Fëdor Dostoevskij



IL SOSIA

 

 

Poema pietroburghese

 

 

1.

 

Mancava poco alle otto del mattino quando il consigliere titolare Jakòv Petrovic' Goljadkin si svegliò da un lungo sonno, fece uno sbadiglio, si stiracchiò e aprì finalmente del tutto gli occhi.

Per due minuti, però, rimase disteso immobile nel suo letto come un uomo non completamente certo di essere sveglio o di dormire ancora e se tutto ciò che gli capita intorno sia realtà o non piuttosto la continuazione di un fantastico sogno. Ma ben presto i sensi del signor Goljadkin ripresero a cogliere, più chiare e più precise, le consuete, abituali impressioni. Le affumicate pareti verde sporco della sua stanzetta lo guardarono familiarmente, il comò di mogano, le sedie finto mogano, la tavola dipinta di rosso, il divano alla turca d'incerata rossa a fiorellini verdognoli e, ancora, il vestito di cui in gran fretta si era liberato la sera prima e che aveva buttato malamente sul divano. Infine una grigia giornata autunnale, cupa e sporca, fece capolino nella stanza attraverso i vetri appannati della finestra con un'aria così stizzita e una smorfia così acida che il signor Goljadkin non poté più avere nessun dubbio di trovarsi non in un qualche favoloso reame dall'altra parte del mondo, ma a Pietroburgo, nella capitale, in via delle Sei Botteghe, nel suo appartamentino al quarto piano di un grande palazzo. Fatta una simile importante scoperta, Goljadkin chiuse freneticamente gli occhi, quasi a rimpiangere il sogno di poco prima e a desiderare di farlo ritornare, almeno per un momento. Ma un attimo dopo saltò di colpo giù dal letto, colpito finalmente dall'idea intorno alla quale si erano andati aggirando fino a quel momento i suoi distratti pensieri non ancora irreggimentati in un ordine ben definito.

Appena sceso dal letto, corse verso un piccolo specchio rotondo che stava sul comò. Benché la figura assonnata, dalla vista debole e dalla incipiente calvizie, riflessa nello specchio fosse così insignificante da non attirare l'attenzione di nessuno, tuttavia era chiaro che il suo proprietario era rimasto soddisfattissimo di tutto quello che aveva visto nello specchio. "Sarebbe davvero un bell'affare" disse a mezza voce Goljadkin, "sarebbe davvero un bell'affare se proprio oggi non fossi in piena regola, se, mettiamo, mi fosse spuntata qualche novità, come per esempio una bel foruncolo assolutamente inopportuno, o mi fosse capitato qualche altro guaio; del resto, per ora non c'è niente da dire, per ora va tutto bene." Molto rallegrato che tutto andasse per il meglio, Goljadkin rimise lo specchio dov'era e, nonostante fosse a piedi nudi e portasse ancora indosso gli indumenti coi quali di solito si metteva a letto, corse a una finestra e con grande interesse si mise a cercare con lo sguardo qualcosa nel cortile della casa, sul quale si aprivano le finestre del suo appartamento. Era evidente che anche ciò che vide in cortile lo aveva accontentato, poiché il suo volto si illuminò di un sorriso di soddisfazione. Poi, dopo aver dato un'occhiata dietro il tramezzo nel bugigattolo del suo cameriere Petruska e avere constatato che Petruska non c'era, si avvicinò in punta di piedi al tavolo, aprì un cassetto, si mise a frugare in un angolo proprio in fondo e finalmente tirò fuori da sotto un mucchio di vecchie carte ingiallite e di certe cianfrusaglie un logoro portafogli verdastro; lo aprì prudentemente e gettò uno sguardo tenero e compiaciuto nel suo scomparto più interno e più nascosto.

E' probabile che anche quel mucchietto di biglietti verdognoli, grigiasti, azzurrognoli, rossicci e variamente screziati dovette guardare Goljadkin in modo molto affettuoso e complice: con un'espressione radiosa mise sul tavolo davanti a sé il portafogli aperto e, in segno di grande soddisfazione, si stropicciò vigorosamente le mani. Infine lo tirò fuori, quel suo confortante mucchietto di assegni governativi, e per la centesima volta, a partire anche soltanto dal giorno prima, si mise a contarli facendoli scorrere con grande attenzione, uno dopo l'altro, tra il pollice e l'indice.

"Settecentocinquanta rubli di assegnati!" concluse, quasi in un bisbiglio. "Settecentocinquanta rubli... è una bella somma! E' una somma che fa piacere" proseguì con voce tremante, diventata più flebile per la gioia, stringendo il pacchetto tra le mani e sorridendo in modo significativo, "è una somma che fa davvero piacere! Piacere a chiunque! Vorrei tanto vedere adesso una persona per la quale questa somma fosse veramente una somma insignificante! Una simile somma può portarlo lontano, un uomo...

Ma che vuol dire questo?" pensò Goljadkin. "Dove diavolo è Petruska?". Sempre ancora con indosso gli stessi indumenti, diede di nuovo un'occhiata dietro al tramezzo. Petruska non c'era nemmeno adesso; c'era invece un samovàr, posato sul pavimento, che si arrabbiava, si riscaldava, andava fuori di sé, minacciando continuamente di sbollire, e fischiava in fretta e calorosamente, come se nel suo complicato linguaggio, biascicando e balbettando, volesse dire non so che cosa al signor Goljadkin; con ogni probabilità questo: prendetemi, brava gente, io sono stato puntuale e sono perfettamente pronto.

"Che il diavolo se lo porti!" pensò Goljadkin. "Quel pigrone di un animale riesce, alla fine, a fare perdere le staffe a un uomo; dove si sarà mai ficcato?". Pieno di legittima indignazione uscì nell'anticamera, formata da un piccolo corridoio in fondo al quale si trovava la porta che dava sull'ingresso, la aprì un po' e vide il suo servitore, attorniato da un buon numero di lacchè di ogni tipo, di donnette di casa e di estranei. Petruska stava raccontando qualcosa e gli altri ascoltavano. Evidentemente né l'argomento del discorso né il discorso stesso piacquero a Goljadkin. Urlò a Petruska e tornò in camera sua scontento e addirittura turbato. "Quell'animale è pronto a vendere un uomo per un soldo, e tanto più se si tratta del suo padrone" pensò, "e mi ha venduto, certamente mi ha venduto, sono pronto a scommetterlo che mi ha venduto per meno di un copeco. Be', che c'è?" "Hanno portato la livrea, signore." "Mettitela e vieni qui." Indossata la livrea, Petruska, sorridendo stupidamente, entrò nella camera del padrone. Era combinato in un modo strano oltre ogni limite. Aveva indosso una livrea verde molto usata, con galloni d'oro sfilacciati, cucita evidentemente per un uomo di statura superiore di ottanta centimetri almeno a quella di Petruska. Teneva in mano il cappello, anch'esso con galloni e penne verdi e sulla pancia aveva lo spadino da lacchè in un fodero di cuoio. E, alla fine, tanto per completare il quadro, Petruska, seguendo la sua abitudine preferita di essere sempre in disordine, alla buona, era anche ora a piedi nudi. Goljadkin guardò Petruska dalla testa ai piedi e fu evidentemente soddisfatto. La livrea, si vedeva, era stata presa a nolo per qualche solenne occasione. Si poteva anche notare che durante l'ispezione Petruska osservava il padrone con una certa aria di attesa e seguiva con insolita curiosità ogni suo gesto, il che turbava tantissimo il signor Goljadkin.

"Be', e la carrozza?" "Anche la carrozza è arrivata." "Per tutta la giornata?" "Sì, per tutta la giornata. Venticinque rubli in assegnati." "E gli stivali li hanno portati?" "Anche quelli, sì." "Imbecille! non puoi dire: sissignore, li hanno portati? Dammeli qui." Dopo aver espresso la sua soddisfazione perché gli stivali gli andavano a pennello, Goljadkin chiese il tè e il necessario per lavarsi e per radersi. Si rase con molta cura e con altrettanta cura si lavò, bevve il tè a grandi sorsate, e si dedicò alla sua importante e definitiva vestizione: indossò un paio di pantaloni quasi nuovi, poi una pettorina con dei piccoli bottoncini di bronzo, un panciotto a fiorellini vivaci e graziosissimi; si annodò al collo una cravatta di seta a colori e, infine, si infilò una giacca da divisa, anch'essa nuova e accuratamente spazzolata.

Mentre stava vestendosi guardò parecchie volte con amore i suoi stivali, sollevò alternativamente ora un piede ora l'altro, ne ammirò la forma e continuò a borbottare qualcosa tra i denti, ammiccando di tanto in tanto con una smorfietta significativa a un certo suo pensierino. Quella mattina, poi, Goljadkin era incredibilmente distratto, poiché non si accorgeva nemmeno dei sorrisi e delle smorfiette che faceva Petruska verso di lui, mentre lo aiutava a vestirsi. Finalmente, fatte tutte le formalità necessarie e vestitosi di tutto punto, Goljadkin rimise in tasca il portafogli, ammirò definitivamente Petruska che si era messo gli stivali e che così era anche lui in perfetto assetto; dopo aver considerato che ormai tutto era fatto e che non c'era più motivo per aspettare ancora, in fretta e tutto affaccendato si precipitò giù dalle scale non senza un leggero palpitare del cuore. Una carrozza da nolo azzurra, con non so quali stemmi, rotolò con fracasso verso la scaletta d'ingresso. Petruska, scambiando strizzatine d'occhi col vetturino e con alcuni sfaccendati che erano lì intorno, fece sedere il suo signore in carrozza; con voce insolita e trattenendo a fatica le risate più sguaiate, gridò "avanti!", saltò sul seggiolino posteriore e finalmente il tutto, rumoreggiando e strepitando, tra tintinnii e scricchiolii, rotolò verso il Nevskij Prospèkt.

L'azzurro equipaggio aveva appena fatto in tempo a uscire dal portone che Goljadkin si strpicciò convulsamente le mani e proruppe in una risata sommessa e silenziosa, proprio come chi, per gaiezza di carattere, sia riuscito a giocare a qualcuno un bel tiro del quale lui stesso si compiace all'infinito. Però, subito dopo quell'esplosione di allegria, il riso si trasformò sul volto di Goljadkin in una strana espressione preoccupata. Nonostante il tempo fosse umido e minaccioso aprì tutti e due i finestrini della carrozza e cominciò con aria inquieta a osservare i passanti a destra e a sinistra, assumendo un'aria seria e grave non appena si accorgeva che qualcuno lo guardava. Alla curva dal Litéjnij sul Nevskij Prospèkt, a causa di una spiacevolissima sensazione ebbe un sussulto e, assumenndo un'espressione come quella di un poveraccio al quale abbiano inavvertitamente pestato un callo, si strinse in fretta e quasi con una certa paura nell'angolo più buio della carrozza. Era successo che aveva incontrato due suoi colleghi, due giovani impiegati di quel ministero nel quale lui stesso era in servizio. Anche i due funzionari, così era parso al signor Goljadkin, erano, per conto loro, in grande imbarazzo per essersi incrociati in quel modo col collega; uno dei due, anzi, aveva perfino indicato col dito Goljadkin. A Goljadkin era sembrato anche che l'altro lo avesse chiamato ad alta voce per nome, il che, si sa, era, per strada, assai sconveniente. Il nostro eroe si era stretto nel suo angolo e non aveva risposto.

"Che razza di ragazzacci!" cominciò a ragionare tra sé. "Insomma, che c'è poi di tanto strano? Una persona in carrozza! Una persona aveva bisogno di andare in carrozza e ecco che ha preso una carrozza. Canaglie, semplicemente! Io li conosco: veri ragazzacci che avrebbero bisogno di frustate! Vorrebbero soltanto giocare a testa e croce con lo stipendio e bighellonare di qua e di là; questa è proprio una cosa da loro. Avrei dovuto dirgli qualcosa, solo che..." Goljadkin non completò il suo ragionamento e rimase di stucco. Un'agile pariglia di cavallini di Kazan, che lui conosceva bene, attaccata a un elegante calesse, stava sorpassando rapidamente dal lato destro la sua carrozza. Il signore che sedeva nel calesse, avendo visto per caso la faccia di Goljadkin che abbastanza imprudentemente sporgeva dal finestrino della carrozza, sembrava essere rimasto anche lui molto meravigliato per un simile inatteso incontro e, piegandosi il più possibile, lanciò un'occhiata carica di curiosità e di interesse nell'angolo della carrozza in cui il nostro eroe si era affrettato a cercare di appiattirsi. Il signore in calesse era Andréj Filìppovic', caposezione in quella stessa amministrazione di cui faceva parte anche Goljadkin in qualità di aiuto del suo capufficio. Goljadkin, visto che Andréj Filìppovic' lo aveva perfettamente riconosciuto e lo guardava con tanto d'occhi, e che nascondersi era ormai impossibile, arrossì fino alle orecchie. "Salutare con un inchino o no? Richiamare la sua attenzione o no? Far capire di essere stato riconosciuto o no?" pensava il nostro eroe in un indescrivibile stato di angoscia. "Oppure fare il finto tonto come se non fossi io ma un altro che mi somiglia in modo sorprendente e guardarlo come se niente fosse?" "E veramente non sono io, non sono io e basta!" borbottava Goljadkin, levandosi il cappello davanti a Andréj Filìppovic' e senza togliergli gli occhi di dosso.

"Io non ho niente a che fare" continuava faticosamente a borbottare, "non c'entro proprio niente, non sono io, e basta!" Ben presto, però, il calesse superò la carrozza e il magnetico sguardo del superiore scomparve.

Nonostante questo, arrossiva ancora, sorrideva, rimuginava qualcosa tra sé e sé... "Sono stato un imbecille a non richiamare la sua attenzione" pensò infine; "sarebbe bastato semplicemente un gesto condito con un po' di audacia e di franchezza non priva di nobiltà: 'Sicuro, Andréj Filìppovic', le cose stanno così e così... sono anch'io invitato al pranzo', e basta!" Poi, ripensando all'improvviso di avere agito in maniera riprovevole, il nostro eroe si fece rosso come il fuoco, aggrottò le sopracciglia e lanciò un terribile sguardo provocante nell'angolo più nascosto della carrozza, uno sguardo destinato a ridurre in cenere, in un colpo solo, tutti i suoi nemici. Infine, di botto, chissà come ispirato, tirò il cordone collegato al gomito del vetturino-cocchiere, fermò la carrozza e diede ordine di tornare indietro nella Litéjnaja. Era successo che aveva sentito l'inderogabile impulso, probabilmente per sua tranquillità personale, di andare a dire al suo dottore, Krestjàn Ivànovic', qualcosa di estremamente interessante. E, anche se non conosceva Krestjàn Ivànovic' che da pochissimo tempo, in quanto gli aveva fatto giusto giusto una sola visita la settimana precedente, per motivi suoi personali, tuttavia il dottore, si dice, è come un confessore: sarebbe stupido nascondergli qualcosa e poi, d'altrondee, è suo dovere conoscere bene il paziente.

"Andrà poi bene tutto questo?" continuò il nostro eroe, scendendo dalla carrozza davanti all'ingresso di una casa a cinque piani sulla Litéjnaja, di fronte alla quale aveva dato ordine di fermare. "Andrà bene? Sarà conveniente? Sarà opportuno? Del resto, che cosa c'è" proseguiva, mentre saliva le scale, riprendendo fiato e reprimendo i battiti di quel suo cuore che aveva l'abitudine di battere forte sulle scale degli altri, "che cosa c'è? io vengo per fatti miei e di sconveniente qui non c'è proprio niente... Nascondersi sarebbe sciocco. Io, ecco, farò cosi:

fingerò di non volere niente, ma di essere passato così, come per caso... Sarà lui a vedere che cosa si dovrà fare." Rimuginando così tra sé e sé Goljadkin salì fino al secondo piano e si fermò davanti all'appartamento numero cinque, sulla cui porta era affissa una bella placca di rame con la scritta:

KRESTJAN IVANOVIC' RUTENSPITZ DOTTORE IN MEDICINA E CHIRURGIA.

Fermatosi, il nostro eroe si affrettò a dare alla sua fisionomia un aspetto corretto, disinvolto, non senza una sfumatura di affabilità, e si preparò a tirare il cordone del campanello. Stava lì lì per farlo quando, immediatamente e abbastanza a proposito, rifletté se non fosse più opportuno, dal momento che non c'era una grande necessità, aspettare l'indomani. Ma, appena Goljadkin ebbe sentito i passi di qualcuno che saliva le scale, di colpo abbandonò il nuovo proponimento, e con l'aria più decisa possibile suonò alla porta di Krestiàn Ivànovic'.

 

 

2.

 

Il dottore in medicina e chirurgia, Krestjàn Ivànovic' Rutenspitz, un tipo di uomo molto robusto benché già anzianotto, con folte sopracciglia e basette brizzolate, sguardo espressivo e scintillante col quale - e solo con quello, era chiaro - scacciava tutte le malattie, e, infine, adornato di una importante decorazione, si trovava quel mattino nel suo studio, seduto nella sua accogliente poltrona, intento a sorbire il caffè portatogli da sua moglie in persona e a fumare un sigaro, mentre di tanto in tanto scriveva ricette per i suoi pazienti. Dopo aver prescritto l'ultima boccettina a un vecchietto affetto da emorroidi e accompagnato a una porta secondaria il vecchietto sofferente, Krestjàn Ivànovic' si rimise a sedere in attesa della visita successiva. Entrò Goljadkin.

A quanto pareva, Krestjàn Ivànovic' non aspettava per niente, e tantomeno desiderava, vedersi davanti Goljadkin, perché rimase per un momento turbato e involontariamente il suo viso prese un'espressione strana e, direi anzi, malcontenta. Poiché, dal canto suo, e quasi sempre a sproposito, Goljadkin si perdeva d'animo e si smarriva quando gli succedeva di avvicinare qualcuno per i suoi piccoli affari privati, così anche in quel momento, non avendo preparato la prima frase che in casi simili costituiva per lui lo scoglio principale, si confuse parecchio, borbottò qualche parola - di scusa, con ogni probabilità - e, non sapendo poi che fare, prese una sedia e si mise a sedere. Ma, ricordatosi di essersi accomodato senza invito, capì la scorrettezza e si affrettò a riparare al suo errore di ignoranza del mondo e del "bon ton" alzandosi immediatamente dalla sedia occupata senza invito. Quindi, ripresosi e confusamente accortosi di avere commesso due sciocchezze in una, si decise, senza metter tempo in mezzo, a farne una terza: tentò di giustificarsi, borbottò chissà che sorridendo, arrossì, si confuse, tacque in modo espressivo e, finalmente, si rimise a sedere in modo definitivo e non si alzò più; solo, per qualsiasi evenienza, preparò quel suo sguardo provocante che aveva la non comune forza di incenerire col pensiero e sbaragliare tutti i nemici del signor Goljadkin. Oltre a ciò, quello sguardo rivelava in pieno l'indipendenza del signor Goljadkin, diceva cioè chiaramente che il signor Goljadkin non aveva niente a che farci, che lui era come tutti gli altri e che, in ogni caso, viveva per conto suo.

Krestjàn Ivànovic' tossì, si schiarì la gola evidentemente in segno di approvazione e di consenso e fissò su Goljadkin uno sguardo indagatore e interrogativo.

"Io, Krestjàn Ivànovic'" prese a dire Goljadkin con un sorriso, "sono venuto a infastidirvi per la seconda volta; oso chiedere la vostra indulgenza..." Goljadkin era, evidentemente, in difficoltà a trovare le parole.

"Ehm... sì" disse Krestjàn Ivànovic', lanciando con la bocca una spirale di fumo e posando il sigaro sul tavolo, "ma dovete attenervi alle prescrizioni; vi ho già spiegato che la vostra cura consiste in un cambiamento di abitudini... Distrazioni, dunque; bisogna fare visita a amici e conoscenti e nello stesso tempo non essere nemico della bottiglia e godere regolarmente di allegre compagnie..." Goljadkin, sempre sorridendo, si affrettò a far notare che a lui sembrava di essere come tutti, che stava in casa, che aveva svaghi come tutti gli altri... che naturalmente anche lui poteva frequentare i teatri come tutti gli altri, poiché non gliene mancavano i mezzi, che di giorno era in servizio ma la sera se ne stava in casa, che non faceva assolutamente niente che non andasse bene; non mancò anche di far notare, cosi di sfuggita, che lui, a quanto gli pareva, non era peggiore degli altri, che viveva nel suo appartamentino e che, infine, c'era con lui Petruska. A questo punto Goljadkin si bloccò.

"Già... ma questo genere di vita non va... non è questo che volevo chiedervi. Io desidero sapere, così in generale, se siete molto amante delle compagnie allegre, se trascorrete allegramente il tempo... Insomma, il vostro regime attuale di vita è triste o allegro?" "Io... Krestjàn Ivànovic'..." "Già... io vi dico" lo interruppe il dottore, "che è necessaria una radicale trasformazione della vostra vita e, in un certo senso, di fare violenza al vostro carattere (Krestjàn Ivànovic' accentuò con forza le parole 'far violenza' e si fermò un momento con aria assai significativa). Non evitare la vita allegra; frequentare gli spettacoli e il club e in ogni caso non essere nemico della bottiglia. Non vi fa bene restarvene in casa... no, non ci dovete assolutamente stare." "Io, Krestjàn Ivànovic', amo il silenzio" riprese Goljadkin, lanciando uno sguardo significativo su Krestjàn Ivànovic' e con evidente faticosa ricerca delle parole per esprimere nel modo più chiaro il suo pensiero; "in casa ci siamo soltanto io e Petruska... voglio dire, il mio servo, Krestjàn Ivànovic', che io vado per la mia strada, una strada tutta mia, Krestjàn Ivànovic'.

Io me ne sto in disparte, e a quanto mi sembra, non dipendo da nessuno. Io, Krestjàn Ivànovic', esco anche per andare a passeggio." "Come?... Già! Ma andare a passeggio in questo periodo, non rappresenta certo un piacere; il clima è pessimo." "Sissignore, Krestjàn Ivànovic'. Anche se io, Krestjàn Ivànovic', sono un individuo tranquillo, come mi pare di avere già avuto l'onore di spiegarvi, la mia strada procede per conto suo, Krestjàn Ivànovic'. La strada della vita è ampia... Io voglio...

io voglio, Krestjàn Ivànovic', dire con questo... Scusatemi, Krestjàn Ivànovic'... non sono davvero esperto nel bel parlare e di eloquenza." "Già... Voi dite..." "Dico che mi dovete scusare, Krestjàn Ivànovic', del fatto che io, a quanto mi sembra, non sono un maestro di eloquenza" ribatté Goljadkin, in tono offeso, perdendo il filo e balbettando. "Sotto questo punto di vista io, Krestjàn Ivànovic', non sono come gli altri" aggiunse con un sorriso particolare; "io non so parlare molto, non ho imparato l'arte di abbellire le parole. Ma in compenso, Krestjàn Ivànovic', io agisco; in compenso agisco, Krestjàn Ivànovic'!" "Già... Dunque... voi agite?" ripeté Krestjàn Ivànovic'. Poi segui un minuto di silenzio. Il dottore rivolse a Goljadkin un'occhiata strana, sospettosa. Goljadkin, dal canto suo, guardò il dottore di sbieco, anche lui in maniera alquanto sospettosa.

"Io, Krestjàn Ivànovic'" riprese a dire Goljadkin sempre con quel tono un po' irritato e interdetto per l'eccessiva ostinazione di Krestjàn Ivànovic', "io, Krestjàn Ivànovic', io amo la tranquillità e non il rumore mondano. Là da loro, nel gran mondo, intendo, bisogna saper lucidare i pavimenti con gli stivali... (a questo punto Goljadkin strisciò appena appena un piede sul pavimento) là pretendono questo, signor mio, e pretendono anche le freddure... bisogna sapere improvvisare un complimento fiorito...

ecco ciò che là pretendono. Ma io tutto questo non l'ho imparato, Krestjàn Ivànovic', tutte queste astuzie non le ho imparate: non ne ho avuto il tempo. Io sono un uomo semplice, senza pretese e in me non c'è splendore esterno. In questo, Krestjàn Ivànovic', io sono disarmato; io, parlando in questo senso, depongo le armi." Tutto ciò Goljadkin lo disse, si capisce, con un'aria che lasciava chiaramente intendere che il nostro eroe non era per niente rammaricato di deporre, in questo senso, le armi e di non avere imparato le astuzie, ma, anzi, che era tutto il contrario.

Krestjàn Ivànovic', nell'ascoltarlo, aveva lo sguardo basso e il viso era atteggiato a una antipaticissima smorfia come se già presagisse qualcosa. Alla tirata di Goljadkin seguì un silenzio abbastanza lungo e significativo.

"Voi, direi, avete un po' deviato dall'argomento" disse, finalmente, Krestjàn Ivànovic' a mezza voce "e io, ve lo confesso, non sono riuscito a capirvi perfettamente." "Io non sono esperto nel bel parlare, Krestjàn Ivànovic'; ho già avuto l'onore di spiegarvi, Krestjàn Ivànovic', che non sono esperto nel bel parlare" ripeté Goljadkin, questa volta in tono brusco e deciso.

"Già..." "Krestjàn Ivànovic'!" ripeté Goljadkin con la voce bassa e piena di significato, e in parte anche con una certa solennità, soffermandosi su ogni punto. "Krestjàn Ivànovic'! appena sono entrato ho cominciato col presentarvi le mie scuse. Ora ripeto quello che ho detto prima e chiedo di nuovo, per un certo tempo, la vostra indulgenza. Io, Krestjàn Ivànovic', non ho niente da nascondervi. Sono un piccolo uomo, lo sapete anche voi; ma, per mia fortuna, non mi rammarico di essere un piccolo uomo. E' anzi proprio il contrario, Krestjàn Ivànovic'; e, per dirla tutta, sono perfino orgoglioso di non essere un grand'uomo, ma un piccolo uomo. Non sono un intrigante e anche di questo sono orgoglioso.

Non agisco sotto sotto, ma apertamente, senza astuzia, e benchè io possa a mia volta far del male, e anche molto, e io addirittura sappia a chi e come potrei farlo, io, Krestjàn Ivànovic', non voglio sporcarmi e, in questo senso, me ne lavo le mani. In questo senso, dico, me le lavo, Krestjàn Ivànovic'!" Goljadkin tacque in modo espressivo per un momento; parlava con dolce animazione.

"Io vado dritto, Krestjàn Ivànovic'" riprese il nostro eroe, "vado avanti a viso aperto e senza scappatoie, perché io queste le disprezzo e le lascio agli altri. Non cerco di umiliare quelli che forse sono più onesti di me e di voi... cioè voglio dire di me e di loro, Krestjàn Ivànovic'... non volevo dire di voi. Non amo le mezze parole; ho orrore della calunnia e del pettegolezzo. Metto la maschera soltanto per le mascherate e non per andare ogni giorno davanti alla gente. Vi chiedo soltanto, Krestjàn Ivànovic', come vi vendichereste di un nemico, del più malvagio vostro nemico... di colui che voi ritenete tale?" concluse Goljadkin, dopo aver lanciato uno sguardo provocante a Krestiàn Ivànovic'.

Benché Goljadkin avesse detto tutto questo come meglio non era possibile, in modo chiaro e sicuro, soppesando ogni parola e contando su un sicurissimo effetto, tuttavia guardava ora Krestjàn Ivànovic' con inquietudine, con grande inquietudine, con estrema inquietudine. Adesso era tutto concentrato nello sguardo, e con timidezza, con impazienza sgradevole e struggente aspettava la risposta di Krestjàn Ivànovic'. Ma, con meraviglia e mortificazione del signor Goljadkin, Krestjàn Ivànovic' borbottò qualcosa tra i denti, poi avvicinò la poltrona al tavolo e in tono abbastanza secco, anche se garbato, gli dichiarò qualcosa di questo genere: che il suo tempo era prezioso, che egli non lo capiva perfettamente, che era però pronto, per quanto poteva, a servirlo secondo le sue forze; ma che non si immischiava in tutto il resto che non lo riguardava. A questo punto prese la penna, si avvicinò un foglio di carta, ne ritagliò un pezzo di formato medico e dichiarò che immediatamente avrebbe prescritto il necessario.

"No, signore, non serve, Krestjàn Ivànovic'! no, signore, non serve assolutamente!" disse Goljadkin, alzandosi e afferrando Krestjàn Ivànovic' per la mano destra. "Non serve affatto, Krestjàn Ivànovic'.." E intanto, mentre Goljadkin diceva tutto questo, accadde in lui uno strano cambiamento. I suoi occhi grigi lampeggiarono in un certo strano modo, le labbra cominciarono a tremargli, tutti i muscoli, tutti i lineamenti del viso si misero in movimento e in grande agitazione. Lui stesso era tutto un tremito. Dopo aver obbedito al suo primo gesto istintivo e avere bloccato la mano di Krestjàn Ivànovic', Goljadkin stava ora immobile come se non credesse a se stesso e fosse in attesa di un'ispirazione per le sue azioni successive.

Allora si verificò una scena abbastanza strana. Un bel po' interdetto, Krestjàn Ivànovic' rimase per un attimo come inchiodato alla poltrona e, sconcertato, guardò negli occhi Goljadkin, che lo fissava nello stesso modo. Finalmente, Krestjàn Ivànovic' si alzò, aggrappandosi un po' al risvolto della giubba di Goljadkin. Rimasero tutti e due per qualche secondo in quella posizione senza staccarsi l'un l'altro gli occhi di dosso. Allora, in modo stranamente insolito, si compì anche il secondo movimento di Goljadkin. Le labbra presero a tremargli, il mento a saltellare e il nostro eroe scoppiò, inaspettatamente, in pianto. Tra i singhiozzi, scuotendo la testa e battendosi il petto con la mano destra, dopo avere a sua volta afferrato il risvolto della veste da camera di Krestjàn Ivànovic', voleva parlare e spiegarsi immediatamente, ma non gli riuscì di spiccicare nemmeno una parola. Infine Krestjàn Ivànovic' si riscosse dal suo stupore.

"Basta, calmatevi, mettetevi a sedere!" esclamò finalmente, cercando di far sedere Goljadkin sulla poltrona.

"Io ho dei nemici, Krestjàn Ivànovic', ho dei nemici; dei nemici malvagi che hanno giurato di uccidermi..." rispose Goljadkin timoroso, a voce bassissima.

"Basta, basta, macché nemici! Non bisogna ricordare i nemici! Non è affatto necessario! Sedete, sedete" proseguì Krestjàn Ivànovic', conducendo finalmente Goljadkin a sedere sulla poltrona.

Alla fine Goljadkin, senza staccare gli occhi da Krestjàn Ivànovic', si sedette; Krestjàn Ivànovic', con aria parecchio scontenta, cominciò a camminare da un angolo all'altro della stanza. Seguì un lungo silenzio.

"Vi sono molto grato, Krestjàn Ivànovic', proprio molto grato, e sono sensibilissimo a ciò che avete appena fatto per me. Fino alla tomba non scorderò le vostre affettuosità, Krestjàn Ivànovic'" disse infine Goljadkin, alzandosi dalla poltrona con aria offesa.

"Basta, basta! vi dico che ora basta!" esclamò in tono severo Krestjàn Ivànovic' a quell'uscita di Goljadkin e costringendolo ancora una volta a sedere al suo posto. "Dunque, che avete?

Raccontatemi che cosa avete ora di spiacevole" proseguì Krestjàn Ivànovic', "e di quali nemici volete parlare. Che avete dunque?" "No, Krestjàn Ivànovic', è meglio che ora lasciamo perdere queste cose" rispose Goljadkin, abbassando gli occhi, "è meglio che mettiamo tutto questo da parte fino a... fino a un altro momento, Krestjàn Ivànovic', fino a un momento più adatto, quando tutto sarà chiaro e quando dal volto di certa gente sarà caduta la maschera e ogni cosa sarà svelata. Ma adesso, si capisce, dopo quello che è successo tra noi... ne converrete anche voi, Krestjàn Ivànovic'... Permettetemi di augurarvi buon mattino, Krestjàn Ivànovic'" disse Goljadkin, dopo essersi alzato questa volta con atto deciso e serio dal posto e aver preso il cappello.

"Be'... come volete, allora... (Seguì un minuto di silenzio.) Io, da parte mia, lo sapete, ciò che posso... Desidero sinceramente ogni bene per voi." "Vi capisco, Krestjàn Ivànovic', vi capiscoo; ora vi capisco perfettamente... In ogni modo scusatemi per avervi disturbato, Krestjàn Ivànovic'!" "Già... No, io non volevo dire quello. Del resto, come vi fa più piacere. Continuare le medicine di prima..." "Continuerò le medicine di prima, come voi dite, Krestjàn Ivànovic', e continuerò a prenderle nella stessa farmacia... Al giorno d'oggi anche essere farmacista, Krestjàn Ivànovic', è già una cosa importante..." "Come? In che senso volete dire?" "Nel senso più comune, Krestjàn Ivànovic'! Voglio dire che al giorno d'oggi il mondo sta camminando..." "Già... " "E che qualsiasi ragazzaccio, non solo di farmacia, si dà delle arie davanti a un uomo come si deve." "Già... Che intendete dire?" "Io parlo, Krestjàn Ivànovic', di una persona nota... nota a tutti e due, Krestjàn Ivànovic', per esempio di Vladimir Semjònovic'..." "Ah!..." "Si, Krestjàn Ivànovic'; e io conosco parecchie persone, Krestjàn Ivànovic', che non si lasciano trascinare a tal punto dall'opinione comune da non dire qualche volta la verità." "Ah! Come mai?" "Sl, è cosi; ma, del resto, questa è un'altra faccenda; a volte ti sanno preparare il piatto con un certo qual sugo..." "Che cosa? Preparare che cosa?" "Sì, il piatto con un certo qual sugo, Krestjàn Ivànovic'; è un modo di dire... A volte sanno felicitarsi a proposito con qualcuno, per esempio; ci sono delle persone così, Krestjàn Ivànovic'." "Felicitarsi?" "Si, Krestjàn Ivànovic', felicitarsi, come ha fatto i giorni scorsi uno dei miei intimi conoscenti..." "Uno dei vostri intimi conoscenti... ah! e come mai?" disse Krestjàn Ivànovic', guardando con attenzione Goljadkin.

"Si, signore, uno dei miei intimi conoscenti si rallegra per il nuovo grado, per la nomina ad assessore di un altro pure molto intimo conoscente, e per giunta amico, come si dice, amico carissimo. Così, gli era capitato a proposito. 'Sono molto felice' ha detto, 'dell'occasione di potervi porgere, Vladimir Semjanovic', i miei sinceri rallegramenti per il grado conseguito.

E tanto più felice perché al giorno d'oggi, come tutti al mondo sanno, sono scomparse le nonnine che fanno gli incantesimi'." A questo punto Goljadkin accennò furbescamente con la testa e, strizzando l'occhio, guardò Krestjàn Ivànovic'.

"Già... Così ha detto questo..." "L'ha detto, Krestjàn Ivànovic', l'ha detto e intanto ha lanciato un'occhiata ad Andréj Filìppovic', zio di quello sciupafemmine del nostro Vladimir Semjònovic'. Ma che importa a me, sì a me, Krestjàn Ivànovic', che sia stato fatto assessore? Che c'entro io in questo? E vuole pure prendere moglie, mentre, con licenza parlando, ha ancora il latte alla bocca. Proprio così, ha detto.

Ora vi ho detto tutto: permettete che mi ritiri." "Già... " "Sì, Krestjàn Ivànovic', permettete che ora, dico, io mi ritiri. E a questo punto, per prendere due piccioni con una fava, come già avevo fatto star zitto quel bravo giovane con la faccenda delle nonnette, così mi rivolgo ora a Klara Olsùfevna (la cosa capitò l'altro ieri in casa di Olsùfij Ivànovic'); lei aveva cantato una romanza sentimentale, io le dico: 'Voi vi siete compiaciuta di cantare una romanza con molto sentimento, però non vi si ascolta con cuore puro'. E con questo intendo dire chiaramente, voi mi capite, Krestjàn Ivànovic', intendo dire chiaramente, che ora non è lei che si cerca, ma qualcos'altro..." "Ah! E lui, allora?" "Lui l'ha capita, lui, Krestjàn Ivànovic', ha mangiato la foglia, come dice il proverbio." "Già... " "Sì, signore, sì, Krestjàn Ivànovic'. E anche al vecchio lo dico.

So, gli dico, so, Olsùfij Ivànovic', come io vi sia obbligato, valuto bene i benefici che, fin dagli anni della mia infanzia, mi avete elargito. Ma aprite gli occhi, Olsùfij Ivànovic', gli dico.

Guardate. Io tratto la cosa alla luce del sole, Olsùfij Ivànovic'." "Ah, è cosi!" "Sì, Krestjàn Ivànovic'. Ecco com'è..." "E lui, allora?" "E lui, Krestjàn Ivànovic'... Prende tempo... e poi così cosà... e io ti conosco e so che sua eccellenza è un uomo generoso, e avanti a tirarla di questo passo... Ma che vuol dire questo? E' la vecchiaia che, come si dice, gli ha un po' scombussolato le...

rotelle..." "Ah! ecco come stanno le cose adesso!" "Sì, Krestjàn Ivànovic'. E tutti noi siamo così! Guardate un po'... un vecchietto con un piede nella fossa, ridotto al lumicino, come si dice, ma non appena nasce un pettegolezzo da donnicciole, eccolo lì con le orecchie dritte; senza di lui è impossibile..." "Un pettegolezzo, dite?" "Sì, Krestjàn Ivànovic', hanno fatto un pettegolezzo. E anche il nostro orso ci si è ficcato, e suo nipote, quel nostro sciupafemmine; hanno fatto comunella con le vecchie, si capisce, e hanno condito la faccenda. Che pensate? Che cosa hanno inventato per ammazzare un uomo?" "Per ammazzare un uomo?" "Si, Krestjàn Ivànovic', proprio per ammazzare un uomo. Hanno fatto girare... io parlo sempre del mio intimo conoscente..." Krestjàn Ivànovic' scosse il capo.

"Hanno fatto girare sul suo conto la voce... Vi confesso che mi vergogno perfino a dirlo, Krestjàn Ivànovic'..." "Già... " "Hanno fatto girare la voce che si è già obbligato per scritto a sposarsi, che è già fidanzato con un'altra... e pensate un po' con chi, Krestjàn Ivànovic'? " "Davvero?" "Con una cuoca, una sudicia tedesca, dalla quale mangia; invece di saldarle il conto le offre la sua mano." "Questo, dicono?" "Non ci credete, eh, Krestjàn Ivànovic'? Una tedesca, una volgare, ripugnante, svergognata tedesca. Karolina Ivànovna, se lo sapete..." "Confesso che da parte mia..." "Vi capisco, Krestjàn Ivànovic', vi capisco e per conto mio sento..." "Ditemi, per favore, dove abitate attualmente?" "Dove abito attualmente, Krestjàn Ivànovic'?" "Sì... io voglio... mi pare che voi prima abitavate..." "Abitavo, Krestjàn Ivànovic', abitavo, abitavo anche prima. Come si può non abitare!" rispose Goljadkin, accompagnando le sue parole con una breve risata e lasciando un po' confuso Krestjàn Ivànovic' con la sua risposta.

"No, non avete capito bene il mio pensiero; io volevo da parte mia..." "Anch'io volevo, Krestjàn Ivànovic', da parte mia, anch'io volevo" proseguì ridendo Goljadkin. "Io però Krestjàn Ivànovic', mi sono addirittura installato in casa vostra. Spero che voi mi permetterete ora... di augurarvi il buon giorno..." A questo punto il nostro eroe fece una strisciatina col piede e uscì dalla stanza, lasciando Krestjàn Ivànovic' letteralmente sbalordito. Nello scendere le scale del dottore faceva un risolino e si stropicciava le mani tutto contento. Sul pianerottolo dell'ingresso, dopo aver respirato una boccata d'aria fresca e essersi sentito libero, era effettivamente pronto a considerarsi come il più felice dei mortali e a andare dritto filato al dipartimento, quando all'improvviso sentì il rumore davanti alla portiera della sua carrozza; lanciò uno sguardo e tutto gli tornò in mente. Petruska stava già aprendo lo sportello. Una certa strana e sgradevole sensazione si impadronì di Goljadkin. Parve arrossire per un attimo. Qualcosa lo aveva punto. Stava già per appoggiare il piede sul predellino della vettura quando improvvisamente si girò a guardare le finestre di Krestjàn Ivanovic'. Ci siamo! Krestjàn Ivànovic' era alla finestra e, accarezzandosi con la mano destra i basettoni, era lì a guardare con una certa curiosità il nostro eroe.

"Questo dottore è uno stupido" pensò Goljadkin, entrando nella carrozza, "stupido al massimo. Può darsi che curi bene i suoi malati, e tuttavia è stupido come un tronco." Goljadkin si sedette, Petruska gridò "avanti!" e la carrozza riprese di nuovo a rotolare sulla strada per il Nevskij Prospèkt.

 

 

3.

 

Tutta quella mattina Goljadkin la passò affaccendato in grandi faccende. Giunto sul Nevskij Prospèkt, il nostro eroe diede ordine di fermare davanti al Gostinyj Dvor. Sceso dalla carrozza, corse sotto un'arcata in compagnia di Petruska e andò dritto filato in un negozio di articoli d'oro e d'argento. Anche solo a guardarlo ci si poteva accorgere che Goljadkin non sapeva, per il gran da fare, dove sbattere la testa. Dopo aver contrattato un servizio completo da tavola e da tè per più di millecinquecento rubli di assegnati e aver ottenuto, sul totale, come omaggio, un ingegnoso portasigarette e un completo da barba in argento, e dopo aver chiesto ancora informazioni sul prezzo di alcuni oggettini utili e piacevoli nel loro genere, con la promessa che il giorno dopo sarebbe senz'altro ritornato, o addirittura anche il giorno stesso, per ritirare gli oggetti contrattati, si segnò il numero della bottega e, ascoltato attentamente il negoziante che insisteva per avere un piccolo acconto, promise di dare a suo tempo anche la piccola caparra. Dopo di che, in gran fretta prese congedo dal mercante che era rimasto interdetto e si avviò lungo la fila di botteghe, incalzato da una schiera di commessi, girandosi indietro continuamente a guardare Petruska e cercando con attenzione qualche nuovo negozio. Passò di corsa in un negozietto di cambiavalute e cambiò in moneta spicciola tutti i suoi biglietti di grosso taglio e, pur perdendoci nel cambio, fece lo stesso l'operazione e il suo portafogli ne fu ingrossato ben bene, cosa che, evidentemente, gli procurò una enorme soddisfazione. Infine si fermò in un negozio di stoffe per signora. Anche qui, dopo aver contrattato, sempre per una notevole somma, Goljadkin promise al mercante che sarebbe sicuramente ritornato, anche qui si segnò il numero della bottega e, alla richiesta di un piccolo acconto, ripeté che, a suo tempo, avrebbe sborsato pure il piccolo acconto. Poi visitò ancora qualche altra bottega; in tutte contrattava, si informava dei prezzi di oggetti vari, discuteva a lungo coi negozianti usciva e rientrava anche tre volte di seguito; a farla breve, dimostrava un'attivismo fuori dal comune. Dal Gostinyj Dvor, il nostro eroe si diresse in un famoso negozio di mobili dove contrattò l'arredamento per sei camere, ammirò una pettiniera per signora, molto originale e di gusto modernissimo e, assicurato il mercante che sarebbe ritornato di certo, uscì dal negozio, promettendo come d'abitudine un acconto; poi andò ancora in questa e in quell'altra bottega e contrattò ancora per questa e quella cosa. A farla breve il suo daffare non finiva mai. Finalmente tutto questo cominciò a stufare anche Goljadkin. E, Dio sa per quale motivo, cominciarono a tormentarlo di punto in bianco certi rimorsi di coscienza. A nessun costo avrebbe ora acconsentito a incontrarsi, per esempio, con Andréj Ivànovic'. Finalmente gli orologi pubblici batterono le tre pomeridiane. Quando Goljadkin salì definitivamente in carrozza, di tutti gli acquisti fatti quella mattina non gli restavaa in realtà che un paio di guanti e una boccetta di profumo, per un rublo e mezzo di assegnati. Poiché per Goljadkin era ancora relativamente presto, ordinò al cocchiere di fermarsi a un noto ristorante sul Nevskij Prospèkt che conosceva soltanto di nome, scese dalla carrozza e corse dentro per mangiucchiare qualcosa, riposarsi e aspettare il tempo necessario.

Consumato uno spuntino come lo può fare uno che abbia la prospettiva di un pranzo coi fiocchi, cioè dopo aver spiluccato qua e là qualcosina, tanto, come si dice, per ingannare l'appetito, e aver bevuto un solo bicchierino di vodka, Goljadkin si sedette su una poltrona e, rivolto un modesto sguardo intorno, si apprestò tranquillamente alla lettura di uno scarno gazzettino nazionale. Dopo averne lette due righe, si alzò, si osservò in uno specchio, si aggiustò i capelli e si diede una sistematina; si avvicinò poi a una finestra e diede un'occhiata fuori per vedere se la sua carrozza fosse sempre lì... poi si rimise a sedere allo stesso posto e riprese il giornale. Era evidente che il nostro eroe si trovava in uno stato di grandissima agitazione. Guardato poi l'orologio e visto che erano solo le tre e un quarto, e che di conseguenza se ne sarebbe dovuto rimanere lì ad aspettare parecchio tempo ancora, riflettendo contemporaneamente che era così poco conveniente restarsene lì seduto, Goljadkin ordinò che gli si portasse una cioccolata della quale, però, in quel momento, non provava una gran voglia. Bevuta la cioccolata e notato che era passato un po' di tempo, si mosse per pagare il conto.

All'improvviso qualcuno gli batté sulla spalla.

Si girò e vide davanti a sé due suoi colleghi d'ufficio, proprio quegli stessi che aveva incontrato al mattino nella Litéjnaja, due ragazzi ancora molto giovani e di età e di grado. Il nostro eroe era in rapporti così e così con loro... non di amicizia e nemmeno di aperta ostilità. Si capisce che da entrambe le parti le convenienze venivano rispettate; ma non esisteva una grande intimità né poteva essercene. L'incontro, in quel momento, fu sgradevolissimo per Goljadkin. Aggrottò un po' il viso e per un attimo rimase interdetto.

"Jakòv Petrovic', Jakòv Petrovic'!" cominciarono a cinguettare i due registratori di collegio, "voi qui? per quale..." "Ah! Siete voi, signori!" l'interruppe frettoloso Goljadkin, un po' confuso e scandalizzato per lo stupore dei due impiegatucci e nello stesso tempo per quella loro maniera di trattare così alla buona, assumendo, controvoglia, un'aria disinvolta e un po' burbera. "Avete disertato, signori, eh, eh, eh!..." A questo punto, per non scendere fino al livello dei giovani di cancelleria coi quali manteneva sempre le dovute distanze, provò persino a battere qualche colpetto sulla spalla di uno dei due; ma un tale gesto democratico in quel caso non riuscì bene a Goljadkin e, invece di un gesto affettuoso e nello stesso tempo appropriato, ne risultò qualcosa di completamente diverso.

"Il nostro orso, dunque, è in ufficio?" "Chi sarebbe quest'orso, Jakòv Petrovic'?" "Be'... come se non sapeste chi viene chiamato l'orso...!" Goljadkin si mise a ridere e si volse verso il garzone per prendere il resto. "Alludo ad Andréj Filìppovic', signori" continuò, dopo aver finito col garzone e rivolgendosi verso i due impiegati, ma questa volta con la faccia seria. I due registratori di collegio si scambiarono una significativa strizzatina d'occhi.

"E' ancora in ufficio e ha chiesto di voi, Jakòv Petrovic'" rispose uno dei due.

"Ancora in ufficio! In tal caso ci resti, signori! E ha chiesto di me, eh?" "Ha chiesto di voi, sì, Jakòv Petrovic'; e, anzi, come mai siete così profumato e ripulito, proprio come un damerino?" "Così, signori, così... Basta..." rispose Goljadkin, guardando da una parte e dopo un sorriso piuttosto stiracchiato. Nel vedere che Goljadkin sorrideva, i due impiegati scoppiarono in una risata.

Goljadkin fece un po' la faccia scura.

"Vi dirò, signori, in via del tutto amichevole" riprese, dopo un po' di silenzio, il nostro eroe come se (e così sia!) avesse deciso di rivelare qualcosa ai due impiegati. "Voi, signori, mi conoscete, ma fino a oggi avete conosciuto di me solo un lato. Non c'è, in questo caso, da rimproverare nessuno e in parte, lo confesso, sono io il colpevole." Goljadkin strinse le labbra e fissò sui due uno sguardo pieno di significato. Gli impiegati si scambiarono di nuovo una strizzatina d'occhi.

