Nikolaj Vasilevic Gogol



I RACCONTI DI PIETROBURGO

 

 

 

 

 

La Prospettiva Nevskij

 

A Pietroburgo, non c'è niente di meglio della Prospettiva Nevskij.

Essa è tutto. Di cosa non brilla questa strada, meraviglia della nostra capitale! So con certezza che non uno dei pallidi abitanti cambierebbe la Prospettiva Nevskij con tutti i beni della terra.

Non solamente chi è giovane, magnifici baffi e un soprabito dal taglio perfetto, ma anche chi si vede già spuntare sul mento i peli bianchi e ha la testa liscia come un piatto d'argento, va in estasi davanti alla Prospettiva Nevskij. E le signore! Per le signore la Prospettiva Nevskij è qualcosa di ancora più piacevole.

E per chi del resto non è piacevole? Non appena la imbocchi, non senti altro che odore di passeggio. Anche se hai un affare importante e improrogabile da sbrigare, ecco che, dopo averci messo piede, te ne dimentichi subito. Questo è l'unico luogo dove la gente non si fa vedere perché spinta dal bisogno e dall'interesse che coinvolgono l'intera Pietroburgo. Sembra che le persone incontrate sulla Prospettiva Nevskij siano meno egoiste che non sulla Morskàja, sulla Gorochòvaja, sulla Litèjnaja, sulla Mescànskaja e nelle altre vie, dove l'avidità, il profitto e il bisogno si manifestano sia in quelli che camminano, sia in quelli che volano in carrozze e calessini. La Prospettiva Nevskij è il punto universale di confluenza di Pietroburgo. Qui l'abitante del rione Peterbùrgskij o del rione Vybòrgskoj, che per vari anni non è andato a trovare il suo amico a Peski o alla Barriera di Mosca, può star certo che lo incontrerà senza possibilità d'errore.

Nessun bollettino e nessun ufficio informazioni procureranno mai notizie così sicure come la Prospettiva Nevskij. Onnipotente Prospettiva Nevskij! Come sono spazzati con cura i tuoi marciapiedi e, Dio mio, quanti piedi vi hanno lasciato le loro orme! Il rozzo sudicio stivale del soldato in congedo, sotto il cui peso sembra doversi incrinare persino il granito; la minuscola scarpetta, leggera come il fumo, della giovane donna che, come il girasole all'astro, volge il viso verso le vetrine scintillanti di un negozio; la sciabola tintinnante dell'alfiere pieno di speranze che vi lascia un graffio! Sulla Prospettiva Nevskij tutto contribuisce a fondere il potere della forza e il potere della debolezza. Quale veloce fantasmagoria si svolge nel corso di una giornata! Quanti mutamenti in sole ventiquattro ore!

Cominceremo dal primissimo mattino, quando tutta Pietroburgo odora di panini ancora caldi, appena sfornati, ed è invasa da vecchie in abiti e pellicciotti laceri che compiono le loro incursioni nelle chiese e contro i passanti pietosi.

La Prospettiva Nevskij è vuota: i solidi proprietari dei negozi e i loro commessi dormono ancora nelle loro camicie di tela d'Olanda oppure insaponano le nobili guance e bevono il caffè; i mendicanti si radunano davanti alle porte delle pasticcerie, dove un garzone sonnolento, che il giorno prima svolazzava come una mosca servendo la cioccolata, adesso esce furtivo, senza cravatta, con una scopa in mano, e butta loro dei pasticcini raffermi e altri avanzi di cibo. La povera gente si trascina per le vie; a volte passano dei contadini russi che s'affrettano al lavoro con stivali così inzaccherati di fango che nemmeno il canale Ekaterìnskij, pur celebre per la sua pulizia, riuscirebbe a lavare. A quest'ora di solito non sta bene che le signore escano di casa, perché il popolo russo ama esprimersi con termini così violenti che non si odono nemmeno a teatro. Ogni tanto, se la Prospettiva Nevskij si trova sul suo tragitto alla volta del suo ufficio ministeriale, si vedrà passare un funzionario sonnacchioso con la borsa sotto il braccio. Si può dire senz'altro che a quest'ora, e sino alle dodici, la Prospettiva Nevskij per nessuno rappresenta un fine, ma serve soltanto come mezzo. A poco a poco essa si riempie di persone che hanno occupazioni, preoccupazioni, fastidi, ma non pensano per nulla alla strada. Il contadino russo parla di grivnje, ovvero di monete di rame da sette centesimi; vecchi e vecchie agitano le braccia o parlano da soli, talvolta con gesti bizzarri, ma nessuno li ascolta e neppure ride, esclusi forse i ragazzini in camiciotti variopinti che corrono come fulmini per la Prospettiva Nevskij con bottiglie vuote o stivali da consegnare. A quest'ora, qualunque cosa vi mettiate indosso, abbiate pure in testa un berretto al posto d'un cappello, o sporga troppo il colletto rispetto alla cravatta, nessuno lo noterebbe.

Alle dodici arrivano gli istitutori di tutte le nazionalità con i loro pupilli dai colletti di batista. Gli inglesi Jones e i Coques francesi vanno a braccetto con i discepoli affidati alla loro tutela e, con rispettabile gravità, spiegano che le insegne sopra ai negozi sono fatte allo scopo di sapere che cosa si trova nei negozi stessi. Le governanti, pallide miss o rosee slave, camminano maestose dietro le loro sottili e irrequiete fanciulle alle quali ordinano di tirare giù una spalla o di tenersi più dritte. Insomma, a quest'ora la Prospettiva Nevskij è una Prospettiva pedagogica, ma, quanto più ci si avvicina alle due, tanto più diminuisce il numero degli istitutori, dei pedagoghi e dei bambini, finché ad essi subentrano i loro cari genitori che camminano sottobraccio alle loro variopinte ed isteriche consorti.

A poco a poco si uniscono alla compagnia tutti quelli che hanno terminato importanti occupazioni domestiche, e cioè hanno chiacchierato con il dottore a proposito del tempo e di un piccolo foruncolo comparso sul naso, si sono informati della salute dei cavalli e dei figli che peraltro rivelano grandi doti, hanno letto un affisso e un importante articolo sul giornale a proposito di chi arriva o di chi parte, e, infine, hanno bevuto una tazza di caffè o di tè; ad essi si aggiungono anche quelli a cui una sorte invidiabile ha dato il titolo di funzionario con incarichi speciali. Arrivano poi coloro che prestano servizio al Ministero degli Esteri e si distinguono per la nobiltà delle loro occupazioni e abitudini. Dio, quali magnifici impieghi e incarichi esistono! Come elevano e deliziano l'anima! Ma, ahimè! io non presto servizio al Ministero degli Esteri e sono quindi privato del piacere di vedere il fine tratto dei superiori nei miei confronti. Tutto ciò che s'incontra sulla Prospettiva Nevskij, è pervaso di distinzione: uomini dai lunghi soprabiti con le mani sprofondate nelle tasche; signore in redingotes di raso, rosse, bianche e celeste chiaro, con cappellini. Incontrerete basettoni davvero unici, fatti scendere sotto la cravatta, con arte stupefacente e straordinaria; basettoni di velluto, di raso, neri come lo zibellino o il carbone. Però, ahimè! appartenenti soltanto al Ministero degli Esteri. Agli impiegati degli altri ministeri la provvidenza ha negato i basettoni neri; con sommo disappunto essi debbono portarli fulvi. Incontrerete baffi meravigliosi, che nessuna penna, nessun pennello sanno raffigurare; baffi ai quali è stata dedicata la metà migliore della vita: oggetto di lunghe cure durante il giorno e durante la notte, baffi sui quali sono stati versati profumi e aromi tra i più sorprendenti e che tutte le più preziose e rare qualità di unguenti hanno impomatato; baffi che durante la notte vengono avvolti in fine carta velina, baffi a cui sono rivolte le più commoventi attenzioni dei loro possessori, e che i passanti invidiano. Ognuno sulla Prospettiva Nevskij è poi abbagliato dalle mille varietà di cappellini, di abiti, di fazzoletti variopinti e leggeri, ai quali le rispettive proprietarie restano a volte affezionate anche per due giorni.

Sembra che un intero mare di farfalle si sia sollevato improvvisamente dai fiori e si libri come una nuvola scintillante sopra gli scarafaggi neri che sono gli uomini. Incontrerete vitini come non avete mai sognato: vitini esili, sottili, non più grossi d'un collo di bottiglia, vedendo i quali vi fate rispettosamente da parte perché non si dia il caso di urtarli inavvertitamente con un gomito scortese. Il vostro cuore è preso dalla timidezza e dal timore che magari anche soltanto un vostro incauto respiro possa infrangere queste incantevoli creazioni della natura e dell'arte.

E quali maniche femminili incontrate sulla Prospettiva Nevskij!

Ah, che incanto! Esse assomigliano un poco a due aerostati, tanto che la dama potrebbe d'improvviso sollevarsi in aria, se non la tenesse il suo cavaliere; poiché sollevare in aria la dama è facile e piacevole come portare alle labbra una coppa di champagne. In nessun luogo come sulla Prospettiva Nevskij, incontrandosi, ci si saluta in modo così nobile e disinvolto. Qui troverete un sorriso unico, un sorriso all'apice dell'arte, che può farvi liquefare dal piacere, oppure, al contrario, farvi sentire a un tratto più in basso dell'erba, costringendovi a chinare il capo; oppure, ancora, trasportarvi più in alto della guglia dell'Ammiragliato e farvi sollevare la testa. Incontrerete gente che discute di un concerto o del tempo con termini eccezionalmente nobili e senso della propria dignità. Qui incontrerete migliaia di caratteri e di fenomeni incomprensibili.

Creatore! In quali strani caratteri ci s'imbatte sulla Prospettiva Nevskij! C'è una quantità di gente che, incontrandovi, immancabilmente vi guarderà le scarpe e, quando voi passate oltre, si volterà indietro per guardare le vostre falde. Ancora oggi non riesco a capire perché questo accada. In un primo tempo pensavo si trattasse di calzolai, eppure non è così; per la maggior parte sono persone che prestano servizio in ministeri, molte di loro possono scrivere in modo stupendo un rapporto da un ufficio statale a un altro; oppure sono persone che come occupazione vanno a passeggio, leggono i giornali nelle pasticcerie, insomma per la maggior parte persone proprio a modo.

Nell'ora benedetta, dalle due alle tre del pomeriggio, quando la Prospettiva Nevskij può definirsi una capitale che deambula, ha luogo la principale esposizione delle migliori opere dell'uomo.

Uno mostra un elegante soprabito del miglior castoro; l'altro un magnifico naso greco; un terzo porta splendidi basettoni; una quarta ha un paio di occhi assassini e un mirabile cappellino; un quinto, un anello col talismano sull'elegante mignolo; una sesta, un'incantevole scarpetta; un settimo, una cravatta che eccita lo stupore; un ottavo, dei baffi che suscitano la tua grande ammirazione. Suonano le tre, l'esposizione finisce, la folla si dirada... e sulla Prospettiva Nevskij d'improvviso sorge la primavera: la strada si ricopre di funzionari in uniformi verdi.

Affamati consiglieri titolari, consiglieri di corte e d'ogni altro genere si sforzano con tutte le loro energie di accelerare il passo. I giovani registratori di collegio, i segretari provinciali e di collegio si affrettano ad approfittare del tempo che resta e a passeggiare per la Prospettiva Nevskij con sussiego, dando a vedere che non sono stati affatto sei ore in ufficio. I vecchi segretari di collegio, i consiglieri titolari e di corte camminano svelti: essi hanno altro da fare che dedicarsi alla contemplazione dei passanti, ancora non si sono pienamente distaccati dalle loro preoccupazioni; nelle loro teste c'è un guazzabuglio, c'è un intero archivio di pratiche cominciate e non finite; invece di un'insegna, per molto tempo, essi vedono ancora quella cartella piena di incartamenti o la faccia grassoccia del capufficio.

Dopo le quattro la Prospettiva Nevskij è vuota e difficilmente vi troverete anche un solo impiegato. Magari la sartina di un negozio attraversa la Prospettiva con uno scatolone fra le mani, qualche misero relitto di capufficio umanitario che va in giro per il mondo in cappotto di frisia, qualche stravagante di passaggio per il quale tutte le ore sono uguali, qualche allampanata inglese con la reticella in testa e un libro in mano, qualche artigiano, uomo russo in soprabito di mezzo cotone stretto dietro e la barbetta a punta, che vive una vita di stenti; mentre passa cerimoniosamente sul marciapiede tutto in lui è movimento: la schiena, le braccia, le gambe, la testa. Talvolta troverete anche un lavoratore di fatica, ma, a quell'ora, sulla Prospettiva Nevskij non incontrerete nessun altro.

Non appena cade il crepuscolo sulle case e sulle strade, e la guardia, riparandosi sotto una stuoia, s'arrampica sulla scala ad accendere il lampione, e dalle basse vetrinette dei negozi occhieggiano quelle stampe che non osano mostrarsi alla luce del giorno, allora la Prospettiva Nevskij di nuovo si rianima e si mette in movimento. Ecco che arriva quel momento misterioso in cui le lampade danno ad ogni cosa una certa luce seducente, misteriosa. Incontrerete moltissimi giovani, per la maggior parte scapoli, in soprabiti pesanti e cappotti. A quest'ora si avverte un certo scopo nel passeggio o, meglio, qualcosa di simile a uno scopo. C'è un'aria straordinariamente spensierata, i passi di tutti accelerano e in genere si fanno assai irregolari. Lunghe ombre balenano sui muri e sul selciato e per poco non raggiungono con le loro teste il Ponte della Polizia. I giovani registratori di collegio, i segretari di provincia e di collegio, i consiglieri titolari e di corte stanno per lo più a casa, sia perché questa gente è ammogliata, sia perché le cuoche tedesche che vivono nelle loro case cucinano molto bene. Incontrerete invece rispettabili vecchi che per due ore passeggiano lungo la Prospettiva Nevskij con un'aria di grande importanza e di straordinaria nobiltà. Li vedrete sbirciare sotto il cappellino di una signora adocchiata da lontano, le cui grosse labbra e le guance impiastricciate di belletti tanto piacciono a molti uomini che vanno a passeggio, e più di tutto ai commessi di negozio, agli artigiani, ai mercanti che a passeggio ci vanno sempre in gruppo e solitamente a braccetto, indossando soprabiti di taglio tedesco.

"Fermati!" gridò in quel momento il tenente Pirogòv dando uno strattone al giovanotto in frac e mantello che camminava con lui.

"L'hai vista?" "L'ho vista. E' stupenda, proprio come la Bianca del Perugino." "Ma tu di chi stai parlando?" "Di lei, di quella con i capelli scuri. E che occhi! Dio, che occhi! Tutto il portamento, e i lineamenti, e l'ovale del viso...

un portento!" "Io invece parlo della bionda che è passata dietro di lei, da quella parte. Ma perché non segui la bruna, se ti è piaciuta tanto?" "Com'è possibile! esclamò il giovane in frac, arrossendo. "Come se fosse una di quelle che battono di sera la Prospettiva; lei dev'essere una signora altolocata," continuò con un sospiro, "soltanto il mantello che ha indosso costa ottanta rubli!" "Ingenuo!" gridò Pirogòv, spingendolo dalla parte dove sventolava il mantello vivace della signora, "sbrigati, sciocco, altrimenti ti scappa! Io intanto seguo la bionda!" I due amici si separarono. "Vi conosciamo bene, noi," pensava tra sé Pirogòv con un sorriso presuntuoso e soddisfatto, convinto che non ci fosse bellezza che potesse resistergli.

Il giovane con frac e mantello, si avviò con passo timido e trepidante nella direzione in cui sventolava il mantello variopinto, che mandava riflessi brillanti, quando si avvicinava alla luce di un lampione, e di colpo si ricopriva di tenebra quando se ne allontanava. Il cuore gli batteva e senza volerlo accelerò il passo. Non osava nemmeno pensare di poter ottenere un qualche diritto all'attenzione della bella donna che svolazzava lontano e tanto più d'ammettere un pensiero così nero come quello a cui aveva accennato il tenente Pirogòv. Voleva soltanto vedere la casa, osservare dove abitava quella deliziosa creatura che pareva esser caduta direttamente dal cielo sulla Prospettiva Nevskij e sicuramente sarebbe poi volata chissà dove. Anche lui andava così rapido che di continuo sospingeva giù dal marciapiede gravi signori coi basettoni bigi. Il giovane faceva parte d'una categoria che da noi costituisce un fenomeno alquanto strano e non appartiene alla cittadinanza di Pietroburgo più di quanto una persona che ci appari in sogno non appartenga al mondo reale.

Questo ceto eccezionale è assai insolito in questa città dove tutti sono funzionari, mercanti o artigiani tedeschi. E' infatti un artista. Uno strano fenomeno, non è vero? Un artista pietroburghese! Un artista nella terra delle nevi, un artista nel paese dei Finni, dove tutto è umido, piatto, uguale, grigio, nebbioso. Questi artisti non assomigliano affatto agli artisti italiani, fieri e focosi come l'Italia e il suo cielo; al contrario, si tratta per la maggior parte di gente buona e mite, timida, indolente, che ama in silenzio la propria arte, che beve il tè con un paio di amici in una piccola stanza, che discute con modestia dell'oggetto amato e disprezza in modo assoluto il superfluo. Eternamente invita in casa qualche vecchia mendicante e la obbliga a stare seduta per sei ore buone al fine di trasferire sulla tela la sua misera e insensibile faccia. Disegna la prospettiva della propria stanza, dove si trova ogni genere di cianfrusaglia artistica: mani e piedi di gesso divenuti colore del caffè per il tempo e la polvere, cavalletti spezzati, una tavolozza rovesciata, un amico che suona la chitarra, pareti sporche di colori, la finestra spalancata oltre la quale si scorgono la pallida Neva e poveri pescatori con le camicie rosse.

In quasi tutto ciò che fanno domina un torbido colore grigio:

impronta incancellabile del settentrione. Con tutto ciò, essi si dedicano con vera gioia al loro lavoro. Non di rado coltivano un autentico talento e se soltanto soffiasse su di loro l'aria fresca dell'Italia, si svilupperebbero in modo libero, ampio e luminoso come una pianta che da una camera viene finalmente esposta all'aria aperta. In genere sono molto timidi; una decorazione o una spallina dorata li mettono in un tale smarrimento che senza volerlo abbassano il prezzo delle loro opere. Talvolta amano far sfoggio d'eleganza, ma su di loro l'eleganza sembra sempre troppo vistosa e può dare l'impressione di un rattoppo. A volte li vedete con un ottimo frac e un mantello sudicio, con un costoso panciotto di velluto e una finanziera sporca di colori. Nella stessa maniera in cui su di un loro paesaggio non finito certe volte scorgete una ninfa disegnata con la testa in giù, perché, non trovando altro spazio, l'artista l'ha abbozzata sullo sfondo sporco di un'opera precedente che un tempo aveva dipinto con soddisfazione. Non vi guardano mai dritto negli occhi; e, se vi guardano, lo fanno in modo vago, indeterminato; non vi trafiggono con lo sguardo d'avvoltoio dell'osservatore o con lo sguardo di falco dell'ufficiale di cavalleria. Questo avviene perché loro vedono nello stesso tempo i lineamenti vostri e i lineamenti di qualche Ercole di gesso che sta nella loro stanza; oppure perché appare loro un quadro, che per il momento soltanto immaginano di realizzare. Per questo rispondono spesso in modo sconnesso, a volte a sproposito, perché gli oggetti che si confondono nella loro testa aumentano ancor più la loro timidezza.

A questa stirpe appartiene il giovane da noi descritto, l'artista Pìskarev, contegnoso, timido, ma che porta nella sua anima faville di sentimento, pronte a trasformarsi in fiamma alla prima occasione favorevole.

Con segreta trepidazione si affrettava dietro l'oggetto che l'aveva tanto fortemente colpito, e pareva stupirsi lui stesso della propria temerarietà. L'ignota creatura verso la quale erano così fortemente attratti i suoi sguardi, pensieri e sentimenti, ad un tratto voltò la testa e lo guardò. Dio, che divini lineamenti!

La deliziosa fronte d'abbagliante candore, ombreggiata da capelli stupendi come l'agata. Essi s'avvolgevano in riccioli meravigliosi, e una parte, cadendo di sotto al cappellino, sfiorava una guancia soffusa d'un lieve rossore causato dalla frescura serale. Le labbra suggellate da un intero sciame di deliziosi sogni. Tutto ciò che resta dei ricordi dell'infanzia, tutto ciò che produce la fantasticheria e la quieta ispirazione davanti al lume della lampada, tutto ciò sembrava essersi concentrato, fuso e riflesso nelle armoniose labbra.

La donna guardò Pìskarev e a questo sguardo il cuore di lui tremò; l'aveva guardato con severità, nell'espressione del viso un sentimento d'indignazione per un inseguimento così sfrontato; ma su quel viso meraviglioso persino l'ira era affascinante. Colto da vergogna e da timidezza, egli si fermò ad occhi bassi; ma come perdere quella divinità e non conoscere neppure il sacrario dove s'era abbassata ad alloggiare? Decise di continuare l'inseguimento. Ma, per non farsi scoprire, lasciò una certa distanza; si mise a guardare distrattamente di qua e di là, ad osservare le insegne, senza tuttavia perdere di vista neanche un solo passo della sconosciuta. I passanti cominciarono a farsi più radi, la via diventava più tranquilla; la bella si guardò intorno ed egli ebbe l'impressione che un leggero sorriso brillasse sulle sue labbra. Cominciò a tremare: non credeva ai propri occhi. No, era quel lampione che con la sua ingannevole luce aveva disegnato sul volto di lei un simile sorriso; no, erano gli stessi suoi sogni che si facevano beffa di lui. Il respiro gli mancò, tutto dentro di lui si trasformò in un vago tremito, tutti i suoi sentimenti presero fuoco e tutto davanti a lui s'avvolse in una specie di nebbia. Il marciapiede correva sotto di lui, le carrozze con i cavalli galoppanti sembravano immobili, il ponte si allungava e si spezzava al culmine dell'arcata, la casa aveva il tetto in giù, la garitta gli crollava addosso e l'alabarda della sentinella sembrava scintillare proprio sulle ciglia dei suoi occhi insieme con le parole dorate dell'insegna e con le forbici che v'erano disegnate. E tutto questo l'aveva prodotto un solo sguardo, un solo movimento della graziosa testa.

Senza udire, senza vedere, senza percepire, egli correva sulle orme leggere dei meravigliosi piedini, sforzandosi di moderare la velocità del proprio passo che volava col ritmo del cuore. Neppure s'accorse che, a un tratto, dinanzi a lui era sorta una casa di quattro piani e che le quattro file di finestre, scintillanti di luci, lo guardavano tutte insieme, e la ringhiera presso l'ingresso lo respingeva con ferrea fermezza. Lo assaleì il dubbio: l'espressione del viso di lei era davvero così benevola come sembrava? Si fermò per un istante, ma il battito del cuore, la forza invincibile e l'ansia di tutti i suoi sensi lo spinsero avanti. Vide la sconosciuta correre su per la scala, voltarsi, portare un dito alle labbra e fargli segno di seguirla. Gli tremarono le ginocchia; i sensi, i pensieri bruciavano; un lampo di gioia penetrò nel suo cuore con una fitta intollerabile. No, non era più un sogno! Dio, quanta felicità in un istante! Quanta meravigliosa vita in due minuti!

Non stava sognando? Possibile che quella donna per la quale era pronto a dare tutta la vita pur di ottenerne uno sguardo e il cui pensiero gli procurava un'inesprimibile beatitudine non appena si avvicinava alla sua abitazione, possibile che adesso fosse così benevola e premurosa nei suoi confronti? Salì volando le scale.

Non nutriva alcun pensiero terreno; non era scaldato dalla fiamma di una passione terrena, no, in quel momento era puro e immacolato come un vergine adolescente che ancora respira un'indistinta esigenza spirituale d'amore. E ciò che in un uomo corrotto avrebbe eccitato intenzioni sfrontate, proprio ciò, al contrario, santificava ancor più i suoi pensieri. Questa fiducia che gli dimostrava la debole magnifica creatura, questa fiducia gli imponeva l'obbligo d'un rigore cavalleresco, l'obbligo di eseguire come uno schiavo tutti i suoi comandi. Desiderava soltanto che questi comandi fossero i più ardui possibili, difficili da eseguire, per poter volare a superarli con la maggior tensione delle sue energie. Non dubitava che qualche evento segreto e insieme vitale avesse indotto la sconosciuta ad affidarsi a lui; che da lui, di certo, sarebbero stati sollecitati importanti servigi, e già avvertiva in sé la forza e la decisione a tutto.

La scala s'avvolgeva e insieme con essa s'avvolgevano i suoi veloci sogni. "State attento nel salire!" echeggiò come un'arpa la voce, e riempì tutte le sue vene di nuova trepidazione. Alla buia sommità del quarto piano la sconosciuta bussò a una porta: essa si aprì ed entrarono insieme. Una donna d'aspetto abbastanza piacevole li accolse con una candela in mano, ma guardò in modo così strano e sfrontato Pìskarev che senza volerlo egli abbassò gli occhi. Entrarono in una stanza. Ai suoi occhi apparvero tre figure femminili negli angoli. Una disponeva su un tavolo delle carte; un'altra era seduta al pianoforte e suonava con due dita qualcosa che rassomigliava miseramente a un'antica polonaise; la terza era seduta davanti a uno specchio e pettinava i suoi lunghi capelli senza che la sfiorasse il pensiero d'interrompere la propria toilette all'ingresso dello sconosciuto.

Su tutto regnava un inverosimile disordine, come si può trovare soltanto nella stanza di uno scapolo indolente. I mobili, abbastanza belli, erano coperti di polvere; un ragno aveva intessuto la sua tela sul cornicione scolpito; attraverso la porta socchiusa che dava in un'altra stanza si vedeva luccicare uno stivale con uno sperone e rosseggiare il colletto di un'uniforme; una fragorosa voce maschile ed una risata di donna risuonarono senza alcun ritegno.

Dio, dov'era capitato? Non volle crederci e cominciò ad osservare più attentamente gli oggetti che riempivano la camera; ma le pareti spoglie e le finestre senza tendine non indicavano in alcun modo la presenza di un'ordinata padrona di casa; le facce sciupate di quelle creature, una delle quali stava seduta quasi sotto il suo naso e lo guardava con l'imperturbabilità con cui si guarda una macchia su un vestito altrui, tutto questo lo persuase che era capitato nel ripugnante asilo dove dimora la dissolutezza generata da un'educazione sbagliata e dal terribile affollamento della capitale. L'asilo in cui l'uomo calpesta e deride tutto ciò che è puro e santo, che rende bella la vita; dove la donna, questa bellezza del mondo, questa corona della creazione, si trasforma in essere strano e ambiguo, e insieme con la purezza dell'anima, essa perde tutto ciò che è femminile, assimila in maniera ripugnante i modi e le villanie dell'uomo e cessa d'essere una debole creatura, così meravigliosa e così diversa da noi.

Pìskarev la misurava dalla testa ai piedi con occhi stupiti come se non volesse convincersi che era lei quella che l'aveva stregato e fatto correre sulla Prospettiva Nevskij. La donna gli stava di fronte bella come prima; gli occhi apparivano celesti come prima.

Era giovane, poteva avere diciassette anni; si vedeva che la corruzione l'aveva toccata da poco tempo e che non era giunta a sfiorarle le guance che erano fresche e soffuse da un delicato rossore.

Era stupenda.

Egli stava immobile, in piedi dinanzi a lei, ed era già pronto a dimenticare tutto, ingenuamente, così come aveva dimenticato prima. A quel punto la bella si stancò di quel lungo silenzio e sorrise in maniera allusiva, guardandolo diritto negli occhi.

Aveva un sorriso strano, pieno d'inerme impudenza, e tanto poco si addiceva al suo viso quanto un'espressione devota alla grinta di un usuraio o un libro di conti a un poeta. Piskarev sussultò. Lei dischiuse le graziose labbra e iniziò a dire qualcosa, ma tutto ciò che diceva era così stupido, così volgare... Come se con l'innocenza avesse perduto anche l'intelligenza. Non volle udire più nulla. Fu straordinariamente ingenuo e ridicolo, come un bambino. Invece di approfittare di tanta benevolenza e rallegrarsi d'un caso simile, come chiunque altro al suo posto avrebbe senza dubbio fatto, scappò via a gambe levate, come una capra selvatica, e si precipitò nella strada.

La testa bassa e le braccia abbandonate, se ne stava seduto nella sua stanza, come un poveraccio che abbia trovato una perla inestimabile e subito gli sia ricaduta in mare.

"Com'era bella, che divini lineamenti, e dove? In che posto!..." Ecco tutto ciò che riusciva a mormorare.

In realtà, mai la compassione ci assale così fortemente come alla vista della bellezza contaminata dall'alito della corruzione.

Fosse almeno la deformità a convivere con questa, ma la bellezza... nei nostri pensieri si fonde solamente con l'innocenza e con la purezza. La donna che aveva stregato il povero Pìskarev era effettivamente stupenda, eccezionale. La sua presenza in quell'ambiente spregevole sembrava ancor più straordinaria. Tutti i lineamenti erano così finemente modellati, l'espressione del suo meraviglioso viso improntata a tale nobiltà che era impossibile pensare che la corruzione avesse allungato sopra di lei i suoi terribili artigli. Avrebbe potuto essere l'inestimabile perla, tutto l'universo, tutto il paradiso, tutta la ricchezza d'un marito appassionato; avrebbe potuto essere la meravigliosa e tranquilla stella d'un poco appariscente circolo familiare, e con un solo movimento delle sue incantevoli labbra dare dolci disposizioni. Avrebbe potuto essere una divinità in una sala affollata, sul parchè luminoso, nello scintillio delle candele, fra la muta venerazione degli adoratori prostrati ai suoi piedi; e invece, ahimè! per la mostruosa volontà d'uno spirito infernale avido di distruggere l'armonia della vita, con un ghigno era stata gettata nell'abisso.

Pervaso da una straziante compassione egli continuava a stare seduto davanti alla candela che bruciava. Era passata la mezzanotte; la campana della torre batté la mezz'ora ed egli sedeva immobile, senza dormire, vegliando senza scopo. La sonnolenza, approfittando della sua immobilità, cominciava pian piano a vincerlo, la stanza cominciava a scomparire, soltanto il lume della candela traspariva attraverso i sogni che lo sopraffacevano, quando ad un tratto un colpo alla porta lo fece trasalire e tornare in sé.

La porta si aprì ed entrò un servitore che indossava una ricca livrea. Mai nella sua stanza solitaria s'era affacciata una ricca livrea e per di più a un'ora così insolita... Egli rimase perplesso guardando con impaziente curiosità il servitore.

"Quella signora," disse con un rispettoso inchino il servitore, "dalla quale vi siete degnato di recarvi alcune ore fa, ha ordinato di pregarvi d'andare da lei e ha mandato la carrozza a prendervi." Pìskarev era in piedi, in preda allo stupore: la carrozza, il servitore in livrea... No, di sicuro lì c'era uno sbaglio...

"Sentite, carissimo," rispose con timidezza, "di certo non era qui che dovevate venire. Senza dubbio la signora vi ha mandato da qualcun altro, non da me." "Non mi sono sbagliato. Siete voi che vi siete degnato d'accompagnare a piedi la signora fino alla casa sulla Litejnàja, in una camera al quarto piano, no?" "Sì, io." "Bene, allora favorite al più presto, la signora desidera assolutamente vedervi e vi prega di favorire a casa sua." Pìskarev scese le scale di corsa. In cortile c'era appunto una carrozza. Vi salì, gli sportelli sbatterono, le pietre del selciato rimbombarono sotto le ruote e gli zoccoli, e la Prospettiva illuminata delle case con le insegne splendenti volò via dietro i finestrini della carrozza. Pìskarev rifletté per tutto il tragitto e non sapeva come spiegarsi quell'avventura. Una casa di proprietà, la carrozza, il servitore con la ricca livrea... non riusciva in alcun modo a conciliare tutto questo con la camera al quarto piano, con le finestre polverose e il pianoforte scordato.

La carrozza si fermò davanti ad un ingresso lussuosamente illuminato e di colpo fu preso dallo sbigottimento per la fila di carrozze, il chiacchiericcio dei cocchieri, le finestre illuminate a giorno e le note d'una musica. Il servitore lo fece scendere dalla carrozza e l'accompagnò rispettosamente in un vestibolo rischiarato da una lampada sfolgorante, le colonne di marmo, dove stava un portiere gallonato d'oro, e mantelli e pellicce sparsi qua e là. Un'aerea scalinata con le balaustre scintillanti, odorosa di profumi, correva verso l'alto. Era già su di essa, stava già entrando nella prima sala, quando si spaventò e indietreggiò d'un passo per il terribile affollamento.

L'eccezionale varietà dei visi lo gettò in un totale smarrimento; gli sembrava che qualche demone avesse ritagliato tutto il mondo in un'infinità di pezzi diversi e poi avesse rimescolato tutti quei pezzi senza senso, senza nesso. Scintillanti spalle femminili e neri frac, lampadari, lampade, aerei veli svolazzanti, eterei nastri e il pingue contrabbasso che si affacciava dietro la balaustra dello stupendo coro, tutto per lui era splendore. Mai in una sola volta aveva visto tanti rispettabili vecchi e anziani con le decorazioni sui frac; signore che camminavano lievi, orgogliose e graziose sul parchè, oppure stavano sedute in fila; mai aveva udito tante parole francesi e inglesi; e per giunta i giovani in frac erano pieni di tanta nobiltà, parlavano o tacevano con tanta dignità, sembravano incapaci di dire alcunché di superfluo, scherzando così austeramente, sorridendo così cortesemente.

Portavano basettoni magnifici, sapevano abilmente mostrare le belle mani aggiustandosi la cravatta, e le signore così eteree, immerse in una beatitudine e in un'ebbrezza assolute, abbassavano gli occhi in modo talmente seducente, che l'aspetto stesso, dimesso e trasognato, di Pìskarev, che per il timore si era appoggiato ad una colonna, mostrava che egli era completamente sperduto. In quel momento la folla attorniò un gruppo che ballava.

Le fanciulle roteavano, avvolte in trasparenti creazioni di Parigi, in abiti tessuti d'aria; sfioravano con noncuranza il pavimento con i piedini splendenti ed erano così leggere che sembrava volassero.

Una fra loro era certamente la più bella, quella vestita nella maniera più sontuosa e scintillante. Tutta la sua persona esprimeva un gusto perfetto, del quale ella pareva del tutto ignara. Guardava e non guardava la folla di spettatori che l'attorniava; le lunghe ciglia si abbassavano con indifferenza e lo scintillante candore del suo volto colpiva in modo ancor più abbagliante lo sguardo quando, al chinarsi del capo, un'ombra leggera ricopriva l'affascinante fronte.

Pìskarev fece ogni sforzo per aprirsi un varco nella gente e guardarla; ma, con suo sommo dispetto, una testa immensa con scuri capelli ricciuti gliela nascose; inoltre la folla lo stringeva così da vicino che egli non osava farsi avanti né retrocedere, temendo in qualche modo di urtare un consigliere segreto. Ma ecco che riuscì alla fine a liberarsi, e diede un'occhiata al proprio vestito desiderando rimettersi in ordine. Celeste creatore, che era questo? Aveva indosso il soprabito, e per di più tutto imbrattato di colore: nella fretta di uscire s'era perfino dimenticato di cambiarsi, di mettersi un abito decente. Arrossì e, chinata la testa, avrebbe voluto sprofondare: gentiluomini da camera in scintillante uniforme s'erano messi dietro di lui formando un muro compatto. Non desiderava altro che trovarsi il più lontano possibile dalla bella con quelle ciglia e la stupenda fronte. Con terrore alzò gli occhi per vedere se lei lo guardasse:

Dio! Era proprio davanti a lui... Ma cos'era questo? cos'era questo? "E' lei!" gridò quasi ad alta voce. Era proprio la giovane donna che aveva incontrato sulla Prospettiva Nevskij e che aveva accompagnato fino a casa.

La donna sollevò le ciglia e guardò tutti col suo limpido sguardo. "Ah, ah, ah, com'è bella!..." poté soltanto mormorare Pìskarev con il fiato mozzo. Lei abbracciò con gli occhi tutta la cerchia di gente che a gara bramava d'attrarre la sua attenzione, ma con una certa stanchezza e noncuranza presto distolse lo sguardo e incontrò gli occhi di Pìskarev. Cielo! che paradiso!

dammi le forze, Creatore, di sopportare tutto questo! La vita non è in grado di contenerlo, esso distruggerà e porterà via la mia anima! Lei gli fece un segno, ma non con la mano, non con un cenno del capo; no, quel segno apparve nei suoi occhi fatali, e con un'espressione così sottile e impercettibile che nessuno poté vederlo, ma lui vide, lui capì. Il ballo durò a lungo; la musica, esausta, sembrava spegnersi e morire del tutto, ma poi di nuovo esplodeva, strideva e rimbombava; finalmente: fine! La giovane andò a sedersi, il petto si sollevava sotto la fine nube del velo; la mano (Creatore, che mano stupenda!) cadde su un ginocchio, premette sotto di sé il raffinato abito che pareva spirare musica, e il delicato color lilla fece risaltare in modo ancor più visibile il candore di quella meravigliosa mano. Toccarla e nulla più! Nessun altro desiderio.

Pìskarev stava in piedi vicino a lei, dietro la sedia, non osando parlare, non osando respirare.

"Vi annoiate?" disse lei, "anch'io mi annoio. Vedo che voi mi odiate..." aggiunse, abbassando le sue lunghe ciglia.

"Odiare voi! Io? Io..." avrebbe voluto dire Pìskarev, completamente smarrito, e di certo avrebbe detto un mucchio di parole sconclusionate, ma in quel momento si avvicinò un camerlengo con osservazioni acute e piacevoli e un magnifico ciuffo ondulato in testa. In modo abbastanza gradevole metteva in mostra una fila di denti discretamente belli e con ognuna delle sue spiritosaggini piantava un aguzzo chiodo nel cuore di Pìskarev.

Finalmente, per fortuna, uno dei presenti chiese qualcosa all'uomo.

"Com'è insopportabile tutto questo!" disse lei, sollevando su Pìskarev i suoi occhi celestiali. "Andrò a sedermi dall'altra parte della sala; siate là!" Scivolò via tra la folla e scomparve. Come un pazzo, egli si aprì un passaggio fra la folla e fu subito al suo fianco.

Era seduta come una regina, di tutte la migliore, di tutte la più bella, e lo cercava con gli occhi.

"Siete qui," disse piano. "Sarò sincera con voi: di certo vi sono sembrate strane le circostanze del nostro incontro. Ma come potete pensare che io appartenga a quella spregevole categoria di creature fra cui mi avete incontrato? Le mie azioni vi sembreranno strane, ma io vi svelerò il mistero: saprete," aggiunse, puntando gli occhi attenti su di lui, "non tradirlo mai?" "Saprò, saprò, saprò!..." In quel momento si avvicinò un uomo piuttosto anziano che si mise a parlare con lei in una lingua incomprensibile per Pìskarev e le porse la mano. Ella guardò Pìskarev con occhi supplichevoli e gli fece segno di restare al suo posto e di attendere il suo ritorno; ma, in preda all'impazienza, egli non era in grado di ascoltare alcun ordine fosse pure dalle sua labbra. Si mosse per seguirla, ma la folla li separò. Aveva perso di vista l'abito lilla; passava con inquietudine da una stanza all'altra urtando senza misericordia tutti quelli che incontrava. In tutte le stanze c'erano seduti degli alti papaveri che giocavano a whist, immersi in un silenzio di morte; in un angolo alcuni uomini anziani discutevano della superiorità della carriera militare rispetto a quella civile; in un altro angolo, uomini in magnifici frac lasciavano cadere osservazioni leggere sull'opera in molti volumi d'un poeta infaticabile. Pìskarev sentì che un uomo anziano dall'aspetto rispettabile lo afferrava per un bottone del frac e chiedeva il suo giudizio su di una osservazione assai giusta che aveva fatta, ma lui lo respinse senza neppure fare caso al fatto che quello aveva al collo un'onorificenza importante. Andò di corsa in un'altra stanza: lei non era neppure lì e neppure in una terza.

"Dov'è? Datemela! Non posso vivere senza darle un'occhiata! Voglio sapere cosa intendeva dirmi." Tutte le sue ricerche restarono vane. Inquieto, spossato, si addossò ad un angolo e si mise a guardare la folla; ma i suoi occhi tesi per lo sforzo gli presentavano le cose in modo sempre più confuso. Improvvisamente cominciarono ad apparirgli nettamente le pareti della sua camera. Sollevò gli occhi: davanti a lui stava il candeliere con la fiamma ormai quasi spenta sul fondo; tutta la candela era consumata; il sego era colato sul tavolo.

Dunque aveva dormito! Dio, che sogno! E che bisogno c'era di svegliarsi? Perché non era durato anche un solo minuto di più? di certo lei sarebbe riapparsa! Una luce fastidiosa e sgradevole penetrò attraverso i vetri delle finestre. La stanza era in preda di un torbido disordine... Com'è ripugnante la realtà! Che cos'è in confronto al sogno? Si spogliò in fretta e si mise a letto, avvolgendosi nella coperta, nel desiderio di richiamare per un istante le visioni del sogno che erano volate via.

Il sogno non tardò a ritornare, ma non gli mostrò ciò che voleva vedere: ora compariva il tenente Pìrogov con la pipa, ora il custode dell'Accademia, ora un consigliere di stato, ora la testa d'una finlandese alla quale un tempo aveva fatto il ritratto, e altre balordaggini del genere. Rimase a letto fino a mezzogiorno, sempre cercando di dormire, ma lei non comparve. Gli avesse almeno mostrato per un momento i suoi meravigliosi lineamenti, fatto sentire solo per un momento il fruscio del suo passo leggero, gli fosse almeno balenata dinanzi la sua mano nuda, candida come neve...

