanze. Era così preciso nelle sue misure che, piena alla partenza, la fiaschetta era sempre esattamente vuota all'arrivo. I sovrintendenti di ponti e strade ne avrebbero fatto un eccellente odometro; e ogni assalto di questo genere aveva comunemente la sua ragion sufficiente. Quello in questione aveva lo scopo di far tornare in sé Denise, e di rimettersi dal dolore dell'incisione fattagli dal chirurgo al ginocchio. Tornata in sé Denise, e riconfortatosi lui, Giacomo continuò.

GIACOMO: Quest'enorme incisione mise allo scoperto il fondo della ferita, da cui il chirurgo tolse, con le pinze, un pezzetto di stoffa del mio pantalone che vi era rimasto, la presenza del quale causava i miei dolori ed impediva l'intera cicatrizzazione del male. Dopo quest'operazione, il mio stato andò di bene in meglio, grazie alle cure di Denise; non ebbi più dolori né febbre, ma appetito, sonno e forze. Denise mi medicava con esattezza e con una delicatezza infinita. Bisognava vedere la circospezione e la leggerezza di mano con la quale mi toglieva le bende, il suo timore di farmi il minimo dolore; il modo in cui bagnava la piaga; io stavo seduto sul bordo del letto; lei teneva il ginocchio a terra, la mia gamba posata sulla sua coscia, che premevo a volte un po': le mettevo una mano sulla spalla, e la guardavo fare con una tenerezza che, credo, condivideva. Quando il bendaggio era terminato, le prendevo le due mani, la ringraziavo, non sapevo che dirle, non sapevo come dimostrarle la mia gratitudine; lei stava dritta, con gli occhi bassi, e mi ascoltava senza dire una parola. Non passava dal castello un solo venditore ambulante, che non comprassi per lei qualche cosa; una volta era un fazzoletto da collo, un'altra alcuni metri d'indiana o di mussolina, una crocetta d'oro, delle calze di cotone, un anello, una collana di granati. Quando il mio piccolo acquisto era fatto, io ero imbarazzato ad offrire, lei ad accettare. Le mostravo prima l'oggetto; se lo trovava buono, le dicevo. - Denise, è per voi che l'ho comprato... - Se lo accettava, la mia mano tremava nel presentarglielo, la sua nel riceverlo. Un giorno, non sapendo più che darle, comprai delle giarrettiere; erano di seta, ornate di bianco, rosso e blu, con un motto. La mattina, prima che lei arrivasse, le misi sulla spalliera della sedia, vicino al mio letto. Appena Denise le vide, disse:- Oh! che belle giarrettiere!

- Sono per la mia innamorata, - le risposi.

- Avete dunque un'innamorata, signor Giacomo?

- Sicuro; non ve l'ho ancora detto?

- No. Ed è molto amabile, senza dubbio?

- Amabilissima.

- E la amate molto?

- Con tutto il cuore.

- E lei, vi ama nello stesso modo?

- Non ne so nulla. Queste giarrettiere sono per lei, e mi ha promesso un favore che mi farà ammattire, credo, se me lo accorda.

- E qual è questo favore?

- Che di queste giarrettiere gliene metterò una con le mie mani...

Denise arrossì, si ingannò alle mie parole, credette che le giarrettiere fossero per un'altra donna, diventò triste, commise una storditezza sull'altra, cercava tutto quello che occorreva per la mia fasciatura, l'aveva sotto gli occhi e non lo trovava; rovesciò il vino che aveva fatto riscaldare, si avvicinò al letto per medicarmi, prese la mia gamba con la mano tremante, disfece le bende a rovescio, e quando bisognò disinfettare la ferita, aveva dimenticato tutto ciò che era necessario; andò a cercarlo, mi medicò, e vidi che nel medicarmi piangeva.

- Denise, credo che piangiate, che avete?

- Non ho niente.

- Vi hanno provocato qualche afflizione?

- Sì.

- E chi è quel cattivo che vi affligge?

- Voi.

- Io?

- Sì.

- E come ho potuto fare...?

Anziché rispondermi, girò gli occhi sulle giarrettiere.

- E che! - le dissi, - è questo che vi ha fatto piangere?