"Fino a oggi, signori, non mi avete conosciuto. Spiegarsi in questo momento e in questo luogo non sarebbe assolutamente a proposito. Vi dirò solo qualcosa di passaggio e di sfuggita. C'è della gente, signori, che non ama le vie traverse e si mette la maschera soltanto per i balli mascherati. Ci sono altri, invece, che pensano che il vero compito dell'uomo consista nell'abilità con cui lucida i pavimenti con gli stivali. E ci sono anche delle persone, signori, che non diranno che sono felici e che vivono compiutamente se non quando, per esempio, i pantaloni stanno loro a pennello. E c'è, infine, della gente che non ama bighellonare e girare a vuoto, cianciare di cose futili e insinuarsi nelle grazie altrui e soprattutto, signori, ficcare il naso dove nessuno li cerca... Io, signori, ho detto quasi tutto: permettete, ora, che me ne vada..." Goljadkin si ferma. Poiché i registratori di collegio erano ormai soddisfatti a dovere, tutti e due all'improvviso si sbellicarono dalle risa in modo veramente indecente. Goljadkin avvampò.

"Ridete, signori, ridete adesso! Chi vivrà vedrà..." disse con un'aria di dignità offesa, dopo aver preso il cappello e ritirandosi verso la porta.

"Ma vi dirò di più, signori" aggiunse, rivolgendosi per l'ultima volta verso i registratori di collegio, "vi dirò di più: voi siete qui tutti e due di fronte a me. Ecco, signori, i miei princìpi: se mi riesce resisto, tengo duro e in ogni caso non tolgo il terreno da sotto ai piedi di nessuno. Non sono un intrigante, e di questo vado fiero. In diplomazia non sarei servito a niente. Si dice anche, signori, che l'uccello vola da solo verso il cacciatore. E' vero, e io sono pronto a convenirne: ma qui chi è l'uccello e chi il cacciatore? Questo è il problema, signori!" Goljadkin tacque eloquentemente e, col viso il più possibile significativo, cioè sollevando le sopracciglia e stringendo al massimo le labbra, fece un bell'inchino agli impiegati e poi uscì lasciandoli addirittura senza parole.

"Dove ordinate di andare?" chiese in tono piuttosto ruvido Petruska, che era ormai stufo, probabilmente, di quel gironzolare al freddo. "Dove ordinate che si vada?" domandò a Goljadkin, scontrandosi con quel suo terribile sguardo annientatore che il nostro eroe aveva usato quella mattina e al quale ora per la terza volta aveva fatto ricorso mentre scendeva la scala.

"Al ponte Izmajlovskij!" "Al ponte Izmajlovskij! Via!" "Il pranzo da loro non comincerà prima delle cinque e anche dopo", pensava Goljadkin "non è ancora presto? Del resto, posso anche arrivare un po' in anticipo e, poi, alla fin fine, è un pranzo di famiglia. Posso comportarmi in questo modo 'san-fasòn' come si dice tra la gente perbene. Perché poi non dover essere 'san- fasòn'? Anche il nostro orso diceva che tutto sarà 'san-fasòn' e perciò anch'io..." Così andava almanaccando; e intanto la sua agitazione si faceva mano a mano più intensa. Si capiva che si stava preparando a qualcosa che lo preoccupava molto, per non dire di più: parlava a bassa voce tra sé, gesticolava con la mano destra, guardava continuamente dal finestrino della carrozza, tanto che, osservando in quel momento Goljadkin, nessuno avrebbe potuto ragionevolmente pensare che si stesse preparando a un buon pranzo senza cerimonie e per di più in un ambiente familiare, 'san-fasòn', come si dice tra gente dabbene. Finalmente, proprio vicino al ponte Izmajlovskij, Goljadkin indicò una casa: la carrozza entrò con fracasso nel portone e si fermò all'ingresso dell'ala destra. Notata a una finestra del secondo piano un figura femminile, Goljadkin le mandò un bacio con la mano. D'altra parte non sapeva lui stesso che cosa facesse, perché in quel momento era più morto che vivo. Scese dalla carrozza pallido, smarrito; salì al pianerottolo d'ingresso, si tolse il cappello, si ravviò con gesto meccanico i capelli e, sentendo per di più un leggero tremito alle ginocchia, si lanciò su per la scala.

"Olsufij Ivànovic'?" domandò al servo che gli aveva aperto.

"E' in casa, signore, cioè no, non è in casa..." "Come? che dici, caro? Io, io sono atteso a pranzo, fratello. Tu mi conosci, no?" "Come non conoscervi, signore? Non ho avuto ordine di farvi entrare, signore." "Tu... tu, fratello... credo che tu sia in errore, fratello. Sono io. Io, fratello, sono stato invitato, invitato a pranzo" disse Goljadkin, liberandosi dal cappotto e mostrando l'evidente intenzione di dirigersi nelle stanze.

"Scusate, signore, non si può, signore. Ho avuto l'ordine di non ricevervi, signore, l'ordine di non farvi entrare. Ecco com'è." Goljadkin impallidì. Proprio in quel momento la porta che dava nelle stanze interne si aprì e apparve Gherasimyc', il vecchio cameriere di Olsufij Ivànovic'.

"Ecco, Emeljàn Gherasimyc', vuol entrare, e io..." "E voi siete uno stupido, Alekséjc'. Andate dentro e mandate qui quel manigoldo di Semjonyc"' disse al servo, e poi, rivolgendosi cortesemente ma con fermezza a Goljadkin, continuò: "Non si può, signore; non è assolutamente possibile, signore. Vi pregano di scusare, signore, ma non possono ricevervi." "Hanno detto così, che non possono ricevermi?" domandò, esitante, Goljadkin. "Scusate, Gherasimyc', ma perché non è assolutamente possibile?" "Non si può, assolutamente. Io vi ho annunciato, signore; hanno detto: pregalo di scusare. Non possono, dicono, ricevervi." "E perché mai? come mai questo? come..." "Permettete, permettete..." "Come mai questo? Non è possibile, così... Riferite... Come mai questo? Io al pranzo..." "Permettete, permettete..." "Be', ma questa è un'altra faccenda: pregano di scusare; però permettete, Gherasimyc', come mai questo, Gherasimyc'?" "Permettete, permettete" insisté Gherasimyc', allontanando con una mano, con un gesto molto deciso, Goljadkin e facendo largo a due signori che in quel momento facevano il loro ingresso in anticamera.

I due signori che entravano erano Andréj Filìppovic' e suo nipote, Vladimir Semjanovic'. Entrambi guardavano sconcertati Goljadkin.

Andréj Filìppovic' avrebbe voluto dire qualcosa, ma Goljadkin aveva già preso la sua decisione: stava ormai uscendo dall'anticamera di Olsufij Ivànovic', a occhi bassi, rosso in viso, sorridendo con un'espressione del tutto sconcertata.

"Tornerò dopo, Gherasimyc'; mi spiegherà. Spero che tutto ciò non tarderà ad avere a suo tempo una spiegazione" disse sulla soglia e in parte già sulla scala.

"Jakòv Petrovic', Jakòv Petrovic'!" si udì la voce di Andréj Filìppovic' che aveva seguito Goljadkin. Goljadkin si trovava già sul primo pianerottolo. Si voltò rapidamente verso Andréj Filìppovic':

"Che volete, Andréj Filìppovic'?" chiese in tono piuttosto fermo.

"Che vi succede, Jakòv Petrovic'? Come mai?" "Non è nulla, Andréj Filìppovic'! Sono qui per conto mio. Qui si tratta della mia vita privata, Andréj Filìppovic'." "Che significa?" "Vi dico, Andréj Filìppovic', che questa è la mia vita privata e che qui, a quanto pare, non si può trovare niente di riprovevole che riguardi i miei rapporti ufficiali." "Come! Riguardo ai rapporti... che avete dunque, signore?" "Niente, Andréj Filìppovic', assolutamente niente; una ragazzata impertinente, nulla di più..." "Che cosa!... Che cosa?!..." sbigottì Andréj Filìppovic'.

Goljadkin, che fino a quel momento aveva parlato con Andréj Filìppovic' dal fondo della scala e lo aveva guardato, a quanto pareva, come se si preparasse a saltargli agli occhi, nel vedere che il caposezione era rimasto un po' turbato, fece, senza che nemmeno se ne accorgesse, un passo avanti. Andréj Filìppovic' ne fece uno indietro. Goljadkin salì un gradino e poi un altro ancora. Andréj Filìppovic' rivolse intorno uno sguardo preoccupato. Goljadkin improvvisamente prese a salire di corsa la scala. Ma, ancora più rapidamente, Andréj Filìppovic' si precipitò nella stanza sbattendosi la porta alle spalle. Goljadkin restò solo. Rimase come trasognato. Si sentì completamente smarrito e stava immobile in non so quale stato di sconclusionata meditazione, come se tentasse di ricordarsi di una qualche ugualmente sconclusionata circostanza capitatagli poco prima. "Eh, eh!" bisbigliò con un sorriso forzato. Intanto, dal fondo della scala risuonarono delle voci e dei passi, probabilmente di nuovi ospiti, invitati da Olsufij Ivànovic'. Goljadkin, ripresosi un po', rialzò il più possibile il bavero di procione, vi si nascose per quanto poté e cominciò a scendere le scale, arrancando, affrettandosi e inciampando. Sentiva dentro di sé come una grande stanchezza e un indolenzimento. Il suo imbarazzo era tanto forte che, uscito sul pianerottolo d'ingresso, non rimase nemmeno ad aspettare la carrozza, ma andò lui stesso a raggiungerla, attraversando il cortile pieno di fango. Arrivato alla carrozza e preparandosi a prendervi posto, Goljadkin espresse mentalmente il desiderio di sprofondare sottoterra o di nascondersi, fosse anche in un buco per topi, insieme con la carrozza. Aveva l'impressione che tutti quelli che si trovavano in quel momento in casa di Olsufij Ivànovic', ecco, lo stessero ora osservando da tutte le finestre. Sapeva che, se si fosse girato indietro, sarebbe certo morto lì, su due piedi.

"Che hai da ridere, testone?" chiese eccitato a Petruska che si preparava ad aiutarlo a salire in carrozza.

"Ma perché dovrei ridere? Non ho nulla da ridere. Dove si deve andare, ora?" "Va' a casa, muoviti..." "A casa!" gridò Petruska, arrampicandosi sul seggiolino posteriore.

"Che razza di voce da corvo!" pensò Goljadkin.

Intanto la carrozza si era già allontanata un bel po' dal ponte Izmajlovskij. All'improvviso il nostro eroe tirò con violenza il cordone e gridò al cocchiere di tornare immediatamente indietro.

Il cocchiere fece girare i cavalli e in due minuti arrivò di nuovo nel cortile di Olsufij Ivànovic'. "Non serve, testone, non serve; indietro!" grida Goljadkin, e sembrò che il cocchiere si aspettasse un contrordine simile; senza trovarci niente da ridire e senza nemmeno fermarsi all'ingresso, fece il giro del cortile e eccolo di nuovo sulla strada.

Goljadkin non andò a casa, ma, oltrepassato il ponte Semjonovskij, ordinò di girare in un vicolo e di fermarsi nei pressi di una trattoria di aspetto piuttosto modesto. Sceso dalla carrozza, il nostro eroe pagò il vetturino e così si liberò finalmente della carrozza. Ordinò a Petruska di tornare a casa e di aspettare il suo ritorno; entrò poi nella trattoria, scelse un salotto particolare e ordinò che gli servissero il pranzo. Si sentiva molto male, con la testa piena di confusione e di caos.

Passeggiò a lungo per la sala, in preda all'agitazione; poi finalmente si mise a sedere su una sedia, appoggiò la fronte sulle mani e cercò con tutte le sue forze di esaminare e di venire a capo di qualcosa circa la sua situazione attuale...

 

 

4.

 

Il giorno, il festoso giorno del compleanno di Klara Olsùfevna, figlia unica del consigliere di stato Bernadeiev, un tempo benefattore del signor Goljadkin, giorno diventato celebre per uno splendido, grandioso pranzo di gala, un pranzo come da lungo tempo non si era più visto di simile tra le pareti degli appartamenti di funzionari presso il ponte Izmajlovskij e nei dintorni, pranzo più somigliante a un convito di Baldassarre che a un pranzo, che rievocava un qualcosa di babilonese quanto a splendore, lusso e decoro, con profusione di champagne Cliquot, di ostriche e di frutta provenienti dai negozi di Elessev e di Miljutin, con ogni specie di ben nutriti vitellini e con tanto di "tabella dei ranghi" (1) dei funzionari in vista; questo festoso giorno, celebrato con un così grandioso pranzo, si concluse con un brillantissimo ballo, un piccolo ballo di famiglia tra intimi, ballo brillantissimo tuttavia per il buon gusto, l'eleganza e il decoro. Certo, io sono perfettamente d'accordo nel dire che balli di questo genere se ne vedono, sì, ma molto di rado. Serate danzanti come quelle, più simili a feste di famiglia che a balli veri e propri, possono svolgersi solo in case come, per esempio, la casa del consigliere di stato Bernadeiev. Dirò di più: ho perfino dei seri dubbi che in casa dei consiglieri di stato si possano dare simili balli. Oh, se io fossi poeta! Poeta naturalmente dell'altezza di un Omero o di un Puskin, perché con un ingegno meno elevato è impossibile farsi avanti... Se fossi poeta, dicevo, non mancherei di descrivervi, o lettori, con scintillante cromatismo e con ampie pennellate, tutto il susseguirsi degli avvenimenti di questa solenne giornata. Ma no, nel mio poema prenderei le mosse dal pranzo e in particolare mi attarderei su quell'attimo, meraviglioso e nello stesso tempo solenne, in cui fu alzata la prima coppa per brindare alla salute della regina della festa. Vi descriverei per prima cosa quegli ospiti assorbiti in quel religioso silenzio e in quell'attesa più simili all'eloquenza di Demostene che al silenzio. Poi vi descriverei Andréj Filìppovic', nella sua qualità di più anziano tra gli ospiti, quindi con qualche diritto al primato, nell'aureola di quei capelli bianchi e di decorazioni che sembravano fatte appositamente per quei capelli, che si alzava in piedi e sollevava alta sulla testa la coppa augurale piena di vino spumeggiante - vino fatto venire apposta da un lontano paese per solennizzare simili momenti - vino che poteva paragonarsi più a nettare degli dèi che a vino degli uomini. Vi descriverei gli invitati e i felici genitori della regina della festa, che, seguendo il gesto di Andréj Filìppovic', alzavano anche loro le coppe in alto e rivolgevano verso di lui gli occhi pieni di attesa. Vi descriverei come questo Andréj Filìppovic', così spesso ricordato, dopo aver lasciato cadere una lacrima nella coppa, pronunciò parole di rallegramento e di augurio, fece un brindisi e bevve alla salute... Ma, lo riconosco, lo riconosco pienamente, non sarei in grado di descrivere tutta la solennità di quel momento in cui la regina della festa, Klara Olsùfevna, arrossendo come una rosa di primavera, col rossore della beatitudine e della pudicizia, a causa dell'alluvione dei sentimenti, cadde tra le braccia della tenera madre, né come la tenera madre si commosse fino alle lacrime, né come in quell'occasione proruppe in singhiozzi il padre, l'eminente vegliardo e consigliere di stato Olsufij Ivànovic', che, privato dell'uso delle gambe durante i lunghi anni di servizio, era stato ricompensato dal destino per tanto zelo con un piccolo capitale, una casetta, alcune terre e una bellezza di figlia: prese a singhiozzare come un bambino, proclamando tra le lacrime che sua eccellenza era un grande benefattore. Io non potrei, no, veramente non potrei, descrivervi nemmeno l'estasi di tutti i cuori che seguì a quel minuto, estasi che fu lampante anche nel comportamento di un giovane registratore di collegio (che in quel momento faceva pensare più a un consigliere di stato che a un registratore di collegio), che nell'ascoltare Andréj Filìppovic' non riuscì a trattenere le lacrime. E a sua volta Andréj Filìppovic' in quel momento non somigliava affatto a un consigliere collegiale e a un caposezione di un dipartimento, no davvero! Poteva essere paragonato a ben altra cosa... non saprei a che cosa, di preciso, ma non certo a un consigliere di collegio. Era molto più in alto! Infine... ma perché non ho io il segreto di un'eloquenza elevata, potente, di uno stile eccelso, per descrivere tutti questi sublimi, meravigliosi istanti della vita umana, che sembrerebbero creati proprio per dimostrare come a volte la virtù trionfi sulle basse intenzioni, sullo scetticismo, sul vizio e sull'invidia! Io non dirò niente, ma col mio silenzio, che sarà migliore di qualsiasi discorso, attirerò la vostra attenzione su questo felice giovane che entra nella sua ventiseiesima primavera, su Vladimir Semjònovic', nipote di Andréj Filìppovic', che, a sua volta, si è alzato dal posto, che, a sua volta, ha pronunciato un brindisi e sul quale si sono puntati gli occhi pieni di lacrime dei genitori della regina della festa, gli occhi fieri di Andréj Filìppovic', gli occhi gonfi di lacrime della stessa regina della festa, gli occhi entusiastici degli ospiti e perfino gli occhi irreprensibilmente invidiosi di alcuni giovani colleghi del succitato brillantissimo giovanotto. Io non dirò nulla, anche se non posso fare a meno di osservare che tutto in questo giovane - che, parlando naturalmente completamente a suo vantaggio, è più somigliante a un vecchio che a un giovane - tutto, dico, a cominciare dal suo fiorente aspetto per arrivare fino al grado di assessore che gli competeva, tutto in quell'attimo solenne sembrava volesse dire: ecco a quale alto grado può arrivare un uomo di buoni costumi! Non starò a descrivere come, infine, Antòn Antònovic' Setoc'kin, capufficio di un dipartimento, collega di Andréj Filìppovic' e un tempo di Olsufij Ivànovic', nonché vecchio amico di famiglia e padrino di battesimo di Klara Olsùfevna, un vecchietto bianco come la neve, alzando a sua volta il bicchiere, cantò con una voce da gallo e pronunciò allegri versi; come costui, con una così autorevole dimenticanza delle convenienze, fece ridere fino alle lacrime tutta la compagnia e come la stessa Klara Olsùfevna per tanta allegria e amabilità lo baciò per ordine dei genitori. Dirò soltanto che alla fine gli ospiti, che dopo un pranzo del genere dovevano naturalmente sentirsi parenti e fratelli fra di loro, si alzarono dalla tavola; che i vecchietti e le persone posate, dopo un piccolo tempo passato in amichevoli conversazioni e perfino in alcune, ben inteso molto discrete e amabili, confidenze, si diressero cerimoniosamente in un'altra stanza e, senza perdere nemmeno uno di quegli istanti preziosi, sedettero divisi in gruppi, con un senso di personale dignità, a un tavolo ricoperto di panno verde; dirò che le dame, sistematesi in salotto e diventate all'improvviso amabilissime, si misero a chiacchierare di mille cose; dirò come, infine, lo stimatissimo padrone di casa, che aveva perso l'uso delle gambe durante un servizio fedele e giusto e che era stato compensato dal destino con quanto già detto prima, cominciò a passeggiare, sorretto dalle stampelle, tra gli invitati, appoggiato a Vladimir Semjanovic' e a Klara Olsùfevna e come, diventato pure lui improvvisamente amabilissimo, decise di improvvisare, nonostante la spesa, un piccolo e modesto ballo; come per questo scopo fu dato incarico di andare alla ricerca di musicanti a un giovane molto sveglio (quello stesso che durante il pranzo abbiamo detto che somigliava di più a un consigliere di stato che a un giovane); dirò come poi arrivarono i musicanti in numero di ben undici e come, infine, allo scoccare delle otto e mezzo precise, si alzarono le note invitanti della quadriglia francese e di altre svariate danze...

Mi sembra persino superfluo dire che la mia penna è troppo debole, senza nerbo e spuntata per descrivere come si deve il ballo, così improvvisato dalla straordinaria amabilità del venerando padrone di casa. E come, mi domando, come posso io, modesto narratore delle avventure del signor Goljadkin, avventure nel loro genere, del resto, molto curiose, come posso io, dunque, rendere efficacemente quell'insolito e decoroso miscuglio di bellezze, di splendori, di corretta allegria, di amabile serietà e di seria amabilità, di brio, di gioia, e i giochi e le risate di tutte quelle mogli di funzionari, più somiglianti a fate che a signore - parlando, si intende, a tutto vantaggio di queste ultime - con le spalle e i faccini di un rosa liliale, con i vitini da vespa, coi piedini agili, vispi, omeopatici, per dirla in stile elevato? Come vi descriverò, infine, quei brillanti funzionari cavalieri, giovani allegri posati e seri, festosi e correttamente imbronciati, che tra un ballo e l'altro fumavano la pipa in una piccola saletta verde un po' isolata, oppure non fumavano affatto; cavalieri che possedevano dal primo all'ultimo un grado e un nome di rilievo, cavalieri profondamente compresi dal senso dell'eleganza e della dignità personale; cavalieri che, per la maggior parte, potevano conversare in francese con le signore, e, se parlavavano russo, erano in grado di usare espressioni di altissimo livello, con complimenti e frasi di qualità; cavalieri che, al massimo e forse soltanto nella saletta da fumo, si permettevano alcuni amabili deroghe a un linguaggio più di classe, con alcune frasi di amichevole e cortese familiarità, del genere, per esempio, di queste: "Ehi, Piotka, birbante che non sei altro, te la sei combinata, eh, una bella polca!" oppure: "Ehi, Vasja, specie di birbante, ti sei arrangiato come volevi, eh, con la tua damina?" Ma per tutte queste cose, lettori miei, come ho prima già avuto l'onore di spiegarvi, la mia penna non è all'altezza, e perciò io sto zitto. E è meglio che facciamo ritorno a Goljadkin, l'unico, vero eroe del nostro veritiero racconto.

Il fatto è che lui si trova in una condizione, per non dire altro, assai strana. Lui, signori, è anche lui qui, cioè non qui al ballo, ma quasi; lui, signori, è qui e là; anche se se ne sta per conto suo, tuttavia in questo momento si trova su una strada non proprio giusta. Ora è, in verità, dritto - è persino strano dirlo - è ora dritto nell'ingresso della scala di servizio dell'appartamento di Olsùfij Ivànovic'. Ma che lui sia là dritto, non ha importanza; lui, così, ci sta bene, lui, signori miei, è là in un angolino, appiattito in un cantuccio che, se non è proprio caldo, è in compenso alquanto buio, seminascosto da un enorme armadio e da un vecchio paravento, in mezzo a ogni specie di ciarpame e di roba vecchia, stando per ora nascosto e, per il momento, accontentandosi di osservare l'andamento delle cose in qualità di spettatore estraneo. Egli, signori miei, per ora osserva soltanto: potrebbe, signori, anche entrare... ma perché poi, entrare? Basterebbe fare un passo e sarebbe dentro, e ci sarebbe con l'astuzia. Proprio poco fa, trovandosi ormai da tre ore al freddo tra un armadio e un paravento, in mezzo a ciarpame e roba vecchia di ogni genere, citava, come sua giustificazione, una frase del ministro francese di buonanima, Villèle, che diceva che "ogni cosa verrà a suo tempo se si ha l'intelligenza di aspettare". Questa frase Goljadkin l'aveva letta chissà quando in un libro che non aveva nessun legame con la faccenda di adesso, ma che ora, molto a proposito, gli era tornata alla mente... La frase, prima di tutto si adattava molto bene alla sua condizione attuale, e poi, che cosa mai non nascerà nella testa di un uomo che sta aspettando in un ingresso, al buio e al freddo, da quasi tre ore, la felice risoluzione dei suoi affari? Dopo aver citato molto a proposito, come già dissi, la frase dell'ex ministro francese Villèle, Goljadkin, non si sa perché, si ricordò anche dell'ex visìr turco Marzimiris, e così anche della bellissima margravia Luisa, dei quali aveva pure letto la storia chissà quando in un libro. Più tardi gli venne in mente che i gesuiti avevano stabilito come propria regola di tenere in considerazione tutti i mezzi adatti a raggiungere lo scopo. Dopo essersi un po' rassicurato con questo po' po' di caposaldo storico, Goljadkin si chiese chi fossero mai i gesuiti. I gesuiti erano, dal primo all'ultimo, dei fieri imbecilli, ai quali lui avrebbe dato parecchi punti, purché per un minuto soltanto fosse rimasta deserta la dispensa (quella stanza la cui porta dava direttamente sull'ingresso, nella scala di servizio, dove Goljadkin si trovava proprio in quel momento), cosicché lui, in barba a tutti i gesuiti, si sarebbe mosso e dalla dispensa sarebbe entrato prima nella sala da tè, poi nella saletta dove ora stavano giocando a carte e da lì dritto dritto nella sala dove si stava ballando la polca. E sarebbe passato, passato certamente, passato a qualsiasi costo, si sarebbe insinuato furtivamente e nessuno se ne sarebbe accorto; e una volta là sapeva lui ciò che doveva fare. Ecco, signori miei, in che situazione troviamo ora l'eroe della nostra storia assolutamente vera, benché ci riesca difficile spiegare che cosa in realtà succedesse in lui in quel momento. Il fatto è che era riuscito ad arrivare fino all'ingresso e fino alla scala, con quello scopo, come si andava ripetendo: perché poi non avrebbe potuto arrivarci, mentre tutti ci potevano arrivare? Ma non osava inoltrarsi di più, non osava farlo allo scoperto... non perché ci fosse qualcosa che non osasse fare, ma così, perché non lo voleva fare, perché preferiva agire di nascosto. Eccolo ora, o signori, in attesa dell'occasione buona, attesa che dura ormai da due ore e mezzo. Perché poi non rimanere in quell'attesa, se lo stesso Villèle stava in attesa dell'occasione! "Ma cosa c'entra qui Villèle?" pensava Goljadkin. "E chi è questo Villèle? Ma ecco, come potrei ora... prendere e infilarmi di nascosto? Ehi tu, comparsa che non sei altro!" disse Goljadkin, dandosi con la mano gelata un pizzicotto alla guancia gelata, "sei una bella razza di imbecille, Goljadkin che sei... visto che questo è il tuo cognome..."(2).

Però questa tenerezza rivolta alla propria persona era in quel momento solo una cosa di passaggio, senza nessuno scopo specifico.

Ecco che stava già per intrufolarsi dentro e avanzare; il momento era arrivato; la dispensa era rimasta completamente vuota, non c'era anima viva; Goljadkin vedeva tutto dal finestrino; in due passi raggiunse la porta e già stava per aprirla. "Entrare o no?

Be'.. entrare o no?... Ci andrò... perché poi non ci dovrei andare? Per l'uomo audace dappertutto esistono strade!" Così rassicuratosi, il nostro eroe, di colpo e in maniera assolutamente inaspettata, sgusciò dietro al paravento. "No," pensava "e se qualcuno entrasse? Sicuro, è proprio entrato qualcuno; perché sono stato qui a sbadigliare mentre non c'era nessuno? Avrei dovuto prendere e infilarmi dentro!... No, come ci si può infilare dentro, quando il carattere di un uomo è come il mio? Che abietta dannazione! Mi sono spaventato, come una gallina. Spaventarsi è roba nostra, ecco com'è! Essere svergognato è sempre una roba nostra; su questo non chiedeteci niente. E allora rimani piantato qui come un tronco, e basta! A quest'ora, a casa, berrei la mia tazzina di tè... Come sarebbe piacevole berne una tazzina. Se arrivo tardi è capace che Petruska si metta a brontolare. E se andassi a casa? Che i diavoli si portino via tutti questi pasticci! Ora me ne vado, e basta!" Sistemata così la sua situazione, Goljadkin avanzò rapidamente, come se qualcuno avesse fatto scattare in lui una molla; con due passi raggiunse la dispensa, si sfilò il cappotto, si tolse il cappello, li ammucchiò in fretta in un angolo, si ravviò i capelli, si diede una lisciatina; poi... poi si diresse verso la sala da tè, scivolò in un'altra stanza e sgusciò quasi non visto in mezzo, tra i giocatori; poi... poi... a questo punto Goljadkin dimenticò tutto quello che gli succedeva intorno e arrivò direttamente, come la neve sulla testa, nella sala da ballo.

Nemmeno a farlo apposta, in quel momento non si ballava. Le dame passeggiavano per la sala in gruppi pittoreschi. Gli uomini si erano divisi in capannelli o andavano in giro per la sala a impegnare le dame. Ma Goljadkin non vedeva niente di tutto questo.

Davanti agli occhi non aveva che Klara Olsùfevna, vicino a lei Andréj Filìppovic', e Vladimir Semjanovic', e pure due o tre ufficiali e due o tre giovanotti, tutti molto interessanti, che permettevano o avevano già realizzato, come si poteva capire al primo sguardo, parecchie speranze... Vedeva ancora qua e là qualcun altro. O meglio, no: non vedeva più nessuno, non guardava più nessuno... e, spinto da quella stessa molla che lo aveva precipitato, senza invito, in mezzo a una festa da ballo altrui, si fece avanti, poi più avanti ancora, e sempre più avanti, urtò, passando, non so quale consigliere e gli pestò un piede; e pestò pure il vestito di una rispettabile vecchietta e gli fece un piccolo strappo, urtò un cameriere con un vassoio, si scontrò ancora con qualcun altro, e, senza accorgersi di tutto questo, o, per meglio dire, accorgendosene, ma contemporaneamente senza guardare nessuno e avanzando sempre più, si trovò all'improvviso davanti a Klara Olsùfevna in persona. Di sicuro in quel momento sarebbe sprofondato sottoterra senza batter ciglio e col massimo piacere; ma quello che era fatto era fatto... non c'era verso di tornare indietro. Che c'era da fare, ormai? "Se non ti riesce insisti e, se ti riesce, tieni duro". Goljadkin, già lo si capisce, non era un intrigante, e lucidare i pavimenti con gli stivali non era cosa da lui... Ma ormai le cose erano andate così.

E poi anche i gesuiti, chissà come, ci si erano ficcati in mezzo.

Ma non a loro, del resto, poteva pensare Goljadkin! Ogni cosa che muoveva, faceva rumore, parlava, rideva, ogni cosa, insomma, all'improvviso, come per incanto, si era calmata e a poco a poco aveva fatto ressa attorno a Goljadkin. Il quale, del resto, sembrava non sentire e non vedere niente... e non era in grado di guardare... non poteva guardare per nessun motivo: aveva rivolto gli occhi a terra e se ne stava così, dopo essersi però dato, di sfuggita, la parola d'onore che a qualsiasi costo si sarebbe sparato quella notte stessa. Assunto quell'impegno, Goljadkin si disse mentalmente: "Vada come vuole!" e con la sua più grande meraviglia cominciò, nel modo più impensato, a parlare.

Cominciò, Goljadkin, con felicitazioni e irreprensibili auguri. Le felicitazioni filarono a meraviglia, ma negli auguri il nostro eroe inciampò. Sentiva che, se avesse inciampato, tutto sarebbe andato a catafascio. E così infatti successe: inciampò e balbettò... balbettò e diventò rosso: diventò rosso e si smarrì; si smarrì e alzò gli occhi; alzò gli occhi e li girò tutt'intorno; li girò tutt'intorno e si sentì morire... Tutti erano in piedi, fermi, tutti stavano zitti, tutti aspettavano; un po' più in là si sentì un mormorio, un po' più in qua un ridacchiare... Goljadkin lanciò uno sguardo umile e smarrito ad Andréj Filìppovic'. Andréj Filìppovic' rispose a Goljadkin con una occhiataccia tale che, se il nostro eroe non fosse già stato completamente a terra, ci sarebbe andato infallibilmente una seconda volta, se appena appena ciò fosse stato possibile. Il silenzio continuava.

"Questo riguarda più che altro le mie faccende domestiche e la mia vita privata, Andréj Filìppovic'" disse con voce appena percettibile Goljadkin, più morto che vivo; "questo non è un avvenimento ufficiale, Andréj Filìppovic'..." "Vergognatevi, signore, vergognatevi!" disse Andréj Filìppovic', quasi bisbigliando e con una faccia indescrivibilmente indignata; disse e, presa per mano Klara Olsùfevna, girò le spalle a Goljadkin.

"Non ho niente da vergognarmi, Andréj Filìppovic'" rispose Goljadkin, anche lui quasi bisbigliando, volgendo intorno uno sguardo desolato, smarrito, e facendo ogni sforzo, in una simile circostanza, per ritrovare in quella folla imbarazzata il suo punto di appoggio e la sua posizione sociale.

"Suvvia, signori, non è niente, non è niente! Che volete che sia?

Suvvia, può capitare a chiunque..." mormorava Goljadkin, spostandosi a poco a poco dal posto in cui si trovava e cercando di sciogliersi dalla folla che gli stava intorno. Gli fecero strada. Il nostro eroe passò alla meglio tra due file di osservatori curiosi e sconcertati. La fatalità lo trascinava. E che fosse proprio la fatalità a trascinarlo lo sentiva Goljadkin stesso. Naturalmente avrebbe pagato qualsiasi somma per avere la possibilità di trovarsi ora, senza trasgredire le convenienze, nel suo angolino di poco prima, là nell'ingresso, vicino alla scala di servizio; ma poiché questo era assolutamente impossibile, cominciò a cercare di defilarsi da qualche parte, in un qualsiasi angoletto, e restarsene poi lì, modesto e corretto, per conto suo, senza disturbare nessuno, senza attirare su di sé l'attenzione, ma nello stesso tempo cercando di accattivarsi la benevolenza degli ospiti e del padrone di casa. D'altronde Goljadkin aveva l'impressione che quasi gli venisse tolto il terreno da sotto i piedi, si sentiva vacillare e cadere. Infine raggiunse un angoletto e vi si sistemò come un osservatore estraneo, indifferente, dopo aver appoggiato entrambe le mani sulla spalliera di due sedie e averle afferrate in un modo tale da averle completamente in suo possesso, mentre cercava in tutti i modi di guardare con fisso gli ospiti di Olsufij Ivànovic' che avevano fatto cerchio intorno a lui. Più vicino di tutti gli stava un ufficiale, un giovane alto e bello al cui confronto Goljadkin si sentiva niente più di un insetto.

"Queste due sedie, tenente, sono già destinate: una è per Klara Olsùfevna e l'altra per la principessina Cevcechànova che partecipa anche lei al ballo; io, tenente, le ho in custodia" disse, ansimando, Goljadkin, mentre rivolgeva uno sguardo supplicante al tenente. Il tenente, senza una parola e con un sorriso simile a una pugnalata, gli girò le spalle. Dopo questo colpo mancato, il nostro eroe provò a cercare fortuna da un'altra parte e si rivolse direttamente a un maestoso consigliere che portava al collo una importante decorazione. Ma il consigliere lo schiacciò con un'occhiata così agghiacciante che Goljadkin ebbe la netta impressione che all'improvviso gli fosse piovuta addosso una doccia fredda. Goljadkin si calmò. Decise che la miglior cosa era quella di tacere, di non attaccare discorso, di far vedere che lui se ne stava per conto suo, che era lì anche lui come tutti gli altri e che la sua posizione era, a quanto gli sembrava, assolutamente corretta. Con questo obiettivo fissò lo sguardo sui risvolti della sua uniforme, poi alzò gli occhi e li posò su un signore dall'aspetto rispettabilissimo. "Questo signore porta la parrucca" pensò Goljadkin "e se gliela si togliesse, questa parrucca, la sua testa resterebbe nuda, proprio come il palmo della mia mano". Fatta questa importante scoperta, Goljadkin si ricordò degli emiri arabi che, se si toglieva loro dalla testa il turbante verde che sta a indicare la loro parentela col profeta Maometto, sarebbero rimasti anch'essi con la testa nuda, senza un capello. Poi, certamente per una particolare associazione di idee riguardanti i turchi che si era formata nella sua testa, Goljadkin arrivò fino alle pantofole turche e al riguardo ricordò che Andréj Filìppovic' calzava certi stivali che facevano pensare a pantofole piuttosto che a stivali. Era chiaro che Goljadkin si era in parte abituato alla situazione in cui si trovava. "Ecco, se questo lampadario si staccasse ora dal suo posto e cadesse in mezzo agli ospiti, mi lancerei subito a salvare Klara Olsùfevna. E, dopo averla salvata, le direi: 'Non spaventatevi, signorina, non è niente, ma il vostro salvatore sono io'... Poi...". A questo punto Goljadkin girò gli occhi cercando con lo sguardo Klara Olsùfevna e scorse Gherasimyc', il vecchio cameriere di Olsufij Ivànovic'.

Gherasimyc', con un'aria preoccupatissima e ufficialmente maestosa, si faceva strada puntando direttamente su di lui.

Goljadkin ebbe un sussulto e fece una smorfia a causa di una vaga e nello stesso tempo spiacevolissima sensazione. Meccanicamente gettò uno sguardo intorno: pensò subito di scivolare via in qualche modo, alla chetichella, furtivamente, di prendere e battersela, cioè di fare come se nessuno avesse gli occhi fissi su di lui e come se la cosa non lo riguardasse affatto. Ma, prima che il nostro eroe avesse fatto in tempo a prendere una decisione nell'uno o nell'altro senso, già si trovò in piedi, davanti, Gherasimyc'.

"Vedete, Gherasimyc'," disse il nostro eroe, rivolgendosi con un sorriso a Gherasimyc' "suvvia, date ordine, ecco, vedete quella candela su quel candelabro là... vedete, Gherasimyc', sta per cadere; perciò voi, vedete, date ordine che la raddrizzino:

certamente ora cadrà, Gherasimyc'..." "La candela? No, signore, la candela sta perfettamente dritta; ma ecco, c'è là qualcuno che chiede di voi." "Chi è che chiede di me, Gherasimyc'?" "Veramente chi precisamente sia, non lo so. Un uomo mandato da qualcuno. Si trova qui, ha detto, Jakòv Petrovic'? Allora chiamatelo, ha detto, per un importante e urgentissimo affare:

così ha detto." "No, Gherasimyc', vi ingannate: in questo, Gherasimyc', vi ingannate..." "Ne dubito..." "No, Gherasimyc', non c'è proprio da dubitare: qui, Gherasimyc', non c'è davvero da dubitare. Nessuno chiede di me, Gherasimyc', non c'è nessuno che possa chiedere di me e io qui sono a casa mia, voglio dire, Gherasimyc', che sono al mio posto." Goljadkin tirò il fiato e girò lo sguardo intorno. Era proprio così! Tutti quelli che erano in sala avevano teso verso di lui occhi e orecchie in una specie di solenne aspettativa. Gli uomini si affollavano lì vicino e tendevano l'orecchio. Più in là le signore bisbigliavano allarmate tra loro. Il padrone di casa in persona comparve a brevissima distanza da Goljadkin e, benché il suo viso non mostrasse che anche lui, per parte sua, partecipava direttamente e immediatamente alle vicende del signor Goljadkin, perché là ogni cosa era fatta con garbo, tuttavia tutto questo complesso di circostanze fece chiaramente capire all'eroe del nostro racconto che era arrivato per lui il momento decisivo.

Goljadkin vedeva chiaramente che era il momento di tentare un colpo audace, il momento della vergogna per i suoi nemici.

Goljadkin era in preda a una grande agitazione. Pervaso da una specie di ispirazione, con voce tremante e solenne, rivolto a Gherasimyc' che era in attesa, riprese a dire:

"No, amico mio, non c'è nessuno che mi chiami. Ti inganni. Dirò di più: ti ingannavi anche questa mattina quando mi assicuravi...

quando osavi assicurarmi, insisto (Goljadkin alza la voce), osavi assicurarmi che Olsufij Ivànovic', mio benefattore da anni immemorabili, che mi ha fatto in quasi da padre, mi chiudeva la porta in faccia proprio nel momento di una gioia familiare e solenne per il suo cuore di padre. (Goljadkin si guardò intorno soddisfatto di se stesso, ma con profondo sentimento. Tra le sue ciglia erano apparse le lacrime.) Ripeto, amico mio" concluse il nostro eroe, "che ti sei ingannato, seriamente e imperdonabilmente ingannato..." Il momento era carico di solennità. Goljadkin sentiva che l'effetto non poteva mancare. In piedi, con gli occhi modestamente abbassati, stava aspettando l'abbraccio di Olsufij Ivànovic'. Tra gli ospiti si notava una certa inquietudine e perplessità: perfino l'irremovibile e terribile Gherasimyc', alle parole "ne dubito" aveva preso a balbettare, quando di colpo, implacabilmente, I'orchestra di punto in bianco intonò una polca. Tutto precipitò, tutto fu travolto dal vento. Goljadkin ebbe un sussulto, Gherasimyc' arretrò di un passo. Tutto quello che c'era nella sala si agitò come il mare e Vladimir Semjònovic' già faceva coppia con Klara Olsùfevna e il bel tenente con la principessina Cevcechànova. I presenti, curiosi e entusiasti, si affollavano per guardare i ballerini della polca, una danza interessante, nuova, ultima moda, che faceva girare la testa a tutti. Goljadkin, per il momento, era dimenticato. Ma, all'improvviso, tutto cominciò a agitarsi, a muoversi, ad affannarsi; la musica tacque... era capitato uno strano incidente. Stanchissima per il ballo, Klara Olsùfevna, che a malapena riusciva a respirare per la fatica, con le guance in fiamme e con il petto in sussulto, si era abbandonata senza forze su una poltrona. I cuori di tutti si concentrarono sull'affascinante incantevole fanciulla, tutti a gara si affollarono a complimentarla e a ringraziarla del piacere loro offerto... e all'improvviso, davanti a lei, ecco Goljadkin.

Goljadkin era pallido, sconvolto; sembrava anche lui in uno stato di grande prostrazione e si muoveva a stento. Sorrideva e, chissà perché, tendeva una mano come a supplicare. Klara Olsùfevna, sbigottita, non fece in tempo a ritirare la mano e meccanicamente, all'invito di Goljadkin, si alzò in piedi. Goljadkin si sentì barcollare in avanti, prima una volta, poi un'altra, poi sollevò un piede, fece una strisciata, quindi sembrò che quel piede lo battesse a terra, infine inciampò... voleva, lui pure, ballare con Klara Olsùfevna. Klara Olsùfevna lanciò un grido: tutti si slanciarono per liberare la sua mano da quella di Goljadkin e, di colpo, il nostro eroe fu scaraventato dalla folla degli invitati a quasi dieci passi di distanza. Anche intorno a lui si strinse un cerchio di gente. Si sentirono gli strilli e le grida di un vecchio che per poco Goljadkin non aveva travolto nella sua ritirata. Nacque una confusione tremenda: s'incrociavano le domande, tutti gridavano, discutevano. L'orchestra tacque. Il nostro eroe girava in mezzo al suo cerchio e meccanicamente, un po' sorridente, borbottava tra sé e sé qualcosa come: "E perché no?" e come a dire che "a quanto gli sembrava, la polca era un ballo nuovo e interessantissimo, creato per il conforto delle dame... ma che, se la faccenda era andata così, lui, perché no, era pronto a convenirne". Ma il consenso di Goljadkin non sembrava richiesto da nessuno. Il nostro eroe sentì che, di colpo, una mano di chi sa chi si era posata sul suo braccio, che un'altra mano premeva leggermente la sua schiena, che con una certa speciale insistenza si cercava di sospingerlo verso una certa direzione.

Infine si rese conto di andare dritto dritto verso la porta.

Goljadkin avrebbe voluto dire qualcosa, fare qualcosa... Ma no...

non voleva ormai più niente. Rispondeva solo ridacchiando meccanicamente. Infine sentì che gli stavano infilando il cappotto e che qualcuno gli aveva calcato il cappello fin sugli occhi; poi si trovò nell'ingresso, in mezzo al buio e al freddo, e poi sulla scala. Finì con l'inciampare e ebbe l'impressione di cadere in un baratro: gli venne da gridare, ma di colpo si ritrovò in cortile.

L'aria fresca gli soffiò sul viso, per un momento si fermò; nello stesso istante arrivarono fino a lui le note dell'orchestra. Di colpo Goljadkin ricordò tutto: e sembrò che tutte le forze che gli erano crollate dentro gli fossero tornate. Fuggì dal posto in cui era rimasto immobile, come inchiodato, e a rotta di collo si precipitò fuori, chissà dove, all'aria aperta, verso la libertà, dove le gambe lo portavano...

 

 

NOTE:

  1. La tabella elencava quattordici gradi di funzionari e regolamentava anche i diritti di precedenza.
  2. In russo questo cognome suona come "mentalmente sprovveduto", povero di spirito.

 

 

5.

 

A tutte le torri di Pietroburgo che segnano e battono le ore stava scoccando la mezzanotte, quando Goljadkin si precipitò come un pazzo sul lungofiume della fontanka (uno dei bracci della Neva), proprio vicino al ponte Izmajlovskij, per sfuggire ai nemici, ai persecutori, alla grandine dei colpetti che gli piovevano addosso, alle grida delle vecchiette impaurite, alle esclamazioni e ai gemiti delle donne e agli sguardi micidiali di Andréj Filìppovic'.

Goljadkin era annichilito, sì, annichilito, nel vero senso della parola, e se in quel momento aveva conservato ancora la forza di correre, si trattava di un miracolo, solo di un miracolo, al quale lui stesso, alla fin fine, si rifiutava di credere. La notte era orribile, una notte di novembre umida, nebbiosa, piovosa, nevosa, piena di congestioni, di raffreddori, di angine, di febbri di ogni specie e qualità possibili: a farla breve, di tutti i regali che elargisce il novembre pietroburghese! Il vento urlava nelle strade desolate, sollevando l'acqua scura della fontanka fin sopra le catene del ponte e sfiorando minaccioso i sottili lampioni del lungofiume, che a loro volta rispondevano ai suoi ululati con scricchiolii acuti e penetranti, il che costituiva un concerto infinito di stridii e tremolii, ben conosciuto a tutti gli abitanti di Pietroburgo. La pioggia cadeva mista a neve, violente spruzzate di acqua lacerate dal vento schizzavano quasi in orizzontale, come da una pompa antincendio, e pungevano e frustavano il viso dell'infelice Goljadkin, con la forza di migliaia di spilli e forcine. Nel silenzio della notte, rotto soltanto dal rumoreggiare lontano delle carrozze, dall'ululato del vento e dallo scricchiolio dei lampioni, si sentivano tristemente risuonare le sferzate e il ribollire dell'acqua che scrosciava dai tetti, dai terrazzini, dalle grondaie e dai cornicioni sul granito dei marciapiedi. Non c'era anima viva né vicina né lontana, e sembrava impossibile che ce ne potessero essere, a quell'ora e con quel tempo. Soltanto Goljadkin, solo con la sua disperazione, trotterellava in quel momento sul marciapiede lungo la fontanka coi suoi soliti passetti fitti e rapidi, affrettandosi per arrivare al più presto possibile nella sua via delle Sei Botteghe, al suo quarto piano, nel suo appartamentino.

Nonostante il fatto che la neve, la pioggia e tutto quello a cui non è neppure possibile dare un nome quando dal cielo di Pietroburgo precipitano tormente e bufere, assaltassero tutte insieme l'infelice Goljadkin - già completamente a terra senza bisogno di questo - senza dargli un attimo di respiro e di riposo, entrandogli fino al midollo, accecandolo, soffiandogli addosso violentemente da tutte le parti, facendogli perdere la strada e l'ultima briciola di senno; nonostante che tutto ciò si fosse abbattuto in un solo colpo su Goljadkin, come per un comune accordo coi suoi nemici, per premiarlo con una giornatina, una seratina e una notte... proprio speciali; nonostante tutto questo, dico, Goljadkin, tanto forte era stato il colpo e lo smarrimento patiti per quello che gli era successo poco prima in casa del consigliere di stato Bernadeiev, rimase quasi insensibile a quest'ultima mazzata del destino! Se in quel momento un qualunque osservatore estraneo, del tutto disinteressato, avesse dato un'occhiata, così, di sfuggita, all'andatura depressa di Goljadkin, sarebbe stato anche lui colpito dallo spaventoso orrore delle sue sventure e avrebbe certamente detto che Goljadkin si guardava attorno come se volesse nascondersi da qualche parte a se stesso e, lontano da se stesso, come se cercasse di fuggire chissà dove... Sì! Era proprio così. Diremo di più: Goljadkin non soltanto desiderava fuggire da se stesso, ma addirittura annientarsi, non esistere più, polverizzarsi. In quei momenti non faceva attenzione a quello che lo circondava, non capiva niente di ciò che stava capitando intorno a lui, e guardava con un'aria come se per lui non esistessero né le avversità di quella notte tempestosa né il lungo cammino né la pioggia né la neve né il vento né tutte quelle tremende intemperie. Un copriscarpa, staccatasi dallo stivale destro di Goljadkin, rimase abbandonata tra il fango e la neve del marciapiede lungo la fontanka, e a Goljadkin non passò nemmeno per il cervello di tornare indietro a riprenderla e direi che non si era nemmeno accorto di averla persa. Era così preso dai suoi pensieri, che parecchie volte, d'improvviso, nonostante quel po' po' d'inferno che gli si scatenava intorno, tutto preso dall'idea della sua terribile, recente caduta, rimase fermo, immobile come un palo in mezzo al marciapiede; in quei momenti si sentiva mancare, svanire; ma poi, di colpo, scattava come un pazzo e si metteva a correre senza girarsi indietro, come per cercare scampo da un inseguimento, da qualche sventura ancora più orribile... E, in realtà, orribile era la condizione in cui si trovava. Infine, stremato, Goljadkin si fermò, si appoggiò al parapetto del lungofiume, come quando a un uomo improvvisamente esca sangue dal naso, e rimase immobile, con lo sguardo fisso all'acqua nera e torbida della fontanka. Non si sa quanto tempo di preciso passasse in quella posizione. Si sa solo che in quei momenti Goljadkin era giunto a un così alto grado di disperazione, si sentiva così tormentato, così sfinito, era così allo stremo dei suoi ormai deboli brandelli di forza d'animo, che dimenticò ogni cosa, e il ponte Izmajlovskij, e la via delle Sei Botteghe e la sua condizione attuale... E che poteva fare, in realtà? Tutto, ormai, gli era indifferente; tutto era ormai fatto, concluso, controfirmato e sigillato; che gli importava? Ma all'improvviso... all'improvviso ebbe un sussulto in tutto il corpo e, senza volerlo, fece di slancio due passi da una parte.