Era seduto con un'aria affranta e disperata, pieno soltanto della visione del suo sogno, estraneo a tutto, dimentico di tutto. Non pensava di metter mano a nulla; i suoi occhi guardavano senza interesse, senza vita, nella finestra che dava nel cortile, dove un sudicio acquaiolo versava dell'acqua che subito gelò nell'aria, e risuonava la voce asinina di un venditore ambulante:

"Abiti vecchi comprooo!" Ciò che era quotidiano, ciò che apparteneva alla realtà colpiva stranamente il suo udito. Rimase così sino a sera, quando si gettò con avidità nel letto. Combatté a lungo contro l'insonnia e finalmente la vinse. Di nuovo un sogno, un sogno volgare, abbietto. Dio, abbi misericordia: almeno per un momento, almeno per un solo istante mostramela!

E poi attese di nuovo la sera, di nuovo si addormentò, di nuovo sognò un funzionario che era nello stesso tempo un funzionario e un fagotto; oh, cosa intollerabile! Finalmente, apparve lei! La sua testolina e i riccioli... lo guardava... oh, per quanto poco tempo! Poi nebbia, di nuovo un sogno stupido.

I sogni diventarono tutta la sua vita e da allora la sua esistenza prese uno strano andamento: si può dire che dormisse quand'era sveglio e vivesse quando dormiva. Se qualcuno lo avesse visto sedere in silenzio davanti al tavolo vuoto o camminare per strada, certamente l'avrebbe preso per un sonnambulo o per un uomo distrutto dall'eccessivo bere; il suo sguardo diventò del tutto privo d'espressione, la sua innata svagatezza prese alla fine il sopravvento e fugò imperiosamente dalla sua faccia ogni sentimento, ogni guizzo.

Una simile condizione distrusse le sue energie, e il tormento più spaventoso fu per lui il fatto che, alla fine, il sonno cominciò ad abbandonarlo. Per salvare quella sua ultima ricchezza, impiegò ogni mezzo. Aveva sentito che c'è un sistema sicuro per dormire:

basta prendere l'oppio. Ma dove trovare quest'oppio? Si ricordò d'un persiano che aveva un negozio di scialli e che ogni volta che lo incontrava lo pregava di dipingergli una bella donna. Decise di recarsi da lui, pensando che avesse dell'oppio. Il persiano lo ricevette seduto sul divano, con le gambe ripiegate sotto di sé.

"A che ti serve l'oppio?" gli domandò.

Pìskarev gli raccontò della sua insonnia. "Bene, io ti darò l'oppio, ma tu devi dipingere per me una bellissima donna. Che i sopraccigli siano neri e gli occhi grandi come olive; e anch'io voglio esserci, sdraiato accanto a lei mentre fumo la pipa.

Capito? Che sia bella! Che sia uno splendore!" Pìskarev promise tutto. Il persiano uscì per un momento e ritornò con una boccetta piena d'un liquido scuro, ne versò con cura una parte in un'altra boccetta e la diede a Pìskarev con l'ammonizione di non usarne più di sette gocce, nell'acqua. Egli afferrò la boccetta, che non avrebbe ceduto per un mucchio d'oro, e corse all'impazzata verso casa.

Appena in casa, versò alcune gocce in un bicchiere con dell'acqua e, inghiottitala, si buttò sul letto.

Dio, quale felicità! Lei! di nuovo lei! Incantevolmente seduta vicino alla finestra d'una luminosa casetta di campagna!

L'abbigliamento aleggiava quella semplicità che solo la mente d'un poeta può immaginare. L'acconciatura della sua testa... Creatore, com'era semplice quella pettinatura e come le stava bene! La corta treccia gettata con leggerezza sul collo armonioso; tutto in lei era modesto, tutto in lei nasceva da un misterioso, inspiegabile senso del gusto. Com'era delizioso il suo grazioso portamento!

Musicale il fruscio dei suoi passi e dell'abito così semplice!

Bello il braccio cinto da un braccialetto di crine! Lei gli parla con le lacrime agli occhi: "Non disprezzatemi: non sono affatto quella che voi credete. Guardatemi, guardatemi con più attenzione e dite: sono forse capace di fare ciò che pensate? Oh, no! no! Chi osa pensare una cosa simile, costui..." Poi si destò! Commosso, dilaniato, con le lacrime agli occhi.

"Meglio tu non fossi mai esistita! Mai nata, potresti essere soltanto la creazione di un artista ispirato! Io non mi allontanerei dalla tela, ti guarderei eternamente e ti bacerei.

Vivrei e respirerei di te come d'un meraviglioso sogno, e sarei felice. Non avrei altro desiderio. Ti invocherei come l'angelo custode prima del sonno e della veglia, ti attenderei ogni volta che dovessi raffigurarmi ciò che è divino e santo. Mentre adesso... com'è spaventosa la vita! A che serve che lei viva? La vita d'un pazzo è forse piacevole per i parenti ed amici che un tempo gli hanno voluto bene? Dio, che cos'è la nostra vita! Un eterno conflitto del sogno con la realtà!

Pensieri del genere lo tenevano incessantemente occupato. Non pensava a null'altro, non mangiava quasi più e, con impazienza, con la passione d'un amante, attendeva la sera e la visione agognata. La tensione della mente verso un unico punto assunse infine un potere tale su tutta la sua vita e sulla sua immaginazione, che l'agognata immagine gli appariva quasi ogni giorno, sempre sotto un aspetto contrastante con la realtà.

Attraverso quelle visioni anche l'oggetto in un certo senso si faceva ancora più puro e si trasfigurava del tutto.

Le dosi d'oppio rendevano ancora più incandescenti i suoi pensieri e se c'era un uomo innamorato all'ultimo stadio della follia, in modo precipitoso, spaventoso, distruttivo, tempestoso, quest'infelice era lui.

Di tutte le visioni di sogno una fu per lui la più esaltante di tutte. Apparve nel suo studio: lui era così contento, sedeva con tanto piacere con la tavolozza fra le mani! Lei era lì. Ed era sua moglie. Sedeva accanto a lui, il grazioso gomito appoggiato alla spalliera della sua sedia, e guardava il suo lavoro. Negli occhi, languidi, stanchi, era scritto il peso della felicità: tutto nella stanza respirava un'aria di paradiso; tutto era così luminoso, così in ordine. Dio! lei chinava sul suo petto la bella testa...

Non aveva mai fatto un sogno più bello. Quando si svegliò in un certo senso era più fresco e meno svagato. Nella sua testa nascevano strani pensieri: forse, pensava, è stata trascinata nella corruzione da qualche terribile avvenimento di cui non ha colpa; forse la sua anima tende al pentimento; forse vorrebbe strapparsi dalla sua spaventosa condizione. E come posso accettare con indifferenza che si perda, e, per giunta, quando basterebbe porgerle la mano per salvarla dall'annegare? I suoi pensieri andavano anche più in là.

"Me, nessuno mi conosce," diceva a se stesso, "e chi s'interessa di me? né io mi interesso degli altri. Se manifestasse un pentimento sincero e cambiasse vita, la sposerei. Devo sposarla e di certo farei molto meglio di quelli che si sposano con le loro governanti e spesso addirittura con le persone più spregevoli. Il mio gesto sarebbe invece disinteressato e perfino grande.

Restituirei al mondo il suo più stupendo ornamento." Concepito un piano così sconsiderato, sentì una vampa di rossore salirgli al viso; si avvicinò allo specchio e si spaventò delle guance incavate e del pallore del volto. Cominciò con cura ad abbigliarsi; si lavò, si pettinò, indossò un frac nuovo, un elegante panciotto, poi buttò addosso il mantello e uscì in strada. Aspirò l'aria leggera e sentì una freschezza nel cuore, come un convalescente che abbia deciso di uscire per la prima volta dopo una lunga malattia. Il cuore gli batteva mentre si avvicinava alla via dove non aveva più messo piede dal tempo del fatale incontro.

Cercò a lungo la casa: sembrava che la memoria l'avesse tradito.

Percorse due volte la strada e non sapeva di fronte a quale casa fermarsi. Finalmente una gli parve familiare. Corse rapidamente per la scala, bussò alla porta: la porta si aprì e chi gli venne incontro? Il suo ideale, la sua immagine misteriosa, l'originale dei quadri che vedeva in sogno, la donna per la quale viveva, così spaventosamente, tormentosamente, dolcemente. Lei in persona era dinanzi a lui. Si mise a tremare; poteva appena reggersi sulle gambe per la debolezza, assalito da un impeto di felicità. Lei stava lì dinanzi a lui, sempre così bella, benché i suoi occhi fossero assonnati, benché il pallore coprisse il viso, non più fresco come lo ricordava; ma era lo stesso, era sempre meravigliosa.

"Ah!" gridò vedendo Pìskarev, fregandosi gli occhi. Erano già le due. "Perché quella volta siete scappato via?" Pìskarev si lasciò cadere senza forze su una sedia.

"Mi sono svegliata adesso; mi hanno riportata alle sette di questa mattina. Ero completamente ubriaca", aggiunse con un sorriso.

Meglio fosse muta, priva del tutto di favella, piuttosto che dire simili cose! Con quelle parole, gli aveva mostrato come in una lanterna magica tutta la sua vita. Malgrado ciò, facendo forza al suo cuore, decise di provare se le sue esortazioni avrebbero avuto effetto su di lei. Fattosi animo, con voce tremante e nello stesso tempo infiammata, cominciò a dipingerle la spaventosa condizione in cui lei si trovava. La donna lo ascoltava con aria attenta e con quell'espressione di stupore che sempre manifestiamo di fronte a qualcosa d'inatteso e di strano. Con un sorriso lanciò anche un'occhiata ad una sua amica seduta in un angolo, che, smettendo di pulire un pettine, s'era messa ad ascoltare attenta quel nuovo predicatore.

"E' vero, io sono povero," disse infine, dopo la sua lunga e istruttiva predica, Pìskarev, "ma ci metteremo d'impegno a migliorare la nostra vita. Non c'è nulla di più bello che essere debitori di tutto solamente a se stessi. Lavorerò ai miei quadri; tu, seduta accanto a me, ispirerai le mie opere, ricamerai, oppure ti dedicherai a qualche lavoro di cucito, e non avremo bisogno di nulla." "Com'è possibile!" l'interruppe lei con un'espressione di disprezzo. "Non sono una lavandaia o una sartina, perchè dovrei mettermi a fare quei lavori?" Dio! In quelle parole s'esprimeva tutta una vita abbietta, spregevole, una vita fatta di vuoto e di vanità, fedeli compagni della corruzione.

"Sposate me!" disse pronta, con tono sfrontato, la sua amica nell'angolo, che sino ad allora era rimasta in silenzio. "Quando sarò maritata, me ne starò seduta così!" e, nel dire questo, la sua misera faccia assunse un'aria stolida che fece molto ridere la bella di Pìskarev.

Era troppo! Sopportare questo era al di sopra delle sue forze. Si precipitò fuori senza più coscienza di sé, né pensieri. Aveva la mente sconvolta: follemente, senza meta, senza vedere, senza udire, senza sentire nulla, vagabondò per tutto il giorno. Non seppe mai se avesse pernottato in qualche posto oppure no; il giorno dopo, per uno sciocco istinto, tornò a casa sua, pallido, con un aspetto spaventoso, i capelli scarmigliati, i segni della follia sulla faccia. Si chiuse nella sua stanza e non fece entrare nessuno, non chiese di nessuno. Passarano quattro giorni e la sua stanza chiusa a chiave non si aprì neppure una volta; passò infine una settimana e la stanza era sempre chiusa a chiave. Giunse gente alla sua porta, iniziarono a chiamarlo, ma non vi fu risposta.

Quando la porta venne sfondata, fu trovato il suo corpo esanime con la gola tagliata. Sul pavimento, un rasoio insanguinato. Dalle braccia spasmodicamente aperte e dalla faccia terribilmente contratta si poté dedurre che la sua mano aveva vacillato e che egli aveva ancora lungamente sofferto prima che la sua anima peccatrice lasciasse il corpo.

Così perì, vittima di una folle passione, il povero Pìskarev, quieto, timido, modesto, infantilmente ingenuo, che forse portava in sé la scintilla di un talento che con il tempo sarebbe divampato in modo ampio e fulgente. Nessuno pianse su di lui; vicino al corpo esanime non si vide nessuno, eccetto la solita figura del commissario del quartiere e la faccia indifferente del medico municipale. Portarono la bara a Ochtà, in silenzio, senza i riti della religione; seguendola, piangeva solo il soldato di sorveglianza e anche lui perché aveva bevuto un boccale di vodka di troppo. Nemmeno il tenente Pìrogov venne a vedere il cadavere dell'infelice al quale in vita aveva concesso la sua alta protezione. Del resto, egli aveva ben altro da fare: era preso da un avvenimento eccezionale.

Volgiamoci pertanto a lui.

A me non piacciono i cadaveri e i morti, e provo sempre un senso di fastidio quando un lungo corteo funebre attraversa la mia strada, e un soldato invalido, incappucciato, annusa del tabacco con la mano sinistra perché la destra è occupata dalla fiaccola.

Sento sempre una specie di disagio nell'anima alla vista di un ricco catafalco o d'una bara di velluto; ma il mio dispetto si mescola alla tristezza quando vedo un vetturino da noleggio che porta la bara rossa d'un povero, priva d'ogni copertura, dietro la quale si trascina solamente una mendicante che non ha altro da fare e l'ha incontrata ad un crocicchio.

Abbiamo dunque lasciato il tenente Pìrogov nel momento in cui si separava dal povero Pìskarev per precipitarsi dietro la bionda.

Questa bionda era una creatura leggerina, abbastanza interessante.

Si fermava davanti ad ogni negozio ad osservare le cinture, i fazzoletti, gli orecchini, i guanti e le altre cosette esposte nelle vetrine, si rigirava, guardava da tutte le parti e si voltava indietro.

"Sei mia, colombella!" si diceva Pìrogov mentre continuava il suo inseguimento nascondendo la faccia nel bavero del cappotto.

Prima di dire chi fosse il tenente Pìrogov, dobbiamo forse raccontare qualcosa a proposito dell'ambiente a cui Pìrogov apparteneva. A Pietroburgo ci sono ufficiali che nella società costituiscono una specie di gruppo intermedio. Troverete sempre uno di loro a una serata, al pranzo di un Consigliere di Stato o di un Consigliere Effettivo che s'è meritato questo grado con quarant'anni di fatiche. Alcune figlie pallide, assolutamente incolori come lo è Pietroburgo; certune già troppo mature, un tavolino da tè, un pianoforte, balli casalinghi, tutto ciò è inseparabile dalla spallina luccicante che brilla sotto la lampada fra una biondina per bene e il nero frac del fratello o di un amico di casa. Queste ragazze dal sangue freddino sono terribilmente difficili da smuovere e far ridere; per fare questo ci vuole o una grande arte o, meglio, non averne alcuna. Bisogna parlare in maniera che non sia né troppo intelligente, né troppo spiritosa, e che in tutto vi sia quel nonnulla che piace alle donne. In ciò bisogna rendere giustizia ai suddetti signori. Essi possiedono il particolare dono di farsi ascoltare e di fare ridere queste pallide bellezze.

Esclamazioni soffocate dal riso: "Ah, smettetela! Non vi vergognate a farmi ridere così!" sono sovente la loro migliore ricompensa. Nella classe più elevata essi capitano molto di rado o, per meglio dire, mai. Ne sono completamente respinti da quelli che in questa società sono chiamati aristocratici. Per il resto, vengono considerati istruiti ed educati. Amano discorrere di letteratura; lodano Bulgàrin, Pùskin e Grèc, e parlano con disprezzo e con velenose frecciate di A. A. Orlòv. Non si lasciano sfuggire una sola conferenza, fosse pure sulla computisteria o addirittura sull'economia forestale. A teatro, qualunque sia la rappresentazione, troverete sempre uno di loro, escluso forse soltanto il caso in cui si reciti qualche commedia con "Filatka", cosa che offenderebbe il loro gusto schizzinoso. A teatro vanno in continuazione; sono le persone più vantaggiose per le amministrazioni teatrali. Nelle commedie amano in particolare modo i buoni versi; e si divertono anche a richiamare ad alta voce gli attori. Molti di loro, insegnando in istituti statali o preparando i giovani per questi istituti, alla fine riescono a farsi un calessino e un paio di cavalli. La loro cerchia allora si fa più ampia: finalmente giungono al punto di sposare la figlia d'un mercante che sa suonare il pianoforte, ha un centinaio di migliaia di rubli di dote in contanti e un mucchio di parenti barbuti. Non possono ottenere tuttavia questo onore prima d'avere prestato servizio almeno fino al grado di colonnello. Perché le barbe russe, sebbene ancora puzzino di cavolo, non vogliono vedere le loro figlie se non sposate con dei generali o almeno dei colonnelli. Tali sono dunque le principali caratteristiche di questo tipo di giovani. Ma il tenente Pìrogov aveva una quantità di altri requisiti che appartenevano in modo particolare a lui.

Declamava magnificamente i versi del "Dmìtrij Donskòj" e di "Che disgrazia l'ingegno", possedeva l'arte speciale di emettere dalla pipa il fumo in forma di anelli con tanta maestria da poterne infilare lì per lì una decina uno dietro l'altro. Sapeva narrare piacevolmente la storiella della differenza che c'è fra il cannone e il rinoceronte. E' difficile, insomma, enumerare tutti i pregi di cui la sorte aveva dotato Pìrogov. Gli piaceva parlare di un'attrice o di una ballerina, ma non sfacciatamente come fanno di solito su questo argomento i giovani sottotenenti. Era molto soddisfatto del suo grado, al quale era stato promosso assai di recente, e, quantunque certe volte nello sdraiarsi su un divano, dicesse: "Oh, oh! Vanità, tutto è vanità! Che ne viene dal fatto che io sia tenente?" questa dignità in segreto lo lusingava molto; nelle conversazioni cercava spesso di accennarvi di sfuggita, e, una volta che gli capitò per strada un certo scrivano che gli sembrò irrispettoso, immediatamente lo fermò e, con poche ma brusche parole, gli fece notare che aveva di fronte un tenente e non un qualsiasi altro ufficiale. Espose la cosa nel modo più eloquente in quanto gli stavano passando vicino due signore per nulla brutte. Pìrogov in genere aveva passione per ogni cosa bella e incoraggiava l'artista Pìskarev; ciò, è probabile, anche per il fatto che desiderava vedere la propria virile fisionomia rappresentata in un ritratto.

Ora basta con le doti di Pìrogov. L'uomo è un essere così sorprendente che non si possono enumerare insieme tutte le sue qualità e, quanto più lo scruti, tanto più numerose sono le nuove peculiarità che appaiono, sicché a descriverle non si finirebbe mai.

Pìrogov, dunque, non desisteva dall'inseguire la sconosciuta, infastitendola di tanto in tanto con domande alle quali la donna rispondeva in modo brusco, a scatti e con certi suoni indistinti.

Attraverso la buia Porta di Kazàn imboccarono la via Mescànskaja, via di botteghe di tabacco e di cosucce varie, di artigiani tedeschi e di ninfe finniche. La biondina si mise a correre e svolazzò dentro il portone d'una casa abbastanza sudicia. Pìrogov, dietro di lei. La donna corse su per la stretta e buia scala ed entrò in una porta nella quale pure Pìrogov s'intrufolò arditamente. Si trovò in una grande stanza con le pareti nere e il soffitto affumicato. Sul tavolo, un mucchio di viti di ferro, di attrezzi da fabbro, di caffettiere e di candelieri luccicanti; il pavimento era sporco di limatura di rame e di ferro. Pìrogov intuì subito che si trattava dell'alloggio d'un artigiano. La sconosciuta svolazzò oltre, in una porta laterale. Per un momento egli rallentò, poi, seguendo la regola russa, si decise ad andare avanti. Entrò allora in una stanza che non assomigliava affatto alla prima: era rassettata con molta cura, così da mostrare che il padrone era un tedesco. Qui rimase sbigottito da una scena strana, veramente insolita.

Davanti a lui stava seduto Schiller, non lo Schiller che ha scritto il "Guglielmo Tell" e la "Storia della guerra dei trent'anni", ma il famoso Schiller maestro lattoniere della via Mescànskaja. Accanto a Schiller stava in piedi Hoffman, non lo scrittore Hoffman, ma il calzolaio piuttosto bravo della via Oficèrskaja, grande amico di Schiller. Schiller era ubriaco e stava seduto sulla sedia battendo un piede e parlando animatamente. Tutto questo non avrebbe ancora stupito Pìrogov; a stupirlo fu la posizione eccezionalmente strana della due figure.

Schiller era seduto con la testa rivolta in su in modo da protendere il suo naso piuttosto grosso; Hoffman lo teneva per il naso con due dita, e su di esso roteava la lama del suo trincetto da calzolaio. Entrambi gli individui parlavano in tedesco e perciò il tenente Pìrogov, che in tedesco sapeva dire soltanto "Gut Morgen", non riuscì a capire nulla di tutta quella storia. Le parole di Schiller, d'altronde, erano di questo tenore:

"Io non lo voglio, non ho bisogno del naso io!" diceva agitando le braccia... "Solamente per il naso mi vanno tre libbre di tabacco al mese. E in uno schifoso negozio russo... perché un negozio tedesco non tiene il tabacco russo... in uno schifoso negozio russo pago quaranta copechi la libbra; questo fa un rublo e venti copechi e poi fa quattordici rubli e quaranta copechi. Capisci, amico Hoffman? Solamente per il naso quattordici rubli e quaranta copechi. E nei giorni di festa fumo del râpé, perché nei giorni di festa non ho voglia di fumare schifoso tabacco russo. In un anno fumo due libre di râpé a due rubli la libbra. Sei più quattordici fa venti rubli e quaranta copechi, soltanto per il tabacco! E' un brigantaggio: io ti domando, amico Hoffman, non è così forse?" Hoffman, pure lui ubriaco, acconsentiva.

"Venti rubli e quaranta copechi! Io sono un tedesco della Svevia, ho il mio re in Germania. Non voglio avere il naso! Tagliami il naso! Ecco qui il mio naso!" Se non fosse stato per l'improvvisa apparizione del tenente Pìrogov, senza dubbio Hoffman avrebbe tagliato lì per lì il naso a Schiller, perché aveva già messo il suo trincetto in posizione, come se volesse ritagliare una suola.

A Schiller parve assai seccante che improvvisamente una persona sconosciuta e non richiesta lo disturbasse così a sproposito.

Benché fosse in preda agli inebrianti fumi della birra e del vino, sentì che era alquanto sconveniente trovarsi in quella posizione e in quell'atto in presenza d'un testimone estraneo.

Pìrogov fece un leggero inchino e, con la giovialità che gli era propria, disse:

"Voi mi scuserete..." "Fuori!" rispose Schiller strascicando la voce.

Il tono sconcertò il tenente Pìrogov. Un simile modo di trattarlo gli riusciva completamente nuovo. Il sorriso che aveva fatto capolino sulla sua faccia improvvisamente scomparve. Con un senso di dignità amareggiata disse:

"Mi pare strano, egregio signore... di certo voi non avete notato... io sono un ufficiale..." "E cos'è un ufficiale! Io sono un tedesco di Svevia. Io stesso", nel dir questo Schiller diede un pugno sul tavolo, "essere stato ufficiale: un anno e mezzo junker, due anni tenente, e io domani subito di nuovo ufficiale. Ma io non voglio servire. Io con ufficiale fare così: fiu!" e nel dir questo Schiller portò il palmo alla bocca e vi soffiò sopra.

Il tenente Pìrogov vide che non gli restava altro da fare che allontanarsi; ma il trattamento, del tutto sconveniente per il suo grado, lo aveva ferito. Si fermò varie volte sulle scale, sconcertato, riflettendo su come si dovesse far capire a Schiller la sua impertinenza. Alla fine ragionò che Schiller si poteva perdonare, perché la sua testa era piena di birra; inoltre gli tornò alla mente la graziosa biondina e decise di abbandonare all'oblio questo fatto.

Il giorno dopo il tenente Pìrogov si presentò di buon mattino nella bottega del mastro lattonaio. Nell'anticamera l'accolse la graziosa biondina. Con una voce piuttosto severa, che assai si addiceva al suo visino, gli domandò:

"Che cosa volete?" "Ah, salve mia cara! Non mi riconoscete? Biricchina, che begli occhietti!" Così dicendo il tenente Pìrogov avrebbe voluto sollevarle il mento con un dito. La biondina emise un'esclamazione impaurita e con la stessa severità domandò di nuovo:

"Che cosa volete?" "Vedervi, non mi occorre nient'altro," disse il tenente Pìrogov, sorridendo in maniera abbastanza piacevole mentre si avvicinava; ma, avendo notato che la donna voleva sgattaiolare per la porta, soggiunse:

"Ho bisogno, mia cara, di ordinare degli speroni. Potete farmi degli speroni? Sebbene per amarvi non occorrano affatto degli speroni, ma piuttosto una briglia. Ma che belle manine!" Il tenente Pìrogov era sempre molto gentile quando faceva dichiarazioni di questo genere.

"Chiamo subito mio marito," gridò la tedesca e se ne andò; dopo qualche minuto Pìrogov vide uscire Schiller con gli occhi assonnati, appena sveglio dopo la sbornia della sera prima. Data un'occhiata all'ufficiale, egli rammentò come in un sogno il fatto del giorno prima. Non ricordava bene come precisamente fossero andate le cose, ma sentiva che doveva aver fatto qualche sciocchezza e perciò accolse l'ufficiale con aria severa.

"Per degli speroni non posso prendere meno di quindici rubli," disse per sbarazzarsi di Pìrogov, perché per lui, onesto tedesco, era motivo di grande vergogna guardare chi l'aveva visto in una situazione sconveniente. A Schiller piaceva bere senza testimoni, con due o tre amici, e in quei momenti si nascondeva anche ai suoi lavoranti.

"Perché mai così caro?" chiese affabilmente Pìrogov.

"Lavoro tedesco," rispose gelidamente Schiller, carezzandosi il mento. "Un russo accetterebbe di farli per due rubli." "Scusate, per dimostrare che vi voglio bene e desidero fare la vostra conoscenza, pagherò i quindici rubli." Schiller era perplesso e proprio perché era un tedesco onesto sentì un po' di vergogna. Desiderava che Pìrogov rinunciasse all'ordinazione, e per questo dichiarò che prima di due settimane non avrebbe potuto far nulla. Senza obiezioni, Pìrogov si disse d'accordo.

Il tedesco rimase pensieroso e rifletté su come fosse meglio eseguire il proprio lavoro affinché valesse effettivamente quindici rubli. In quel momento la biondina entrò nella bottega e cominciò a cercare qualcosa sul tavolo ingombro di caffettiere. Il tenente approfittò della pensierosità di Schiller, s'avvicinò a lei e le strinse il braccio nudo fino alla spalla. Questo non piacque a Schiller.

"Main frau!" si mise a gridare.

"Vass vollen si doch?" strillò la biondina.

"Gheensì in cucina!" La biondina uscì.

"Allora, fra due settimane?" disse Pìrogov.

"Sì, fra due settimane," rispose soprapensiero Schiller, "adesso ho molto lavoro." "Arrivederci! Passerò da voi." "Arrivederci," rispose Schiller chiudendo la porta alle sue spalle.

Il tenente Pìrogov decise di non abbandonare i suoi tentativi sebbene la tedesca gli avesse opposto un evidente rifiuto. Non riusciva a capacitarsi che gli si potesse resistere, tanto più che la sua amabilità e il suo brillante grado gli davano pieno diritto all'attenzione. Occorre dire però che la moglie di Schiller, nonostante la sua avvenenza, era molto stupida. Del resto, la stupidità sembra dare fascino particolare ad una donna graziosa.

Io, almeno, ho conosciuto molti mariti che vanno in estasi per la stupidità delle loro mogli vedendovi i segni di un'innocenza infantile. La bellezza produce dei veri miracoli. Tutti i difetti spirituali, invece di causare repulsione, in una bella donna diventano, chissà perché, straordinariamente attraenti; il vizio stesso, in loro, emana leggiadria; ma se la bellezza non c'è, una donna deve essere venti volte più intelligente di un uomo per ispirare non dico amore, ma almeno della stima. La moglie di Schiller, del resto, era sempre stata fedele ai suoi doveri e perciò era abbastanza difficile che Pìrogov riuscisse nella sua impresa.

Poiché al superamento degli ostacoli è sempre legata la gioia della conquista, da quel giorno la biondina divenne per Pìrogov ancor più interessante. Cominciò a chiedere spesso notizie dei suoi speroni, tanto che questo finì per venire a noia a Schiller, il quale fece di tutto per terminare al più presto il lavoro.

Finalmente gli speroni furono pronti.

"Ah, che ottimo lavoro!" esclamò il tenente Pìrogov quando vide gli speroni. "Signoriddio, com'è fatto bene questo lavoro! Il nostro generale non ha speroni come questi." Sulla faccia di Schiller si diffuse un sentimento di soddisfazione e nei suoi occhi comparve uno sguardo di felicità. Fu così che egli si riconciliò pienamente con Pìrogov.

"L'ufficiale russo è un uomo intelligente," pensò fra sé.

"Sicché voi, dunque, potete fare anche una montatura per un pugnale. Ve lo porterò: ho un bellissimo pugnale turco, vorrei cambiargli la montatura." Per Schiller fu come essere colpito da una bomba. La sua fronte si corrugò. "Ti sta bene!" pensò fra sé, insultandosi in cuor suo per il fatto d'essersi attirato quel lavoro. Rifiutare era ormai, a suo parere, disonorevole; per di più l'ufficiale russo aveva lodato il suo lavoro. Dopo aver scosso un la testa, espresse il proprio consenso, ma il bacio che, andandosene, Pìrogov impresse sfrontatamente sulle labbra della moglie gli causò una grande perplessità.

Mi pare doveroso far conoscere un po' più da vicino Schiller al lettore. L'uomo era un perfetto tedesco nel pieno senso di questa parola. Fin dall'età di vent'anni, quell'epoca felice in cui il russo vive alla giornata, Schiller aveva pianificato tutta la propria vita e non faceva strappi alla regola per nessun motivo.

Aveva stabilito di alzarsi alle sette, di pranzare alle due, d'essere preciso in ogni cosa e ubriaco ogni domenica. Aveva stabilito di raggranellare in dieci anni un capitale di cinquantamila rubli e questa cosa era sicura e inevitabile come il destino, perché è più facile che un funzionario dimentichi di gettare un'occhiata nell'anticamera del proprio direttore che un tedesco si decida a cambiare ciò che si è ripromesso. Schiller non aumentava in alcun caso le proprie spese e se il prezzo delle patate saliva troppo rispetto al solito, non aggiungeva un solo copeco ma semplicemente diminuiva la quantità e, quantunque certe volte restasse un po' affamato, tuttavia ci era abituato.

La sua meticolosità si spingeva al punto che aveva stabilito di non baciare sua moglie più di due volte nelle ventiquattro ore, e per non baciarla una volta di più, metteva soltanto un cucchiaio di pepe nella minestra; di domenica, tuttavia, questa regola non veniva osservata così rigorosamente, perché Schiller beveva due bottiglie di birra e una bottiglia di Kümmeln, che poi sempre malediceva. Non beveva come un inglese, che dopo il pranzo spranga la porta con il catenaccio e si ubriaca da solo. Al contrario, da bravo tedesco, beveva sempre in modo ispirato in compagnia del calzolaio Hoffman oppure del falegname Kunz, anche lui tedesco e grande ubriacone.

Questo era il carattere del nobile Schiller, che alla fine si vide ridotto in una situazione molto difficile. Benché fosse flemmatico e tedesco, le azioni di Pìrogov suscitarono in lui qualcosa di simile alla gelosia. Si rompeva la testa e non riusciva a escogitare un modo per sbarazzarsi di quell'ufficiale russo.

Intanto Pìrogov, fumando la pipa nella cerchia dei suoi compagni - giacché così ha disposto la provvidenza: che dove ci sono ufficiali, ci sono anche pipe - fumando dunque la pipa nella cerchia dei suoi compagni, alludeva significativamente e con un piacevole sorriso al suo intrigo con la graziosa tedeschina, con la quale, a sentire lui, era già prossimo a concludere, mentre in realtà aveva già quasi perduto la speranza di tirarla a sé. Un giorno, mentre passeggiava per la via Mescànskaja sbirciando la casa dove faceva bella mostra l'insegna di Schiller con le caffettiere e i samovàr, con sua immensa gioia scorse la testolina della biondina che si sporgeva dalla finestrella. Si fermò, le fece un segno con la mano e disse:

"Gut Morgen!" La biondina rispose al suo saluto come si fa con un conoscente.

"Allora, vostro marito è in casa?" "Sì," rispose la biondina.

"E quand'è che non è in casa?" "Di domenica non è in casa," disse la donna.

"Questo non è male," pensò fra sé Pìrogov, "bisogna approfittarne." E la domenica seguente si presentò alla biondina come un fulmine a ciel sereno. Schiller effettivamente non era in casa. La graziosa padrona di casa si spaventò, ma questa volta Pìrogov agì in maniera abbastanza cauta, si comportò in modo assai rispettoso e, facendo un inchino, mise in mostra tutta la bellezza del suo portamento agile e slanciato. Scherzò in modo piacevole e rispettoso, ma la donna a tutto rispondeva con dei monosillabi.

Infine, dopo aver affrontato diversi argomenti e aver visto che nulla poteva interessarla, le propose di ballare. La tedesca acconsentì immediatamente, perché la tedesche sono sempre felici di ballare. Su questo Pìrogov fondava grandi speranze: in primo luogo, alla biondina questo faceva piacere; in secondo luogo, lui poteva mostrare i suoi modi e la sua abilità; in terzo luogo, nel ballo poteva starle più vicino, abbracciarla e dare inizio a tutto; insomma, da questo si riprometteva un completo successo.

Cominciò una gavotta, ben sapendo che le tedesche hanno bisogno di andare per gradi. La donna avanzò al centro della stanza e sollevò il meraviglioso piedino. Questa posizione entusiasmò a tal punto Pìrogov che si precipitò a baciarlo. La tedesca cominciò a gridare e con questo accrebbe ancor di più il proprio fascino agli occhi di Pìrogov che la tempestò di baci. Ma ecco che, d'improvviso, si aprì la porta ed entrò Schiller insieme con Hoffman e con il falegname Kunz, ubriachi come al solito. Lascio ai lettori giudicare dell'ira e dell'indignazione di Schiller. "Insolente!" urlò in preda a estremo sdegno, "come osi baciare mia moglie! Sei un mascalzone, non un ufficiale russo. Che il diavolo ti pigli!

Amico Hoffman, io sono un tedesco e non un porco russo!" Hoffman rispose affermativamente.

"Io non voglio avere corna! Prendilo, amico Hoffman, per il colletto, io non voglio," continuò, agitando violentemente le braccia, mentre il suo viso andava assomigliando al panno rosso del suo panciotto. "Sono otto anni che vivo a Pietroburgo, in Svevia ho mia madre, mio zio sta a Norimberga, io sono un tedesco e non carne di vitello cornuto! Levagli tutto di dosso, amico Hoffman! Tienilo per braccia e gambe, kamarad mio Kunz!" E i tedeschi afferrarono Pìrogov per le braccia e per le gambe.

Invano egli si sforzò di difendersi: quei tre artigiani erano la gente più robusta fra tutti i tedeschi di Pietroburgo. Se Pìrogov fosse stato in piena uniforme, probabilmente il rispetto per il suo grado e il suo titolo avrebbe fermato i tempestosi teutoni. Ma lui era venuto lì assolutamente a scopo personale e privato, con un soprabitino e senza spalline. Con grandissimo furore i tedeschi gli strapparono di dosso tutti gli abiti. Hoffman gli si sedette sulle gambe con tutto il suo peso. Kunz l'afferrò per la testa e Schiller diede di piglio a un fascio di verghe che servivano da ramazza. Debbo riconoscere con rammarico che il tenente Pìrogov venne fustigato assai dolorosamente.

Sono sicuro che il giorno dopo Schiller dovette cadere preda di una violenta febbre, tremando come una foglia aspettando da un momento all'altro l'arrivo della polizia; che solo Dio sa che cosa non avrebbe dato affinché tutto ciò che era accaduto il giorno prima fosse stato solo un sogno. Ma ciò che è stato è stato. Nulla potrebbe reggere il confronto con l'ira e l'indignazione di Pìrogov. Il solo pensare a una così spaventosa offesa lo rendeva idrofobo. La Siberia e la fustigazione erano secondo lui una piccola punizione per Schiller. Volò a casa per recarsi, una volta cambiatosi, direttamente dal generale e descrivergli con le tinte più fosche la ribalderia degli artigiani tedeschi.

Contemporaneamente voleva inoltrare anche una richiesta scritta allo Stato maggiore. Se poi lo Stato Maggiore avesse stabilito una punizione insufficiente, allora occorreva rivolgersi direttamente al Consiglio di Stato e magari all'Imperatore in persona. Tutto questo invece finì in un modo piuttosto strano. Strada facendo, egli entrò in una pasticceria, mangiò due pasticcini di pasta sfoglia, leggiucchiò qualcosa sull'"Ape del Nord", e ne uscì che non era più così furioso. Per giunta, la sera fresca e piuttosto gradevole lo indusse a passeggiare per la Prospettiva Nevskij; verso le nove egli si calmò e trovò che di domenica non stava bene disturbare il generale, tanto più che senza dubbio era stato invitato in qualche posto, e perciò andò a passare la serata da un direttore del collegio di controllo, dove c'era una riunione molto piacevole di funzionari e di ufficiali. Qui trascorse con soddisfazione la serata e si distinse talmente nella mazurca che estasiò non soltanto le signore, ma persino i cavalieri.

"Curioso mondo è il nostro! - disse a se stesso - In che strano, incomprensibile modo gioca il nostro destino! Riceviamo mai ciò che desideriamo? Raggiungiamo ciò a cui sembrano preparate apposta le nostre forze? Tutto va al contrario. Ad uno il destino ha dato degli stupendi cavalli ed egli li usa per andarsene indifferente in carrozza, senza accorgersi affatto della loro bellezza, mentre un altro il cui cuore arde di passione equina, va a piedi e si accontenta di far schioccare la lingua quando gli passa accanto un trottatore. Quello ha un ottimo cuoco, ma purtroppo una bocca così piccola che non può mandar giù più d'un paio di bocconcini; l'altro ha la bocca grande come l'arcata dello Stato maggiore, eppure deve accontentarsi di un qualsiasi pranzo tedesco a base di patate. Come gioca stranamente il nostro destino!"

Ma più strani di tutto sono gli avvenimenti che si svolgono sulla Prospettiva Nevskij. Oh, non credete alla Prospettiva Nevskij!

Quando l'attraverso, ora, mi avvolgo quanto più posso nel mio mantello e cerco di non guardare gli oggetti che mi cadono sotto gli occhi. Tutto è inganno, tutto è sogno, nulla è ciò che sembra!

Credete che quel signore che passeggia con un soprabito d'ottima fattura sia molto ricco? Neanche per sogno: tutti i suoi averi consistono in quel soprabito. Vi immaginate che quei due grassoni che si sono fermati davanti a quella Chiesa in costruzione stiano discutendo della sua architettura? Nient'affatto: parlano di quelle due cornacchie che si sono posate in modo così curioso una di fronte all'altra. Credete che quel tipo agitato che muove le braccia stia parlando di come sua moglie ha buttato dalla finestra una pallina su un ufficiale che lui non conosce affatto? Neanche per sogno: sta dimostrando in che cosa consistesse il principale errore di Lafayette. Credete che quelle signore... no, alle signore credeteci meno che ad ogni altro. Guardate le vetrine dei negozi: i ninnoli che vi sono esposti sono magnifici, ma puzzano d'una terribile quantità di biglietti di banca. E Dio vi guardi dallo sbirciare sotto i cappellini delle signore! Sventoli pure in lontananza il mantello d'una bella donna; a nessun costo io la seguirò per curiosare. Lontano, per amor di Dio, lontano dal lampione! E, se ci passate vicino, fatelo in fretta, più in fretta possibile. E' già una fortuna se non gocciolerà del grasso maleodorante sul vostro elegante soprabito. Ma, lampioni a parte, tutto alita inganno. Mente ad ogni ora, la Prospettiva Nevskij, ma più che mai quando la notte cala come una massa densa e fa risaltare i muri bianchi e giallastri delle case, quando l'intera città si trasforma in un solo tuono e lampo, miriadi di carrozze rotolano giù dai ponti, i postiglioni gridando sobbalzano sui cavalli, e un demone in persona accende le lampade per mostrare ogni cosa sotto un aspetto che non è il suo.

 

 

 

 Il cappotto

 

In un ministero... meglio non dire in quale. Non c'è nulla di più suscettibile dei ministeri, dei reggimenti, degli uffici e, insomma, d'ogni sorta di corpo burocratico. Al giorno d'oggi, ormai, ogni privato cittadino ritiene che lì venga offesa tutta la società. Pare che molto recentemente un capitano di polizia non ricordo di quale città, abbia presentato un esposto in cui dice a chiare lettere che le istituzioni statali vanno in rovina e che il loro sacro nome viene pronunciato invano. E, come prova delle sue affermazioni, costui ha allegato all'esposto il grosso volume di un'opera letteraria dove, ogni dieci pagine, appare un capitano di polizia, in certi punti persino in stato d'ubriachezza. Perciò, ad evitare ogni seccatura, sarà meglio chiamare "un ministero" il ministero di cui si tratta. Dunque in "un ministero" prestava servizio "un funzionario", un funzionario che non si può dire che fosse molto importante.