- Sì.

- Eh! Denise, non piangete più, le ho comprate per voi.

- Signor Giacomo, dite davvero?

- Verissimo, tant'è vero che eccovele qui -. Nello stesso tempo gliele presentai tutte e due, ma ne trattenni una; subito le sfuggì un sorriso attraverso le lacrime. La presi per il braccio, la avvicinai al mio letto, le presi un piede che misi sull'orlo; sollevai le sue gonne fino al ginocchio, dove se le teneva strette con tutte e due le mani; le baciai la gamba, vi misi la giarrettiera; e questa era appena messa, che Jeanne, sua madre, entrò.

IL PADRONE: Ecco una visita spiacevole.

GIACOMO: Forse che sì, forse che no. Anziché accorgersi del nostro turbamento, lei non vide che la giarrettiera che sua figlia aveva fra le mani.

- Che bella giarrettiera, - disse; - ma dov'è l'altra?

- Alla mia gamba, - le rispose Denise. - Mi ha detto di averle comprate per la sua innamorata, e ho giudicato che era per me. Non è vero, mamma, che poiché ne ho messo una, bisogna che conservi l'altra?

- Ah! signor Giacomo, Denise ha ragione, una giarrettiera non va senza l'altra, e voi non vorreste riprenderle quella che ha già.

- Perché no?

- Perché Denise non lo vorrebbe, e io neppure.

- Allora mettiamoci d'accordo, le metterò l'altra in vostra presenza.

- No, no, non è possibile.

- Allora me le restituisca tutte e due.

- Questo neppure è possibile.

Ma Giacomo e il suo padrone si trovavano all'ingresso del villaggio, dove andavano a trovare il figlio e le persone che allevavano il figlio del cavaliere de Saint-Ouin. Giacomo tacque, il suo padrone gli disse: - Scendiamo, e facciamo una pausa qui.

- Perché?

- Perché, a quanto pare, sei alla fine dei tuoi amori.

- Non proprio.

- Quando si è arrivati al ginocchio, c'è poca strada da fare.

- Padrone mio, Denise aveva la coscia più lunga delle altre donne.

- Scendiamo ugualmente.

Scendono da cavallo, Giacomo per primo, presentandosi celermente al piede del suo padrone; questi ebbe appena posato il piede sulla staffa che le corregge si staccano e il mio cavaliere, rovesciato all'indietro, si sarebbe steso violentemente per terra, se il suo domestico non l'avesse ricevuto fra le braccia.

IL PADRONE: Ebbene! Giacomo, ecco come ti occupi di me! Che ci voleva perché mi sfondassi un fianco, mi rompessi un braccio, mi spaccassi la testa, e forse mi uccidessi?

GIACOMO: Che gran disgrazia!

IL PADRONE: Che dici, gaglioffo? Aspetta, aspetta, ti insegnerò io a parlare...

E il padrone, dopo avere avvolto intorno al polso due volte il cordone del suo frustino, si mette a inseguire Giacomo, e Giacomo a girare intorno al cavallo scoppiando a ridere; e il suo padrone a bestemmiare, imprecare, schiumare di rabbia, girare anche lui intorno al cavallo, vomitando contro Giacomo un torrente di invettive; e questa corsa durò fino a quando tutti e due, bagnati di sudore e stanchi morti, si fermarono uno da un lato del cavallo, e l'altro dall'altro, mentre Giacomo continuava a ridere ansimando, e il suo padrone ansimante gli lanciava occhiate furiose. Cominciavano a riprendere fiato, quando Giacomo disse al suo padrone:- Il mio signor padrone ne converrà ora?

IL PADRONE: E di che vuoi che convenga, cane, furfante, infame, se non che sei il più malvagio di tutti i domestici, e che io sono il più disgraziato di tutti i padroni?

GIACOMO: Non è dimostrato all'evidenza che noi agiamo la maggior parte del tempo senza volerlo? Qua, mettetevi la mano sulla coscienza: di tutto quello che avete detto o fatto da una mezz'ora, volevate qualche cosa? Non siete stato la mia marionetta, e non avreste continuato a essere un burattino nelle mie mani un mese di seguito, se me lo fossi proposto?