Con inspiegabile agitazione cominciò a girare lo sguardo intorno:

ma non c'era nessuno, non succedeva niente di particolare, eppure... eppure... aveva l'impressione che qualcuno, in quel preciso istante, fosse lì dritto vicino a lui, al suo fianco, appoggiato come lui al parapetto del lungofiume e, miracolo! gli avesse anche detto qualcosa, gli avesse detto qualcosa in fretta, a scatti, qualcosa di non perfettamente comprensibile, ma qualcosa che lo riguardava molto da vicino, che si riferiva a lui. "Che sia stata solo un'impressione?" disse Goljadkin, continuando a guardarsi intorno. "Ma dove sono mai? Eh... Eh..." concluse, scuotendo la testa, e intanto, con una sensazione inquieta e angosciosa, direi anche di terrore, cominciò a scrutare in lontananza attraverso l'aria torbida e trasudante, aguzzando gli occhi e cercando con tutta la forza di penetrare col suo sguardo miope in quell'acquosità che gli si stendeva davanti. Niente di nuovo però, niente di speciale saltò agli occhi di Goljadkin.

Sembrava che tutto fosse in ordine, come doveva; la neve cadeva più fitta, più densa e con più intensità di prima; a una distanza di venti passi era buio pesto: i lampioni scricchiolavano più forte e il vento sembrava cantare con un tono più lamentoso e più dolente la sua triste canzone, simile a un mendicante fastidioso che chiede supplichevolmente un soldino di rame per poter mangiare. "Eh, eh, ma che mi sta succedendo?" ripeté Goljadkin nel riprendere il cammino e continuando a guardarsi intorno. Intanto una nuova strana sensazione lo attraversò tutto; angoscia non era, paura nemmeno... un brivido di febbre gli corse nelle vene. Fu un momento insopportabilmente sgradevole! "Be', non è niente" esclamò, tanto per farsi coraggio, "non è niente, forse non è proprio niente e non macchia l'onore di nessuno. Forse doveva proprio essere così" continuò senza neppure capire cosa dicesse, " forse tutto questo si aggiusterà per il meglio quando sarà tempo e non ci saranno pretese da avanzare e tutti saranno giustificati." Così parlando e rinfrancandosi per effetto delle sue stesse parole, Goljadkin si scosse, si scrollò di dosso i fiocchi di neve, che gli si erano ammonticchiati densi e fitti sul cappello, sul bavero, sul cappotto e sulla cravatta, sugli stivali e su tutto il resto: ma non riusciva ancora a liberarsi da quella strana sensazione, da quella strana oscura angoscia, non riusciva a scacciarsi tutto questo di dosso. In qualche posto lontano, risuonò un colpo di cannone. "Che razza di bel tempo!" pensò il nostro eroe. "Be', non ci sarà mica pure l'inondazione? L'acqua, si vede, è salita con troppa rapidità." Goljadkin aveva appena finito di pensare e di mormorare questo, che vide venirgli incontro un passante che probabilmente si era, come lui, attardato per qualche motivo. Il fatto sembrava banale, casuale; ma, non si sa perché, Goljadkin si turbò e direi quasi si spaventò e sentì un certo smarrimento. Non che temesse l'incontro con qualche malintenzionato, ma così... forse... "E chi lo conosce, questo ritardatario..." passò per la testa a Goljadkin.

"Forse fa parte anche lui di tutto il resto, forse qui è la cosa più importante e non viene qui per caso, ma con qualche scopo mi attraversa e mi dà uno spintone." Forse, però, Goljadkin non pensò esattamente a questo, ma è certo che sentì subito qualcosa di simile e di molto sgradevole. D'altronde, non gli restò più tempo né di sentire né di pensare: il passante si trovava già a pochi passi da lui. Goljadkin, secondo la sua abitudine di sempre, si affrettò ad assumere un'aria del tutto particolare, un'aria che dava chiaramente a vedere che lui, Goljadkin, se ne stava per conto suo, che non faceva niente, che la strada era abbastanza larga per tutti e che lui, Goljadkin, da parte sua, non toccava nessuno. All'improvviso si fermò, come inchiodato a terra, come colpito dal fulmine, poi velocemente si girò verso l'individuo che lo aveva appena sorpassato, come se qualcosa lo avesse tirato per le spalle, come se il vento gli avesse fatto fare un giro a mo' di banderuola. Il passante andava rapidamente scomparendo nella bufera di neve. Anche lui camminava di fretta e anche lui, come Goljadkin, era imbaccuccato dalla testa ai piedi, e anche lui tirava dritto sgambettando sul marciapiede lungo la fontanka a passetti rapidi e fitti, quasi al piccolo trotto. "Chi è costui, chi è?" mormorò Goljadkin, sorridendo incredulo, e nello stesso tempo sussultando in tutto il corpo. Un brivido gelato gli era corso per la schiena. Intanto il passante era scomparso del tutto e non si sentiva nemmeno più il rumore dei passi; ma Goljadkin continuava a restare fermo e a guardare nel punto in cui quello era sparito. Finalmente, a poco a poco, si riprese. "Ma che diavolo mi succede?" pensò con stizza.

"Che io sia veramente impazzito o che altro?" poi si girò e riprese la sua strada, accelerando e intensificando sempre più l'andatura e facendo il possibile per non pensare a niente. E per questo chiuse persino gli occhi.

All'improvviso, tra l'ululare del vento e l'imperversare del tempaccio, arrivò di nuovo al suo orecchio il rumore di passi di qualcuno che camminava molto vicino a lui. Sussultò e aprì gli occhi. Davanti a lui, a una ventina di metri di distanza, nereggiava di nuovo un certo omino che gli si stava avvicinando...

L'omino aveva fretta, accelerava il ritmo, correva, quasi: la distanza diminuiva rapidamente. Goljadkin poteva già vedere benissimo il suo nuovo compagno ritardatario; lo guardò e gli sfuggì un grido di stupore e di paura: sentì che le gambe gli si piegavano. Era quello stesso passante da lui già notato, che dieci minuti prima lo aveva sorpassato e che ora, inaspettatamente, gli appariva di nuovo davanti. Ma non soltanto questo miracolo aveva colpito Goljadkin; e Goljadkin ne fu colpito tanto che si fermò, gli scappò un grido, volle dire qualcosa e si lanciò all'inseguimento dello sconosciuto, gli urlò perfino qualcosa, volendo, probabilmente, fermarlo al più presto. E in realtà lo sconosciuto si fermò a circa una decina di passi da Goljadkin, in maniera che la luce del lampione lì vicino illuminava perfettamente tutta la sua persona: si fermò, si girò verso Goliadkin e, con aria impaziente e preoccupata, aspettò che parlasse.

"Scusate, ma forse mi sono sbagliato" disse il nostro eroe con voce tremante.

Lo sconosciuto, senza dire una parola, con un gesto pieno di stizza, gli girò le spalle e proseguì rapidamente per la sua strada, quasi avesse fretta di riguadagnare i due secondi persi con Goljadkin. Per quanto riguardava Goljadkin, sentì un tremito guizzargli nelle vene, le ginocchia gli si piegarono sotto, perdettero ogni forza, e con un gemito si lasciò cadere su un paracarro. Del resto, c'era davvero motivo di rimanere così sconcertato. Il fatto è che quello sconosciuto ora non gli sembrava più tale. Ma questo non sarebbe stato ancora niente. Il fatto è che ora aveva riconosciuto, aveva quasi completamente riconosciuto quell'uomo. L'aveva visto spesso, quell'uomo, l'aveva visto tempo prima e anche molto di recente; ma dove? ieri forse?

Del resto, ciò che più contava non era il fatto che Goljadkin l'avesse visto spesso (in quell'uomo, d'altronde, non c'era quasi niente di particolare); decisamente niente di particolare aveva quell'uomo per suscitare attenzione al primo sguardo. Era così, un uomo come tutti, perbene, si capisce, come tutte le persone perbene, e forse aveva anche alcuni meriti e anche abbastanza notevoli: in una parola, era un uomo che se ne stava per conto suo. Goljadkin non sentiva né odio né ostilità e nemmeno vedeva minimamente di mal'occhio quell'uomo; al contrario, anzi, si direbbe; ma intanto (e proprio in questo il punto), intanto per nessun tesoro al mondo avrebbe voluto incontrarsi con lui e tanto meno incontrarsi così, come era successo adesso. Diremo di più:

Goljadkin riconosceva perfettamente quell'uomo; sapeva perfino il suo nome e il suo cognome; ma intanto proprio per niente, e, di nuovo, nemmeno per tutto l'oro del mondo avrebbe voluto pronunciare il suo nome, ammettere di sapere, ecco, che si chiamava così e così, e che così era il suo patronimico e così il suo cognome. Se molto o poco fosse durata la perplessità di Goljadkin e se fosse rimasto veramente a lungo seduto sul paracarro, non saprei dire, ma quello che posso dire è che, ripresosi un po', si mise di colpo a correre, senza guardarsi indietro, con tutte le sue forze; gli mancava il respiro, per due volte inciampò, e fu lì lì per cadere e in questa circostanza rimase orfano anche l'altro stivale di Goljadkin, pure quello abbandonato dal suo copriscarpe. Alla fine Goljadkin rallentò un po' la corsa per riprendere fiato, si guardò frettolosamente intorno e vide che, senza nemmeno accorgersene, aveva già percorso tutta la strada lungo la fontanka, aveva attraversato il ponte Amickov, superato una parte del Nevskij e si trovava ora alla curva verso la Litèjnaja. E lì girò Goljadkin.

La sua condizione in quel momento assomigliava alla condizione dell'uomo in piedi su di un precipizio spaventoso, mentre la terra si apre sotto di lui e già frana, già si muove, trema per l'ultima volta, crolla, lo trascina nell'abisso, e intanto l'infelice non ha più né la forza né la fermezza d'animo di fare un balzo indietro, di distogliere gli occhi dal baratro spalancato; l'abisso lo attrae e lui finalmente vi si slancia, affrettando da se stesso il momento della sua rovina. Goljadkin sapeva, sentiva e era matematicamente certo che qualche altro malanno gli sarebbe capitato per strada, che qualche altra contrarietà gli sarebbe piombata addosso, che, per esempio, avrebbe di nuovo incontrato lo sconosciuto; ma, cosa strana, lo desiderava perfino, quell'incontro, lo riteneva ineluttabile e pregava soltanto che tutto ciò finisse al più presto, che la sua posizione si chiarisse in un modo qualsiasi, purché fosse presto. E intanto continuava a correre, a correre come spinto da non si sa quale forza esterna, e sentiva in tutto il suo essere non so quale impressione di debolezza e di torpore: non era capace di pensare a niente, anche se le sue idee, proprio come prugnoli, si aggrappavano a ogni cosa. Un cagnolino randagio, tutto bagnato e intirizzito, si era attaccato a Goljadkin e correva pure lui al suo fianco, di lato, frettolosamente, con le orecchie basse e la coda tra le zampe e lanciandogli di tanto in tanto occhiate timide e comprensive.

Un'idea lontana e imprecisa, già da tempo dimenticata - il ricordo di non so quale avvenimento già da tempo accaduto - gli tornò ora in mente, colpendogli la testa come un martelletto, e lo infastidiva senza staccarsi da lui.

"Eh, che brutto cagnaccio!" bisbigliava Goljadkin, senza nemmeno capirsi. Finalmente vide il suo sconosciuto alla curva della via Italjànskaja. Ora, però, lo sconosciuto non gli si dirigeva più incontro, ma camminava nella sua stessa direzione e correva persino, sopravvanzandolo di pochi passi. Finalmente arrivarono in via delle Sei Botteghe. Goljadkin si sentì mozzare il respiro. Lo sconosciuto si fermò proprio davanti all'edificio in cui si trovava l'appartamento di Goliadkin. Si sentì squillare un campanello e quasi nello stesso momento lo stridere di un paletto di ferro. Il cancelletto si aprì, lo sconosciuto si chinò, balenò e scomparve. Quasi nello stesso momento arrivò anche Goljadkin e come una freccia volò sotto il portone. Senza dare retta al brontolio del portiere si precipitò nel cortile dove vide immediatamente il suo interessante compagno di strada, che per un momento aveva perso. Lo sconosciuto sfrecciò nell'ingresso della scala che portava all'appartamento di Goljadkin, e ecco Goljadkin lanciarsi sulle sue tracce. La scala era buia, umida, sudicia. Su tutti i ballatoi erano accumulati mucchi di ciarpame di ogni genere di proprietà degli inquilini, tanto che un estraneo, che, non pratico del luogo, fosse capitato nell'oscurità in quella scala, sarebbe stato costretto a aggirarcisi per mezz'ora, sempre rischiando di rompersi le gambe e maledicendo, insieme con la scala, anche i suoi conoscenti andati ad abitare in posto così scomodo. Ma il compagno di strada di Goljadkin sembrava fosse pratico del posto, sembrava uno di casa: correva disinvolto, senza inciampare, e dimostrava una perfetta conoscenza dell'ambiente.

Goljadkin stava già per raggiungerlo; anzi due o tre volte la falda del cappotto dello sconosciuto gli aveva sbattuto sul naso.

Si sentiva il cuore mancare. L'uomo misterioso si fermò proprio davanti alla porta dell'appartamento di Goljadkin, bussò e (circostanza, del resto, che in un altro momento avrebbe meravigliato Goljadkin) Petruska, come se fosse rimasto lì in attesa e senza neppure coricarsi, aprì immediatamente la porta e seguì con la candela in mano lo sconosciuto che era entrato. Il nostro eroe, fuori di sé, si precipitò in casa sua; trascurando di togliersi cappotto e cappello, percorse il piccolo corridoio e, come colpito dal fulmine, rimase sulla soglia della propria camera. Tutti i presentimenti di Goljadkin si erano avverati alla perfezione. Tutto quello che lui temeva e aveva previsto, si era avverato. Il respiro gli mancò e la testa cominciò a girargli. Lo sconosciuto era seduto davanti a lui, anch'egli in cappotto e cappello, sul suo letto, sorrideva lievemente e, strizzando gli occhi, accennava amichevolmente col capo. Goljadkin voleva gridare, ma non poté; voleva protestare in un modo qualsiasi, ma non ne ebbe la forza. I capelli gli si drizzarono sulla fronte e, preso dal terrore, si abbandonò privo di sensi. E ce n'era veramente motivo. Goljadkin aveva perfettamente riconosciuto il suo amico della notte. L'amico della notte non era altri che lui stesso, Goljadkin, un altro Goljadkin assolutamente identico a lui; era, in una parola, quello che si chiama il proprio sosia, sotto tutti i profili...

 

 

6.

 

L'indomani, alle otto in punto, Goljadkin si svegliò nel suo letto. Subito tutti gli eventi straordinari del giorno prima e quella incredibile e selvaggia notte con le sue quasi impossibili avventure comparvero di colpo, tutti insieme, nella loro spaventosa pienezza, alla sua immaginazione e alla sua memoria.

L'odio così esasperato e infernale da parte dei suoi nemici e, in particolare, l'ultima manifestazione di quell'odio agghiacciarono il cuore di Goljadkin. Ma contemporaneamente tutto era così strano, incomprensibile, assurdo e gli sembrava così lontano da ogni possibilità, da non potersi decidere a credere a tutta quella faccenda; Goljadkin stesso sarebbe stato persino disposto a ritenerla un vano delirio, uno squilibrio momentaneo della sua mente, un ottenebramento dell'intelletto, se, per sua fortuna, non avesse saputo, dall'amara esperienza quotidiana, fino a che punto l'odio può a volte trascinare un uomo, fino a che punto può arrivare l'accanimento di un nemico che voglia vendicare il suo onore e il suo amor proprio. Per di più, le membra indolenzite di Goljadkin, la testa annebbiata, le reni spezzate e un maligno raffreddore testimoniavano con evidente chiarezza e sostenevano tutta la verosimiglianza di quella passeggiata notturna e, in parte, di tutto quanto era accaduto durante quella passeggiata. E poi, infine, Goljadkin stesso sapeva benissimo che quelle certe persone stavano complottando da un bel pezzo qualche cosa e che, là con loro, c'era qualcun altro. Ma che fare? Dopo averci riflettuto sù un po', Goljadkin prese la decisione di starsene zitto, di rassegnarsi e di non protestare per quella faccenda fino a quando non si presentasse un momento più opportuno. "Sì, forse hanno solo avuto l'intenzione di spaventarmi e, quando vedranno che io me ne sto zitto, non protesto, mi rassegno docilmente e sopporto con umiltà, forse faranno marcia indietro, spontaneamente, anzi saranno i primi a fare marcia indietro." Ecco quali pensieri giravano per la mente di Goljadkin mentre, stirandosi nel letto e sgranchendosi le membra rotte, aspettava, come al solito, che Petruska facesse la sua comparsa in camera.

Aspettava già da un quarto d'ora; sentiva che quel poltrone di Petruska si affaccendava, là dietro il tramezzo, attorno al samovàr, ma intanto in nessun modo si decideva a chiamarlo. Diremo di più: Goljadkin, ora, temeva perfino un po' l'incontro con Petruska. "Sa Iddio," pensava "sa Iddio cosa dirà quel lazzarone di tutta la faccenda. Adesso se ne sta là zitto zitto, ma è un furbacchione, quello..." Finalmente la porta cigolò e comparve Petruska col vassoio tra le mani. Goljadkin lo guardò di traverso, con una certa timidezza, aspettando impaziente ciò che sarebbe successo e se Petruska si sarebbe finalmente deciso a dire qualcosa a proposito delle note circostanze. Ma Petruska non disse nulla, anzi sembrò molto più taciturno, più arcigno e più irritato del solito e guardava tutto di traverso; in complesso era evidente che era molto scontento di qualche cosa; non rivolse al padrone neppure uno sguardo, il che, diciamolo tra parentesi, ferì non poco Goljadkin; mise sul tavolo tutto quello che aveva portato, si girò e uscì, senza aver aperto bocca, per andare dietro al tramezzo.

"Sa, sa, sa tutto, quel fannullone!" borbottava Goljadkin mentre beveva il tè. Il nostro eroe, però, non chiese niente al suo domestico, nonostante che Petruska fosse in seguito entrato e uscito diverse volte dalla camera per svariate incombenze.

Goljadkin si trovava dunque in uno stato d'animo piuttosto agitato. Sentiva un senso di raccapriccio all'idea di dover andare ancora al suo ministero. Aveva il vivo presentimento che sicuramente là qualcosa non sarebbe andata bene. "Be', ora ci andrò" pensava, "ma se là mi imbattessi in chissà che cosa? Non sarebbe meglio, per ora, pazientare? Loro sono là... ci restino finché vogliono; io oggi me ne resterò qui ad aspettare, a raccogliere tutte le mie forze, mi rimetterò un po' in sesto, rifletterò più comodamente su tutta questa faccenda e poi sceglierò il momento giusto per piombare come una tegola sulla testa di tutti quelli là e non darò nell'occhio a nessuno." Così rimuginando, Goljadkin fumava una pipa dietro l'altra; il tempo volava; erano già quasi le nove e mezzo. "Ecco, ormai sono già le nove e mezzo" pensava Goljadkin, "e arriverei in ritardo. E poi, oltre a tutto, sono malato; malato, si capisce, senz'altro malato; e chi potrebbe dire che non lo sono? che me ne importa! Mandino pure a verificare, venga pure l'usciere; che me ne importa, in realtà? Ho mal di schiena, ho la tosse, sono raffreddato; no, in conclusione, non posso andare, con questo tempo, e poi, non è assolutamente possibile; posso ammalarmi, e poi magari morire; in questi momenti c'è una tale mortalità...". Con questi ragionamenti Goljadkin tranquillizzò del tutto la sua coscienza e si giustificò anticipatamente di fronte a se stesso per la lavata di capo che gli avrebbe rifilato Andréj Filìppovic' per negligenza nel servizio. In genere, in tutte le circostanze simili, il nostro eroe amava giustificarsi ai propri occhi con vari inappuntabili argomenti e calmare così i suoi scrupoli. Così ora, calmatili del tutto, prese la pipa, la riempì e non appena si fu messo a fare proprio per benino la sua fumata, ecco che si alzò di scatto dal divano, sbatté via la pipa, si lavò energicamente, si rase, si lisciò i capelli, si infilò la divisa e tutto il resto e andò volando al dicastero.

Goljadkin entrò mogio mogio nel suo reparto, nella trepidante attesa di qualcosa di molto poco bello; attesa vaga e inconscia quanto si vuole, ma lo stesso sgradevole; mogio mogio, prese il suo solito posto vicino al capufficio, Antòn Antònovic' Setoc'kin.

Senza guardare niente, senza lasciarsi distrarre da niente, si mise a esaminare il contenuto delle carte che gli stavano davanti.

Decise e si ripromise fermamente di tenersi il più possibile in disparte da tutto quello che potesse provocarlo, da tutto quello che avrebbe potuto comprometterlo; per esempio, dalle domande indiscrete, dagli scherzi o dalle allusioni sconvenienti di qualcuno a proposito degli eventi della sera prima; si ripromise perfino di fare a meno delle solite cortesie con i colleghi d'ufficio, come domande sulla salute eccetera eccetera. Ma era anche evidente che non poteva restarsene così; era impossibile.

L'inquietudine e l'ignoranza a proposito di un qualche argomento che lo interessasse da vicino lo tormentavano sempre più che l'argomento stesso. E ecco perché, nonostante la parola data di non intromettersi in niente, qualsiasi cosa si facesse, e di tenersi completamente in disparte in tutto, Goljadkin di tanto in tanto, di nascosto, alzava pian piano la testa e di sottecchi guardava a destra e a sinistra, scrutava i visi dei colleghi e da quelli si sforzava di capire se non ci fosse per caso qualcosa di speciale che lo riguardasse e che, per non so quale riprovevole scopo, gli fosse tenuta nascosto. Immaginava che esistesse un sicurissimo legame tra tutti gli avvenimenti della sera precedente e quello che si svolgeva ora intorno a lui. Finalmente, spinto dalla sua angoscia, cominciò a desiderare che tutto si risolvesse nel modo che Iddio voleva, ma purché fosse presto, anche con un guaio: pazienza! Ma fu proprio qui che il destino colse Goljadkin:

non aveva avuto tempo di dare concretezza al suo desiderio che i suoi dubbi furono improvvisamente risolti, ma in modo molto strano e impensato.

La porta che dava nell'altra stanza di colpo scricchiolò con dolce timidezza, come per avvertire che la persona che stava per entrare era una qualsiasi, e una certa figura, del resto ben conosciuta a Goljadkin, apparve timidamente proprio davanti al tavolo dietro al quale stava seduto il nostro eroe. Lui non sollevò la testa, no; osservò quella figura solo di sfuggita, col più rapido dei suoi sguardi, ma ormai aveva riconosciuto tutto, capito tutto, fin nei minimi particolari. Si sentì avvampare per la vergogna e sprofondò tra le carte quella sua malcapitata testa, con lo stesso preciso scopo con cui lo struzzo, inseguito dal cacciatore, nasconde la sua nella sabbia infuocata. Il nuovo venuto si inchinò ad Andréj Filìppovic' e subito dopo risuonò una voce formalmente affettuosa, quella tipica voce con cui i superiori di tutti gli uffici parlano ai dipendenti da poco in servizio.

"Sedetevi qui" disse Andréj Filìppovic', indicando al novellino il tavolo di Antòn Antònovic', "ecco, qui, di fronte al signor Goljadkin, vi daremo subito del lavoro da sbrigare." Andréj Filìppovic' concluse il discorsetto con un rapido gesto di cortese esortazione al nuovo venuto, poi subito si immerse nel contenuto di diverse carte che stavano in un mucchio davanti a lui.

Goljadkin alzò finalmente gli occhi e se non fu preso da uno svenimento lo si dovette solo al fatto che, fin dall'inizio, aveva presagito tutta la faccenda, fin dall'inizio era stato preavvertito di tutto, avendo letto nell'anima del nuovo venuto.

Il primo gesto di Goljadkin fu di dare una rapida occhiata intorno, se non ci fosse lì qualche pissi pissi, se non cominciasse a circolare a quel proposito qualche barzelletta di cancelleria, se qualche viso non si fosse sformato per lo stupore e se qualcuno, per lo spavento, non fosse caduto sotto il tavolo.

Ma, con la più grande meraviglia di Goljadkin, in nessuno ci fu niente di simile. Il comportamento dei signori colleghi e compagni colpì Goljadkin. Gli sembrava che questo contegno fosse al di là di ogni senso comune. Goljadkin addirittura si spaventò di un silenzio così fuori dal normale. La sostanza dei fatti parlava da sola: era una cosa strana, assurda, mostruosa. C'era proprio di che agitarsi. Tutte cose, queste, si capisce, che frullarono soltanto nella testa di Goljadkin. Cuoceva a fuoco lento. E ce n'era ben donde, del resto. Colui che adesso stava seduto di fronte a Goljadkin era il terrore di Goljadkin, era la vergogna di Goljadkin, era l'ossessione di ieri di Goljadkin, era, in una parola, lo stesso Goljadkin; ma non quel Goljadkin che stava ora seduto sulla sedia con la bocca spalancata e con la penna rigida in mano; non quello che era impiegato in qualità di aiuto del proprio capufficio; non quello a cui piaceva scomparire e dileguarsi tra la folla; non quello, infine, la cui andatura diceva a chiare note "non toccatemi, io non vi toccherò", oppure "non toccatemi, vedete bene che io non vi tocco". No, questo era un altro Goljadkin, assolutamente un altro, ma nello stesso tempo identico al primo: la stessa statura, la stessa figura, vestito allo stesso modo, con la stessa calvizie; in una parola, niente, assolutamente niente era stato trascurato per avere una somiglianza perfetta, tanto che, se si fossero presi e messi uno accanto all'altro, nessuno, letteralmente nessuno, avrebbe osato dire chi fosse realmente l'autentico Goljadkin e chi il falso, quale il vecchio e quale il nuovo, quale l'originale e quale la copia.

Il nostro eroe, se è consentito un paragone, si trovava ora nella condizione di un uomo alle cui spalle un monello si è divertito a puntargli contro, per scherzo, uno specchio ustorio. "Ma che è questo, un sogno o no?" pensava, "è il presente o la continuazione del passato di ieri? Ma come mai? Con quale diritto si fanno queste cose? Chi ha assunto un simile impiegato, chi ha dato il diritto di farlo?". Goljadkin provò a darsi un pizzicotto, provò a pensare persino a darlo a un altro... No, non era un sogno, e basta. Goljadkin si sentiva madido di sudore, sentiva che gli stava capitando un fatto senza precedenti, mai visto fino ad allora, e per questo, appunto, per colmo di sventura, anche sconveniente, poiché Goljadkin capiva perfettamente tutto il discapito che gli derivava dal trovarsi, come primo esempio, in un così buffo pasticcio. Infine cominciò addirittura a dubitare della propria esistenza e, pur essendo in anticipo pronto a tutto e desideroso che si risolvessero, in qualunque modo, i suoi dubbi, tuttavia la sostanza stessa del fatto rendeva di per sé naturalmente plausibile la sorpresa. L'angoscia lo opprimeva e lo tormentava. In certi momenti perdeva addirittura il senno e la memoria. Rientrato in sé dopo uno di quei momenti, si accorse che, in modo meccanico e incosciente, faceva scorrere la penna sulla carta. Non fidandosi di se stesso, cominciava a ripassare tutto quello che aveva scritto, e non ci capiva niente. Finalmente l'altro Goljadkin, che fino a quel momento era rimasto tranquillamente seduto, si alzò e, attraverso la porta che conduceva in un'altra sezione, scomparve per fare qualche faccenda. Goljadkin si guardò intorno: niente; tutto tranquillo.

Si sentiva soltanto lo scricchiolio delle penne, il fruscio dei fogli girati e il parlottare negli angoli più lontani dal punto in cui sedeva Andréj Filìppovic'. Goljadkin guardò Antòn Antònovic' e, poiché molto probabilmente l'aspetto del nostro eroe corrispondeva perfettamente alla sua situazione e si armonizzava con tutto il senso della faccenda e, di conseguenza, pareva sotto certi aspetti piuttosto fuori dell'ordinario, il buon Antòn Antònovic,' posata la penna da una parte, si informò con insolito interesse della salute di Goljadkin.

"Io, Antòn Antònovic', grazie a Dio..." disse, inciampando, Goljadkin. "Io, Antòn Antònovic', sto perfettamente bene; io, Antòn Antònovic', al presente non c'è male" aggiunse un po' indeciso, non fidandosi ancora del tutto del più volte da lui menzionato Antòn Antònovic'.

"Ah! mi sembrava che foste un po' indisposto; del resto non ci sarebbe niente di straordinario, ma speriamo di no! In questi tempi ci sono sempre tante epidemie... Sapete che..." "Sì, Antòn Antònovic', conosco l'esistenza di queste epidemie...

Io, Antòn Antònovic', non è che..." proseguì Goljadkin, fissando lo sguardo su Antòn Antònovic', "io, vedete, Antòn Antònovic', non so neppure come voi, voglio dire, cioè, da quale lato voi dobbiate prendere questa faccenda, Antòn Antònovic'..." "Che cosa? Io vi... sapete... io confesso che non vi capisco bene; voi... sapete, voi... spiegatemi meglio sotto che punto di vista vi trovate imbarazzato" disse Antòn Antònovic', sentendosi a sua volta un po' imbarazzato nel vedere che Goljadkin aveva persino le lacrime agli occhi.

"Io, davvero... qui, Antòn Antònovic'... qui c'è un impiegato, Antòn Antònovic'..." "Su, su... Continuo a non capire." "Voglio dire, Antòn Antònovic', che qui c'è un nuovo impiegato." "Sì, c'è: è un vostro omonimo." "Come?" grida Goljadkin.

"Un vostro omonimo, dico: si chiama anche lui Goljadkin. Non è per caso vostro fratello?" "Non ne ho fratelli, Antòn Antònovic'." "Uhm! Ma che dite? Mi era sembrato che fosse un vostro stretto parente. Sapete, c'è una tale somiglianza..." Goljadkin rimase paralizzato dallo stupore e per un po' la lingua gli si bloccò. Trattare così alla buona una cosa così mostruosa, mai vista, una cosa veramente rara nel suo genere, una cosa che avrebbe colpito anche il più disinteressato degli osservatori, parlare di una semplice somiglianza, mentre era proprio come avere davanti uno specchio!

"Sapete che cosa vi consiglio, Jakòv Petrovic'?" prosegui Antòn Antònovic'. "Andate da un medico e sentite il suo parere. Voi avete una cert'aria proprio di non star bene. Specialmente gli occhi... sapete, specialmente gli occhi hanno un'espressione particolare." "No, Antòn Antònovic', io, certamente, sento... cioè, io vorrei chiedervi, come mai quest'impiegato?" "Cioè?" "Cioè, non avete, Antòn Antònovic', osservato in lui qualcosa di particolare, un qualcosa di troppo espressivo?" "Cioè?" "Cioè, io voglio dire, Antòn Antònovic', una somiglianza troppo accentuata con qualcuno, per esempio con me. Proprio adesso, Antòn Antònovic', avete parlato di una qualche somiglianza di tratti, avete fatto, così di sfuggita, un'osservazione... Sapete che a volte i gemelli sono così, cioè perfettamente uguali come due gocce d'acqua, tanto che è impossibile distinguerli? Bene, proprio questo voglio dire." "Sissignore" disse Antòn Antònovic', dopo aver riflettuto un po' e come se per la prima volta fosse stato colpito da una simile osservazione. "Sissignore! Giustissimo. E' una rassomiglianza che colpisce veramente e voi avete fatto un'osservazione giustissima, poiché realmente vi si può scambiare l'uno per l'altro" continuò, spalancando sempre più gli occhi. "E sapete, Jakòv Petrovic', è una somiglianza prodigiosa, fantastica addirittura, come si dice talvolta, e cioè è perfettamente come voi... L'avete notato? Jakòv Petrovic'? Io volevo chiedervi spiegazioni, lo confesso, sulle prime non ci avevo fatto abbastanza caso. E' un miracolo, un vero miracolo! Eppure, Jakòv Petrovic', voi non siete neppure nativo di qui, dico io!" "No, signore." "E nemmeno lui, sapete, è di qui. Forse delle vostre stesse parti.

Vostra madre, mi permetto di chiedervi, dove abitava per lo più?" "Avete detto... avete detto, Antòn Antònovic', che lui non è di qui?" "Sì, l'ho detto; non è di qui. E veramente come è strano, anche questo!" proseguì il ciarliero Antòn Antònovic', per il quale era una vera festa mettersi a cianciare di qualcosa. "In realtà è una cosa che suscita curiosità; eppure, gli passi spesso vicino, lo sfiori, lo urti, magari, ma non te ne accorgi. Del resto, non turbatevi. Sono cose che capitano. Vi dirò, ecco, che la stessa cosa successe a una mia zia da parte di madre; anche lei prima di morire vide il suo sosia..." "Nossignore, io... Scusate se vi interrompo, Antòn Antònovic', io, Antòn Antònovic', volevo sapere come mai quest'impiegato, cioè a quale titolo si trova qui..." "Al posto del defunto Semjòn Ivànovic', posto rimasto vacante; era rimasto un posto vuoto e così hanno messo lui. Ecco, vedete, quel caro Semjan Ivànovic', buon'anima, tre bambini, dicono, ha lasciato... uno più piccolo dell'altro. La vedova è caduta in ginocchio ai piedi di sua eccellenza. Dicono però che i soldi li nasconda: ha del denaro, ma lo nasconde..." "Nossignore, io, Antòn Antònovic', io, ecco, ancora di quella circostanza, dicevo..." "Cioè? Ah, sì! Ma perché ve ne occupate tanto? Vi ripeto: non turbatevi. Tutto ciò è in parte provvisorio. Ebbene? Voi siete fuori causa; tutto ciò l'ha combinato Iddio in persona, è stata la sua volontà, e lamentarsene è peccato. In questo è evidente la sua saggezza. E voi qui, Jakòv Petrovic', a quanto capisco, non siete colpevole per niente. Ci sono forse pochi prodigi al mondo? Madre natura è generosa; ma di questo non si chiederà certo conto a voi, non dovrete risponderne voi. Ecco, per esempio, avete sentito dire, spero, che quelli sì... ecco, i fratelli siamesi, sono attaccati insieme per il dorso e vivono, mangiano e dormono sempre insieme: e guadagnano, dicono, un mucchio di soldi." "Permettete, Antòn Antònovic'..." "Vi capisco, vi capisco! Sì! Ma che c'è? Niente! Io dico, secondo il mio giudizio, che qui non c'è niente che debba turbarvi.

Ebbene? E' un impiegato come un altro e sembra che sia un buon lavoratore. Dice che si chiama Goljadkin, non è di queste parti, dice, e è consigliere titolare. Si è spiegato personalmente con sua eccellenza." "Ah! E lui?" "Niente, signore; dicono che ha dato spiegazioni esaurienti, che ha presentato delle buone ragioni. Ha detto: le cose, eccellenza, sono così e così, beni di fortuna non ne ho e desidero prestare servizio in particolare sotto la vostra lusinghiera direzione...

e, sapete, ha esposto con abilità tutto quanto serviva. E' un uomo intelligente, credo. Be', si capisce che si era presentato con una raccomandazione: senza di quella, si sa, non è possibile..." "Ma da parte di chi... voglio dire, cioè, chi propriamente si è immischiato in questa vergognosa faccenda?" "Sissignore. Dicono che fosse una raccomandazione buona: sua eccellenza, dicono, ne ha anche riso con Andréj Filìppovic'." "Ne ha riso con Andréj Filìppovic'?" "Sissignore; ha riso soltanto così... e ha detto che sta bene, e che lui da parte sua non è affatto contrario, purché presti servizio fedelmente..." "Be'?... e poi... andate avanti, signore. Voi mi ridate animo, Antòn Antònovic'; vi supplico, signore, andate avanti..." "Permettete, io di nuovo vi... Be'! sì... Be', ma non c'è niente; è una circostanza che non ha niente di straordinario: voi, vi dico, non turbatevi, in tutto questo non si può trovare niente di misterioso." "Nossignore. Io, cioè, voglio chiedervi, Antòn Antònovic', se sua eccellenza non ha aggiunto altro... a proposito di me, per esempio?" "Cioè, come sarebbe a dire? Sissignore! Be', no... niente; potete stare perfettamente tranquillo. Sapete, naturalmente, si capisce, si tratta di un affare abbastanza strano e all'inizio... ma ecco, io, per esempio, all'inizio non ci avevo quasi fatto caso. Non so proprio come mai non me ne sia accorto fino a che voi non me lo avete fatto ricordare. Ma, del resto, potete stare perfettamente tranquillo. Non ha detto niente, assolutamente niente di speciale" aggiunse il buon Antòn Antònovic', alzandosi dalla sedia.

"Così, ecco, io, Antòn Antònovic'..." "Ah, ma voi scusatemi, signore. Non ho fatto che ciarlare di quisquilie e ecco che qui c'è un affare importante, urgente.

Bisogna prendere informazioni." "Antòn Antònovic'!" risuonò la voce cortesemente invocante di Andréj Filìppovic' "sua eccellenza vi desidera." "Subito, subito, Andréj Filìppovic', vado immediatamente." E Antòn Antònovic', preso un mucchio di carte, si precipitò prima verso Andréj Filìppovic', e poi nello studio di sua eccellenza.

"Ma com'è dunque, questa storia?" pensava intanto Goljadkin; "ecco che razza di giochetti si fanno qui da noi! Ecco che venticello soffia da queste parti... Non c'è male: dunque, sembra che la faccenda abbia preso una piega favorevolissima," diceva tra sé e sé il nostro eroe, stropicciandosi le mani e, per la gran contentezza, senza nemmeno sentire la sedia sotto di sé. "Così la nostra faccenda è una comunissima faccenda. Così tutto finisce in un'inezia, si risolve in una cosa da niente. E in verità nessuno dice niente, nessuno osa fiatare; i malandrini, se ne stanno seduti, intenti agli affari loro. Benone, benissimo! Io voglio bene a una brava persona, gliene ho sempre voluto e sono pronto a stimarla... D'altra parte, però, c'è questo, che, a pensarci su, questo Antòn Antònovic'... ho quasi paura a fidarmene: è un po' troppo bianco di capelli e mi sembra che la vecchiaia l'abbia rimbambito alquanto... La cosa più importante, in ogni modo, e più straordinaria è che sua eccellenza non abbia detto niente e che abbia lasciato perdere: ottima cosa, questa! Non posso che applaudire! Soltanto quell'Andréj Filìppovic', però, che c'entra qui con le sue risatine? Che gliene importa a lui? Vecchio imbroglione! Ce l'ho sempre tra i piedi; cerca sempre di attraversarti la strada come un gatto nero e continua con dispetti e ripicche, dispetti e ripicche..." Goljadkin tornò a dare un'occhiata in giro e si sentì rianimato dalla speranza. Però, continuava ad avere l'impressione che, nonostante tutto, un pensiero lontano, un pensiero non buono, venisse a turbarlo. Gli venne persino l'idea di avvicinarsi lui stesso agli impiegati con una scusa o con l'altra, di anticiparli di corsa, come una lepre, e perfino (in un modo qualunque o all'uscita dall'ufficio o avvicinandoli con qualche motivo di servizio) tra una parola e l'altra accennare, così vagamente:

signori così e così... è veramente una rassomiglianza stupefacente, una coincidenza stranissima, uno scherzaccio, addirittura... Ossia scherzarci sopra lui per primo e sondare così la profondità del pericolo. "Perché si sa che è l'acqua cheta che rovina i ponti..." concluse mentalmente il nostro eroe.

Del resto, tutto questo il nostro eroe lo pensò soltanto: in compenso cambiò idea presto. Capiva che quello avrebbe significato mettere il carro davanti ai buoi... "Il tuo temperamento è questo!" si diceva, battendosi un colpetto sulla fronte con la mano, "cominci subito a rallegrarti... sei già tutto contento! Sei un'anima troppo ingenua! No, Jakòv Petrovic', è molto meglio che noi due abbiamo pazienza, è meglio che abbiamo pazienza e aspettiamo!" Ciononostante, come si è appena detto, Goljadkin si sentiva già rinascere alla speranza, quasi fosse risuscitato alla vita. "Non c'è male!" pensava, "mi sento proprio come se mi fossi scaricato dalla schiena otto o dieci quintali! Ma, vedi un po' che combinazione! 'Eppure lo scrigno si apriva tanto facilmente!'(1) Krylòv ha ragione, ha proprio ragione, se ne intende... è una testa fina quel grande scrittore di favole! E in quanto a quello là, presti pure il suo servizio, lo presti pure, alla sua salute!

purché non imbrogli nessuno e non rompa l'anima a nessuno; faccia il suo servizio e io sono d'accordo, e approvo!" Intanto le ore passavano, volavano e, mentre meno te lo aspettavi, suonarono le quattro. L'ufficio fu chiuso; Andréj Filìppovic' prese il cappello e, come si conviene, tutti seguirono il suo esempio. Il signor Goljadkin si trattenne ancora un po', giusto giusto il tempo necessario, e volutamente uscì dopo tutti gli altri, proprio per ultimo, quando tutti si erano sparpagliati per diverse direzioni. Uscito in strada, si sentì come in paradiso, tanto che sentì persino il desiderio di fare un giretto e di passare per il Nevskij. "Guarda un po' il destino!" pensava il nostro eroe. "Un inatteso capovolgimento di tutto quanto. Il tempo si è rasserenato, c'è il gelo e appaiono le slitte. E il gelo si addice veramente al russo, col gelo il russo va perfettamente d'accordo! Mi piace l'uomo russo. E c'è anche un po' di neve, la prima infarinatura, come direbbe un cacciatore; ecco, se su questa infarinatura ci fosse una lepre!... Che peccato! Ma, però, non c'è male!" Così si manifestava l'entusiasmo di Goljadkin e intanto qualcosa continuava a frullargli per la testa: angoscia, no, non era... ma a tratti sentiva una tale stretta al cuore da non sapere come confortarsi. "Del resto, aspettiamo un giorno, e poi ci rallegreremo. Infine, che cos'è questo? Suvvia, ragioniamo, vediamo... Su, mio giovane amico, lasciamo ragionare... lasciamo ragionare! Be', è un uomo come te, prima di tutto, assolutamente come te. E dunque? se c'è un uomo così, è forse una ragione perché io pianga? Che importa a me? Io me ne sto in disparte; io faccio un fischio e basta! E' così e basta! Faccia pure il suo servizio, lui! Be', è un prodigio e una stranezza, dicono là, come i fratelli siamesi... Ma perché, poi, siamesi? Loro sono gemelli, poniamo, ma anche i grandi uomini a volte erano presi per originali. Anche la storia ci insegna che al famoso Suvarov piaceva rifare il verso del gallo... Be', tutto questo lo faceva per politica; e i grandi condottieri... sì, del resto, perché i condottieri? Ecco, io me ne sto per conto mio, e basta, e non voglio conoscere nessuno, e nella mia innocenza disprezzo i nemici. Non sono un intrigante e di questo ne vado orgoglioso.

Sono onesto, retto, pulito, cortese e mitissimo di animo..." Di colpo Goljadkin si fermò e cominciò a tremare come una foglia e per un momento chiuse perfino gli occhi. Nella speranza, però, che l'oggetto della sua paura fosse una semplice illusione, li riaprì infine e timidamente lanciò una rapida occhiata alla sua destra.

No, non era un'illusione! A fianco a lui sgambettava il suo conoscente del mattino, sorrideva, lo guardava in viso e sembrava in attesa dell'occasione buona per attaccare discorso. Il discorso però non veniva. Percorsero entrambi, così, una cinquantina di passi. Tutti gli sforzi di Goljadkin erano rivolti a intabarrarsi il più possibile, nascondendosi nel pastrano e calzando il cappello sugli occhi, fino al massimo possibile. Per colmo di offesa, il pastrano e il cappello dell'amico erano proprio identici ai suoi, come se fossero stati tolti di dosso a Goljadkin in quel preciso istante.

"Egregio signore" disse finalmente il nostro eroe, facendo uno sforzo per parlare a voce bassa e senza guardare il suo amico, "mi pare che noi andiamo per strade diverse... ne sono addirittura sicuro" disse, dopo una pausa. "Infine sono certo che mi avete compreso perfettamente..." aggiunse con voce abbastanza severa, come conclusione.

"Io vorrei" disse finalmente l'amico di Goliadkin, "io vorrei...

voi certamente mi scuserete, generosamente... io non so a chi rivolgermi qui... le mie circostanze... io spero che voi scuserete la mia audacia... ho avuto persino l'impressione che voi, stamattina, spinto dalla compassione, aveste un po' d'interesse per me. Da parte mia, ho sentito fin dal primo sguardo un'attrazione verso di voi, io..." E qui Goljadkin augurò mentalmente al nuovo collega di sparire sotto terra.

"Se osassi sperare che voi, Jakòv Petrovic', mi voleste benignamente ascoltare..." "Ma noi... noi qui... noi.. sarebbe meglio andare a casa mia" rispose il nostro Goljadkin, "noi ora passeremo dall'altra parte del Nevskij, là ci troveremo più comodi e poi per il vicolo... è meglio che prendiamo per il vicolo." "Bene, signore. Prendiamo pure per il vicolo" disse timidamente il dolce compagno di strada di Goljadkin, come se, rispondendo con quel tono, volesse far capire che lui, manco a pensarlo! non poteva fare delle difflcoltà e che, nella condizione in cui si trovava, era prontissimo a accontentarsi di un vicolo. Per ciò che riguarda Goljadkin, non capiva assolutamente quello che gli stava capitando. Non credeva a se stesso. Non si era ancora ripreso dallo sbalordimento.

 

 

NOTE:

  1. Verso di Ivan Krylòv (1768-1864), famosissimo autore di favole.

 

 

7.

 

Si riprese un po' quando si trovò sulla scala, nell'entrare nel suo appartamento. "Ah, che testa di montone!" si insultò mentalmente, "dove diavolo lo porto? Vado a impiccarmi da solo...

Cosa penserà mai Petruska nel vederci insieme? Che cosa avrà ora l'audacia di gabolare, quel mascalzone? e lui è un tipo sospettoso..." Ma ormai era troppo tardi per pentirsi; Goljadkin bussò, la porta si aprì e subito Petruska cominciò a togliere il cappotto all'ospite e al padrone. Goljadkin diede un'occhiata di sbieco a Petruska, gli lanciò appena uno sguardo rapido, cercando, attraverso l'espressione del viso, di scoprirne i pensieri. Ma, con suo enorme stupore, vide che il suo domestico era mille miglia lontano dal mostrarsi meravigliato: sembrava addirittura che si aspettasse qualcosa di simile. Naturalmente ora guardava in cagnesco, di traverso e sembrava pronto a divorare chi sa chi.

"Sta a vedere che qualcuno oggi li ha stregati tutti!" pensava il nostro eroe, "che qualche demonio abbia fatto il giro? Senza dubbio oggi c'è in tutti qualcosa di particolare. Che il diavolo mi porti, è un bel tormento!" Ecco che, continuando a rimuginare in tal modo, Goljadkin portò l'ospite nella sua stanza e lo pregò umilmente di accomodarsi.

L'ospite, era chiaro, era in grandissimo imbarazzo e, intimidito, seguiva umilmente tutti i movimenti del padrone di casa, si attaccava a ogni suo sguardo e sembrava che cercasse di indovinarne i pensieri. In tutti i suoi gesti c'era qualcosa di avvilito, di abbattuto, di spaventato, tanto che, se potrà valere il paragone, assomigliava in quel momento a un uomo che, non avendo un abito suo, indossasse quello di un altro: le maniche gli salgono in alto, la vita arriva quasi alla nuca e lui, ora non fa che aggiustarsi il panciotto troppo corto, ora dà di fianco e si sposta da una parte, ora studia il momento giusto per rintanarsi in qualche angoletto, ora fissa gli occhi su tutti e tende l'orecchio se mai qualcuno non accenni alla sua condizione, non rida alle sue spalle e non si vergogni di lui... e quest'uomo si sente avvampare, quest'uomo si smarrisce, e il suo orgoglio ne soffre... Goljadkin posò il cappello sulla finestra; per un movimento brusco il cappello cadde sul pavimento. L'ospite si precipitò a raccoglierlo, lo ripulì dalla polvere, lo rimise con attenzione al posto di prima e il suo lo posò sul pavimento, vicino alla sedia, sul cui bordo lui stesso si era timidamente messo a sedere. Questa circostanza, apparentemente insignificante, aprì in parte gli occhi a Goljadkin; comprese che c'era un gran bisogno di lui e perciò non indugiò più a lambiccarsi il cervello sul modo di attaccare discorso col suo visitatore, lasciando che lui stesso, come si conveniva, si prendesse questa briga. L'ospite però, da parte sua, non cominciava nemmeno lui, sia per timidezza sia per un leggero senso di vergogna, sia perché, per educazione, aspettava l'iniziativa del padrone di casa. Chi lo sa? era difflcile capirci qualcosa. In questo momento entrò Petruska, si fermò sulla soglia e fissò lo sguardo sulla parte perfettamente opposta a quella in cui si trovavano l'ospite e il suo padrone.