Era di bassa statura, alquanto butterato, rossiccio, persino un po' debole di vista, con una incipiente calvizie, rughe da entrambe le parti delle guance e quel colore della faccia che si dice emorroidale... Che farci? la colpa è del clima di Pietroburgo. Quanto al grado (da noi bisogna innanzi tutto dichiarare il grado), era ciò che viene chiamato un eterno consigliere titolare, del quale, com'è noto, si sono beffati e presi gioco in abbondanza i vari scrittori che hanno la lodevole abitudine di prendersela con quelli che non possono mordere. Il cognome del funzionario era Basmackìn. Già da questo nome si vede che esso, in un tempo lontano, aveva avuto origine da una scarpa; ma quando, in quale epoca e in qual modo esso fosse derivato dalla scarpa è assolutamente ignoto. Il padre, il nonno, il cognato, insomma assolutamente tutti i Basmackìn andavano in giro con gli stivali, rinnovando solo tre volte all'anno le suole. Il suo nome era: Akàkij Akakièvic. Al lettore parrà forse alquanto strano e ricercato, ma posso assicurare che esso non era stato scelto, solo che, a causa di particolari circostanze, non fu assolutamente possibile dare un altro nome. Avvenne precisamente così: Akàkij Akakièvic nacque verso sera, se la memoria non mi tradisce, il ventitré di marzo. La madre, moglie d'un funzionario e ottima donna, si dispose, come si usa, a battezzare il bambino. Ella giaceva ancora nel letto, di fronte alla porta, e alla sua destra stava il padrino, Ivàn Ivanòvic Eroskìn, che prestava servizio come capufficio al senato, e la madrina, moglie d'un ufficiale di polizia, donna di rare virtù, Arìna Semènovna Belobrjùskova. Alla genitrice proposero di scegliere fra uno dei seguenti nomi:

Mòkkija, Sòssija, oppure di chiamarlo con il nome del martire Chozdazàt.

"No," pensò la madre, "che razza di nomi!" Per compiacerla aprirono il calendario in un altro punto; uscirono altri tre nomi: Trifìlij, Dùla, Varachàsij!" "Ma questo è un flagello," disse la donna, "che razza di nomi continuano a venir fuori; davvero non li ho mai sentiti. Fosse ancora Varadàt o Varùch, ma Trifìlij e Varachàsij!" Voltarono ancora la pagina e uscirono: Pavsikàkij e Vachtìsij.

"Beh, ormai vedo," disse la donna, "che questo è il suo destino.

Già che dev'essere così, meglio che si chiami come suo padre. Suo padre è Akàkij e che pure il figlio sia dunque Akàkij." Così saltò fuori il nome Akàkij Akakièvic. Il bambino venne battezzato, e durante il battesimo scoppiò a piangere e fece una smorfia, come se avesse il presentimento di diventare un giorno consigliere titolare.

Abbiamo riportato questi fatti per convincere il lettore che ciò accadde proprio per necessità di cose e che non si poteva assolutamente imporre un altro nome.

Quando e in qual modo Akàkij Akakièvic fosse entrato al ministero e chi ve l'avesse messo, è una cosa che nessuno ricorda. Per quanti direttori e vari superiori cambiassero, videro sempre lui allo stesso posto, nella stessa posizione, con le stesse funzioni, sempre lo stesso impiegato copista, tanto che poi si persuasero che, evidentemente, doveva esser venuto al mondo così, già pronto con l'uniforme e la calvizie sulla testa. Nel ministero non gli dimostravano alcuna stima. Non soltanto i custodi non si alzavano dai loro posti quando passava, ma nemmeno lo guardavano, come se attraverso l'anticamera fosse volata una semplice mosca. I superiori si comportavano con lui in modo freddamente dispotico.

Un qualsiasi aiutante del capufficio gli ficcava letteralmente sotto il naso gli incartamenti, senza neppure dirgli "copiate", oppure "ecco un bell'affaruccio interessante" o insomma qualcosa di piacevole come si usa negli uffici dove c'è della buona educazione. E lui prendeva, guardando solo l'incartamento, senza badare a chi gliel'avesse messo lì e se ne avesse il diritto.

Prendeva e subito si metteva a copiarlo. I giovani funzionari ridevano di lui e lo sfottevano per quanto poteva l'arguzia burocratica, raccontando in sua presenza varie storie inventate sul suo conto; per esempio dicevano che la sua padrona di casa, una vecchia settantenne, lo picchiava; o domandavano quando loro due si sarebbero sposati; oppure gli spargevano sulla testa pezzi di carta, dicendo che era neve.

Akàkij Akakièvic non rispondeva mai. Come se non avesse nessuno davanti a sé, non si lasciava distrarre dalle proprie occupazioni e, sebbene fosse in mezzo a tante molestie, non commetteva un solo sbaglio. Solo se lo scherzo era davvero insopportabile, se gli davano un colpo sul braccio disturbandolo nel suo lavoro, allora esclamava:

"Lasciatemi stare, perché mi offendete?" E c'era un che di strano nelle parole e nella voce con cui venivano dette. Vi si avvertiva qualcosa che induceva alla compassione, tanto che un giovanotto da poco entrato in servizio, e che aveva cominciato, secondo l'esempio degli altri, a burlarsi di lui, ad un tratto si fermò colpito, e da quel momento fu come se tutto fosse cambiato ai suoi occhi e gli apparisse sotto un aspetto diverso. Una specie di forza soprannaturale lo respinse dai compagni con i quali aveva fatto conoscenza ritenendoli persone distinte ed educate. Per molto tempo, nei momenti più allegri, seguitò ad apparirgli il piccolo funzionario con le calvizie che diceva le parole toccanti: "Lasciatemi stare, perché mi offendete?" e in queste parole altre ne echeggiavano: "Io sono un tuo fratello." Il giovanotto si copriva allora la faccia con una mano e in seguito molte volte trasalì nella sua vita, vedendo quanta disumanità ci sia nell'uomo, quanta furiosa volgarità si nasconda nella personalità più raffinata e colta e, Dio! persino in individui che il mondo reputa nobili e onesti.

Sarebbe stato difficile trovare un uomo che vivesse così del suo lavoro. E' poco dire che egli prestava servizio con zelo; no, prestava servizio con amore. In quel copiare, egli vedeva un certo mondo proprio, vario e piacevole. La soddisfazione si dipingeva sulla sua faccia; alcune lettere erano le sue favorite e, quando vi s'imbatteva, non era più lui: ridacchiava, ammiccava, si aiutava con le labbra, sicché pareva che sulla sua faccia si potesse leggere ogni lettera che la sua penna vergava. Se l'avessero ricompensato in maniera proporzionata al suo zelo, con sua meraviglia egli sarebbe forse diventato persino consigliere di stato; mentre tutto ciò che aveva ottenuto, come dicevano gli spiritosi suoi compagni, era una fibbia all'occhiello e le emorroidi ai lombi. Del resto, non si può dire che non si facesse alcuna attenzione a lui. Un direttore che era un buon uomo e voleva ricompensarlo per il lungo servizio, ordinò di dargli qualcosa di più importante della solita copiatura. Gli fu così ordinato di stendere una relazione ad un altro ufficio di una pratica già pronta. Certo si trattava soltanto di cambiare il titolo di testa e poi di portare alcuni verbi dalla prima persona alla terza, ma questo gli costò una tale fatica che diventò tutto un sudore, si terse la fronte e alla fine disse: "No, datemi piuttosto qualcosa da copiare." Da quella volta lo lasciarono per sempre al suo lavoro di copiatura. Fuori del copiare sembrava che per lui non esistesse niente. Non pensava affatto al proprio abito: l'uniforme che indossava non era verde, ma di un certo colore rossiccio farinoso.

Il colletto l'aveva così basso e stretto, che il collo, quantunque non fosse affatto lungo, uscendo da quel colletto pareva insolitamente lungo, come in quei gattini di gesso che muovono la testa e che venditori ambulanti russi e sedicenti stranieri portano sul capo a decine intere. E poi c'era sempre qualcosa appiccicato alla sua uniforme, una pagliuzza o un filo; per di più aveva la speciale arte, quando usciva in strada, di capitare sotto una finestra proprio nell'istante in cui da essa buttavano fuori ogni sorta di porcherie e perciò sul suo cappello non mancavano mai scorze di anguria e di melone e altre sciocchezzuole del genere. Mai una volta nella vita aveva rivolto l'attenzione a ciò che si faceva e che accadeva ogni giorno per strada, cosa a cui, com'è noto, sempre guardano i suoi colleghi, i giovani funzionari che talmente estendono la capacità penetrativa del loro vivace sguardo da notare addirittura sul marciapiede opposto un bordo di pantaloni scucito, ciò che sempre suscita un malizioso sorriso sulla loro faccia.

Akàkij Akakièvic, anche se guardava qualcosa, vedeva sempre le sue righe pulite, scritte con calligrafia regolare, e forse soltanto se un muso di cavallo, venuto chissà di dove, gli si appoggiava su una spalla e gli soffiava dalle frogie un uragano di vento sul collo, forse solo allora si accorgeva che non stava a metà d'una riga, ma a metà d'una strada.

Arrivando a casa si sedeva subito a tavola, trangugiava alla svelta la sua zuppa a base di cavoli, mangiava un pezzo di bue con la cipolla, senza rendersi conto del loro sapore. Mangiava tutto questo insieme con le mosche e con tutto quello che Dio gli mandava in quel momento. Quando sentiva che lo stomaco cominciava a gonfiarsi, si alzava da tavola, tirava fuori una boccetta d'inchiostro e ricopiava qualche incartamento che s'era portato a casa. Se non ne aveva, faceva apposta, per il proprio piacere, una copia per sé, specialmente se l'incartamento era considerevole non tanto per l'eleganza dello stile, quanto per il fatto che si rivolgeva a qualche personaggio nuovo o importante.

Persino nelle ore in cui il grigio cielo di Pietroburgo si spegne completamente e tutto il popolo impiegatizio s'è pasciuto e saziato, come ognuno può, in conformità agli stipendi e al personale capriccio, quando tutti riposano dopo il ministeriale scricchiolio di penne, il correre qua e là, le imprescindibili occupazioni proprie e altrui (che l'uomo inquieto s'assegna volontariamente persino più del necessario), quando i funzionari s'affrettano a dedicare al piacere il tempo che resta: chi è più vivace, corre a teatro; chi in strada, dedicando il proprio tempo alla contemplazione di certi cappellini; chi a una serata, prodigando complimenti a qualche leggiadra ragazza, stella d'una piccola cerchia di funzionari; chi, e questo succede più spesso, se ne va semplicemente da un amico a un quarto o terzo piano, in due piccole stanze con un'anticamera e una cucina e certe pretese d'eleganza, una lampada o un'altra cosetta che è costata molti sacrifici, rinunce a pranzi e a passeggiate. Insomma, anche nell'ora in cui tutti i funzionari si sparpagliano nei piccoli alloggi degli amici a giocare un burrascoso whist, sorseggiando il tè dai bicchieri insieme a biscotti da un copeco, aspirando il fumo da lunghe pipe, riportando mentre si danno le carte qualche maldicenza dell'alta società, dal che mai e in nessuna occasione può esimersi l'uomo russo, oppure, quando non c'è altro di cui parlare, raccontando l'eterna barzelletta del poliziotto a cui vengono a dire che è stata tagliata la coda al cavallo del monumento di Falconet - insomma anche quando tutti corrono a distrarsi, Akàkij Akakièvic non s'abbandonava ad alcun divertimento. Nessuno poteva dire d'averlo mai veduto a qualche serata. Dopo aver copiato a sazietà, si metteva a letto sorridendo in anticipo al pensiero del domani, di quel che l'indomani Dio gli avrebbe mandato da copiare.

Così trascorreva la sua pacifica esistenza un uomo che con quattrocento rubli di stipendio sapeva essere contento della sua sorte, e avrebbe forse raggiunto così la tarda vecchiaia se la strada della vita non fosse disseminata di vari guai non solamente per i consiglieri titolari, ma anche per quelli segreti, effettivi, di corte e d'ogni altro genere, e persino per quelli che non danno consigli a nessuno e da nessuno ne prendono.

C'è a Pietroburgo un forte nemico di tutti coloro che ricevono quattrocento rubli l'anno di stipendio o giù di lì. Questo nemico non è altri che il gelo pietroburghese, sebbene qualcuno dica che sotto diversi aspetti sia assai salutare. Alle nove del mattino, precisamente nell'ora in cui le strade si riempiono di coloro che si recano ai ministeri, esso comincia a dare pizzicotti così energici e pungenti su tutti i nasi senza distinzione, che i poveri funzionari non sanno più dove infilarli. A quest'ora, quando anche a chi occupa le cariche più elevate duole la fronte per il gelo e vengono le lacrime agli occhi, i poveri consiglieri titolari sono talvolta completamente indifesi. L'unica salvezza consiste nel percorrere di corsa con il leggero paltoncino cinque o sei strade e poi pestare per bene i piedi in anticamera fino a quando tutte le facoltà e le doti naturali necessarie alle mansioni d'ufficio, congelatesi lungo la strada, non si disgelano per bene.

Da qualche tempo Akàkij Akakièvic cominciava ad avvertire in modo particolarmente acuto, sulle spalle e sulla schiena, i rigori del gelo, benché si sforzasse di percorrere al più presto e di corsa il tragitto dalla casa all'ufficio. Alla fine si chiese se il suo cappotto non avesse qualche difetto. A casa sua lo esaminò accuratamente e scoprì che in due o tre posti, precisamente sulla schiena e sulle spalle, esso era diventato leggero come un velo:

il panno s'era talmente liso che ci si vedeva attraverso e la fodera si sfilacciava. Bisogna sapere che anche il cappotto di Akàkij Akakièvic era oggetto delle derisioni dei colleghi; gli avevano persino negato il nobile nome di cappotto e lo chiamavano vestaglia. In realtà esso aveva una strana caratteristica: ogni anno il suo colletto diventava sempre più piccolo, perché serviva per rattoppare le altre parti. Il rattoppo non rivelava alcun'arte da parte del sarto e l'effetto non era bello: sembrava un sacco cadente. Accertata la situazione, Akàkij Akakièvic decise che bisognava portare il cappotto da Petròvic, il sarto, che abitava al quarto piano di una scala di servizio e, nonostante un occhio storto e la faccia tutta butterata, si occupava con una certa abilità delle riparazioni d'ogni sorta di pantaloni e di frac impiegatizi. Ciò, si capisce, quand'era in stato di sobrietà e non coltivava in testa qualche altra impresa. Di questo sarto naturalmente non occorrerebbe parlare molto, ma, già che si usa in ogni racconto delineare compiutamente il carattere d'ogni personaggio, non c'è nulla da fare, dateci qui pure Petròvic. In un primo tempo egli si chiamava semplicemente Grigòrij ed era un servo della gleba di qualche signore; aveva cominciato a chiamarsi Petròvic da quando aveva ottenuto il riscatto e s'era messo a bere piuttosto forte ad ogni festa comandata, all'inizio solo a quelle grandi, e poi, senza distinzione, a tutte le feste della chiesa che fossero segnate con una crocetta sul calendario. Da questo punto di vista egli era fedele ai costumi degli avi e, litigando con la moglie, la chiamava donna mondana e tedesca. Dato che abbiamo accennato alla moglie, sarebbe necessario dire due parole anche su di lei; ma, purtroppo, poco si sa, forse soltanto che Petròvic aveva appunto una moglie che portava addirittura la cuffia e non il fazzoletto in testa, ma d'esser bella, a quanto pare, non poteva vantarsi, o almeno, incontrandola, solamente i soldati della guardia sbirciavano sotto la sua cuffia, arricciandosi i baffi ed emettendo un suono tutto speciale.

Arrampicandosi su per la scala che portava da Petròvic e che, ad esser giusti, era interamente ricoperta d'acqua di risciacquatura e intrisa di quell'odore d'alcool che brucia gli occhi e, com'è noto, è presente in tutte le scale di servizio delle case di Pietroburgo, arrampicandosi dunque su per la scala Akàkij Akakièvic pensava quanto gli avrebbe chiesto Petròvic e mentalmente aveva stabilito di non dargli più di due rubli. La porta era aperta, perché la padrona di casa, preparando del pesce, aveva fatto tanto fumo in cucina che non si vedevano più neppure gli scarafaggi.

Akàkij Akakièvic attraversò la cucina senza che la padrona neppure se ne accorgesse ed entrò finalmente nella stanza dove vide Petròvic seduto su una larga tavola di legno grezzo con le gambe ripiegate sotto di sé come un pascià turco. Secondo l'abitudine dei sarti quando sono al lavoro, i piedi erano nudi. La prima cosa che saltò agli occhi di Akàkij Akakièvic fu l'alluce, che egli conosceva assai bene, con un'unghia deformata, grossa e robusta come il guscio d'una tartaruga. Al collo di Petròvic pendevano numerosi fili di seta e sulle ginocchia era steso un cencio. Erano già almeno tre minuti che tentava d'infilare il filo nella cruna dell'ago, non ci azzeccava, e perciò era molto arrabbiato con l'oscurità e anche con il filo, e brontolava a mezza voce: "Non entra, barbaro; m'hai divorato, razza di farabutto!" Ad Akàkij Akakièvic dispiacque d'essere arrivato proprio in un momento in cui Petròvic era infuriato: a lui piaceva ordinare qualcosa a Petròvic quando quest'ultimo era già un po' brillo o, come si esprimeva la moglie, "s'era abboffato di grappa, diavolo guercio". In quello stato di solito Petròvic cedeva di buon grado e accettava tutto, e ogni volta persino s'inchinava e ringraziava.

Poi, è vero, arrivava la moglie, piangendo che il marito era ubriaco e perciò aveva chiesto troppo poco, ma di solito si aggiungeva un grivènnik e tutto andava a posto. In quel momento, invece, Petròvic sembrava in perfetto stato di sobrietà e perciò duro, taciturno e pronto ad esigere chissà quale prezzo. Akàkij Akakièvic, avrebbe voluto quasi quasi fare marcia indietro, ma ormai la faccenda era avviata. Petròvic strizzò verso di lui molto attentamente il suo unico occhio e Akàkij Akakièvic senza volerlo mormorò:

"Buon giorno, Petròvic!" "Buona salute, signoria," disse Petròvic e fissò l'occhio sulle mani di Akàkij Akakièvic, per vedere che razza di preda avesse portato con sé.

"E io, ecco, per te, Petròvic, questo... " Bisogna sapere che Akàkij Akakièvic s'esprimeva soprattutto con preposizioni, con avverbi, insomma con particelle che non hanno assolutamente alcun significato. Se poi la questione era imbarazzante, aveva anche l'abitudine di non terminare affatto la frase, tanto che spesso, avendo cominciato con le parole: "ecco, davvero, assolutamente quello... " poi non seguiva più nulla e lui stesso si dimenticava del resto, credendo d'aver già detto tutto.

"Che razza di roba è?" disse Petròvic, mentre squadrava col suo unico occhio l'uniforme di Akàkij Akakièvic dal colletto alle maniche, alla schiena, alle falde, alle asole, roba che però gli era tutta già ben nota perché lavoro suo. Questa è l'abitudine dei sarti; questa è la prima cosa che fanno nel vedervi.

"E io, ecco, che cosa, Petròvic... il cappotto, già, il panno...

ecco vedi, negli altri posti regge bene, s'è un po' impolverato e sembra vecchio, ma invece è nuovo, solo che in un posto è un poco così... sulla schiena, e poi anche su una spalla s'è consumato un poco; sì, ecco, su questa spalla un po'... ecco tutto. E non c'è tanto lavoro... " Petròvic prese la "vestaglia" e la distese sulla tavola. Poi la esaminò a lungo, scosse la testa e allungò la mano verso la finestra per prendere la sua tabacchiera rotonda con il ritratto d'un generale, quale precisamente non si sa, perché il punto dove si trovava la faccia era stato sfondato dal dito e poi rattoppato con un quadratino di carta incollata. Annusato il tabacco, Petròvic allargò la "vestaglia" fra le mani e la esaminò controluce e di nuovo scosse la testa. La rovesciò dalla parte della fodera e di nuovo scosse la testa, di nuovo tolse il coperchio con la carta incollata sopra il generale e, riempitosi il naso di tabacco, chiuse la tabacchiera, la ripose e finalmente disse:

"No, non si può riparare: è in cattivo stato!" A queste parole il cuore di Akàkij Akakièvic ebbe un balzo.

"Come non si può, Petròvic?" disse con voce quasi supplichevole, da bambino, "è consumato soltanto sulle spalle, tu devi pur avere dei pezzi di stoffa da metterci... " "Certo, i pezzi si possono trovare, i pezzi si trovano," disse Petròvic, "ma è cucirli che non si può: è roba completamente marcia, come la tocchi con l'ago, ti si disfa in mano." "Che si disfi pure, tu subito ci metti una pezza." "Ma non c'è dove poggiarle le pezze, non c'è presa, è troppo logoro ormai. Non è panno questo, ma gloria: come soffia un po' di vento vola via." "E tu appunto rinforzalo. Come sarebbe a dire, così, davvero, questo!" "No," disse deciso Petròvic, "non si può far nulla. E' una brutta faccenda. Meglio piuttosto, appena verrà il freddo dell'inverno, che ve ne facciate delle pezze per i piedi, perché la calza non tiene abbastanza caldo. Sono stati i tedeschi a inventarla per farci più soldi (appena c'era il modo a Petròvic piaceva tirare una frecciata contro i tedeschi), e di cappotto dovrete farvene uno nuovo." Alla parola "nuovo" Akàkij Akakièvic si sentì annebbiare la vista e tutto quello che era nella stanza cominciò a confondersi. Vedeva chiaramente soltanto il generale con la faccia coperta dal pezzetto di carta sul coperchio della tabacchiera di Petròvic.

"Come sarebbe, nuovo?" disse, sempre sentendosi come in un sogno.

"Ma io, per questo, i soldi non li ho." "Sì, nuovo," disse con crudele flemma Petròvic.

"Beh, e se per caso uno nuovo, cosa, quanto... " "Ossia, quanto costerà?" "Sì." "Eh, bisognerà metterci centocinquanta rubli o poco più," disse Petròvic stringendo significativamente le labbra.

A lui piaceva far molto effetto, gli piaceva colpire forte la gente di primo acchito e poi guardare di sbieco che faccia facesse la persona ch'egli aveva colpito con le sue frasi.

"Centocinquanta rubli un cappotto!" gridò il povero Akàkij Akakièvic e forse gridò per la prima volta dalla sua nascita, perché s'era sempre distinto per il tono sommesso della voce.

"Sissignore," disse Petròvic, "e poi si tratta di vedere quale cappotto. Se si vuole della martora sul collo e magari il cappuccio con la fodera di seta, allora si va sui duecento." "Petròvic, ti prego," disse Akàkij Akakièvic con voce supplichevole senza sentire e senza nemmeno cercare di sentire le parole a effetto dette da Petròvic, "riparalo in qualche maniera in modo che mi serva ancora per un poco." "Ma no, sarebbe come buttare via il lavoro e spendere i soldi per niente," disse Petròvic. Queste parole, annientarono del tutto Akàkij Akakièvic. Quanto a Petròvic, dopo che quest'ultimo se ne fu andato, rimase ancora per un bel pezzo in piedi con le labbra significativamente serrate, senza rimettersi al lavoro, contento di non essersi umiliato e di non aver tradito l'arte di sarto.

Uscito in strada, Akàkij Akakièvic era come trasognato.

"Bella storia, bella," diceva a se stesso, "davvero non l'avrei mai pensato che sarebbe andata a finire così... " e poi, dopo un certo silenzio, aggiunse: "Sicché sarebbe così! In fin dei conti ecco cos'è venuto fuori, e io davvero non potevo supporre che fosse così." A questa constatazione seguì una lunga pausa. Poi egli esclamò:

"Sicché, dunque, sarebbe così! Guarda che roba, dico, inaspettata, già... questa, proprio, no... guarda che roba!" Detto questo, invece di andare a casa, si avviò senza rendersene conto dalla parte opposta. Per strada uno spazzacamino coperto di fuliggine l'urtò di fianco e gli annerì tutta una spalla; un'intera secchia di calce si riversò sopra di lui dalla cima di una casa in costruzione. Non si accorse di nulla e soltanto più tardi, quando si scontrò con una guardia che, posata vicino a sé la propria alabarda, scuoteva un corno per versarne il tabacco sulla palma callosa, soltanto allora ritornò un poco in sé e del resto solo perché la guardia gli disse:

"Che hai da sbattermi sul muso, non hai il tuo "marciapiede"?" Fu costretto a guardarsi in giro e a svoltare verso casa. Qui finalmente cominciò a raccogliere i pensieri, vide nella sua vera luce la propria situazione, e si mise a parlare con se stesso non più in modo sconclusionato, ma ragionevolmente e francamente come con un amico giudizioso con il quale si può parlare di ciò che più ci sta a cuore.

"Ebbene, no," diceva Akàkij Akakièvic, "con Petròvic ora non si può discutere: adesso lui, quello... si vede che la moglie gliel'ha suonate. Meglio che vada da lui domenica mattina: dopo la vigilia del sabato avrà l'occhio appannato e sarà mezzo insonnolito, sicché avrà bisogno di smaltire la sbornia, la moglie soldi non gliene darà, e io allora gli metto un grivènnik nella mano, e lui sarà più trattabile e allora pure il cappotto, già quello... " Così ragionava con se stesso Akàkij Akakièvic; si fece animo e attese la prima domenica. Visto da lontano che la moglie di Petròvic era uscita di casa per andare in qualche posto, se ne andò dritto da lui. Petròvic, appunto, dopo il sabato, aveva l'occhio assai annebbiato, la testa gli penzolava verso il pavimento ed era tutto insonnolito; ma, nonostante ciò, non appena seppe di cosa si trattava, fu come se qualche diavolo l'avesse scottato.

"E' impossibile," disse, "dovrete ordinarne uno nuovo." Fu proprio a questo punto che Akàkij Akakièvic gli ficcò in mano un grivènnik.

"Vi ringrazio, signoria, mi rifarò un poco alla vostra salute," disse Petròvic, "ma, quanto al cappotto, dovete lasciar perdere:

non è più buono neanche a fare stracci. Vi farò a pennello un cappotto nuovo, state tranquillo." Akàkij Akakièvic ricominciò a chiedere che lo riparasse, ma Petròvic non stette a sentirlo e disse:

"Ve lo faccio a pennello, su questo ci potete contare, ci metterò tutta la mia attenzione. Si può fare anche come va di moda adesso, il colletto che s'abbottona con zampine d'argento placcato." Fu qui appunto che Akàkij Akakièvic vide che d'un cappotto nuovo non si poteva fare a meno e si perse completamente d'animo. Come farlo in effetti, con che cosa, con quali soldi? Certo, in parte si poteva contare su una futura gratifica per le feste, ma quei soldi erano già stati da tempo destinati e distribuiti. Aveva bisogno di pantaloni nuovi, di pagare al calzolaio un vecchio debito per l'applicazione di nuove tomaie a vecchi stivali, e poi bisognava ordinare alla camiciaia tre camicie, nonché due capi di quella biancheria che non sta bene nominare sui libri! Insomma, tutti i soldi dovevano andarsene, e se anche il direttore fosse stato tanto misericordioso da fissargli quarantacinque o cinquanta rubli di gratifica invece di quaranta sarebbe rimasta comunque una sciocchezza, una goccia nel mare rispetto al capitale che ci voleva per il cappotto. Sebbene egli sapesse che Petròvic aveva il ghiribizzo di sputare fuori prezzi spropositati che sa il diavolo, tanto che persino sua moglie non poteva trattenersi dal gridare:

"E che, sei impazzito, specie di cretino! A volte prendi il lavoro per niente, e adesso ti piglia la mattana di chiedere quello che non costi neanche tu!" Sebbene, dunque, sapesse che Petròvic gliel'avrebbe fatto anche per ottanta rubli, dove prenderli, però, quegli ottanta rubli? La metà ancora si sarebbe potuta trovare: la metà sarebbe anche venuta fuori; forse anche un po' di più, ma dove prenderla l'altra metà?

Ora il lettore deve sapere da dove poteva venir fuori la metà della somma. Akàkij Akakièvic aveva l'abitudine di mettere, per ogni rublo che spendeva, un centesimo in una cassettina chiusa a chiave, con una fessura intagliata nel coperchio appunto per infilarci i soldini. Allo scadere d'ogni semestre controllava gli spiccioli che vi si erano accumulati e li cambiava in monete d'argento. Così continuava a fare da tempo, e ormai, dopo diversi anni, la somma era arrivata a più di quaranta rubli. Sicché una metà l'aveva in mano; ma dove prendere l'altra metà? Dove prendere gli altri quaranta rubli? Akàkij Akakièvic meditò, meditò, e decise che non c'era altro da fare che ridurre, per almeno un anno, le spese abituali: eliminare l'uso del tè alla sera, non accendere la candela dopo buio, e se c'era qualcosa da fare, andare nella camera della padrona a lavorare con la sua candela; camminando per strada, procedere più leggermente e cautamente possibile sui sassi e sul selciato, quasi in punta di piedi, per non consumare prima del tempo le suole; dare assai raramente da lavare la biancheria alla lavandaia e, perché non si consumasse, togliersela subito ogni volta che tornava a casa e restare soltanto con la veste da camera di cotonina, molto vecchia, ma abbastanza risparmiata dal tempo.

Bisogna dire la verità: dapprima gli fu difficile abituarsi a simili limitazioni, ma poi in qualche modo esse entrarono nella consuetudine e tutto andò benissimo; si era persino perfettamente allenato a digiunare la sera, ma in compenso si nutriva spiritualmente fantasticando all'idea del futuro cappotto. Da quel momento parve che la sua stessa esistenza si facesse in un certo senso più piena, come se si fosse sposato, come se qualche altra persona vivesse con lui, come se non fosse più solo, ma una gradita compagna avesse acconsentito a percorrere al suo fianco il cammino della vita, e quest'amica non era altri, appunto, che quel cappotto ben imbottito, con una robusta fodera che non si sarebbe consumata. Diventò anche più vivace, persino più fermo di carattere, come un uomo che s'è ormai stabilito e fissato uno scopo. Dalla sua faccia e dai suoi atti scomparvero il dubbio, l'indecisione, insomma, tutti gli aspetti oscillanti e indeterminati. Talvolta nei suoi occhi brillava una fiamma, nella testa gli balenavano persino i pensieri più bruschi e arditi:

perché non mettere della martora sul colletto? Preso da tali riflessioni, poco mancava che finisse col distrarsi. Una volta, copiando una carta, fu lì lì per fare un errore, tanto che poi esclamò quasi ad alta voce: "Uh!" e si fece il segno della croce.

Ogni mese andava a trovare almeno una volta Petròvic per parlare del cappotto: dove fosse meglio acquistare la stoffa, e a quale prezzo, e ogni volta tornava a casa contento, anche se un po' preoccupato, pensando che alla fine doveva pur venire il momento in cui avrebbe acquistato tutto il necessario e il cappotto sarebbe stato fatto. La faccenda andò anche più in fretta di quanto lui s'aspettasse. Smentendo i suoi sogni più arditi, il direttore non assegnò ad Akàkij Akakièvic quaranta o quarantacinque rubli, ma addirittura sessanta: sia che presentisse che ad Akàkij Akakièvic occorreva un cappotto, sia che la cosa accadesse da sé, fatto sta che grazie a ciò egli si trovò venti rubli in più. Questa circostanza accelerò i tempi. Ancora due o tre mesi di fame non troppo rigida, e Akàkij Akakièvic si trovò ad aver raccolto esattamente ottanta rubli. Il suo cuore, in genere assai tranquillo, cominciò a battere. Subito, il giorno stesso, egli si recò in compagnia di Petròvic a fare il giro dei negozi.

Acquistarono dell'ottima stoffa, e non era poi tanto difficile, dato che ci avevano pensato già sei mesi prima ed era raro il mese in cui non fossero andati nei negozi per informarsi sui prezzi; lo stesso Petròvic disse che stoffa migliore non ce n'era. Per la fodera scelsero del calicò, ma così buono e robusto che, secondo le parole di Petròvic, era anche migliore della seta e persino più bello e più lucido. La martora non la comprarono, perché, appunto, era cara, e al suo posto scelsero del miglior gatto che si trovasse in negozio, un gatto che da lontano si poteva sempre scambiare per martora. Petròvic si diede da fare intorno al cappotto due settimane in tutto, perché c'era molto lavoro d'impuntura, altrimenti sarebbe stato pronto prima. Per il lavoro Petròvic prese dodici rubli, meno era proprio impossibile: tutto era stato cucito con filo di seta, a doppia costura corta, e su ogni cucitura Petròvic era poi passato con i propri denti, lasciandovi i segni. Fu un... è difficile dire che giorno preciso, ma probabilmente fu il giorno più solenne della vita di Akàkij Akakièvic, quello in cui Petròvic gli portò finalmente il cappotto. Lo portò di mattina, proprio un attimo prima che lui uscisse per andare al ministero. Mai in un altro momento il cappotto sarebbe venuto così a proposito, perché il freddo aveva cominciato a farsi sentire e minacciava di aumentare ancora.

Petròvic si presentò con il cappotto, come s'addice ad ogni buon sarto. Sulla sua faccia era dipinta un'espressione così compresa come Akàkij Akakièvic non gli aveva mai visto prima. Pareva che egli sentisse pienamente d'aver fatto un'opera non di poco conto e che di colpo avesse avvertito in sé l'abisso che separa i sarti buoni soltanto ad applicare fodere e a fare riparazioni, da quelli che confezionano ex novo. Tirò dunque fuori il cappotto dal fazzolettone da naso in cui l'aveva avvolto; il fazzolettone era fresco di bucato, sicché lui lo ripiegò e se lo mise in tasca per usarlo. Tirato fuori il cappotto, lo guardò con molto orgoglio e, reggendolo con entrambe le mani, lo posò abilmente sulle spalle di Akàkij Akakièvic; poi lo distese e glielo aggiustò da dietro verso il basso; quindi lo drappeggiò addosso ad Akàkij Akakièvic lasciando sbottonato qualche bottone. Akàkij Akakièvic, da uomo esperto, volle provarlo nelle maniche; Petròvic l'aiutò a infilare anche le maniche: andavano bene. Insomma, risultò che il cappotto era perfettamente e precisamente riuscito. In quest'occasione Petròvic non tralasciò di dire che lui aveva preso così poco soltanto perché abitava in una viuzza e non aveva insegna e per di più conosceva da tempo Akàkij Akakièvic; giacché sulla Prospettiva Nevskij solo per il lavoro gli avrebbero preso settantacinque rubli. Akàkij Akakièvic rifiutò di mettersi a ragionare di simili cose con Petròvic; del resto l'impaurivano già le forti somme con cui a Petròvic piaceva gettare polvere negli occhi. Pagò il conto, lo ringraziò e immediatamente uscì col cappotto nuovo per andare al ministero. Petròvic uscì dietro di lui e, fermo sulla strada, guardò ancora a lungo da lontano il cappotto; poi prese apposta da un'altra parte per correre di nuovo sulla strada, aggirandola per un vicolo laterale, così da poter guardare ancora una volta il suo cappotto da un altro punto d'osservazione, ossia proprio di faccia.

Akàkij Akakièvic camminava nella più lieta disposizione di tutti i suoi sentimenti. Ogni minuto, ogni istante sentiva d'avere sulle spalle un cappotto nuovo e varie volte persino sorrise d'interna soddisfazione. In realtà c'erano due vantaggi: uno, che stava al caldo e, secondo, che faceva figura. Della strada percorsa non si accorse affatto e si trovò al ministero senza rendersene conto; quando in anticamera si tolse il cappotto, lo esaminò tutt'attorno e l'affidò alla particolare sorveglianza dell'usciere.

Non si sa come, ma tutti, al ministero, vennero subito a sapere che Akàkij Akakièvic aveva un cappotto nuovo e che la "vestaglia" non esisteva più. Sull'istante, tutti accorsero in anticamera a vedere il nuovo cappotto di Akàkij Akakièvic. Cominciarono a felicitarsi con lui, a complimentarlo, tanto che egli dapprima si limitò a sorridere, ma poi provò vergogna. Quando tutti, circondandolo, cominciarono a dire che bisognava bagnare il cappotto nuovo e che, quanto meno, egli doveva dare una cena, Akàkij Akakièvic si smarrì completamente, non sapendo più come comportarsi, che cosa rispondere e come sottrarsi con un pretesto.

Tutto rosso in faccia, cominciò ad assicurare piuttosto ingenuamente i colleghi che non si trattava affatto d'un cappotto nuovo, che era solo così, che era un cappotto vecchio. Finalmente uno dei funzionari, addirittura un vice capufficio, probabilmente per far vedere che non era un superbo e trattava anche con gli inferiori, disse: "Faremo così, darò io la serata invece di Akàkij Akakièvic e vi invito oggi da me per il tè; come a farlo apposta, infatti, oggi è il mio onomastico." Naturalmente i funzionari fecero gli auguri al vice capufficio e accettarono volentieri la proposta. Akàkij Akakièvic cominciò con il dire che non poteva, ma tutti si misero a gridare che era una scortesia, una vera vergogna, un'ignominia, e lui non poté rifiutare. Ripensandoci, del resto, la cosa gli fece piacere, dato che in questo modo avrebbe avuto l'occasione di recarsi anche alla serata con il cappotto nuovo. Quella giornata fu per Akàkij Akakièvic come una grande festa solenne. Ritornò a casa nel più felice stato d'animo, si levò il cappotto e lo appese con cura alla parete dopo averne ammirato ancora una volta la stoffa e la fodera, e poi tirò apposta fuori, per fare un paragone, la vecchia "vestaglia" che andava completamente a pezzi. La guardò e scoppiò a ridere da solo: che enorme differenza! E anche dopo, a pranzo, continuò a lungo a sorridere non appena gli venivano in mente le condizioni in cui si trovava la "vestaglia". Pranzò allegramente e dopo pranzo non scrisse nulla, nessun incartamento, ma fece un po' il sibarita sul letto finché non imbrunì. Poi, senza tirarla troppo in lungo, si vestì, s'infilò il cappotto e uscì in strada.

Dove precisamente abitasse il funzionario che l'aveva invitato purtroppo non possiamo dirlo: la memoria qui ci tradisce e tutto ciò che c'è a Pietroburgo, tutte le vie e le case si sono talmente confuse e mescolate nella nostra testa, che è molto difficile tirarne fuori qualcosa di coerente. Comunque fosse, è però certo che il funzionario abitava nella parte migliore della città, dunque non troppo vicino ad Akàkij Akakièvic. Dapprima Akàkij Akakièvic dovette percorrere certe vie deserte e debolmente illuminate, ma, man mano che si avvicinava alla casa del funzionario, le strade diventavano sempre più vive, più popolate e meglio illuminate. I passanti cominciarono a essere più frequenti, si vedevano anche signore ben vestite, gli uomini avevano colletti di castoro, s'incontravano più di rado i vetturini con le loro slitte a sbarre di legno tempestate di chiodini dorati. Al contrario, si vedevano di continuo cocchieri con veloci puledri e berretti di velluto color lampone, e slitte laccate con coperte di pelli d'orso; sulla strada passavano al volo con le ruote che stridevano sulla neve, carrozze con la serpa tutta adorna.

Per Akàkij Akakièvic tutto era una novità. Da parecchi anni non usciva di sera. Si fermò con curiosità davanti alla vetrina illuminata d'un negozio per guardare un quadro in cui era raffigurata una bella donna che si toglieva una scarpa esibendo così tutta la gamba che non era affatto brutta, mentre alle sue spalle, dalla porta di una stanza, si affacciava la testa di un uomo con i basettoni e un bel pizzo alla spagnola. Akàkij Akakièvic scosse la testa, sorrise, poi proseguì per la sua strada. Perché sorrise? Forse perché aveva visto una cosa che ignorava del tutto, ma per la quale ognuno conserva tuttavia un certo fiuto, o perché, come molti altri funzionari, aveva pensato:

"Ah, questi francesi! Non c'è che dire, non vogliono che questo..." Forse però non pensò nulla del genere: non si può infatti entrare nell'anima d'un uomo e sapere tutto ciò che pensa.

Infine raggiunse la casa in cui abitava il vice capufficio. Il vice capufficio viveva con agio: sulle scale splendeva un lampione, l'appartamento era al secondo piano. Entrato in anticamera, Akàkij Akakièvic vide sul pavimento intere file di sovrascarpe. Fra di esse, al centro della stanza, c'era un samovàr che rumoreggiava ed emetteva nugoli di vapore. Alle pareti erano appesi cappotti e mantelli, alcuni dei quali avevano persino i colli di castoro o i risvolti di velluto. Di là della parete si udivano rumori e voci, che si fecero di colpo distinte e sonore quando si aprì la porta e uscì un domestico con un vassoio pieno di bicchieri vuoti, di un bricco per la panna e d'un cestino di biscotti. Evidentemente gli impiegati erano lì da un pezzo e avevano già bevuto il primo bicchiere di tè. Akàkij Akakièvic, appeso il proprio cappotto, entrò nella stanza e subito gli apparvero i funzionari, le pipe, i tavolini per giocare a carte, mentre gli giungeva alle orecchie un chiacchiericcio fitto che si levava da tutte le parti, e il rumore delle sedie smosse. Egli si fermò goffamente in mezzo alla stanza, sforzandosi di pensare che cosa dovesse fare. Ma già l'avevano notato, accolto con un grido e tutti immediatamente si recarono in anticamera a contemplare un'altra volta il suo cappotto. Akàkij Akakièvic benché un poco confuso, tuttavia, essendo una persona cordiale, era anche rallegrato dal fatto che lodassero il suo cappotto. Poi, si capisce, tutti abbandonarono lui e il suo cappotto, e come si conviene, si rivolsero ai tavolini destinati al whist. Il frastuono, il chiacchiericcio, e la folla di gente, tutto questo era insolito per Akàkij Akakièvic. Non sapeva come comportarsi, dove mettere le mani, le gambe e l'intera persona; si sedette infine accanto ad alcuni giocatori, guardò le carte, sbirciò in faccia l'uno e l'altro e, dopo un certo tempo, cominciò a sbadigliare e a sentire che si annoiava, tanto più che già da un pezzo era venuta l'ora in cui di solito andava a dormire. Voleva salutare il padrone di casa, ma non glielo permisero, dicendo che bisognava assolutamente bere una coppa di champagne in onore del nuovo indumento. Un'ora dopo servirono la cena, consistente in insalata russa, vitello freddo, patè, pasticcini e champagne.