IL PADRONE: Come! era un gioco?

GIACOMO: Un gioco.

IL PADRONE: E ti aspettavi la rottura delle corregge?

GIACOMO: L'avevo preparata io.

IL PADRONE: Ed era questo il filo che mi attaccavi sulla testa, per muovermi secondo la tua fantasia?

GIACOMO: A meraviglia!

IL PADRONE: E la tua risposta impertinente era premeditata?

GIACOMO: Premeditata.

IL PADRONE: Sei un pericoloso mascalzone.

GIACOMO: Grazie al mio capitano, che si pagò un giorno a mie spese un simile passatempo, dite piuttosto che sono un ragionatore sottile.

IL PADRONE: E se tuttavia mi fossi ferito?

GIACOMO: Era scritto lassù e nella mia preveggenza che questo non sarebbe successo.

IL PADRONE: Via, mettiamoci a sedere; abbiamo bisogno di riposo.

Si siedono, mentre Giacomo va dicendo: - Accidenti che sciocco!

IL PADRONE: Parli di te, evidentemente.

GIACOMO: Sì, di me, che non ho messo un sorso di più nella fiasca.

IL PADRONE: Non rimpiangere niente, l'avrei bevuto io, che muoio di sete.

GIACOMO: Accidenti che sciocco, per non avercene messi due!

Il padrone lo supplicava, per ingannare la stanchezza e la sete, di continuare il racconto; Giacomo si rifiutava, il suo padrone faceva il broncio e Giacomo lo lasciava fare; finalmente, dopo aver protestato contro la disgrazia che ne sarebbe derivata riprendendo la storia dei suoi amori, Giacomo disse:

- Un giorno di festa che il signore del castello era a caccia... - Dopo queste parole, si fermò di colpo e disse: - Non posso; mi è impossibile andare avanti; mi sembra di avere di nuovo la mano del destino alla gola, e di sentirmela stringere; per Dio, permettetemi di tacere, signore.

- Ebbene, taci, e va' a chiedere alla prima capanna che vedi dov'è la casa del balio...

Era alla porta più giù; vanno, tenendo ognuno di essi il cavallo per la briglia. Di colpo la porta del balio si apre e un uomo compare; il padrone di Giacomo lancia un grido e mette mano alla spada; l'uomo in questione fa altrettanto. I due cavalli si spaventano al tintinnio delle armi, quello di Giacomo, spezza la briglia e fugge, e nello stesso istante il cavaliere con cui il suo padrone si batte è steso morto per terra. I contadini del villaggio accorrono. Il padrone di Giacomo si rimette rapidamente in sella e si allontana a gambe levate.

Ci si impadronisce di Giacomo, gli si legano le mani dietro la schiena e lo si porta davanti al giudice del luogo, che lo manda in prigione.

L'uomo ucciso era il cavaliere de Saint-Ouin, che il caso aveva portato precisamente quel giorno con Agathe dalla balia del loro figlio. Agathe si strappa i capelli sul cadavere dell'amante. Il padrone di Giacomo è già così lontano che lo si è perduto di vista.

Andando dalla casa del giudice alla prigione, Giacomo diceva: - Doveva essere così, era scritto lassù...

Quanto a me, io mi fermo, perché vi ho detto di questi due personaggi tutto quello che ne so. - E gli amori di Giacomo? - Giacomo ha detto cento volte che era scritto lassù che non ne avrebbe finito la storia, e vedo che Giacomo aveva ragione. Vedo, lettore, che questo ti dispiace; ebbene, riprendi il suo racconto dove lui l'ha lasciato, e continualo come ti pare, oppure fa' una visita a madamigella Agathe, cerca di sapere il nome del villaggio in cui Giacomo si trova imprigionato, vedi Giacomo, interrogalo: non si farà pregare per esaudirti, questo lo distrarrà. Sulla scorta di memorie che ho buone ragioni di ritenere sospette, potrei forse supplire a quello che manca qui; ma a che pro? non ci si può interessare che a quello che si crede vero. Comunque, poiché sarebbe temerario pronunciarsi senza maturo esame sui colloqui di Giacomo il fatalista con il suo padrone, la più importante opera che sia apparsa dopo il "Pantagruel" di maestro François Rabelais, e la vita e le avventure del "Compère Mathieu", rileggerò queste memorie con tutta l'applicazione e l'imparzialità di cui sono capace; e fra otto giorni te ne darò il mio giudizio definitivo, salvo a ritrattarmi se uno più intelligente di me mi dimostrerà che mi sono ingannato.