"Mi ordinate di prendere il pranzo per due?" disse con indifferenza e con voce leggermente rauca.

"Io... io non so... voi... Sì, caro, sì, prendine per due." Petruska uscì. Goljadkin guardò l'ospite. Era diventato rosso fino alle orecchie. Goljadkin era un brav'uomo e perciò, per bontà d'animo, improvvisò subito una teoria:

"Poveraccio" pensava, "ha il posto solo da un giorno; a suo tempo avrà certamente sofferto: forse, l'unica sua proprietà è un vestituccio decente, e non avrà di che mangiare. Ma guarda un po' com'è abbattuto! No, non fa niente; da un certo punto, anzi, è meglio..." "Scusatemi, se io..." cominciò Goljadkin "ma, a proposito, permettete che vi chieda come vi devo chiamare..." "Io... Io... Jakòv Petrovic'" mormorò appena percettibilmente l'ospite, come mortificato e quasi vergognandosi e chiedendo scusa di chiamarsi anche lui Jakòv Petrovic'.

"Jakòv Petrovic'!" ripeté il nostro eroe, incapace di nascondere il suo turbamento.

"Sì, signore, proprio così... Sono un vostro omonimo" rispose pieno di umiltà il visitatore, osando sorridere e dire qualcosa in tono scherzoso. Ma subito si ammosciò e assunse un aspetto serio e un po' anche turbato, essendosi accorto che il padrone di casa aveva proprio altro per la testa che gli scherzi.

"Voi... permettetemi che vi chieda per quale motivo ho l'onore..." "Conoscendo la vostra magnanimità e le vostre virtù," lo interruppe l'ospite rapidamente, ma in tono timido, alzandosi un po' dalla sedia "ho osato rivolgermi a voi e sollecitare la vostra... conoscenza e la vostra protezione" concluse l'ospite, evidentemente faticando a trovare le espressioni, scegliendo parole non troppo servili e adulatrici, per non compromettersi dal punto di vista dell'amor proprio, ma nemmeno troppo audaci, che avrebbero richiamato al pensiero una sconveniente parità. In genere bisogna dire che l'ospite di Goljadkin si comportava come un accattone di buona famiglia, in un frac tutto rammendi e con un passaporto in tasca intestato a un nobile, non ancora familiarizzatosi col modo di tendere la mano come si conviene.

"Voi mi sconcertate" rispose Goljadkin, guardando se stesso, e le pareti, e l'ospite; "in che cosa potrei io... cioè, voglio dire, sotto quale punto di vista posso esattamente esservi utile in qualche cosa?" "Io, Jakòv Petrovic', mi sono sentito attratto da voi fin dal primo sguardo e, siate generoso e perdonatemi, ho riposto in voi le mie speranze, ho osato sperare, Jakòv Petrovic'. Io... io sono qui un uomo sperduto, Jakòv Petrovic', sono povero, ho sofferto molto, Jakòv Petrovic', e qui sono ancora nuovo. Avendo saputo che voi, oltre le comuni, innate virtù della vostra anima eletta, avete anche il mio cognome..." Goljadkin aggrottò il viso.

"... il mio cognome e siamo nativi delle stesse parti, ho deciso di rivolgermi a voi e di esporvi la difficile condizione in cui mi trovo." "Bene, bene... Veramente non so proprio che cosa dirvi" rispose con voce turbata Goljadkin; "ecco, dopo pranzo, ne parleremo..." L'ospite fece un inchino; fu portato il pranzo. Petruska apparecchiò tavola e l'ospite e il padrone si accinsero a sfamarsi. Il pranzo non durò molto perché tutti e due avevano fretta. Il padrone perché non si sentiva a suo agio e perché si vergognava di quel pranzo così cattivo; in parte perché avrebbe voluto far mangiare bene l'ospite, e in parte perché gli sarebbe piaciuto mostrare che non viveva da poveraccio. Dal canto suo, l'ospite era molto turbato e confuso al massimo. Dopo aver preso una volta il pane e aver mangiato la sua fetta, non aveva il coraggio di allungare la mano verso una seconda fetta, si tratteneva dal prendere i bocconi migliori e assicurava continuamente di non avere fame, che il pranzo era stato eccellente e che, per conto suo, era soddisfattissimo e non l'avrebbe dimenticato fino alla morte. Quando ebbero finito di mangiare, Goljadkin accese la pipa, e ne offrì all'ospite un'altra che teneva da parte per gli amici; si misero a sedere uno di fronte all'altro e l'ospite cominciò a raccontare le sue avventure.

Il racconto del signor Goljadkin numero due continuò per tre o quattro ore. La sua storia, del resto, era costituita dalle più banali e squallide, se così si può dire, circostanze. Si trattava di un impiego in un ufficio del distretto, di non so quali procuratori e presidenti, di certi intrighi di cancelleria, della dissolutezza di uno dei capufficio, di un ispettore, di un improvviso cambiamento dei superiori, del fatto che il signor Goljadkin numero due aveva sofferto, pur essendo del tutto innocente; di una vecchissima zia Pelagheja Semjònovna; di come lui, per le varie manovre di certi suoi nemici, avesse perso il posto e fosse venuto a piedi a Pietroburgo; e come avesse stentato e sofferto lì a Pietroburgo, come avesse a lungo cercato inutilmente un posto e avesse speso tutto, fosse vissuto quasi per la strada, mangiando pane secco e dissetandosi con le sue proprie lacrime e dormendo sul nudo pavimento, e, infine, di come qualche anima pietosa avesse preso a darsi da fare per lui, a raccomandarlo di qua e di là e gli avesse generosamente trovato quel nuovo impiego. L'ospite del signor Goljadkin, mentre raccontava, piangeva e si asciugava le lacrime con un fazzoletto azzurro a quadri, molto simile a un'incerata. Concluse poi dichiarando che si era completamente confidato col signor Goljadkin e confessò che, non solo non aveva i mezzi per vivere e sistemarsi dignitosamente, ma nemmeno per farsi un po' di corredo come si deve; che, ecco, aggiunse, non era riuscito nemmeno a racimolare il denaro necessario per un paio di stivaletti e che la divisa per l'ufficio aveva dovuto noleggiarla da qualcuno per un po' di tempo.

Goljadkin era intenerito, era veramente commosso. Del resto, e nonostante la storia del suo ospite fosse delle più banali, ogni sua parola si era posata sul suo cuore come una manna celeste. Il fatto è che Goljadkin stava dimenticando i suoi ultimi dubbi, aveva sciolto il suo animo alla libertà e alla gioia e, in cuor suo, si dava dell'imbecille! Era tutto così naturale! C'era proprio di che prendersela tanto e di essere così agitato? Be'...

a dire il vero c'era una questione piuttosto delicata, ma via! non era poi una disgrazia: quella non poteva disonorare un uomo, macchiarne l'amor proprio e rovinare la sua carriera, se quest'uomo non aveva nessuna colpa, se la natura stessa vi aveva contribuito. E, inoltre, l'ospite chiedeva protezione, l'ospite piangeva, l'ospite accusava il destino, era un uomo così semplice, senza malizia e senza scaltrezza, era un uomo meschino, insignificante, e sembrava che lui stesso si facesse scrupolo, sia pure sotto un altro punto di vista, della così strana somiglianza con il padrone di casa. Si comportava in modo estremamente rassicurante e stava attento a compiacere il suo ospite e aveva lo sguardo dell'uomo che, straziato dai rimorsi di coscienza, si sente colpevole di fronte a un altro uomo. Se il discorso andava, per esempio, su qualche cosa un po' ambigua, l'ospite immediatamente approvava l'opinione di Goljadkin. Se invece, chissà come, lui, con la sua opinione, andava per sbaglio contro Goljadkin e si accorgeva di essersi messo fuori strada, immediatamente si riprendeva, dava spiegazioni e faceva subito capire che la vedeva in tutto e per tutto come il padrone di casa, la pensava allo stesso modo e considerava ogni cosa dal suo stesso punto di vista. In una parola, l'ospite non risparmiava nessuno sforzo per cercare di "trovarsi" all'unisono con Goljadkin, tanto che, alla fine, Goljadkin concluse che doveva essere un'amabilissima persona, proprio sotto ogni profilo. Tra l'altro fu servito il tè, erano già suonate le nove. Goljadkin si sentiva di umore eccellente, era diventato allegro, scherzoso, a poco a poco si era abbandonato all'ilarità e alla fine si era gettato nella più vivace e interessante delle conversazioni col suo ospite. Goljadkin, sotto l'influsso dell'allegria, si compiaceva a volte di raccontare qualche cosa di interessante. Così anche adesso: raccontò all'ospite molte cose sulla capitale, sui suoi divertimenti e le sue bellezze, sui teatri, sui circoli, sul quadro di Brjulòv ("Gli ultimi giorni di Pompei"); parlò di due inglesi venuti espressamente dall'Italia a Pietroburgo per vedere la cancellata del Giardino d'Estate e immediatamente ripartiti; parlò dell'ufficio, di Olsufij Ivànovic' e di Andréj Filìppovic'; del fatto che la Russia da un'ora all'altra avanza a gran passi verso la perfezione e che qui l'arte letteraria è oggi in fiore; ricordò un piccolo aneddoto, letto poco tempo prima su "L'ape del Nord", disse che in India vive un serpente dotato di forza straordinaria; infine parlò del barone Brambeus eccetera eccetera.

In conclusione, Goljadkin era soddisfattissimo, prima di tutto perché si sentiva completamente tranquillo, e poi perché non solo non aveva più alcuna paura dei suoi nemici, ma era anche pronto, adesso, a sfidarli tutti alla lotta più decisiva; e infine perché lui stesso in persona accordava la sua protezione e compiva, alla fine dei conti, una buona azione. Riconosceva però in fondo al cuore, che in quel momento non era ancora completamente felice, che dentro di lui si nascondeva ancora un tarlo, piccolissimo però, che anche in quel preciso momento gli rodeva il cuore. Lo tormentava oltre ogni limite il ricordo della serata in casa di Olsufij Ivànovic'. Avrebbe dato ora chissà che cosa perché niente ci fosse stato di quanto era accaduto la sera prima. "Del resto, è cosa da niente!" concluse, alla fine, il nostro eroe, e in cuor suo decise fermamente di comportarsi da ora in poi bene e di non commettere più simili errori. Poiché Goljadkin si era adesso completamente rianimato e si sentiva quasi completamente felice, gli venne perfino in mente di godersi un po' la vita. Fu portato da Petruska il rum e fu portato un ponce. L'ospite e il padrone di casa ne bevvero un bicchierino per uno e poi fecero il bis.

L'ospite si dimostrò sempre più amabile e da parte sua offrì più di una prova della sua rettitudine e del suo carattere gioioso; partecipava vivamente alla contentezza di Goljadkin e sembrava che si rallegrasse soltanto della sua gioia e lo guardava come il vero e unico suo benefattore. Prese la penna e un foglietto di carta, pregò Goljadkin di non guardare quello che stava per scrivere e poi, quando ebbe finito, fu lui stesso a far vedere al padrone di casa ciò che aveva scritto. Era una quartina, scritta con notevole sentimento, del resto, e con bello stile e bella calligrafia e, come sembrava evidente, creata dello stesso amabile ospite:

"Se tu mi scorderai giammai ti scorderò; nella vita può tutto accadere, ma tu non scordarti di me!"

Con le lacrime agli occhi Goljadkin abbracciò il suo ospite e, commosso fino in fondo all'anima, cominciò a iniziarlo in alcuni suoi misteriosi segreti, mentre il discorso batteva sempre sullo stesso tasto: Andréj Filìppovic' e Klara Olsùfevna. "Noi due," diceva il nostro eroe al suo ospite "noi due, Jakòv Petrovic', vivremo come l'acqua e il pesce, come veri fratelli; noi, mio buon amico, giocheremo d'astuzia, la useremo di comune accordo, da parte nostra intrigheremo per far loro dispetto, intrigheremo....

Ma non fidarti di quella gente! Io ormai ti conosco, Jakòv Petrovic', e capisco il tuo carattere: tu, senza pensarci, spiffererai tutto... sei un'anima così sincera! Tu, fratello, stai lontano da tutti loro!" L'ospite, assolutamente d'accordo, ringraziò Goljadkin; e anche lui, alla fine, versò qualche lacrimuccia. "Sai, Jascja" continuò Goljadkin con voce tremante e debole, "tu, Jascja, ti sistemerai qui da me per un po' di tempo o anche per sempre. Ci metteremo d'accordo. Che te ne pare, eh, fratello? Ma tu non turbarti e non mormorare perché c'è oggi tra noi una così strana circostanza: mormorare, fratello mio, è peccato; è opera della natura, questa! E madre natura è generosa, ecco, fratello, Jascja! Questo ti dico perché ti voglio bene, ti voglio bene come un fratello. E noi due, Jascja, giocheremo d'astuzia, gli scaveremo il terreno sotto i piedi e gli faremo abbassare la cresta." Si arrivò, finalmente al terzo e quarto bicchierino di ponce a testa e allora Goljadkin cominciò a provare due sensazioni: la prima, di una straordinaria felicità, e la seconda, di non potere più star dritto sulle gambe. L'ospite, si capisce, fu invitato a pernottare. Su due sedie accostate fu sistemato alla meglio un giaciglio. Il signor Goljadkin numero due dichiarò che sotto un tetto amico era dolce dormire anche sul nudo pavimento; che, per conto suo, avrebbe preso sonno ovunque fosse capitato, con umiltà e riconoscenza; che ora si sentiva in paradiso e, infine, che aveva in vita sua sopportato disgrazie e dolori, che ne aveva viste di tutti i colori, aveva sopportato di tutto e - chi può conoscere il futuro? - avrebbe dovuto, forse, penare ancora molto. Il signor Goljadkin numero uno protestava e si metteva a dimostrare che bisogna affidare ogni speranza a Dio.

A questo punto Goljadkin prima osservò che i turchi, sotto un certo punto di vista, avevano ragione invocando il nome di Dio anche nel sonno. Poi, discordando, d'altronde, con alcuni saggi su certe calunnie lanciate al profeta turco Maometto e riconoscendo che nel suo genere era un grande politico, Goljadkin, passò all'interessantissima descrizione di una bottega da barbiere algerina, di cui aveva letto in non so quale antologia. L'ospite e il padrone di casa risero molto sulla semplicità d'animo dei turchi; non potevano però negare la dovuta ammirazione per il loro fanatismo, eccitato dall'oppio... L'ospite, finalmente, cominciò a svestirsi, e Goljadkin si ritirò dietro il tramezzo, vuoi per bontà d'animo, perché poteva anche darsi che quello non avesse neanche una camicia decente e non era il caso di confondere un uomo che, anche senza quello, aveva già abbastanza sofferto; vuoi per assicurarsi su Petruska, tastare il terreno, rallegrarlo se fosse stato possibile e anche dimostrargli un po' di affetto affinché fossero ormai tutti felici e non rimanesse sulla tavola del sale sparso. Non bisogna dimenticare che Petruska continuava ancora a preoccupare un po' Goliadkin.

"Tu, Pjotr, vattene a dormire, adesso" gli disse amorevolmente, entrando nel reparto del suo domestico. "Va' a dormire e svegliami domattina alle otto. Capito, Petruska?" Goljadkin parlò in modo insolitamente affettuoso e dolce. Ma Petruska taceva. Stava, in quel momento, dandosi da fare intorno al suo letto e non si girò nemmeno verso il padrone, cosa che, non fosse altro che per un senso di rispetto verso di lui, avrebbe dovuto fare.

"Ehi, Pjotr, hai sentito quello che ti ho detto?" proseguì Goljadkin. "Ora vattene a letto e domani svegliami alle otto.

Capito?" "Ma sì, capisco, che diavolo c'è di strano?" borbottò tra i denti Petruska.

"Va bene, va bene, Petruska: ti dico questo solo perché sia anche tu tranquillo e felice. Noi, ora, siamo tutti felici, e perciò siilo anche tu! E ora ti auguro la buona notte. Dormi, Petruska, dormi... dobbiamo tutti tirare la carretta... E tu, fratello, non pensare a chissà che cosa, sai..." Goljadkin aveva cominciato a dire non so che cosa, ma si fermò.

"Non sarà troppo" pensò, "non avrò poi detto troppo? Sempre così, io: vado sempre troppo oltre." Il nostro eroe uscì dal reparto di Petruska scontentissimo di sé. Inoltre la ruvidezza e la freddezza di Petruska l'avevano un po' mortificato. "Con quel briccone si scherza, a quel briccone il padrone rende onore e lui resta impassibile" pensò Goljádkin. "Del resto, è sempre questa l'infame tendenza di questa razza di gente!" Leggermente barcollando, tornò in camera e, visto che il suo ospite era già coricato, si mise a sedere un momento vicino al suo letto. "Confessa, Jascja" cominciò a dire in un bisbiglio e abbassando la testa, "confessa, furfante, che sei pur colpevole di fronte a me! Tu, mio caro omonimo, sai che..." continuò, scherzando in modo abbastanza familiare con l'ospite. Finalmente, dopo un amichevole saluto, Goljadkin andò a dormire. L'ospite, intanto, già russava. Goljadkin da parte sua cominciò a sdraiarsi nel letto e intanto, ridacchiando tra sé e sé, mormorava: "Il fatto è che oggi, colombello mio, sei ubriaco, Jakòv Petrovic', mascalzone che sei... tu, Goljadkin... con questo tuo cognome! Ma suvvia perché ti sei tanto rallegrato? Domani, vedrai, ci sarà di che piangere, piagnucolone che sei... che devo fare di te?" A questo punto una sensazione abbastanza strana si impadronì di Goljadkin fin nel profondo, una sensazione simile al dubbio o al pentimento. "Mi sono un po' troppo lasciato andare" pensava, "e adesso sento un frastuono nella testa, e sono ubriaco; non hai saputo resistere, imbecille che non sei altro! hai detto stupidaggini a tutt'andare e ti preparavi anche a fare il furbo, mascalzone! Si sa che il perdono e l'oblio delle offese costituiscono una virtù nobilissima, ma, con tutto ciò, è una cosa che non va! E' proprio così!" A questo punto Goljadkin si alzò prese una candela e, in punta di piedi, andò a dare un'occhiata all'ospite addormentato. Rimase a lungo davanti a lui, immerso in profonda meditazione. "Che quadro antipatico! Una buffonata, un'autentica buffonata, fatta e finita!" Infine Goljadkin si distese nel letto. La sua testa era piena di rumori, di crepitii, di suoni. Cominciò ad addormentarsi, ad addormentarsi... si sforzava di tener fisso un pensiero, di ricordare qualcosa di molto interessante, di risolvere un certo importante problema, una certa delicata questione... ma non ci riusciva. Il sonno arrivò di colpo sulla sua malcapitata testa e sprofondò nel sonno in cui sono solite sprofondare le persone che, non abituate a bere, hanno ingoiato di colpo cinque bicchieri di ponce in una seratina tra amici.

 

 

NOTE:

  1. Pseudonimo di Senkonskij, critico e letterato, fondatore del giornale "Biblioteca di letture".

 

 

8.

 

Il giorno dopo Goljadkin si svegliò come al solito alle otto; e, appena sveglio, gli si ricordò subito degli avvenimenti della sera precedente: se ne ricordò e si rabbuiò in viso.

"Una parte da stupido ho recitato ieri sera!" pensò, sollevandosi sul letto e gettando un'occhiata al letto dell'ospite. Ma quale stupore! Nella camera non solo non c'era più l'ospite, ma nemmeno il letto! "Che significa questo? Che vuol dire questa nuova circostanza?" Mentre Goljadkin, sbalordito, guardava a bocca aperta il posto vuoto, la porta scricchiolò e entrò Petruska, che portava il vassoio col tè. "Ma dov'è? Dov'è?" pronunciò con voce appena udibile il nostro eroe, indicando col dito il posto occupato la sera prima dall'ospite. Petruska non rispose e non guardò nemmeno il suo padrone, ma girò gli occhi verso l'angolo a destra, tanto che lo stesso Goljadkin fu spinto a guardare anche lui in quell'angolo. Però, dopo un breve silenzio, Petruska, con voce rauca e ruvida rispose "che il padrone non era in casa".

"Sei stupido, sai: il tuo padrone sono io, Petruska" esclamò Goljadkin con voce spezzata e guardando con gli occhi sbarrati il suo domestico.

Petruska non rispose, ma fissò Goljadkin in un modo che quello arrossì fino alle orecchie; quello sguardo aveva un'aria di rimprovero così oltraggiosa, da essere davvero simile a un'ingiuria. A Goljadkin cascarono, come si suol dire, le braccia.

Finalmente Petruska spiegò che già da un'ora e mezzo "l'altro" se ne era andato e non aveva voluto aspettare. Certamente la risposta era verosimile e credibile; si vedeva che Petruska non mentiva, che quello sguardo insultante e la parola "l'altro" da lui usata, non era che una conseguenza della nota, disgraziata vicenda, capiva però, anche se vagamente, che lì c'era qualcosa che non andava e che il destino gli stava preparando ancora qualche altro tiro, non esattamente gradevole. "Bene, vedremo," disse tra sé "vedremo e a suo tempo metteremo tutto in chiaro... Ah, Signore mio dio!" gemette alla fine, con voce ormai del tutto diversa.

"Perché mai l'ho invitato, perché poi ho fatto tutto questo? Ma sono io stesso che vado a ficcarmi nelle loro trame truffaldine, io stesso mi metto la corda al collo! Ah, testa, testa! Non sei nemmeno capace di trattenerti dal raccontare bugie come un ragazzaccio qualsiasi, un qualsiasi giovane di cancelleria, come un qualunque imbecille di impiegatuccio, un cencio, un puzzolente straccio qualunque, pettegolo che non sei altro, donnicciola!... O santi protettori! E anche dei versi ha scritto, il furfante, e mi ha fatto una dichiarazione d'amore! Come potrei... Come potrei mostrare la porta in modo adeguato a quel furfante, se tornasse?

Si sa, modi e metodi ce n'è in quantità. Così e così... dirò, si sa, il mio stipendio è limitato... Oppure mettergli un po' di paura addosso, in un modo o nell'altro, facendogli presente che, data la situazione, sono costretto a dire le cose come stanno... e bisogna, dirò, bisogna pagare a metà vitto e alloggio, e i soldi vanno dati anticipatamente. Ehm! no... che il diavolo mi porti...

no! Una cosa simile mi disonorerebbe. Sarebbe assolutamente indelicata! Ecco, si potrebbe forse fare in un'altra maniera, così per esempio: suggerire a Petruska qualche idea perché gliene combini qualcuna, si mostri in qualche modo negligente verso di lui, gli risponda con insolenza, costringendolo così a andare via?

Aizzarli così l'uno contro l'altro... No, no, che il diavolo mi porti! Questo è pericoloso e poi anche questo, a vederlo da un certo punto di vista... be', no, non va assolutamente!

Assolutamente non va! E se lui non venisse più? Anche questo sarebbe un male? Gliene ho raccontate tante ieri sera! Eh male, male! Ah, questa nostra faccenda è piuttosto mal messa! Ah, testa, testa mia maledetta! Non puoi imparare quello che si deve fare!

Be', e se lui tornasse e non accettasse? Voglia Iddio che venga!

Sarei contentissimo, se venisse: non so che cosa darei, perché venisse..." Così ragionava Goljadkin, mentre ingoiava il suo tè e guardava continuamente l'orologio. "Adesso sono le nove meno un quarto: è ora di andare. Ma qualcosa succederà: che diavolo mai succederà?

Vorrei proprio sapere che cosa si nasconde qui di tanto particolare... lo scopo, le intenzioni e i vari sotto sotto...

Sarebbe bene poter sapere a cosa precisamente miri tutta questa gente e quale sarà il loro primo passo..." Goljadkin non poté resistere oltre, mise via la pipa senza aver finito di fumare, si vestì e si precipitò in ufficio, desiderando, se possibile, di afferrare il pericolo per le corna e di sincerarsi di ogni cosa con la sua personale presenza. E un pericolo c'era: lo sapeva benissimo, che un pericolo c'era. "Ma ecco noi... noi ne verremo a capo" mormorava dentro di sé Goljadkin mentre, in anticamera, si toglieva cappotto e soprascarpe, "noi andremo a fondo di tutte queste faccende".

Deciso così ad agire, il nostro eroe si ravviò i capelli, prese un'aria autorevole e ufficiale, e era in procinto di entrare nella stanza attigua, quando all'improvviso, proprio sulla soglia, si scontrò col conoscente, amico e compagno della sera prima. Il signor Goljadkin numero due sembrò non accorgersi del signor Goljadkin numero uno, benché si fossero scontrati faccia a faccia.

Il signor Goljadkin numero due era, a quanto pareva, indaffarato, correva non so dove, ansimava, aveva un'aria così ufficiale, così impegnata, che ognuno avrebbe potuto, sembrava, leggergli in viso:

"comandato per un incarico particolare..." "Ah, siete voi, Jakòv Petrovic'!" esclamò il nostro eroe, prendendo per un braccio il suo ospite del giorno prima.

"Più tardi, più tardi scusatemi... mi direte più tardi..." quasi gridò il signor Goljadkin numero due, precipitandosi avanti.

"Però permettete; mi pare che voi, Jakòv Petrovic', volevate..." "Che cosa? Spiegatevi alla svelta..." A questo punto l'ospite serale si fermò quasi costringendosi, e con aria scontenta mise il suo orecchio dritto proprio davanti al naso di Goljadkin.

"Vi dirò, Jakòv Petrovic', che io mi meraviglio di questi modi...

di questi modi che evidentemente non mi sarei aspettato da voi." "Per ogni cosa ci sono delle procedure. Presentatevi al segretario di sua eccellenza e poi rivolgetevi nei modi prescritti al signor direttore della cancelleria. Si tratta di una istanza." "Voi, Jakòv Petrovic', voi... io non so. Mi fate semplicemente restare di stucco, Jakòv Petrovic'! Voi certo non mi riconoscete o, dato il vostro temperamento così allegro, avete voglia di scherzare..." "Ah, siete voi!" esclamò Goljadkin numero due, proprio come se giusto in quel momento avesse visto il signor Goljadkin numero uno. "Siete proprio voi? Be', avete passato bene la notte?" A questo punto il signor Goljadkin numero due, dopo un leggero sorriso, dopo aver sorriso in modo ufficiale e formale, anche se non si sarebbe assolutamente dovuto fare (poiché, in ogni caso, era comunque in debito di riconoscenza verso il signor Goljadkin numero uno), dopo aver dunque sorriso in modo ufficiale e formale, aggiunse che lui, da parte sua, era molto lieto che il signor Goljadkin avesse passato una buona notte; poi fece un leggero inchino, mosse un po' i piedi lì sul posto, guardò a destra, a sinistra, abbassò gli occhi, adocchiò una porta laterale e bisbigliando rapidamente che aveva un incarico particolare, scivolò svelto svelto nella stanza vicina. Non lo si vide più.

"Ma guarda un po' che roba!" borbottò il nostro eroe, rimasto per un attimo sbalordito, "guarda che roba! Ecco in che situazione ci si ritrova!" A questo punto Goljadkin sentì un formicolio corrergli per tutto il corpo...

"Del resto" aggiunse, sempre mormorando, mentre si avviava alla sua sezione, "già da un pezzo io immaginavo una cosa simile; già da un pezzo prevedevo che avesse un incarico speciale; anzi, proprio ieri sera stavo dicendolo, che senza dubbio quell'uomo aveva un incarico speciale per conto di qualcuno..." "Avete finito, Jakòv Petrovic', la vostra pratica di ieri?" domandò Antòn Antònovic' Setoc'kin, che si era messo a sedere accanto a Goljadkin. "L'avete qui?" "Sì, qui" mormorò Goljadkin, rivolgendo al capufficio uno sguardo smarrito.

"Bene bene... Ve l'ho detto perché Andréj Filìppovic' l'ha già richiesta due volte. Badate che sua eccellenza la vorrà." "No, signore, è pronta." "Benissimo, allora." "Io, Antòn Antònovic', mi pare, ho sempre compiuto il mio dovere come si deve e mi prendo cura degli incartamenti affidatimi dai superiori, e me ne occupo con zelo." "Sì, sì, d'accordo. Ma che volete dire con questo?" "Niente, signore, niente, Antòn Antònovic'. Soltanto, Antòn Antònovic', voglio spiegare che... che io... cioè vorrei dire che a volte la cattiveria e l'invidia non risparmiano nessuno, e cercano il loro disgustoso pane quotidiano..." "Scusate, non vi capisco assolutamente. Cioè, a chi volete alludere?" "Cioè, volevo solo dire, Antòn Antònovic', che io vado dritto per la mia strada e disprezzo le vie traverse, che non sono un intrigante e che di questo, purché mi si permetta di esprimermi così, posso giustamente vantarmi." "Certo, signore. Le cose stanno così e, almeno secondo il mio giudizio, rendo piena giustizia al vostro ragionamento; ma permettete, Jakòv Petrovic', anch'io vi faccio notare che le allusioni personali nella buona società non sono assolutamente permesse; che io, per esempio, sono pronto a sopportarle in mia assenza: perché infatti, chi mai, quando è assente, non viene criticato?... Ma, in faccia, signor mio, mettetela come volete, io, per esempio, io non sopporterò che mi si dicano delle impertinenze. Io, signor mio, ho fatto i capelli bianchi al servizio dello stato e impertinenze, nella mia vecchiaia, non me ne lascerò dire..." "Nossignore, io, Antòn Antònovic', voi, vedete, Antòn Antònovic', voi, mi pare, Antòn Antònovic', che non abbiate compreso bene. E io, scusate, Antòn Antònovic', io, per parte mia, posso soltanto ascrivere a mio onore..." "E ora vi prego di scusare anche noi, signore. Noi siamo stati educati all'antica. E, per imparare secondo le vostre maniere, maniere nuove, è ormai tardi, per noi. Per servire la patria mi sembra che, fino a ora, l'intelligenza che abbiamo sia stata sufficiente. Io, signor mio, come voi stesso sapete, ho il distintivo di venticinque anni di servizio irreprensibile." "Io comprendo, Antòn Antònovic', da parte mia comprendo tutto ciò.

Ma non era di questo che io parlavo; parlavo della maschera, Antòn Antònovic'..." "Della maschera?" "Cioè, voi di nuovo... io temo che voi anche qui stiate sbagliando strada per ciò che riguarda il significato dei miei discorsi, come voi stesso dite, Antòn Antònovic', che le persone che portano la maschera hanno cominciato a non essere più tanto rare e che al giorno d'oggi è difficile riconoscere una persona sotto la maschera..." "Be' sapete? non è poi sempre così difficile, a volte, anzi, è abbastanza facile e non è nemmeno necessario andare a cercare tanto lontano..." "No, signore, sapete? Io, Antòn Antònovic', dico di me stesso, dico, che io, per esempio, mi metto la maschera soltanto quando è necessario, cioè soltanto per il carnevale, e per le riunioni allegre, parlando in senso proprio, ma che non mi maschero ogni giorno davanti alla gente, parlando in un altro senso più nascosto. Ecco ciò che volevo dire, Antòn Antònovic'." "Be', ma ora, lasciamo perdere tutto questo. Non abbiamo tempo" disse Antòn Antònovic', alzandosi dal suo posto e raccogliendo alcune carte per il rapporto a sua eccellenza. "La vostra faccenda, immagino che non ci vorrà molto tempo perché sia chiarita completamente. Vedrete voi stesso chi dovrete incolpare e accusare e intanto vi prego umilmente di esentarmi da ulteriori spiegazioni e da discorsi pregiudizievoli per il servizio..." "No, signore... Io, Antòn Antònovic'" cominciò Goljadkin, che era impallidito, alle spalle di Antòn Antònovic' che si allontanava.

"Io, Antòn Antònovic', non intendevo affatto questo..." "Ma che diavolo è mai questo?" proseguì tra sé e sé il nostro eroe, rimasto solo. "Che razza di venti stanno soffiando qui e che cosa significa questo nuovo rovello?" Nel preciso istante in cui il nostro eroe, sconcertato e mezzo accasciato, si preparava a risolvere questo nuovo problema, si sentì del rumore nella stanza vicina, si notò un certo tramestìo, la porta si aprì e Andréj Filìppovic', che si era appena allontanato per andare per ragioni d'ufficio nel gabinetto di sua eccellenza, comparve ansimante sulla porta e chiamò Goljadkin.

Sapendo di che cosa si trattava e non volendo far aspettare Andréj Filìppovic', Goljadkin si alzò di scatto dal suo posto e, come si conviene, cominciò disperatamente a mettere ordine e a dare gli ultimi definitivi ritocchi all'incartamento richiesto e si preparò a dirigersi, seguendo Andréj Filìppovic' e l'incartamento, verso il gabinetto di sua eccellenza. All'improvviso e quasi sotto il naso di Andréj Filìppovic' che stava in quel momento proprio sulla porta, si infilò nella stanza il signor Goljadkin numero due, indaffarato, ansimante, spossato dal servizio, con un'aria d'importanza decisamente ufficiale, e si lanciò dritto dritto verso il signor Goljadkin numero uno, che meno di tutti si aspettava un simile assalto...

"Gli incartamenti, Jakòv Petrovic', gli incartamenti... Sua eccellenza si è degnata di chiedere se li avete pronti" cominciò a cinguettare a mezza voce e con grande rapidità l'amico del signor Goljadkin numero uno. "Andréj Filìppovic' vi aspetta..." "Lo so anche senza di voi, che aspetta..." rispose il signor Goljadkin numero uno, anche lui in un rapidissimo sussurro.

"No, io, Jakòv Petrovic', non è questo che voglio dire: io, Jakòv Petrovic', io mi interesso della cosa e sono spinto da un senso di affettuosa partecipazione." "Dalla quale vi prego molto umilmente di esentarmi. Permettete, permettete..." "Voi, naturalmente, disporrete quegli incartamenti in una copertina, Jakòv Petrovic'; e alla terza pagina ci metterete un segnalibro, permettete, vero, Jakòv Petrovic'?" "Permettete voi, una buona volta..." "Ma qui c'è una macchiolina d'inchiostro, Jakòv Petrovic'; vi siete accorto di questa macchiolina d'inchiostro?" A questo punto Andréj Filìppovic' chiamò per la seconda volta Goljadkin.

"Eccomi, Andréj Filìppovic'; io, ecco, soltanto un momentino, ecco qui... Egregio signore, capite il russo?" "Meglio di tutto sarà di raschiarlo con un temperino, Jakòv Petrovic'; la cosa migliore è che vi fidiate di me; è meglio che voi non lo tocchiate, Jakòv Petrovic', fidatevi di me... Io ora un po' col temperino..." Andréj Filippovic' per la terza volta chiamò Goljadkin.

"Ma, scusate, dov'è questa macchietta? Mi sembra proprio che qui non ci sia nessuna macchietta." "E' una macchietta enorme, eccola! Ecco, permettete, io l'ho vista qui; permettete, permettetemi soltanto, Jakòv Petrovic'... io qui col temperino un pochino, ecco... io proprio per simpatia, Jakòv Petrovic', col temperino e con tutta l'anima... ecco... ecco fatto!" A questo punto e in modo del tutto imprevisto, il signor Goljadkin numero due, senza dire né a né ba, avuta la meglio sul signor Goljadkin numero uno nella momentanea lotta nata tra loro, e in ogni caso assolutamente contro la volontà di quest'ultimo, s'impadronì dell'incartamento richiesto dal superiore e, invece di procedere a raschiare lealmente col temperino, come aveva con astuzia promesso al signor Goljadkin numero uno, l'arrotolò in fretta e furia, se lo mise sotto il braccio e con due salti arrivò a fianco di Andréj Filìppovic' che non si era accorto di nessuno dei suoi piccoli trucchi e volò con lui nel gabinetto del direttore. Il signor Goljadkin numero uno rimase come inchiodato sul posto, col temperino in mano, come se si preparasse a raschiare qualcosa...

Il nostro eroe non si era ancora reso ben conto della nuova circostanza. Non si era ancora riavuto. Aveva accusato il colpo, ma pensava si trattasse di qualcos'altro. In preda a una terribile, indescrivibile angoscia, riuscì, infine, a smuoversi dal suo posto e si lanciò dritto filato nell'ufficio del direttore, supplicando il cielo, strada facendo, che tutto si aggiustasse nel migliore dei modi e si trattasse per così dire, di una cosa da niente... Nell'ultima stanza, prima dell'ufficio del direttore, si trovò correndo, faccia a faccia con Andréj Filìppovic' e col suo omonimo. Erano già di ritorno; il signor Goljadkin si scostò. Andréj Filìppovic' parlava e sorrideva allegramente. L'omonimo del signor Goljadkin numero uno sorrideva anche lui, trotterellando e saltellando a rispettosa distanza da Andréj Filìppovic', e con aria rapita gli bisbigliava non so che cosa all'orecchio, mentre Andréj Filìppovic' annuiva con la testa nel modo più benevolo. Di colpo il nostro eroe capì la situazione.

Il fatto era che il suo lavoro (come venne a sapere in seguito), aveva quasi preceduto l'attesa di sua eccellenza e era effettivamente arrivato entro il termine fissato. Sua eccellenza era soddisfattissimo. Si diceva anche che sua eccellenza avesse detto parole di ringraziamento al signor Goljadkin numero due, sì, proprio di caldo ringraziamento; e aveva detto che, nell'occasione propizia, se ne sarebbe ricordato e mai l'avrebbe dimenticato...

Si capisce che il primo atto del signor Goljadkin numero uno fu quello di protestare; di protestare energicamente, fino alle estreme possibilità. Quasi fuori di sé e pallido come un cadavere, si precipitò da Andréj Filìppovic'. Ma Andrej Filìppovic', dopo aver sentito che la storia del signor Goljadkin era una storia di carattere privato, rifiutò di ascoltarlo, facendo osservare in modo netto che non aveva un minuto libero nemmeno per ciò che gli poteva servire personalmente.

Il tono secco e l'asprezza del rifiuto colpirono Goljadkin. "Ecco, è meglio che io la prenda da un altro lato... ecco, è meglio che vada da Antòn Antònovic'". Per disgrazia di Goljadkin, Antòn Antònovic' non c'era: era pure lui chissà dove, occupato in chissà che cosa. "Ecco, dunque, non era senza un preciso proposito, ecco, dunque, perché mi pregava di esimerlo da spiegazioni e discussioni!" pensava il nostro eroe. "Ecco a che cosa mirava il vecchio furfante! Se è così oserò semplicemente di supplicare sua eccellenza".

Sempre pallidissimo e sentendo una gran confusione nella testa, molto imbarazzato a proposito della decisione da prendere, Goljadkin si mise a sedere sulla sedia. "Sarebbe molto meglio se tutto questo fosse stato soltanto così..." rimuginava continuamente nel cervello. "A dire il vero, una faccenda così ingarbugliata pare addirittura inverosimile. Prima di tutto è un'assurdità, e poi non può nemmeno accadere. Probabilmente, chissà come mai, mi è solo sembrato che fosse così, oppure ne è venuta fuori qualche altra cosa e non quello che era in realtà; o, con certezza, sono stato io stesso ad andare... e chissà come, ho preso me stesso per l'altro... insomma, è una faccenda assolutamente impossibile." Appena Goljadkin fu arrivato alla conclusione che si trattava di una faccenda assolutamente impossibile, entrò a precipizio nella stanza il signor Goljadkin numero due con un fascio di incartamenti nelle due mani e sotto il braccio. Disse di sfuggita due o tre parole indispensabili ad Andrej Filìppovic', seguite da un breve scambio di frasi con qualcun altro e rivoltosi con familiarità a qualcun altro ancora, il signor Goljadkin numero due, che con tutta evidenza non aveva tempo da perdere inutilmente, sembrava già che si apprestasse a uscire dalla stanza, ma, per fortuna del signor Goljadkin numero uno, si fermò proprio sulla soglia e si mise a discutere di sfuggita con due o tre giovani impiegati che si trovavano lì per caso. Il signor Goljadkin numero uno si lanciò verso di lui. Appena il signor Goliadkin numero due vide la manovra del signor Goljadkin numero uno, cominciò subito a guardare inquietissimo in giro come potersela battere al più presto. Ma il nostro eroe aveva già preso per una manica il suo ospite del giorno prima. Gli impiegati che stavano intorno ai due consiglieri titolari si spostarono e rimasero incuriositi, in attesa di quello che sarebbe successo. Il consigliere titolare anziano capiva benissimo che la buona opinione non era, ora, dalla sua parte, capiva benissimo che si ordivano intrighi contro di lui: tanto più era necessario, allora, darsi forza. Era un momento decisivo.

"Ebbene?" prese a dire il signor Goljadkin numero due, guardando con aria abbastanza insolente il signor Goljadkin numero uno.

Il signor Goljadkin numero uno aveva il respiro affannato.

"Non so, egregio signore," cominciò "in quale modo vorrete ora spiegare il vostro strano comportamento nei miei confronti." "Avanti, signore, continuate!" E il signor Goljadkin numero due si guardò intorno e strizzò l'occhio agli impiegati che erano lì vicino, come per far capire che stava veramente per iniziare la commedia.

"L'insolenza e la sfacciataggine del vostro comportamento verso di me, egregio signore, nel presente caso vi accusano ancora più delle... mie stesse parole. Non sperate nel vostro gioco: è piuttosto fragile..." "Dunque, Jakòv Petrovic', ditemi un po' ora come avete passato la notte..." rispose il signor Goljadkin numero due, fissando negli occhi il signor Goljadkin numero uno.

"Voi, egregio signore, andate al di là di ogni limite, al di là delle convenienze" disse il consigliere titolare, completamente smarrito, sentendo appena il pavimento sotto i piedi. "Spero che cambierete tono..." "Animuccia mia!" esclamò il signor Goljadkin nume due, dopo aver fatto una smorfia piuttosto indecente al signor Goljadkin numero uno, e di colpo, in un modo del tutto inatteso, con l'aria di vezzeggiarlo, gli afferrò con due dita la guancia destra, discretamente grassoccia. Il nostro eroe avvampò come brace.

Appena il signor Goljadkin numero due si rese conto che il suo avversario, preso da un tremito in tutte le membra, muto dallo stupore, rosso come un gambero, e, infine, spinto ai limiti estremi, avrebbe anche potuto decidersi a un vero e proprio attacco, immediatamente e nella maniera più svergognata lo anticipò. Dopo avergli dato ancora due buffetti sulle guance, e avergli fatto un po' di solletico, trastullandosi così ancora qualche secondo con lui, che se ne stava immobile e fuori di sé dalla rabbia, non senza gran divertimento della gioventù che li circondava, il signor Goljadkin numero due, con una ripugnante sfacciataggine, assestò definitivamente un colpetto sulla pancetta sporgente del signor Goljadkin numero uno, e accompagnandolo col più velenoso e allusivo sorriso, gli disse:

"Tu te la spassi, fratellino, Jakòv Petrovic', tu te la spassi!

giocheremo di astuzia noi due, giocheremo di astuzia!" Poi, e prima che il nostro eroe potesse a poco a poco riprendersi dall'ultimo attacco, il signor Goljadkin numero due improvvisamente (dopo aver rivolto un sorrisetto preliminare agli spettatori che li circondavano) prese l'aria più affaccendata, più indaffarata e più ufficiale, abbassò gli occhi a terra, si contrasse tutto, si fece più piccolo e, dopo aver detto in fretta e furia "per incarico speciale", slanciò la sua gambetta corta e scivolò nella stanza accanto. Il nostro eroe non credeva ai suoi occhi e non ce la faceva a riprendersi...

Finalmente si rimise in sesto. Resosi conto, in un attimo, di essere perduto, di essere in un certo senso annientato, di essersi sporcato e di aver macchiato la propria reputazione, di essere stato preso per il bavero e sputacchiato alla presenza di estranei, di essersi proditoriamente beccato degli insulti da colui che ancora il giorno prima considerava il suo primo e più intimo amico, di essere infine disperatamente caduto, Goljadkin si lanciò all'inseguimento del suo nemico. In quel momento non voleva nemmeno più pensare ai testimoni dell'oltraggio subìto.

"Tutti costoro fanno comunella uno con l'altro" diceva tra sé e sé, "uno vale l'altro e uno incita l'altro contro di me." Però, fatti appena dieci passi, il nostro eroe si rese conto che tutti gli inseguimenti erano rimasti vani e inutili, e perciò tornò indietro. "Non te la passerai liscia" pensava; "al momento giusto avrò partita vinta e sul lupo ricadranno le lacrime delle pecore." Con grande sangue freddo e con la più energica decisione, Goljadkin arrivò fino alla sedia e vi si mise a sedere. "Non te la passerai liscia!" disse ancora una volta tra sé. Adesso non si trattava più di una qualunque difesa passiva; c'era nell'aria l'odore di un prossimo attacco decisivo, e chi vide in quel momento come Goljadkin, arrossendo e frenando a fatica la sua agitazione, intinse la penna nel calamaio e con quale furore prese a farla andare su e giù sulla carta, fu già in grado di giudicare in anticipo che la cosa non sarebbe andata così liscia e che non avrebbe potuto sistemarsi in una qualche maniera da donnicciola.

Nel profondo della sua anima prese una decisione e nel profondo del cuore giurò di mantenerla. A dire il vero non sapeva ancora proprio bene come avrebbe dovuto andare avanti, cioè, per meglio dire, non lo sapeva per niente; ma era lo stesso, poco importava!

"Con l'impostura e la sfrontatezza, signore egregio, nel nostro secolo non si raggiunge lo scopo. L'impostura e la sfrontatezza, mio egregio signore, non portano al bene, ma dritto dritto alla forca. Soltanto Griska Otrepev (1), signor mio, riuscì con l'impostura a ingannare un popolo cieco, ma anche lui non per molto." Nonostante quest'ultima circostanza, Goljadkin decise di aspettare fino a quando la maschera sarebbe caduta da certe facce e in un modo o nell'altro si sarebbe fatta luce su tutto. Perciò in primo luogo bisognava che finisse al più presto l'orario d'ufficio e il nostro eroe decise che prima di allora non avrebbe preso nessuna iniziativa. Poi, quando fosse finito l'orario d'ufficio, avrebbe messo in opera un certo provvedimento. Già allora sapeva come avrebbe dovuto agire, dopo aver preso quel provvedimento, come predisporre il suo piano d'azione per rompere le corna all'arroganza e schiacciare il serpente, che morde la polvere nella viltà dell'impotenza. Goljadkin non poteva proprio permettere che lo si strizzasse come uno straccio col quale si puliscono gli stivali infangati. Acconsentire a questo, no davvero, in particolare in questo caso. Se non fosse stato per quell'ultimo orrore, il nostro eroe, forse, si sarebbe convinto, anche se a malincuore, si sarebbe convinto, dunque, a tacere, a rassegnarsi e a non protestare con troppo accanimento; così, avrebbe discusso un po', avrebbe anche avanzato qualche pretesa, avrebbe dimostrato di essere dalla parte della ragione, poi avrebbe ceduto un pochino e poi, forse, ancora un altro pochino, e infine avrebbe ceduto del tutto e poi, specialmente quando gli avversari avessero solennemente riconosciuto che la ragione era dalla sua, poi, forse, si sarebbe anche rassegnato e anche un po' commosso, e anche - chi lo può sapere? - forse sarebbe rinata una nuova amicizia, un'amicizia solida e calda, ancora più grande di quella di ieri, tanto che questa amicizia avrebbe potuto, alla fine, superare definitivamente il disappunto di una somiglianza abbastanza sconveniente tra due persone, di modo che i due consiglieri titolari sarebbero stati felici al massimo e sarebbero vissuti, infine, fino a cento anni eccetera eccetera. Per dirla tutta: Goljadkin cominciava addirittura a sentire un po' di pentimento per aver voluto prendere le difese di sé e del suo buon diritto e per essersene subito pentito.

"Se si sottomettesse," pensava Goljadkin "se ammettesse di aver scherzato, gli perdonerei, lo perdonerei anche di più, purché lo riconoscesse a voce alta. Ma non permetterò di essere calpestato come un vecchio straccio. Io non ho dato il permesso di calpestarmi a altre persone e tanto meno consentirò che un uomo depravato si azzardi di farlo. Io non sono uno straccio; io, signor mio, non sono uno straccio!" A farla breve, il nostro eroe prese una decisione: "Siete voi, signor mio, il colpevole!" Decise di protestare, di protestare con tutte le forze fino all'estrema possibilità.