Costrinsero Akàkij Akakièvic a bere due coppe, dopo le quali egli sentì che nella stanza c'era adesso più allegria, senza però riuscire a dimenticare che era mezzanotte e che già da un pezzo avrebbe dovuto essere a casa. Affinché in qualche modo al padrone di casa non venisse in mente di trattenerlo, sgattaiolò alla chetichella dalla stanza, cercò in anticamera il cappotto che non senza rammarico trovò per terra, lo scosse, ne tolse ogni granello di polvere, se lo infilò e scese le scale uscendo sulla strada.

C'era ancora luce. Erano aperte certe bottegucce, ritrovi insostituibili di servitori e gente d'ogni genere; altre che erano chiuse mostravano tuttavia una lunga striscia di luce lungo tutta la fessura della porta, il che voleva dire che non erano ancora prive di frequentatori e, probabilmente, domestiche e domestici erano ancora lì a scambiarsi le loro ciance e chiacchiere mentre i loro padroni si chiedevano perplessi dove diavolo potessero essere. Akàkij Akakièvic camminava in gaia disposizione di spirito e una volta si mise persino, chissà perché, a correre dietro a una dama che gli passò accanto in un lampo, muovendosi in tutto il corpo in modo singolare. Si arrestò però subito e si rimise a camminare come prima, piano piano, meravigliandosi di quella corsa a cui era stato spinto chissà da cosa. Ben presto davanti a lui si allungarono quelle viuzze deserte che già poco allegre di giorno, di notte sono ancora più remote e solitarie. I lampioni accesi erano rari, perché probabilmente qui si distribuiva meno clic; cominciarono le case di legno, le palizzate; non un'anima viva; solo la neve scintillava sulle strade, e basse stamberghe addormentate nereggiavano tristemente con le imposte chiuse. Si stava avvicinando al punto dove la via sfociava in una piazza sconfinata, simile a un pauroso deserto, con le case appena visibili all'altra estremità.

Lontano, Dio sa dove, baluginava il lumicino d'una garitta che pareva in capo al mondo. A questo punto la gaiezza di Akàkij Akakièvic diminuì notevolmente. S'inoltrò nella piazza non senza un certo involontario timore, proprio come se il suo cuore percepisse qualcosa di spiacevole. Si guardò indietro e ai lati:

intorno a lui c'era come un mare. "No, meglio non guardare," pensò e continuò a camminare a occhi chiusi; quando li riaprì per sapere se fosse vicina la fine della piazza, vide di colpo davanti a sé, quasi a un palmo dal suo naso, alcuni uomini coi baffi, come fossero quei baffi non poteva dirlo. Gli occhi gli si confusero e sentì una fitta al petto.

"Questo cappotto è mio!" disse uno di quelli con voce tonante, afferrandolo per il colletto.

Akàkij Akakièvic avrebbe voluto gridare "aiuto!", ma l'altro gli mostrò sotto la bocca un pugno grosso come la testa d'un funzionario dicendo:

"Prova un po' a gridare!" Akàkij Akakièvic si accorse soltanto che gli toglievano di dosso il cappotto e gli davano una spinta di dietro con il ginocchio; egli cadde bocconi nella neve e non capì più nulla. Dopo alcuni minuti ritornò in sé e si rialzò in piedi, ma ormai non c'era più nessuno. Sentì che lì faceva freddo e che il cappotto non c'era più, fece per gridare, ma ebbe l'impressione che la sua voce non potesse giungere fino all'altro capo della piazza. Disperato, seguitando a gridare, si mise a correre attraverso la piazza, dritto verso la garitta accanto alla quale stava una guardia appoggiata alla sua alabarda e che guardava con curiosità chiedendosi che razza di demonio stesse correndo verso di lui gridando in quel modo. Akàkij Akakièvic arrivò di corsa e con voce affannata cominciò a urlare che dormiva e non badava a nulla, non vedeva neppure che stavano rapinando una persona. La guardia rispose che non aveva visto nulla; aveva, sì, visto che l'avevano fermato in mezzo alla piazza due uomini, ma aveva pensato che fossero suoi amici; e che invece di imprecare inutilmente avrebbe fatto meglio ad andare l'indomani dal commissario e il commissario avrebbe fatto ricerche per trovare chi gli aveva preso il cappotto. Akàkij Akakièvic tornò a casa di corsa tutto sconvolto:

i capelli che aveva ancora abbastanza numerosi sulle tempie e sulla nuca erano scompigliati, aveva neve appiccicata ai fianchi, al petto e su tutti i pantaloni. La sua vecchia padrona di casa, sentendo il suo frenetico bussare alla porta, saltò frettolosamente giù dal letto e con una sola scarpa ai piedi corse ad aprire, per pudore tenendosi con una mano la camicia stretta al seno.

Quando aprì la porta, fece un passo indietro vedendo Akàkij Akakièvic in quello stato. Quando poi egli le raccontò cos'era successo, giunse le mani e disse che doveva andare direttamente dal commissario distrettuale, che quello del quartiere era un imbroglione, faceva promesse e poi menava per il naso, mentre la miglior cosa era andare direttamente dal commissario distrettuale, che lei tra l'altro conosceva, perché Anna, la finlandese che prima aveva servito da lei come cuoca, adesso era andata a fare la bambinaia da lui, che sovente lo vedeva di persona quando passava accanto alla loro casa e che del resto ogni domenica lui andava in chiesa, era pio, e nello stesso tempo guardava tutti con simpatia e che dunque, era chiaro che doveva essere una brava persona. Dopo aver ascoltato questi consigli, Akàkij Akakièvic si ritirò triste nella sua camera e come vi trascorresse la notte si lascia giudicare a chi può in qualche modo immaginarsi la sua situazione.

Il mattino presto si diresse dal commissario distrettuale, ma gli dissero che stava dormendo. Ci andò alle dieci e gli dissero ancora che stava dormendo. Ritornò alle undici e gli dissero che il commissario non era in casa. All'ora di pranzo gli scrivani in anticamera rifiutarono di lasciarlo passare e volevano sapere quale affare e quale bisogno l'avessero condotto lì e cosa fosse successo.

Akàkij Akakièvic per una volta in vita sua dovette mostrare del carattere e disse seccamente che doveva vedere il commissario distrettuale in persona, che non osassero non lasciarlo passare, che lui veniva dal ministero per una faccenda di stato, che si sarebbe lamentato di loro con chi di ragione, e allora avrebbero visto. Contro simili argomenti gli scrivani non osarono ribattere, e uno di loro andò a chiamare il commissario. Il commissario ascoltò in un certo modo molto strano il racconto della rapina del cappotto. Invece di rivolgere l'attenzione al punto principale della faccenda, si mise a interrogare Akàkij Akakièvic: perché era rincasato così tardi? non era andato per caso in qualche casa poco per bene? Sicché Akàkij Akakièvic si confuse completamente e se ne uscì senza nemmeno sapere se l'affare del cappotto avrebbe preso la giusta piega oppure no. Per tutto quel giorno non si fece vedere in ufficio (cosa unica nella sua vita). Il giorno dopo si presentò tutto pallido e con la sua vecchia "vestaglia", che ora appariva ancora più lacrimevole. Il racconto della rapina del cappotto - sebbene alcuni impiegati neppure in questo caso si lasciassero sfuggire l'occasione per ridere alle spalle di Akàkij Akakièvic - commosse molti. Su due piedi fu deciso di fare una colletta: ma si raccolse poco, una sciocchezza, perché gli impiegati avevano già speso parecchio sottoscrivendo per un ritratto del direttore e per l'acquisto di un certo libro, in seguito alla proposta del capo sezione, il quale era amico dell'autore, sicché la somma che venne fuori era proprio ridicola.

Ci fu una persona mossa da compassione, che volle aiutare Akàkij Akakièvic almeno con un buon consiglio, e gli disse di non andare dal commissario del quartiere, perché se anche costui, per guadagnarsi un elogio dei superiori, fosse in qualche modo riuscito a trovare il cappotto, il cappotto sarebbe però rimasto alla polizia se il proprietario non avesse presentato prove legali che esso gli apparteneva.

La miglior cosa era rivolgersi a un certo "personaggio importante", perché il "personaggio importante", scrivendo e mettendosi in contatto con chi di dovere, poteva far sì che la cosa procedesse con miglior esito. Akàkij Akakièvic decise di andare dal "personaggio importante". Quali precisamente fossero e in che cosa consistessero le mansioni del "personaggio importante" è tuttora ignoto. Bisogna sapere che quel "personaggio importante" era diventato tale solo da poco tempo, mentre fino allora era stato un personaggio senza importanza. Del resto, rispetto ad altre cariche ben più importanti, la sua non lo era poi molto, anche se nella cerchia più ristretta dei suoi colleghi era tenuto in grande considerazione. Comunque egli cercava di prevalere con vari mezzi, e precisamente: aveva stabilito che i funzionari di grado inferiore dovessero ossequiarlo già sulle scale allorché egli arrivava in ufficio; che nessuno ardisse presentarsi direttamente a lui, ma tutto procedesse secondo la gerarchia più rigorosa: il registratore di collegio riferisse al segretario provinciale, il segretario provinciale a quello titolare o a chi per lui, e soltanto per questo tramite la pratica arrivasse fino a lui. A tale punto nella santa Russia tutto è affetto dall'imitazione: tutti si beffano dei loro capi e poi li scimmiottano. Si dice persino che un certo consigliere titolare, diventato direttore di un piccolo ufficio distaccato, immediatamente si fece fabbricare con un tramezzo una stanzetta, che nominò "stanza delle udienze", e mise alla porta un usciere con il colletto rosso e i galloni che impugnava la maniglia della porta e l'apriva a tutti quelli che arrivavano, sebbene nella "stanza delle udienze" ci entrasse a malapena una normale scrivania. I modi e i costumi dell'"importante personaggio" erano austeri e maestosi, ma non molto complicati. "Severità, severità e... severità," diceva di solito, e dicendo questa parola era solito guardare severamente in faccia il suo interlocutore.

Comportamento, del resto, del tutto superfluo, in quanto i funzionari - una decina - che costituivano tutto il meccanismo burocratico dell'ufficio, erano sempre in preda al dovuto terrore.

Scorgendolo da lontano, essi lasciavano immediatamente le loro occupazioni e aspettavano in piedi sull'attenti che avesse attraversato la stanza. La sua conversazione abituale con gli inferiori era improntata a severità e consisteva quasi soltanto di tre frasi: "Come osate? Sapete con chi state parlando? Capite chi vi sta davanti?" In cuor suo, era anche un brav'uomo, cordiale con i colleghi, servizievole, ma quando aveva ricevuto il grado di generale, ne era rimasto sconvolto, aveva perduto l'orientamento e non sapeva più cosa fare. Quando si trovava con un suo pari, era ancora un uomo come si deve, un uomo perbene, sotto molti aspetti un uomo anche intelligente; ma appena capitava in una società di persone che fossero solo un grado inferiori a lui, mutava completamente; taceva, e la sua posizione era tanto più pensosa in quanto lui stesso sentiva che avrebbe potuto trascorrere molto meglio il proprio tempo. Negli occhi a volte si leggeva il desiderio di unirsi a questa o quella conversazione o inserirsi in una cerchia interessante, ma lo fermava il seguente pensiero: "Non sarà concedere troppo, da parte mia? non sarà troppo familiare?

non diminuirà la mia importanza?" Così, per colpa di tali ragionamenti se ne stava eternamente in silenzio o pronunciava di rado qualche monosillabo: in questo modo si era acquistata la fama di persona noiosissima.

Appunto a questo "importante personaggio" si presentò il nostro Akàkij Akakièvic e gli si presentò nel momento meno opportuno per se stesso, benché a proposito per l'importante personaggio.

Quest'ultimo si trovava nel proprio gabinetto e conversava d'ottimo umore con un suo vecchio conoscente e compagno d'infanzia giunto da poco, che da vari anni non vedeva. In quel momento annunciarono che era arrivato un certo Basmackìn.

"Chi è?" domandò egli con foga. "Un funzionario," gli risposero.

"Ah, può aspettare, adesso non è il momento," disse. Occorre dire che l'importante personaggio aveva perfettamente mentito: tempo ne aveva, perché lui e l'amico da un pezzo avevano esaurito gli argomenti, da un pezzo alternavano la conversazione con lunghi silenzi, dandosi solo ogni tanto dei colpetti sulle cosce e dicendo: "Così dunque Ivàn Abràmovic!" "Eh già, Stepàn Varlamòvic!" Nonostante tutto questo egli ordinò lo stesso di fare attendere il funzionario per far vedere all'amico, il quale da tempo non prestava più servizio e se ne stava a casa sua in campagna, quanto tempo i funzionari dovessero attendere nella sua anticamera. Finalmente, dopo aver chiacchierato, e ancor più taciuto a sazietà, e fumato un sigaro nelle comodissime poltrone con lo schienale ribaltabile, sembrò ricordarsi ad un tratto di qualcosa e disse al segretario che stava fermo sulla soglia con gli incartamenti per un rapporto:

"Ah, mi sembra che di là ci sia un funzionario; ditegli che può entrare." Dopo aver visto l'aria dimessa di Akàkij Akakièvic e la sua vecchia uniforme, gli si rivolse di scatto dicendo:

"Che cosa desiderate?" con una voce imperiosa e dura, che aveva appositamente provato nella sua stanza, solo davanti allo specchio, fin da una settimana prima d'aver ricevuto il suo attuale posto e grado di generale.

Akàkij Akakièvic era già in anticipo intimidito come si conveniva al caso; ora si turbò ancor di più e, come poté, per quanto glielo permise la scioltezza della lingua, spiegò, intercalando ancora più del solito la parola "ecco", che si trattava dunque d'un cappotto proprio nuovo e che ecco, era stato rapinato nel modo più disumano, e che si rivolgeva a lui affinché, mediante la sua intercessione, ecco, si mettesse in contatto scritto con il capo della polizia, o con qualcun altro, e ritrovassero il cappotto.

Chissà perché, l'atteggiamento di Basmackìn parve troppo familiare al generale.

"Ma voi, egregio signore," disse di nuovo in modo imperioso, "non conoscete la procedura? Dove si vuole andare a finire? Non sapete come si sbrigano le pratiche? Per una cosa simile prima avreste dovuto presentare domanda alla cancelleria; essa sarebbe passata al capufficio e al capo sezione, poi sarebbe stata trasmessa al segretario, e il segretario infine l'avrebbe portata a me... " "Ma, vostra eccellenza," disse Akàkij Akakièvic sforzandosi di raccogliere tutta la presenza di spirito che gli restava e sentendo nello stesso tempo che sudava in modo spaventoso, "io, vostra eccellenza, ho ardito disturbarvi, perché i segretari, ecco... sono gente di cui non ci si può fidare... " "Cosa, cosa, cosa?" disse l'importante personaggio, "chi vi ha dato tanto ardire? Chi vi ha messo in testa queste idee? Che specie di ribellione s'è diffusa tra i giovani contro i capi e i superiori!" A quanto pare l'importante personaggio non aveva notato che Akàkij Akakièvic aveva già oltrepassato la cinquantina. Lo si poteva chiamare giovane, forse soltanto in confronto a chi aveva settant'anni.

"Ma sapete con chi state parlando? Capite chi vi sta davanti? Lo capite questo, lo capite? E' a voi che lo domando." A questo punto egli batté il piede, portando la voce ad una nota così alta che si sarebbe spaventato non soltanto Akàkij Akakièvic.

Quanto a lui, Akàkij Akakièvic rimase tramortito, barcollò, cominciò a tremare in tutto il corpo e non ebbe più la forza di reggersi in piedi: se gli uscieri non fossero accorsi a sorreggerlo, sarebbe stramazzato sul pavimento; lo portarono fuori che era quasi esanime. L'importante personaggio, intanto, contento che l'effetto avesse persino superato le sue aspettative e completamente tranquillizzato dal pensiero che le sue parole potessero persino far perdere i sensi ad una persona, sbirciò di traverso l'amico per sapere come considerasse la cosa e, non senza soddisfazione, vide che il suo amico si trovava in uno stato d'animo alquanto incerto e cominciava anche lui, da parte sua, a provare paura.

Akàkij Akakièvic non riuscì mai più a ricordare come fosse sceso dalle scale e fosse uscito in strada. Non si sentiva più né braccia né gambe. Mai in vita sua era stato così orribilmente strapazzato da un generale, per di più estraneo. Camminava a bocca aperta in mezzo alla tormenta che sibilava nelle strade, scivolando giù dal marciapiede; il vento, come di consueto a Pietroburgo, lo assaliva da tutte e quattro le direzioni, da tutti i vicoli. Improvvisamente sentì male alla gola e si trascinò a casa che non era neanche più in grado di dire una parola. Tutto gonfio, si mise a letto.

Il giorno dopo aveva una forte febbre. Grazie alla generosa collaborazione del clima pietroburghese la malattia procedette più rapida di quanto ci si potesse attendere, e quando comparve il dottore, tastato il polso, non trovò altro da fare che prescrivere un impacco, ma solo perché il malato non restasse privo del benefico aiuto della medicina; del resto, dichiarò subito, entro un giorno e mezzo sarebbe inesorabilmente morto. Dopo di che si rivolse alla padrona di casa e disse: "E voi, nonnina, non perdete inutilmente il tempo, ordinategli subito una bella bara d'abete; una di quercia sarebbe troppo cara." Se Akàkij Akakièvic udì queste parole per lui fatali e se, avendole udite, ne fu sconvolto, se insomma rimpianse la sua vita derelitta, di questo nulla si sa, perché rimase per tutto quel tempo in preda al delirio e alla febbre.

Aveva visioni, una più strana dell'altra: ora vedeva Petròvic e gli ordinava di fargli un cappotto con delle trappole contro i ladri che credeva di avere sotto il letto, tanto che ogni momento chiamava la padrona perché tirasse fuori un ladro persino di sotto la coperta; ora domandava perché davanti a lui stesse appesa la sua vecchia "vestaglia", dato che lui aveva ormai un cappotto nuovo. In altri momenti, gli sembrava di stare in piedi davanti al generale ascoltando la strapazzata che si meritava, dicendo ogni tanto: "Sono colpevole, vostra eccellenza". A volte bestemmiava persino, mormorando le parole più terribili, tanto che la vecchia padrona di casa che da quando era nata non aveva mai udito nulla di simile, si faceva il segno della croce, anche perché queste parole venivano subito dopo l'espressione "vostra eccellenza".

Disse cose assolutamente insensate, incomprensibili: si capiva solo che quelle parole e quei pensieri sconclusionati ruotavano sempre intorno al cappotto. Infine il povero Akàkij Akakièvic spirò.

Né la stanza, né le sue cose vennero poste sotto sigillo, perché in primo luogo non c'erano eredi, e in secondo luogo da ereditare c'era ben poco, e precisamente: un mazzo di penne d'oca, una risma di carta bianca protocollo, tre paia di calzini, due o tre bottoni staccatisi dai pantaloni, e la "vestaglia" che il lettore conosce.

Dio soltanto sa a chi sia andato tutto questo; confesso che della cosa non s'è interessato neppure chi ha scritto questo racconto.

Portarono via Akàkij Akakièvic e lo seppellirono. Per Pietroburgo Akàkij Akakièvic, era come non fosse mai esistito. Scomparve e si dileguò un essere che nessuno aveva mai difeso, che a nessuno era stato caro, per nessuno interessante, che non aveva attirato su di sé nemmeno l'attenzione del naturalista, il quale pure non disdegna d'infilare su uno spillo una comunissima mosca e di osservarla al microscopio. Un essere che aveva sopportato docilmente tutte le derisioni del suo ufficio ed era sceso nella tomba senza avere compiuto alcuna straordinaria impresa; però, verso la fine della vita, a questo essere era apparso un ospite luminoso sotto forma d'un cappotto, un cappotto che per un istante aveva ravvivato la sua povera esistenza, ma sul quale poi s'era abbattuta implacabile la sciagura, così come si abbatte sugli imperatori e i sovrani del mondo...

Alcuni giorni dopo la sua morte, il ministero gli mandò a casa un usciere con l'ordine di presentarsi immediatamente: il direttore lo voleva. L'usciere dovette tornarsene a mani vuote e riferire che Akàkij Akakièvic non si sarebbe più presentato; e alla domanda "perché?" rispose con queste parole: "Ma è già morto, sono tre giorni che gli hanno fatto i funerali." Così al ministero vennero a sapere della morte di Akàkij Akakièic; il giorno dopo al suo posto sedeva già un altro impiegato, assai più alto di statura e che non allineava le lettere con una scrittura così regolare, ma molto più inclinate e storte.

Ma chi avrebbe potuto immaginare che questo non è ancora tutto a proposito di Akàkij Akakièvic, che egli era destinato a vivere ancora alcuni giorni dopo la sua morte e con gran rumore, come a ricompensa della sua vita da tutti trascurata? Eppure accadde così, e la nostra povera storia si conclude inaspettatamente in modo fantastico. Per Pietroburgo si diffusero ad un tratto delle voci, che al ponte Kalinkìn e anche molto più lontano, aveva cominciato ad apparire un morto dall'aspetto d'un impiegato che cercava un cappotto rubato e, con il pretesto del cappotto rubato, strappava da tutte le spalle, senza badare a grado o titolo, ogni sorta di soprabiti: con collo di gatto, di castoro, imbottiti, pellicce di procione, di volpe, d'orso; insomma, pelli e peli d'ogni genere che gli uomini hanno inventato per coprirsi. Uno dei funzionari del ministero vide il morto con i suoi occhi e vi riconobbe immediatamente Akàkij Akakièvic; ciò gli procurò un tale terrore che si mise a correre a gambe levate e perciò non poté distinguerlo bene, vide soltanto che da lontano il morto lo minacciava con un dito. Da tutte le parti cominciarono ad arrivare lamentele, che le schiene e le spalle, non soltanto dei consiglieri titolari, ma persino dei consiglieri segreti, erano minacciate di terribili infreddature a causa di quella notturna asportazione di soprabiti. Alla polizia venne data disposizione di catturare il morto a qualunque costo, e di punirlo nella maniera più feroce perché servisse da esempio agli altri; e si deve dire che quasi vi riuscì. Proprio così. La guardia di non so quale quartiere riuscì, nel vicolo Kirjùskin, ad agguantare il morto per il bavero, proprio sul fatto, mentre tentava di strappare un cappotto di frisia a un certo musicista a riposo che a suo tempo suonava il flauto. Afferratolo per il bavero, chiamò gridando due o tre colleghi ai quali l'affidò affinché lo tenessero, mentre lui, solo per un istante, infilò la mano nello stivale per tirarne fuori la tabacchiera e ristorarsi il naso che gli si era già congelato sei volte nelle sua vita; di certo il tabacco era d'una qualità che nemmeno un morto poteva sopportare. Chiusa con il dito la narice destra, la guardia non fece in tempo ad aspirare una mezza presa con la sinistra, che il morto starnutì così forte da spruzzare completamente gli occhi a tutti e tre. Mentre loro alzavano le mani per asciugarsi, il morto si dileguò e di lui scomparve ogni traccia. Nessuno dei tre avrebbe saputo dire con precisione se l'avesse avuto veramente tra le mani. Da quel giorno le guardie si presero una tale paura dei morti che temevano persino d'agguantare i vivi e si limitavano a gridare da lontano:

"Ehi, tu, va per la tua strada!".

Il morto-funzionario cominciò a farsi vedere anche oltre il ponte Kalinkìn, incutendo non poco timore in tutta la gente pavida. Ma noi abbiamo completamente abbandonato quel "personaggio importante", che in realtà era forse stato la causa della piega fantastica assunta da questa storia peraltro assolutamente veridica. Prima di tutto un dovere di giustizia esige che si dica che quel "personaggio importante", subito dopo che il povero e strapazzato Akàkij Akakièvic se ne era andato, aveva provato qualcosa di simile alla compassione. La compassione non gli era estranea; il suo cuore era accessibile a molti buoni impulsi sebbene il grado troppo spesso impedisse loro di manifestarsi. Non appena fu uscito dal suo gabinetto l'amico di passaggio, egli si mise a pensare al povero Akàkij Akakièvic. E da quel momento quasi ogni giorno cominciò ad apparirgli il povero Akàkij Akakièvic che non aveva saputo resistere alla strapazzata del superiore. Questo pensiero l'agitava a tal punto che una settimana dopo addirittura decise di mandare un impiegato per sapere come stesse e che cosa facesse e se non lo si potesse aiutare in qualche modo. Quando gli riferirono che Akàkij Akakièvic era morto prematuramente di febbre, sentì i morsi della coscienza e per tutta la giornata non fu più lui. Desiderando distrarsi e dimenticare la spiacevole impressione, si recò a una serata a casa di un suo amico, dove trovò una compagnia assai distinta e, cosa molto importante, di gente quasi tutta dello stesso grado, sicché egli non ebbe bisogno di sentirsi legato e questo ebbe un effetto sorprendente sul suo umore. Si sciolse, si fece gradevole nella conversazione, cortese, insomma trascorse la serata molto piacevolmente. A cena bevve un paio di bicchieri di champagne, che, com'è noto, è ottimo per stimolare la gaiezza. Lo champagne lo spinse a prendere decisioni straordinarie, e cioè non andare a casa, ma passare da una certa signora di sua conoscenza, Karolìna Ivànovna, una signora, sembra, d'origine tedesca, per la quale egli nutriva sentimenti più che amichevoli. Occorre dire che l'importante personaggio era un uomo non più giovane, un buon marito, un rispettabile padre di famiglia. Aveva due figli, uno dei quali già prestava servizio in un ufficio statale, e una graziosa fanciulla di sedici anni col nasino all'insù; essi venivano ogni giorno a baciargli la mano dicendo: "Bonjour papà." La sua consorte, una donna ancora fresca e assai graziosa, prima gli dava da baciare la propria mano e poi, rigirandola, gli baciava la sua.

L'importante personaggio, sebbene pienamente soddisfatto delle familiari tenerezze, aveva ritenuto chic intrecciare una relazione amichevole con una conoscente che abitava in un'altra parte della città. Quest'amica non era né più bella, né più giovane di sua moglie; ma di queste incongruenze è pieno il mondo, e non è affare nostro giudicarne. Così l'importante personaggio scese le scale, montò su una slitta e disse al cocchiere: "Da Karolìna Ivànovna", mentre da parte sua, avvolto assai confortevolmente in un caldo cappotto, restava in quella piacevole disposizione d'animo, migliore della quale, per un russo, non si può immaginare, e cioè quando non si pensa più nulla e i pensieri ti frullano da soli in testa, uno più gradevole dell'altro, senza neppure la fatica d'inseguirli e di cercarli.

D'ottimo umore, andava ricordando i momenti simpatici della serata appena trascorsa e tutte le parole che avevano fatto ridere la piccola cerchia. Si ripeteva persino molte di esse a bassa voce e trovava che erano ancora buffe come prima, e perciò non c'era niente di strano che ne ridesse ancora di cuore. Di tanto in tanto, tuttavia, gli dava noia il vento impetuoso che, levandosi improvvisamente da chissà dove e chissà per quale motivo, gli tagliava la faccia, gettandogli addosso folate di neve, gonfiando come una vela il bavero del cappotto, o rovesciandoglielo di colpo, con forza innaturale, sulla testa, costringendolo così a fare continui sforzi per rimetterlo a posto. Ad un tratto l'importante personaggio si sentì afferrare vigorosamente per il bavero. Voltandosi, vide un uomo di piccola statura con una vecchia uniforme consunta e, non senza terrore, riconobbe in lui Akàkij Akakièvic. La faccia dell'impiegato era bianca come la neve e sembrava proprio la faccia d'un morto. Ma il terrore dell'importante personaggio superò ogni limite quando vide che la bocca del morto si storceva e, alitandogli addosso un orribile lezzo di tomba, pronunciava queste parole:

"Ah! Sei tu finalmente! Finalmente, ecco, t'ho raggiunto! E' il tuo cappotto che mi serve! Non ti preoccupasti del mio, anzi mi maltrattasti, e adesso dammi il tuo!" Il povero "personaggio importante" per poco non morì. Sebbene in ufficio e in genere di fronte agli inferiori fosse un uomo di carattere, e di certo chiunque, vedendo il suo volto e la sua figura virile avrebbe detto: "Ah, che uomo!" qui, come accade a molti che hanno un aspetto da eroi, sentì un tale terrore che non senza ragione cominciò a temere che gli pigliasse un colpo. Si tolse frettolosamente il cappotto dalle spalle e gridò al cocchiere con voce che non era più la sua:

"Di corsa a casa!" Il cocchiere, udito quel grido, ch'era di quelli che si emettono nei momenti decisivi e s'accompagnano anche con qualcosa di più convincente, ritirò per ogni evenienza la testa nelle spalle, agitò la frusta e partì come una freccia.

Pallido, spaventato, il nostro personaggio, anziché da Karolìna Ivànovna, arrivò a casa sua, si trascinò come poté fino alla sua stanza e passò la notte in modo assai agitato, tanto che il giorno dopo, al tè del mattino, la figlia gli disse con franchezza:

"Oggi sei molto pallido, papà." Ma il papà tacque e non fece parola ad alcuno di ciò che gli era accaduto e dove era andato e dove aveva avuto intenzione di andare. L'avvenimento produsse in lui una forte impressione.

Cominciò persino a dire più di rado ai sottoposti: "Come osate, capite chi avete davanti?" E se anche diceva qualcosa del genere, non lo faceva mai prima d'aver ascoltato la richiesta.

Ancora più sintomatico è il fatto che da quel giorno cessarono le apparizioni del morto: evidentemente il cappotto generalizio gli era andato a pennello; perlomeno non si sentì più parlare di cappotti strappati. Molte persone zelanti non vollero però tranquillizzarsi e seguitarono a dire che nelle parti più remote della città l'impiegato morto si faceva vedere ancora. E in verità, una guardia di Kolòmna vide con i propri occhi il fantasma apparire da dietro una casa, ma essendo di natura pacifica, tanto che una volta un comune porcellino che scappava di corsa da una casa privata l'aveva mandato a gambe all'aria fra le risa di alcuni vetturini che stavano lì intorno e dai quali egli aveva poi preteso un soldo di tabacco per la presa in giro, essendo dunque un tipo pacifico non osò fermarlo, ma lo seguì nell'oscurità finché il fantasma si voltò e disse fermandosi:

"Tu che cerchi?" E gli mostrò un pugno come non se ne trovano tra i vivi.

La guardia rispose:

"Niente"; e tornò subito indietro.

Va notato che quel fantasma era di statura molto alta, con grandi baffi e, dirigendosi, pare, verso il ponte Obuchòv, si dileguò nel buio della notte.

 

 

 

Il naso

 

Il 25 marzo a Pietroburgo accadde un avvenimento molto strano.

Ivàn Jakovlèvic, di professione barbiere, abitante sulla Prospettiva Voznesènskij (il suo cognome è andato perduto e nient'altro risulta dalla sua insegna, dov'è raffigurato un signore con una guancia insaponata e c'è la scritta: "Si cava anche sangue") si svegliò abbastanza presto e sentì odore di panini caldi. Sollevandosi un poco sul letto, vide che sua moglie, signora abbastanza rispettabile cui piaceva molto bere caffè, sfornava dei panini appena cotti.

"Praskòvija Osìpovna, oggi non prendo il caffè," disse Ivàn Jakovlèvic, "vorrei invece mangiare del pane caldo con cipolla." Veramente, Ivàn Jakovlèvic avrebbe voluto l'uno e l'altro, ma sapeva che era assolutamente impossibile esigere due cose alla volta, perché a Praskòvija Osìpovna non piacevano per nulla simili capricci.

"Che questo scemo mangi pure il pane, per me è meglio," pensò fra sé la consorte, "così resterà una porzione in più di caffè." E gettò un panino sul tavolo.

Per decenza Ivàn Jakovlèvic si mise il frac sopra la camicia e, sedutosi a tavola, prese del sale, preparò due teste di cipolla, impugnò il coltello e, assunta un'aria ispirata, si accinse a tagliare il pane. Tagliato il pane a metà, gettò un'occhiata nel mezzo e, con suo stupore, vide qualcosa che biancheggiava. Ivàn Jakovlèvic la sfiorò cautamente con il coltello e la tastò con un dito:

"Solido?" pensò, "cosa può essere?" Ficcò dentro le dita e tirò fuori un naso.

Il barbiere si sentì cascare le braccia. Si stropicciò gli occhi e poi tastò di nuovo: un naso, proprio un naso! Per giunta, a quel che sembrava, anche in un certo senso conosciuto. Lo spavento si dipinse sulla sua faccia. Ma questo spavento era niente in confronto all'indignazione che si impadronì della moglie.

"Quando hai tagliato questo naso, specie di belva?" si mise a gridare con ira. "Mascalzone! Ubriacone! Andrò io stessa a denunciarti alla polizia. Specie di brigante! Già da tre persone l'avevo sentito dire che, quando fai la barba, maltratti a tal punto i nasi che non si capisce come ancora si reggano." Ivàn Jakovlèvic era più morto che vivo. S'era accorto che quel naso era dell'assessore di collegio Kovalèv, al quale faceva la barba ogni mercoledì e ogni domenica.

"Fermati Praskòvija Osìpovna! L'avvolgerò in un cencio e lo metterò in un angolo; ora stia là, poi lo porterò via." "Non voglio neanche sentirne parlare! Vuoi che permetta ad un naso mozzato di restare con me nella stanza? Biscotto rinsecchito! Non sai fare altro che passare il rasoio sulla cinghia e presto non sarai più nemmeno in grado di fare il tuo dovere. Fannullone, farabutto! Vuoi che risponda alla polizia per te? Pasticcione, travicello sciocco! Fuori di qui! Fuori! Portalo dove ti pare! Che non ne senta nemmeno l'odore!" L'uomo era come morto. Pensava, pensava e non sapeva cosa pensare.

"Lo sa il diavolo com'è successo," disse infine, grattandosi dietro l'orecchio. "Ieri sono tornato ubriaco o no? Non lo posso dire di certo. Di tutti i segni questo è un avvenimento inaudito, perché il pane è una cosa cotta al forno, mentre il naso no. Non ci capisco niente!" Ivàn Jakovlèvic ammutolì. Il pensiero che i poliziotti trovassero in casa sua il naso e lo accusassero, lo fece piombare in un totale smarrimento. Già s'immaginava il colletto rosso ricamato d'argento, la spada... e tremava in tutto il corpo. Finalmente tirò fuori gli abiti e gli stivali, indossò tutta quella robaccia e, accompagnato dalle pesanti esortazioni di Praskòvija Osìpovna, avvolse il naso in un cencio e uscì in strada.

Voleva ficcarlo in un posto qualsiasi: dietro un paracarro, sotto un portone, oppure perderlo casualmente e poi svoltare subito in un vicolo. Per disgrazia, gli capitò d'incontrare dei conoscenti che subito cominciarono con le domande: "Dove vai?" oppure, "A chi vai a far la barba così presto?" cosicché Ivàn Jakovlèvic non riusciva a cogliere il momento propizio. Una volta l'aveva lasciato cadere, quando una guardia, da lontano, l'indicò con l'alabarda: "Raccatta! Non vedi che hai lasciato cadere qualcosa?" Ivàn Jakovlèvic aveva dovuto raccogliere il naso e nasconderselo in tasca. Così s'era lasciato prendere dalla disperazione, tanto più che la gente in strada aumentava di continuo il via vai e cominciavano ad aprirsi i negozi e le botteghe. Decise di andare al ponte Isakièvskij: non sarebbe riuscito a scaraventarlo in qualche modo nella Neva?

Però non ho ancora detto nulla di Ivàn Jakovlèvic, persona rispettabile sotto molti aspetti.

Come ogni artigiano russo perbene, il barbiere Ivàn Jakovlèvic era un terribile ubriacone. E, sebbene ogni giorno radesse i menti altrui, il suo era eternamente non raso. Il frac di Ivàn Jakovlèvic (non andava mai in giro con il soprabito) era pezzato, ossia era nero ma tutto pieno di macchie bruno-giallastre e grigie; il colletto era liso, e al posto dei tre bottoni penzolavano solamente dei fili. Era un grande sfrontato e quando l'assessore di collegio Kovalèv gli diceva, come al solito, durante la rasatura: "A te, Ivàn Jakovlèvic, puzzano sempre le mani!" Ivàn Jakovlèvic rispondeva immediatamente con la domanda:

"E perché dovrebbero puzzare?" "Non lo so, amico, so solo che puzzano," diceva l'assessore di collegio, e Ivàn Jakovlèvic, fiutata una presa di tabacco, per ripicca lo insaponava sulle guance, sotto il naso, dietro le orecchie, sotto la barba, insomma, dovunque gli venisse voglia di farlo.

Il nostro rispettabile cittadino si trova dunque già sul ponte Isakièvskij. Si guardò intorno; si chinò sul parapetto come ad osservare se per caso non si vedessero i pesci, poi, con cautela, scagliò il cencio contenente il naso. Provò di colpo una sensazione di leggerezza. Sogghignò. Invece di andarsene a radere i menti dei funzionari si avviò verso un locale con l'insegna "Cibi e tè" a chiedere un bicchiere di punch, quando a un tratto notò all'estremità del ponte una guardia rionale di nobile aspetto, con larghi basettoni, tricorno e la spada. Si sentì mancare, mentre la guardia gli faceva cenno con il dito e diceva:

"Vieni un po' qui, mio caro!" Poiché rispettava le forme, Ivàn Jakovlèvic si tolse il berretto e, avvicinatosi rapidamente, disse:

"Auguro buona salute alla signoria vostra!" "No, no, amico bello, niente signoria: dimmi, cosa facevi sul ponte?" "Perdio, signore, andavo a fare la barba e guardavo soltanto come scorreva il fiume." "Storie! storie! Non te la caverai! Fa il piacere di rispondere." "Io sono pronto a fare la barba a vostra signoria due volte alla settimana o anche tre senza alcuna obbiezione," rispose Ivàn Jakovlèvic.

"No, amico, queste sono sciocchezze! Già tre barbieri mi fanno la barba e lo considerano anche un grande onore. Su, fammi un po' il piacere di raccontare che cosa facevi là!" Ivàn Jakovlèvic impallidì... Qui il racconto si perde, avvolto come da una nebbia, e di quanto sia successo in seguito non si sa assolutamente nulla.

L'assessore di collegio Kovalèv si svegliò abbastanza presto e con le labbra fece "Brrr...", cosa che faceva ogni volta che si destava, sebbene nemmeno lui sapesse spiegare il perché. Si stirò, ordinò che gli dessero un piccolo specchio che stava sul tavolo.

Voleva guardare un foruncoletto che la sera prima gli era spuntato sul naso; ma, con suo sommo stupore, vide che al posto del naso aveva uno spazio perfettamente liscio! Spaventatosi, Kovalèv ordinò dell'acqua e si fregò gli occhi con l'asciugamano: proprio così, niente naso! Cominciò a tastare con la mano per vedere se non stesse ancora dormendo. No, a quanto pareva, non dormiva.

L'assessore di collegio Kovalèv saltò giù dal letto con uno scrollone: niente naso! Ordinò subito i vestiti e volò direttamente dal capo della polizia.

Nel frattempo è indispensabile dire qualcosa di Kovalèv affinché il lettore possa vedere che tipo fosse l'assessore di collegio.

Gli assessori di collegio che ricevono questo titolo grazie ad attestati di studio non si possono in alcun modo paragonare a quegli assessori di collegio che un tempo provenivano dal Caucaso.

Sono due generi completamente diversi. La Russia è una terra curiosa, che se parli d'un certo assessore di collegio, tutti gli assessori di collegio, da Riga alla Kamcatka, immancabilmente pensano si parli di loro. E lo stesso vale per tutti i titoli e gradi. Kovalèv era un assessore di collegio del Caucaso. Soltanto da due anni aveva questo titolo e perciò non se lo dimenticava mai, ma, per darsi più nobiltà e più peso, non si definiva assessore di collegio, bensì maggiore.

"Colombella," diceva solitamente incontrando per strada una donnetta che vendeva sparati per camicie, "vieni a casa mia; il mio appartamento è sulla Sadòvaja. Domanda: abita qui il maggiore Kovalèv? Chiunque te lo saprà indicare." Se la donna era anche graziosa, oltre a questo le dava un ordine segreto, aggiungendo:

"Devi chiedere, animuccia, dell'appartamento del maggiore Kovalèv." Anche noi, quindi, d'ora in avanti chiameremo maggiore quest'assessore di collegio.

Il maggiore Kovalèv aveva l'abitudine di andare ogni giorno a passeggio sulla Prospettiva Nevskij. Il colletto della sua camicia era sempre straordinariamente pulito e inamidato. I basettoni di quel tipo che ancor oggi si può vedere fra gli agrimensori provinciali e distrettuali, gli architetti e i medici di reggimento, nonché fra coloro che svolgono varie mansioni di polizia e, in genere, fra tutti quegli uomini che hanno guance piene e rubizze e giocano molto bene a "boston": sono basettoni che attraversano una buona metà della guancia e arrivano fin sotto il naso. Il maggiore Kovalèv portava una quantità di ciondoli di corniola, sia con stemmi, sia con parole incise come: mercoledì, giovedì, lunedì e così via.

Era venuto a Pietroburgo con uno scopo, e precisamente quello di cercare un posto conveniente al suo grado: se possibile, di vice governatore; altrimenti di cancelliere in qualche ministero importante. Il maggiore non era neppure alieno dall'ammogliarsi, ma solamente nel caso che la sposa avesse almeno duecentomila rubli di dote. Adesso, dunque, il lettore può giudicare da sé quale fosse lo stato d'animo del nostro maggiore quando vide uno stupidissimo spazio, piatto e liscio, al posto d'un degno e ben proporzionato naso.

Come per disdetta, per la strada non si vedeva un solo vetturino ed egli dovette andare a piedi. Si avvolse nel suo mantello e nascose con un fazzoletto la faccia così da far credere che stava perdendo sangue dal naso.