L'editore aggiunge: Gli otto giorni sono passati. Ho letto le memorie in questione; dei tre paragrafi in più, che non si trovano nel manoscritto di cui sono possessore, il primo e l'ultimo mi sembrano originali, e quello di mezzo evidentemente interpolato. Ecco il primo, che suppone una seconda lacuna nel colloquio di Giacomo con il suo padrone.

Un giorno di festa che il signore del castello era a caccia, e il resto degli invitati erano andati alla messa della parrocchia, che distava un buon quarto di lega, Giacomo era alzato, Denise stava seduta vicino a lui. Stavano in silenzio, avevano l'aria di farsi il broncio, e se lo facevano realmente. Giacomo aveva messo tutto in opera per persuadere Denise a renderlo felice, e Denise aveva tenuto duro. Dopo questo lungo silenzio, Giacomo, piangendo a calde lacrime, le disse in tono duro e amaro: - E' che voi non mi amate... - Indispettita Denise si alza, lo prende per un braccio, lo porta bruscamente verso il letto, vi si siede e gli dice: - Ebbene! signor Giacomo, allora non vi amo? Ebbene! signor Giacomo, fate quello che vi piace della disgraziata Denise...- E nel dir così, eccola sciogliersi in lacrime e soffocata dai singhiozzi.

Dimmi, lettore, che avresti fatto al posto di Giacomo? Niente. Ebbene!

fu quello che lui fece. Riportò Denise alla sua sedia, si gettò ai suoi piedi, le asciugò le lacrime che le scorrevano dagli occhi, le baciò le mani, la consolò, la rassicurò, credette che era amato teneramente da lei, e si affidò alla tenerezza di lei quanto al momento in cui le sarebbe piaciuto di ricompensare la sua. Questo modo di procedere commosse sensibilmente Denise.

Si obietterà forse che Giacomo, ai piedi di Denise, non poteva asciugarle le lacrime... a meno che la sedia non fosse molto bassa. Il manoscritto non lo dice, ma bisogna supporlo.

Ecco il secondo paragrafo, copiato dalla vita di Tristram Shandy, a meno che i colloqui fra Giacomo il fatalista e il suo padrone non siano anteriori a quest'opera, e che il ministro Sterne sia lui il plagiario, cosa che non credo, ma per una stima particolare del signor Sterne, che distinguo dalla maggior parte dei letterati del suo Paese, che sono abituati a derubarci e ingiuriarci.

Un'altra volta, era di mattina, Denise era venuta a medicare Giacomo.

Tutto dormiva ancora nel castello, Denise si avvicinò tremando.

Arrivata alla porta di Giacomo, si fermò, incerta se entrare o no.

Entrò tremando; rimase accanto al letto di Giacomo a lungo, senza osare tirare le cortine. Le schiuse piano; disse buon giorno a Giacomo tremando; si informò della notte e della sua salute tremando; Giacomo le disse che non aveva chiuso occhio, che aveva sofferto e che soffriva ancora per un crudele prurito al ginocchio. Denise si offrì di alleviarlo; prese un pezzetto di flanella; Giacomo mise la gamba fuori del letto, e Denise si mise a strofinare con la flanella sotto la ferita, prima con un dito, poi con due, con tre, con quattro, con tutta la mano. Giacomo la guardava fare e si inebriava d'amore. Poi Denise si mise a strofinare con la flanella sulla ferita stessa, la cui cicatrice era ancora rossa, prima con un dito, poi con due, con tre, con quattro, con tutta la mano. Ma non bastava aver spento il prurito al di sotto del ginocchio e sul ginocchio, bisognava anche spegnerlo al di sopra, dov'esso si faceva sentire più vivamente.