Era un tipo così, quell'uomo! Non poteva assolutamente permettere che lo si offendesse e tanto meno acconsentire al fatto che lo si calpestasse come un vecchio straccio né, infine, arrivare a permettere questo a un uomo depravato. Non discutiamo, del resto, non discutiamo. Forse, se qualcuno avesse voluto, se qualcuno avesse assolutamente voluto, per esempio, ridurre Goljadkin a uno straccio, ce l'avrebbe ridotto, ce l'avrebbe ridotto senza opposizioni e con il massimo dell'impunità (Goljadkin stesso in alcuni momenti ci si sentiva), e ne sarebbe venuto fuori uno straccio e non più Goljadkin... Sì, ne sarebbe venuto fuori un vile, sudicio straccio, ma non sarebbe stato un semplice straccio, ma uno straccio con dell'orgoglio, sarebbe stato uno straccio dotato di animazione e di orgoglio, anche se di orgoglio modesto e di sentimenti altrettanto modesti, nascosti, sì, nella profondità delle pieghe di questo straccio, ma pur sempre sentimenti...

Le ore non passavano mai; finalmente suonarono le quattro. Poco dopo tutti si alzarono e, seguendo il capo, si mossero ognuno verso la propria casa. Goljadkin si mescolò alla folla; i suoi occhi erano bene aperti e non perdevano di vista chi di dovere.

Finalmente il nostro eroe vide che il suo amico era corso verso i custodi della cancelleria che consegnavano i cappotti e, secondo la sua vile abitudine, trotterellava lì intorno in attesa del soprabito. Era il momento decisivo. Non so come Goljadkin riuscì a fendere la folla e, non volendo restare indietro, si diede da fare pure lui per avere il cappotto. Ma diedero il cappotto prima all'amico e conoscente di Goljadkin, perché quello, secondo le sue abitudini, era riuscito a intrufolarsi, a fare moine, a soffiare negli orecchi qualche parolina e a comportarsi, insomma, in modo abietto.

Indossato il cappotto, il signor Goljadkin numero due guardò con aria ironica il signor Goljadkin numero uno, facendolo apertamente e mostrando con tutta chiarezza il suo disprezzo; poi, con quella sfrontatezza tutta sua, diede un'occhiata in giro, sgambettò ancora - probabilmente per lasciare una favorevole impressione di sé - intorno agli impiegati, disse una parola a uno, mormorò qualcosa a un altro, si strofinò umilmente a un terzo, a un quarto rivolse un sorriso, diede la mano al quinto e allegramente trotterellò giù per le scale. Il signor Goljadkin numero uno lo seguì, e con indescrivibile suo piacere, lo raggiunse all'ultimo gradino e lo afferrò per il bavero del cappotto. Il signor Goljadkin numero due sembrò un po' sconcertato e si guardò intorno con aria smarrita.

"Che significa questo?" mormorò finalmente, con voce debole, a Goljadkin.

"Egregio signore, se voi siete appena appena un uomo come si deve, spero che ricorderete i nostri amichevoli rapporti di ieri" dichiarò il nostro eroe.

"Ah, sì! Ebbene, che c'è? Avete passato una buona notte?" Il furore paralizzò per un momento la lingua del signor Goljadkin numero uno.

"L'ho passata benissimo... Ma permettete che vi dica, egregio signore, che il vostro gioco è imbrogliato al massimo..." "Chi lo dice? Questo lo dicono i miei nemici" rispose a scatti colui che si definiva signor Goljadkin, e così dicendo si liberò inaspettatamente dalle deboli mani del vero Goljadkin. Una volta libero, si precipitò giù dalle scale, si guardò intorno e, vista una vettura, vi corse incontro, vi saltò sopra e in un attimo scomparve alla vista del signor Goljadkin numero uno. Disperato e abbandonato da tutti, il consigliere titolare si guardò intorno, ma non c'erano altre vetture. Provò a correre, ma le gambe non lo reggevano. Col viso stravolto, a bocca aperta, chiuso in se stesso, annientato e senza forze, si appoggiò a un lampione e rimase qualche momento così, in mezzo al marciapiede. Sembrava che per Goljadkin tutto fosse perduto...

 

 

NOTE:

  1. Grigorij Otrepev, il monaco che si fece passare per figlio di Ivan il terribile e riuscì a detronizzare Borìs Godunòv, nel 1604. Ma due anni dopo fu ucciso dai cortigiani.

 

 

9.

 

 Sembrava che ogni cosa e la natura stessa si fossero armate contro Goljadkin; ma era ancora in piedi e non ancora vinto; sentiva di non essere vinto. Era pronto alla lotta. Ripresosi dal primo stupore, si stropicciò le mani con tanto sentimento e tanta energia che, al solo vederlo, si sarebbe potuto concludere che Goljadkin non avrebbe ceduto. Del resto, il pericolo era lì, sotto il naso, era evidente; Goljadkin sentiva anche questo, ma come affrontarlo, quel pericolo? Ecco il problema. Per un istante, nella testa di Goljadkin frullò perfino il pensiero se non avrebbe invece dovuto lasciare le cose com'erano e rinunciare, semplicemente. "Be', che c'è? Niente. Io me ne starò per conto mio, come se non fossi io" pensava Goljadkin; "lascio perdere tutto; non sono io, e tutto è finito: lui pure, forse, se ne starà per conto suo; brancolerà un po', il birbante, certo, si rigirerà, ma finirà con il piantarla pure lui. Sicuro, ecco come stanno le cose! Io raggiungerò lo scopo con la rassegnazione. E poi, dov'è il pericolo? E che pericolo c'è? Vorrei proprio che qualcuno mi facesse vedere un pericolo in questa faccenda. E' una cosa da niente! Una storia comunissima!" A questo punto Goljadkin si fermò. Le parole gli morirono in gola; poi arrivò addirittura a insultarsi per quel pensiero e giunse al punto di convincersi di essere un vile e meschino per avere avuto quel pensiero, la faccenda però non si mosse di un'unghia dal punto in cui si trovava. Si rendeva conto che per lui era una inevitabile necessità prendere una decisione in quel preciso momento; si rendeva perfino conto che avrebbe dato chissà cosa a chi gli avesse indicato quale decisione dovesse davvero prendere.

Be', ma come indovinarla? D'altronde, mancava anche il tempo per provare a indovinarla. In ogni caso, per non perdere minuti preziosi, noleggiò una carrozza e via a casa, come il vento.

"Ebbene? come ti senti adesso?" pensò. "Come favorite di sentirvi, Jakòv Petrovic'? che cosa hai intenzione di fare? Che cosa farai adesso, farabutto che sei, canaglia che non sei altro! Ti sei ridotto a questo punto e ora piangi e frigni, eh!" Così prendeva in giro se stesso Goljadkin, sobbalzando sullo scricchiolante trabiccolo del suo "vankal" (1). Stuzzicarsi e rimestare così nelle proprie ferite dava in quel momento a Goljadkin una certa soddisfazione, quasi una voluttà. "Se ora" andava pensando, "mi si presentasse un qualche mago o se, in via ufficiale, mi toccasse fare in un modo piuttosto che in un altro, e mi si dicesse: su, Goljadkin, da' un dito della mano destra e i conti saranno pari: non ci sarà più un altro Goljadkin e tu sarai felice, ma ti mancherà un dito; lo darei immediatamente il dito, senz'altro lo darei, lo darei senza la più piccola smorfia di dolore. Che i diavoli si portino via tutto!" esplose alla fine il disperato consigliere titolare. "Ma via, che cos'è tutto questo?

Ma, insomma, bisognava proprio che capitasse tutto questo, proprio questo, ecco, veramente tutto questo, come se non fosse stato possibile che succedesse qualcos'altro? All'inizio tutto andava a meraviglia, tutti erano felici e contenti; e invece no, doveva capitare proprio questo! Del resto, però, con le parole non risolverai proprio nulla. Bisogna agire." Così, presa quasi una decisione, Goljadkin, entrato nel suo appartamento, senza aspettare un minuto afferrò la pipa e tirando a tutta forza e lanciando sbuffate di fumo a destra e a sinistra, in preda a una grande agitazione, cominciò a camminare velocemente avanti e indietro per la stanza. Intanto Petruska si mise ad apparecchiare la tavola. Finalmente Goljadkin arrivò a una definitiva decisione: mise via la pipa, si buttò il cappotto sulle spalle, disse che non avrebbe pranzato in casa e uscì di corsa dall'appartamento. Sulle scale fu raggiunto da Petruska che, tutto ansimante, gli portava il cappello che aveva dimenticato.

Goljadkin prese il cappello e aveva quasi voglia di trovare una sia pur piccola giustificazione agli occhi di Petruska, perché quello non dovesse pensare a qualcosa di particolare, come, ecco, a una circostanza tale per cui aveva dimenticato il cappello eccetera eccetera; ma, visto che Petruska non volle nemmeno guardarlo, tornandosene subito indietro, Goljadkin, senza perdersi in ulteriori spiegazioni, si ficcò in testa il cappello, scese di corsa le scale e, dicendo tra sé e sé che tutto, forse, si sarebbe risolto per il meglio e che la faccenda, in un modo o nell'altro, si sarebbe aggiustata, anche se tra l'altro sentiva un certo freschetto corrergli addirittura per i calcagni, uscì in strada, noleggiò una vettura e volò da Andréj Filìppovic'.

"Però, non sarebbe meglio rimandarla a domani?" si chiese Goljadkin quando fu sul punto di afferrare il cordone del campanello alla porta dell'appartamento di Andréj Filìppovic'.

"Che gli dirò di speciale? Qui, del resto, di speciale non c'è proprio niente. Si tratta di una faccenda così meschina, in sostanza, proprio così meschina, sì, è una faccenda così meschina, da niente, cioè quasi da niente... è anch'essa, come tutto il resto, una semplice circostanza..." D'improvviso Goljadkin tirò il campanello; il campanello tintinnò e dall'interno arrivò un rumore di passi... A questo punto Goljadkin si maledisse addirittura, vuoi per la sua fretta e vuoi per l'audacia. I recenti dispiaceri, dei quali Goljadkin si era quasi dimenticato tra le faccende d'ufficio e il battibecco di poco prima con Andréj Filìppovic', gli si affacciarono in un lampo alla memoria. Ma ormai era troppo tardi per correre via: l'uscio si aprì. Per fortuna di Goljadkin gli fu detto che Andréj Filìppovic' non era tornato dall'ufficio e che non avrebbe pranzato in casa. "So dove pranza" pensò il nostro eroe. "Pranza al ponte Izmajlovskij," e fu preso da un enorme senso di gioia. Alla richiesta del cameriere che cosa dovesse riferire al signore, rispose: "Digli, amico mio, che io sto bene, che io, amico mio, ripasserò" e di corsa, starei per dire baldanzosamente, ridiscese le scale. Uscito in strada decise di licenziare la vettura e si apprestò a pagare il vetturino. Quando poi il vetturino gli chiese un soprappiù perché: "Signore, vi ho aspettato per un bel po' e per voi non ho risparmiato il cavallo", diede all'uomo un'aggiunta di cinque copechi e lo fece anche volentieri; e poi si avviò a piedi.

"La faccenda, a dire il vero, è combinata in un modo" rimuginava Goljadkin "che non è possibile lasciarla così come sta; d'altronde, a ragionarci su, e a giudicare con buonsenso, che motivo c'è per affannarsi tanto? Suvvia, lo dirò sempre, però, perché mi ci devo tanto affannare? perché affaticarmi, lottare, tormentarmi e battermi? In primo luogo è ormai cosa fatta e tornare indietro non si torna... non si torna, no... Ragioniamo così: si presenta un tizio... si presenta un tizio con una raccomandazione sufficiente, cioè che è un impiegato capace, di ottima condotta, però è povero e è passato attraverso diversi guai - questo e quest'altro... - e poiché, si sa, la povertà non è un vizio, io, dunque, me ne sto in disparte. Be', in verità che razza di assurdità sarebbe mai? Dunque quello si presenta, si sistema, grazie alla natura stessa; quel tizio si sistema e somiglia a un altro uomo come una goccia d'acqua somiglia a un'altra, come se fosse la copia perfetta di quell'altro: sarebbe un motivo questo per non accettarlo al dipartimento? Visto che il destino, soltanto il destino e la cieca natura ci hanno colpa, perché si dovrebbe calpestarlo come un cencio vecchio e non permettergli di prestare servizio? Se dovesse succedere così, dove andrebbe a finire la giustizia? E poi quel tizio è povero, smarrito, spaventato; fa dolere il cuore, e la pietà ci impone di non respingerlo. Sicuro!

non c'è niente da dire... Che razza di superiori sarebbero se ragionassero come me, testa balorda che sono! Ma che zucca è mai la mia! Capace di combinare stupidate per dieci! No, no! Hanno fatto bene e li ringrazio per aver dato aiuto a un poveretto...

Ebbene, sì, ammettiamo, per esempio, di essere gemelli, di essere nati così, sicuro... basta... è tutto qui! Be', che c'è di strano?

Proprio niente, mi pare... E' possibilissimo che tutti gli impiegati ci si abituino... e un estraneo qualsiasi che entrasse nel nostro ufficio non troverebbe certo niente di sconveniente e di offensivo in una circostanza di questo tipo. Anzi, direi che ci sia in essa un non so che di toccante; potrebbe venirne fuori, diciamo, questo pensiero: guarda un po'... la divina Provvidenza ha creato due esseri perfettamente uguali, e i superiori di buon cuore, considerata la divina Provvidenza, hanno accolto i due gemelli. Certo" continuò Goljadkin, tirando il fiato e abbassando un po' la voce, "certo... certo sarebbe meglio che non ci fosse niente, niente di tutto questo, niente di commovente e che non ci fosse nessun gemello... Che il diavolo si porti via tutto! A che scopo era necessario tutto questo? E che bisogno c'era così urgente da non sopportare nessun indugio? Signore dio mio! Ma vedi un po' che razza di pasticcio mi hanno preparato i diavoli! C'è questo, però, che lui ha un caratterino, così puntiglioso e cattivo, è un tale furfante... un tale mascalzone, un tale farfallone e che razza di leccapiatti e... che razza di Goljadkin!... Capace anche di comportarsi male e di sputacchiare sul mio nome, quel farabutto! E adesso tu, ecco, tienilo d'occhio e prenditi cura di lui! Che po' po' di castigo è questo! Del resto, poi, che c'è? Non ce n'è mica bisogno! Be', è un mascalzone, e malscalzone sia... ma l'altro è onesto. Insomma, lui sarà mascalzone, ma io sarò onesto e si dirà, ecco, che questo Goljadkin è un mascalzone e non badategli e non confondetelo con l'altro; quest'altro, invece, è onesto, è un galantuomo, è mite, fidatissimo per tutto ciò che riguarda il servizio e degno che lo si faccia andare su nei gradi, sicuro! Tutto bene, dunque... Ma se quelli là... se quelli là facessero confusione? Da quel tipo c'è da aspettarsi qualsiasi cosa! Ah, Signore mio dio! Quello scalzerà l'altro, lo scalzerà... è un tale mascalzone... scalzerà l'altro come uno straccio vecchio e non penserà che un uomo non è uno straccio. Ah, Signore mio dio! Che infelicità è questa!" Ecco che, rimasticando e ragionando così, Goljadkin andava di corsa senza stare minimamente attento alla strada e senza sapere nemmeno lui dov'era che andava. Si riprese soltanto sul Nevskij Prospèkt, e anche qui per un puro caso, perché andò a sbattere così in pieno e con tanta precisione contro uno che passava da far scaturire scintille. Goljadkin, senza nemmeno alzare la testa, borbottò qualche scusa e soltanto quando il passante, mormorando qualcosa di non troppo lusinghiero, di certo, era già a una certa notevole distanza, alzò il naso e guardò dove si trovasse e come mai fosse capitato lì. Data un'occhiata intorno e accortosi che si trovava proprio vicino a quel ristorante dove si era riposato per prepararsi al gran pranzo in casa di Olsufij Ivànovic', il nostro eroe sentì di colpo certi colpetti e pizzicotti allo stomaco che gli fecero ricordare che non aveva pranzato e che nessun pranzo di gala era prevedibile e perciò, per non perdere altro tempo per lui prezioso, salì di corsa la scala del ristorante per mandare giù un boccone alla svelta, cercando di affrettarsi il più possibile per non fare tardi. E, benché nel ristorante tutto fosse piuttosto caro, questo fatto questa volta non trattenne Goljadkin; non c'era proprio il tempo, ora, per far caso a simili piccolezze.

Nella sala vivamente illuminata, vicino al banco su cui era preparato con grande abbondanza tutto quello che le persone perbene richiedono come antipasto, c'era una discreta folla di clienti. Il cameriere al banco faceva appena in tempo a versare le bevande, a servire, a prendere e a consegnare il denaro. Goljadkin aspettò il suo turno e, quando arrivò, tese modestamente la mano verso un pasticcino ripieno. Ritiratosi in un angolo dando le spalle ai presenti, mangiò con appetito, poi si girò verso il cameriere, posò sul banco il suo piattino e, sapendo già quanto avrebbe dovuto pagare, tirò fuori dieci copechi d'argento e mise la moneta sul banco, cercando di cogliere lo sguardo del cameriere come a dirgli: "Ecco qui, la moneta per un pasticcino ripieno: è qui sul banco..." eccetera eccetera.

"Un rublo e dieci copechi" mormorò tra i denti il cameriere.

Goljadkin rimase sbalordito.

"Dite a me?....Io... io... mi pare di avere un pasticcino solo." "Undici ne avete presi" rimbeccò con sicurezza il cameriere.

"Voi... a quanto mi pare... voi... credo... siete in errore...

Credo davvero di averne preso uno solo." "Li ho contati: avete preso undici pezzi. Dal momento che li avete presi, bisogna pagarli. Qui non si dà niente gratis." Goljadkin era paralizzato. "Che diavolo succede? Che stregoneria si mi stanno facendo?" si chiedeva. Il cameriere, intanto, aspettava che si decidesse; la gente cominciava a farglisi intorno; Goljadkin aveva già ficcato la mano in tasca per tirarne fuori un rublo d'argento e pagare immediatamente e non piombare in pieno in un altro guaio.

"Be' se sono undici, undici siano..." pensava, facendosi rosso come un gambero; "che c'è, infine, di strano che si siano mangiati undici pasticcini? Be'... uno ha fame e si mangia undici pasticcini... be', buon pro gli facciano; e non c'è proprio niente da stupirsi e niente da ridire..." All'improvviso fu come se qualcosa lo avesse punto; alzò gli occhi e... di colpo ecco la rivelazione dell'enigma... della stregoneria, di colpo tutte le difficoltà svanirono... Sulla porta che dava nella sala vicina, quasi dietro la schiena del cameriere e di fronte a Goljadkin, sulla porta che, tra l'altro, il nostro eroe avea fino a quel momento preso per uno specchio, stava dritto un ometto... stava dritto lui, stava dritto lo stesso Goljadkin, non il vecchio Goljadkin, non l'eroe della nostra storia, ma l'altro Goljadkin, il nuovo Goljadkin. L'altro Goljadkin era evidentemente di ottimo umore. Sorrideva al signor Goljadkin primo, gli faceva cenno con la testa, strizzava gli occhietti, sgambettava e guardava come per dire che, se appena appena fosse successo qualcosa, lui se la sarebbe data a gambe nell'altra stanza e di là, magari, per la porta di servizio, si sa... e tutti gli inseguimenti sarebbero stati inutili. Aveva in mano l'ultimo pezzetto del decimo pasticcino ripieno che, proprio davanti agli occhi di Goljadkin, si portò alla bocca, facendo schioccare le dita dal piacere. "Mi ha sostituito, il briccone!" pensò Goljadkin, rosso come il fuoco per la vergogna "non ha avuto un po' di pudore, così in pubblico! Ma gli altri, non lo vedono?

Sembra che nessuno se ne accorga..." Goljadkin gettò il rublo d'argento come se gli scottasse le dita e, rinunciando a fare caso al significativo, insolente sorriso del cameriere, un sorriso di vittoriosa e calma potenza, si fece strada tra la folla e si lanciò fuori senza più guardare indietro. "Posso ringraziarlo che, almeno, non ha definitivamente compromesso un uomo!" pensò il vecchio Goljadkin. "Siano grazie a quel bandito, a lui e al destino, perché tutto è finito bene. Soltanto il cameriere è stato insolente. Ma che c'è poi? era pure nel suo diritto, lui! Faceva un rublo e dieci, perciò era nel suo diritto. L'ha detto: senza denaro da noi non si dà niente! Se almeno fosse stato un po' più garbato, quel fannullone." Tutto questo andava pensando Goljadkin scendendo dalla scala verso l'atrio. All'ultimo gradino, però, si fermò come inchiodato, e di colpo arrossi così violentemente che gli vennero persino le lacrime agli occhi per un eccesso di penoso amor proprio. Dopo essere rimasto immobile come un palo per mezzo minuto, con gesto deciso batté il piede, con un balzo saltò i gradini e si trovò sulla via e senza voltarsi indietro si precipitò a casa sua nella via delle Sei Botteghe. Là, trascurando persino di togliersi la giacca, contrariamente all'abitudine di starsene in casa in libertà e di prendersi come prima cosa la pipa, si mise a sedere in fretta sul divano, avvicinò a sé il calamaio, afferrò la penna, tirò fuori un foglio di carta da lettere e cominciò a scrivere, con mano tremante per l'intima agitazione, la lettera seguente:

"Egregio signor Jakòv Petrovic', non avrei mai preso la penna se le circostanze in cui mi trovo e voi stesso, egregio signore, non mi avessero costretto a farlo.

Credete che soltanto la forza maggiore mi ha costretto ad arrivare a una simile spiegazione con voi e perciò vi prego prima d'ogni cosa di considerare questo mio atto non come una premeditata intenzione di offendervi, egregio signore, ma come una necessaria conseguenza delle circostanze che attualmente ci legano."

"Mi sembra che vada bene, che sia cortese, decorosa, anche se non priva di forza e di decisione, non è vero? Mi pare che qui non ci sia di che offendersi. E, oltre a questo, io sono nei miei diritti" pensò Goljadkin rileggendo le righe già scritte.

"La vostra inattesa e strana comparsa, egregio signore, in una notte burrascosa, dopo il brutale e indecoroso comportamento dei miei nemici, il cui nome ometto in segno di disprezzo, è stato il germe di tutti gli equivoci che attualmente esistono tra noi. La vostra ostinata volontà, egregio signore, di non cedere e di entrare a forza nel cerchio della mia vita e di tutte le contingenze della mia personale attività, va oltre i limiti richiesti dalla sola cortesia e dalla semplice convivenza. Io credo che non sia qui il caso di ricordare l'appropriazione da voi commessa, egregio signore, delle mie carte e in special modo del mio onorato nome per conquistarvi la benevolenza dei superiori, benevolenza da voi non meritata. E non è neppure il caso di ricordare qui le vostre offensive e premeditate acrobazie per evitare le spiegazioni indispensabili al caso. Finalmente, per dire tutto, non voglio nemmeno ricordare qui l'ultimo strano e, si può affermare, incomprensibile vostro comportamento nei miei confronti al caffè. Lontana da l'intenzione di fare questioni per la spesa, per me superflua, di un rublo d'argento; ma non posso esimermi dall'esprimere tutto il mio sdegno al ricordo dell'evidente attentato da voi fatto, egregio signore, a danno del mio onore e, per di più, alla presenza di varie persone, anche se a me sconosciute, ma tuttavia di ottime maniere..."

"Ma forse non oltrepasso i limiti?" pensava Goljadkin. "Non sarà troppo? Non sarà troppo offensiva questa allusione alle buone maniere, per esempio?... Ma no, non importa! Bisogna mostrare fermezza di carattere. Del resto si può, tanto per attenuare, adularlo e ungerlo un po', alla fine. Ma ora si vedrà."

"Ma io non sarei qui a stancarvi con la mia lettera, egregio signore, se non fossi fermamente convinto che la nobiltà dei vostri cordiali sentimenti e il vostro aperto, retto carattere indicheranno a voi stesso i mezzi per riparare a tutte le mancanze e per ristabilire ogni cosa come era in precedenza.

Con questa certezza, oso sperare che voi non considererete la mia lettera offensiva per voi e nello stesso tempo non rifiuterete di darmi precise spiegazioni per iscritto, su questi incidenti, tramite del mio cameriere.

In attesa ho l'onore di essere, egregio signore, il vostro umilissimo servo Ja. Goliadkin."

"Bene, tutto a posto. Ormai la cosa è fatta: siamo arrivati anche a scrivere. Ma chi è il colpevole? E' lui, il colpevole: è lui che mette un uomo nella necessità assoluta di esigere documenti scritti. Ma io sono nel mio diritto..." Dopo aver riletto per l'ultima volta la lettera, Goljadkin la mise nella busta, la sigillò e chiamò Petruska. Petruska comparve, come suo solito, con gli occhi pieni di sonno e irritatissimo per non so che cosa.

"Tu, mio caro, porta questa lettera... capisci?" Petruska taceva.

"Prendila e portala al dipartimento: là cerca l'impiegato di turno, il segretario provinciale Vachrameiev. E' lui di turno, oggi. Capito?" "Sì, capisco." "Capisco! Non puoi dire: capisco, signore? Chiederai dell'impiegato Vachrameiev e gli dirai che per favore così così...: il mio padrone ha ordinato di salutarvi e di chiedervi umilmente di cercare nel libro degli indirizzi del nostro ufficio dove abita il consigliere titolare Goljadkin." Petruska non rispose nulla ma, a quanto sembrò a Goljadkin, fece un sorrisetto.

"Suvvia, dunque: tu, tu, Pjotr, gli chiederai l'indirizzo e saprai dove, dico, dove abita l'impiegato Goljadkin recentemente assunto." "Va bene." "Gli chiederai l'indirizzo e a quell'indirizzo porterai questa lettera. Capito?" "Capisco." "Se là... ecco, se là dove porterai la lettera... quel signore al quale consegnerai la lettera, quel Goljadkin, insomma... che hai da ridere, tanghero?" "Perché dovrei ridere? A me che importa! Non dico niente, io...

Noi non abbiamo niente da ridere..." "Be', ecco... se quel signore ti chiederà per caso come sta il tuo padrone, che cosa fa... se insomma... cercherà di farti parlare, tu taci e rispondigli che, sì, il tuo padrone sta discretamente e prega, per favore, di dargli una risposta di suo pugno. Capito?" "Capisco, signore." "Bene, così, ecco, digli: il mio padrone sta abbastanza bene, digli, e si sta preparando per andare a fare una visita: e vi chiede, digli, una risposta scritta. Capito?" "Capisco." "E allora va'!" "Ma, guarda un po' come ci si deve affaticare con questo tanghero!

Ride dentro di sé, ne sono certo. Ma di che cosa ride? Doveva proprio capitarmi una disgrazia, proprio così doveva capitarmi una disgrazia! Del resto, però, forse le cose volgeranno al meglio...

Questo mascalzone adesso, di certo vagabonderà per due ore almeno e andrà a ficcarsi chissà dove... Non lo si può mandare da nessuna parte. Che disgrazia! Ma guarda che disgrazia mi è capitata tra capo e collo!" Conscio in tal modo della sua disgrazia, il nostro eroe decise di aspettare passivamente il ritorno di Petruska per due ore almeno.

Per circa un'ora misurò avanti e indietro la stanza, fumò, poi mise via la pipa e si mise a sedere con un libro in mano, poi si sdraiò sul divano, poi riprese ancora la pipa, e poi di nuovo cominciò a sgambettare per la stanza. Voleva mettersi a riflettere un po'; ma proprio non ce la faceva. Infine l'agonia di quel suo stato passivo aumentò a tal punto che Goljadkin decise di prendere qualche provvedimento.

"Ci vorrà almeno un'ora prima che Petruska ritorni" pensava; "potrei dare la chiave al portiere e intanto io stesso potrei...

già... potrei indagare un po' sulla faccenda, indagare un po' per conto mio." Senza perdere tempo, per la fretta di mettersi a indagare sulla faccenda, Goljadkin prese il cappello, uscì dalla stanza, chiuse l'appartamento, scese dal portiere, gli diede la chiave e una moneta da dieci copechi - Goljadkin era diventato, chissà come, insolitamente grandioso - e si slanciò là dove doveva. Goljadkin corse a piedi, prima di tutto, al ponte Izmajlovskij. Per arrivarvi ci volle circa mezz'ora. Arrivato alla meta del suo viaggio entrò sparato nel cortile della casa a lui ben nota e diede un'occhiata alle finestre dell'appartamento del consigliere di stato Bernadeiev. Salvo tre finestre con le tendine rosse, tutte le altre erano buie.

"Da Olsufij Ivànovic', oggi, non ci sono certamente visite" pensò Goljadkin; "certamente oggi sono tutti in casa." Dopo aver aspettato un po' in cortile, il nostro eroe voleva decidersi a fare qualche cosa. Ma evidentemente era scritto che la decisione non si dovesse concretare. Goljadkin cambiò idea, agitò a mezz'aria la mano in segno di rassegnazione e tornò in strada.

"No, non è qui che bisognava venire. Che starò a fare qui. Ecco, è meglio che ora io... indaghi particolarmente la faccenda." Presa questa decisione, Goljadkin si avviò di corsa al suo dipartimento.

La distanza non era poca; per giunta la strada era coperta di fango e la neve scendeva a fiocchi grandi e fitti. Ma per il nostro eroe sembrava che in quel momento non esistesse nessuna difficoltà. A dire il vero, era bagnato fino alle ossa, e anche non poco inzaccherato, "ma se deve andare così, pazienza, vada così, però la meta è raggiunta". E in realtà Goljadkin si stava avvicinando alla meta. La cupa massa dell'enorme edificio governativo già si profilava in lontananza davanti a lui.

"Fermati!" pensò "dove mai sto andando e che cosa vado a fare là?

Ammettiamo pure che io venga a sapere dove abita: ma intanto penso che Petruska sia già tornato e mi abbia portato la risposta. Io sto perdendo inutilmente il mio preziosissimo tempo, l'ho proprio già perso, questo mio prezioso tempo. Be', non importa; posso ancora mettere tutto a posto. Però, veramente, perché non passare da Vachrameiev? Ma no. Io, già, dopo.. eh! Non era affatto necessario che uscissi... Proprio no! Ma che caratteraccio! Questo è il mio chiodo fisso: che sia necessario o no, non perdo l'occasione per correre sempre avanti, in un modo o nell'altro...

Già... che ore sono? eh, ormai saranno le nove... Petruska può arrivare da un momento all'altro e non mi troverà in casa. Ho fatto una bella cretinata a uscire... Eh, davvero, che pasticcio!" Sinceramente conscio di aver fatto una vera sciocchezza, il nostro eroe tornò al galoppo verso la via delle Sei Botteghe. Ci arrivò stanco, sfinito. Giù dal portone fu informato che a Petruska non era neppur passato per il cervello di farsi vedere: "Be'... lo immaginavo" pensò il nostro eroe, "e intanto sono già le nove. Ma che razza di mascalzone! Quello è eternamente in giro a ubriacarsi! Signore mio dio! Vedi un po' che razza di giornata mi è capitata in sorte!" così ragionando e arrovellandosi, Goljadkin aprì la porta del suo appartamentino, si procurò una lampada, si svestì, fece una fumatina di pipa, e stanco, sfinito, con le membra rotte si sdraiò sul divano in attesa di Petruska. La candela smoccolava mandando una luce fioca, che oscillava sui muri... Goljadkin guardò, pensò, e infine si addormentò di un sonno profondissimo.

Si svegliò che era già tardi. La candela era ormai quasi del tutto consumata, fumava e stava per spegnersi definitivamente. Goljadkin saltò in piedi, si riscosse e ricordò tutto, proprio tutto. Al di là del tramezzo risuonava il cupo russare di Petruska. Goljadkin si precipitò alla finestra: non una luce, da nessuna parte. Aprì l'anta: silenzio ovunque; la città sembrava morta; era immersa nel sonno. Dovevano dunque essere le due o le tre; l'orologio al di là del tramezzo fece uno sforzo e batté le due. Goljadkin si precipitò dietro il tramezzo.

In un modo o nell'altro, non so come, dopo lunghi tentativi, a furia di scrolloni riuscì a far sedere Petruska sul letto. Intanto la candela si era definitivamente spenta. Passarono circa dieci minuti prima che Goljadkin trovasse un'altra candela e l'accendesse. E, nel frattempo, Petruska si era di nuovo addormentato. "Sei una bella razza di mascalzone, canaglia che non sei altro!" mormorò Goljadkin, riprendendo a scrollarlo: "Vuoi svegliarti e alzarti, sì o no?" Dopo mezz'ora di fatica, Goljadkin riuscì a smuovere completamente il suo domestico e a trascinarlo fuori. Soltanto allora il nostro eroe vide che Petruska era, per così dire, ubriaco fradicio e che a stento si reggeva in piedi.

"Sei un vero ciondolone!" gridò Goljadkin "un brigante matricolato! Mi vuoi decapitare! O Signore, dove mai avrà perduto la lettera? Ah, Creatore mio, perché... perché l'ho scritta? Avevo proprio bisogno di scriverla? A briglia sciolta sono andato, col mio amor proprio, imbecille che sono! Vedi un po' dove diavolo porta l'amor proprio! Eccotelo, l'amor proprio, eccotelo, canaglia che sei! Ehi, tu, dove diavolo hai ficcato la lettera, furfante? A chi l'hai data?" "Non ho consegnato a nessuno nessuna lettera: non avevo nessuna lettera, questo è il fatto." Goljadkin si tormentava le mani in preda alla disperazione.

"Ascolta, Pjotr... ascoltami, su, ascolta." "Ascolto.. ." "Tu dove sei andato? rispondimi..." "Dove sono andato... Sono andato da certa brava gente... Che devo dire?" "Ah Signore mio dio! Dove sei andato, prima di tutto? Sei andato al dipartimento? Ascoltami, Pjotr, eri forse ubriaco?" "Ubriaco, io? Che io non possa più muovermi dal posto se non è vero che sono a bo-bo-bocca asciutta... ecco..." "No, no... non importa che tu sia ubriaco... Te l'ho chiesto soltanto così... E' bene, anzi, che tu sia ubriaco... Non importa, Petruska, non importa affatto... Tu, forse, l'hai soltanto dimenticato, ma ora ricordi tutto. Su, cerca un po' di ricordare se sei stato dall'impiegato Vachrameiev: ci sei stato sì o no?" "Non ci sono stato, e un impiegato così non è mai esistito. Ecco, io anche subito..." "No, no, Pjotr! No, Petruska, lo vedi, no, che io non dico niente?

E che cosa c'è infine? Fuori fa freddo, è umido e se un uomo ha bevuto un tantino di più non è poi un gran male... Non vado mica in collera. Anch'io, caro, oggi ho bevuto... Tu però confessa, cerca di ricordare: ci sei stato dall'impiegato Vachrameiev?" "Be', come fosse adesso, ecco è andata così, parola d'onore; ecco, ci sono stato, ecco, come fosse adesso..." "Suvvia, Petruska, va bene, va bene che tu ci sia stato. Lo vedi che non vado in collera... Su, su..." proseguì il nostro eroe, lisciando sempre di più il suo servo, battendogli sulla spalla e distribuendogli sorrisi; "insomma, canaglia, hai alzato un tantino il gomito... lo hai alzato per dieci copechi? Ah, birbone d'un ubriacone! Ma non importa: lo vedi bene che non vado in collera..." "No, non sono un briccone, come volete voi... Sono andato da certa brava gente e non sono un briccone, non lo sono mai stato..." "Ma no, no, Petruska! Ascoltami, Pjotr, non importa, lo vedi che non voglio mica insultarti chiamandoti briccone. Questo, vedi, te lo dico come consolazione, in senso alto, te lo dico. Questo, Petruska, significa lusingarlo, un uomo, è come dirgli che è un furbo di tre cotte, un giovane in gamba, che non si lascia infinocchiare da nessuno e non permette a nessuno di prenderlo in giro. A certi questo gli piace... Su, su, non importa! Tu dimmi soltanto, Petruska, senza nascondermi niente, francamente come a un amico, dimmi: sei stato dall'impiegato Vachrameiev? Te l'ha dato l'indirizzo?" "L'indirizzo me l'ha dato, anche l'indirizzo mi ha dato. E' un bravo impiegato! Il tuo padrone, dice, è una brava persona, dice, un'ottima persona; io... digli, dice, salutalo, dice, il tuo padrone, ringrazialo e digli che io, dice, gli voglio bene, ecco, come stimo il tuo padrone! Per il fatto, dice, che il tuo padrone, Petruska, è una brava persona, dice, anche tu, Petruska, dice, sei una brava persona... ecco..." "Ah, Signore mio dio! E l'indirizzo, l'indirizzo, giuda che non sei altro?" Le ultime parole Goljadkin le pronunciò con una voce quasi inintelleggibile.

"E anche l'indirizzo, anche l'indirizzo mi ha dato..." "Te l'ha dato? E allora, su, dove abita lui, Goljadkin, l'impiegato Goljadkin, consigliere segreto?" "Goljadkin, dice, lo troverai in via delle Sei Botteghe. Ecco, dice, quando arrivi nella via delle Sei Botteghe, prendi a destra, sali la scala, fino al quarto piano. Ecco, dice, là troverai Goljadkin..." "Furfante matricolato!" gridò infine, perduta la pazienza, il nostro eroe. "Sei un vero brigante! Ma quello sono io; tu stai parlando di me. Ma c'è un altro Goljadkin e è di quest'altro che io parlo, mascalzone!" "Be', come volete... A me che importa! Come volete, ecco..." "Ma quella lettera, quella lettera..." "Quale lettera? Non c'era alcuna lettera, io non no visto alcuna lettera." "Ma dove l'hai ficcata la lettera, mascalzone?" "L'ho consegnata, l'ho consegnata, la lettera. Saluta, dice, ringrazia; è una brava persona, dice, il tuo padrone. Saluta, dice, il tuo padrone..." "Ma chi l'ha detto? L'ha detto Goljadkin?" Petruska rimase un momento zitto e spalancò la bocca in un sorriso, guardando dritto negli occhi il suo padrone.

"Ascolta, brigante, ascolta..." cominciò, ansimando Goljadkin, sconvolto dall'ira. "Che hai fatto di me? Dimmi, che hai fatto di me! Mi hai ucciso mascalzone! Mi hai staccata la testa dal corpo, giuda che non sei altro!" "Be', ora, come volete! Che me ne importa!" disse ritirandosi dietro il tramezzo.

"Vieni qui, vieni qui, brigante!" "Ora non ci verrò da voi, non ci verrò proprio. Che me ne importa!

Io andrò da brave persone... E le brave persone vivono secondo onestà, le brave persone vivono senza ipocrisie e non sono mai doppie..." Goljadkin si sentì tremare le gambe e le braccia e troncare il respiro.

"Sissignore," proseguì Petruska "non sono mai doppie; non offendono Iddio e le persone oneste..." "Tu sei un fannullone, sei ubriaco! Dormi, adesso, farabutto, e domani aggiusteremo i conti!" mormorò con voce appena percettibile Goljadkin. Per quanto si riferisce a Petruska, questi borbottò ancora qualche cosa poi lo si sentì sdraiarsi sul letto tanto che esso scricchiolò, fare uno sbadiglio che non finiva più e stiracchiarsi, e finalmente cominciare a russare, immerso nel sonno, come si dice, del giusto.

Goljadkin non era né vivo né morto. Il modo di comportarsi di Petruska, le sue allusioni molto strane, anche se abbastanza vaghe, per le quali, di conseguenza, non c'era motivo di andare in collera, tanto più perché erano state fatte da un uomo in preda ai fumi dell'alcool e, infine, la piega maligna presa dalla faccenda, tutto questo, insomma, aveva scosso i nervi di Goljadkin. "Mi sono lasciato trascinare a rimproverarlo in piena notte" si disse il nostro eroe, tremando in tutto il corpo per una dolorosa sensazione. "E me la sono presa con un ubriaco! Che cosa ci si può aspettare di utile da un ubriaco? Nemmeno una parola che non sia una bugia! Ma a che alludeva, però, quel brigante? Signore mio dio! E perché ho scritto tutte quelle lettere, assassino che sono?

Io, proprio io, suicida che sono... Non potevi stare zitto?

Bisognava proprio parlare tanto? Ma non vedi che ti stai rovinando? Sei un vecchio straccio, nient'altro, eppure, ecco che te ne esci con l'amor proprio, e il mio onore ci soffre, dici, il mio onore bisogna che lo salvi, dici... un suicida sono, e nient'altro!" Così andava parlando Goljadkin seduto sul divano, senza nemmeno osare di muoversi per la paura. All'improvviso i suoi occhi si fissarono su un oggetto che aveva suscitato al massimo la sua attenzione. In preda alla paura - non era un'illusione, non era un inganno della sua fantasia quell'oggetto che aveva suscitato la sua attenzione - allungò verso di esso la mano con speranza, con timidezza, con indescrivibile curiosità... No, non era un inganno, non era un'illusione! Una lettera, proprio una lettera, senza dubbio una lettera indirizzata a lui... Goljadkin prese la lettera dal tavolo. Il cuore gli batteva dolorosamente. "Certamente l'ha portata quel mascalzone" precisò, "l'ha portata lì e poi non se ne è più ricordato; certo le cose sono andate così..." La lettera era dell'impiegato Vachrameiev, giovane collega d'ufficio di Goljadkin. "Del resto io, tutto ciò l'avevo previsto" pensò il nostro eroe, "e ho previsto anche tutto quello che ora ci sarà nella lettera..." La lettera era la seguente:

"Egregio signor Jakòv Petrovic', il vostro servo è ubriaco e da lui non c'è da aspettarsi niente di sensato; e per questo motivo preferisco rispondervi per scritto.

Mi affretto a dichiararvi che l'incarico da voi datomi e che consiste nel consegnare domattina alla persona a voi nota una lettera, acconsento a eseguirlo con tutta fedeltà e precisione.

Questa persona, a voi ben nota, e che ora costituisce per me un amico, il cui nome qui ometto (perché non voglio inutilmente macchiare la reputazione di un uomo assolutamente innocente) abita con noi, nell'appartamento di Karolina Ivànovna, proprio nella camera in cui prima, durante la vostra permanenza da noi, abitava un ufficiale di fanteria che veniva da Tambòv. Del resto, questa persona la potete trovare dovunque, tra le persone oneste e sincere, cosa che di altra gente non si può dire. Ho intenzione di interrompere oggi stesso i miei rapporti con voi; non è possibile che si resti sul terreno dell'amicizia e del nostro buon accordo di colleghi come prima, e perciò vi prego, egregio signore, appena avrete ricevuto questa mia sincera lettera, di farmi avere i due rubli d'argento che mi dovete per quei rasoi di fabbricazione estera, da me vendutivi a credito, se favorite ricordarvene, sei mesi or sono, ancora durante il periodo della vostra permanenza con noi da Karolina Ivànovna che io stimo con tutta l'anima mia.

Io agisco così perché voi, secondo quanto dicono le persone intelligenti, avete perso l'amor proprio e la reputazione e siete diventato pericoloso per gli uomini innocui e non corrotti, poiché alcune persone non vivono secondo verità e, soprattutto, le loro parole sono false e il loro aspetto di benpensanti fa essere sospettosi. Quanto poi a prendere le difese per l'ingiuria recata a Karolina Ivànovna - che è sempre stata donna di buona condotta e in secondo luogo, donna onesta e per giunta ragazza, anche se non più giovane, però di ottima famiglia straniera - si troverà sempre gente disposta a farlo, della qual cosa alcuni mi hanno pregato di accennare, così, di sfuggita, in questa mia lettera e parlando a loro nome. In ogni caso saprete tutto al momento opportuno se ancora non siete venuto a saperlo, nonostante vi abbiano spubblicato, a sentire le persone intelligenti, da un capo all'altro della capitale e, di conseguenza, abbiate già potuto ricevere, in molti posti, le dovute notizie, egregio signore, su di voi. A conclusione della mia lettera vi dichiaro, egregio signore, che la persona a voi conosciuta, il cui nome non riporto qui per le note, nobili ragioni, è molto stimata dalla gente perbene; inoltre è di carattere allegro e simpatico, nel suo servizio d'ufficio dà ottimi risultati; come tutte le persone perbene, tiene fede alla propria parola e all'amicizia e non offende in loro assenza quelli con i quali, in presenza, è in amichevoli rapporti.

In ogni caso mi firmo l'umile vostro servitore

N. Vachrameiev.

 

P.S. Cacciate via il vostro servo: è un ubriacone e vi procurerà, con tutta probabilità, molte seccature, e assumete Evstafij, che un tempo serviva da noi e che è attualmente disoccupato. Il vostro attuale servo non soltanto è un ubriacone, ma soprattutto è un ladro, poiché ancora la settimana scorsa ha venduto una libbra di zucchero in pezzi a Karolina Ivànovna con riduzione di prezzo, il che, secondo la mia opinione, ha potuto fare soltanto derubandovi con abile astuzia, a poco a poco, in diverse volte. Vi scrivo questo, desiderando il vostro bene, nonostante che alcune persone sappiano soltanto offendere e ingannare la gente, e soprattutto la gente onesta e dotata di buon carattere, e oltretutto, la denigrano alle spalle e la fanno apparire il contrario di quella che è, unicamente per invidia e perché esse stesse non possono essere chiamate tali.

V."

Dopo aver letto tutta la lettera di Vachrameiev, il nostro eroe restò ancora a lungo immobile sul divano. Una nuova luce si faceva strada attraverso la vaga e misteriosa nebbia in cui da due giorni si sentiva avvolto. Il nostro eroe cominciava in parte a capire...

stava già per provare ad alzarsi dal divano e passeggiare un po' per la camera, per schiarirsi le idee, raccogliere i pensieri dispersi, qua e là, fissarli tutti verso il noto oggetto e poi, dopo essersi un po' ripreso, meditare sulla sua condizione. Ma, appena volle sollevarsi, ricadde immediatamente, impotente e senza forze, al posto di prima.

"Anche questo, naturalmente, l'avevo previsto; però in che modo scrive e qual è il vero senso delle sue parole? Questo senso, ammettiamolo, lo conosco, ma dove ci porterà? Se avesse detto chiaro e tondo: ecco, le cose sono così e così, si vuole questo e quest'altro, io forse lo farei anche. Ma la piega, l'indirizzo preso dalla faccenda diventa così spiacevole! Ah! in che modo arrivare velocemente a domani e arrivare più presto al fatto? Ma ora io so cosa fare. Le cose stanno così e così, dirò, sono d'accordo sulle ragioni, il mio onore non lo venderò, ma quello...

magari; d'altronde, lui, quella nota persona, quel personaggio della malora, perché mai ci si è immischiato? E perché ci si è proprio immischiato? Ah, se potessi arrivare presto a domani! Fino a quel momento intanto loro mi denigreranno, non fanno che intrigare e lavorare contro di me! L'importante è che non bisogna perdere tempo, e ora, per esempio, è necessario scrivere una lettera e riuscire a spiegare che, sì, le cose stanno in quel modo e che su questo e su quell'altro io sono d'accordo. E domani, non appena farà giorno, spedirla e io, ancora prima... lanciarmi allo sbaraglio contro di loro da un'altra parte e prevenirli, i colombelli... Essi mi denigreranno, e basta!" Goljadkin avvicinò a sé un foglio, prese la penna e scrisse la lettera seguente, in risposta alla lettera del segretario provinciale Vachrameiev:

"Egregio signor Nestor Ighnàtevic', con profondo rammarico del mio cuore ho letto la vostra per me offensiva lettera, poiché vedo chiaramente che, parlando di alcune disoneste persone e di certa gente falsamente benintenzionata, voi intendete alludere a me. Vedo con sincero dolore come la calunnia abbia rapidamente e con successo fatto presa, a scapito della mia tranquillità, del mio onore e del mio buon nome. E questo è tanto più triste e più umiliante in quanto anche le persone oneste, dotate di un pensiero veramente elevato e soprattutto dotate di un carattere retto e aperto, rinunciano a occuparsi degli interessi della gente perbene e si attaccano con le migliori qualità del loro cuore al malefico marciume che per disgrazia pullula a tutto spiano, con le intenzioni più cattive, in questi nostri tempi penosi e immorali. In conclusione vi dirò che il mio debito, cui avete accennato, di due rubli d'argento, ve lo pagherò fino all'ultimo centesimo come un sacro dovere.