"Forse è soltanto una mia impressione: non può essere che il naso sia sparito così stupidamente," pensò ed entrò in una pasticceria apposta per guardarsi in uno specchio. Per fortuna, nella pasticceria non c'era nessuno: dei garzoni scopavano le sale e sistemavano le sedie; alcuni, con gli occhi assonnati, disponevano nei vassoi dei pasticcini caldi; e sulle sedie c'erano ancora i giornali del giorno prima, sporchi di caffè.

"Grazie a Dio, non c'è nessuno," si disse Kovalèv, "adesso posso darmi un'occhiata." Si avvicinò timidamente ad uno specchio.

"Al diavolo, che razza di porcheria!" esclamò e sputò in terra.

"Ci fosse almeno qualcosa al posto del naso, macché! niente!" Si morse le labbra con disappunto, uscì dalla pasticceria e, contrariamente alle sue abitudini, decise di non guardare nessuno e di non sorridere a nessuno. Improvvisamente si fermò come inchiodato davanti al portone di una casa; sotto i suoi occhi si verificava un fenomeno inspiegabile. Davanti all'ingresso si era fermata una carrozza: gli sportelli si aprirono; piegandosi, ne balzò fuori un uomo in uniforme che corse su per la scala. Quale non furono lo spavento e nello stesso tempo lo stupore di Kovalèv quando in lui riconobbe il proprio naso! Davanti a questo spettacolo insolito, la sua vista si annebbiò; sentiva che poteva appena reggersi in piedi, ma decise di aspettare a qualunque costo il ritorno del naso nella carrozza, sebbene tremasse tutto come in preda al delirio. Due minuti dopo, effettivamente, il naso uscì.

Indossava un'uniforme ricamata in oro, con un grande colletto rigido; aveva pantaloni scamosciati e la spada al fianco. Dal cappello con le piume si poteva dedurre che si considerava in possesso del grado di consigliere di stato. Guardò da entrambe le parti, gridò al cocchiere "andiamo!" salì in carrozza e partì.

Il povero Kovalèv per poco non uscì di senno. Non sapeva nemmeno che cosa pensare di un fatto così strano. Com'era possibile, in realtà, che il naso che fino al giorno prima era sulla sua faccia, che non poteva né camminare né andare in carrozza, adesso fosse persino in uniforme? Si mise a correre dietro alla carrozza, che per fortuna non andò lontano e si fermò davanti alla cattedrale di Kazàn.

Il maggiore si affrettò verso la soglia della cattedrale, si fece strada in mezzo ad una fila di vecchie mendicanti le cui facce bendate, che lasciavano visibili soltanto le cavità degli occhi, lo facevano solitamente ridere, ed entrò in chiesa. Dentro la chiesa la gente in preghiera non era molta e quasi tutti stavano in piedi vicino all'ingresso. Kovalèv si sentiva in uno stato d'animo così sconvolto che non aveva assolutamente la forza di pregare e cercava con gli occhi quel signore in tutti gli angoli.

Finalmente lo scorse che se ne stava in disparte. Il naso nascondeva completamente la propria faccia nel grande colletto rigido e pregava con un'espressione molto devota.

"Come posso avvicinarmi?" pensò Kovalèv. "Da tutto: dall'uniforme, dal cappello, si vede che è un consigliere di stato. Lo sa il diavolo come posso fare!" Cominciò a tossicchiare vicino a lui, ma il naso non abbandonò nemmeno per un momento il suo atteggiamento devoto ed iniziò a fare profonde genuflessioni.

"Egregio signore..." disse Kovalèv, obbligandosi nel suo intimo a farsi coraggio, "egregio signore..." "Che cosa volete?" rispose il naso, voltandosi.

"Mi sembra strano, egregio signore... ho l'impressione... voi dovreste sapere qual è il vostro posto. E, tutt'a un tratto, vi trovo e dove? in una chiesa! Convenite che..." "Scusatemi, ma non riesco a capire di che cosa intendete parlare... Spiegatevi." "Come posso spiegargli?" pensò Kovalèv ma, fattosi animo, cominciò:

"Certo, io... del resto sono maggiore. Andare in giro senza naso, sarete d'accordo, è cosa sconveniente. Una fruttivendola qualsiasi, che vende arance sbucciate sul ponte Voskresènskij, può anche stare senza naso; ma io, avendo in vista di ottenere un posto di governatore... essendo inoltre in molte case amico di signore come la Cectàreva, consiglieressa di stato, e altre...

Giudicate voi stesso... io non so, egregio signore...".

Nel dire questo Kovalèv si strinse nelle spalle:

"...Scusate... se si considera questo secondo le regole del dovere e dell'onore... voi stesso capirete..." "Non capisco proprio nulla," rispose il naso. "Spiegatevi in maniera più chiara." "Egregio signore..." disse il maggiore Kovalèv con tutto il sentimento della propria dignità, "non so come intendere le vostre parole... Qui tutta la faccenda, a quel che sembra, è perfettamente evidente... Oppure voi volete... Ma se voi siete il mio naso!" Il naso guardò il maggiore e i suoi sopraccigli si aggrottarono alquanto.

"Vi sbagliate, egregio signore. Io sono per mio conto. Inoltre fra noi non può esservi nessuna stretta relazione. A giudicare dai bottoni della vostra uniforme, voi dovete prestare servizio in un'altra amministrazione." Ciò detto, il naso si voltò e continuò a pregare.

Non sapendo che fare e che altro pensare, Kovalèv si confuse del tutto. In quel momento udì il gradevole fruscio d'un abito femminile: si avvicinò una signora anziana, tutta adorna di trine, e con lei un'altra signora esile, con un abito bianco drappeggiato molto graziosamente sulla sua vita snella, e un cappellino di paglia leggero come un pasticcino. Dietro di loro si fermò e aprì la propria tabacchiera un alto aiduco con grandi basette e un'intera dozzina di collettoni.

Kovalèv si avvicinò, si accomodò il collo di batista della camicia, aggiustò i suoi ciondoli appesi a una catenella d'oro e, sorridendo di qua e di là, rivolse l'attenzione sulla signora esile che si piegava leggermente, come un fiorellino di primavera, e portava alla fronte la sua bianca manina dalle diafane dita. Sul viso di Kovalèv il sorriso si fece ancor più largo quando sotto il cappellino scorse il mento rotondetto, di spiccato candore, e una parte della gota soffusa della tinta della prima rosa primaverile.

Improvvisamente, egli fece un salto indietro come se si fosse scottato. S'era ricordato che al posto del naso non aveva assolutamente nulla e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Si voltò per dire seccamente al signore in uniforme che si spacciava per un consigliere di stato, che era un imbroglione e un mascalzone e nient'altro se non il suo naso... Ma il naso non c'era più: era riuscito a svignarsela, presumibilmente di nuovo in visita da qualcuno.

Kovalèv era disperato. Tornò indietro e si fermò per un istante sotto i portici, guardando accuratamente da tutte le parti se gli riusciva di scorgere il naso. Ricordava molto bene che aveva il piumaggio e l'uniforme con il ricamo d'oro, ma il cappotto non l'aveva osservato, né il colore della sua carrozza, né i cavalli, e nemmeno se avesse dietro qualche servitore e con quale livrea.

Di carrozze poi, ne passava avanti e indietro una tale quantità e a tale velocità, che era difficile distinguerle; inoltre, anche se l'avesse riconosciuta non avrebbe avuto alcun mezzo per fermarla.

La giornata era splendida e assolata. Sulla Prospettiva Nevskij c'era moltissima gente; dal ponte della Polizia all'Anìckin, una vera cascata floreale di signore si sparpagliava su tutto il marciapiede. Ecco là un consigliere di corte di sua conoscenza, che lui chiamava colonnello, specialmente se ciò accadeva davanti ad estranei. Ecco Jaryzkìn, capufficio al senato, grande amico, che a "boston" eternamente perdeva quando giocava con l'otto. Un maggiore che aveva avuto un assessorato nel Caucaso, gli fece cenno con la mano di andare da lui...

"Che il diavolo se lo prenda!" disse Kovalèv. "Ehi, vetturino!

Portami di filato dal capo della polizia!" Salì in vettura e non fece altro che gridare:

"Forza! Forza!" "E' in casa il capo della polizia?" gridò entrando nel vestibolo.

"Nossignore," rispose il portiere, "è uscito proprio adesso." "Ci mancava anche questa!" "Sì," aggiunse il portiere, "non è molto, ma è uscito. Se foste arrivato un istante prima, forse l'avreste trovato in casa." Senza mai togliersi il fazzoletto dalla faccia, Kovalèv salì in vettura e si mise a gridare con voce disperata:

"Vai!" "Dove?" domandò il vetturino.

"Va' dritto!" "Come dritto? Qui c'è una svolta: a destra o a sinistra?" La domanda bloccò Kovalèv e lo costrinse nuovamente a pensare.

Nella sua situazione occorreva rivolgersi innanzi tutto all'Ufficio del buoncostume, non perché avesse relazione con la polizia, ma perché le sue disposizioni potevano essere notevolmente più rapide che non quelle di altri uffici. Cercare infatti soddisfazione dai capi dell'amministrazione presso cui il suo naso si era dichiarato impiegato, sarebbe stato irragionevole, giacché dalle stesse risposte del naso s'era già potuto vedere che per lui non c'era nulla di sacro, ed era probabile che avrebbe mentito anche in questo caso, così come aveva mentito assicurando di non essersi mai incontrato con lui. Kovalèv stava già per ordinare di recarsi all'Ufficio del buon costume quando gli venne daccapo il pensiero che quell'imbroglione e mascalzone, che fin dal primo incontro aveva agito in maniera così svergognata, poteva adesso tranquillamente svignarsela dalla città approfittando del tempo guadagnato, e allora tutte le ricerche sarebbero state vane o avrebbero potuto protrarsi, Dio ne scampi, anche un mese intero.

Finalmente parve che il cielo stesso lo illuminasse, e decise di rivolgersi direttamente alla redazione d'un giornale e di pubblicare tempestivamente un annuncio con una circostanziata descrizione di tutte le caratteristiche, in modo che chiunque l'avesse incontrato potesse nello stesso istante presentarglielo, o almeno fargli sapere dove si trovava. Deciso questo, ordinò al vetturino di andare alla redazione del giornale e durante tutta la strada non smise di tempestarlo con il pugno sulla schiena: "Più presto, farabutto! Più presto, mascalzone!" "Eh, signore!" protestò il vetturino scuotendo la testa e frustando con la briglia il suo cavallo che aveva il pelo lungo come un cane spagnolo. Finalmente la vettura si fermò e Kovalèv, ansante, entrò di corsa in una piccola anticamera, dove un impiegato canuto, con un vecchio frac e gli occhiali, stava seduto davanti ad una scrivania e, tenendo la penna fra i denti, contava delle monete di rame che gli avevano dato.

"Chi riceve gli annunci?" gridò Kovalèv. "Ah, buon giorno!" "I miei rispetti," rispose l'impiegato canuto, sollevando per un momento gli occhi e abbassandoli di nuovo sulle pile di monete che aveva dinanzi.

"Vorrei pubblicare..." "Permettete. Vi prego d'aspettare un momento," disse l'impiegato, mettendo con la destra una cifra sulla carta e con due dita della sinistra spostando due palline del pallottoliere. In piedi accanto alla scrivania, con un biglietto in mano, c'era un servitore con i galloni e un aspetto che rivelava la sua appartenenza ad una casa aristocratica; costui voleva evidentemente mostrarsi socievole.

"Credete, signore, il cagnolino non vale otto grivnj, ossia io non darei per lui nemmeno mezzo copeco, ma la contessa gli vuol bene; ed ecco, darà a chi lo trova cento rubli! A dirla giusta, così come adesso noi due siamo qui, i gusti delle persone non sono affatto gli stessi: se uno è cacciatore, si tiene un bracco o un barbone; non lesina cinquecento rubli, ne dà pure mille, purché il cane sia buono." Il rispettabile impiegato ascoltava con il viso compreso e, nello stesso tempo, andava conteggiando il numero delle parole nel biglietto che gli era stato dato. Ai due lati c'era una gran quantità di vecchie, di commessi, di mercanti e di portieri con dei biglietti. In uno si diceva che si offriva in servizio un cocchiere di sobria condotta; in un altro, che era in vendita un calesse poco usato, importato nel 1814 da Parigi. Qualcuno cedeva in servizio una ragazza di fatica di diciannove anni, addestrata a fare il bucato e buona anche per altri lavori; si offriva un robusto calesse privo di una molla, un giovane cavallo ardente, grigio pomellato, di diciassette anni d'età; nuove sementi di rape e di ravanelli arrivate da Londra; una dacia, con tutte le comodità: due stalle per i cavalli e un terreno dove si poteva piantare un bellissimo parco di betulle o di abeti. C'era anche un invito a chi desiderasse comprare suole vecchie, con l'indicazione di presentarsi al rivenditore ogni giorno dalle otto alle tre. La stanza in cui si trovava tutta questa gente era piccola e c'era un'aria straordinariamente pesante, ma l'assessore di collegio Kovalèv non poteva sentire l'odore perché il suo naso si trovava Dio sa dove.

"Egregio signore, permettete che vi chieda... Io ho un bisogno estremo," disse infine con impazienza.

"Subito, subito! Due rubli e quaranta copechi! All'istante! Un rublo e sessanta copechi!" gridò il signore canuto buttando i biglietti in faccia alle vecchie e ai portieri. "Voi che cosa desiderate?" disse, rivolgendosi finalmente a Kovalèv.

"Io prego..." disse Kovalèv, "è successa una bricconata o un imbroglio, ancora non riesco a saperlo. La prego solamente di pubblicare che chi mi presenterà quel farabutto riceverà un adeguato compenso." "Permettete di chiedervi come vi chiamate?" "No, perché come mi chiamo? Io non posso dirlo. Ho molti conoscenti, io: la Cechtàreva, consiglieressa di stato, Palagèja, Grigòrievna Podtocìna, ufficialessa di stato maggiore... Se per caso venissero a saperlo, Dio mi scampi! Potete semplicemente scrivere: l'assessore di collegio, o, ancor meglio, un individuo che ha il grado di maggiore." "E quello che è scappato era un vostro servitore?" "Come servitore? Questa non sarebbe neanche una bricconata tanto grande! A me è scappato... il naso..." "Hum! che strano cognome! E questo signor Nasov vi ha derubato d'una somma ingente?" "Naso... cioè... no, non avete capito! Il naso, il mio naso è sparito chissà dove. Il diavolo si è beffato di me!" "Ma in che modo è sparito? C'è qualcosa che non riesco a capire, qui." "Io non posso dirvi in che modo, ma l'essenziale è che adesso lui va in giro per la città e si dice consigliere di stato. E perciò vi prego di pubblicare che chi lo cattura, me lo deve riportare immediatamente nel più breve tempo possibile. Giudicate voi stesso, come posso stare senza una parte così visibile del corpo?

Non è certo un qualsiasi mignolo del piede che nella scarpa nessuno vedrebbe se c'è o non c'è. Ogni giovedì io vado dalla consiglieressa dello stato maggiore, che ha una figlia molto graziosa, pure lei è un'ottima conoscente, e voi stesso potete giudicare in che stato dunque mi trovi... Adesso non posso più presentarmi da loro." L'impiegato rifletteva, come mostravano le sue labbra fortemente serrate.

"No, io non posso pubblicare un annuncio simile sul giornale," disse finalmente, dopo un lungo silenzio.

"Come? Perché mai?" "Così. Il giornale può perdere la reputazione. Se chiunque si mettesse a scrivere che gli è scappato il naso... Già dicono che si stampano molte assurdità e voci false." "Ma in che cosa sarebbe un'assurdità questo fatto? Mi sembra che qui non ci sia niente di assurdo." "Sembra a voi che non ci sia. Ma la scorsa settimana, per esempio, c'è già stato un caso del genere. E' venuto un impiegato, come adesso siete venuto voi, portando un biglietto; il conto ammontava a rubli due e sessantatré e tutto l'annuncio consisteva nel fatto che era scappato un barboncino nero. Che cosa c'è di strano, vi domanderete, no? E invece è venuto fuori che era una burla: il barboncino era un cassiere, non ricordo di quale istituto." "Ma io non faccio un annuncio su un barboncino, bensì sul mio proprio naso; dunque, quasi come se lo facessi su me stesso." "No, un annuncio simile non posso pubblicarlo." "Ma il naso m'è sparito davvero!" "Se è sparito, è un fatto che riguarda il medico. Dicono che ci sia gente che sa attaccare qualsiasi naso. Noto comunque che siete una persona di carattere allegro e che vi piace scherzare in società." "Vi giuro quant'è vero Iddio! Del resto, già che siamo arrivati a questo punto, vi mostrerò..." "Perché incomodarvi?" continuò l'impiegato annusando del tabacco.

"Però, se non v'incomoda," soggiunse con un moto di curiosità, "mi piacerebbe darci un'occhiata." L'assessore di collegio si tolse il fazzoletto dalla faccia.

"Realmente è molto strano!" disse l'impiegato, "il posto è perfettamente liscio, come una frittella appena sfornata. Sì, tanto liscio che non sembra vero!" "Adesso volete ancora discutere? Vedete anche voi che non si può fare a meno di pubblicare l'annuncio. Vi sarò particolarmente grato, e sono molto contento che questo caso mi abbia procurato il piacere di fare la vostra conoscenza..." Il maggiore, come si vede, aveva deciso per questa volta di abbassarsi un poco.

"Pubblicarlo non è difficile," disse l'impiegato, "solo che non prevedo alcun vantaggio. Se proprio volete, passate la cosa a qualcuno che abbia una penna abile in modo che ne parli come d'un raro fenomeno della natura e stampi l'articoletto sull'"Ape del Nord". A questo punto annusò nuovamente del tabacco, "per l'istruzione della gioventù", e si soffiò il naso, "o solo così, per la curiosità di tutti." L'assessore di collegio era completamente scoraggiato. Abbassò gli occhi sulla parte inferiore d'un giornale, dove c'era il programma degli spettacoli. La sua faccia era atteggiata al sorriso, avendo egli letto il nome di una attrice piuttosto piacente; la mano gli corse alla tasca per vedere se avesse una banconota azzurra, perché gli ufficiali superiori, secondo l'opinione di Kovalèv, non potevano andare altro che in poltrona, quando il pensiero del naso rovinò tutto!

Persino l'impiegato sembrava commosso dalla difficile situazione di Kovalèv. Desiderando consolarlo in qualche modo, pensò che fosse gentile dire qualcosa per esprimere la propria partecipazione.

"Mi spiace molto che vi sia successa una storia simile. Non gradireste fiutare una presa di tabacco? Elimina mal di capo e umori cattivi; fa bene anche alle emorroidi." Così dicendo, l'impiegato porse la tabacchiera a Kovalèv dopo averne sollevato con destrezza il coperchio con il ritratto d'una signora in cappellino.

Questo gesto impulsivo fece uscire dai gangheri Kovalèv.

"Non capisco come possiate scherzare," disse con rabbia, "non vedete forse che mi manca proprio ciò che serve a fiutare? Che il diavolo si porti il vostro tabacco! Adesso non posso più neanche vederlo e non solamente il vostro schifoso tabacco di betulla, ma persino se mi aveste offerto del vero râpé." Detto questo, uscì, profondamente seccato, dalla redazione del giornale e si diresse dal commissario del quartiere che era ghiottissimo di zucchero.

In casa sua, sia l'anticamera che la sala da pranzo erano piene di pan di zucchero che i mercanti gli portavano in segno d'amicizia.

In quel momento la cuoca stava togliendo al commissario gli stivaloni di servizio; la spada e tutti gli arnesi militari erano già pacificamente appesi agli angoli e il suo bimbo di tre anni giocherellava col minaccioso tricorno, mentre lui, dopo una giornata d'insolenze e di battaglie, si preparava ad assaporare i piaceri della pace domestica.

Kovalèv entrò nel momento in cui egli si stirava, grugniva e diceva:

"Eh, me la dormirò beatamente un paio di orette!" Perciò si può immaginare come potesse essere accolto l'assessore di collegio. Si deve dire anche che se in quel momento gli avesse portato diverse libbre di tè o del panno, ugualmente l'accoglienza non sarebbe stata troppo cordiale. Il commissario era un grande protettore delle arti e delle industrie, ma a tutto preferiva una banconota di stato.

"E' una cosa," affermava di solito, "che davvero non ce n'è una migliore: da mangiare non ne chiede, di posto ne occupa poco, in una tasca ci sta sempre, se la lasci cadere non si rompe." Il commissario accolse quindi Kovalèv freddamente e disse che dopo il pranzo non è il momento per iniziare un'indagine. La natura stessa ha stabilito che, dopo essersi saziati, ci si riposi un pochino (dal che l'assessore di collegio poté vedere che al commissario non erano ignote le sentenze degli antichi saggi); che ad un uomo perbene non cade il naso e che al mondo c'era un sacco di maggiori d'ogni genere che non avevano neppure la biancheria in ordine e andavano in giro per ogni sorta di luoghi indegni.

Tutto questo, proprio in faccia! Va notato che Kovalèv era un uomo permalosissimo. Non soltanto non poteva perdonare quel che si diceva di lui come uomo, ma non ammetteva in alcun modo che qualcuno si riferisse al titolo o al grado. Riteneva addirittura che nelle rappresentazioni teatrali si potesse lasciar passare tutto ciò che si riferiva ai sottufficiali, ma non si dovessero assolutamente attaccare gli ufficiali. L'accoglienza del commissario lo confuse a tal punto che si mise a scuotere la testa e a dire con un forte senso della propria dignità, allargando le braccia:

"Confesso che, dopo simili offensivi rilievi da parte vostra, non posso aggiungere nulla..." e se ne andò.

Arrivò a casa che sentiva appena le gambe sotto di sé. Era già il tramonto. Dopo quelle ricerche infruttuose il suo alloggio gli parve triste e squallido. Entrato in anticamera, vide sul sudicio divano di cuoio il suo servitore Ivàn che se ne stava sdraiato supino, sputava contro il soffitto e con una certa abilità colpiva sempre lo stesso punto. Una simile indifferenza da parte del servitore lo mandò su tutte le furie; lo colpì sulla fronte con il cappello dicendo:

"Porco che non sei altro, ti occupi sempre di stupidaggini!" Ivàn saltò su di colpo dal suo posto e si precipitò a togliergli il mantello.

Entrato nella sua camera, il maggiore, stanco e triste, si abbandonò in una poltrona e finalmente, dopo alcuni sospiri, si disse:

"Dio mio! Dio mio! Perché mai una simile disgrazia? Fossi senza un braccio o senza una gamba, sarebbe meglio; fossi senza orecchie, sarebbe brutto e tuttavia sempre più sopportabile; ma senza naso lo sa il diavolo che cos'è un uomo: uccello non è, cittadino nemmeno, è solo qualcosa da prendere e buttare fuori dalla finestra! Magari me l'avessero mozzato in guerra o in un duello o fossi stato io stesso la causa di ciò, ma è sparito senza un motivo, è sparito senza un perché, così! Ma no, non può essere!" aggiunse dopo aver riflettuto un po'. "E' inverosimile che un naso sparisca; è inverosimile sotto tutti i punti di vista. Certamente sto sognando oppure ho un'allucinazione. Per chissà quale sbaglio invece di acqua ho bevuto la vodka con cui mi massaggio il mento dopo essermi fatto la barba. Quello stupido di Ivàn non l'ha messa via e io probabilmente me la sono bevuta." Per accertarsi che non era ubriaco il maggiore si diede un pizzicotto così doloroso che lanciò un grido. Il dolore lo persuase definitivamente che agiva e viveva in piena lucidità. Si avvicinò alla chetichella allo specchio e dapprima serrò stretti gli occhi pensando che magari il naso si sarebbe mostrato al proprio posto; subito dopo fece un salto indietro esclamando:

"Che aspetto da buffone!" E davvero era incomprensibile. Se fosse sparito un bottone, un cucchiaino d'argento o qualcosa del genere... ma sparire un naso, e inoltre a chi sparire? e per giunta nel suo stesso alloggio! Il maggiore Kovalèv, considerando tutte le circostanze, concluse che con ogni probabilità la colpa di tutto era dell'ufficialessa superiore Podtòcina, la quale desiderava che lui sposasse sua figlia. Anche a lui piaceva stare un po' dietro alla ragazza, ma evitava un impegno definitivo. Quando infatti l'ufficialessa gli aveva dichiarato apertamente che intendeva dargliela in moglie, lui pian piano aveva fatto marcia indietro con i suoi complimenti, dicendo che era ancor giovane, che doveva prestar servizio per almeno cinque anni per arrivare giusto a quarantadue. Perciò l'ufficialessa, probabilmente per vendetta, s'era decisa a rovinarlo e per far questo aveva assoldato qualche fattucchiera, poiché non si poteva in alcun modo supporre che il naso fosse stato tagliato. Nessuno era entrato nella sua stanza; quanto al barbiere Ivàn Jakovlèvic, gli aveva fatto la barba mercoledì e durante l'intero mercoledì e per tutto il giovedì il suo naso era intatto, questo se lo ricordava bene. Inoltre avrebbe sentito del dolore e di certo la ferita non avrebbe potuto cicatrizzarsi così presto e essere liscia come una frittella. Faceva dei piani nella sua testa: citare formalmente l'ufficialessa in giudizio o presentarsi a lei di persona e smascherarla? Le sue riflessioni furono interrotte da una luce che brillava attraverso le fessure della porta, mostrando che Ivàn aveva già acceso la candela in anticamera. Ben presto comparve anche Ivàn, che recava la candela davanti a sé illuminando tutta la camera. Istintivamente Kovalèv cercò d'afferrare il fazzoletto per coprire il posto dove il giorno prima c'era ancora il naso, in modo che quello stupido non rimanesse a bocca aperta vedendo che il suo padrone aveva quella stranezza.

Ivàn non aveva fatto in tempo ad andarsene, che in anticamera si udì una voce sconosciuta:

"Abita qui l'assessore di collegio Kovalèv?" "Entrate. Il maggiore é qui," disse Kovalèv saltando frettolosamente in piedi e aprendo la porta.

Entrò un funzionario di polizia di bell'aspetto, con basettoni non troppo chiari e non troppo scuri, con guance abbastanza piene, quello stesso che al principio del racconto si trovava all'estremità del ponte Isakièvskij.

"Scusate, forse avete perso un naso?" "Proprio così." "E' stato trovato:" "Che cosa dite?" gridò il maggiore Kovalèv.

La gioia gli tolse la favella. Guardava fisso negli occhi la guardia di quartiere che stava davanti a lui e sulle cui labbra e guance pienotte la tremolante luce della candela mandava vivi bagliori.

"In che modo?" "In uno strano modo: l'hanno fermato ch'era già quasi in viaggio.

Era salito su una diligenza e voleva partire per Riga. Già da tempo aveva un passaporto col nome d'un impiegato. E lo strano è che anch'io in principio l'avevo preso per un signore. Ma, per fortuna, avevo con me gli occhiali e ho visto subito che si trattava d'un naso. Perché io sono miope e, se vi mettete davanti a me, vedo solamente che avete una faccia, ma non vedo né il naso, né la barba, non noto nulla. Anche mia suocera, ossia la madre di mia moglie, non ci vede affatto." Kovalèv era fuori di sé dalla gioia.

"Dov'è? Dove? Corro subito." "Non preoccupatevi. Sapendo che vi era necessario, l'ho portato con me. E lo strano è che il principale responsabile di tutta questa faccenda è un mascalzone di barbiere della Prospettiva Voznesènskij, che adesso si trova in camera di sicurezza. Da tempo lo sospettavo d'ubriachezza e di furto: anche l'altro ieri in una bottega ha rubato una fila di bottoni. Il vostro naso è precisamente così com'era".

Nel dire questo la guardia si frugò in tasca e trasse il naso avvolto in un pezzo di carta.

"E' lui!" gridò Kovalèv. "E' proprio lui! Dovete prenderete con me una tazza di tè." "Per me sarebbe un grande piacere, ma non posso proprio. Ora devo andare alla casa di correzione... C'è un enorme rincaro di tutti i generi alimentari... A casa mia vive anche mia suocera, ossia la madre di mia moglie, e ci sono i bambini; specialmente il maggiore dà grandi speranze: è un ragazzino molto intelligente, ma non ci sono i mezzi per educarlo." Kovalèv mangiò la foglia e, afferrata sul tavolo una banconota rossa, la ficcò in mano alla guardia che, strisciato un inchino, uscì dalla porta. Subito dopo Kovalèv udì la sua voce in strada, dove la guardia faceva una ramanzina a uno stupido zotico che con il suo carro percorreva il boulevard.

L'assessore di collegio rimase per qualche minuto in uno stato d'animo piuttosto indefinito, e solo dopo un po' di tempo riacquistò la facoltà di vedere e di sentire: in tale smarrimento l'aveva gettato l'improvvisa gioia! Prese con grande cautela il naso con tutt'e due le mani e lo guardò ancora una volta con attenzione.

"E' lui, è proprio lui!" mormorò. "Ecco anche il foruncolo che era spuntato ieri sulla parte sinistra." Per poco non scoppiò a ridere dalla gioia.

Ma al mondo non c'era nulla di duraturo e perciò anche la gioia, nell'attimo che segue, non è già più così viva; poi diventa ancor più debole e, infine, inavvertitamente si confonde con lo stato d'animo solito, come nell'acqua un cerchio prodotto dalla caduta d'un sassolino finisce per confondersi con la superficie liscia.

Kovalèv cominciò a riflettere e capì che la faccenda non era ancora finita: il naso era stato trovato, ma adesso occorreva attaccarlo, rimetterlo al suo posto.

"E se non si attaccasse?" Di fronte a questa domanda che aveva rivolto a se stesso il maggiore impallidì.

Con un sentimento di indescrivibile terrore si precipitò al tavolo, mise vicino a sé lo specchio per non rischiare di attaccarsi il naso storto. Le mani gli tremavano. Con cautela e circospezione posò il naso al suo giusto posto. Oh, orrore! Il naso non si attaccava. Lo avvicinò alla bocca, lo riscaldò leggermente con il fiato e lo collocò di nuovo nello spazio liscio che si trovava fra le due guance, ma il naso proprio non si reggeva.

"Su, insomma, su! Mettiti a posto, scemo!" disse.

Il naso era come di legno e cascava sul tavolo con un rumore strano, come fosse stato un tappo. La faccia del maggiore si contraeva in una smorfia convulsa.

"Possibile che non faccia più presa?" si disse in preda allo spavento.

Per quante volte lo appoggiasse al suo posto, gli sforzi continuavano a restare vani.

Allora chiamò Ivàn e lo mandò da un dottore che occupava in quella stessa casa l'appartamento migliore, al piano nobile. Il dottore era un uomo di bell'aspetto, aveva degli stupendi basettoni color pece e una moglie fresca e sana che ogni mattina mangiava delle mele e si teneva la bocca sempre pulita, risciacquandola tutti i giorni quasi per tre quarti d'ora e spazzolando i denti con cinque spazzolini di diverso tipo. Il dottore comparve all'istante. Dopo aver domandato da quanto tempo fosse successo il guaio, afferrò il maggiore per il mento; con il pollice gli diede un buffetto proprio nel posto dove prima c'era il naso, in modo tale che il maggiore dovette buttare la testa all'indietro con tanta violenza che sbatté forte la nuca contro il muro. Il medico disse che non era nulla e, dopo avergli detto di staccarsi un poco dal muro, gli ordinò di piegare la testa verso destra e, tastato il posto dove c'era prima il naso, disse: "Humm!" Ordinò di piegare la testa verso sinistra e disse: "Humm!" e, a conclusione, gli diede di nuovo un buffetto col pollice in modo che il maggiore impennò la testa come un cavallo a cui si esaminano i denti. Fatta questa prova, il medico scosse il capo e disse:

"No, no, é meglio che restiate così, perché si potrebbe peggiorare la cosa. Attaccarlo si può, si capisce; ve lo attaccherei anche subito, ma vi assicuro che per voi sarebbe peggio." "Bella questa! e come faccio a restare senza naso?" disse Kovalèv.

"Peggio di adesso non potrà mai essere. Lo sa soltanto il diavolo come mi sento! Ho buone conoscenze: ecco, anche oggi devo andare in visita in due case. Conosco molta gente; la consiglieressa di stato Cechtàreva, l'ufficialessa superiore Podtòcina... benché dopo quello che mi ha fatto non vorrò più aver niente a che fare con lei se non attraverso la polizia. Fatemi il piacere," aggiunse Kovalèv con voce supplichevole, "non c'è un sistema? Attaccatelo in qualche modo, magari non bene, purché si regga; potrei persino sostenerlo con la mano nei momenti pericolosi. Del resto io non ballo, cosa che potrebbe essere dannosa per via di qualche movimento troppo brusco. Per tutto quanto si riferisce alla ricompensa per il disturbo, siate pur certo che nella misura in cui lo consentono i miei mezzi..." "Credete," disse il dottore con voce esortativa e magnetica, "io non curo mai per interesse. Questo è contrario alle mie regole e alla mia arte. E' vero, mi faccio pagare per le visite, ma unicamente per non offendere con un rifiuto. Certo, vi attaccherei il naso, ma vi assicuro sul mio onore, che sarebbe molto peggio.

Lasciate piuttosto che la natura agisca da sé. Lavatevi più spesso con l'acqua fredda e vi garantisco che, pur non avendo il naso, vivrete sano come se l'aveste. Quanto al vostro naso, vi consiglio di metterlo in un barattolo sotto spirito e, ancor meglio, di versarvi due cucchiai da tavola di vodka forte e di aceto riscaldato, e allora potrete ricavarne dei bei soldi. Lo comprerò io stesso se non chiedete troppo.

"No, no! non lo vendo a nessun prezzo!" si mise a gridare il maggiore Kovalèv disperato, "che vada perduto, piuttosto!" "Scusate" disse il dottore salutandolo, "io volevo esservi utile... Che farci! Almeno avrete visto che mi sono preoccupato." Detto questo il dottore uscì austeramente dalla stanza. Kovalèv non ne notò neppure il viso e, nel suo profondo smarrimento, vide solamente i polsini della sua camicia bianca come la neve che sporgevano dalle maniche del frac nero.

L'indomani stesso, prima di presentare querela, si decise a scrivere all'ufficialessa superiore per sapere se non acconsentisse a restituirgli senza discussioni ciò che gli apparteneva. La lettera era del seguente tenore:

"Egregia signora, Aleksàndra Grigorièvna!

Non riesco a comprendere il vostro strano modo d'agire. Siate pur certa che comportandovi così non ci guadagnerete nulla e non mi costringerete affatto a sposare vostra figlia. Credete pure che la faccenda del mio naso mi è perfettamente nota, così come il fatto che voi ne siete la principale responsabile e non già qualcun altro. Il suo improvviso distacco dal proprio posto, la fuga ed il mascheramento, ora sotto le spoglie d'un funzionario, ora infine con le sue vere sembianze, altro non sono che la conseguenza delle magie ordite da voi o da coloro che si esercitano in simili nobili occupazioni. Da parte mia ritengo doveroso avvertirvi che, se il naso da me menzionato non tornerà oggi stesso al suo posto, mi vedrò costretto a ricorrere alla difesa e alla protezione delle leggi.

Del resto, con assoluta stima verso di voi, ho l'onore di essere il vostro docile servo Platòn Kovalèv."

"Egregio signore, Platòn Kuzmìc!

La vostra lettera mi ha straordinariamente stupita. Vi confesso sinceramente che non me la sarei mai aspettata, tanto più in rapporto ai vostri ingiusti rimproveri. Vi faccio osservare che io non ho mai ricevuto in casa mia il funzionario che voi menzionate, né mascherato, né con il suo vero aspetto. E' venuto da me Filìp Ivànovic Potàncikov, quest'è vero. E benché, effettivamente, lui aspirasse alla mano di mia figlia, e fosse pure di buona e sobria condotta e molto istruito, io tuttavia non gli ho mai dato alcuna speranza. Voi menzionate anche un naso. Se con questo intendete dire che io avrei inteso lasciarvi con un palmo di naso, ossia opporvi un formale rifiuto, mi stupisce il fatto che voi stesso parliate di questo, in quanto io, come vi è noto, ero assolutamente d'avviso contrario, e se adesso voi voleste legittimamente fidanzarvi con mia figlia, sarei pronta immediatamente a soddisfarvi, giacché questo ha sempre costituito l'oggetto del mio più vivo desiderio, nella speranza della qual cosa resto sempre pronta ai vostri servigi.

Aleksàndra Podtòcina."

"No," disse Kovalèv dopo aver letto la lettera. "Sembra che lei non ne abbia alcuna colpa. Non può essere! La lettera non è scritta come la potrebbe scrivere una persona colpevole d'un delitto." L'assessore di collegio se ne intendeva, perché diverse volte era stato inviato a svolgere inchieste, quando ancora si trovava nella regione del Caucaso.

"In che modo, per quali circostanze è dunque successo? Soltanto il diavolo può vederci chiaro!" disse infine lasciando cadere le braccia.

Nel frattempo le voci di quell'avvenimento insolito s'erano sparse in tutta la capitale e, come sempre succede, non senza frange.

Proprio in quel periodo l'attenzione della gente tendeva alle cose straordinarie e poco tempo prima tutta la città s'era appassionata a certi esperimenti sugli effetti del magnetismo. Inoltre, la storia delle seggiole che ballavano in via Konjusènnaja era ancora fresca, e non c'è quindi affatto da stupirsi che presto ci si mettesse a dire che il naso dell'assessore di collegio Kovalèv andava a passeggio alle tre in punto sulla Prospettiva Nevskij.

Ogni giorno una grande quantità di curiosi affluiva sul posto. Se qualcuno diceva che il naso si trovava nel negozio di Junker, subito la folla faceva ressa in modo che doveva intervenire persino la polizia. Uno speculatore d'aspetto distinto, con i basettoni, che vendeva all'ingresso del teatro pasticcini raffermi di vario genere, fabbricò apposta dei solidi sgabelli di legno sui quali invitava a sedersi i curiosi per ottanta copechi a testa. Un colonnello a riposo uscì apposta per questo prima del solito da casa e si fece largo tra la folla a fatica, ma con sua grande indignazione, invece del naso, nella vetrina del negozio scorse una normale maglia di lana ed una litografia che rappresentava una ragazza nell'atto di tirarsi su una calza insieme a un bellimbusto, con un panciotto a risvolti, che l'osservava da dietro un albero, quadretto che già da più di dieci anni stava in quel posto. Se ne andò indispettito, dicendo:

"Com'è possibile turbare il popolo con voci così stupide e inverosimili?" Poi si sparse la voce che il naso del maggiore Kovalèv non andava a passeggio sulla Prospettiva Nevskij, ma nel giardino di Tauride; e là vi si trovava da un pezzo, tant'è che quando vi abitava Khozrev-Mirza era assai stupito di questo strano scherzo della natura. Alcuni studenti dell'Accademia chirurgica si diressero nel giardino di Tauride. Un'illustre e stimata signora chiese per lettera al custode del giardino di mostrare ai bambini lo strano fenomeno e, se era possibile, dare anche una spiegazione istruttiva ed edificante alla gioventù.

Di tutta la faccenda furono molto contenti i mondani e inevitabili frequentatori dei salotti, i quali amano fare ridere le signore e la cui provvista di bon mots era in quel periodo esaurita. Una piccola parte di persone rispettabili e benintenzionate, invece, era scontenta. Un signore diceva con sdegno di non capire come nel corrente illuminato secolo potessero diffondersi simili assurde invenzioni, e si stupiva come mai il governo non si occupasse della cosa. Come si vede, questo signore apparteneva alla categoria di quelle persone che vorrebbero immischiare il governo in tutto, persino nelle loro liti quotidiane con la moglie.

Dopo... ma a questo punto la storia viene di nuovo nascosta da una nebbia e che cosa sia successo in seguito è assolutamente ignoto.

Al mondo succedono le cose più inverosimili. Talvolta manca persino la minima ombra di verosimiglianza: improvvisamente quello stesso naso che era andato in giro con il grado di consigliere di stato e aveva provocato tanto rumore in città, come se niente fosse si trovò di nuovo al suo posto, ossia precisamente fra le due guance del maggiore Kovalèv. Questo accadde il sette di aprile.

Svegliatosi e rivolta senza pensarci un'occhiata allo specchio, che cosa vide? il naso! L'afferrò con una mano: era proprio il naso!

"Ehe!" disse Kovalèv e dalla gioia per poco non si mise a ballare scalzo il trepàk nella stanza, ma glielo impedì la presenza di Ivàn, entrato in quel momento. Allora diede ordine di portargli immediatamente l'occorrente per lavarsi e, mentre si lavava, diede un'altra occiata allo specchio: il naso. Strofinandosi con l'asciugamano diede ancora una volta un'occhiata allo specchio: il naso!

"Guarda un po', Ivàn, mi pare d'avere sul naso un foruncoletto," disse, e intanto pensava: "Bel guaio se Ivàn dicesse: ma no, signore, non solo non c'è nessun foruncoletto, ma non c'è nemmeno il naso!" Ma Ivàn disse:

"Non c'è niente, nessun foruncoletto: il naso è pulito!" "Bene, il diavolo se lo porti," si disse il maggiore e fece schioccare le dita. In quell'istante s'affacciò alla porta il barbiere Ivàn Jakovlèvic, timoroso come un gatto che sia stato appena frustato per aver rubato dello strutto.

"Prima dimmi: hai le mani pulite?" gli gridò da lontano Kovalèv.

"Pulite." "Bugiardo!" "Perdio, pulite, signore." "Bèh, sta attento." Kovalèv si sedette. Ivàn Jakovlèvic l'avvolse nell'asciugamano e in un istante, con l'aiuto del pennello, gli trasformò la barba e le guance in una crema simile a quella che si serve in casa dei mercanti nel giorno del loro onomastico.

"Vedi un po'!" disse fra sé Ivàn Jakovlèvic gettando un'occhiata al naso e poi piegò la testa dall'altra parte e lo guardò di traverso. "Ma guarda! Sembra proprio il suo," continuò e contemplò a lungo il naso. Finalmente, con la massima delicatezza e leggerezza, sollevò due dita con l'intenzione di afferrare il naso per la punta. Perché tale era il sistema di Ivàn Jakovlèvic.