Denise posò la flanella al di sopra del ginocchio, e si mise a strofinare con forza, prima con un dito, con due, con tre, con quattro, con tutta la mano. La passione di Giacomo, che non aveva smesso di guardarla, aumentò tanto che, non potendo più resistere, egli si precipitò sulla mano di Denise... e la baciò.

Ma quello che non mi lascia nessun dubbio sul plagio, è ciò che segue.

Il plagiario aggiunge: «Se non sei soddisfatto di quello che ti rivelo sugli amori di Giacomo, fai meglio, lettore, acconsento. Comunque tu faccia, sono sicuro che finirai come me. - T'inganni, insigne calunniatore, non finirò come te. Denise fu ragionevole -. - E chi ti dice il contrario? Giacomo si precipitò sulla mano, e non baciò che la mano. Sei tu che hai lo spirito corrotto, e credi di capire quello che non ti si dice. - Allora, non le baciò che la mano? - Certo, Giacomo aveva troppo buon senso per abusare di colei di cui voleva fare sua moglie, e prepararsi così una diffidenza che avrebbe potuto avvelenargli il resto della vita.- Ma è detto, nel paragrafo precedente, che Giacomo aveva messo tutto in opera per determinare Denise a renderlo felice. - Evidentemente, non voleva ancora farne sua moglie».

Il terzo paragrafo ci mostra Giacomo, il nostro povero fatalista, con i ferri alle mani e ai piedi, steso sulla paglia, in fondo a una cella buia, ricordandosi tutto quello che aveva ritenuto dei principi della filosofia del suo capitano, e non lontano dal credere che avrebbe rimpianto un giorno quella dimora umida, infetta, tenebrosa, dove era nutrito a pane e acqua, e dove doveva difendere le mani e i piedi contro gli attacchi di topi e ratti. Ci si racconta che, nel bel mezzo delle sue meditazioni, le porte della prigione e della sua cella vengono sfondate; che lui viene messo in libertà con una dozzina di briganti, e che si trova irreggimentato nella banda di Mandrin.

Intanto la gendarmeria, che seguiva le tracce del suo padrone, lo aveva raggiunto, preso e messo in un'altra prigione. Egli ne era uscito per i buoni uffici del commissario che lo aveva così ben servito in occasione della prima avventura, e viveva da due o tre mesi ritirato nel castello di Desglands, quando il caso gli restituì un servitore, essenziale alla felicità quasi quanto il suo orologio o la sua tabacchiera. Egli non prendeva un pizzico di tabacco, non guardava una volta che ora fosse, che non dicesse sospirando: «Ch'è accaduto di te, mio povero Giacomo!...» Una notte il castello di Desglands è assalito dai briganti di Mandrin; e Giacomo riconosce la casa del suo benefattore e della sua bella; intercede e garantisce dal saccheggio il castello. Si leggono quindi i patetici particolari dell'inopinato colloquio fra Giacomo, il suo padrone, Desglands, Denise e Jeanne.

- Sei tu, amico mio!

- Siete voi, mio caro padrone!

- Come ti sei trovato fra gente simile?

- E voi, come mai vi trovo qui?

- Siete voi, Denise?

- Siete voi, signor Giacomo? Quanto mi avete fatto piangere!...

Intanto Desglands gridava: - Si portino dei bicchieri e del vino; presto, presto: è lui che ha salvato la vita a tutti noi...

Alcuni giorni dopo, il vecchio portinaio del castello morì; Giacomo ottiene il suo posto e sposa Denise, con la quale si sforza di creare dei discepoli a Zenone e a Spinoza, amato da Desglands, diletto dal suo padrone e adorato da sua moglie; poiché così era scritto lassù.

Hanno voluto farmi credere che il suo padrone e Desglands si erano innamorati di sua moglie. Non so che cosa ci sia di vero, ma sono sicuro che lui diceva la sera a se stesso: «Se è scritto lassù che devi essere cornuto, Giacomo, avrai un bel darti da fare, lo sarai; se è scritto al contrario che non devi esserlo, avranno un bel darsi da fare, non lo sarai; dormi quindi tranquillo, amico mio...» e si addormentava.

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