Per quanto poi si riferisce, egregio signore, alle vostre allusioni a proposito della nota persona di sesso femminile, circa le intenzioni, i calcoli e i vari progetti della suddetta persona, vi dirò, egregio signore, che io confusamente e vagamente ho capito tutte quelle allusioni. Permettetemi, egregio signore, di conservare senza macchia il mio nobile modo di pensare e il mio nome onorato. In ogni caso, poi, sono pronto a venire a una spiegazione verbale, preferendo l'esattezza che ne deriva a uno scritto, e sono soprattutto pronto a intavolare pacifiche e, si capisce, reciproche trattative. A questo scopo, vi prego, egregio signore, di trasmettere a quelle persone la mia buona disposizione a un'intesa personale e soprattutto di chieder loro di stabilire il giorno e l'ora dell'incontro. E' stato per me amaro leggere, egregio signore, le allusioni al fatto che io vi avrei offeso, avrei tradito la vostra amicizia di un tempo e avrei sparlato di voi. Attribuisco tutto questo a un equivoco, a un'infame calunnia, all'invidia e all'ostilità di coloro che giustamente io posso definire miei più feroci nemici. Ma essi, certamente, non sanno che l'innocenza è forte della sua stessa innocenza, che l'impudenza, la spudoratezza e la familiarità che muove a sdegno di certe persone, presto o tardi saranno marchiate dal disprezzo universale, e che quelle persone non si rovineranno se non per la disonestà e la depravazione del proprio cuore. In conclusione vi prego, egregio signore, di riferire a quelle persone che le loro strane pretese e il loro basso, fantastico desiderio di far sloggiare altri limiti da questi stessi occupati con la propria esistenza in questo mondo e di usurparne il posto, meritano meraviglia, disprezzo e commiserazione e, in più, il manicomio; che, inoltre, un simile modo di agire è severamente vietato dalle leggi, il che, secondo la mia opinione, è giustissimo, poiché ognuno deve essere contento del proprio posto. A tutto c'è un limite e, se questo è uno scherzo, è uno scherzo disonesto, dirò di più: del tutto immorale, poiché oso assicurarvi, egregio signore, che le mie idee, prima esposte, a proposito dei propri posti, sono nettamente morali.

"In ogni caso ho l'onore di essere il vostro umilissimo servitore

Ja. Goljadkin."

 

 

NOTE:

  1. Diminutivo di Ivan, nome russo diffusissimo, col quale si indicava sia il vetturino di piazza sia il suo veicolo malridotto e il cavallo, ugualmente malridotto.

 

 

10.

 

 Si può ben dire che gli avvenimenti del giorno prima avevano profondamente scosso Goljadkin. Il nostro eroe passò una pessima notte, cioè non riuscì assolutamente a dormire nemmeno per cinque minuti, come se qualche burlone avesse cosparso il suo letto di setole fatte a pezzetti. Passò tutta la notte in una specie di dormiveglia, girandosi da una parte e dall'altra, ora su un fianco ora sull'altro, esclamando, ansimando, prendendo sonno per un istante e dopo un istante svegliandosi di nuovo, e tutto ciò accompagnato da una strana angoscia, da confusi ricordi, da orrende visioni... in una parola, da tutto ciò che si può trovare di più sgradevole... Ora gli appariva davanti, immersa in una strana, misteriosa penombra, la figura di Andréj Filìppovic'; una figura asciutta, scontrosa, dallo sguardo freddo, crudele, con quel suo rimbrottare rigido e cortese... Ma, non appena Goljadkin cominciava ad avvicinarsi ad Andréj Filìppovic' per giustificarsi in certo qual modo ai suoi occhi, così e così, e dimostrargli che lui non era come lo dipingevano i suoi nemici, che, ecco, lui era questo e quello, e che anzi aveva, oltre alle comuni innate sue qualità, anche questo e quest'altro... ecco che appariva immediatamente la persona nota per le sue basse intenzioni e, con qualche espediente dei più stomachevoli, in un colpo solo demoliva tutte le sue iniziative e proprio lì, quasi sotto il naso di Goljadkin, diffamava energicamente la sua reputazione, calpestava nel fango il suo amor proprio e poi, senza perdere tempo, prendeva il suo posto nell'ufficio e in società. Ora Go]jadkin sentiva un certo prurito alla testa causato da qualche scappellotto, da poco tempo ben meritato e umilmente accettato, ricevuto o nella vita comune oppure là in servizio, colpettino contro il quale era difficile protestare... E, mentre Goljadkin cominciava già ad arrovellarsi il cervello sul perché fosse tanto difficile protestare, anche solo per quello scappellotto, questo pensiero sullo scappellotto andava assumendo insensibilmente un'altra forma; la forma di una qualche piccola nota, o abbastanza notevole, viltà vista, sentita o da lui stesso compiuta non da molto tempo; e spesso compiuta persino per una ragione non bassa, e persino anche non per un basso impulso qualsiasi, ma così... a volte, tanto per dire, per caso, per delicatezza, un'altra volta a causa della sua assoluta mancanza di protezioni e, infine perché... perché... insomma Goljadkin lo sapeva bene questo "perché"! A questo punto Goljadkin arrossiva nel sonno e, cercando di reprimere il suo rossore, borbottava tra sé che, per esempio, si poteva in questo caso far vedere la propria fermezza di carattere... ma poi concludeva: "Ma che fermezza di carattere!

perché ricordarla proprio adesso?" Ma, soprattutto, ossessionava e irritava Goljadkin il fatto che proprio lì e immancabilmente in quel preciso momento, lo chiamassero o no, appariva il personaggio noto per i suoi mostruosi e grotteschi propositi e, nonostante che, a quanto sembrava, la cosa fosse già risaputa, anche lui borbottava con un vile sorrisetto: "Ma che c'entra qui" diceva, "la fermezza di carattere? Quale fermezza di carattere può essere la mia e la tua, Jakòv Petrovic'?..." Ora Goljadkin sognava di trovarsi in un'ottima compagnia, famosa per lo spirito arguto e per il tono di alta distinzione di tutte le persone che ne facevano parte; che Goljadkin, da parte sua, si era distinto per il suo comportamento cortese e arguto; che tutti gli volevano bene, e persino qualcuno fra i suoi nemici che si trovavano lì aveva cominciato a nutrire affetto per lui, il che gli era molto gradito; che tutti gli avevano decretato il primo posto e che infine Goljadkin stesso aveva sentito con suo grande piacere che il padrone di casa, tirato in disparte uno degli ospiti, aveva fatto le lodi del signor Goljadkin... e all'improvviso, di punto in bianco, era di nuovo apparso il personaggio noto per i suoi cattivi propositi e i suoi bestiali impulsi, sotto l'aspetto del signor Goljadkin numero due, e proprio lì, di colpo, in un attimo, con la sua sola comparsa, il signor Goljadkin numero due aveva fatto precipitare tutta la gloria e il trionfo del signor Goljadkin numero uno, aveva oscurato con la sua presenza il Goljadkin numero uno, aveva calpestato nel fango il Goljadkin numero uno, e, infine, aveva chiaramente dimostrato che il Goljadkin numero uno e al tempo stesso l'autentico, non era affatto l'autentico, ma il falso e, che l'autentico era lui, che infine il Goljadkin numero uno non era assolutamente quello che sembrava, ma ora questo, ora quello, e, di conseguenza, non doveva avere e non aveva il diritto di far parte della società delle persone perbene e dalle maniere distinte. E tutto questo era accaduto così in fretta, che il signor Goljadkin numero uno non aveva fatto in tempo ad aprire bocca che già tutti si erano dati anima e corpo allo scandaloso e falso Goljadkin e con profondo disprezzo avevano ripudiato lui, il vero e innocente Goljadkin. Non c'era più nemmeno una persona a cui lo scandaloso Goljadkin non avesse in un lampo fatto cambiare opinione a modo suo. Non rimaneva una persona, nemmeno la più insignificante dell'intera compagnia, intorno alla quale l'inutile e falso Goljadkin non avesse fatto il leccapiedi nel modo più sdolcinato, a cui non avesse fatto l'occhiolino a modo suo, di fronte alla quale non avesse fatto bruciare, secondo la sua abitudine, i più dolci e più gradevoli aromi, cosicché la persona, avvolta in quella nuvola di profumo, non faceva che annusare e starnutire fino alle lacrime, in segno di supremo piacere. E, soprattutto, questo succedeva in un lampo: la rapidità di movimenti del sospetto e inutile signor Goljadkin era sorprendente! Ha fatto appena in tempo, per esempio, a scodinzolare intorno a uno e a guadagnarsene la benevolenza che - e in un amen - eccolo già da un altro. Scodinzola, scodinzola pian piano intorno a quest'altro, strappa un sorrisetto di benevolenza, slancia la sua gambotta corta e paffuta, e del resto, abbastanza legnosa, e eccolo già vicino a un terzo; corteggia il terzo e liscia amichevolmente anche quello; non fai in tempo ad aprire bocca, non fai in tempo a dire "ah!" per lo stupore, che lui è già dal quarto e col quarto è già a posto; è una cosa orribile, una stregoneria, e basta! E tutti sono contenti, tutti gli vogliono bene e tutti lo portano alle stelle e proclamano a gran voce che la sua amabilità e la sua intelligenza così portata alla satira non sono nemmeno paragonabili all'amabilità e alla tendenza satirica dell'autentico Goljadkin, e coprono così di vergogna l'autentico e innocente Goljadkin e ripudiano il verosimile Goljadkin e cacciano a spintoni il benintenzionato Goljadkin e fanno piovere piccoli scappellotti sul famigerato per il suo amore verso il prossimo, sull'autentico Goljadkin...

Pieno di angoscia, di terrore, fuori di sé, quel povero martire del signor Goljadkin si precipitò di corsa in strada e noleggiò una vettura per volare dritto dritto da sua eccellenza e, se non da lui, almeno da Andréj Filìppovic', ma... orrore! i vetturini non volevano in nessun modo saperne di portarlo: "Non è possibile, signore, non è possibile" dicevano, "portare due persone perfettamente uguali; una brava persona, vostra signoria, si ingegna di vivere secondo onestà e non come che sia, e mai con una doppia vita." Pieno di stupefatta vergogna si guardava intorno, l'onestissimo signor Goljadkin, e si convinceva lui stesso, con i propri occhi, che i vetturini e Petruska, tutti in comunella, erano nel loro diritto; poiché anche il depravato signor Goljadkin era davvero lì, vicino a lui, a non grande distanza, e, seguendo anche lì le ignobili abitudini del suo carattere, anche in quel critico caso, si preparava senza dubbio a fare qualcosa di molto sconveniente, che non mostrava affatto la particolare elevatezza di carattere che si acquista di solito con l'istruzione; elevatezza di cui, a ogni favorevole occasione, tanto si gloriava il disgustoso signor Goljadkin numero due. Fuori di sé, in preda alla vergogna e alla disperazione, il perduto e assolutamente onesto signor Goljadkin si lanciò dove lo portavano le gambe, alla mercé del destino, non importava dove; ma a ogni suo passo, ogni volta che posava il piede sul granito del marciapiede, saltava su, come da sottoterra, un altro odioso signor Goljadkin, perfettamente uguale per depravazione di cuore. E tutti costoro, assolutamente simili uno all'altro, subito dopo la loro comparsa si mettevano a correre uno dietro l'altro, in una lunga fila, come una schiera di oche, e si trascinavano arrancando dietro al signor Goljadkin numero uno, e non c'era modo di sfuggire a questi tipi perfettamente identici, e il signor Goljadkin degno in tutti i modi di commiserazione, si sentì troncare il fiato per l'orrore; e venne fuori, infine, una spaventosa quantità di esseri perfettamente uguali, e tutta la capitale fu invasa, infine, da quegli esseri perfettamente simili, e un agente di polizia, vedendo una tale violazione al decoro, fu costretto a prendere quegli uomini perfettamente simili per la collottola e a farli entrare in una guardina che si trovava per caso lì di fianco...

Agghiacciato dall'orrore, il nostro eroe si svegliava e agghiacciato dall'orrore sentiva che anche nella realtà il tempo non scorreva con maggiore allegria... aveva una sensazione di pesantezza, di tormento... Lo prendeva una tale angoscia, come se qualcuno gli rodesse il cuore in petto...

Infine Goljadkin non poté più resistere. "Questo non accadrà!" gridò, sollevandosi sul letto con decisione, e dopo questa esclamazione si svegliò del tutto.

Il giorno, evidentemente, era iniziato da un bel po'. Nella stanza sembrava che ci fosse più luce del solito; i raggi del sole filtravano attraverso i vetri ricoperti di ghiaccio e si diffondevano per la camera, cosa che meravigliò parecchio Goljadkin, poiché forse soltanto verso mezzogiorno il sole faceva capolino nella stanza: nel passato, di simili eccezioni nel cammino del celeste astro, almeno secondo quanto Goljadkin stesso poteva ricordare, non c'erano quasi mai state. Il nostro eroe aveva appena fatto in tempo a meravigliarsi che l'orologio a muro dietro il tramezzo prese a ronzare, e si preparò decisamente a battere le ore. "Ah, ecco!" pensò Goljadkin e, in preda ad angosciosa attesa, si preparò ad ascoltare... Ma, a definitiva e completa sconfitta di Goljadkin, l'orologio fece un enorme sforzo e batté, a conti fatti, un solo colpo. "Che storia è questa?" esclamò il nostro eroe, balzando completamente dal letto. Così com'era, non potendo credere alle proprie orecchie, si lanciò dietro il tramezzo. Sull'orologio era veramente il tocco.

Goljadkin diede un'occhiata al letto di Petruska; ma, nella stanza, di Petruska non c'era nemmeno l'odore: il letto, evidentemente, era stato rifatto e lasciato da un pezzo; non c'erano da nessuna parte nemmeno i suoi stivali; indiscutibile segno che Petruska veramente non si trovava in casa. Goljadkin si precipitò alla porta: era chiusa. "Ma dov'è mai Petruska?" proseguì in un sussurro, tutto preso da un tremendo turbamento e sentendo un forte tremore per tutte le membra... All'improvviso un pensiero gli si affacciò... Goljadkin si lanciò verso il tavolo, lo guardò bene, rovistò dappertutto: proprio così... La sua lettera della sera prima a Vachrameiev non c'era più... Dietro al tramezzo non c'era nemmeno Petruska; l'orologio a muro segnava l'una e nella lettera di Vachrameiev del giorno avanti erano stati introdotti alcuni nuovi periodi, al primo sguardo, però, assai poco chiari, ma ora del tutto spiegabili. Finalmente anche Petruska! l'evidentemente prezzolato Petruska! Sì, sì, era proprio così!

"Ecco come andava stringendosi il nodo più importante!" esclamò Goljadkin, battendosi la fronte e spalancando sempre di più gli occhi; "è dunque nel nido di quella spilorcia tedesca che ora si nasconde soprattutto la forza impura! Allora era allora solo una diversione strategica quella che faceva, indicandomi il ponte Izmajlovskij; mi gettava polvere negli occhi, mi voleva confondere (maledetta strega!) ecco come ha preparato le sue insidie! Sì, è così! Solo guardando la faccenda da questo lato, tutto appare proprio così! E si spiega anche perfettamente la comparsa del farabutto! Tutto tende alla stessa meta. Da parecchio tempo lo tenevano là, lo preparavano e lo avevano come riserva per i giorni neri. Ecco come stanno ora le cose, come tutto si è chiarito! Come tutto si è risolto! Ma non importa! Siamo ancora in tempo!" A questo punto Goljadkin ricordò con terrore che era già l'una dopo mezzogiorno. "E, se ora essi avessero fatto in tempo a...". Un gemito uscì dal suo petto... "Ma no, sono fandonie, non hanno fatto in tempo, ora vedremo..." Si vestì in fretta e furia, afferrò un foglio di carta, prese la penna e stese la lettera seguente:

"Egregio signor Jakòv Petrovic', o voi o io, ma tutti e due insieme è impossibile! E perciò vi dichiaro che lo strano, ridicolo e insieme impossibile vostro desiderio di sembrare il mio gemello e di presentarvi come tale non serve che a vostro completo disonore e sconfitta. Perciò vi prego, a giovamento del vostro personale vantaggio, di farvi da parte e di fare largo alle persone veramente nobili e dalle nobili intenzioni. In caso contrario sono pronto ad arrivare a misure estreme. Poso la penna e aspetto... Mi tengo, però, a vostra disposizione, vostra e... delle pistole.

J. Goliadkin"

Il nostro eroe, compilato il biglietto, si stropicciò vigorosamente le mani. Poi, infilato il cappotto e calcato il cappello, aprì con un'altra chiave di riserva la porta di casa e si avviò al dipartimento. Fino al dipartimento ci arrivò, ma a entrare non si decise; in realtà era troppo tardi: le due e mezzo segnava ormai l'orologio di Goljadkin... All'improvviso una circostanza, a prima vista di pochissimo rilievo, gli chiarì alcuni dubbi: da dietro l'angolo dell'edificio del dipartimento comparve ad un tratto una figuretta ansimante e rossa in viso che furtivamente, con andatura da topo, sgattaiolò sulla scala e poi nell'ingresso. Era lo scrivano Ostafev, un uomo ben conosciuto da Goljadkin, un tipo a volte veramente necessario, e pronto, per una monetina da dieci copechi, a qualsiasi cosa. Poiché conosceva il punto debole di Ostafev e aveva capito che quello, dopo un'assenza per una urgentissima necessità, era probabilmente ancora più avido di prima di monetine da dieci copechi, il nostro eroe prese la decisione di non risparmiarle e immediatamente sgattaiolò anche lui sulla scala e poi nell'ingresso, sulle orme di Ostafev, lo chiamò ad alta voce e con aria di mistero lo tirò in disparte, in un angoletto isolato, dietro un'enorme stufa di ghisa. Dopo averlo portato lì, il nostro eroe cominciò una specie di interrogatorio.

"Be', amico mio, come vanno le cose là dentro... tu mi capisci, vero?" "Ascolto, vostra signoria, e auguro salute a vostra signoria." "Bene, amico mio, bene: e io ti ringrazio, caro amico. Vedi dunque, come stanno le cose?" "Che cosa desiderate darmi domani?" E a questo punto Ostafev coprì un po' con le mani la bocca che, senza intenzione, gli si era spalancata.

" Io, ecco... vedi, amico mio, io... quello... ma tu non pensare niente, sai... Dunque. Andréi Filìppovic' è qui? " "Sissignore, è qui." "E anche gli impiegati ci sono?" "Sissignore, e anche gli impiegati, come deve essere." "E c'è anche sua eccellenza?" "Anche sua eccellenza, signore." E qui lo scrivano ancora una volta frenò la bocca che gli si spalancava e guardò con una certa strana curiosità Goljadkin, così sembrò, almeno, al nostro eroe.

"E non c'è niente di speciale, amico mio?" "Niente, signore, assolutamente niente, signore." "E dunque sul mio conto, caro amico, non c'è qualcosa, insomma soltanto qualcosa così? Soltanto così, capisci, amico mio, capisci?" "No, signore, finora non si è ancora sentito dire niente." Di nuovo lo scrivano frenò la lingua e di nuovo guardò in modo strano Goljadkin. Il fatto è che il nostro eroe si sforzava ora di penetrare nelle espressioni di Ostafev, di leggere in esse se non gli si nascondeva qualcosa. E in realtà, sembrava che qualcosa di nascosto ci fosse; il fatto è che Ostafev stava diventando più rude e asciutto e partecipava ora alla conversazione del signor Goljadkin non più con l'interesse di prima. "In parte è nel suo diritto" pensava Goljadkin; "che gli importa di me? Con ogni probabilità, ha già beccato qualcosa dall'altra parte e per questo forse si è allontanato per qualche urgentissima necessità. Ma io, ecco, a lui..." Goljadkin capì che era il momento giusto per la monetina. "Eccoti, caro amico..." "Sono vivamente grato alla signoria vostra." "Te ne darò ancora altre..." "Vi ascolto, vostra signoria." "Ora, subito te ne darò altre e, ad affare compiuto, altre ancora.

Capisci?" Lo scrivano taceva, stava sull'attenti e, immobile, guardava Goljadkin.

"Be', ora dimmi: non si sente dire niente sul mio conto?" "Mi pare che per ora... di quello... ancora niente... per ora..." Ostafev rispondeva scandendo bene le parole e, sbirciando anche lui con aria un po' misteriosa e sollevando le sopracciglia, teneva gli occhi a terra, cercando di usare il tono adatto e, in una parola, cercava con tutte le forze di guadagnarsi quanto promesso, poiché ciò che gli era stato già dato lo riteneva ormai suo e definitivamente acquisito.

"E non si sa niente?" "Per ora ancora no." "Ma ascolta... di quello... forse si saprà qualcosa?" "Poi, si capisce, forse verrà risaputo." "Andiamo male!" pensò il nostro eroe.

"Ascolta, eccoti ancora questo, caro amico." "Sono vivamente grato alla signoria vostra." "Vachrameiev è stato qui ieri?" "Si, signore, c'è stato." "E non c'è stato qualcun altro? Cerca di ricordartene, fratello." Lo scrivano frugò un momento nella sua memoria e non ci trovò niente di notevole.

"No, signore, non c'è stato nessun altro." "Già..." Seguì un silenzio. "Ascolta, caro, eccoti ancora; dimmi tutto, tutto, da cima a fondo." "Vi ascolto." Ostafev era mansueto come un agnello, ora; proprio quello che serviva a Goljadkin.

"Spiegami, ora, mio caro, di che umore è..." "Non c'è male, va bene, signore..." rispose lo scrivano, guardando a occhi spalancati Goljadkin.

"Cioè, come bene?" "Cioè, così..." E Ostafev sollevò significativamente le sopracciglia. Però, decisamente cominciava a perdere la tramontana e non sapeva che altro dire. "Andiamo male!" pensò Goljadkin.

"Non c'è qualcosa di nuovo, su, a proposito di Vachrameiev?" "Tutto come prima." " Pensaci bene..." "C'è, si dice." "Be', che c'è dunque?" Ostarev trattenne la bocca con la mano.

"Non c'è una lettera per me, là?" "Oggi il custode Micheiev è andato in casa di Vachrameiev là, da quella loro tedesca; ci andrò, dunque, e mi informerò, se serve." "Fammi il favore, caro, in nome del Creatore! Soltanto così io...

tu, caro, non pensare a chi sa che cosa, io soltanto così... E chiedi, caro, informati se non stiano preparando là qualcosa che mi riguardi. Lui come agisce? Ecco cosa mi serve sapere: tu informatene, caro, e io poi ti ricompenserò, caro amico..." "Sto ascoltando, signoria, ma al vostro posto oggi è seduto Ivàn Semjonyc'." "Ivàn Semjonyc'? Davvero? possibile?" "Andréj Filìppovic' glielo ha ordinato..." "Possibile? Ma come mai? Informati di questo, mio caro, informatene, in nome del Creatore! informati di tutto e io te ne sarò grato, mio caro; ecco ciò che serve... Ma tu, caro, non pensare a chissà che cosa..." "Ascolto, signore, ascolto... Ora andrò sùbito là. Ma voi, signoria, oggi non entrate?" "No, amico mio; io soltanto così... sono venuto soltanto a dare un'occhiata, caro amico, e poi ti sarò grato, amico mio." "Ascolto, signore." Lo scrivano si avviò in fretta, pieno di zelo, su per la scala e Goljadkin restò solo.

"Andiamo male!" pensò. "Eh, sì, la nostra faccenduola si mette maluccio! Ma tutto questo che cosa starebbe a significare? Che cosa volevano dire certi accenni di questo beone, per esempio, e di chi è questo scherzetto? Ah, ora lo so ben io, di chi è... Ecco che razza di scherzetto è questo. Loro certamente hanno saputo e hanno insediato... Però, che vuol dire 'hanno insediato?'. E' stato Andréj Filìppovic' a insediarlo, quell'Ivàn Semjonyc'...; si, però, perché ce l'ha insediato e con quale scopo, di preciso?

Certamente hanno saputo... Questo Vachrameiev lavora, cioè, non Vachrameiev, lui è stupido come una gallina, quel Vachrameiev; ma tutti loro lavorano per lui, e anche quel furfante lo hanno aizzato loro, qui; e quella guercia di tedesca ha fatto le sue lamentele! L'ho sempre sospettato, io, che tutto questo intrigo avesse uno scopo e che in tutto questo spettegolare di donnicciole e di vecchiette ci fosse, senza ombra di dubbio, qualche cosa; la stessa cosa la dicevo anche a Krestjàn Ivànovic', e cioè che avevano cercato di uccidere, parlando dal lato morale, un uomo, e si erano aggrappati a Karolina Ivànovna. Sì, si vede che qui lavora della gente in gamba! Qui, signore mio, lavora una mano sopraffina, e non Vachrameiev. Già si è detto che Vachrameiev è stupido e io so, adesso, chi è che lavora qui per tutti loro: è il mascalzone che ci lavora, è l'impostore! Solo a questo si attacca, il che spiega in parte la sua fortuna nell'alta società. E realmente, sarebbe necessario sapere di che umore è adesso... che cosa succede lì, da loro... Però, a che scopo hanno preso Ivàn Semjonyc'? per che diavolo avevano bisogno di Ivàn Semjonyc'? Come se non fosse possibile pescarne un altro. Del resto, chiunque altro avessero preso, le cose non cambiano; ciò che io so soltanto è questo, che lui, quell'Ivàn Semjonyc', da un pezzo mi sembrava sospetto e da un pezzo lo tenevo d'occhio, è un così sudicio vecchiaccio, così schifoso, dicono, presta denaro e pretende interessi da giudeo. Ma in tutto questo c'è lo zampino di quell'orso. In tutta la faccenda c'è di mezzo lui. Ecco come ha avuto inizio la faccenda: vicino al ponte Izmajlovskij, ha avuto inizio... ecco, com'è cominciata..." A questo punto Goljadkin fece una smorfia come se avesse morso un limone, essendogli, molto probabilmente, venuto in mente qualche cosa di molto sgradito. "Be', poco importa, del resto!" pensò.

"Però io sono sempre allo stesso punto. Perché questo Ostafev non viene? Probabilmente si è messo a lavorare o, chissà come, è stato fermato da qualcuno... Certamente è in parte una buona cosa che io intrighi e, da parte mia, scavi un po' il terreno sotto i piedi degli altri. Basta dare dieci copechi a Ostafev e poi lui... lui sta dalla mia parte. Però, ecco in che consiste la faccenda: starà poi veramente dalla mia parte... oppure quelli là, dal canto loro, mettendosi d'accordo con lui, tesseranno qualche intrigo? In realtà ha tutta la faccia di un furfante, il mascalzone, di un vero furfante! C'è un mistero qui sotto! 'No, non c'è nulla, dice, signoria, e vi sono sentitamente grato, dice, sinceramente grato'.

Che razza di brigante, caro mio!" Si sentì un rumore... Goljadkin si fece piccolo piccolo e si lanciò dietro la stufa. Qualcuno aveva sceso le scale e era uscito in strada. "Chi può essere che se ne va a quest'ora?" pensò il nostro eroe. Un minuto dopo si sentirono di nuovo dei passi... A questo punto Goljadkin non seppe resistere e mise fuori dal suo nascondiglio giusto la punta del naso... La mise fuori, ma poi si ritrasse di scatto come se qualcuno lo avesse bucato con uno spillo. Questa volta passava si sa bene chi, cioè il farabutto, l'intrigante, il depravato, passava, come al solito, coi suoi ignobili passettini fitti fitti, sgambettando e buttando i piedini come se si preparasse a pigliare a calci qualcuno. "Farabutto!" disse tra sé il nostro eroe. Del resto, Goljadkin non poteva non accorgersi che il farabutto portava sotto il braccio un'enorme cartella verde, che apparteneva a sua eccellenza. "Oh, di nuovo un incarico speciale!" pensò Goljadkin, arrossendo e facendosi sempre più piccolo per la stizza. Il signor Goljadkin numero due era appena sfrecciato davanti al signor Goljadkin numero uno senza accorgersi di lui, che per la terza volta si sentirono dei passi e questa volta Goljadkin indovinò che erano i passi di uno scrivano.

Infatti la figurina tutta lustra di uno scrivano diede un'occhiata verso di lui, dietro la stufa: la figurina non era, però, quella di Ostafev, ma di un altro scrivano, soprannominato Scrivanuccio.

Questo meravigliò profondamente Goljadkin. "Ma perché ha immischiato altri nel segreto?" pensò il nostro eroe. "Che razza di barbari! Non hanno proprio nulla di sacro!" "Be', che c'è, amico mio?" prese a dire, rivolgendosi allo scrivano. "Da parte di chi vieni, amico?" "Ecco, signore, per quel vostro affaruccio. Per ora non si sa niente da nessuno, ma se si saprà qualcosa, ve ne informeremo." "E Ostafev?" "Lui non può assolutamente, signoria. Già due volte sua eccellenza è passata per il reparto e nemmeno io, adesso, ho tempo..." "Ti ringrazio, caro, ti ringrazio... Tu dimmi soltanto..." "Vi giuro che non ho tempo, adesso... Ci chiamano ogni momento...

Ma voi, ecco, compiacetevi di trattenervi ancora un po' qui, di modo che, se ci sarà qualcosa relativo alla vostra faccenduola, ve lo riferiremo..." "No, tu, mio caro, tu dimmi..." "Permettete, signore, non ho tempo" disse Scrivanuccio, sfuggendo a Goljadkin che lo aveva afferrato per una falda; "davvero in questo momento non è possibile. Voi compiacetevi di trattenervi qui ancora un po' e noi vi riferiremo." "Subito, subito, amico! Subito, caro amico! Ecco, subito: ecco una lettera amico mio, io te ne sarò grato, caro." "Ascolto, signore." "Fa' il possibile per consegnarla al signor Goljadkin." "Goljadkin?" "Sì, amico mio, al signor Goljadkin..." "Bene, signore. Ecco, quando me ne andrò, la prenderò. E voi restate qui, intanto. Qui nessuno vi vedrà." "No, io, amico mio, tu non pensare... io, già, non sto qui perché nessuno mi veda... E ora, amico mio, qui non ci starò più... ma starò giù, nel vicolo... Lì c'è un caffè: così io aspetterò là e tu, se succede qualcosa, vieni a informarmi di tutto, capisci?" "Bene, signore. Lasciatemi soltanto andare. Io capisco..." "E io ti sarò grato, mio caro!" gridò Goljadkin, alle spalle di Scrivanuccio, riuscito finalmente a liberarsi...

"Farabutto, mi pare che verso la fine sia diventato più grossolano" pensò il nostro eroe, uscendo alla chetichella, da dietro la stufa. "Qui c'è un altro amo, è chiaro... Anche all'inizio c'è stato questo e quello... Del resto, aveva davvero paura: può darsi che là ci sia molto da fare. E sua eccellenza è passato due volte nella sezione... Ma come mai l'avrà fatto? Uh!

ma questo non ha importanza... Del resto non è niente e ora vedremo..." A questo punto Goljadkin stava quasi per aprire la porta con l'intenzione di uscire in strada, quando all'improvviso, proprio in quel preciso momento, si sentì il rumore della carrozza di sua eccellenza. Non fece in tempo a riaversi che lo sportello della carrozza si aprì dall'interno e il signore che vi era seduto balzò sulla scala. Quello che arrivava non era altri che quello stesso signor Goljadkin numero due che si era allontanato dieci minuti prima. Il signor Goliadkin numero uno ricordò che l'abitazione del direttore era proprio a due passi. "E' lui per un incarico speciale" pensò il nostro eroe. Nel frattempo il signor Goljadkin numero due, presa dalla carrozza la grossa borsa verde e altri incartamenti ancora e dati poi non so quali ordini al cocchiere, spalancò la porta, quasi urtando con essa il signor Goljadkin numero uno e, senza fare, intenzionalmente, attenzione a lui, e di conseguenza comportandosi a suo dispetto, si slanciò correndo a perdifiato per la scala del dipartimento. "Andiamo male!" pensò Goljadkin "eh, nella nostra faccenduola c'è qualche guaio! Vedi un po', Signore mio dio!" Da mezzo minuto il nostro eroe era lì immobile, impalato; finalmente si decise. Senza pensarci su tanto a lungo, assalito da una forte palpitazione di cuore e da un tremito per tutto il corpo, corse su per le scale, sulle orme del suo buon conoscente. "Ah! vada come vuole: che me ne importa? Io sono parte in causa, in questa faccenda" pensava, mentre in anticamera si toglieva cappello, cappotto e soprascarpe.

Quando Goljadkin entrò nella sua sezione, erano già scese le ombre del crepuscolo. Né Andréj Filìppovic' né Antòn Antònovic' si trovavano nella stanza. Erano tutti e due a rapporto nello studio del direttore; il direttore poi, a sua volta, come si sapeva dalle voci che correvano, doveva andare di fretta da sua eccellenza. In conseguenza di quelle circostanze e anche perché ci si era messa anche l'oscurità del crepuscolo e l'orario d'ufficio era ormai finito, alcuni degli impiegati, prevalentemente giovani, proprio nel momento in cui il nostro eroe faceva il suo ingresso, erano intenti, per non dire a oziare, a riunirsi, a chiacchierare, a ridere, a discutere e, anzi, qualcuno dei più giovani, cioè dei meno elevati in grado, alla chetichella e favoriti dal generale rumore, giocavano in un angolo vicino alla finestra a testa e croce. Poiché conosceva le convenienze e provando in quel momento particolarmente la necessità di procurarsi della benevolenza, Goljadkin si avvicinò, senza perder tempo, a qualcuno col quale andava più d'accordo, per augurargli il buon giorno eccetera eccetera. Ma i compagni d'ufficio risposero in modo molto strano ai saluti di Goljadkin. Rimase sgradevolmente colpito da una certa generale freddezza e asciuttezza e perfino, si può dire, da una certa severità nell'accoglierlo. Nessuno gli tese la mano. Alcuni dissero semplicemente "buongiorno" e si allontanarono; altri fecero solo un cenno con la testa, qualcuno si girò semplicemente dall'altra parte, come non si fosse accorto di niente e alcuni, infine - cosa che più di tutto ferì Goljadkin - alcuni tra i giovani di grado più basso, ragazzi che, come giustamente si era espresso sul conto loro Goljadkin, sapevano soltanto giocare a testa e croce e gironzolare qua e là, a poco a poco circondarono Goljadkin, gli si affollarono attorno e quasi quasi gli impedirono di uscire. E tutti lo guardavano con una certa curiosità che aveva dell'offensivo.

Era un brutto segno. Goljadkin lo sentiva, e prudentemente si preparò, dal canto suo, a fare finta di niente. All'improvviso, una circostanza, come si dice, assolutamente imprevista, segnò il tracollo di Goljadkin, e lo annientò definitivamente.

Nel piccolo gruppo dei giovani colleghi d'ufficio stretti intorno a lui, con intenzione, nel momento più angoscioso per Goljadkin, comparve il signor Goljadkin numero due, festoso come sempre e, come sempre, con un sorrisetto, e, anche come sempre, irrequieto; in una parola: birichino, saltellante, leccapiedi, ridanciano, svelto di lingua e di piede come sempre, come prima, come, per esempio, ieri, in un momento quanto mai spiacevole per il signor Goljadkin numero uno. Con un sorrisetto sulle labbra, sgambettando, trotterellando, con una smorfietta che sembrava dire a tutti: "buona sera", si ficcò nel gruppetto degli impiegati: a uno porse la mano, a quell'altro batté sulla spalla, a un terzo fece un leggero abbraccio, al quarto spiegò in che occasione, precisamente, fosse stato adibito al servizio di sua eccellenza, dove era andato con la carrozza, che cosa aveva fatto, che cosa aveva riportato con sé; al quinto, probabilmente il suo migliore amico, appioppò un bacio proprio sulle labbra... in una parola, tutto era, per filo e per segno, come nel sogno del signor Goljadkin numero uno. Dopo aver saltellato a sazietà, dopo averli passati tutti a modo suo, dopo aver lavorato tutti a suo favore, dopo avere, gli servisse o no, lusingato tutti a piacimento, il signor Goljadkin numero due di colpo, e certo per errore, non avendo ancora probabilmente, fino a quel momento, notato il suo vecchio amico, tese la mano al signor Goljadkin numero uno.

Certamente, pure per errore, benché, del resto, avesse avuto perfettamente tempo di notare la presenza dell'ignobile signor Goljadkin numero due, il nostro eroe afferrò avidamente quella mano così inaspettatamente tesa verso di lui e la strinse nel modo più caldo, più amichevole, la strinse con uno strano e del tutto inaspettato moto interiore, un moto interiore, diremo, tendente al pianto. Se il nostro eroe fosse stato ingannato dal primo gesto del suo abietto nemico, o avesse sentito o ritrovato o riconosciuto nel profondo del suo animo fino a che punto fosse arrivata la sua impotenza, è difficile dirlo. Il fatto è che il signor Goljadkin numero uno, apparentemente in modo normale, di propria volontà, in presenza di testimoni, aveva solennemente stretto la mano a colui che definiva suo nemico mortale. Ma quale non fu lo stupore, lo sbalordimento e il furore, quale non fu la vergogna e lo sgomento del signor Goljadkin numero uno, quando il suo avversario mortale, l'abietto signor Goljadkin numero due, accortosi dell'errore dell'uomo perseguitato, innocente e da lui perfidamente ingannato, senza più nessuna vergogna, senza ombra di sensibilità, senza compassione nè coscienza, di colpo, con impudenza insopportabile e con villania strappò la sua mano da quella del signor Goljadkin numero uno, e, come se ciò non bastasse, scosse la propria come se, con quella stretta di prima, l'avesse insudiciata di qualcosa di brutto; e, come se nemmeno questo bastasse, sputò da una parte, accompagnando l'atto con un gesto offensivo; e, come se non bastasse ancora, tirò fuori il fazzoletto e proprio lì, nel modo più scandaloso, si ripulì tutte le dita che per un momento erano state strette nella mano del signor Goljadkin numero uno. Mentre si comportava così, il signor Goljadkin numero due, secondo la sua schifosa abitudine, si guardava intenzionalmente intorno, faceva sì che tutti vedessero il suo modo di comportarsi, fissava tutti negli occhi e evidentemente si sforzava di suscitare nell'animo di tutti le cose più sfavorevoli sul conto di Goljadkin. Sembrava che il disgustoso modo di comportarsi del signor Goljadkin numero due avesse provocato lo sdegno generale degli impiegati che erano lì intorno; persino la sventata gioventù dimostrava il suo scontento. Tutto intorno si sentì mormorare e parlottare. Quella generale inquietudine non poteva non arrivare all'orecchio del signor Goljadkin numero uno, ma di colpo uno scherzetto, arrivato proprio in tempo e nato, tra l'altro, sulle labbra del signor Goljadkin numero due, abbatté e annientò le ultime speranze del nostro eroe e fece pendere la bilancia in favore del suo mortale e inutile nemico.

"Questo, signori, è il nostro Faublas (1) russo: permettete che vi presenti il giovane Faublas" squittì il signor Goljadkin numero due, guizzando e sgambettando tra gli impiegati con quella sfrontatezza tutta sua particolare e indicando loro l'imbambolato e nello stesso tempo furibondo autentico Goljadkin.

"Baciamoci, animuccia!" continuò con intollerabile familiarità, avanzando verso l'uomo da lui così oltraggiosamente offeso. Sembrò che lo scherzetto dell'inutile signor Goljadkin numero due trovasse risonanza là dove occorreva, tanto più che in esso era racchiusa una chiara allusione a una circostanza, evidentemente già di pubblico dominio e nota a tutti. Il nostro eroe sentì sulle sue spalle il peso della mano dei nemici. Del resto, aveva già preso la sua decisione. Con lo sguardo fiammeggiante, il viso pallido, con un sorriso statico, si fece largo tra la folla e a passi incerti e rapidi puntò direttamente verso lo studio di sua eccellenza. Nella penultima stanza incontrò Andréj Filìppovic' che in quel momento usciva da sua eccellenza, e sebbene in quella stanza ci fossero parecchie altre persone, assolutamente estranee in quel momento per Goljadkin, il nostro eroe non volle considerare affatto una tale circostanza. Direttamente, decisamente, audacemente, quasi meravigliandosi di se stesso e lodando in cuor suo la propria audacia, abbordò, senza perder tempo, Andréj Filìppovic', stupefatto per un così imprevisto assalto.

"Ah, siete voi... che volete?" domandò il caposezione, senza ascoltare quello che Goljadkin aveva cominciato a balbettare.

"Andréj Filìppovic', io... posso io, Andréj Filìppovic', avere ora, subito e a tu per tu, un colloquio con sua eccellenza?" disse con belle parole e con chiara pronuncia il nostro eroe, fissando su Andréj Filìppovic' uno sguardo pieno di risolutezza.

"Che cosa? Naturalmente, no, signore." Andréj Filìppovic' misurò Goljadkin dalla testa ai piedi con lo sguardo.

"Io, Andréj Filìppovic', dico tutto questo perché mi meraviglio che non ci sia nessuno qui dentro che sbugiardi quel farabutto impostore." "Co-osa?" "Farabutto, Andréj Filìppovic'." "Ma a chi alludete, parlando in tal modo?" "Alla ben nota persona, Andréj Filìppovic'. Io, Andréj Filìppovic', alludo alla ben nota persona; io sono nel mio diritto... Io credo, Andréj Filìppovic' che i superiori dovrebbero incoraggiare simili impulsi" aggiunse il signor Goljadkin, evidentemente fuori di sé; "Andréj Filìppovic'... voi certamente vedete voi stesso, Andréj Filìppovic', che questo è un nobile impulso, che denota tutte le mie buone intenzioni di considerare come padre il mio superiore, Andréj Filìppovic'; io tengo, cioè, il mio benefico superiore in conto di padre e ciecamente gli affido il mio destino. Le cose sono così e così... dirò... ecco come..." A questo punto la voce di Goljadkin ebbe un tremito, il suo viso si fece di fiamma e due lacrime si affacciarono sulle sue ciglia.

Andréj Filìppovic', ascoltando Goljadkin, aveva provato tanto stupore che, quasi involontariamente, era arretrato di due passi.

Poi, inquieto, rivolse intorno lo sguardo... Era difficile dire come sarebbe andata a finire la faccenda... Ma di colpo la porta dello studio di sua eccellenza si aprì e lui stesso ne uscì, in compagnia di alcuni impiegati. Gli si accodarono, uno dopo l'altro, tutti quelli che erano nella stanza. Sua eccellenza chiamò Andréj Filìppovic' e si avviò al suo fianco, parlando di certi affari. Quando tutti furono usciti dalla stanza, Goljadkin si riebbe. Calmatosi, andò a rifugiarsi sotto l'ala di Antòn Antònovic' Setoc'kin che, a sua volta, sgambettava zoppicando dietro gli altri e, così sembrò a Goljadkin, con aria severa e preoccupata. "Ho parlato troppo anche qui: anche qui mi sono fatto del male" pensò Goljadkin. "Ma via, non importa!" "Spero che almeno voi, Antòn Antònovic', acconsentirete ad ascoltarmi e a comprendere a fondo la mia situazione" cominciò piano e con la voce ancora più tremante per l'agitazione.

"Respinto da tutti, mi rivolgo a voi. Sono tuttora perplesso sul significato delle parole di Andréj Filìppovic', Antòn Antònovic'.

Spiegatemele voi, se è possibile..." "Tutto si spiegherà al momento opportuno" rispose in tono severo e pacato Antòn Antònovic' e, così sembrò a Goljadkin, con un'aria che dava chiaramente a intendere che Antòn Antònovic' voleva tassativamente porre finee alla conversazione. "Sarete al più presto informato di tutto. Oggi stesso sarete informato formalmente di tutto." "Che significa formalmente, Antòn Antònovic', e perché proprio formalmente?" chiese, timido, il nostro eroe.

"Non tocca a voi discutere, Jakòv Petrovic', le decisioni dei superiori." "Perché, poi, superiori, Antòn Antònovic'" proseguì Goljadkin sempre più timidamente, "perché i superiori? Non vedo la ragione perché qui sia necessario disturbare i superiori, Antòn Antònovic'... Volete forse accennare qualcosa a proposito di ieri sera, Antòn Antònovic'?" "Nossignore, non di ieri sera; ma qui c'è qualche altra cosa che lascia a desiderare in voi." "Che cosa lascia a desiderare, Antòn Antònovic'? Mi pare, Antòn Antònovic', che in me non ci sia proprio niente che lasci a desiderare." "E con chi vi preparavate a giocare d'astuzia?" disse Antòn Antònovic', interrompendo di colpo Goljadkin, completamente smarrito. Goljadkin ebbe un sussulto e sbiancò come un cencio.

"Certo, Antòn Antònovic," mormorò con un filo di voce "se si dà ascolto alla voce della calunnia e si dà retta ai nostri nemici, senza tener conto delle giustificazioni dell'altra parte, allora naturalmente... naturalmente, Antòn Antònovic', si può soffrire, Antòn Antònovic', pur essendo senza colpa, e soffrire non si sa per che cosa." "Sì, sì... ma quel vostro indegno comportamento in danno del buon nome di una nobile fanciulla appartenente a quella virtuosa, rispettabile e nota famiglia che vi beneficava?" "Quale comportamento, Antòn Antònovic'?" "Già, già... E riguardo a quell'altra ragazza, povera, ma in compenso di onesta origine straniera, non sapete niente del vostro lodevole comportamento?" "Permettete, Antòn Antònovic'... vogliate benevolmente ascoltare..." "E il vostro perfido comportamento e la calunnia contro un'altra persona, l'accusa a un'altra persona di un peccato che voi stesso avete commesso? eh? come definite tutto questo?" "Io, Antòn Antònovic', non l'ho scacciato" disse tutto trepidante il nostro eroe, "e a Petruska, ossia al mio domestico, non ho insegnato niente di simile... Ha mangiato il mio pane, Antòn Antònovic'; ha usato della mia ospitalità" aggiunse in modo espressivo e accorato il nostro eroe, tanto che il mento gli saltellava un pochino e le lacrime erano sul punto di sgorgare.

"Lo dite tanto per dire, Jakòv Petrovic', che ha mangiato il vostro pane" rispose, facendo un largo sorriso, Antòn Antònovic, e nella sua voce vibrava la malizia, tanto che il cuore di Goljadkin ebbe come una sferzata.

"Permettete ancora, Antòn Antònovic', una umilissima domanda: sua eccellenza è al corrente di tutta questa faccenda?" "E come! Ora, però, lasciatemi andare. Non ho tempo, adesso, di trattenermi con voi... Oggi sarete informato di tutto ciò che dovete sapere." "Permettete, in nome di Dio, ancora un minutino, Antòn Antònovic" "Parlerete poi..." "Nossignore, Antòn Antònovic': io, signore, vedete, ascoltate soltanto, Antòn Antònovic'... Io non sono uno scettico, Antòn Antònovic', io rifuggo dallo scetticismo; io sono prontissimo, per parte mia, e ho anche prospettato quell'idea..." "Bene, bene... Ne ho già sentito par]are..." "Nossignore, questo non l'avete sentito dire, Antòn Antònovic'.

Questa è tutta un'altra cosa, è bello, veramente bello, e fa piacere sentirlo dire... Io ho fatto presente, come già ho avuto l'onore di dichiararvi, quell'idea, Antòn Antònovic', che la divina Provvidenza abbia creato due esseri identici, e i benefici superiori, considerata la divina Provvidenza, hanno accolto i due gemelli. E questo è bello, Antòn Antònovic'; lo vedete anche voi, che è molto bello, Antòn Antònovic', e che io sono ben lontano dall'essere scettico. Io considero il benefico superiore come un padre. Le cose sono così e così, direi, benefico superiore, e voi direi... un giovane deve lavorare... Sostenetemi, Antòn Antònovic', intercedete in mio favore, Antòn Antònovic'... Io niente... Antòn Antònovic', per amor di Dio, ancora solo una parolina... Antòn Antònovic'..." Ma Antòn Antònovic era già lontano da Goljadkin... Il nostro eroe non sapeva dove si trovasse, che cosa sentisse, che cosa facesse, che cosa gli fosse successo e che altro gli sarebbe capitato ancora, tanto lo aveva sconcertato e sbalordito quello che aveva sentito e gli era accaduto.

Con occhi supplichevoli cercava tra la folla degli impiegati Antòn Antònovic' per giustificarsi ancora di più davanti a lui e dirgli ancora qualcosa di molto benintenzionato e di molto nobile e lusinghiero sul suo conto... A poco a poco, intanto, una nuova luce si faceva strada attraverso la confusione di Goljadkin, una nuova tremenda luce che illuminava, davanti a lui, di colpo, tutta una serie di circostanze assolutamente ignorate fino ad ora e perfino assolutamente insospettate... In quel momento qualcuno urtò al fianco il nostro eroe, completamente smarrito. Egli diede un'occhiata intorno a sé. Davanti a lui stava Scrivanuccio.

"Una lettera, signoria." "Ah, sei già andato, mio caro?" "No, questa l'hanno portata qui fin da stamattina alle dieci.

Sergéj Micheiev, il guardiano, l'ha portata dalla casa del segretario provinciale Vachrameiev." "Bene, amico, bene... te ne sono grato, amico." Detto ciò, Goljadkin nascose la lettera nella tasca laterale della giubba della divisa, di cui chiuse tutti i bottoni; poi si guardò intorno e, con suo grande stupore, si accorse di trovarsi già nell'ingresso del dipartimento, tra una frotta di impiegati che si affollavano all'uscita, poiché l'orario d'ufficio era finito.