"Ehi, ehi, sta attento!" si mise a gridare Kovalèv.

Il barbiere lasciò cadere le braccia, allibì e si confuse come mai s'era confuso. Infine si mise a raschiare delicatamente con il rasoio sotto il mento e, benché gli riuscisse molto scomodo e difficile radere senza avere un sostegno nella parte olfattiva del corpo, tuttavia, appoggiandosi in qualche modo con il ruvido pollice alla guancia e alla mascella inferiore, superò alla fine tutti gli ostacoli e fece la barba.

Quando tutto fu pronto, Kovalèv si affrettò a vestirsi, prese una vettura e andò dritto filato in una pasticceria. Entrando, ancora lontano dal banco si mise a gridare:

"Ehi, ragazzo, una tazza di cioccolato!" e nello stesso momento si guardò allo specchio: il naso c'era. Allora si voltò allegramente indietro e con aria ironica, strizzando un poco gli occhi, guardò due militari uno dei quali aveva un naso che non era di certo più grande del bottone d'un gilè. Poi si recò alla segreteria del ministero dove aveva sollecitato un posto di vice governatore o, in caso d'insuccesso, di esecutore. Attraversando l'anticamera, diede un'occhiata allo specchio: il naso c'era. Andò da un altro assessore di collegio o maggiore, grande mattacchione, al quale egli spesso diceva, rispondendo alle sue pungenti osservazioni:

"Ehi, io ti conosco, malalingua!" Per strada pensava: "Se neanche il maggiore mi ride in faccia nel vedermi, è un segno certo che ho davvero tutto a posto." L'assessore di collegio non disse nulla.

"Bene, bene, lo sa il diavolo!" pensò fra sé Kovalèv. Lungo la strada incontrò l'ufficialessa superiora Podtòcina insieme con la figlia, le salutò e fu accolto da esclamazioni di gioia: dunque niente, in lui non c'era proprio nessun difetto. Chiacchierò con loro a lungo e, tirata fuori la tabacchiera, si riempì entrambi le narici davanti a loro, mentre fra sé andava dicendo: "Ecco qua, donne, razza di galline! Con tua figlia comunque non mi sposo. Se fosse par amour, allora sì, con piacere!" Il maggiore Kovalèv da quel giorno andò in giro come se niente fosse sulla Prospettiva Nevskij, per i teatri e dappertutto. E anche il naso, come se niente fosse, se ne stava sulla sua faccia non dando minimamente l'impressione d'essersene mai allontanato.

D'allora fu visto eternamente di buon umore, sorridente; inseguiva tutte le belle signore senza eccezione, e una volta fu visto anche davanti a una bottega al Gostìnyj Dvor nell'atto d'acquistare il nastro d'una certa decorazione, per quali motivi s'ignora, giacché non era cavaliere d'alcun ordine.

Ecco quale storia accadde nella nordica capitale del nostro vasto Stato! Solo ora, considerando tutto, vediamo che in essa c'è molto d'inverosimile. Per non dire del fatto che il distacco soprannaturale del naso e la sua comparsa in vari posti sotto le spoglie d'un consigliere di stato è una cosa troppo strana. Come aveva potuto Kovalèv non capire che non si può mettere un avviso sul giornale a proposito d'un naso? Non lo dico nel senso che il prezzo per l'annuncio sarebbe stato troppo caro: questa è una sciocchezza, io non appartengo al novero delle persone attaccate al denaro. Lo dico perché è sconveniente, imbarazzante... non sta bene! Ancora: come fece il naso a trovarsi nel pane appena sfornato, e come lo stesso Ivàn Jakovlèvic... Ma la cosa più strana e incomprensibile di tutte è che degli scrittori possano dedicarsi a simili argomenti. Lo riconosco, questo è davvero inconcepibile, è davvero... no, no, non posso proprio capire. In primo luogo, non ne viene decisamente alcun vantaggio per la patria; in secondo luogo... ma anche in secondo luogo non ne viene alcun vantaggio. Semplicemente non so che mai significhi tutto questo...

E tuttavia, malgrado ciò, si può anche ammettere e l'una e l'altra cosa, e anche una terza... già, perché dov'è che non accadono delle cose inverosimili? A rifletterci bene... si può dire quello che si vuole, ma simili avvenimenti al mondo accadono, di rado, ma accadono.

Il Ritratto - Prima Parte.

In nessun posto al mondo si ferma tanta gente come davanti alla bottega di quadri dello Scukìn Dvor. Questa bottega conteneva infatti la più eterogenea collezione di cose strane e rare: i quadri per la maggior parte erano dipinti a olio, ricoperti da vernice verde cupo, inseriti in cornici pretenziose color giallo scuro. Un inverno con i suoi alberi bianchi; un tramonto tutto rosso, simile al bagliore di un incendio; un contadino fiammingo con la pipa e il braccio spezzato, più simile a un gallo indiano con i polsini che a un uomo.

Ecco gli abituali soggetti. A tutto questo occorre aggiungere alcune stampe: il ritratto di Khozrèv-Mirza con il berretto di pelo di montone, altri ritratti di chissà quali generali con il tricorno e con i nasi storti. Alla porta d'una bottega come questa sono di solito appesi fasci di incisioni popolari su grandi fogli, che testimoniano del nativo talento dell'uomo russo. Su uno dei fogli, la zarèvna Milìktrisa Kirbitièvna, su un altro la città di Gerusalemme sulle cui case e chiese era profusa senza tanti complimenti una tinta rossastra dilagante in una parte del terreno e su due contadini russi coi guantoni in preghiera. Gli acquirenti di opere del genere di solito non sono molti, ma gli spettatori in compenso... una folla. Di certo ci trovi qualche servitore ubriacone che sbadiglia, tenendo in mano i recipienti con il pranzo di trattoria per il suo signore che senza dubbio mangerà una minestra non troppo calda. Un soldato col cappotto; il cavaliere dei robivecchi, che vende appuntapenne; una venditrice ambulante del sobborgo di Ochtà con una scatola piena di scarpe.

Ciascuno si entusiasma a modo suo: i contadini di solito segnano a dito; i cavalieri esaminano con aria seria; i ragazzi che fanno i domestici e i garzoni artigiani ridono e si scherniscono a vicenda mostrandosi le caricature. I vecchi servitori in cappotti di frisia si limitano a guardare al solo scopo di oziare un poco in qualche posto, mentre le venditrici, giovani donne russe, accorrono d'istinto per ascoltare le chiacchiere della gente.

In un momento del genere, per caso, si fermò davanti alla bottega il giovane artista Cartkòv. Il vecchio cappotto e l'abito non certo elegante mostravano che è persona devota al proprio lavoro sino all'abnegazione e non ha il tempo di prendersi cura del proprio abbigliamento, sebbene lo stesso abbia pur sempre una misteriosa attrattiva sui giovani. L'artista si fermò davanti alla bottega e se in un primo momento rise dentro di sé di quei quadretti mostruosi, alla fine, però, si trovò a fare un'involontaria riflessione: a chi potevano essere necessarie opere come quelle?

Che il popolo russo ammirasse Eruslàn Lazarèvic, il Mangione e il Bevone, Fomà ed Eremà non gli pareva cosa da stupire: gli oggetti raffigurati erano oltremodo accessibili e comprensibili per il popolo; ma dov'erano i compratori di quelle pitture variopinte, sudicie, lucide di olio? A chi potevano piacere quei contadini olandesi, quei paesaggi rossi e turchini che rivelavano qualche pretesa d'arte, ma in cui si manifestava tutta la profonda umiliazione dell'arte stessa? Sotto ogni apparenza si vedeva che non poteva trattarsi delle fatiche d'un bambino autodidatta, altrimenti, nonostante l'insipido carattere caricaturale dell'insieme, vi si sarebbe avvertito un certo slancio. Invece, si vedevano solamente ottusità, un'impotente e decrepita mancanza di talento che arbitrariamente si schierava nelle file dell'arte, mentre il suo posto era fra i bassi mestieri; una mancanza di talento, tuttavia, così fedele alla propria vocazione, da trasmettere all'arte il proprio carattere di mestiere. Sempre gli stessi colori, stessa maniera, la stessa mano addestrata e impratichita, che apparteneva più a un rozzo automa che non ad un essere umano!

Cartkòv sostò a lungo davanti a quei quadri soprapensiero. Il padrone della bottega, un uomo grigio, con il cappello di frisia, una barba non rasa almeno dalla domenica prima, prese a spiegargli qualcosa, ad offrire e a contrattare ancor prima di sapere che cosa fosse piaciuto od occorresse all'artista.

"Ecco, per questi contadini e per il piccolo paesaggio prendo un biglietto bianco. Che pittura! Ti ferisce addirittura l'occhio. Li ho appena ricevuti dalla sala vendite, la vernice non s'è ancora asciugata. Oppure, ecco un inverno, prendete l'inverno! Quindici rubli! Solamente la cornice che cosa vale... Guardate che inverno!" A questo punto il mercante diede un leggero colpetto alla tela, probabilmente per mostrare tutta la buona qualità dell'inverno.

"Ordinate di legarli insieme e di portarveli a casa? Dove abitate?

Ehi, ragazzo, passami dello spago." "Aspetta, caro, non così in fretta," disse, come destandosi, l'artista, vedendo che lo sbrigativo mercante s'era già messo sul serio a legare i quadri.

Gli era venuta una certa vergogna di non prendere nulla dopo essere rimasto così a lungo nella bottega e perciò disse:

"Aspetta, voglio vedere in giro se per caso non c'è qualcosa che mi vada", e, chinatosi, si mise a tirar su dal pavimento delle vecchie pitture consunte e impolverate, buttate in un mucchio, che evidentemente non godevano di alcuna considerazione. C'erano vecchi ritratti di famiglia, i cui discendenti probabilmente non esistevano più, figure completamente irriconoscibili con la tela rotta, cornici ormai prive della doratura; insomma, ogni sorta di decrepiti rifiuti. L'artista si accinse a quest'esame, pensando:

"Forse qualcosa si può trovare." Più d'una volta aveva sentito raccontare che in certi casi, presso i venditori di stampacce popolari, in mezzo al bailamme erano stati ritrovati quadri di grandi maestri. Il padrone, vedendo dov'egli puntava, aveva abbandonato le sue premure e, assunta la sua posizione abituale ed una conveniente imponenza, s'era messo di nuovo davanti alla porta a invitare i passanti e a indicare con una mano la bottega...

"Qui, bàtiuska, ecco i quadri! Entrate, entrate, sono arrivati dalla sala vendite." Strillava a sazietà, e per lo più infruttuosamente, chiacchierando anche con un venditore di pezze di stoffa che stava fermo sulla porta della sua bottega proprio di fronte a lui; alla fine, ricordandosi che in bottega aveva un compratore, voltò le spalle alla gente e si diresse verso l'interno.

"Allora, bàtiuska, avete scelto qualcosa?" Già da qualche minuto l'artista stava immobile davanti a un ritratto in una grande cornice, che una volta doveva essere stata sontuosa ma sulla quale ora luccicava appena qualche scaglia della doratura. Si trattava d'un vecchio con la faccia color bronzo, forti zigomi, dall'aria scarnita; i lineamenti parevano essere stati colti in un istante di contrazione febbrile ed emanavano un vigore non settentrionale. Su di essi era stampato un infuocato mezzogiorno. L'uomo era drappeggiato in un ampio abito asiatico.

Per quanto il ritratto fosse impolverato e danneggiato, Cartkòv aveva visto subito, non appena era riuscito a togliere la polvere dalla faccia, l'impronta dell'opera d'un grande artista. Il ritratto sembrava incompiuto, ma la potenza della pennellata era eccezionale. Più straordinari di tutto erano gli occhi: pareva che l'artista vi avesse messo tutta la forza del suo pennello e tutta la passione della sua arte. Essi guardavano, guardavano, si sarebbe detto, fuori dal ritratto, quasi distruggendone l'armonia con la loro strana vivezza. Altre persone ne ricevevano la stessa impressione. Una donna che s'era fermata dietro Cartkòv si mise a gridare: "Mi guarda, mi guarda!" e indietreggiò. Cartkòv provò un turbamento incomprensibile, e posò il ritratto a terra.

"Allora, lo prendete?" disse il padrone.

"E... quanto?" domandò l'artista.

"Non ne voglio molto. Datemi tre cetvertàk!" "No." "Bèh, e cosa volete darmi?" "Una ventina di copechi," disse l'artista accingendosi ad andarsene.

"Eh, che razza di prezzo mi tirate fuori! Per venti copechi non si compra nemmeno la cornice. Si vede che avete intenzione di comprare domani. Signore, signore, venite qua! E va bene, datemi venti copechi. Prendetelo, prendetelo, va bene per venti copechi!

Ma è solo per cominciare, solo perché oggi siete il primo cliente." Così dicendo fece un gesto con la mano, come a dire:

"Se così dev'essere, pazienza per il quadro!" In questo modo Cartkòv si trovò del tutto inaspettatamente ad acquistare il vecchio quadro e nello stesso tempo pensò: "Perché l'ho comprato? Che cosa me ne faccio?" Ma ormai era andata. Tirò fuori di tasca venti copechi, li diede al padrone, prese il ritratto sotto il braccio e se lo portò via. Per strada ricordò che i venti copechi che aveva dato erano gli ultimi che possedeva.

Ad un tratto, i suoi pensieri si fecero neri: immediatamente l'assalirono un sentimento di stizza e un gran vuoto nell'anima.

"Al diavolo! è davvero schifoso vivere al mondo!" si disse con lo stato d'animo del russo a cui le cose vanno male. Quasi meccanicamente si mise a camminare a passi lesti, pieno d'indifferenza verso tutto. La luce rossa del tramonto copriva metà del cielo; le case rivolte in quella direzione erano ancora illuminate dalla sua tiepida luce, mentre già si accentuava il freddo, azzurrastro, chiarore della luna. A terra cadevano leggere ombre semitrasparenti che venivano riflesse dalle case e dalle gambe dei passanti. L'artista cominciò a poco a poco a guardare il cielo rischiarato da una luce diafana, sottile, incerta e quasi senza volerlo gli sfuggirono dalla bocca le parole: "Che tonalità leggera!" e subito dopo: "Che rabbia, al diavolo!" E, mettendo a posto il ritratto che gli scivolava continuamente di sotto il braccio, accelerò il passo. Stanco e tutto sudato riuscì finalmente a trascinarsi sino a casa, alla quindicesima linea dell'isola Vasilièvskij. Con fatica e il fiato corto s'arrampicò per le scale inondate di risciacquature e costellate di tracce di gatti e di cani.

Al suo colpo alla porta non ci fu risposta: il servitore non era in casa.

Allora si appoggiò alla finestra e si dispose ad attendere con pazienza; finalmente risuonarono alle sue spalle i passi d'un ragazzo in camicia blu, il suo galoppino, modello, mesticatore di colori e spazzapavimenti, che subito sporcava con i suoi stessi stivali. Si chiamava Nikìta e trascorreva tutto il tempo fuori dal portone quando lui non era in casa. Nikìta si sforzò a lungo nel tentativo d'infilare la chiave nel buco della serratura, perché non si vedeva assolutamente nulla a causa dell'oscurità.

Finalmente la porta si aprì. Cartkòv entrò nell'anticamera, intollerabilmente fredda, come sempre succede in casa degli artisti, benché loro non se ne accorgano.

Senza dare il cappotto a Nikìta, passò nel suo studio, una stanza quadrata, grande ma bassa, con le finestre gelate, ingombra d'ogni genere di cianfrusaglie artistiche: frammenti di braccia di gesso, cornici avvolte nella tela, schizzi incominciati e abbandonati, drappeggi appesi sugli studi. Era molto stanco: gettò via il cappotto, posò distrattamente fra due piccole tele il ritratto che aveva portato con sé e si buttò su un basso divanetto del quale non si poteva dire che fosse foderato di pelle, perché la fila dei chiodini di rame che una volta la fissava, da tempo se ne stava per conto suo; anche la pelle rimasta attaccata ai chiodini si era rigonfiata per conto suo, tanto che Nikìta ci ficcava sotto calzini neri, camicie e tutta la biancheria sporca. Sedutosi e poi sdraiatosi per quanto ci si poteva sdraiare su quello stretto divano, egli chiese una candela.

"Di candele non ce n'è," disse Nikìta.

"Come non ce n'è?" "Da ieri non ce n'è," disse Nikìta.

Allora l'artista si ricordò che effettivamente anche la sera prima già mancavano le candele, si mise l'animo in pace e tacque. Si fece svestire e indossò il suo pigiama abbondantemente logoro.

"Ancora una cosa," disse Nikìta, "è venuto il padrone di casa." "E' venuto per i soldi. Lo so," disse l'artista con un gesto vago della mano.

"Ma non è venuto solo," disse Nikìta.

"E con chi?" "Non lo so con chi... credo una guardia." "E perché la guardia?" "Non so il perché; ha detto però che l'alloggio non è stato pagato." "E che vogliono allora?" "Io non so cosa vogliono; ha detto: 'Se non vuole pagare se ne vada allora dall'alloggio.' Torneranno tutt'e due domani." "Che tornino pure," disse con mesta indifferenza Cartkòv, e fu invaso da una profonda depressione.

Cartkòv era un artista di talento che prometteva molto: a tratti, a lampi il suo pennello rivelava spirito d'osservazione, acutezza, e un vivo slancio verso la natura.

"Bada, mio caro," gli aveva detto più d'una volta il professore, "hai del talento, sarebbe un peccato se tu lo rovinassi. Ma sei impaziente. Se qualcosa ti attrae e piace, tutto il resto non conta più nulla, nemmeno vuoi guardarlo. Sta attento a non diventare un pittore alla moda. Già adesso cominci a far gridare troppo il colore. Il tuo disegno non rigoroso, certe volte è persino debole, la linea non si vede; ti metti a correre dietro alla luce, secondo la moda, a ciò che colpisce di primo acchito; sta attento a non cadere nel genere inglese. Bada, il mondo comincia ad attirarti; ti vedo addosso un fazzoletto da elegantone, il cappello con il nastro... Ci si lascia andare a dipingere quadretti alla moda, ritrattini per far soldi. Ed il talento, anziché svilupparsi, viene meno. Pazienta. Rifletti su ogni lavoro, lascia stare l'eleganza, e che gli altri facciano pure quattrini. Ciò che hai di tuo non lo perderai mai." Il professore aveva solo in parte ragione. Effettivamente, certe volte al nostro artista veniva voglia di fare baldoria, di sfoggiare eleganza, insomma di mostrare in qualche modo la sua giovinezza. Ma, nonostante questo, sapeva anche dominarsi. A volte, prendendo in mano il pennello riusciva a dimenticare tutto e si staccava dalla tela come da un meraviglioso sogno interrotto a metà. Il suo gusto si sviluppava in modo sensibile. Non comprendeva ancora tutta la profondità di Raffaello, ma era già attratto dal pennello rapido e arioso di Guido Reni, si soffermava sui ritratti di Tiziano, s'entusiasmava ai Fiamminghi. Ancora l'aspetto annerito che avvolgeva i vecchi quadri gli faceva da schermo, ma già intuiva in essi qualcosa, sebbene intimamente non fosse d'accordo che i maestri antichi fossero ormai lontani da noi, gli sembrava che il diciannovesimo secolo in qualcosa li avesse notevolmente superati, che l'imitazione della natura si fosse fatta ora, in qualche misura, più evidente, più viva, più vicina. Insomma, a questo proposito pensava come la pensano i giovani che hanno già raggiunto qualcosa e lo avvertono nella loro orgogliosa coscienza. Talvolta s'indispettiva quando vedeva che un pittore di passaggio, francese o tedesco, in certi casi neanche pittore per vocazione, ma solo dotato di una maniera divenuta abitudine, suscitava con la destrezza del suo pennello e la vivacità dei colori un gran chiasso, e in un momento metteva da parte un grosso capitale. Ma era più facile per lui, tutto preso dal suo lavoro, dimenticarsi di bere, di mangiare, del mondo intero. Se alla fine non era più possibile ignorare la necessità, quando non poteva comperare pennelli e colori e l'ossessionante padrone di casa andava anche dieci volte al giorno a chiedere l'affitto dell'alloggio, nella sua immaginazione affamata si disegnava inevitabilmente la figura del pittore che si arricchiva; gli balenava persino un pensiero che spesso balena nella testa dei russi: abbandonare decisamente tutto e buttarsi allo sbaraglio.

In quel momento era in uno stato d'animo del genere.

"Sì! pazienza! pazienza!" mormorò con dispetto. "C'è pure un limite anche alla pazienza in fin dei conti! Pazienza! Con quali soldi pranzerò domani? Nessuno mi fa prestiti. E se portassi a vendere tutti i miei quadri e i miei disegni, per tutti insieme mi darebbero venti copechi. Mi sono serviti, certo, questo lo capisco: nessuno è stato fatto per caso, ognuno di essi mi ha insegnato qualcosa. Ma che vantaggio ne ho? Studi, tentativi, e saranno sempre studi, tentativi, e non ci sarà una fine. E chi li comprerà, dato che nessuno conosce il mio nome? A chi interessano i miei disegni che s'ispirano agli antichi, il mio incompiuto Amore di Psiche, la prospettiva della mia stanza o il ritratto del mio Nikìta, benché sia davvero migliore dei ritratti d'un qualsiasi pittore alla moda? Dunque? Perché mi tormento e seguito a fare esercizi come uno scolaretto quando potrei brillare non meno degli altri ed essere pieno di soldi come loro?" Detto questo, d'improvviso l'artista si mise a tremare e impallidì: protendendosi dalla tela posata a terra, lo fissava una faccia febbrilmente contratta. Due occhi terribili erano posati proprio su di lui, pronti a divorarlo; sulle labbra era dipinto l'ordine minaccioso di tacere. Spaventato, fu sul punto di gridare e chiamare Nikìta, che in anticamera aveva già cominciato a russare bellicosamente; ma poi, di colpo, si fermò e scoppiò a ridere. La sensazione di terrore si dileguò istantaneamente. Si trattava del ritratto che aveva acquistato e di cui s'era completamente dimenticato. La luce della luna, entrata nella stanza, era caduta sul ritratto e gli aveva conferito una strana vivezza. Cartkòv si accinse ad esaminarlo ed a pulirlo. Inzuppò nell'acqua una spugna, la passò varie volte sulla tela, ne tolse quasi tutta la polvere e il sudiciume che vi erano depositati sopra, lo appese davanti a sé alla parete e non poté fare a meno di meravigliarsi ancora di quell'opera straordinaria. Il volto sembrava vivo, e gli occhi lo guardavano in modo tale che, alla fine, egli trasalì e, indietreggiando, mormorò con voce stupita:

"Mi guarda, mi guarda con occhi umani!" D'improvviso gli venne in mente una storia udita molto tempo prima dal suo professore a proposito d'un ritratto del celebre Leonardo da Vinci, ritratto a cui il grande maestro aveva lavorato per anni e continuava a considerare non finito, mentre, secondo le parole del Vasari, era già da tutti riconosciuto come la migliore e la più completa opera d'arte. Più belli di tutto il resto erano gli occhi, che suscitarono la meraviglia dei contemporanei: persino le più sottili vene, quelle appena visibili, non erano state trascurate, ma rese sulla tela.

Comunque nel ritratto che adesso stava davanti a lui, c'era qualcosa di strano. Non era più arte: era qualcosa che pareva distruggere l'armonia del ritratto.

Erano occhi vivi, occhi umani! Sembrava fossero stati presi da un uomo vivente e messi lì. Non c'era nemmeno più il grande godimento che invade l'anima quando si guarda l'opera d'un artista, per quanto orribile sia il soggetto scelto; no, lì c'era come una sensazione morbosa, opprimente.

"Cos'è questo?" si domandò involontariamente l'artista. "Eppure è natura, natura vivente; perché dunque questa strana sensazione sgradevole? Forse che un'imitazione verista, troppo letterale della natura sia già una colpa, un grido stridente, disarmonico? O forse, se tratti un soggetto freddamente, senza sentimento, senza partecipazione, è naturale che esso si presenti nella sua realtà più orribile, non illuminata dalla luce dell'irraggiungibile pensiero che è nascosto in tutte le cose? Si presenti come la realtà che scoprirebbe chi, volendo carpire il segreto di una bellissima figura umana, si armasse d'un coltello, la sventrasse, e scoprisse un essere ripugnante? Perché anche la natura più semplice, più infima, appare in un artista in una certa luce e non genera alcuna impressione di disgusto; al contrario, sembra di provare di fronte ad essa godimento, e poi tutto scorre e si muove intorno a noi in modo più armonico e regolare? E perché, invece, la stessa natura in un altro artista sembra bassa, sudicia, sebbene anch'egli sia stato altrettanto fedele alla natura? Perché non c'è, non c'è quel qualcosa che illumina. E' come per un panorama: per quanto stupendo, gli manca sempre qualcosa se in cielo non c'è il sole." Si avvicinò nuovamente al ritratto per esaminare quegli occhi sorprendenti e notò allora con orrore che essi sembravano continuare a guardare proprio lui. Non si trattava più d'una copia della natura; era la strana vivezza che potrebbe illuminare la faccia d'un cadavere uscito dalla tomba. Fosse la luce della luna, che reca con sé il delirio del sogno e a tutto conferisce altre sembianze, opposte a quelle positive del giorno, o fosse un'altra causa, fatto è che ad un tratto, senza sapere il perché, egli aveva cominciato a provar terrore di restare solo nella stanza. Si allontanò in silenzio dal ritratto, voltandosi dall'altra parte e sforzandosi di non guardarlo, ma intanto, senza volerlo, sbirciava di traverso. Aveva paura persino di camminare per la stanza, perché aveva l'impressione che qualcuno si mettesse a camminargli dietro, e quindi di continuo, timorosamente, si voltava a guardare. Non era mai stato un pavido, ma la sua immaginazione e i suoi nervi erano delicati, e quella sera non sapeva spiegarsi nemmeno lui il suo timore. Si sedette in un angolo, ma anche da quel punto gli parve che da dietro le spalle qualcuno gli puntasse gli occhi addosso. Neanche il russare di Nikìta, che si udiva dall'anticamera, riusciva a scacciare il suo terrore. Finalmente si alzò, impaurito, senza alzare gli occhi, si ritirò dietro il paravento e si mise a letto. Attraverso le fessure del paravento vedeva la sua stanza illuminata dalla luna e vedeva anche il ritratto appeso proprio di fronte, sul muro. Quegli occhi si fissarono su di lui in un modo ancora più terribile, più carico di significato, e parve che volessero guardarlo per sempre.

Angosciato, si decise ad alzarsi dal letto, afferrò il lenzuolo e, accostatosi al ritratto, ve lo avvolse. Fatto questo, si mise a letto più tranquillo; cominciò a pensare alla povertà e al misero destino degli artisti, all'arduo cammino che lo attendeva nel mondo; e intanto i suoi occhi involontariamente guardavano attraverso una fessura del paravento il ritratto avvolto dal lenzuolo. Lo scintillio della luna rafforzava il biancore del lenzuolo, ed egli ebbe l'impressione che quegli occhi terribili avessero cominciato a brillare persino attraverso il lenzuolo.

Con terrore guardò più fissamente, come se volesse sincerarsi che si trattava d'una assurdità. Ma ecco che davvero... ecco che vede, vede chiaramente che il lenzuolo non c'è più... che il ritratto è scoperto e, oltrepassando tutto ciò che c'è intorno, guarda dritto verso di lui, guarda proprio dentro di lui... Gli si gela il cuore. E vede: il vecchio si è mosso e ad un tratto si è appoggiato alla cornice con entrambe le mani. Infine si solleva sulle braccia, allunga fuori le gambe, si stacca dalla cornice...

Attraverso la fessura del paravento non si vede ormai che la cornice vuota. Nella camera rintrona un rumore di passi, che si fa sempre più vicino, più vicino al paravento. Il cuore dell'artista cominciò a battere furiosamente. Con il respiro che gli mancava per il terrore aspettava che da un momento all'altro il vecchio si affacciasse a guardarlo da dietro il paravento. Avvenne proprio questo. S'affacciò da dietro il paravento e lo fissò, con quel viso bronzeo, muovendo i grandi occhi.

Cartkòv fece lo sforzo di gridare ma sentì di non avere voce; si sforzò di muoversi, di fare un movimento qualsiasi, ma le sue membra restarono ferme.

Con la bocca spalancata e il respiro mozzo fissava quel terribile fantasma, alto, avvolto da una specie d'ampia veste asiatica, aspettando di vedere che cosa avrebbe fatto. Il vecchio si sedette quasi ai suoi piedi e tirò fuori qualcosa di sotto le pieghe del suo ampio abito. Era un sacchetto. Lo slegò e, afferratolo per le due estremità, lo scosse: con un rumore sordo caddero a terra dei rotoli piuttosto pesanti simili a lunghe colonnine; ognuno era avvolto in una carta azzurra e su ognuno stava scritto: 1000 ducati. Con le sue lunghe mani ossute il vecchio cominciò a svolgere i rotoli. L'oro scintillò. Per quanto forti fossero la sensazione d'angoscia e il folle terrore dell'artista, egli si concentrò tutto sull'oro, che usciva dalle mani ossute, e scintillava, tintinnava con un suono squillante, e poi di nuovo s'avvolgeva in rotolo. A questo punto notò un involto che era rotolato più lontano dagli altri, proprio accanto a uno dei piedi del letto, vicino al capezzale. L'afferrò quasi convulsamente e, pieno di terrore, sperò che il vecchio non se ne fosse accorto. Il vecchio pareva molto occupato. Radunò tutti i suoi involti, li rimise nel sacco e, senza nemmeno dare un'occhiata a Cartkòv, scomparve dietro il paravento. Il cuore di Cartkòv batté forte quand'egli sentì risuonare nella stanza il fruscio dei passi che s'allontanavano. Strinse con più forza l'involto nella mano, tremando in tutto il corpo, e, a un tratto, sentì che i passi si avvicinavano di nuovo al paravento: evidentemente il vecchio s'era accorto che mancava un rotolo.

Eccolo: di nuovo lo fissava da dietro il paravento. Pieno di disperazione, Cartkòv strinse con tutta l'energia che aveva il rotolo nella mano, si sforzò di muoversi, gettò un grido e si svegliò. Era coperto da un sudore freddo; sentiva nel petto un'oppressione come se stesse per emettere l'ultimo respiro.

"Possibile che sia stato un sogno?" disse, afferrandosi la testa con tutte e due le mani. La tremenda vivezza della visione non somigliava ad un sogno... Da sveglio aveva visto il vecchio ritirarsi dentro la cornice, e gli era persino apparsa una falda dell'ampia veste; la sua mano serbava, come un istante prima, il senso preciso di qualcosa di pesante. La luce della luna rischiarava la stanza facendo emergere dagli angoli bui là una tela, qui una mano di gesso, o stivali sporchi. A questo punto si rese conto che non si trovava a letto, ma era in piedi, davanti al ritratto.

Come fosse arrivato sin lì, questo non riusciva assolutamente a capirlo.

Ancor più lo stupiva il fatto che il ritratto fosse scoperto e su di esso non vi fosse più il lenzuolo. Cartkòv fissò il quadro con immobile terrore e vide quei viventi occhi umani conficcarsi dritti nei suoi. Un freddo sudore gli coprì il viso; avrebbe voluto allontanarsi, ma sentiva che le sue gambe erano come inchiodate al pavimento.

E allora vide che non era più un sogno, che i lineamenti del vecchio si muovevano e le sue labbra cominciavano a protendersi verso di lui come se volessero succhiarlo... Con un urlo di disperazione fece un balzo indietro e si destò.

"Possibile che anche questo sia stato un sogno?" Con il cuore che gli batteva tanto da schiantarsi tastò con le mani intorno a sé.

Sì, era a letto ed esattamente nella stessa posizione in cui si era addormentato. Davanti a lui, il paravento: la luce della luna riempiva la stanza. Attraverso la fessura del paravento si vedeva il ritratto ben coperto dal lenzuolo, come lui stesso l'aveva avvolto. Dunque era stato un sogno! Ma la sua mano contratta provava ancora la sensazione di stringere qualcosa. Il battito del cuore era violento, pauroso; il peso sul petto insopportabile.

Puntò gli occhi sulla fessura e guardò attentamente il lenzuolo.

Ed ecco: vide chiaramente che il lenzuolo cominciava ad aprirsi, come se sotto di esso delle braccia si agitassero e si sforzassero di allontanarlo.

"Signore Iddio, ma cosa succede?" gridò egli facendosi disperatamente il segno della croce. E si svegliò. E dunque anche questo era stato un sogno!

Saltò giù dal letto, fuori di sé, senza sapere spiegare cosa gli stesse accadendo, se fosse l'oppressione d'un incubo o di un fantasma della casa, il delirio della febbre o uno spettro vivo.

Sforzandosi di calmare in qualche modo l'agitazione dello spirito e il sangue in tumulto che pulsava con ritmo frenetico in tutte le sue vene, si avvicinò alla finestra e aprì l'imposta. Il vento freddo e profumato lo rianimò. La luce della luna si posava ancora sui tetti e sui muri bianchi delle case, benché grandi nubi avessero cominciato a passare più frequenti nel cielo. Tutto era silenzio: da lontano giungeva il tintinnio della carrozza d'un vetturino che dormiva in qualche invisibile vicolo, in attesa d'un cliente ritardatario.

Sporgendo la testa dalla finestra guardò a lungo. Nel cielo si avvertivano già i segni dell'alba vicina; sentì infine che la sonnolenza lo prendeva, chiuse l'imposta, si allontanò dalla finestra, si buttò sul letto e ben presto sprofondò come morto nel sonno.

Si destò molto tardi e sentì una sensazione spiacevole come se avesse respirato a lungo aria malsana, e ne fosse quasi asfissiato: la testa gli doleva. Nella camera c'era una luce fioca: una sgradevole umidità era diffusa nell'aria e filtrava attraverso le fessure delle finestre, le pareti erano ricoperte di quadri e di tele preparate. Rannuvolato, scontento come un gallo bagnato, si sedette sul suo divano rotto non sapendo nemmeno cosa mettersi a fare... e rammentò tutto il sogno. Man mano che lo ricordava, gli si presentava all'immaginazione come qualcosa di penosamente vivo, così che cominciò persino a dubitare se si fosse trattato d'un sogno o d'un semplice delirio, o se non fosse stato qualcosa d'altro, magari un'apparizione. Tolto il lenzuolo, esaminò alla luce del giorno il terribile ritratto. Gli occhi, sì, colpivano per la loro insolita vivezza, ma egli non vi trovò nulla di particolarmente pauroso; soltanto, in un certo modo, gli lasciavano nell'anima una sorta d'impressione inspiegabile, sgradevole. Però, malgrado tutto, non riusciva a convincersi che si fosse trattato d'un sogno. Gli pareva che in mezzo al sogno ci fosse qualcos'altro, una specie di spaventoso frammento di realtà.

Gli pareva che persino nello sguardo e nell'espressione del vecchio qualcosa, non so come, rivelasse che egli era stato da lui quella notte. La sua mano serbava l'impressione di qualcosa di pesante, che qualcuno gli aveva strappato via non più d'un minuto prima. Gli pareva che se solo avesse tenuto un po' più forte il rotolo, esso gli sarebbe rimasto in mano anche dopo il risveglio.

"Dio mio, avere anche soltanto una parte di quei soldi!" disse dopo un profondo sospiro, e nella sua immaginazione cominciarono a riversarsi dal sacco tutti i rotoli su cui aveva visto la scritta seducente: 1000 ducati.

I rotoli si aprivano, l'oro scintillava, poi si riavvolgevano, e lui sedeva, gli occhi immobili e insensati fissi nel vuoto, incapace di distaccarsi da quella vista, come un bambino che sta seduto di fronte a un dolce e, inghiottendo saliva, vede che altri se lo mangiano. Finalmente alla porta risuonò un colpo che lo costrinse a tornare sgradevolmente in sé. Entrò il padrone di casa con il commissario del quartiere, la cui comparsa, com'è noto, è per la piccola gente ancora più spiacevole di quanto sia per i ricchi la faccia d'un questuante. Il padrone dell'appartamento in cui abitava Cartkòv era del genere di tutti i proprietari di case situate nella quindicesima linea dell'isola Vasilièvskij, o nel quartiere Peterbùrgskij o nella parte più remota del quartiere Kolòmna, un essere come in Russia ce ne sono in quantità e il cui carattere è tanto difficile da definire quanto il colore d'una giacca troppo usata. Nella sua giovinezza era stato un urlante capitano, poi aveva svolto anche funzioni civili, era un maestro nel fustigare, un uomo accorto, ed un elegantone. In definitiva uno stupido; ma in vecchiaia tutte queste particolarità si erano fuse in un'opaca indeterminatezza. Vedovo, ormai in pensione, aveva perso ogni pretesa d'eleganza, non si vantava, non si dava arie, gli piaceva semplicemente bere il tè chiacchierando d'ogni sciocchezza; passeggiava per la stanza, rimetteva a posto il mozzicone della candela di sego. Accuratamente, allo scadere d'ogni mese, si faceva vedere dai suoi inquilini per intascare l'affitto, usciva in strada con la chiave in mano per guardare il tetto della sua casa; aveva cacciato varie volte il portiere dal suo covo, dove si nascondeva per dormire; insomma, era un tipo di pensionato a cui, dopo tutta una vita sregolata e gli scossoni delle carrozze di posta, restavano solamente abitudini meschine.

"Degnatevi voi stesso di vedere, Varùch Kuzmìc," disse il padrone rivolgendosi al commissario del quartiere e allargando le braccia, "non mi paga l'alloggio, non paga." "Che posso farci, se non ho soldi? Aspettate e pagherò." "Io, carissimo, non posso aspettare," disse il padrone furioso, facendo un gesto con la chiave che teneva in mano, "da me ci vive il colonnello Potogònkin, ci vive già da sette anni; Anna Petròvna Buchmistèrova affitta pure la rimessa e la stalla, due stallaggi, ha tre persone di servizio: ecco che inquilini ho io. Io, per dirvela sinceramente, non ho una stanza dove non si paghi l'affitto. Degnatevi di pagare immediatamente oppure d'andarvene a spasso." "Già, dato che così è stabilito, vedete di pagare," disse il commissario del quartiere, scuotendo leggermente la testa e posando un dito su un bottone della sua uniforme.

"E con cosa pago? è una parola! Attualmente non ho neppure un centesimo." "In tal caso, potreste soddisfare Ivàn Petròvic con i prodotti della vostra professione," disse il commissario, "forse lui accetta di prendere dei quadri." "No, bàtiuska, per i quadri tante grazie. Fossero almeno dei quadri con un contenuto virtuoso, da potere appendere alle pareti, magari un generale con una decorazione o un ritratto del principe Kutuzòv; no, lui si mette a disegnare un contadino, un contadino in camiciotto, il servitore che gli mescola i colori! Doveva fare proprio il ritratto di quel maiale! Io gli torco il collo, perché m'ha strappato tutti i chiodi dai chiavistelli, farabutto! Ecco, guardate che soggetti: disegna la stanza! Almeno avesse scelto la camera bella in ordine, rassettata, no, ecco come l'ha disegnata:

con tutte le cianfrusaglie e la sporcizia che c'è intorno.

Guardate come mi ha insudiciato tutta la stanza; degnatevi voi stesso di constatare. Ma da me vivono inquilini già da sette anni, colonnelli, la Buchmistèrova Anna Petròvna... No, ve lo dico io, non c'è inquilino peggiore d'un pittore: vive come un porco, davvero come un pagano." Il povero Cartkòv stava ad ascoltare con rassegnazione. Nel frattempo il commissario del quartiere si era messo ad esaminare i quadri e i disegni; pareva avere un'anima più ricettiva di quella del padrone, persino non insensibile all'arte.

"Eh," disse, puntando il dito su una tela dov'era raffigurata una donna nuda, "un soggetto, direi... giocoso. E perché qui è così scuro? Si rimpinzava di tabacco, forse?" "E' un'ombra," rispose severamente Cartkòv senza rivolgergli lo sguardo.

"Beh, si poteva mettere in qualche altro posto, perché sotto il naso è un posto troppo in vista," disse il commissario, "e questo ritratto di chi è?" proseguì avvicinandosi al ritratto del vecchio, "questo, poi, è proprio spaventoso. Chissà se è stato davvero così terribile! Accidenti, sembra proprio che guardi. Eh, che razza di Capitan Tempesta! A chi l'avete fatto?" "Ah, questo, a un..." disse Cartkòv, ma non terminò la frase: si udì uno scricchiolio.

Evidentemente il commissario a causa delle sue rudi mani poliziesche aveva stretto con troppa forza la cornice del ritratto; le assicelle laterali si ruppero, una di esse cadde sul pavimento e, insieme ad essa, cadde con un pesante tintinnio un rotolo di carta blu. A Cartkòv balzò subito agli occhi la scritta:

1000 ducati. Come un forsennato si precipitò a raccattare il rotolo, l'afferrò e lo strinse febbrilmente nella mano che si abbassò per il peso.

"A quanto pare sono soldi che hanno fatto quel tintinnio," disse il commissario del quartiere che aveva udito il rumore, ma non aveva fatto in tempo a vedere di che si trattasse per la rapidità con cui Cartkòv s'era precipitato a raccattare.

"E a voi che importa sapere cosa sono?" "Importa per il fatto che adesso voi dovete pagare il padrone per l'alloggio; che avete soldi, ma non volete pagare, ecco com'è." "D'accordo, pagherò oggi." "Bene. E perché non avete voluto pagarlo prima, causando fastidio al padrone e mettendo in allarme anche la polizia?" "Perché non volevo toccare questi soldi; questa sera gli pagherò tutto e me ne andrò dall'alloggio domani stesso, perché non voglio restare presso un simile padrone." "Orsù, Ivàn Ivànovic, vi pagherà," disse il commissario rivolgendosi al padrone. "Ma se stasera stessa non doveste essere soddisfatto come si deve, allora, signor pittore, ci scuserete..." Detto questo, si mise il suo tricorno, e uscì nel vestibolo; dietro di lui uscì il padrone con la testa bassa e, almeno sembrava, con l'aria alquanto meditabonda.