Goljadkin non soltanto non si era fino ad allora accorto di quest'ultima circostanza, ma neppure si era accorto e non ricordava come mai si trovasse già in cappotto e soprascarpe, e col cappello tra le mani. Tutti gli impiegati erano immobili e in rispettosa attesa. Il fatto era che sua eccellenza si era fermato in fondo alla scala per aspettare la carrozza che, non si sa per quale ragione, ritardava, e si tratteneva in interessante conversazione con due consiglieri e con Andréj Filìppovic. Un po' scostato dai due consiglieri e da Andréj Filìppovic', stava dritto Antòn Antònovic' Setoc'kin e qualcuno degli altri impiegati, che sorridevano nel vedere sua eccellenza che si degnava di ridere e di scherzare. Gli impiegati che facevano ressa in cima alla scala ridevano pure loro e aspettavano che sua eccellenza riprendesse a ridere. L'unico che non rideva era Fedosejc', il panciuto portiere che reggeva la maniglia della porta e, impalato sull'attenti, aspettava con impazienza la sua giornaliera porzione di piacere che consisteva nell'aprire di colpo, spalancandolo con un'unica mossa del braccio, un solo battente della porta e poi, tutto piegato ad arco, rispettosamente far passare davanti a sé sua eccellenza. Ma più di tutti, evidentemente, era felice e provava una grande gioia l'indegno e ignobile nemico di Goljadkin. In quel momento aveva persino dimenticato tutti gli impiegati, aveva persino dimenticato di guizzare e di sgambettare in mezzo a loro, secondo la sua abietta abitudine, e aveva anche dimenticato di approfittare dell'occasione per fare il leccapiedi a qualcuno. Era tutt'orecchi e tutt'occhi; era, per così dire, come rattrappito, certo per ascoltare più comodamente, senza distogliere lo sguardo da sua eccellenza, e soltanto a tratti le sue braccia, le sue gambe e la sua testa erano come trafitte da spasmi convulsi, quasi impercettibili, che rivelavano gli intimi, nascosti moti del suo animo. "Guardalo come si agita!" pensò il nostro eroe, "sembra un favorito, il farabutto! Vorrei sapere in che modo precisamente si intrufola nell'alta società. Non ha intelligenza, non ha carattere, non ha educazione, non ha sensibilità; ha la fortuna dalla sua, il brigante! O Signore Iddio! A pensarci, come fa presto un uomo a entrare nelle grazie della gente! E si farà strada, il bel tipo! Giuro che andrà lontano, il furfante, che arriverà... ha la fortuna dalla sua, il ribaldo! Vorrei anche sapere che cosa vada soffiando negli orecchi a tutti loro! Quali misteri ha con tutta questa gente e di quali segreti parlano?

Signore Iddio! Se anch'io potessi un pochino... potessi così...

dire così e così... e forse anche pregare... e dire che non succederà più; sono colpevole, gli direi, ma un uomo giovane, ai nostri tempi, deve potere, eccellenza, prestar servizio; quanto alla mia oscura vicenda non ne sono per niente turbato; ecco, così stanno le cose! Non protesterò in nessun modo e sopporterò ogni cosa con pazienza e con rassegnazione: ecco, così! Devo forse agire così? Ma del resto non gli faranno abbassare la cresta, al furfante, non lo smuoveranno con nessuna parola; ficcare un po' di ragione in quella testaccia sconclusionata è impossibile. Del resto, ci proveremo. Se mi accadrà di capitare in un buon momento, ecco, si proverà..." Nello stato di agitazione, di angoscia e di smarrimento in cui si trovava, sentendo che restare così non si poteva, che stava per arrivare il momento decisivo, che bisognava spiegarsi con qualcuno, il nostro eroe a poco a poco cominciava a muoversi verso il posto in cui stava il suo indegno e misterioso amico; ma proprio in quel momento ecco rombare all'ingresso la carrozza a lungo aspettata da sua eccellenza. Fedosejc' spalancò di colpo il battente, e, piegata ad arco la schiena, fece passare davanti a sé sua eccellenza. Tutti quelli che erano rimasti in attesa si precipitarono verso l'uscita e per un momento separarono il signor Goljadkin numero uno dal signor Goljadkin numero due. "Non te la svignerai" diceva il nostro eroe, fendendo la folla e senza, distogliere gli occhi dal suo inseguito. Infine la folla si disperse. Il nostro eroe si sentì libero e si precipitò all'inseguimento del suo nemico.

 

 

NOTE:

  1. Avventuriero, galante e audace protagonista del romanzo:

"Le avventure del cavaliere di Faublas", di Jean Baptiste Louvet de Couvral (1760-1797), rivoluzionario e scrittore francese.

 

 

11.

 

Goljadkin sentiva il respiro mancargli: come portato da due ali, volava sulle tracce del suo nemico, che con grande velocità si allontanava. Sentiva dentro di sé una formidabile energia. Però, nonostante quella formidabile energia, Goljadkin poteva audacemente sperare che in quel momento anche una modesta zanzara, sempre che avesse potuto in quella stagione vivere a Pietroburgo, sarebbe tranquillamente riuscita a spezzarlo con la sua ala.

Inoltre sentiva di essere debole, affranto, di essere trasportato da una forza estranea e tutta particolare e di non essere lui a camminare perché, al contrario, le gambe gli si piegavano e si rifiutavano di servirlo. Del resto, anche questo poteva sistemarsi per il meglio. "Meglio o non meglio," pensava Goljadkin, quasi senza respiro per la gran corsa "ma che la faccenda sia perduta, non si può nemmeno lontanamente non pensarlo: che io sia completamente a terra, ormai si sa, è cosa certa, decisa e controfirmata." Nonostante tutto ciò, al nostro eroe sembrò di essere resuscitato alla vita, sembrò di aver sostenuto una battaglia e di avere conquistato la vittoria quando riuscì ad agguantare per il cappotto il suo nemico che già aveva messo un piede su una carrozzella e si era accordato col vetturino per andare chissà dove.

"Egregio signore!" cominciò a gridare, alla fine, raggiungendo l'ignobile signor Goljadkin numero due.

"Egregio signore, io spero che voi..." "No, vi prego, non sperate niente" rispose ambiguamente lo spietato nemico del signor Goljadkin, stando con un piede sul predellino della carrozzella e tentando con tutte le forze di arrivare al lato opposto della vettura con l'altro piede, agitandolo inutilmente nell'aria per lo sforzo di mantenersi in equilibrio, e nello stesso tempo cercando di strappare dalle mani del signor Goljadkin il proprio cappotto, al quale quello, da parte sua, si era afferrato con tutti i mezzi fornitigli da madre natura.

"Jakòv Petrovic'! soltanto dieci minuti..." "Scusate, non ho tempo." "Vorrete voi stesso convenire, Jakòv Petrovic'.... vi prego, Jakòv Petrovic'... in nome di Dio, Jakòv Petrovic'... le cose stanno così e così... bisogna spiegarsi.. con sincerità... Un minutino solo, Jakòv Petrovic'!" "Carino mio, non ho tempo" rispose con scortese familiarità, mascherata da cordiale bonomia, il falsamente nobile nemico del signor Goljadkin; "in un altro momento, credetemi, con tutta l'anima e di tutto cuore; ma adesso, ecco, adesso è davvero impossibile." "Mascalzone!" pensò il nostro eroe.

"Jakòv Petrovic'!" gridò, invece, con voce angosciata. "Vostro nemico io non lo sono stato mai. Gente malvagia mi ha ingiustamente dipinto... Da parte mia sono pronto... Jakòv Petrovic', vi fa comodo che noi due, Jakòv Petrovic', entriamo subito? E lì, di tutto cuore, come giustamente avete detto voi poco fa, e con chiare e nobili parole... ecco, in quel caffè:

allora tutto fra noi si chiarirà... ecco come sono le cose, Jakòv Petrovic'! Allora tutto certamente si chiarirà..." "Nel caffè? Bene... Io non sono contrario, entriamo pure nel caffè, ma soltanto a un patto, gioia mia, a un unico patto, che là tutto si spieghi da sé. Si dice: le cose sono così e così, animuccia" disse il signor Goljadkin numero due, scendendo dalla carrozzella e battendo sfacciatamente sulla spalla del nostro eroe. "Amico bello! per te, Jakòv Petrovic', io sono pronto ad attraversare il vicoletto (come giustamente voi, Jakòv Petrovic', vi compiaceste un giorno di osservare). E' proprio vero che il briccone fa di un uomo ciò che vuole!" proseguì il falso amico di Goljadkin, trotterellando e agitandosi accanto a lui, con un lieve sorrisetto.

Il caffè lontano dalle grandi vie in cui entrarono i due Goljadkin era in quel momento completamente deserto. Appena trillò il campanello, comparve al banco una tedesca piuttosto grassoccia.

Goljadkin e il suo indegno nemico si inoltrarono nella seconda saletta, dove un ragazzetto paffutello, coi capelli tagliati molto corti, era affaccendato con un fascio di ramoscelli vicino alla stufa, cercando di ravvivare il fuoco quasi spento. A richiesta del signor Goljadkin numero due, fu servita una cioccolata.

"Capperi, che donnetta!" esclamò il signor Goljadkin numero due, strizzando furbescamente un occhio al signor Goljadkin numero uno.

Il nostro eroe si fece rosso e non disse niente.

"Ah, già, dimenticavo, scusatemi... Conosco i vostri gusti. Noi, signore, siamo ghiotti di delicate tedeschine; noi due, diciamolo pure, anima sincera che sei, Jakòv Petrovic', tu e io siamo ghiotti di delicate tedescucce, anche se, del resto, non ancora prive di attrattive; prendiamo in affitto camere da loro, cerchiamo di sedurle per una zuppa alla birra o al latte, dedichiamo loro il nostro cuore e mandiamo loro dichiarazioni scritte; ecco ciò che facciamo, Faublas che non sei altro, traditore che sei!" Tutto questo disse il signor Goljadkin numero due, facendo così una inutile, anche se malignamente astuta, allusione a una ben nota persona di sesso femminile, circuendo Goljadkin, sorridendogli con aria affabile, e mostrando falsamente, in quel modo, cordialità verso di lui e gioia per quell'incontro. Resosi conto però che il signor Goljadkin numero uno non era tanto stupido e non privo di istruzione e di belle maniere al punto di credergli ciecamente, l'ignobile uomo decise di cambiare tattica e di trattare la faccenda con le carte in tavola. E a questo punto, dopo aver lanciato quella sua infamia, il falso Goljadkin concluse, in modo così sfacciato da essere addirittura ripugnante, con una bella manata sulla spalla del calmo Goljadkin, poi, non ancora soddisfatto di questo, si avventurò con lui in certi scherzi assolutamente sconvenienti nella buona società e precisamente si mise a ripetere una sua precedente volgarità, e cioè, nonostante la resistenza e i leggeri gridi dello sdegnato Goljadkin, prese a dargli dei pizzicottini sulle guance. Di fronte a una farsa così turpe il nostro eroe si sentì ribollire, e però non disse niente, per il momento.

"Queste sono parole dei miei nemici" rispose infine, saggiamente trattenendosi, con voce fremente. E nello stesso tempo il nostro eroe si girò allarmato verso la porta. Il fatto è che il signor Goljadkin numero due era, evidentemente, di ottimo umore e pronto a lanciarsi in vari scherzetti del tutto illeciti in un luogo pubblico e, generalmente parlando, non ammessi dalle leggi del mondo e soprattutto nella distinta società.

"Be', se è così, come volete voi" replicò con viso serio il signor Goljadkin numero due al pensiero del signor Goljadkin numero uno, dopo aver posato sul tavolo la tazza da lui vuotata con sconveniente avidità. "Be', noi due non abbiamo di che tirarla tanto per le lunghe, del resto... Dunque, come ve la passate, adesso, Jakòv Petrovic'?" "Una cosa soltanto vi posso dire, Jakòv Petrovic'" rispose con calma e dignità il nostro eroe; "vostro nemico io non sono stato mai." "Ehm!... e Petruska? Come si chiama più?... Petruska, mi pare...

Ah, sì! Ebbene, come sta? Va bene? Come prima?" "Anche lui come prima, Jakòv Petrovic'" rispose un po' meravigliato il signor Goljadkin numero uno. "Io non so, Jakòv Petrovic'... Da parte mia... da un lato nobile... dal lato della franchezza, Jakòv Petrovic', ne converrete anche voi, Jakòv Petrovic'..." "Sì. Ma sapete anche voi, Jakòv Petrovic'" rispose con voce sommessa e espressiva il signor Goljadkin numero due, falsamente spacciandosi in tal modo per un uomo afflitto, pentito e degno di compatimento, "voi stesso sapete che viviamo in tempi difficili...

Lo chiedo a voi, Jakòv Petrovic': voi siete un uomo intelligente e che ragiona bene" commentò il signor Goljadkin numero due, bassamente blandendo il signor Goljadkin numero uno. "La vita non è un giochetto, lo sapete anche voi, Jakòv Petrovic'" concluse con aria molto significativa il signor Goljadkin numero due, fingendosi, così, persona intelligente e istruita, capace di ragionare su argomenti elevati.

"Da parte mia, Jakòv Petrovic'" rispose con animazione il nostro eroe, "da parte mia, disprezzando le scappatoie e parlando in tutta franchezza, parlando con un linguaggio nobile e retto, e mettendo la faccenda su un piano di nobiltà, vi dirò, e posso sinceramente e nobilmente assicurarvelo, Jakòv Petrovic', che io sono perfettamente puro e che, voi stesso lo sapete, Jakòv Petrovic', un reciproco malinteso (tutto può accadere), il giudizio del mondo, l'opinione di una folla servile... lo dico francamente, Jakòv Petrovic', tutto può accadere. E dirò inoltre, Jakòv Petrovic', se si deve giudicare così, se si deve giudicare la faccenda da un nobile e delicato punto di vista, oserò dire, dire senza falsa vergogna, Jakòv Petrovic', e mi sarà persino gradito rivelarlo, che da parte mia è stato un malinteso e mi sarà gradito riconoscerlo. Voi stesso lo sapete, voi siete un uomo intelligente, e soprattutto una nobile persona. Senza vergogna, senza falsa vergogna, sono pronto a riconoscerlo..." concluse il nostro eroe con nobile dignità.

"La fatalità, il destino! Jakòv Petrovic'... ma lasciamo stare tutto questo..." esclamò sospirando il signor Goljadkin numero due. "Usiamo meglio i brevi istanti del nostro incontro per una più utile e piacevole conversazione, come si conviene tra due colleghi... Davvero non sono mai riuscito a scambiare con voi due parole, in tutto questo tempo... Ma la colpa non è mia, Jakòv Petrovic'..." "E nemmeno mia," interruppe con calore il nostro eroe "nemmeno mia! Il cuore mi dice, Jakòv Petrovic', che io non sono per niente responsabile di tutto questo. Ne accuseremo il destino, Jakòv Petrovic'" aggiunse il signor Goljadkin numero uno in tono conciliante. La voce incominciava a poco a poco a indebolirglisi e a tremare. "Ebbene? Come va in complesso la vostra salute?" disse quell'uomo corrotto con voce carezzevole.

"Ho un po' di tosse" rispose, ancor più carezzevolmente il nostro eroe.

"Curatevi. Adesso dilagano tali epidemie, che non è difficile prendersi un'angina e io, ve lo confesso, comincio già a coprirmi di flanella." "E' proprio così, Jakòv Petrovic', è facilissimo prendersi un'angina..." disse il nostro eroe dopo un breve silenzio. "Jakòv Petrovic'! Mi accorgo proprio di aver preso una cantonata... Io ricordo con commozione quei felici momenti che ci è capitato di trascorrere insieme sotto il mio povero, ma oso dire, cordiale tetto." "Nella vostra lettera, però, non avete scritto questo" replicò con leggero rimprovero perfettamente giusto (giusto, poi, soltanto sotto questo aspetto) il signor Goljadkin numero due.

"Jakòv Petrovic'! Sono caduto in errore... Me ne rendo ben conto, adesso, che sono caduto in errore anche in quella malaugurata mia lettera. Jakòv Petrovic', ho vergogna di guardarvi, Jakòv Petrovic' voi non mi crederete... Datemi quella lettera, che io possa strapparla davanti a voi, Jakòv Petrovic', o, se questo non è possibile, vi supplico di leggerla a rovescio, completamente a rovescio, cioè, voglio dire, con amichevoli intenzioni, attribuendo a ogni parola della mia lettera il significato opposto. Ho sbagliato. Perdonatemi, Jakòv Petrovic'... ho sbagliato, ho sbagliato amaramente, Jakòv Petrovic'..." "Voi dite?" chiese distrattamente e con una certa indifferenza il perfido amico del signor Goljadkin.

"Io dico che mi sono completamente sbagliato, Jakòv Petrovic', e che da parte mia io, assolutamente, senza falsa vergogna..." "Ah, sono contento! Sono contento che abbiate sbagliato" rispose rudemente il signor Goljadkin numero due.

"Io, Jakòv Petrovic', ho avuto persino l'idea" aggiunse con nobile gesto il nostro sincero eroe, non accorgendosi affatto della terribile perfidia del suo falso amico, "ho avuto persino l'idea che, ecco, siano stati creati due esseri perfettamente uguali..." Ah! questa è la vostra idea!" A questo punto il signor Goliadkin numero due, famoso per la sua assoluta inutilità, si alzò e afferrò il cappello. Non accorgendosi ancora dell'inganno, anche il signor Goljadkin numero uno si alzò, sorrise con bonaria affabilità al suo falso amico, facendo di tutto, nel suo candore, per essere affettuoso con lui, per fargli coraggio e per riannodare così una nuova amicizia...

"Addio, eccellenza!" gridò all'improvviso il signor Goljadkin numero due. Il nostro eroe sussultò, e, avendo visto nel viso del suo nemico un non so che di bacchico, unicamente per liberarsene ficcò nella mano che l'immorale gli aveva teso due dita della propria mano: ma ecco, ecco che a questo punto l'impudenza del signor Goljadkin numero due passò ogni limite. Afferrate le due dita della mano del signor Goljadkin numero uno e strettele prima un po', l'indegno, proprio sotto gli occhi del signor Goljadkin, decise di ripetere il suo sfacciato scherzo del mattino. La misura dell'umana pazienza era esaurita...

Aveva già rificcato in tasca il fazzoletto col quale si era strofinato le dita, quando il signor Goljadkin numero uno si riprese e si lanciò dietro di lui nella stanza attigua, dove, secondo la propria sfacciata abitudine, il suo accanito nemico si era affrettato a sgattaiolare. Come se nessuno lo vedesse, se ne stava vicino al banco, mangiava focaccette e calmissimo, come l'uomo più virtuoso del mondo, corteggiava la pasticcera tedesca.

"Davanti alle signore è impossibile" rifletté il nostro eroe e, fuori di sé dall'agitazione, si avvicinò pure lui al banco.

"Davvero, la donnina non è affatto male! Che ne dite?" riprese di nuovo con le sue sconvenienti uscite il signor Goljadkin numero due, contando di certo sulla pazienza senza limiti del signor Goljadkin numero uno. La tedescona, da parte sua, guardava i suoi clienti con occhi stupidi e opachi, non capendo evidentemente la lingua russa, e con un amabile sorriso. Il nostro eroe si fece rosso come il fuoco per le parole del signor Goljadkin numero due che non conosceva vergogna e, impotente a dominarsi, gli si lanciò finalmente contro con la chiara intenzione di farlo a pezzi e così farla finita una buona volta con lui; ma il signor Goljadkin numero due, secondo la sua abietta abitudine, era già lontano: se l'era data a gambe e aveva già raggiunto la scaletta. Viene da sé che, dopo il primo momento di stupore che, naturalmente, aveva colpito il signor Goljadkin numero uno, si riprese e si lanciò a gambe levate dietro l'offensore, che già saliva sulla carrozzella del "vanka" che lo aspettava e che evidentemente era già d'accordo con lui in tutto e per tutto. Ma proprio in quel momento la tedescona, vedendo i suoi due avventori in fuga, si mise a gridare e si lanciò a tutta forza sul campanello. Il nostro eroe si girò, le lanciò a volo il denaro per sé e per quello sfacciato individuo che non aveva pagato, senza esigere il resto e, nonostante si fosse così attardato, riuscì tuttavia, ma anche questa volta soltanto a volo, ad afferrare il suo nemico. Aggrappatosi al parafango della carrozzella con tutti i mezzi datigli da madre natura, il nostro eroe corse per un po' di tempo a grande velocità per la strada, cercando di arrampicarsi sulla carrozzella difesa a tutta forza dal signor Goljadkin numero due. Intanto il vetturino, con la frusta, con le redini, col piede e con le parole eccitava lo sgangherato ronzino, che inaspettatamente si lanciò di gran carriera, stringendo il morso tra i denti e scalciando, secondo la sua deplorevole abitudine con le zampe posteriori, ogni tre passi.

Finalmente il nostro eroe riuscì ad arrampicarsi sulla carrozzella, col viso verso il suo nemico, la schiena al vetturino e le ginocchia contro le ginocchia di quello svergognato, aggrapandosi con la mano destra e con tutte le sue forze all'orribile bavero di pelliccia del cappotto del suo turpe e acerrimo nemico...

I due nemici filavano a tutta velocità e per un po' di tempo rimasero zitti. Il nostro eroe riusciva a fatica a tirare il fiato; la strada era pessima e a ogni passo c'erano dei grandi sobbalzi, con il pericolo di rompersi l'osso del collo. Inoltre il suo acerrimo nemico non si dava ancora per vinto e provava in tutti i modi a ricacciare nel fango l'avversario. A completare l'elenco delle avversità, il tempo era orrendo. La neve cadeva fittissima e provava in ogni modo a insinuarsi sotto il cappotto, che si era sbottonato, del signor Goljadkin, quello autentico.

Intorno l'aria era cuca e non si riusciva a vedere niente. Era difficile poter distinguere in quale direzione e per quale strada corressero... Goljadkin ebbe l'impressione che gli stesse capitando qualcosa di già noto. Per un attimo cercò di farsi tornare in mente se il giorno prima non avesse previsto qualcosa... in sogno, per esempio... Finalmente l'angoscia raggiunse l'apice dell'agonia. Premendo con tutta la forza sul suo spietato avversario, stava quasi per mettersi a gridare, ma il grido gli morì sulle labbra... Ci fu un minuto in cui Goljadkin dimenticò tutto e decise che tutto ciò non aveva assolutamente importanza e che accadeva soltanto così, chissà come, in modo inspiegabile, e che, dato il caso, protestare sarebbe stato inutile e soltanto tempo perso... Ma all'improvviso e quasi nel preciso momento in cui il nostro eroe stava tirando queste conclusioni, un sobbalzo imprudente cambiò tutta quanta la faccenda. Goljadkin rotolò giù dalla carrozzella come un sacco di patate e rimbalzò chissà dove, riconoscendo con equanimità, al momento della caduta, che in effetti si era accalorato troppo e molto a sproposito. Rialzatosi finalmente, osservò il luogo dove si trovava: la carrozzella era in mezzo al cortile, e il nostro eroe si accorse, alla prima occhiata, che si trattava precisamente del cortile della casa in cui abitava Olsufij Ivànovic'. E nello stesso tempo si accorse pure che l'amico stava già salendo sul pianerottolo d'ingresso, diretto, sicuramente, da Olsufij Ivànovic'. In uno stato di indescrivibile angoscia si precipitò all'inseguimento del nemico, ma, per sua fortuna, saggiamente, cambiò parere in tempo. Senza dimenticare di pagare il vetturino, Goljadkin si lanciò sulla strada e corse a gran velocità dove lo portavano le gambe. La neve continuava a cadere fitta fitta; l'aria era sempre cuca, buia e umida. Il nostro eroe non correva, volava... travolgendo tutto sulla sua strada, contadini, donne e bambini, e veniva travolto a sua volta da donne contadini e bambini. Intorno a lui e alle sue spalle si sentivano voci spaventate, grida, strilli... Ma sembrava che Goljadkin fosse completamente fuori di sé, e non voleva fare attenzione a niente e a nessuno... Si riprese, del resto, già al ponte Semjonovskij, ma fu soltanto per il fatto che era arrivato, non si sa come, a malamente contro due donne e a buttarle in terra con certi loro articoli di gran smercio, e nello stesso tempo a cadere anche lui lungo disteso. "Non ha importanza" pensò Goljadkin, "tutto questo può benissimo volgere al meglio", e subito si ficcò la mano in tasca volendo farla finita, con un rublo d'argento, di tutti quei mostacciuoli, quelle mele, quei piselli e tutte le altre cose che si erano sparpagliate qua e là. Di colpo una nuova luce colpì Goljadkin: nella tasca aveva sfiorato la lettera, datagli al mattino dallo scrivano. Ricordatosi, tra l'altro, che poco lontano si trovava una trattoria a lui ben conosciuta, si affrettò in quella direzione, senza perdere tempo si accomodò a un tavolino illuminato da una candeletta di sego e, senza pensare a nient'altro e senza ascoltare il cameriere comparso a prendere ordini, strappò la busta e si precipitò a leggere quanto riportiamo sotto, che gli diede il colpo definitivo.

"Nobile uomo che soffrì per me e caro in eterno al mio cuore! Io soffro, io soccombo: salvami!

Il calunniatore, l'intrigante, l'uomo noto per la fatuità delle sue inclinazioni, mi ha avviluppata nelle sue reti e io sono perduta. Sono caduta! Ma egli mi è odioso; tu, invece! Ci hanno separati, le mie lettere per te sono state intercettate e tutto ciò è opera di quell'essere immondo, che ha approfittato dell'unico suo pregio: la somiglianza con te. In ogni caso poi si può essere brutto d'aspetto, ma affascinante per intelligenza, viva sensibilità e simpatico modo di fare... Io sto soccombendo!

Mi fanno sposare a viva forza e colui che più di ogni altro sta ordendo intrighi è il mio genitore e benefattore e consigliere di stato Olsufij Ivànovic, che favorisce chi desidera probabilmente salire alla mia posizione e alle mie relazioni nell'alta società... Ma io sono decisa a protestare con tutti i mezzi fornitimi dalla natura. Attendimi oggi con la tua carrozza, alle nove precise, davanti alle finestre dell'abitazione di Olsufij Ivànovic'. A casa nostra ci sarà di nuovo un ballo e ci sarà il bel tenente. Io verrò e voleremo via insieme. Inoltre, esistono ancora altri uffici pubblici dove si può ancora essere di utilità alla patria. In ogni caso ricorda, amico mio, che l'innocenza è forte della sua stessa innocenza. Addio. Aspettami con la carrozza davanti all'ingresso! Mi abbandonerò alla protezione dei tuoi abbracci alle due precise dopo mezzanotte.

Tua fino alla tomba Klara Olsùfevna."

Letta la lettera, il nostro eroe rimase per alcuni minuti disfatto. In preda a un'angoscia terribile, a una terribile agitazione, pallido come un cencio, tenendo tra le mani la lettera, camminò parecchie volte su e giù per la stanza; ad aggravare al massimo la sua posizione, il nostro eroe non si rese conto di essere, in quel momento, oggetto dell'esclusiva curiosità di tutti i presenti nella stanza. Probabilmente il disordine del vestito, l'insopprimibile agitazione, quel suo continuo camminare su e giù, il suo gesticolare con tutte e due le mani, e forse alcune misteriose parole lanciate al vento e in stato di confusione, tutto questo, certamente, mal deponeva in favore di Goljadkin, nell'opinione di tutti gli avventori; e persino il garzone cominciava a osservarlo con occhio sospettoso. Ripresosi, il nostro eroe si rese conto di trovarsi in mezzo alla stanza e di guardare in modo quasi sconveniente e ineducato un vecchietto dall'aspetto assai rispettabile, che, dopo aver pranzato e pregato davanti all'immagine di Dio, si era rimesso a sedere e, da parte sua, non toglieva gli occhi di dosso a Goljadkin. Il nostro eroe rivolse in giro una vaga occhiata e si accorse che tutti, proprio tutti, lo guardavano con aria maligna e sospettosa. All'improvviso un militare in pensione, col bavero rosso, chiese ad alta voce il "Gazzettino della Polizia". Goljadkin sussultò e si fece rosso:

inconsapevolmente abbassò gli occhi e notò di aver indosso un abito così indecente che non solo in un luogo pubblico, ma neppure in casa sua avrebbe potuto indossarlo. Gli stivali, i calzoni e tutto il suo fianco destro erano coperti di fango, la staffa del piede destro era strappata, e anche la marsina era lacerata qua e là in parecchi punti. In preda a un'angoscia infinita, il nostro eroe si avvicinò al tavolo al quale aveva letto la lettera e vide che gli si avvicinava il garzone della trattoria, col viso atteggiato a una strana e insolente espressione. Completamente smarrito e disfatto, il nostro eroe cominciò a fissare il tavolo presso il quale stava, ora, in piedi. Sul tavolo c'erano i piatti usati di qualcuno e non ancora rigovernati, un tovagliolo sporco, e vi giacevano in disordine un cucchiaio, un coltello e una forchetta, che erano stati appena adoperati. "Chi ha pranzato qui?" pensò il nostro eroe. "E' possibile che sia stato io? Tutto può darsi! Ho pranzato e non me ne sono accorto; ma come può essere?" Alzati gli occhi, Goljadkin vide di nuovo vicino a sé il garzone, che si preparava a dirgli qualcosa.

"Qual è il mio debito, caro?" chiese il nostro eroe con voce trepidante.

Una sonora risata echeggiò intorno a Goljadkin: rideva anche il garzone. Goljadkin capì che anche lì l'aveva sbagliata e che aveva commesso qualche terribile stupidaggine. Compreso questo, si confuse tanto che fu costretto a ficcare la mano in tasca alla ricerca del fazzoletto, tanto per fare qualcosa e non rimanere lì dritto impalato; ma, con indescrivibile stupore suo e di tutti quelli che lo circondavano, invece del fazzoletto tirò fuori il flacone di una certa medicina che quattro giorni prima gli aveva prescritto Krestjàn Ivànovic'. "I medicinali di quella farmacia" balenò in testa a Goljadkin... Di colpo sussultò e poco ci mancò che lanciasse un grido di terrore. Una nuova luce stava diffondendosi... Un liquido bruno, di un ripugnante colore rossiccio, brillava, con maligni riflessi, sotto gli occhi di Goljadkin... La boccetta gli era caduta dalle mani e era andata in mille pezzi... Il nostro eroe lanciò un grido e indietreggiò di due passi davanti al liquido sparso... Un tremito gli percorreva le membra e un abbondante sudore gli spuntava sulle tempie e sulla fronte. "Dunque la mia vita è in pericolo!" Intanto nella stanza si era creato un certo movimento, un po' di trambusto: tutti avevano circondato Goljadkin, tutti parlavano a Goljadkin, alcuni avevano perfino afferrato Goliadkin. Ma il nostro eroe era muto e immobile, senza né vedere né ascoltare né sentire nulla... Infine, come se si fosse sradicato dal posto, si lanciò fuori dalla trattoria, fece a gomitate con tutti quelli che cercavano di trattenerlo e, quasi svenuto, si abbandonò sulla prima carrozzella capitatagli a tiro e volò verso casa.

Nell'anticamera del suo appartamento gli si fece incontro Micheiev, il custode del dipartimento, con un plico di stato tra le mani. "So amico mio, so tutto" rispose con voce debole e depressa il nostro eroe, accasciato. "E' una cosa d'ufficio..." Il plico conteneva realmente l'ordine, a firma di Andréj Filìppovic', che Goljadkin consegnasse le pratiche che si trovavano nelle sue mani a Ivàn Semjònovic'. Preso il plico e data una moneta da dieci copechi al custode, Goljadkin entrò nel suo appartamento e vide che Petruska stava preparando e riunendo in un mucchio tutti i propri stracci e cianfrusaglie e tutta la sua roba, con l'intenzione evidente di lasciare Goljadkin e di passare dal suo servizio a quello di Karolina Ivànovna, che lo aveva adescato perché prendesse il posto di Evstafij.

 

 

12.

 

Petruska entrò ciondolando, con un'aria stranamente noncurante e col viso atteggiato a un'espressione servilmente solenne. Si vedeva che aveva architettato qualcosa, che si sentiva nel suo pieno diritto e guardava ora con l'aria di una persona completamente estranea, con l'aria, cioè, del servitore di qualcun altro e non più con quella del precedente servitore del signor Goljadkin.

"Be', vedi, caro" cominciò il nostro eroe, ansimando. "Che ora è, caro?" Petruska, senza rispondere. si ritirò dietro il tramezzo, poi ricomparve e, in tono piuttosto disinvolto, dichiarò che presto sarebbero state le sette e mezzo.

"Bene, caro, bene. Dunque vedi, mio caro... permetti che ti dica... mio caro, che tra noi mi pare che ora sia tutto finito." Petruska taceva.

"Be', ora che tra noi tutto è finito, dimmi sinceramente, dimmelo come a un amico, dove sei stato, caro." "Dove sono stato? Tra brave persone..." "Lo so, caro, lo so. Io sono sempre stato soddisfatto di te, mio caro, e il benservito te lo rilascerò... Be', che fai adesso da loro?" "Ebbene, signore, che c'è? Lo sapete anche voi. Si sa che una brava persona non ti insegna niente di male." "Lo so, caro, lo so. In questi nostri tempi le brave persone sono rare, amico; apprezzale, mio caro. Dunque come stanno quelli là?" "Si sa, come... Però io, signore, non posso rimanere al vostro servizio: lo sapete anche voi." "Lo so, caro, lo so: conosco il tuo zelo e la tua diligenza:

vedevo tutto, mio caro, e tutto notavo. Io, amico mio, ti stimo.

Una brava e onesta persona, sia pure un servo, io la stimo." "Ebbene, si sa! Noi, naturalmente, dove meglio stiamo... lo sapete anche voi... E' così! A me che importa! Si sa, signore, che senza un bravo domestico non è possibile..." "Bene, bene, caro: io comprendo tutto questo... Su, eccoti il tuo denaro e il tuo certificato. Ora, caro, baciamoci e salutiamoci...

E ora, mio caro, ti prego di un servizio, l'ultimo servizio" disse Goljadkin in tono solenne. "Lo vedi, mio caro, ne capitano di tutti i colori. Il dolore, mio caro, si nasconde anche nei palazzi, dal dolore non c'è modo di fuggire. Tu sai, amico mio, che io, con te sono sempre stato affettuoso, mi pare..." Petruska taceva.

"Io, mi pare, sono sempre stato affettuoso, con te... Be', mio caro, quanta biancheria abbiamo, adesso?" "Tutta quella che c'è è qui. Sei camicie di tela, tre paia di calzini; quattro pettine di camicia; una maglia di flanella; due completi di biancheria personale. Lo sapete anche voi quello che c'è. Io, signore, la roba vostra non... Io, signore, alla roba del padrone ci sto attento. Io da voi, signore... di quello... si sa... di peccati del genere... mai, signore. Questo lo sapete anche voi, signore." "Ci credo, caro, ci credo. Ma non si tratta di questo, amico mio, non di questo; vedi dunque, ecco, amico mio.." "Si sa, signore: queste cose le sappiamo già. Io, ecco, quando ero ancora a servizio dal generale Stolbnjakòv, mi davano una licenza, quando partivano per Saratov... là hanno delle proprietà..." "No, mio caro, non si tratta di questo: io, niente... tu non stare a pensare niente..." "Si sa. Per quanto riguarda noi, lo sapete anche voi, signore, ci vuol tanto a incolpare a torto un uomo? Ma di me, dappertutto sono stati contenti. Si trattava di ministri, generali, senatori, conti. Sono stato da tutti, io: dal principe Svicnatkin, dal colonnello Pereborkin, dal generale Nedobarov, e anche loro venivano in casa nostra e andavano nella tenuta dei nostri..." "Sì, amico, sì. Tutto bene, amico mio, tutto bene. Ora ecco, io, amico mio, parto... Ognuno, amico mio, ha la sua strada, e non si sa quale possa toccare a ognuno. Be', amico mio, dammi ora di che vestirmi: sì, riporrai anche la mia giubba d'ufficio... gli altri pantaloni, le lenzuola, la coperta, i guanciali..." "Devo riunire tutto in un fagotto?" "Sì, amico mio, sì; in un fagotto, per favore... Chissà che può capitarci... Ora, mio caro, esci a cercare una carrozza." "Una carrozza?" "Sì, caro, una carrozza, un po' comoda e per un certo tempo. Ma tu, amico mio, non stare a pensare a chissà cosa..." "E fate conto di andare lontano?" "Non lo so, amico mio, questo non lo so. Anche il piumino penso, sarà necessario metterlo nel fagotto. Che ne dici, amico mio? Io conto su te, amico mio..." "Volete partire subito?" "Sì, amico mio, sì! E' sopraggiunta una circostanza che... ecco come stanno le cose, amico mio, ecco come stanno..." "Si sa, signore, da noi, al reggimento, è capitata la stessa cosa.

Là un possidente... aveva rapito..." "Rapito? Come! amico mio, tu..." "Sì, l'ha rapita e in un'altra villa si sposarono. Tutto era stato predisposto. Ci fu un inseguimento; ma il principe intervenne in favore, il defunto... e la cosa fu aggiustata..." "Si sposarono... ma tu, amico mio, come... Tu come lo sai, caro?" "Ma si sa! La terra, signore, è piena di voci. Tutto, signore, noi sappiamo, naturalmente, e chi è senza peccato? Solo vi dirò, signore, una cosa: permettetemi, signore, di dirvela così semplicemente, da servo: se le cose sono a questo punto, ecco che cosa vi dico: avete un nemico, signore, avete un rivale, un forte rivale, ecco..." "Lo so, amico mio, lo so: lo sai anche tu, caro... E ora confido in te. Come dobbiamo comportarci, ora? Che cosa mi consigli?" "Ecco, signore, se voi adesso, all'incirca, vi siete messo su questa strada vi servirà comprare qualcosa: lenzuola, guanciali, un altro piumino, per due persone, una bella coperta. Qui, ecco, giù dalla vicina; è una borghese, lei. Ha un bel mantello di volpe lo si può vedere e comprare... Anche subito lo si può andare a vedere. Ora vi farà comodo, signore: è un bel mantello, foderato di raso, con pelliccia di volpe..." "Bene, amico mio, bene: sono d'accordo con te, amico mio, confido in te, confido pienamente in te. Anche il mantello, dunque, amico mio... Presto, però, presto, in nome di Dio, presto! Tra poco sono le otto, presto, in nome di Dio, presto, amico! Affrettati più che puoi, amico!" Petruska piantò lì, ancora da legare, il fagottello della biancheria, coperta, guanciali e ogni tipo di ciarpame che aveva già messo insieme con l'intenzione di legarlo, e si precipitò fuori della stanza. Goljadkin intanto prese ancora una volta la lettera, ma non riuscì a leggerla. Con la sua testa disgraziata stretta tra le mani, si addossò alla parete in preda allo stupore.

Non poteva pensare a niente e nemmeno riusciva a fare niente; non sapeva lui stesso che cosa gli stesse succedendo. Finalmente, resosi conto che il tempo passava e che non arrivavano né Petruska né il mantello, Goljadkin decise di scendere lui stesso.

Spalancata la porta che dava nell'ingresso, sentì arrivare dal basso un frastuono di voci, di discussioni, di chiacchiere...

Alcune vicine cianciavano, gridavano, commentavano... Goljadkin sapeva già con certezza di che cosa precisamente si trattasse.

Risuonava la voce di Petruska, poi si sentirono dei passi. "Mio Dio! ora verranno qui tutti quanti insieme!" gemette Goljadkin, torcendosi le mani e rientrando in casa di corsa, pazzo di disperazione. Giunto affannato in camera sua, si abbandonò, quasi fuori di sé, sul divano, col viso nascosto nel cuscino. Per un minuto restò così, poi saltò in piedi e, senza aspettare Petruska, calzò la soprascarpe, il cappello, il cappotto, afferrò la sua cartella e corse a rotta di collo giù dalle scale. "Non ho bisogno di niente, di niente, mio caro! Farò da solo, tutto da solo! Non ho bisogno di te, per ora... la faccenda, forse, si metterà per il meglio" mormorò Goljadkin a Petruska, che aveva incontrato per le scale; poi sboccò in cortile e uscì dalla casa. Si sentiva mancare il cuore, non poteva ancora decidersi... Come fare, come comportarsi, come agire in quel momento critico...

"Sicuro, come agire, Signore Iddio? Doveva proprio capitare anche questo!" esclamò, quasi gridando, in preda alla disperazione, correndo senza sapere dove, arrancando così, alla cieca... "Anche questa ci voleva! Ora, ecco, se non fosse capitato questo, proprio questo, tutto si sarebbe aggiustato; in una volta sola, con un solo colpo, con un solo audace, energico, abile colpo, tutto si sarebbe aggiustato! E so persino in che modo si sarebbe aggiustato! Ecco come si sarebbero svolte le cose: io, avrei detto, io... le cose stanno così e così, signor mio, con rispetto parlando, non importa... un fico secco, le cose non si fanno così:

signore, avrei detto, egregio signore, le cose non si fanno così, e con l'impostura, da noi, non arriverai a niente; siete un impostore, signor mio, siete un individuo inutile, che alla patria non reca nessun vantaggio. Lo capite? Lo capite questo - avrei detto - egregio signore? così sarebbero andate le cose... Ma no!

Del resto, non si tratta di quello, assolutamente no... Ma che frottola sto raccontando, scemo che sono? Un suicida, sono! Sì, suicida che sei, non è proprio quello... Ecco, e adesso, caro il mio depravato che non sei altro, come si fa, adesso? Dove andrò a ficcarmi, adesso? Be', che cosa devo fare di me, a cosa posso servire ora? Be', a che cosa, per fare un esempio, a che cosa puoi servire ora, Goljadkin, indegno uomo che sei! Che fare, adesso? La carrozza bisognava pur prenderla. Prendi, ha detto, una carrozza, e falla venir qui.. Se non ci sarà la carrozza, ci bagneremo i piedini, ha detto... Ma chi avrebbe potuto pensare? Su, signorina, su, padroncina mia! Su, ragazza di morigeratissima condotta! Su, tanto lodata fanciulla nostra! Vi siete fatta onore, non c'è che dire, vi siete fatta onore! E tutto questo può accadere grazie all'immoralità dell'educazione, e io, come vado deducendo da tutto questo, vedo che tutto accade solo a causa dell'immoralità. Invece di farle sentire qualche volta il gusto delle vergate fin da giovane, te la rimpinzano di confetti, di leccornie di ogni genere e il vecchietto stesso piagnucola intorno a lei... Tu sei la mia qui, dice, tu sei la mia là, sei bella, dice, ti darò un conte per marito! E ecco la bella roba che ne è venuta fuori, ecco come ora ci ha mostrato le sue carte... Ecco, dice, qual è il nostro gioco!

Invece di tenersela in casa, da giovane, loro te la mandano in un pensionato, da una signora francese da una qualsiasi Falbalà emigrata; e lei, da quella qualsiasi emigrata Falbalà, ne impara di tutti i colori, e ecco il risultato! Venite, dice, rallegratevi! Trovatevi con la carrozza, dice, all'ora tale, sotto le finestre, e cantate una romanza sentimentale spagnola; io vi aspetto, so che mi amate e fuggiremo insieme e vivremo in una capanna. Ma infine, questo non è possibile; questo, signorina mia, se si è ormai a questo punto, non è possibile... Anche le leggi vietano di rapire un'onesta e innocente fanciulla dalla casa dei genitori, senza il consenso di questi! Ma infine, perché, a che scopo e per quale necessità? Be', che sposi pure chi deve sposare, sposi chi le è stato assegnato dal destino, così è finita. Io sono un impiegato e per questo potrei perdere il posto; io, signorina mia, posso andare sotto processo per questo! Sicuro, ecco che cosa può succedere, se anche non lo sapevate. Sotto sotto, qui c'è la tedesca. Tutto viene da lei, da quella strega; è lei la causa di tutto questo trambusto! Perché hanno calunniato un uomo, perché hanno inventato su di lui pettegolezzi da donnicciola, panzane di ogni genere, per consiglio di Andréj Filìppovic'? Tutto viene da lì. Se no, perché Petruska vi sarebbe immischiato? Che c'entra, lui? Che bisogno ne aveva, quel birbante? No, signorina, io non posso, assolutamente non posso, a nessun costo... E voi, signorina, per questa volta scusatemi in qualche modo... Tutto ciò viene da voi, signorina, non dalla tedesca, non dalla strega, no, assolutamente... Ma esclusivamente da voi, perché la strega è una buona donna, perché la strega in questo non ha nessuna colpa, ma siete voi, signorina, la colpevole: ecco come stanno le cose! Voi, signorina, voi mi incolpate senza ragione... Qui c'è un uomo che sta andando in rovina, un uomo che sta fuggendo da se stesso e che non riesce più a trattenersi... Come parlare di nozze? E come finirà tutto questo? E come si metteranno le cose, adesso?

Pagherei non so che, per saperlo!" Così andava rimuginando, in preda alla disperazione, il nostro eroe. Riavutosi di colpo, si accorse di trovarsi in qualche angolo della Litéjnaja. Il tempo era orribile: sgelava, nevicava, pioveva... Tutto precisamente come in quell'indimenticabile momento, quando, in una spaventosa mezzanotte, avevano avuto inizio tutte le disgrazie del signor Goljadkin. "Ma che viaggio!" pensava Goljadkin osservando il tempo, "questa è la fine del mondo... Signore mio dio! Dove potrei ora, per esempio, trovare una carrozza? Ecco, là sull'angolo, vedo qualcosa di scuro... Be', ora vedremo, faremo ricerche... Signore mio dio!" continuava il nostro eroe, dirigendo i suoi deboli e stanchi passi verso il punto dove gli era sembrato di aver visto qualcosa che aveva l'aria di una carrozza. "No, io ora, ecco, faccio così: andrò a buttarmi ai suoi piedi, lo pregherò umilmente. Le cose stanno così e così, gli dirò: affido il mio destino nelle mani dei superiori:

eccellenza, dirò, proteggete e beneficate un uomo; le cose stanno così e così, dirò, ecco, si tratta di questo e di quello, è un'azione contraria alle leggi; non rovinatemi, vi considero un padre, non abbandonatemi... salvate il mio amor proprio, il mio onore, il mio nome... salvatemi da un essere malvagio, da un depravato... Lui è un'altra persona, eccellenza e anch'io sono un'altra persona; lui sta da sé e io pure sto da me; davvero, eccellenza, io me ne sto da me, davvero... ecco come stanno le cose, dirò. Somigliare a lui non posso, dirò; sostituitemi, vogliate benevolmente dare ordine di sostituirmi, e date ordine di annullare quella sacrilega e arbitraria sostituzione... che non ha precedenti, eccellenza... Io vi considero un padre, i superiori, senza dubbio, i benèfici e previdenti superiori devono incoraggiare iniziative simili... Qui c'è addirittura qualcosa di cavalleresco. Vi considero come un padre, dirò, benefico superiore, e vi affido la mia sorte e mi dimetterò io stesso dal lavoro... dirò... ecco, come stanno le cose!" "Be', caro, sei un vetturino?" "Un vetturino, si." "La carrozza, caro, per la serata..." "Volete andar lontano?" "Per la serata, per la serata: dovunque ci sia bisogno di andare, caro mio, dovunque ci sia bisogno.. " "Volete per caso andare fuori città?" "Sì, amico mio: fuori città, può darsi. Ancora non lo so con certezza, amico mio, non posso assicurartelo, caro... vedi, caro, può darsi che tutto si aggiusti per il meglio.. Si sa, amico mio..." "Eh, sì, signore, si sa... naturalmente; lo voglia Iddio per ognuno " "Sì, amico mio, sì; ti ringrazio, mio caro: be', amico mio, quanto mi prenderai?" "Volete andare subito, signore?" "Sì, subito. Cioè, no, aspetterai in un posto... così, un pochino.

Non dovrai aspettare a lungo, mio caro...

"Ma, se mi prendete per tutta la serata, allora meno di sei rubli non è possibile, visto anche il tempo..." "Sì, va bene, amico mio, va bene; ti ricompenserò, caro. Dunque, va bene, ora tu mi porterai, caro." "Accomodatevi, signore. Ecco, ora sistemerò un pochino qui...

Favorite salire, ora. Dove devo andare?" "Al ponte Izmajlovskij, amico mio." Il vetturino-cocchiere era salito a cassetta e si preparava a far muovere la coppia dei suoi scarni ronzini, che a fatica era riuscito a staccare dal trogolo del fieno, verso il ponte Izmajlovskij. Ma di colpo Goljadkin diede uno strappo al cordone, fece fermare la carrozza e pregò con voce supplichevole di tornare indietro e di non andare al ponte, ma da un'altra parte. Il vetturino girò in un'altra strada e dopo dieci minuti la carrozza presa da Goljadkin si fermò davanti alla casa in cui abitava sua eccellenza. Goljadkin scese, pregò caldamente il vetturino di aspettare e di corsa, col cuore che sembrava mancargli, salì al secondo piano, tirò il campanello, la porta si aprì e il nostro eroe si trovò nell'anticamera di sua eccellenza.