"Grazie a Dio, che il diavolo se li porti!" disse Cartkòv non appena udì chiudersi la porta dell'anticamera.

Diede un'occhiata in anticamera, mandò via Nikìta per qualche faccenda in modo da essere completamente solo, chiuse alle sue spalle la porta, e, ritornato nella sua stanza, con il cuore in tumulto si accinse a svolgere il rotolo.

Era pieno di ducati, tutti nuovi dal primo all'ultimo, brillanti come il fuoco. Quasi impazzito, sedette davanti al mucchietto d'oro, chiedendosi ancora se tutto non fosse un sogno.

Nell'involto ce n'erano esattamente mille; e avevano lo stesso aspetto di come li aveva sognati. Per alcuni minuti li contò, li esaminò, e non riusciva ancora a tornare in sé. Nella sua immaginazione riemersero a un tratto tutte le storie di tesori, di scrigni con cassettini segreti, lasciati dagli avi per i loro nipoti in miseria, nella ferma convinzione della loro futura situazione fallimentare.

Pensava: forse anche adesso qualche nonnino avrà l'idea di lasciare a suo nipote un regalo nascondendolo nella cornice d'un ritratto di famiglia.

Pieno di romantico delirio, si mise persino a pensare se non ci fosse qualche misterioso nesso con il suo destino, se l'esistenza del ritratto non si legasse con la sua esistenza, e lo stesso acquisto non fosse già una sorta di predestinazione. Esaminò con curiosità la cornice del ritratto. In un fianco era stato intagliato un incavo, nascosto da un'assicella in modo così abile e invisibile che se la mano robusta del commissario del quartiere non avesse provocato la rottura, i ducati se ne sarebbero rimasti tranquilli in quel posto fino alla fine dei secoli. Esaminando il ritratto, si meravigliò di nuovo per la perfezione dell'opera, per la straordinaria fattura degli occhi: non gli sembravano più così terribili, eppure ogni volta che li guardava gli restava nell'anima, senza che lo volesse, una sensazione spiacevole.

"Bene," disse a se stesso, "chiunque tu fossi, nonnino, io ti metterò sotto vetro e ti farò una cornice d'oro." A questo punto la sua mano si appoggiò sul mucchio d'oro che gli stava dinanzi e a questo contatto il cuore gli batté con forza.

"Cosa farne?" pensò, fissandovi sopra gli occhi. "Adesso sono tranquillo almeno per tre anni; posso chiudermi in una stanza, lavorare. Ce n'è per i colori, per il mangiare, per il tè, per il mantenimento, per l'alloggio; nessuno ora verrà più a disturbarmi e a seccarmi: mi comprerò un ottimo manichino, ordinerò un busto di gesso, modellerò dei piedi, mi metterò qui una Venere, mi comprerò le riproduzioni dei principali quadri. E se lavorerò tre anni per me stesso, senz'aver fretta, non per vendere, supererò tutti e potrò diventare un grande artista." Così parlava secondo quanto gli suggeriva la ragione; ma dentro di lui risuonava un'altra voce più forte e più chiara. E quando diede ancora una volta un'occhiata all'oro, ecco che in lui cominciarono a far sentire la loro voce i ventidue anni e la giovinezza. Adesso era in suo potere tutto ciò a cui sinora aveva guardato con occhi pieni d'invidia, che aveva ammirato da lontano, inghiottendo saliva.

Come gli batté il cuore! Indossare un frac alla moda, mangiare a volontà dopo lunghi digiuni, prendere in affitto un appartamento di lusso, andare subito a teatro, in pasticceria... e tutto il resto.

Eccolo già in strada. Prima di tutto andò da un sarto, si rivestì da capo a piedi, e, come un bambino, non si stancava di ammirarsi; comprò dei profumi, delle pomate; senza contrattare prese in affitto il primo sontuoso appartamento che gli capitò sulla Prospettiva Nevskij, con specchi e vetri intatti. In un negozio comprò un costoso occhialino, in un altro, sempre con grande disinvoltura, un mucchio di cravatte d'ogni sorta, più di quante gliene occorressero; da un barbiere si fece fare i riccioli, per due volte fece il giro della città in carrozza senza alcun motivo, si rimpinzò di dolciumi in una pasticceria e poi andò in un ristorante francese del quale fino allora aveva sentito parlare in modo non meno vago che dell'impero cinese. Pranzò dandosi delle arie, gettando sguardi sdegnosi verso gli altri e aggiustandosi di continuo i riccioli davanti allo specchio. Bevve una bottiglia di champagne; anche di questo, fino allora, ne sapeva solo per sentito dire. Uscì in strada, vivace, pimpante. Secondo il detto russo: un vero diavolaccio. Prese a camminare sul marciapiede come un galletto, puntando su tutti il suo occhialino. Sul ponte vide il suo professore e sgattaiolò baldanzosamente davanti a lui come se non l'avesse notato affatto, tanto che il professore, allibito, rimase per un bel pezzo a guardarlo con la faccia a punto interrogativo. Tutti gli oggetti e quanto possedeva: cavalletto, tela, quadri furono trasportati quella sera stessa nell'appartamento sontuoso. Dispose quanto aveva di meglio nei punti in vista, gettò in un angolo le cose peggiori e si mise a passeggiare per le stupende stanze sbirciandosi continuamente nello specchio. Nella sua anima nacque il desiderio invincibile di afferrare subito la gloria per la coda e di mostrarsi al mondo.

Già gli pareva di sentir gridare: "Cartkòv! Cartkòv! Avete visto il quadro di Cartkòv? Che pennello veloce ha quel Cartkòv! Che genio quel Cartkòv!" Camminava per la stanza in uno stato d'esaltazione, sentendosi trasportare chissà dove. Il giorno seguente, presa una decina di ducati, si diresse dal direttore di un giornale di larga diffusione chiedendo una disinteressata collaborazione; fu accolto cordialmente dal giornalista che subito lo chiamò "riveritissimo", gli strinse tutt'e due le mani, gli domandò dettagliatamente nome, patronimico, indirizzo; e il giorno dopo apparve sul giornale, subito dopo la notizia di certe candele di sego di nuova invenzione, un articolo dal seguente titolo:

"Le straordinarie doti di Cartkòv" Ci affrettiamo a far cosa gradita agli abitanti istruiti della capitale informandoli d'una scoperta che, possiamo dire, è meravigliosa sotto tutti gli aspetti. Tutti sanno che da noi esistono meravigliose fisionomie e meravigliosi volti, ma finora non c'era il mezzo di riportarli sulla tela al fine di trasmetterli alla posterità; adesso questa lacuna è stata colmata:

s'è trovato un artista che possiede quanto necessario. Ora una bella donna può essere sicura d'essere riprodotta in tutta la grazia della propria venustà, aerea, leggera, incantevole, leggiadra, simile alle farfalle che volteggiano fra i fiori di primavera. Il riverito padre di famiglia si vedrà circondato dai suoi cari. Un mercante, un guerriero, un cittadino, un uomo di stato: ciascuno con nuovo zelo continuerà ad esser vivo nella sua opera. Affrettatevi, affrettatevi, accorrete dal passeggio, sia che siate in strada per andare da un amico, o da una cugina, o in un negozio alla moda, affrettatevi, dovunque vi troviate. Lo stupendo studio dell'artista (Prospettiva Nevskij, numero tale) è tutto tappezzato di ritratti usciti dal suo pennello degno dei Van Dick e dei Tiziano. Non si sa di che cosa più stupirsi, se della fedeltà e della somiglianza agli originali o della straordinaria freschezza del pennello. Lode a te, artista. Tu hai estratto il biglietto vincente della lotteria. Vivat, Andrèj Petròvic (il giornalista, come si vede, amava la familiarità)! Copri di gloria te stesso e noi! Sapremo apprezzarti. L'affluenza generale e, insieme ad essa, il denaro - benché certuni della nostra confraternita giornalistica parlino male di esso - saranno la tua ricompensa!

L'artista lesse quest'articolo con segreto piacere; la sua faccia era raggiante. Di lui, dunque, si parlava sulla stampa: questa era una novità. Lesse e rilesse svariate volte quelle righe. Il paragone con Van Dick e con Tiziano lo lusingò. La frase "Vivat, Andrèj Petròvic!" gli piacque anch'essa moltissimo; sulla stampa lo chiamavano per nome e patronimico: un onore che finora gli era completamente sconosciuto.

Cominciò a camminare a passi rapidi per la stanza, scompigliandosi i capelli, sedendosi ora su una seggiola, poi balzando su e sedendosi sul divano, immaginando continuamente come avrebbe ricevuto i visitatori e le visitatrici. Agitato, si avvicinava ad una tela e vi tracciava un'ardita pennellata, cercando di conferire un movimento aggraziato alla mano.

Il giorno dopo suonò il campanello della sua porta; egli corse ad aprire; entrò una signora accompagnata da un lacchè con un cappotto di pelliccia e, insieme con la signora, una giovane fanciulla diciottenne, sua figlia.

"Voi siete monsieur Cartkòv?" disse la signora.

L'artista s'inchinò.

"Di voi scrivono moltissimo; i vostri ritratti, si dice, sono la perfezione stessa." Detto questo, la signora portò l'occhialino al naso e corse a esaminare rapidamente le pareti sulle quali però non c'era nulla. "Ma dove sono i vostri ritratti?" "Li hanno portati via," disse l'artista confondendosi un poco, "ho traslocato appena adesso in quest'appartamento, così sono ancora in viaggio... non sono ancora arrivati." "Eravate in Italia?" disse la signora puntando l'occhialino su di lui dato che non aveva altro da esaminare.

"No, non ci sono stato, ma volevo andarci... insomma, per il momento ho rimandato... Ecco una poltrona, sarete stanca... " "Grazie, sono rimasta a lungo seduta in carrozza. Ah, ecco, finalmente vedo un vostro lavoro!" disse la signora correndo verso la parete di fronte e puntando l'occhialino sui suoi studi, programmi, prospettive e ritratti che stavano sul pavimento:

"C'est charmant, Lise, Lise, venez ici: un interno nel gusto di Ténié, vedi: disordine, disordine, un tavolo, su di esso un busto, una mano, una tavolozza; ecco la polvere, vedi com'è disegnata la polvere! C'est charmant. Ed ecco su quell'altra tela una donna che si lava la faccia, quelle jolie figure! Ah, un contadinello! Lise, Lise, un contadinello in camicia russa! Guarda: un contadinello!

Dunque voi, non fate solo ritratti?" "Oh, queste sono sciocchezze... Così, per gioco... Sono studi... " "Dite, che opinione avete dei ritrattisti d'oggi? Non è vero che oggi non ne esistono più come Tiziano? Niente forza nel colore, non c'è nulla... che peccato che io non sappia esprimervi in russo quel che penso." La signora era un'appassionata di pittura e aveva fatto il giro di tutte le gallerie dell'Italia con il suo occhialino. "E tuttavia monsieur Nol... ah, come dipinge! Pennello straordinario! Io trovo che c'è persino più espressione nei suoi visi che in quelli di Tiziano. Voi non conoscete monsieur Nol?" "Chi è?" domandò l'artista.

"Monsieur Nol. Ah, che ingegno! Ha dipinto il suo ritratto quando aveva dodici anni. Bisogna che voi veniate assolutamente a casa nostra. Lise, gli mostrerai il tuo album. Sapete, siamo venute perché voi cominciate immediatamente il suo ritratto." "Certo, posso cominciare subito." E, in un istante, avvicinò il cavalletto con una tela già pronta, prese in mano la tavolozza, fissò lo sguardo nel volto pallido della figlia. Se fosse stato un conoscitore della natura umana, vi avrebbe letto a prima vista il nascere d'una passione infantile per i balli, la noia per la lunghezza del tempo prima di pranzo e dopo il pranzo, il desiderio di correre alla passeggiata con un abito nuovo, le tracce pesanti di un'applicazione alle varie arti che la lasciava del tutto fredda, ma era suggerita dalla madre per elevare l'anima e i sentimenti. Invece, in quel tenero visetto l'artista vide soltanto la trasparenza di porcellana dell'incarnato, un lieve affascinante languore, il sottile collo luminoso e l'aristocratica sottigliezza della vita. Già in anticipo si preparava a trionfare, a mostrare come fosse delicato e brillante il suo pennello, che finora aveva avuto a che fare solo con i lineamenti duri di rozzi modelli, con i severi antichi e con le copie dei maestri classici. Già s'immaginava come gli sarebbe riuscito quel volto delicato.

"Sapete," disse la signora con un'espressione del volto quasi commovente, "vorrei... adesso lei ha quest'abito. Lo confesso, vorrei che adesso non indossasse proprio questo che conosciamo troppo bene; vorrei che fosse vestita in modo semplice e sedesse all'ombra degli alberi, sullo sfondo dei campi, che ci fosse un gregge in lontananza, oppure un bosco... che non avesse l'aria di stare andando da qualche parte come a un ballo o a una serata brillante. I nostri balli, lo riconosco, uccidono in tale modo l'anima, in tale modo mortificano ogni residuo di sentimento... di semplicità, ci vorrebbe più semplicità." Cartkòv si mise all'opera, fece sedere la signorina, stabilì mentalmente cosa dovesse fare; mosse nell'aria il pennello fissando nella sua mente i punti; socchiuse un occhio, indietreggiò, guardò da lontano e nello spazio di un'ora incominciò e terminò il primo abbozzo. Soddisfatto, si mise a dipingere; il lavoro lo ispirava. Aveva dimenticato tutto, scordato persino di essere in presenza di dame aristocratiche, esibendo ogni tanto certi modi da pittore, pronunciando ad alta voce vari suoni, talvolta canterellando, come accade a un artista immerso con tutta l'anima nel suo lavoro. Senza nessuna cerimonia, solo con un movimento del pennello indicava alla modella dove dovesse sollevare il capo, sinchè la fanciulla cominciò ad agitarsi e a dare segni di stanchezza.

"Basta per la prima volta, basta," disse la signora.

"Ancora un poco," disse l'artista dimentico di tutto.

"No, basta! Lise, tre ore!" disse la signora estraendo un piccolo orologio appeso con una catenella d'oro alla cintura, e aggiunse con un gridolino:

"Ah, com'è tardi!" "Solo un momentino ancora," disse Cartkòv con la voce ingenua e supplichevole d'un bambino.

La signora non era affatto disposta a compiacere le sue esigenze artistiche, ma promise di rimanere più a lungo un'altra volta.

"Però è seccante," pensò fra sé Cartkòv, "m'ero appena sciolta la mano." Si ricordò che nessuno lo interrompeva, né lo fermava quando lavorava nel suo studio all'isola Vasilièvskij. Nikìta di solito se ne stava seduto senza muoversi sempre nello stesso posto, lo si poteva dipingere quanto si voleva, dato che lui si addormentava addirittura nella posizione che gli era stata ordinata. Scontento, posò il suo pennello e la tavolozza sulla sedia e si fermò torvo davanti alla tela.

Un complimento detto dalla dama di mondo lo fece riavere dal suo torpore. Si precipitò svelto verso la porta per accompagnarle; sulle scale fu invitato ad andare a pranzo da loro la settimana successiva, e ritornò allegro nella sua stanza. L'aristocratica signora l'aveva affascinato. Sino a quel momento aveva guardato le persone di quel genere come qualcosa d'inaccessibile, nate solamente per correre in belle carrozze con lacchè in livrea e un cocchiere azzimato, gettando sguardi indifferenti su chi arrancava a piedi con un modesto paltoncino. Ed ecco che, tutt'a un tratto, una di queste persone era entrata nella sua stanza; egli ne faceva il ritratto, era invitato a pranzo in una casa aristocratica. Una contentezza insolita s'impadronì di lui; era completamente inebriato e per questo si premiò con un sontuoso pranzo e con uno spettacolo serale; poi, di nuovo, senza alcun bisogno, andò in giro in carrozza per la città.

Nelle giornate successive trascurò del tutto il consueto lavoro.

Non fece altro che prepararsi e attendere il momento in cui avrebbe sentito suonare il campanello. Finalmente l'aristocratica dama e la sua pallida figlia arrivarono. Le fece accomodare, si avvicinò alla tela ormai con disinvoltura e con una certa pretesa di maniere mondane, e si mise a dipingere. La giornata piena di sole e di vivida luce gli furono di grande aiuto. Nel suo originale vedeva molte cose che, una volta colte e rese sulla tela, avrebbero potuto conferire un alto pregio al ritratto; vedeva che ne sarebbe uscito qualcosa di speciale se avesse eseguito tutto con la perfezione con cui in quel momento gli si presentava il modello.

Il cuore cominciò a battergli forte quando sentì che stava esprimendo qualcosa che gli altri non avevano ancora notato. Il lavoro lo prese interamente ed egli si immerse tutto nel pennello, dimenticandosi di nuovo dell'aristocratica origine della sua modella. Sentiva di cogliere ogni sfumatura, un giallo leggero, un turchino appena visibile sotto gli occhi e già si preparava a dipingere persino un piccolo foruncoletto spuntato sulla fronte, quando a un tratto udì sopra di sé la voce della madre:

"Ah, questo perché? Questo non è necessario," disse la signora. "E poi... ecco, in certi punti... c'è un pò troppo giallo, e qui, ecco, non mi piacciono queste macchioline scure." L'artista spiegò che proprio quelle macchioline e quel giallo rendevano l'effetto, davano un tono naturale e leggero al viso. Ma gli fu risposto che non davano nessun tono e che non avevano nulla a che vedere con l'effetto, e che quelle erano semplicemente sue impressioni.

"Permettete che almeno qui, solo in questo punto, ritocchi leggermente con un po' di giallo," disse ingenuamente l'artista.

Non gli fu permesso nemmeno questo. Dissero che Lise quel giorno era soltanto un poco indisposta e che non aveva nessun giallore e il suo viso colpiva specialmente per la freschezza del colorito.

Con tristezza egli cominciò a cancellare ciò che il suo pennello aveva fatto emergere dalla tela. Scomparvero molti tratti quasi impercettibili e, insieme con essi, in parte scomparve anche la somiglianza. Senza alcuna partecipazione diede al ritratto quel colore generale che si dà a memoria e fa apparire i visi colti dal vero simili a quelli ideati a freddo che si vedono nelle esercitazioni degli allievi. La signora era soddisfatta che l'offensivo colorito di prima fosse stato eliminato. Manifestò solo meraviglia che il lavoro durasse tanto e aggiunse d'aver sentito dire che lui in due sedute poteva finire un ritratto.

L'artista non seppe che cosa rispondere. Le due donne si accinsero ad uscire. Egli posò il pennello, le accompagnò alla porta, poi si fermò a lungo immobile e torvo davanti al ritratto. Lo guardava ottusamente e nella sua testa rivedeva intanto quei lievi tratti femminili, quelle sfumature e quei toni aerei che il suo pennello aveva colti, e poi spietatamente cancellati. Mise il ritratto in disparte e cercò fra le sue cose una piccola testa di Psiche abbandonata, che una volta, molto tempo prima, aveva abbozzato sulla tela. Era una testa dipinta abilmente, ma del tutto ideale, fredda, fatta soltanto di lineamenti generici, una cosa priva di vita. Prese a ritoccarla, trasferendovi tutto ciò che aveva notato nel volto della sua aristocratica modella. I tratti, le sfumature, i toni che egli aveva colto si deponevano ora qui nella forma pura in cui essi appaiono quando l'artista, dopo aver guardato a sufficienza la natura, se ne distacca e crea qualcosa pari ad essa. La Psiche cominciò ad acquistare vita e l'idea appena trapelata a poco a poco prese corpo. Senza che lui lo volesse, il tipo di volto d'una fanciulla della buona società si trasmise alla testa di Psiche, che grazie a ciò acquistò quella particolare espressione, tutta sua, che distingue una vera opera d'arte. Era come se il pittore avesse fuso varie parti nell'insieme presentatogli dall'originale, integrando alla perfezione ogni particolare nella sua opera. Per alcuni giorni non si occupò d'altro.

L'arrivo delle signore lo colse intento a questo lavoro. Non fece in tempo a togliere dal cavalletto il quadro. Entrambe levarono un gioioso grido di stupore e batterono le mani.

"Lise! Lise! Ah, che somiglianza! Superbe, superbe! Che bell'idea avete avuto di abbigliarla in costume greco. Ah, che sorpresa!" L'artista non sapeva come spiegare alle signore il piacevole equivoco. Vergognoso, con la testa bassa, disse sommessamente:

"E' una Psiche." "In veste di Psiche? C'est charmant!" disse la madre con un sorriso. Sorrise pure la figlia. "Non è vero, Lise, che a te più di tutto s'addice d'essere dipinta in veste di Psiche? Quelle idée délicieuse! Ma che lavoro! è un Correggio. Lo confesso, avevo letto e sentito di voi, ma non pensavo che aveste un simile talento. No, dovete assolutamente fare il ritratto anche a me." "Cosa devo fare?" pensò l'artista, "se lo vogliono, che la Psiche passi pure per ciò che vogliono," e ad alta voce disse: "Cercate di posare ancora un poco; farò qualche ritocco." "Ah, ho paura che voi... è tanto somigliante così!" L'artista capì che i timori riguardavano il giallo e la tranquillizzò, dicendo che voleva solo dare più brillantezza ed espressione agli occhi. In realtà, però, provava vergogna e voleva conferire al ritratto almeno un pò più di somiglianza con l'originale per non essere considerato uno spudorato. In effetti i lineamenti della pallida fanciulla cominciarono infine ad uscire più distinti dalla testa di Psiche.

"Basta!" disse la madre che cominciava ad aver paura che la somiglianza risultasse alla fine troppo accentuata.

L'artista fu ricompensato in ogni modo: sorrisi, denari, complimenti, sincere strette di mano, inviti a pranzo; insomma, ricevette mille attestati lusinghieri. Il ritratto fece scalpore in città. La signora lo mostrò alle sue amiche; tutte si stupirono dell'arte con cui il pittore aveva saputo conservare la somiglianza e nello stesso tempo aggiungere bellezza all'originale. Quest'ultima cosa, s'intende, fu osservata non senza una leggera sfumatura d'invidia. L'artista si trovò ad un tratto sommerso dalle richieste. Sembrava che tutta la città volesse farsi il ritratto da lui. Alla porta il campanello trillava di continuo. Da una parte ciò poteva essere un bene, in quanto la varietà e la moltitudine delle fisionomie offriva grandi possibilità di far pratica. Ma, disgraziatamente, si trattava sempre di persone con le quali era difficile lavorare in pace:

gente frettolosa, occupata, o appartenente all'alta società, ossia più affaccendata di chiunque altro, e perciò estremamente impaziente. Tutti chiedevano soltanto che il lavoro fosse fatto presto e bene. L'artista vide che rifinire era assolutamente impossibile, che tutto si doveva compensare con l'abilità e l'audace rapidità del pennello. Afferrare soltanto l'insieme, l'espressione generale, e non approfondire i dettagli minuti:

insomma, seguire la natura nei suoi particolari era assolutamente impossibile. Si deve inoltre aggiungere che quasi tutti coloro che si facevano fare il ritratto avevano anche altre pretese. Le signore esigevano che nei loro ritratti fossero messi in evidenza l'anima e il carattere, che il rimanente magari non vi apparisse affatto, che tutti gli angoli venissero arrotondati, tutti i difetti attenuati e persino, se possibile, ignorati. Insomma, che il loro volto apparisse almeno guardabile, se non tale da far innamorare. Di conseguenza, sedendosi per posare, esse assumevano talvolta delle espressioni che gettavano nello stupore l'artista:

una si sforzava di atteggiare il viso a malinconia, un'altra prendeva un'aria sognante, un'altra ancora voleva rimpicciolire la bocca e la stringeva talmente che alla fine essa diventava un puntino grande come una capocchia di spillo. Nonostante tutto questo, esigevano da lui somiglianza e spontanea naturalezza. Gli uomini non erano affatto meglio delle signore. Uno esigeva che lo si raffigurasse con un atteggiamento forte, energico del capo; un altro con gli occhi ispirati rivolti in alto; il colonnello della guardia voleva assolutamente che nel suo sguardo si vedesse Marte; un altro dignitario civile si preoccupò che sul suo viso apparissero una grande dirittura e nobiltà e che la sua mano poggiasse sopra un libro dov'era scritto a grandi lettere: "Fu sempre per la verità".

Queste richieste ponevano dei problemi su cui si doveva pensare, riflettere, e gli si concedeva invece così poco tempo. Ma alla fine capì meglio la situazione e non si affaticò più di tanto.

Bastavano due o tre parole per fargli comprendere come una persona volesse venir raffigurata. Volevano Marte? lui gli stampava Marte in faccia; puntavano a Byron? lui dava un atteggiamento byroniano.

Se le signore volevano essere una Korina, un'Ondina, un'Aspasia, lui acconsentiva di buon grado a tutto e, da parte sua, aggiungeva per ognuno una buona dose di avvenenza, cosa che, com'è noto, non guasta mai e talvolta fa perdonare all'artista anche il difetto di somiglianza. Ben presto cominciò egli stesso a meravigliarsi della stupefacente rapidità e dell'ardire del proprio pennello. I clienti erano entusiasti e lo proclamarono genio.

Cartkòv diventò un pittore alla moda sotto tutti gli aspetti.

Cominciò a frequentare i pranzi, ad accompagnare le signore nelle gallerie e persino a passeggio, a vestirsi da dandy e ad affermare apertamente che un artista deve far parte del bel mondo, tenere alto il proprio titolo, mentre di solito i pittori si vestono come calzolai, non sanno comportarsi ammodo, non hanno stile e sono privi d'ogni educazione. A casa sua e nello studio aveva introdotto grande ordine e pulizia, assunse due magnifici servitori, si circondò di eleganti allievi; si cambiava d'abito varie volte al giorno, si faceva i riccioli, cercava di ricevere sempre meglio i suoi visitatori, di abbellire in ogni modo il proprio aspetto per produrre un'impressione gradevole sulle signore. Insomma, ben presto non si sarebbe assolutamente più riconosciuto in lui l'artista che una volta lavorava inosservato nella sua stamberga dell'isola Vasilièvskij. Sugli artisti e l'arte adesso si esprimeva con asprezza: affermava che agli artisti del passato si attribuiva in fin dei conti troppo valore, che tutti loro fino a Raffaello non dipingevano figure ma aringhe; che era solo una fantasia degli osservatori l'idea che in esse si sentisse la presenza della santità; che lo stesso Raffaello non aveva poi dipinto tutto bene e che molte delle sue opere dovevano la loro gloria soltanto alla leggenda. Michelangelo era un borioso che non pensava ad altro che a farsi bello della sua cultura anatomica, ma era del tutto privo di grazia; e che il vero fulgore, la forza del pennello e dei colori si trovano soltanto adesso, nel nostro secolo. Naturalmente, quasi senza apparire, la cosa arrivava a toccarlo da vicino.

"No, io non capisco," diceva, "l'ostinazione di alcuni a faticare e sgobbare davanti ad un'opera. Chi studia per mesi e mesi un quadro, per me non è un artista ma un lavoratore. Non posso credere che abbia dell'ingegno. Il genio crea audacemente, velocemente. Ecco, guardate me," diceva di solito rivolgendosi ai visitatori, "questo ritratto l'ho dipinto in due giorni, questa piccola testa in un giorno, questo qui in qualche ora, quest'altro in un'ora o poco più. No, io... io, lo confesso, non considero arte ciò che viene modellato linea per linea; è mestiere, non arte." Così parlava ai suoi visitatori, e i visitatori si meravigliavano della forza e dell'ardire del suo pennello, e persino lanciavano esclamazioni quando venivano a sapere della rapidità con cui egli creava, e si dicevano l'un l'altro: "E' un genio, un vero genio!

Guardate come parla, come gli brillano gli occhi! Il y a quelque chose d'extraordinaire dans toute sa figure!" L'artista era lusingato di sentire voci del genere sul suo conto.

Quando sulle riviste venivano pubblicate lodi su di lui, ne gioiva come un bambino, sebbene quelle lodi se le fosse comperate col denaro. Poi diffondeva la pubblicazione dappertutto e, senza dare l'impressione di farlo apposta, la mostrava agli amici e ai conoscenti e in ciò provava la più sciocca e ingenua soddisfazione. La sua gloria cresceva, i lavori e le commissioni aumentavano. Si deve dire che si stava annoiando degli stessi ritratti, degli stessi visi le cui posizioni e atteggiamenti conosceva ormai a memoria. Li dipingeva svogliatamente, limitandosi ad abbozzare alla meno peggio la testa e lasciando che gli allievi facessero il resto. Prima, bene o male, cercava di mettere il capo in qualche nuova posizione, di ottenere con un tratto un effetto originale. Ora questo gli era venuto a noia. La sua mente si era stancata di inventare e di riflettere. Non ne aveva più la forza né il tempo: la vita dissipata e la società in cui recitava la sua parte d'uomo di mondo lo allontanava dal lavoro e dalla meditazione. La sua pennellata cominciò a diventare fredda e smorta, ed egli insensibilmente si chiuse in forme monotone, convenzionali, logore. I visi uniformi, freddi, perennemente sistemati e per così dire abbottonati, dei funzionari, dei militari e dei civili non offrivano molta libertà al pennello. Dimenticò i sontuosi drappeggi, i gesti e le passioni violente.

Di composizioni, di tensione drammatica, d'impegno elevato non era neppure il caso di parlare. Davanti a lui non posavano altro che uniformi, corsetti, o frac, di fronte ai quali l'artista prova sempre una sensazione di freddo, e ogni immaginazione si dilegua.

Nelle sue opere non si vedevano neppure i pregi più comuni; tuttavia continuavano a godere di celebrità, sebbene i veri conoscitori e gli artisti, guardando i suoi ultimi lavori, si limitassero a stringersi nelle spalle. Qualcuno che conosceva il Cartkòv di prima, non riusciva a capire come fosse potuto scomparire in lui quel talento i cui segni apparivano chiari agli inizi, e si domandava perché si fosse già spento l'ingegno in un uomo che aveva appena raggiunto il pieno sviluppo delle proprie forze.

Ma l'artista inebriato non sentiva queste voci. Era ormai alle soglie del tempo in cui gli anni e l'intelletto diventano posati, cominciava a ingrassare visibilmente. Sui giornali e sulle riviste leggeva aggettivi come: il nostro riverito Andrèj Petròvic, l'emerito nostro Andrèj Petròvic.

Gli proposero incarichi onorifici, lo invitarono a presiedere agli esami, a far parte di comitati. Cominciava, come sempre accade negli anni rispettabili, a schierarsi con tutto il suo peso dalla parte di Raffaello e degli antichi pittori, non perché si fosse pienamente convinto del loro alto valore, ma perché gli servivano per opporsi agli artisti giovani. Già cominciava, come succede a tutti coloro che entrano in quest'età, ad accusare senza eccezioni di sorta i giovani di immoralità e di cattivo indirizzo spirituale, a credere che tutto al mondo avvenisse in modo semplice, che non ci fosse nulla di superiore all'ispirazione e che bastasse sottoporre tutto alla regola severa dell'accuratezza e dell'uniformità.

Insomma la sua esistenza sfiorava il tempo in cui tutto ciò che è slancio si rattrappisce nell'uomo, quando il potente archetto risuona debolmente nell'anima e non diffonde la propria musica penetrando intorno al cuore; quando il contatto della bellezza non trasforma più vergini forze in fuoco e fiamme, ma tutti i sentimenti, che hanno ormai finito di bruciare, diventano più accessibili al suono dell'oro, prestano un orecchio più attento alla sua seducente musica, e a poco a poco, insensibilmente, se ne lasciano addormentare. La gloria non da piacere a chi l'ha rubata, non meritata. La gloria produce un costante fremito solamente in chi ne è degno. Ogni slancio del pittore si volse all'oro. L'oro divenne la sua passione, il suo ideale, il suo terrore, piacere, scopo. Nei suoi bauli ammucchiò mazzi di banconote e, come tutti coloro che ricevono in sorte questo terribile dono, Cartkòv diventò monotono, inaccessibile a tutto ciò che non riguardasse l'oro, uno spilorcio senza ragione, un fanatico collezionista.

Era pronto a trasformarsi in uno di quei curiosi esseri, così numerosi nel nostro insensibile mondo e a cui guarda con spavento l'uomo dotato di vita e di cuore, simili ad ambulanti tombe di pietra con un cadavere al posto del cuore. Ma un avvenimento sconvolse con violenza e risvegliò tutta la sua sostanza vitale.

Trovò un giorno sul suo tavolo un biglietto in cui l'Accademia delle Arti lo pregava, in quanto suo degno membro, di recarsi a dare il suo giudizio su una nuova opera mandata dall'Italia da un artista russo che era andato laggiù per perfezionarsi. L'artista era uno dei suoi compagni d'un tempo, che sin dall'adolescenza nutriva in sé la passione per l'arte, e con spirito ardente, con tutta l'anima vi si era consacrato; allontanandosi dagli amici, dai parenti, dalle piccole abitudini si era precipitato là dove, sullo sfondo di cieli stupendi, matura il maestoso vivaio delle arti, in quella portentosa Roma il cui nome fa battere con forza il cuore d'ogni artista.

Come un eremita si era immerso nel lavoro, con una dedizione che nulla poteva distrarre. Non gli importava che criticassero né il suo carattere, l'insofferenza nel trattare con la gente, il disdegno per convenzioni mondane, né del disonore causato al titolo di artista con la sua trascuratezza, con l'abbigliamento misero. Non gl'importava che i colleghi cercassero o no la sua compagnia. Disprezzava tutto, dava tutto all'arte. Visitava tutte le gallerie, sostava per ore davanti alle opere dei grandi maestri, cercando di cogliere il segreto del loro pennello portentoso. Non portava nulla a termine senza confrontare più volte la sua opera con quella dei grandi maestri e senza leggere nelle loro creazioni una muta ma eloquente risposta per se stesso.

Non prendeva parte alle conversazioni rumorose e alle discussioni; non era né per i puristi, né contro i puristi. A tutti in modo equanime dava quanto spettava, da tutti prendeva ciò che c'era di bello; alla fine aveva eletto a sommo modello e suo maestro solo il divino Raffaello. Aveva fatto come un poeta che dopo aver letto molte opere d'ogni genere, piene di tutto il fascino e di tutte le bellezze possibili, scelga in ultimo come libro solamente l'Iliade d'Omero, perché scopre che in essa c'è già tutto e che non esiste nulla che non sia già riflesso in una così profonda e grande perfezione. In tal modo il nostro pittore aveva tratto da Raffaello un'idea sublime della creazione, la possente bellezza del pensiero, l'alto fascino d'un tocco divino.

Entrando nella sala, Cartkòv trovò raccolta davanti al quadro una grande folla di visitatori. Dappertutto regnava un profondo silenzio, come raramente accade quando in un posto c'è tanta gente. Egli si affrettò ad assumere l'aria ispirata del conoscitore e si avvicinò al quadro; ma, Dio mio, che cosa vide!

L'opera dell'artista stava davanti a lui pura, mirabile come una sposa. Divina, innocente e semplice com'è il genio, si librava su ogni cosa.

Pareva perfino che quelle figure celestiali, stupite da tanti sguardi rivolti su di loro, abbassassero pudicamente le stupende ciglia. I conoscitori contemplavano con un senso d'involontario stupore quella nuova e mai veduta creazione pittorica. Tutto sembrava armonicamente fuso: lo studio di Raffaello, che si rivelava nell'alta nobiltà degli atteggiamenti, l'insegnamento del Correggio che alitava nella minuziosa perfezione della pennellata.

Ma più imperiosamente di tutto s'imponeva la forza creativa racchiusa nell'anima stessa dell'artista. Anche il minimo oggetto era stato da lui penetrato; di ogni cosa egli aveva colto la norma e la legge intima. Ovunque era stata raggiunta quella fluida rotondità delle linee che è racchiusa nella natura e che soltanto l'occhio dell'artista creatore sa vedere, mentre l'imitatore ne ottiene soltanto angolosità. Si vedeva che l'artista aveva dapprima chiuso nella sua anima le impressioni attinte al mondo esterno e di lì, dalla sorgente dell'anima, le aveva liberate come un'armoniosa, trionfale canzone. Appariva chiaro anche ai non iniziati quale incommensurabile abisso esista fra la creazione e la semplice copia della natura. E' impossibile descrivere l'insolito silenzio che tutti manifestavano; sembravano legati da un patto involontario, mentre tenevano gli occhi fissi sul quadro:

non un fruscìo, non un rumore, mentre il quadro ad ogni istante sembrava elevarsi sempre più, sempre più luminosamente e meravigliosamente staccarsi da tutto per trasformarsi infine in una visione balenante, frutto d'una idea ispirata all'artista dal cielo, cui tutta l'esistenza d'un uomo serve solo da preparazione.

Involontarie lacrime gonfiavano gli occhi dei visitatori. Sembrava che tutti i gusti, tutte le temerarie e sbagliate deviazioni del gusto si fossero fuse in una specie di muto inno a quell'opera divina.

Cartkòv stava davanti al quadro, immobile, con la bocca aperta; quando infine a poco a poco visitatori e conoscitori cominciarono a far rumore e a discutere sui pregi dell'opera, e si rivolsero a lui pregandolo di palesare il suo parere, avrebbe voluto assumere un'aria indifferente, normale, avrebbe voluto pronunciare l'abituale abbietto giudizio degli artisti ormai mummificati, del genere: "Sì, certo, non si può negare l'ingegno dell'artista; c'è qualcosa, si vede che voleva esprimere qualcosa, tuttavia, per quanto riguarda l'essenziale... " E aggiungere poi, naturalmente, qualcuna di quelle lodi che non hanno mai giovato ad alcun artista. Avrebbe voluto fare questo, ma la frase gli morì sulle labbra; per tutta risposta proruppe in lacrime e singhiozzi e fuggì come impazzito dalla sala.

Rimase per qualche tempo nel suo studio lussuoso, immobile e insensibile a tutto. L'intero suo essere, l'intera sua vita erano state risvegliate in un istante, come se la giovinezza gli fosse stata restituita di nuovo. Tutt'a un tratto la benda cadde dagli occhi. Dio! Distruggere così spietatamente gli anni migliori della giovinezza; annientare, spegnere la scintilla del fuoco che forse gli covava nel petto, che forse si sarebbe sviluppata in grandezza e in bellezza, ispirando lacrime di stupore e di riconoscenza!

Distruggere tutto, distruggere senza pietà! Parve che in quell'istante, di colpo, rivivessero nella sua anima quelle tensioni e quegli slanci che un tempo conosceva. Afferrò il pennello e si avvicinò alla tela. Il sudore dello sforzo gli coprì la fronte ed egli si trasformò in un solo desiderio e s'infiammò d'un solo pensiero: raffigurare un angelo caduto. Quest'idea era la più consona allo stato in cui si trovava il suo spirito. Ma, ahimé! Le figure, le pose, i gruppi, i pensieri stessi si deponevano sulla tela in modo forzato e incoerente. Troppo a lungo il suo pennello e la sua immaginazione erano rimasti chiusi in un'unica dimensione, ed ora il suo impotente impulso a superare i confini e le catene che egli stesso s'era dato si manifestava come un'aberrazione e un errore. Aveva sdegnato il lungo e faticoso tirocinio dell'apprendimento graduale, le leggi prime e basilari della futura grandezza. S'indispettì. Ordinò di portare fuori dallo studio tutte le opere precedenti, i quadri alla moda e senza vita, i ritratti di ussari, di signore e di consiglieri di stato.

Si chiuse, solo, nella sua stanza, ordinò di non far entrare nessuno e s'immerse tutto nel lavoro. Come un giovane impaziente, come un'allievo, si accinse al lavoro.

Com'era spietatamente mediocre tutto quello che usciva dal suo pennello! Ad ogni passo era frenato dall'ignoranza degli elementi più rudimentali; un artificio semplice, insignificante, bloccava tutto lo slancio e si ergeva come una soglia invalicabile per l'immaginazione. Il pennello involontariamente seguiva i modelli imparati a memoria, le mani si atteggiavano sempre nella stessa maniera, la testa non sapeva prendere una posizione che non fosse convenzionale, persino le pieghe dell'abito apparivano fissate dalla consuetudine e non riuscivano a drappeggiarsi secondo un atteggiamento nuovo del corpo. E il pittore lo sentiva, lo sentiva e lo vedeva!

"Avevo veramente talento?" si disse infine. "Non mi sarò ingannato?" Pronunciate queste parole, si avvicinò alle sue prime opere, a cui un tempo aveva lavorato in modo pulito, disinteressato, laggiù, nella povera stamberga dell'isola Vasilièvskij, lontano dalla gente, dalla ricchezza e da ogni vanità. Si avvicinò ad esse e le esaminò attentamente; mentre le guardava, cominciò a riandare col pensiero alla sua misera vita d'un tempo.

"Sì," disse con disperazione, "avevo talento. Dappertutto, su tutto se ne vedono i segni e le tracce... " Si fermò e, ad un tratto, sussultò in tutto il suo corpo: i suoi occhi s'erano incrociati con altri occhi che lo fissavano immobili. Era il non comune ritratto che aveva comprato allo Sciukìn Dvor. Durante tutto quel tempo era rimasto nascosto, occultato dagli altri quadri, e lui se n'era completamente dimenticato. Adesso che erano stati portati via tutti i ritratti e i quadri alla moda che prima riempivano lo studio, era riemerso alla luce insieme alle sue prime opere giovanili. Quando il pittore rammentò la strana storia, quando ripensò che in un certo modo quel ritratto era stato la causa della sua trasformazione, che il tesoro così prodigiosamente ricevuto aveva generato in lui tutti quegli impulsi vani che poi avevano ucciso il suo talento, per poco la sua mente non fu sopraffatta dalla follia. Subito diede l'ordine di portare via l'odioso ritratto. Ma questo non bastò a placare la sua agitazione: tutti i suoi sensi e tutto il suo essere erano totalmente sconvolti ed egli provò quell'orribile supplizio che, in casi eccezionali, si presenta a volte nella natura quando un talento debole si sforza di esprimersi in una dimensione che lo oltrepassa, e non riesce. Quel supplizio che in un giovane può generare qualcosa di grande, ma in chi ha superato la frontiera dei sogni si trasforma in sterile sete; quel supplizio terribile che rende l'uomo capace di spaventosi misfatti.