"Sua eccellenza è in casa?" domandò Goljadkin rivolgendosi al cameriere che gli aveva aperto.

"Ma voi, che cosa desiderate?" si informò il domestico, squadrando Goljadkin dalla testa ai piedi.

"Io, amico mio, sì... sono Goljadkin, l'impiegato, il consigliere segreto Goljadkin. Gli dirò che le cose stanno così e così... mi spiegherò..." "Aspettate un momento; ora non si può..." "Amico, non posso aspettare: si tratta di una cosa importante, una cosa molto urgente." "Ma voi da parte di chi venite? Avete delle carte?" "No, io, amico, vengo per conto mio... Riferisci, amico, che le cose sono così e così... Digli che è venuto per spiegarsi... E io ti ricompenserò, mio caro..." "Non è possibile. Non può ricevere nessuno; c'è gente. Favorite venire di mattina alle dieci..." "Annunciatemi, caro, io non posso, non posso assolutarnente aspettare. Voi, mio caro, ne risponderete..." "Ma sì, va' e annuncialo: che te ne importa? ti dispiace sciupare gli stivali, forse?" esclamò un altro cameriere, sdraiato su una cassapanca e che fino a quel momento non aveva aperto bocca.

"Ma che stivali! Lo sai, no, che ha dato ordine di non ricevere nessuno? Il loro turno è di mattina." "E annuncialo. Ti cascherà la lingua per questo?" "E va bene: lo annuncerò: la lingua non mi cascherà. Però ha dato ordine di no, ho detto che ha dato ordine di no. Entrate in quella stanza." Goljadkin entrò nella prima stanza, sul tavolo c'era un orologio.

Vi gettò un'occhiata: erano le otto e mezzo. Il cuore cominciava a fargli. Voleva già tornare indietro, ma in quel momento quello spilungone di cameriere, fermo sulla porta della stanza appresso, pronunziava ad alta voce il nome del signor Goljadkin. "Che po' po' di voce!" pensò con indescrivibile angoscia il nostro eroe...

"Ma avresti dovuto dire: 'lui... dice così e così.. è venuto per spiegare umilmente... lui... favorite riceverlo...' Ma ormai tutto è rovinato, e tutto è ormai andato per aria; del resto... be'...

non importa!" Non ebbe tempo, però, di ragionarci su; il cameriere ritornò, disse: "Favorite", e fece entrare Goljadkin nello studio.

Quando il nostro eroe entrò, provò l'impressione di essere diventato cieco, poiché non riusciva a vedere assolutamente niente. Gli guizzarono davanti agli occhi due o tre figure. "Be', questi saranno i visitatori" passò per la testa di Goljadkin.

Finalmente il nostro eroe cominciò a distinguere chiaramente una stella sul frac nero di sua eccellenza, poi, poco a poco, passò al frac nero e, infine, ebbe la facoltà di una visione completa...

"Che c'è?" proferì una voce nota al di sopra di Goljadkin.

"Consigliere titolare Goljadkin, eccellenza." "Ebbene?" "Sono venuto a spiegarvi..." "Come? Che cosa?" "Sì, così... Vorrei dirvi che le cose stanno così e così... Sono venuto a spiegarvi, eccellenza..." "Ma voi, ma chi siete voi?" "Eccellenza, consigliere titolare." "Ebbene, che cosa volete?" "Vi dirò che le cose stanno così e così e che vi considero come un padre; io stesso abbandonerò l'impiego... ma voi proteggetemi dal nemico. Ecco, è così!" "Che cosa?" "Si sa..." "Si sa che cosa?" Goljadkin tacque: il mento cominciava piano piano a tremargli...

"E allora?" "Io pensavo a una cosa cavalleresca, eccellenza... Qui, eccellenza, c'è del cavalleresco, e io considero il superiore come un padre e le cose stanno così e così... proteggetemi, vi su- supplico con le la-lac-lacrime agli occhi, e che simili impulsi de-de-vono esse-ere favoriti..." Sua eccellenza si girò. Il nostro eroe per alcuni attimi non riusci più a vedere niente... Si sentiva oppresso. Gli mancava il respiro. Non sapeva dove si trovasse... Provava un senso di vergogna e di tristezza. Sa Iddio quello che accadde poi...

Riavutosi, il nostro eroe si accorse che sua eccellenza stava parlando con due dei suoi visitatori e sembrava che discutesse di non so quali affari, in modo brusco e violento. Uno dei due ospiti, Goliadkin lo riconobbe subito. Era Andréj Filìppovic'; l'altro, no. Gli sembrava tuttavia un viso conosciuto anche quello: un individuo alto e grasso, già anziano, con i basettoni e le sopracciglia foltissime e con lo sguardo acuto e provocante. Al collo dello sconosciuto una decorazione, in bocca un sigaro. Lo sconosciuto fumava e, senza togliersi il sigaro di bocca, accennava significativamente con la testa, guardando di tanto in tanto Goljadkin. Goljadkin cominciava a sentirsi, in certo qual modo, a disagio; girò gli occhi da un'altra parte e anche lì vide uno stranissimo visitatore. Sulla porta, che il nostro eroe aveva fino a quel momento creduto uno specchio, proprio come era già capitato un'altra volta, era comparso lui, si sa benissimo chi, l'intimo conoscente e amico del signor Goljadkin. Il signor Goljadkin numero due si era realmente trovato, fino a quel momento, in un'altra stanzetta dove scriveva qualcosa in fretta e furia; ora, evidentemente, c'era bisogno di lui e lui era comparso, con gli incartamenti sotto il braccio, e si avvicinava a sua eccellenza, e con grande destrezza, in attesa di un'esclusiva attenzione verso la sua persona, era riuscito a intromettersi nella conversazione e nel consulto, dopo aver occupato il suo posto un po' dietro la schiena di Andréj Filìppovic' e un po' nascondendosi dietro lo sconosciuto che fumava. Evidentemente il signor Goljadkin numero due era molto interessato alla conversazione, da lui ora seguita con atteggiamento deferente; annuiva col capo, si appoggiava ora su un piede ora sull'altro, sorrideva, guardava di continuo sua eccellenza come se volesse supplicarlo con lo sguardo che venisse permessa anche a lui una mezza parolina. "Mascalzone!" pensò Goljadkin e involontariamente fece un passo avanti. In quel momento il generale si girò e con una certa esitazione si avvicinò a Goljadkin.

"Su, bene, bene... Andate con Dio. Esaminerò personalmente la vostra faccenda, e ora vi farò riaccompagnare..." A questo punto il generale diede un'occhiata allo sconosciuto dalle folte basette, quello, in segno di assenso, chinò il capo.

Goljadkin sentiva e capiva chiaramente che lo ritenevano un altro e per niente quello che sarebbe dovuto essere. "Così o cosà, qui è necessaria una spiegazione," pensò "le cose sono così e così, eccellenza, dirò..." Poi, esitando, abbassò gli occhi a terra e, con suo grande stupore, vide sugli stivali di sua eccellenza una notevole macchia bianca. "E' possibile che si siano spaccati?" pensò Goljadkin. Ben presto, però, Goljadkin scoprì che gli stivali di sua eccellenza non erano affatto spaccati, ma che si trattava solo di un riflesso, fenomeno spiegabilissimo col fatto che gli stivali erano verniciati e brillavano vivamente. "Questo si chiama 'luce'" pensò il nostro eroe, "denominazione usata particolarmente dai pittori: in altri posti questa luminosità viene chiamata 'alone luminoso'." A questo punto Goljadkin alzò gli occhi e vide che era il momento di parlare, perché la cosa poteva benissimo volgersi al peggio... Il nostro eroe fece un passo indietro.

"Dico, eccellenza, che le cose stanno così e così..." disse, "e che con l'impostura, nel nostro secolo non si riesce in niente." Il generale non rispose e tirò con forza il cordone del campanello. Il nostro eroe fece di nuovo un passo avanti.

"E' un individuo infame e depravato, eccellenza" disse il nostro eroe, fuori di sé, mezzo morto di paura, e, nonostante ciò, indicando con audacia e decisione il suo indegno gemello, che in quel momento trotterellava intorno a sua eccellenza; "le cose sono così e così, dico, e mi riferisco a una ben nota persona." Alle parole di Goljadkin seguì un movimento generale. Andréj Filìppovic' e lo sconosciuto personaggio facevano cenni col capo; sua eccellenza con gesto impaziente tirò a tutta forza il cordone del campanello, chiamando i domestici. A questo punto il signor Goljadkin numero due fece a sua volta un passo avanti.

"Eccellenza" disse, "chiedo umilmente il permesso di parlare." Nella voce del signor Goljadkin numero due c'era un non so che di fermamente deciso; tutto in lui dimostrava che sentiva di essere nel suo pieno diritto.

"Permettete che io vi chieda" ricominciò, prevenendo col proprio zelo la risposta di sua eccellenza e rivolgendosi questa volta a Goljadkin, "permettete che vi chieda: in presenza di chi vi spiegate in questa maniera? Davanti a chi siete? Nello studio di chi vi trovate?" Il signor Goljadkin numero due era in preda a una straordinaria agitazione, rosso e fiammeggiante di sdegno e di collera; nei suoi occhi brillavano persino le lacrime.

"I signori Bassavrjukov!" urlò a tutta forza il domestico, comparendo sulla porta dello studio. "Un'ottima, nobile famiglia, originaria della Piccola Russia" pensò Goljadkin e in quel momento sentì che qualcuno, in modo molto amichevole, gli aveva posato una mano sulla schiena; poi sulla sua schiena se ne posò un'altra; l'abietto gemello del signor Goljadkin gli sgambettava davanti, facendo strada, e il nostro eroe vide chiaramente che lo spingevano - sembrava verso la grande porta dello studio.

"Esattamente come a casa di Olsufij Ivànovic'" pensò e si ritrovò in anticamera. Si guardò in giro e vide accanto a sé i due domestici di sua eccellenza e il suo gemello.

"Il cappotto, il cappotto, il cappotto, il cappotto del mio amico!" cinguettava il depravato individuo, strappando dalle mani di un domestico il cappotto e gettandolo, con volgare e maligna burla, dritto sulla testa del signor Goljadkin. Mentre si agitava sotto il suo cappotto, il signor Goljadkin numero uno sentì chiaramente le risate dei due domestici. Ma, senza ascoltare niente e senza badare a nessuno, uscì dall'anticamera e si trovò sulla scala illuminata. Il signor Goljadkin numero due lo seguì.

"Addio, eccellenza!" gridò quello alle spalle del signor Goljadkin numero uno.

"Mascalzone!" urlò di rimando il nostro eroe fuori di sé.

"Ma sì! anche mascalzone..." "Turpe individuo!" "Ma sì, anche turpe individuo..." rispose al degno signor Goljadkin l'indegno suo nemico e, con la sua innata vigliaccheria, fissava dall'alto della scala, senza battere ciglio, Goljadkin, come volesse invitarlo a continuare. Il nostro eroe sputò per l'indignazione e uscì sul pianerottolo: era così spossato che non ricordava assolutamente chi e come l'avesse fatto salire in carrozza. Riavutosi, vide che lo portavano verso la fontanka.

"Verso il ponte Izmajlovskij, dunque?" pensò Goljadkin... Qui fu preso dal desiderio di pensare a qualche altra cosa, ma non fu possibile: eppure succedeva qualcosa di così orribile da non potersi spiegare... "Be', non è niente!" concluse il nostro eroe, e si diresse al ponte Izmajlovskij.

 

 

 13.

 

Sembrava che il tempo volesse migliorare. In realtà la neve bagnata, che era caduta fino a quel momento addirittura a nugoli, a poco a poco cominciava a diradarsi, fino a cessare quasi del tutto. Il cielo cominciava a rasserenare, qua e là brillavano piccole stelle. Tutto però era fradicio, fangoso, umido e soffocante, specialmente per Goljadkin che, anche senza di ciò, stentava a tirare il fiato. Il suo cappotto zuppo d'acqua e diventato pesante lasciava penetrare in tutte le membra una tiepida, antipatica umidità e col proprio peso gli rompeva le gambe, già per conto loro molto indebolite. Una specie di brivido febbrile gli serpeggiava per tutto il corpo con un penetrante e acuto formicolìo; a causa dell'umidità si era riempito di un freddo sudore da malato, e così Goljadkin dimenticò, in questa situazione, di ripetere con la fermezza e la decisione a lui proprie la frase prediletta, cioè che quello, e tutto il resto, in qualsiasi modo probabilmente, anzi sicuramente, si sarebbe aggiustato per il meglio. "Del resto, tutto ciò, per ora, non ha alcuna importanza" aggiunse il nostro robusto eroe, che non si lasciava abbattere, asciugandosi sul viso le gocce di acqua fredda, che scendevano in tutte le direzioni dalla falda del suo cappello tondo, tanto zuppo da non tenere più l'acqua. Dopo avere, in più, considerato che questo non era ancora niente, il nostro eroe volle provare a rannicchiarsi su un tronco d'albero abbastanza robusto, che giaceva abbandonato accanto a un mucchio di legna nel cortile di Olsufij Ivànovic'. Naturalmente non c'era ormai più da pensare alle serenate spagnole e alle scale di seta; ma c'era comunque da pensare a un qualche angoletto isolato, se non caldo, almeno accogliente e nascosto. Lo tentava molto, sia detto per inciso, quell'angoletto nell'ingresso dell'appartamento di Olsufij Ivànovic', dove già una volta, quasi all'inizio di questa storia vera, il nostro eroe era rimasto dritto per due ore tra un armadio e un vecchio paravento, in mezzo a ogni tipo di inutili carabattole casalinghe, a ciarpame e a cianfrusaglie. Il fatto è che anche adesso Goljadkin era in piedi da due ore nel cortile di Olsufij Ivànovic', in attesa. Ma, a proposito dell'appartato e comodo cantuccio di quella volta, c'erano adesso alcuni inconvenienti che allora non c'erano. Il primo inconveniente era questo, e cioè che, con tutta probabilità, quel posto era stato scoperto e si erano prese in proposito alcune precauzioni, dopo l'incidente capitato nell'ultimo ballo in casa di Olsufij Ivànovic'; e poi bisognava aspettare un segnale convenuto da parte di Klara Olsùfevna, perché, senza dubbio, un tale segnale ci doveva pur essere. Così era sempre stato e, si dice, "non è cominciato da noi e non finirà con noi." Goljadkin ricordò di proposito, così di sfuggita, un romanzo da lui letto molto tempo prima, in cui la protagonista aveva fatto un segnale convenuto ad Alfredo, in una circostanza proprio uguale, legando alla finestra un nastrino rosa. Ma il nastrino rosa ora, di notte e con quel clima di Pietroburgo, noto per essere così umido e infido, non poteva servire al caso e, a dirla in breve, era una cosa assolutamente inattuabile. "No, qui non c'è da parlare di scale di seta" pensò il nostro eroe, "e io preferisco starmene qui, alla meglio, appartato e zitto zitto... Ecco, mi metterò qui, per esempio..." e scelse un posticino nel cortile, proprio di fronte alle finestre, accanto alla catasta di legna. Nel cortile, si capisce, c'era un grande andirivieni di gente estranea, di postiglioni, di cocchieri; oltre a ciò si sentiva il fracasso delle risate, lo sbuffare dei cavalli eccetera eccetera...; tuttavia il posto era comodo: che lo notassero o no, c'era almeno questo vantaggio, che tutto si svolgeva, si può dire, nell'ombra e che nessuno poteva scorgere Goljadkin, mentre lui poteva vedere proprio tutto. Le finestre erano vivamente illuminate; in casa di Olsufij Ivànovic' ci doveva essere una solenne riunione. La musica, però, non si era ancora fatta sentire. "Forse non c'è un ballo, ma si sono riuniti così, per qualche altra occasione" pensava, sentendosi mancare, il nostro eroe. "Ma sarà poi oggi?" gli passò per la testa. "Non ci sarà uno sbaglio di data? Potrebbe anche darsi, tutto può darsi... Ecco come può essere... come può essere tutto ciò... Forse la lettera è stata scritta ieri, ma non mi è arrivata, e non mi è arrivata perché ci si è immischiato Petruska, quel mascalzone! O c'era scritto domani... cioè che io... che bisognava fare tutto domani, aspettare cioè con la carrozza..." A questo punto il nostro eroe si sentì gelare e ficcò la mano in tasca per prendere la lettera e venire a capo della faccenda. Ma la lettera, con sua grande meraviglia, in tasca non c'era. "Come mai?" mormorò Goljadkin più morto che vivo, "dove mai l'ho lasciata? L'ho persa forse?" gemette, infine, a conclusione.

"E se essa cadrà in mani cattive? (Sì, forse ci è già caduta!) O Signore! Che conseguenze ci saranno! Sarà un tale guaio che... Ah, destino mio maledetto!" Goljadkin tremava come una foglia al pensiero che, forse, il suo turpe gemello, lanciandogli il cappotto sulla testa, aveva precisamente lo scopo di sottrargli la lettera, della quale in chissà che modo era venuto a conoscenza dai suoi nemici. "Si aggiunga che quello ha per sistema di intercettare..." pensò il nostro eroe, "prova ne è... e che prova!" Dopo il primo attacco di paura, dopo essere rimasto per un momento come pietrificato, Goljadkin senti salirglì il sangue alla testa. Tra gemiti e stridere di denti si afferrò con le mani la testa che bruciava, si lasciò cadere sul tronco di legno e cominciò a pensare... Ma i pensieri, nella sua testa, non riuscivano a connettersi. Passavano di sfuggita alcuni visi, gli tornavano in mente, ora chiaramente, ora confusamente, certi avvenimenti da tempo dimenticati, gli guizzavano nel cervello i motivi di alcune sciocche canzoni... Che angoscia, che innaturale angoscia! "Mio Dio! Mio Dio!" pensava, dopo essersi un po' riavuto, il nostro eroe, cercando di soffocare in petto un singhiozzo, "mio Dio, dammi forza d'animo, nell'inesauribile profondità delle mie sventure! Che io sia perduto, svanito senza rimedio... ormai non c'è dubbio; questo è nell'ordine delle cose, poiché non può essere in nessun altro modo. Per prima cosa, ho perso il posto, definitivamente perso, in nessun modo potevo non perderlo... Be', immaginiamo che la cosa si aggiusti... I miei soldarelli mettiamo che mi bastino per i primi tempi; ma un alloggetto, qualche mobiluccio ci vorrà pure...

Petruska, prima di tutto, non sarà più con me... Io posso fare a meno del furfante... andrò in subaffitto, sicuro... benissimo!

Entrerò e uscirò quando mi farà comodo e Petruska non sarà là a brontolare se rientrerò tardi; ecco, proprio così, ecco perché si sta bene in subaffitto.. Bene, sì, mettiamo che tutto questo vada bene; ma perché io non parlo mai di quello di cui dovrei parlare?" A questo punto il pensiero del reale stato delle cose rischiarò la mente del signor Goljadkin. Egli si guardò intorno. "Ah, Signore mio dio! Signore mio dio! Ma di che sto parlando, ora?", pensò, del tutto smarrito e afferrandosi tra le mani la testa in fiamme...

"Forse, signore, volete andare via presto?" risuonò una voce sopra Goljadkin. Goljadkin ebbe un sussulto; ma dritto davanti gli stava il suo vetturino, anche lui bagnato e intirizzito fino al midollo, che, impaziente e non sapendo cosa fare, aveva avuto l'idea di dare un'occhiata a Goljadkin dietro la legna.

"Io, amico mio, non... io, amico, presto, molto presto...

aspettami, tu..." Il vetturino se ne andò borbottando a denti stretti. "Perché brontola, quello?" si domandò Goljadkin. "Io ho pur noleggiato la carrozza per la serata, io l'ho... e ora sono nel mio diritto...

ecco, com'è! L'ho noleggiata per la serata e non se ne parli più.

Anche se te ne starai così in piedi, mi è proprio indifferente.

Faccio il comodo mio. Se voglio, vado, se non voglio, non vado. E che io, ecco, me ne stia qui dietro la legna, non vuol dire proprio niente... e non osare dire niente, sai... Se il signore vuole starsene dietro la legna, ebbene stia dietro la legna... non sporca l'onore di nessuna... ecco, com'è! Ecco com'è, signorina mia, sempre che lo vogliate sapere. E in una capanna, signorina mia, così e così... nel nostro secolo industriale non ci vive nessuno. Ecco, è così! E senza moralità, nel nostro secolo industriale, no, signorina mia, non si va avanti... e di questo voi stessa ora servite da tristissimo esempio... Bisogna saper fare il capufficio e vivere in una capanna, sulla riva del mare.

Prima di tutto, signorina mia, sulla riva del mare non ci sono capiufficio, e poi è impossibile arrivarci, voi e io, a capufficio... Se, mettiamo, tanto per fare un esempio, io inoltro una domanda, e mi presento... Dico, le cose stanno così e così, nominatemi capufficio, dico, proteggetemi dal mio nemico... Ma a voi, signorina, diranno, che capiufficio ce ne sono molti e che voi qui non siete dall'emigrata Falbalà, dove vi hanno dato quegli insegnamenti morali, dei quali voi stessa ora fornite un tristissimo esempio... La moralità, signorina, consiste nel rimanere a casa, rispettare il padre e non pensare ai fidanzati prima del tempo. I fidanzati, signorina, al momento giusto, si troveranno. Ecco com'è! Naturalmente bisogna, senza dubbio, avere varie capacità; suonare un po' il pianoforte, parlare francese, conoscere la storia, la geografia, la dottrina e l'aritmetica...

Ecco com'è! e non serve altro. Oltre a questo, la cucina: senza dubbio, nel campo delle conoscenze di ogni fanciulla di buona famiglia, deve entrarci la cucina. E qui, invece, che succede?

Prima di tutto, bellezzina mia, egregia signorina, non vi lasceranno uscire, ma vi inseguiranno e poi... sotto chiave, in convento. E allora, signorina mia? Che volete che faccia, allora?

Vorrete che io, signorina mia, seguendo l'esempio di certi stupidi romanzi, venga sulla vicina collina a sciogliermi in lacrime, guardando le fredde mura della vostra prigione e che, infine, muoia seguendo la moda di certi cattivi poeti e romanzieri tedeschi? Bene: in primo luogo permettetemi di dirvi, in via amichevole, che queste cose non si fanno, e in secondo luogo che frusterei di santa ragione voi e i vostri genitori perché vi hanno permesso di leggere certi libracci francesi; perché i libracci francesi non insegnano niente di buono. C'è un veleno, là dentro, un veleno mortale, signorina mia! O voi credete - permettete la domanda - o voi credete che, così e così... potremo impunemente fuggire... e poi ecco... eccovi la capannuccia in riva al mare; e poi cominceremo a tubare e a ragionare su vari altri sentimenti, e così passeremo tutta la vita, nella gioia e nella felicità; e poi metteremo al mondo un passerottino, e noi, diremo, le cose sono così e così... genitore nostro, consigliere di stato, Olsufij Ivànovic', ecco, c'è un passerottino, e così voi, genitore nostro, in questa bella occasione ritirerete la vostra maledizione e ci benedirete? No, signorina, le cose non si fanno così, ve lo ripeto, e, prima di tutto, niente tubare, non speratelo. In questi tempi, il marito, signorina mia, è il padrone, e una moglie buona e di onorevole famiglia deve compiacerlo in tutto. E le svenevolezze, signorina mia, oggi, nel nostro secolo industriale, non piacciono: sono passati i tempi di Jean Jacques Rousseau. Il marito, per esempio, arriva a casa dell'ufficio morto di fame:

animuccia mia, dice, c'è qualcosa per fare uno spuntino, un dito di vodka, un'aringhetta da mettere sotto i denti? E così voi, signorina mia, dovete avere subito sottomano le due dita di vodka e l'aringhetta... Il marito fa il suo spuntino di gusto, e per voi nemmeno un'occhiatina, ma vi dirà: va', dirà, va' in cucina, gattina mia, e bada al pranzo e, sì e no, vi bacerà una volta alla settimana e anche con indifferenza... Ecco, signorina mia, come vanno le cose, secondo noi! E anche con indifferenza, ripeto...

Ecco come andranno le cose, si ragionerà così, se si è arrivati al punto di dover vedere le cose in questo modo... Ma io, qui, che c'entro? Perché, signorina mia, mi avete immischiato nei vostri capricci? 'Uomo benefico, dite, che soffri per me e che sei caro in ogni modo al mio cuore, eccetera eccetera'. Per prima cosa, signorina mia, io non sono fatto per voi, voi stessa lo riconoscete, non sono abile nel fare complimenti, non mi piace dire ogni specie di profumate sciocchezzuole da signora, non ho nessuna compassione per i vari Céladon e, dato anche il mio aspetto, confesso di non aver mai rimorchiato. Ma in noi non troverete né un falso smargiasso né un vergognoso, ve lo confesso in tutta sincerità. Ecco com'è: possediamo solo un carattere retto e franco e un sano giudizio, non ci occupiamo di intrighi. Non sono un intrigante, dico, e di questo sono orgoglioso: ecco come stanno le cose! Vado senza maschera, io, in mezzo alle persone perbene e, per dirvi tutto..." All'improvviso Goljadkin sussultò. La barba rossiccia e zuppa d'acqua del suo vetturino fece di nuovo capolino dietro la catasta...

"Subito, amico mio; io, amico mio, sai, subito... immediatamente, amico mio..." rispose Goljadkin con voce trepidante e languida.

Il vetturino si grattò la nuca, poi si accarezzò la barba, poi fece un passo avanti... Si fermò e guardò con occhio diffidente Goljadkin.

"Io subito, amico mio, vedi... amico mio... un momento... amico mio... un momentino, vedi..." "Forse non verrete affatto?" disse finalmente il vetturino, avvicinandosi con gesto deciso e definitivo a Goljadkin.

"No, amico mio, subito... Io, vedi, io, amico mio, sto aspettando...

"Già..." "Io, vedi, amico mio... tu, amico mio, di che villaggio sei?" "Siamo di casa padronale, noi... "(1) "E sono buoni i signori?" "Si capisce..." "Sì, amico mio; tu aspetta qui, mio caro. Tu, vedi... è tanto tempo, amico mio, che stai a Pietroburgo?" "Da un anno, ormai, porto la vettura..." "E ci stai bene, amico mio?" "Si capisce..." "Sì, amico, sì... Ringrazia la Provvidenza, amico mio. Tu, amico, cercati una brava persona. Oggi le brave persone sono rare, mio caro; quella ti laverà la roba, ti darà da mangiare e da bere, mio caro, certo una brava persona... Ma qualche volta, vedi, anche in mezzo all'oro scorrono le lacrime, amico mio... vedi, ecco qui, un doloroso esempio. Ecco come stanno le cose, amico mio..." Sembrava che il vetturino sentisse compassione per Goljadkin.

"Va bene, aspetterò. Vi tratterrete ancora molto, forse?" "No, amico mio, no; io... io non aspetterò più, amico mio... Io ti ricompenserò. Non aspetterò più qui..." "Forse non andrete più via?" "No, amico mio; no, io ti ricompenserò, caro... Quanto ti devo, caro?" "Quanto abbiamo stabilito, signore, favoritemelo. Ho aspettato molto, signore: voi, signore, non vorrete fare torto a un uomo..." "Su, caro, eccoti... eccoti, caro." E qui Goljadkin diede al vetturino i sei rubli d'argento e, seriamente deciso a non perdere altro tempo, cioè ad andarsene sano e salvo, tanto più che la faccenda era ormai definitivamente risolta e il vetturino licenziato e non c'era, quindi, più da aspettare, si precipitò fuori del cortile, uscì dal portone, girò a sinistra e, senza guardarsi alle spalle, ansimante e gioioso, si lanciò di corsa.

"Forse tutto si metterà per il meglio" pensava, "e io, così, ecco ho evitato un guaio". E realmente, come di colpo, nell'anima di Goljadkin era subentrato uno straordinario senso di leggerezza.

"Ah, se tutto si mettesse per il meglio!" pensava il nostro eroe, avendo però lui stesso molto poca fiducia nelle proprie parole.

"Ecco, io, anche quello..." pensava. "No, è meglio che io, ecco come, da un'altra parte... O non è meglio che faccia in questo modo?" così tra i dubbi e cercando la chiave per risolverli, il nostro eroe raggiunse di corsa il ponte Semjonovskij, ma, arrivato correndo fino al ponte Semjonovskij, ragionevolmente e definitivamente decise di tornare indietro. "E' meglio così" pensava. "E' meglio che io... da un'altra parte... cioè, ecco come. Farò così: sarò un osservatore estraneo e non se ne parli più; cioè sono un osservatore, una persona estranea, e succeda ciò che vuole, non ne ho più colpa io. Ecco com'è! Ecco come andranno le cose, adesso..." Una volta deciso di tornare indietro, il nostro eroe tornò davvero indietro, tanto più che, per una sua felice ispirazione, era adesso una persona del tutto estranea alla faccenda. "E' veramente meglio così: non devi rispondere di niente e vedi ciò che serve...

ecco com'è era già un calcolo esattissimo, e così era finita.

Messosi calmo, si ritirò di nuovo sotto la protezione pacifica della sua rassicurante e ben nascosta catasta e prese a tenere attentamente d'occhio le finestre. E quella volta non dovette vigilare e aspettare a lungo. All'improvviso, contemporaneamente a tutte le finestre, si notò uno strano movimento, un baluginare di figure, tende che si aprivano e interi gruppi di persone che si affollavano alle finestre di Olsufij Ivànovic', si affacciavano, cercando qualcosa in cortile. Protetto dalla sua catasta di legna, il nostro eroe cominciò, a sua volta, a seguire con curiosità la generale agitazione, girando la testa a destra e a sinistra, per quanto, almeno, glielo permetteva la breve ombra della sua protettiva catasta. Di colpo sbalordì, sussultò e per poco non si accasciò sul posto per lo sgomento. Gli era sembrato... a farla breve, aveva precisamente indovinato che non si cercava né qualcosa né qualcuno... si cercava semplicemente lui, Goljadkin.

Tutti guardavano dalla sua parte, tutti facevano segno verso di lui. Correre via era impossibile; lo avrebbero visto... Goljadkin atterrito, si accostò il più possibile alla sua catasta e solo a questo punto osservò che l'ombra protettrice lo aveva tradito:

infatti non lo riparava completamente. Con grande gioia il nostro eroe avrebbe in quel momento acconsentito a infilarsi in qualche buco per topi, in mezzo alla legna, e a restarsene lì quieto, solo che ciò fosse stato possibile. Ma possibile non lo era, nel modo più assoluto. In quel suo stato quasi d'agonia, cominciò, alla fine, a guardare decisamente tutte le finestre, con determinazione: era meglio... E, improvvisamente, si sentì definitivamente bruciato dalla vergogna. Lo avevano visto benissimo; tutti lo guardavano, tutti agitavano verso di lui le mani, gli facevano cenni col capo, tutti lo chiamavano; ecco, con grande strepito, aprirsi lo sportellino di qualche finestra; parecchie voci cominciarono a gridargli tutte insieme qualcosa...

"Mi meraviglio che queste ragazzacce non vengano frustate fin da piccole" borbottava tra sé il nostro eroe, completamente perso.

All'improvviso, dal pianerottolo uscì di corsa lui (si sa bene, chi) con indosso la sola giubba della divisa, a capo scoperto, tutto ansimante, sgambettando e saltellando, dimostrando perfidamente una pazza gioia per il fatto di avere, finalmente, visto Goljadkin.

"Jakòv Petrovic'!" sussurrò il ben noto, inutile individuo. "Jakòv Petrovic', siete qui? Qui fa freddo, Jakòv Petrovic'. Vogliate entrare." "Jakòv Petrovic'! No, Jakòv Petrovic', qui io ci sto bene" borbottò il nostro eroe con voce umile.

"No, non è possibile, Jakòv Petrovic'; vi pregano, vi pregano umilmente, ci aspettano. 'Fateci contenti,' mi hanno detto 'accompagnate qui Jakòv Petrovic'.' Ecco, è così!" "No, Jakòv Petrovic': io, vedete, io avrei fatto meglio... Io farei meglio ad andare a casa, Jakòv Petrovic'.." diceva il nostro eroe, bruciando a fuoco lento e gelando nello stesso tempo per la vergogna e il terrore.

"No-no-no-no!" cinguettò il repellente individuo. "No-no-no... a nessun costo! Andiamo!" disse, deciso, e trascinò verso il pianerottolo il signor Goljadkin numero uno. Il signor Goljadkin numero uno non voleva assolutamente andarci; ma poiché tutti lo guardavano, e opporsi e fare resistenza sarebbe stato sciocco, il nostro eroe si avviò... Del resto non si può nemmeno dire perché si avviasse, perché non sapeva nemmeno lui, assolutamente, che cosa gli stesse capitando. Ma se era così, d'accordo!

Prima che il nostro eroe avesse potuto mettersi un po' in ordine e riaversi, si trovò nella sala. Era pallido, spettinato, malconcio; rivolse alla folla uno sguardo spento... Orrore! La sala e tutte le stanze erano piene, traboccanti... C'era un mare di gente, una vera fioritura di donne; tutti si stringevano intorno a Goljadkin, tutti si lanciavano verso di lui, tutti portavano sulle loro spalle Goljadkin, che si accorgeva molto bene che lo stavano avviando da qualche parte. "Però non verso la porta", gli passò rapidamente per il capo. E in realtà non lo spingevano verso la porta, ma direttamente verso la comoda poltrona di Olsufij Ivànovic'. Vicino alla poltrona, da un lato era ritta Klara Olsùfevna, pallida, languida, malinconica, ma elegantissima.

Colpirono particolarmente lo sguardo di Goljadkin certi fiorellini bianchi tra i suoi capelli neri, con un risultato di magico effetto. Dall'altra parte della poltrona stava Vladimir Semjònovic', in frac nero, con la nuova decorazione all'occhiello.

Goljadkin fu accompagnato, come sopra si è detto, direttamente verso Olsufij Ivànovic': da una parte dal signor Goljadkin numero due, che aveva assunto un'aria dignitosissima e molto ben intenzionata, del che il nostro eroe si rallegrò oltre misura; dall'altra da Andréj Filìppovic', con un viso imponente e solenne.

"Che vorrà dire questo?" pensò Goljadkin. Quando poi vide che lo conducevano verso Olsufij Ivànovic', sembrò che un lampo gli illuminasse la mente. Il pensiero della lettera rubatagli gli passò rapidamente per la testa... In uno stato di infinita disperazione il nostro eroe si trovò davanti alla poltrona di Olsufij Ivànovic'. "Come devo comportarmi, adesso?" pensò. "E' certo che qui ci vuole audacia, cioè franchezza non priva di nobiltà; dirò che le cose sono così e così... e via di seguito".

Ma quello che il nostro eroe evidentemente temeva non accadde.

Olsufij Ivànovic' accolse benissimo, a quanto sembrò, Goljadkin e, benché non gli avesse tesa la mano, tuttavia, guardandolo, scosse la testa canuto che ispirava ogni rispetto, la scosse con un'espressione solenne e triste, ma nello stesso tempo benevola.

Così almeno sembrò a Goljadkin. Gli sembrò anche che una lacrima brillasse negli occhi scialbi di Olsufij Ivànovic'; sollevò lo sguardo e vide come anche sulle ciglia di Klara Olsùfevna, che era ancora dritta lì vicino, luccicasse una lacrimuccia, come negli occhi di Vladimir Semjònovic' accadesse qualcosa di simile e come la intangibile e calma dignità di Andréj Filìppovic' fosse anch'essa meritevole del generale commosso interesse, e come, infine, il giovane, un tempo somigliantissimo a un grave consigliere, singhiozzasse ora amaramente, approfittando di quel momento... O forse tutto questo era soltanto sembrato a Goljadkin, perché lui stesso aveva versato molte lacrime e chiaramente se le sentiva scorrere brucianti sulle guance... Con voce singhiozzante, ritornato in pace con gli uomini e con la sorte, e sentendo di amare moltissimo in quel momento non solo Olsufij Ivànovic', non solo tutti gli invitati messi insieme, ma persino il suo perfido gemello, che ora, evidentemente, non era affatto perfido e non era addirittura più gemello, ma un individuo assolutamente estraneo e di per sé amabilissimo, il nostro eroe, dicevamo, stava per rivolgersi verso Olsufij Ivànovic' in un commosso sfogo dell'anima, ma, per il traboccante afflusso di tutto ciò che in essa si era andato accumulando, non riuscì a spiegare assolutamente niente, ma poté soltanto indicare con un eloquente gesto il proprio cuore...

Finalmente Andréj Filìppovic', certo in atto di rispetto per la canizie del vegliardo, tirò un po' in disparte Goljadkin lasciandolo però, a quanto sembrava, in una posizione assolutamente indipendente.

Col volto atteggiato a sorriso e borbottando non so che cosa tra i denti, un po' incerto, ma in ogni caso quasi completamente riappacificato con gli uomini e con la sorte, il nostro eroe cominciò a farsi un po' strada attraverso la compatta folla degli ospiti. Tutti gli davano il passo, tutti lo guardavano con una certa strana curiosità e con un certo inspiegabile e un po' misterioso interesse. Il nostro eroe passò in un'altra stanza; ovunque la stessa attenzione. Sentiva vagamente che un'intera folla si accalcava sulle sue tracce, che si osservava ogni suo passo, che sotto sotto tutti parlavano di qualcosa di molto interessante, scuotevano il capo, parlavano, davano giudizi, facevano commenti e parlottavano. Goljadkin avrebbe voluto sapere a che cosa volessero riferirsi con quei giudizi e con quei commenti e su cosa parlottassero. Dato uno sguardo attorno, il nostro eroe vide accanto a sé il signor Goljadkin numero due.

Sentita la necessità di prenderlo per un braccio e di portarlo in disparte, Goljadkin pregò caldamente l'altro Jakòv Petrovic' di aiutarlo in tutte le future imprese e di non abbandonarlo in un caso critico. Il signor Goljadkin numero due annuì gravemente col capo e strinse forte la mano del signor Goljadkin numero uno. Il cuore prese a battere forte nel petto del nostro eroe, per la pienezza dei sentimenti. Era però tutto affannato, si sentiva stretto, stretto da vicino; sentiva tutti quegli occhi rivolti a lui che parevano opprimerlo e soffocarlo... Goljadkin vide di sfuggita quel consigliere che portava la parrucca. Il consigliere gli lanciò un'occhiata severa e inquisitoria, non addolcita affatto dalla simpatia generale... Il nostro eroe era già deciso ad andare direttamente da lui per sorridergli e avere una immediata spiegazione, ma la cosa non gli riuscì. Per un attimo Goljadkin smarrì quasi del tutto i sensi e perdette la memoria...

Riavutosi, si accorse che si stava rigirando in un vasto cerchio di invitati che lo avevano circondato. Di colpo da una stanza vicina si udì chiamare ad alta voce Goljadkin; il grido sfrecciò contemporaneamente per tutta la folla. Tutto cominciò ad agitarsi e a rumoreggiare, tutti si lanciarono verso la porta della prima sala; il nostro eroe fu portato quasi a braccia, mentre l'austero consigliere in parrucca si trovò fianco a fianco col signor Goljadkin. Finalmente lo prese per mano e lo fece sedere accanto a sé, dirimpetto alla poltrona di Olsufij Ivànovic' a una distanza da lui, però, abbastanza notevole. Tutti quelli che si trovavano nelle sale si misero a sedere, in varie file, attorno a Goljadkin e a Olsufij Ivànovic', in attesa evidentemente di qualcosa fuori del normale. Goljadkin notò che accanto alla poltrona di Olsufij Ivànovic' e proprio di fronte al consigliere aveva preso posto l'altro Goljadkin con Andréj Filìppovic'. Continuava il silenzio... si aspettava davvero qualcosa. "Proprio con esattezza come accade in qualsiasi famiglia, prima della partenza di qualcuno per un lungo viaggio; ora non rimane che alzarsi e recitare la preghiera" pensò il nostro eroe.

Di colpo ci fu un insolito movimento che interruppe tutte le riflessioni del signor Goljadkin. Stava succedendo qualcosa di atteso da lungo tempo. "Arriva! Arriva!" si sentì tra la folla.

"Chi arriva?" balenò alla mente del signor Goljadkin, che sussultò per una certa strana sensazione. "E' ora!" disse il consigliere dopo aver guardato attentamente Andréj Filìppovic'. Andréj Filìppovic', da parte sua, gettò un'occhiata a Olsufij Ivànovic'.

Olsufij Ivànovic' con gesto maestosamente solenne, annuì.

"Alziamoci", disse il consigliere facendo sollevare Goljadkin.

Tutti si alzarono. Allora il consigliere prese per mano il signor Goljadkin numero uno, e Andréj Filìppovic' il signor Goljadkin numero due e entrambi, con gesto solenne, misero i due perfettamente uguali in mezzo alla folla che si era radunata in cerchio attorno a loro, tutta tesa nell'aspettativa. Il nostro eroe si guardò intorno perplesso, ma subito lo fermarono e gli indicarono il signor Goljadkin numero due che gli tendeva la mano.

"Vogliono farci far pace" si disse il nostro eroe, e con emozione tese a sua volta le mani al signor Goljadkin numero due; poi, sporse verso di lui anche il capo. Lo stesso fece l'altro Goljadkin... Sembrò al signor Goljadkin numero uno che il perfido amico sorridesse, che di sfuggita strizzasse furbescamente l'occhio alla folla che li circondava, che ci fosse qualcosa di malvagio nel viso del turpe signor Goljadkin numero due, e che avesse perfino fatto una smorfiaccia nel momento del suo bacio da giuda... La testa del signor Goljadkin si riempì di suoni, gli occhi gli si ottenebrarono... ebbe l'impressione che una valanga, una schiera di Goljadkin perfettamente uguali irrompesse con fragore da tutte le porte; ma era tardi... Risuonò il rumore del bacio del tradimento...

A questo punto ecco verificarsi una circostanza del tutto inattesa... La porta della sala si spalancò con un gran fracasso e sulla soglia si presentò un individuo la cui vista raggelò Goljadkin. I suoi piedi si piantarono al pavimento. Un grido morì nel suo petto oppresso. Del resto, però, Goljadkin sapeva tutto già fin da prima, e da parecchio tempo aveva il presentimento di qualcosa del genere. Lo sconosciuto, con un'andatura grave e solenne, si avvicinò a Goljadkin... Goljadkin conosceva assai bene quella figura. L'aveva vista, la vedeva molto spesso, l'aveva vista anche oggi... Lo sconosciuto era un uomo alto, in frac nero, con un'importante decorazione al collo e con folte basette nere; gli mancava soltanto il sigaro in bocca per una più precisa somiglianza... Però lo sguardo dello sconosciuto, come già è stato detto, aveva raggelato di orrore Goljadkin... Con aria grave e solenne il terribile uomo si avvicinò al disgraziato eroe del nostro racconto.... Il nostro eroe gli tese la mano: lo sconosciuto la prese e se lo tirò dietro... Il nostro eroe si guardò intorno col viso smarrito e annientato...

"Questo è Krestjàn Ivànovic' Rutenspitz, dottore in medicina e chirurgia, vostro conoscente da lunga data, Jakòv Petrovic'!" cinguettò la voce antipatica di qualcuno proprio all'orecchio del signor Goljadkin. Si girò a guardare: era il gemello del signor Goljadkin, ripugnannte per la viltà del suo animo. Una gioia turpe e malvagia gli brillava sul viso; con entusiasmo si fregava le mani, con entusiasmo girava di qua e di là la testa, con entusiasmo sgambettava intorno a tutti; sembrava che per l'entusiasmo fosse pronto a iniziare una danza; alla fine fece un salto in avanti, strappò la candela di mano a uno dei servi e precedette, illuminando la strada, Goljadkin e Krestjàn Ivànovic'.

Goljadkin sentiva chiaramente che tutti quelli che si trovavano in sala si erano slanciati dietro di lui, che tutti si accalcavano, si urtavano l'un l'altro e che tutti insieme, a una voce, ripetevano alle spalle del signor Goljadkin: "Non è niente... non abbiate timore! Jakòv Petrovic', questo è il vostro vecchio amico e conoscente Krestjàn Rutenspitz..." Uscirono infine sulla scala principale, vivacemente illuminata; anche sulla scala c'era un mucchio di gente; la porta che dava sul pianerottolo si spalancò con gran fragore e Goljadkin si trovò sui gradini con Krestjàn Ivànovic'. Davanti all'ingresso era ferma una vettura tirata da quattro cavalli, sbuffanti d'impazienza. Il malvagio signor Goljadkin numero due in tre salti scese le scale e fu lui stesso ad aprire lo sportello della carrozza. Krestjàn Ivànovic' pregò Goljadkin di accomodarsi con un gesto di invito. Del resto, quell'atto non era affatto necessario: c'era abbastanza gente per farlo salire... Mezzo svenuto per il terrore, Goljadkin si girò a guardare indietro: tutta la scala, illuminata a giorno, era gremita di gente; occhi pieni di curiosità lo fissavano da ogni parte; Olsufij Ivànovic' in persona, dal pianerottolo più alto della scala, nella sua comoda poltrona, presiedeva e con attento e vivo interesse osservava il susseguirsi dell'avvenimento. Tutti aspettavano. Un mormorio d'impazienza serpeggiò tra la folla quando Goljadkin si girò indietro a guardare.

"Io spero che qui non ci sia niente... niente di pregiudizievole... o che possa provocare la riprovazione... e l'attenzione di tutti, per quanto si riferisce ai miei rapporti ufficiali..." disse, smarrito, il nostro eroe. Si alzò tutt'intorno un vociare rumoroso: tutti scuotevano la testa in cenno di diniego. Dagli occhi del signor Goljadkin scesero lacrime.

"In tal caso sono pronto... mi rimetto completamente e affido la mia sorte a Krestjàn Ivànovic'..." Appena Goljadkin ebbe detto che affidava la sua sorte a Krestjàn Ivànovic, un terribile assordante grido di gioia uscì dal petto di tutti quelli che lo circondavano e con la più malvagia risonanza serpeggiò tra la folla in attesa. A questo punto Krestjàn Ivànovic' da una parte e Andréj Filìppovic' dall'altra presero sottobraccio Goljadkin e lo fecero salire in carrozza; il sosia, poi, secondo la sua turpe abitudine, lo aiutava da dietro a salire. L'infelice signor Goljadkin numero uno lanciò il suo ultimo sguardo su tutto e su tutti e, tremando come un gattino su cui avessero gettato acqua fredda - se è lecito il paragone - salì in carrozza; dietro di loro prese immediatamente posto Krestjàn Ivànovic'. La carrozza fu chiusa con forza: si sentì un colpo di frusta sui cavalli, i cavalli trascinarono via la carrozza... e tutti si precipitarono dietro Goljadkin. Le urla crudeli e penetranti di tutti i suoi nemici gli corsero dietro come auguri di buon viaggio... Per un po' di tempo ancora alcuni visi apparvero intorno alla carrozza che portava via Goljadkin; ma a poco a poco cominciarono a restare indietro, sempre più indietro e, finalmente, cessarono completamente. Più a lungo di tutti rimase il turpe gemello del signor Goljadkin. Con le mani sprofondate nelle tasche laterali dei pantaloni verdi dell'uniforme, correva con aria soddisfatta, saltando ora dall'una, ora dall'altra parte della carrozza; di tanto in tanto, afferrandosi al telaio del finestrino e tenendosi appeso, ficcava dentro la testa e, in segno di addio, mandava piccoli baci al signor Goljadkin; ma poi cominciò a dare segni di stanchezza e ad apparire sempre più raramente, fino a che scomparve del tutto. Il cuore del signor Goljadkin prese a dolere sordamente in petto, il sangue gli batteva come una polla ardente nella testa: si sentiva soffocare, sentiva il bisogno di sbottonarsi, di denudarsi il petto, di cospargerlo di neve e di versarvi sopra dell'acqua gelata. Cadde infine privo di sensi... Quando si riebbe, vide che i cavalli lo portavano per una strada che non conosceva. A destra e a sinistra cupe ombre di boschi e ovunque solitudine e deserto.

All'improvviso si sentì morire: due occhi di fuoco lo fissavano nel buio, e questi due occhi scintillavano di una malvagia gioia infernale. Questo non è Krestjàn Ivànovic'! Chi è? Oppure è lui?

Lui! E' Krestjàn Ivànovic' ma non quello di prima, è un altro Krestjàn Ivànovic'! E' un orrendo Krestjàn Ivànovic'!

"Krestjàn Ivànovic', io... Io... mi pare, io... non dico niente" cominciò il nostro eroe con voce trepida e umile, desiderando, con la rassegnazione e l'umiltà, impietosire quell'orribile Krestiàn Ivànovic' "Voi ricevere 'alogio gofernativo' con legna, con "licht" e con servizio, del che voi indegno" risuonò severa e tremenda come una condanna la voce di Krestjàn Ivànovic'.

Il nostro eroe lanciò un grido e si afferrò la testa tra le mani.

Ahimè! Da un pezzo tutto questo lo aveva presentito!

 

 

NOTE:

  1. Si allude al diritto riservato ai proprietari di terra russi di mandare qualche loro servo a lavorare in città, riscuotendo poi, per compenso, un canone annuo dal lavoratore.

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