Di lui s'impadronì una tremenda invidia, un'invidia che rasentava la follia. Il fiele gli affluiva al viso quando vedeva un'opera che recava l'impronta del genio. Digrignava i denti e la divorava con lo sguardo del serpente. Nella sua anima nacque il più infernale proposito che mai un uomo abbia nutrito, e lui si mise a realizzarlo con folle energia. Dopo aver acquistato un quadro a caro prezzo, lo portava con cautela nella sua stanza, si gettava su di esso e con la rabbia d'una tigre, lo strappava, lo lacerava, lo faceva a pezzi e lo calpestava, accompagnando questo con risa di piacere. Slegò i suoi sacchi d'oro, aprì i forzieri. Mai alcun mostro d'ignoranza distrusse tante opere stupende quante ne distrusse quel furibondo vendicatore. Alle aste dov'egli si mostrava, tutti abbandonavano subito la speranza di poter acquistare un'opera d'arte. Pareva che il cielo irato avesse di proposito inviato sulla terra quello spaventoso flagello per distruggere ogni bellezza. Questa spaventosa passione conferì una tinta terribile al suo viso, perennemente bilioso. Il vituperio e la negazione del mondo si manifestavano nei suoi lineamenti.

Pareva che in lui si fosse impersonificato il terribile demone che Pùsckin ha voluto raffigurare idealmente. Le sue labbra non proferivano nient'altro che parole velenose e un'eterna negazione di tutto. Appariva sulla strada simile a un'arpìa; anche i suoi amici, vedendolo di lontano, scantonavano e cercavano di evitarne l'incontro, perché, dicevano, questo era sufficiente ad avvelenare un'intera giornata.

Per fortuna del mondo e dell'arte, un'esistenza così tesa e forsennata, non può durare a lungo: la dimensione delle passioni era troppo grande e contorta per le sue deboli energie. Gli accessi di furore e di follia cominciarono a manifestarsi più spesso, e tutto ciò, infine, sfociò nella più spaventosa delle malattie. Una febbre crudele, che s'accompagnò ad una forma rapida di tubercolosi, s'impadronì di lui in modo così feroce che in tre giorni del pittore rimase solamente l'ombra. A ciò si aggiunsero i sintomi di una pazzia senza speranza. Talvolta non riuscivano a reggerlo neanche diverse persone. Cominciò ad avere una visione:

vedeva gli occhi vivi, rimossi da tempo, dell'inconsueto ritratto, ed allora la sua furia era terribile. Tutte le persone che attorniavano il suo letto gli sembravano spaventosi ritratti.

Tutto si sdoppiava, si quadruplicava ai suoi occhi; le pareti gli sembravano coperte di ritratti che fissavano su di lui occhi vivi ed immobili. Ritratti orribili lo guardavano dal soffitto, dal pavimento; la camera si dilatava e si distendeva all'infinito per meglio contenere quegli occhi immobili. Il dottore che lo curava, e che già aveva sentito raccontare della sua strana storia, tentò con ogni mezzo di scoprire un rapporto segreto fra le visioni che gli apparivano e gli avvenimenti della sua esistenza, ma senza riuscire a nulla. Il malato non comprendeva e non sentiva altro che i propri tormenti ed emetteva solamente orrendi gemiti e frasi incoerenti. Finalmente la sua vita si spezzò nell'ultimo e ormai muto accesso di sofferenza. Il suo cadavere era spaventoso. Delle sue enormi ricchezze non si trovò più nulla; ma i frammenti delle opere d'arte distrutte, il cui prezzo era di parecchi milioni, fecero capire quale spaventoso uso egli ne avesse fatto.

 

 

 

 Il ritratto - Seconda Parte

 

Un gran numero di carrozze, calessi e carrozzini era fermo davanti all'ingresso di un'abitazione dove si effettuava la vendita all'asta degli oggetti di uno di quei ricchi amatori d'arte che per tutta la loro vita hanno dolcemente sonnecchiato, sprofondati fra gli Zefiri e gli Amorini, hanno avuto fama di innocenti mecenati, e ingenuamente hanno sperperato i milioni accumulati dai loro padri o magari da loro stessi col proprio lavoro negli anni giovanili.

Oggi di questi mecenati non se ne trovano più, e il nostro diciannovesimo secolo già da tempo ha assunto la noiosa fisionomia d'un banchiere che si gode i suoi milioni solo sotto forma di cifre allineate sulla carta.

La lunga sala era piena della più variopinta folla di visitatori accorsi come uccelli da preda su un cadavere insepolto. C'era tutta una schiera di mercanti russi del Gostìnyi Dvor e persino del mercato dei robivecchi, con i loro azzurri cappotti tedeschi.

Il loro aspetto e l'espressione delle facce erano in quell'ambiente in un certo senso più duri, liberi, non improntati a quell'affettato servilismo che è tanto evidente nel mercante russo quando sta in bottega davanti al cliente. Complimenti non ne facevano, sebbene nella stessa sala si trovasse un gran numero di quegli aristocratici dinanzi ai quali in altro luogo sarebbero stati pronti a spazzare a furia di inchini la polvere portata dai loro stivali. Si comportavano senza cerimonie, tastavano disinvolti i libri ed i quadri per constatare la bontà della merce e contestavano a voce alta il prezzo annunciato dagli esperti. Né mancavano i soliti appassionati d'arte, gente che ogni giorno, invece di andare a pranzo, va a un'asta; nobili intenditori, che ritengono doveroso non farsi sfuggire l'occasione di aumentare la propria collezione anche perché non hanno altro da fare da mezzogiorno all'una; ed, infine, degni signori il cui abito e le cui tasche sono assai male in arnese e che compaiono ogni giorno senza alcun fine interessato, ma unicamente per vedere come vanno le cose, chi dia di più, chi di meno, chi batta un altro sul prezzo e a chi resti un dato oggetto.

Una gran quantità di quadri era sparsa qua e là senza alcun criterio; ad essi si mescolavano mobili e libri con il monogramma del vecchio possessore, il quale forse non aveva avuto nemmeno la lodevole curiosità di darvi un'occhiata. Vasi cinesi, lastre di marmo per tavoli, mobili moderni e antichi dalle linee ricurve, con grifi, sfingi e zampe di leone, dorati e senza doratura, lampadari, lumi, tutto era ammassato, e non certo nell'ordine in cui lo si trova in un negozio. L'insieme dava insomma l'idea di una sorta di caos artistico. In generale la sensazione che si prova ad un'asta è terribile: in essa tutto fa pensare ad un funerale. La sala in cui si tiene l'asta è sempre tetra; le finestre, ingombre di mobili e di quadri, lasciano filtrare avaramente la luce. Il silenzio diffuso sulle facce e la funebre voce del banditore che batte col martello e canta le esequie alle povere arti così spietatamente raccolte in questo luogo, tutto ciò sembra rafforzare la sgradevole e bizzarra impressione.

L'asta era al suo culmine. Un'intera folla di gente perbene, che si spostava tutta insieme, discuteva a gara di qualcosa. Le parole "rubli, rubli, rubli" che echeggiavano da tutte le parti non davano al banditore il tempo di ripetere il prezzo raggiunto, che era già quadruplicato rispetto a quello d'apertura. La folla discuteva d'un ritratto che in verità non poteva non colpire chiunque avesse una minima nozione di pittura. In esso si avvertiva a prima vista lo stile vigoroso del pittore. Il ritratto, che doveva essere già stato innumerevoli volte restaurato e ritoccato, rappresentava un asiatico con i lineamenti olivastri, una larga veste, e il viso atteggiato a un'espressione strana, inconsueta; ma la gente intorno era soprattutto colpita dall'eccezionale vivezza degli occhi. Più li si guardava, più essi parevano penetrare nell'intimo stesso dell'osservatore.

Questa stranezza, quest'insolito giuoco dell'artista colpiva tutti. Ma già molti di coloro che se lo contendevano si erano ritirati, per l'altezza del prezzo ormai raggiunto. Erano rimasti in lizza solo due signori, due nobili conosciuti, amatori di pittura, che per nessun motivo intendevano rinunciare all'acquisto. Si erano scaldati e probabilmente avrebbero alzato il prezzo sino all'impossibile se improvvisamente uno dei presenti non avesse esclamato:

"Permettete che interrompa per un momento la vostra disputa. Forse io ho diritto a questo quadro più di chiunque altro." Queste parole attirarono immediatamente su di lui l'attenzione di tutti.

Era un uomo slanciato, sui trentacinque anni, con lunghi riccioli neri. Il volto piacevole, pervaso da una sorta di luminosa spensieratezza, rivelava un'anima aliena dalle spossanti fatiche mondane; nel suo abbigliamento non c'era nessuna pretesa di seguire la moda: tutto manifestava in lui l'artista. Ed egli era appunto il pittore B., che molti dei presenti conoscevano di persona.

"Per quanto strane vi sembrino le mie parole," continuò, vedendo l'attenzione generale rivolta su di lui, "se accettate di ascoltare una piccola storia, forse vi convincerete che avevo il diritto di pronunciarle. Tutto mi fa credere che questo ritratto è appunto quello che stavo cercando." Una naturale curiosità si accese sulle facce dei presenti, e lo stesso banditore, spalancata la bocca, si fermò con il martello sollevato nella mano, accingendosi ad ascoltare. All'inizio del racconto molti rivolsero involontariamente gli occhi al ritratto, ma poi tutti li fissarono soltanto sull'artista via via che la sua storia diventava più interessante.

"Conoscete quel quartiere della città chiamato Kolòmna," esordì.

"Là tutto è diverso dagli altri quartieri di Pietroburgo; non è provincia e non è capitale; quando passi per le strade di Kolòmna sembra che tutti i desideri e gli slanci giovanili ti abbandonino.

Là il futuro non esiste, e tutto è quiete e silenzio. In quel quartiere si trova tutto ciò che s'è tirato indietro dal movimento della capitale, si trasferiscono a vivere i funzionari in pensione, le vedove, le persone non ricche che hanno a che fare col Senato e perciò si sono condannate a vivere qui per tutta la vita; cuoche disoccupate che tutti i giorni si danno spintoni ai mercati, chiacchierano di sciocchezze con un contadino in una drogheria e comprano ogni giorno cinque copechi di caffè e quattro di zucchero. Insomma, quella categoria di persone che si può definire con una sola parola, "cinerea"; gente che nel vestito, viso, capelli, negli occhi ha un colorito spento, fioco, cinereo, appunto, come la giornata quando in cielo non c'è né tempesta né sole, ma semplicemente né questo né quello. Si aggiungano gli inservienti teatrali in pensione, i consiglieri titolari in pensione, i pupilli di Marte in pensione, privi di un occhio o con il labbro cascante.

Questa gente è indifferente a tutto: cammina senza guardare nulla, tace senza pensare a nulla. Nelle loro stanze non ci sono molte cose: talvolta soltanto un boccale di pura vodka russa, che essi sorseggiano monotonamente il giorno intero senza che dia loro alla testa, come accade invece al giovanotto di via Mescànskaja, l'artigiano tedesco, che nei giorni di festa se ne serve una robusta dose, e poi resta unico padrone di tutto il marciapiede dopo la mezzanotte.

"La vita a Kolòmna è tremendamente solitaria: raramente appare una carrozza, eccetto forse quella di una compagnia di attori; essa turba il generale silenzio con il suo strepito. Là tutti sono pedoni; molto spesso un vetturino di piazza si trascina senza clienti portando del fieno per il suo peloso cavalluccio. Si può trovare un alloggio per cinque rubli al mese, persino con il caffè al mattino. Le vedove con pensione rappresentano qui il ceto più aristocratico; esse si comportano bene, spazzano sovente la loro stanza, chiacchierano con le amiche del rincaro della carne di vitello e del cavolo. Spesso hanno una figlia giovane, una creatura silenziosa, intristita, non di rado graziosa; può darsi anche che abbiano un cagnolino e un orologio a muro con il pendolo che batte tristemente. Poi vengono gli attori ai quali lo stipendio non permette di andarsene da Kolòmna, gente libera, come tutti gli artisti che vivono per il piacere. Seduti in pigiama, essi puliscono la rivoltella, fanno ogni sorta di cosette utili per la casa incollando del cartone, giocano a dama e a carte con gli amici che vengono a trovarli, e così trascorrono la mattina e quasi lo stesso fanno la sera con l'aggiunta qualche volta di un punch. Dopo questa bella gente, questi aristocratici, a Kolòmna c'è la solita minutaglia e robetta.

E' difficile distinguere tra questa com'è difficile contare la miriade di insetti che nasce nell'aceto vecchio. Ci sono vecchie che pregano; altre che si ubriacano; alcune che pregano e che si ubriacano nello stesso tempo; vecchie che campano con mezzi inimmaginabili, che come formiche trascinano stracci e biancheria dal ponte Kalinìn sino al mercato dei robivecchi cercando di venderli per quindici copechi. Detto tra noi, si tratta del più infelice sedimento dell'umanità, di cui nessun benefico amministratore potrebbe in alcun modo migliorare la sorte. Ho parlato di questa gente per farvi capire che spesso essa si trova nella necessità di avere sia pure solo un aiuto temporaneo, ma immediato, ossia di ricorrere a prestiti; ragione per cui fra loro s'insediano usurai d'ogni genere, che li forniscono di piccole somme su pegno e dietro forti interessi. Questi piccoli usurai sono molto peggiori di quelli importanti, perché spuntano in mezzo alla povertà e agli stracci più miserabili sciorinati al sole, a differenza dell'usuraio ricco, il quale ha a che fare solamente con persone che arrivano da lui in carrozza. Troppo presto muore nelle loro anime ogni sentimento d'umanità. Fra questi usurai ce n'era uno... ma è necessario premettere che la storia che vi racconto risale al secolo scorso e precisamente al regno di Caterina seconda. Sapete da voi che l'aspetto del quartiere Kolòmna e la vita che vi si svolge sono oggi molto cambiati.

Dunque fra quegli usurai ce n'era uno che appariva come un essere insolito sotto tutti gli aspetti. Si era stabilito da tempo in quella parte della città. Andava in giro con un'ampia veste asiatica; il colore scuro del viso indicava la sua provenienza meridionale, ma nessuno avrebbe potuto dire con sicurezza se fosse indiano, greco o persiano. L'alta statura, quasi eccezionale, la faccia abbronzata, magra, riarsa e il colorito inconcepibile, pauroso della sua pelle; i grandi occhi d'un fuoco non comune, i folti sopraccigli pendenti, tutto ciò lo distingueva nettamente da tutti i grigi abitanti della capitale. La sua stessa abitazione non assomigliava alle altre piccole casette di legno. Era una costruzione di pietra del tipo di quelle che una volta costruivano i mercanti genovesi, con finestre irregolari, di diversa grandezza, con imposte e catenacci di ferro. Quest'usuraio era diverso dagli altri per il fatto che poteva rifornire chiunque di qualsiasi somma, una vecchia in miseria o un dignitario di corte dalle tasche bucate. Davanti alla sua casa si vedevano non di rado lussuose carrozze, dai cui finestrini occhieggiava un'elegante dama di mondo. Correva fama che i suoi forzieri di ferro fossero colmi di denaro, preziosi, brillanti e pegni d'ogni genere, al punto da non poterli contare, e che tuttavia egli non avesse l'avidità che è propria agli altri usurai. Concedeva denaro volentieri, fissando in apparenza vantaggiosi termini di pagamento. Attraverso curiosi calcoli aritmetici, faceva salire gli interessi a percentuali spropositate. Così, almeno, dicevano le voci.

La cosa più straordinaria, tuttavia, e tale da stupire molti, era lo strano destino di tutti quelli che ottenevano denaro da lui:

tutti, infatti, terminavano la vita in modo infelice. Fosse semplicemente l'opinione della gente, assurda superstizione, o voce diffusa ad arte, tuttora non si sa. Diversi esempi, verificatisi comunque in un breve periodo di tempo davanti agli occhi di tutti, erano vivi e sbalorditivi.

Nell'ambiente aristocratico d'allora aveva in poco tempo attirato su di sé l'attenzione di tutti un giovane d'ottima famiglia, il quale già nella sua età giovanile s'era distinto nel campo delle attività di governo, ardente estimatore di ogni cosa elevata, appassionato di tutto ciò che ha creato l'arte e l'intelligenza dell'uomo, promettente futuro mecenate. Ben presto egli fu notato dalla stessa imperatrice, la quale gli affidò un posto importante, in armonia con le sue aspirazioni, un posto dove poteva fare molto per le scienze e per le arti in genere. Il giovane dignitario si circondò di artisti, di poeti, di scienziati. Voleva dare a tutti un lavoro, incoraggiare tutti. Iniziò a proprie spese un grande numero di utili pubblicazioni, distribuì molte commissioni, annunciò premi d'incoraggiamento, gettò in questa attività grande quantità di denaro e, infine, cadde in miseria. Pieno di magnanimo slancio, non volle rinunciare alla propria impresa; dappertutto cercava denaro in prestito e infine si rivolse al celebre usuraio.

Dopo aver contratto con lui un notevole prestito, in poco tempo quest'uomo mutò completamente: diventò un oppressore, un persecutore dell'intelligenza e del talento. In tutte le opere cominciò a vedere un aspetto negativo, interpretava falsamente ogni parola. Proprio in quel tempo, purtroppo, ci fu la rivoluzione francese.

Questo gli servì di pretesto per tutte le possibili infamie.

Cominciò a vedere in tutto un indirizzo rivoluzionario, in tutto gli sembrava di scorgere allusioni. Diventò sospettoso al punto che, alla fine, sospettò persino di se stesso e cominciò a compilare terribili, ingiuste denunce, a creare un gran numero d'infelici. Va da sé che la voce di simili azioni non poteva, a un certo punto, non arrivare sino al trono. La magnanima imperatrice ne fu atterrita e, piena di quella nobiltà d'animo che abbellisce i regnanti, pronunciò parole che non hanno potuto arrivare sino a noi con assoluta esattezza, ma il cui profondo significato s'impresse nel cuore di molti. L'imperatrice osservò che sotto il governo monarchico non si opprimono gli alti e nobili slanci dell'animo, non si disprezzano e perseguitano le opere dell'intelligenza, della poesia e delle arti; che, al contrario, proprio i monarchi sono sempre stati i protettori di queste cose; che gli Shakespeare, i Molière, sono fioriti sotto la loro magnanima protezione, mentre Dante non poté trovare un angolo dove ripararsi nella sua patria repubblicana. Disse che i veri geni nascono nei periodi di splendore e di potenza dei regnanti e degli Stati e non nei tempi di fenomeni politici mostruosi e di terrorismo repubblicano, che finora non hanno donato al mondo un solo poeta. Sostenne che occorre dare un riconoscimento ai poeti e agli artisti, visto che inducono nell'anima la pace e il silenzio della bellezza, e non l'agitazione e le mormorazioni; che gli scienziati, i poeti e tutti i creatori d'arte sono perle e diamanti della corona imperiale e l'epoca d'un grande regnante ne è abbellita e ne riceve ancora maggior splendore. Insomma, pronunciando quelle parole, l'imperatrice fu in quel momento divinamente magnifica. Ricordo che i vecchi non potevano parlare di questo senza lacrime. Tutti si sentirono colpiti da quelle parole. Ad onore del nostro orgoglio nazionale vale la pena di notare che nel cuore russo sempre alberga il bellissimo sentimento che spinge a prendere le parti dell'oppresso. Il dignitario che aveva tradito la fiducia in lui riposta fu esemplarmente punito e allontanato dal suo posto. Ma egli lesse una punizione assai più terribile sui volti dei suoi compatrioti. Era un disprezzo definitivo e generale. Non si può dire quanto soffrisse quell'anima vanagloriosa; orgoglio, amor proprio deluso, speranze che crollavano: tutto si mescolava e la sua vita terminò fra attacchi di spaventosa follia e di furore.

"Un altro esempio stupefacente accadde anch'esso sotto gli occhi di tutti.

Fra le belle donne di cui allora non era povera la nostra nordica capitale, una aveva decisamente conquistato la supremazia su tutte. Era una specie di meravigliosa fusione della nostra bellezza settentrionale con la bellezza del mezzogiorno, un brillante come se ne vedono di rado al mondo. Mio padre confessava che in tutta la sua vita non aveva mai visto niente di simile.

Tutto pareva essersi fuso in lei: la ricchezza, l'intelligenza e il fascino dell'anima. I pretendenti erano una folla e fra loro maggiormente in vista il principe R., il più nobile, il migliore dei giovani, il più bello sia nel volto che per i magnanimi e cavallereschi impulsi, perfetto ideale dei romanzi e delle donne, un Grandinson sotto tutti gli aspetti. Il principe, innamorato in modo appassionato e folle, era corrisposto da un amore altrettanto ardente. Ma il partito non sembrava abbastanza buono ai parenti della ragazza. Le tenute avite del principe da tempo ormai non gli appartenevano più, la famiglia era in disgrazia e la cattiva situazione dei suoi affari, nota a tutti. D'improvviso il principe lasciò la capitale, per andare a riassestare i suoi affari; ricomparve dopo non molto tempo, circondato da un lusso e da uno splendore incredibili. I suoi balli e le sue feste sfavillanti lo rendono noto a corte. Il padre della ragazza si convince e così si celebra uno splendido matrimonio. Nessuno sapeva spiegare con certezza a cosa attribuire quel cambiamento e l'inaudita ricchezza dello sposo; ma si diceva sotto sotto che egli avesse concluso un patto con un misterioso usuraio. Comunque fosse, il matrimonio interessò l'intera città. Sia lo sposo che la sposa erano oggetto dell'invidia generale. A tutti era noto il loro ardente, tenace amore, i lunghi struggimenti sofferti da entrambi, le alte qualità di tutti e due. Le donne appassionate si figuravano già in anticipo le delizie paradisiache che avrebbero assaporato i giovani coniugi. Tutto andò diversamente. Nello spazio di un anno nel marito avvenne un terribile mutamento. Il veleno di una gelosia sospettosa, dell'intolleranza e di inesauribili capricci contagiò quel carattere fino allora nobile e buono. Divenne il tiranno e il torturatore di sua moglie e, cosa che nessuno avrebbe potuto prevedere, ricorse alle azioni più disumane, persino alle percosse. In un solo anno nessuno avrebbe più riconosciuto quella donna che ancora poco tempo prima brillava e attirava folle di docili spasimanti. Finalmente, non avendo la forza di sopportare oltre il suo pesante destino, ella parlò di divorzio.

Il marito montò su tutte le furie al solo pensiero.

Nel suo primo gesto di rabbia fece irruzione nella stanza della moglie con un coltello e l'avrebbe senza dubbio scannata su due piedi se non l'avessero trattenuto e fermato. Allora, in un impulso di frenesia e di disperazione, rivolse il coltello contro di sé e terminò la sua vita fra i più spaventosi tormenti.

"Oltre a questi due esempi, avvenuti sotto gli occhi di tutta la buona società, se ne raccontavano moltissimi accaduti nelle classi inferiori, quasi tutti conclusi in modo terribile. Un uomo sobrio e onesto diventava un ubriacone; un commesso di mercante derubava il proprio padrone; un vetturino che per anni aveva lavorato onestamente, uccideva per pochi centesimi il cliente. Era naturale che simili avvenimenti, raccontati spesso con le debite aggiunte, suscitassero una specie d'involontario terrore fra i modesti abitanti di Kolòmna. Nessuno dubitava della presenza d'una forza demoniaca in quell'uomo. Dicevano che egli proponesse condizioni che facevano rizzare i capelli in testa tant'è che l'infelice non osava mai riferire a nessuno; che il suo denaro avesse una proprietà magnetica, che si arroventasse da solo e avesse certi strani segni... insomma, correvano voci assurde d'ogni genere. Ed è sintomatico il fatto che tutta la popolazione di Kolòmna, tutto quel mondo di vecchie in miseria, di piccoli funzionari, di mediocri artisti e, insomma, d'ogni genere di minutaglia, di cui ho testè parlato, preferisse sopportare la miseria più squallida piuttosto che rivolgersi al terribile usuraio.

Erano state trovate morte di fame delle vecchie, rassegnate a lasciar estinguere il proprio corpo piuttosto di uccidere l'anima.

Incontrandolo per strada, la gente provava un inconscio terrore.

Il passante indietreggiava cautamente e poi si voltava ancora a lungo, seguendo la sua altissima figura che si dileguava lontano.

Il suo stesso aspetto era così insolito che chiunque era spinto suo malgrado ad attribuirgli facoltà soprannaturali. Quei lineamenti forti, intagliati così profondamente come non accade di vederne in un essere umano; l'ardente, bronzeo colore del volto; l'incredibile foltezza dei sopraccigli; gli occhi terribili e dallo sguardo insostenibile; e persino le larghe pieghe della sua veste asiatica, tutto pareva dire che, rispetto alle passioni che si agitavano in quel corpo, le passioni degli altri erano sbiadite. Mio padre si fermava e restava immobile ogni volta che lo incontrava ed ogni volta non sapeva trattenersi dall'esclamare:

'Un diavolo, un vero diavolo!' "Ma occorre che vi presenti mio padre, che fra l'altro è il vero soggetto di questa storia. Era un uomo notevole, sotto molti riguardi. Un artista come ce ne sono pochi, uno di quei prodigi che solamente la Russia fa uscire dalle sua intatte viscere, un artista autodidatta, che da solo, senza maestri e scuole, aveva trovato nella propria anima le regole e le leggi, affascinato solamente dalla sete di perfezione, e che, per ragioni che forse neppure egli conosceva, seguiva sempre e soltanto la strada indicatagli dall'anima. Era uno di quei fenomeni spontanei che sovente i contemporanei gratificano dell'offensivo epiteto di "ignoranti", e che non si scoraggiano per gli scherni e gli insuccessi, ma anzi ne traggono nuovo slancio e nuove forze, e arrivano a superare in se stessi le opere per cui furono chiamati ignoranti. Con un istinto interiore egli fiutava la presenza di un'idea in ogni oggetto; da solo aveva compreso l'autentico significato dell'espressione: "pittura storica", mentre un enorme quadro di soggetto storico rimane comunque sempre un tableau de genre, per quanto l'artista pretenda di fare della pittura storica. Sia il sentimento interiore, sia le sue personali convinzioni avevano rivolto il suo pennello ai soggetti cristiani, supremo ed ultimo grado dell'eccelso. Non era ambizioso e suscettibile, caratteri che si ritrovano cosi spesso in molti artisti. Di indole ferma, era un uomo onesto, rettilineo, persino rozzo, esteriormente coperto d'una scorza piuttosto dura, non privo d'un certo orgoglio; nei confronti degli altri si esprimeva con indulgenza e asprezza insieme. 'Cosa vuoi che li guardi,' diceva solitamente, 'non è per loro che lavoro. Non è in salotto che porto i miei quadri, ma li metteranno in una chiesa. Chi li capirà, mi ringrazierà; chi non li capirà, pregherà ugualmente Dio. Non si può incolpare l'uomo di mondo, egli non s'intende di pittura; s'intende di carte da gioco, è esperto di buoni vini, di cavalli; perché un signore dovrebbe saperne di più? Se poi vuole assaggiare questo e quello, e se ne va in giro a sputare sentenze, non ti lascia più vivere! A ciascuno il suo, che ciascuno si occupi del suo. Secondo me, è meglio chi ti dice apertamente di non capirne nulla, di chi fa l'ipocrita, dice di sapere ciò che non sa e riesce solo a rovinare e sciupare tutto.' Dipingeva per pochi soldi, per quanto gli era necessario per il sostentamento della famiglia e per portare avanti il lavoro. Non rifiutava mai di aiutare gli altri o di porgere una mano a un pittore povero; credeva con la fede semplice e pia degli avi; per questo, forse, dai volti dipinti da lui emanava naturalmente quell'espressione elevata che ingegni anche più brillanti non riescono a raggiungere. Insomma, con la costanza del suo lavoro e la fedeltà alla via che egli stesso s'era tracciata, cominciò a conquistare anche il rispetto di quelli che l'avevano chiamato ignorante e autodidatta casalingo. Aveva continue commissioni per le chiese e il lavoro non gli mancava mai. Uno di questi lavori lo impegnò fortemente. Non ricordo più in che cosa precisamente consistesse il soggetto, so soltanto che nel quadro bisognava raffigurare lo spirito delle tenebre. Egli pensò a lungo a quale aspetto dargli; voleva che il suo volto esprimesse tutto ciò che angoscia e opprime l'uomo. Durante queste riflessioni gli veniva talvolta in mente l'immagine del misterioso usuraio ed egli pensava senza volerlo: 'Ecco chi dovrei dipingere in veste di diavolo.' Giudicate dunque del suo stupore quando una volta, mentre lavorava nel suo studio, udì bussare alla porta e subito dopo vide venire verso di lui il terribile usuraio. Mio padre sentì come un fremito interno che gli percorse tutto il corpo.

'Sei pittore?' chiese senza tanti complimenti l'usuraio a mio padre.

'Sì, pittore,' rispose mio padre perplesso, aspettando di vedere cosa ne sarebbe seguito.

'Bene. Fammi il ritratto. Forse io presto morirò, non ho figli; ma non voglio morire del tutto, voglio vivere ancora. Puoi dipingere un ritratto che sia veramente vivo?' Mio padre pensò: 'Che c'è di meglio? E' lui stesso che chiede di fare da diavolo nel mio quadro.' Diede la sua parola. Si misero d'accordo sul tempo e sul prezzo e il giorno dopo, presi i pennelli e la tavolozza, mio padre era già dall'usuraio. L'alto cortile, i cani, le porte e i catenacci di ferro, le finestre ad arco, i forzieri ricoperti di strani tappeti e, infine, lo stesso non comune padrone che stava seduto davanti a lui, tutto questo gli produsse una strana impressione. Come a farlo apposta, le finestre erano ostruite dal basso all'alto da cumuli di roba ammucchiata, sicché davano luce soltanto alla sommità. 'Al diavolo, com' è bene illuminata ora la sua faccia!' si disse mio padre e si accinse rapidamente a dipingere, come temendo che quella felice illuminazione scomparisse. 'Che forza!' ripeté fra sé, 'se mi riesce di ritrarlo anche solo in parte com'è ora, questo mi ammazza tutti i miei santi e angeli! Li fa impallidire tutti! Che forza demoniaca! Se posso avvicinarmi al vero anche solo un poco, questo mi salta fuori dalla tela. Che lineamenti straordinari!' ripeteva di continuo, accrescendo il suo zelo, e già vedeva come certi tratti cominciassero a passare sulla tela.

Ma, quanto più si avvicinava a quei lineamenti, tanto più provava una sorta d'oppressione e d'ansia, che gli riusciva incomprensibile. Malgrado ciò, si propose di perseguire con fedeltà letterale ogni più minuta fattezza ed espressione. Prima di tutto volle portare a compimento gli occhi. In quegli occhi c'era tanta forza che pareva non si potesse nemmeno pensare di renderli fedelmente, così com'erano in realtà. Decise comunque di scoprire in essi anche l'ultima e minima sfumatura, di carpirne il segreto... Ma, appena cominciò ad entrare, a inoltrarsi in essi con il pennello, nella sua anima nacque una così strana repulsione, un così incomprensibile senso di angoscia, che per un certo tempo dovette posare il pennello; solo dopo un poco poté riprenderlo e mettersi di nuovo al lavoro. Alla fine non poté più resistere; sentiva che quegli occhi gli si conficcavano nell'anima e vi producevano un'agitazione indicibile. Il secondo, il terzo giorno questa sensazione fu ancor più forte. Cominciò ad avere paura. Lasciò il pennello e disse senza mezzi termini che non poteva più dipingere. Bisognava vedere come cambiò a quelle parole lo strano usuraio. Gli si gettò ai piedi e lo supplicò di terminare il ritratto, dicendo che da questo dipendevano il suo destino e la sua esistenza al mondo, che con il suo pennello lui aveva già sfiorato i suoi tratti vivi; che, se li avesse resi con fedeltà, la sua vita, per forza soprannaturale, sarebbe rimasta nel ritratto, e lui non sarebbe mai morto del tutto, perché doveva continuare ad esser presente nel mondo. Mio padre provò orrore a queste parole. Gli parvero talmente strane e terribili, che gettò via tavolozza e pennelli e si precipitò all'impazzata fuori della stanza. Il pensiero di ciò che era accaduto lo agitò per tutta la giornata e per tutta la notte. Il mattino dopo, ricevette da parte dell'usuraio il ritratto, portatogli da una donna, l'unica persona al suo servizio, la quale dichiarò che il padrone non voleva più il ritratto, non gli avrebbe pagato nulla e glielo mandava indietro. Tutto questo gli sembrò molto strano. Da quel momento, il carattere di mio padre cominciò a cambiare: sentiva un'inquietudine, un'ansia, di cui non sapeva capire la causa, e ben presto commise un atto che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui. Da un certo tempo i lavori d'un suo allievo avevano cominciato ad attrarre l'attenzione di una piccola cerchia di conoscitori e amatori. Mio padre aveva sempre visto in lui del talento e per questo l'aveva seguito con particolare simpatia.

Improvvisamente provò per lui invidia. La simpatia di tutti per quel giovane, il bene che se ne diceva, gli diventarono insopportabili. Infine, a compimento del suo disappunto, venne a sapere che al suo allievo era stato proposto di dipingere un quadro per una ricca chiesa di nuova costruzione. Questo lo fece esplodere: 'No, non lascerò che quel poppante trionfi!' disse.

'Troppo presto s'è messo in testa di gettare i vecchi nel fango!

Ho ancora forza, grazie a Dio. Vedremo chi cascherà prima nel fango!' E quell'uomo rettilineo, d'animo onesto, ricorse a intrighi e manovre di cui fino allora aveva sempre avuto ripugnanza; ottenne infine che per il quadro fosse bandito un concorso e vi potessero partecipare anche altri artisti coi loro lavori. Dopo di che si chiuse nella sua stanza e s'impegnò con ardore nella pittura.

Pareva che volesse mettervi tutte le sue forze, tutto se stesso.

Ed effettivamente ne uscì una delle sue opere migliori.

Nessuno dubitava che il primato spettasse a lui. Vennero presentati i quadri e tutti sembrarono come la notte rispetto al giorno in confronto al suo. Quando ad un tratto uno dei giudici presenti, se non sbaglio un religioso, fece un'osservazione che stupì i presenti:

'Effettivamente in questo quadro c'è molto talento,' disse, 'ma non c'è santità nei volti; al contrario, c'è persino qualcosa di demoniaco negli occhi, come se un sentimento impuro avesse guidato la mano dell'artista.' Tutti guardarono e non poterono non persuadersi della verità di queste parole. Mio padre si precipitò avanti, verso il suo quadro, come per difenderlo da un'osservazione così offensiva; ma vide con orrore che a quasi tutte le figure aveva dato gli occhi dell'usuraio. Essi guardavano in modo così diabolicamente distruttivo, che lui stesso tremò. Il quadro venne respinto e, con sua indescrivibile stizza, vide che la preferenza veniva data al suo allievo. Non è possibile dire il furore in preda al quale fece ritorno a casa. Per poco non percosse mia madre, cacciò via i figli, spezzò pennelli e tavolozza, chiese un coltello, afferrò dalla parete il ritratto dell'usuraio, e ordinò di accendere il fuoco nel camino con l'intenzione di bruciarlo. Così lo trovò un amico entrato in quel momento nella stanza, anche lui pittore, buontempone sempre contento di sé, che non si poneva mai mete irrealizzabili, che faceva allegramente qualunque cosa e ancor più allegramente si dedicava a pranzi e banchetti.

'Che fai, cosa vuoi bruciare?' disse, e si avvicinò al ritratto.

'Caspita, ma questa è una delle tue opere migliori! E' quell'usuraio morto da poco; mi sembra molto bello, perfetto direi. Non solo l'hai fatto identico, ma gli sei entrato negli occhi. Quegli occhi in vita non hanno mai guardato così come guardano adesso.' 'Ora starò a vedere come guarderanno quando saranno dentro il fuoco,' disse mio padre facendo il gesto di scaraventare il ritratto nel caminetto.

'Fermati, per amore di Dio!' disse l'amico trattenendolo. 'Dallo piuttosto a me, se ti offende a tal punto la vista.' Dapprima mio padre si oppose, ma infine acconsentì e il buontempone, felicissimo del suo acquisto, si portò il ritratto a casa.

Appena se ne fu andato, di colpo mio padre si sentì più tranquillo. Come se, insieme al ritratto, gli fosse caduto un peso dall'anima. Si stupì allora dei suoi bassi sentimenti, della sua invidia, e del palese mutamento del suo carattere. Esaminato il proprio modo di agire, fu preso dalla tristezza e non senza un'intima afflizione disse:

'E' stato Dio a punirmi; il mio quadro ha subìto un'onta meritata.

L'avevo ideato per danneggiare un fratello. E' stato il sentimento infernale dell'invidia a guidare il mio pennello, ed era giusto che un sentimento infernale si riflettesse nel quadro.' Si recò immediatamente dal suo ex allievo, lo abbracciò con forza, gli chiese perdono e cercò in ogni modo di cancellare la sua colpa davanti a lui. Ricominciò a lavorare tranquillamente; ma il suo viso diventava sempre più pensieroso. Pregava di più, era più spesso taciturno e non s'esprimeva più così bruscamente sulle persone; la stessa apparenza rozza del suo carattere in un certo senso si raddolcì. Ben presto una circostanza lo scosse ancora di più. Da tempo non vedeva il collega che gli aveva chiesto il ritratto. Un giorno, mentre si accingeva ad andarlo a trovare, d'improvviso questi entrò nella sua stanza. Dopo alcuni preamboli, l'amico disse: 'Bene, mio caro, avevi ragione di voler bruciare il ritratto. Il diavolo lo porti, ha qualcosa di strano... Io non credo alle streghe, ma, dimmi quello che ti pare, in esso c'è una forza impura...' 'Come?' disse mio padre.

'Già, da quando l'ho appeso in casa, ho cominciato a sentire una tale oppressione... come se avessi voglia di ammazzare qualcuno.

In vita mia non ho mai conosciuto che cosa fosse l'insonnia e invece non solo soffro di questo male, ma faccio certi sogni...

non saprei dire nemmeno se si tratti di sogni... è come se un folletto venisse a strangolarmi; e poi ho sempre la visione di quel maledetto vecchio. Insomma, mi è difficile descriverti cosa provo. Non mi era mai successo nulla di simile. Per tutti questi giorni ho vagato come un pazzo: sentivo una specie di paura, quasi mi aspettassi qualcosa di sgradevole. Sentivo che non potevo dire a nessuno una parola allegra e sincera, come se avessi sempre accanto qualcuno, una spia. Solo da quando ho dato il ritratto ad un nipote che me l'ha chiesto, mi è sembrato che mi cadesse una pietra dalle spalle: tutt'a un tratto mi sono sentito allegro, come puoi vedere. Già, mio caro, hai fatto un diavolo!' Durante questo racconto mio padre lo ascoltò con un'attenzione che nulla poteva distrarre e infine domandò:

'E il ritratto adesso è da tuo nipote?' 'Macché dal nipote! Non ha resistito!' disse il buontempone. 'Si vede che ci si è proprio trasferita dentro l'anima dell'usuraio:

salta fuori dalla cornice, passeggia per la stanza; e quel che mi ha raccontato mio nipote è semplicemente inconcepibile. L'avrei preso per matto se in parte non avessi provato anch'io le stesse sensazioni. L'ha ceduto ad un collezionista di quadri, ma nemmeno quello ha resistito e l'ha venduto.'

Questo racconto produsse una forte impressione su mio padre.

S'impensierì seriamente, cadde in uno stato d'ipocondria ed infine si convinse definitivamente che il suo pennello fosse servito da strumento del diavolo, che una parte della vita dell'usuraio fosse passata in qualche modo nel ritratto e turbasse adesso la gente, suscitando impulsi diabolici, facendo deviare gli artisti dalla loro strada, suscitando i terribili tormenti dell'invidia, e così via. Tre disgrazie sopravvenute, la morte improvvisa della moglie, della figlia e d'un figlio piccolo, furono da lui considerate un castigo celeste, ed egli decise di abbandonare il mondo. Non appena compii i nove anni, mi collocò presso l'Accademia delle Arti e, fattosi pagare da tutti i debitori, si ritirò in un eremo lontano dove ben presto si fece monaco. Là, con il rigore della sua vita, con l'incessante osservanza di tutte le regole monastiche, stupì tutta la confraternita. Il priore del monastero, avendo saputo dell'arte del suo pennello, gli chiese di dipingere l'immagine grande della chiesa. Ma l'umile fratello disse categoricamente che non era degno di prendere in mano il pennello, perché esso era contaminato; che doveva purificare la propria anima con la fatica e le privazioni, prima di essere degno di accingersi a un'opera simile. Per quanto poteva, aggravava il rigore della vita monastica. Ma alla fine neanche questo gli bastò, neanche questa condizione gli sembrò abbastanza severa, e con la benedizione del priore si ritirò nel deserto per vivervi completamente solo. Là si costruì una rozza capanna, si nutrì soltanto di radici crude, trascinò pietre da un luogo all'altro, rimase immobile nello stesso posto, dal sorgere del sole al tramonto, con le mani protese verso il cielo, pregò senza tregua.

Per farla breve, ricercò le prove più dure, quell'irraggiungibile rinuncia a se stesso i cui esempi si possono trovare solo nelle vite dei santi. Mortificò a lungo, durante molti anni, il proprio corpo, temprandolo nello stesso tempo con la forza vivificante della preghiera. Infine, un giorno ritornò all'eremo e disse con fermezza al priore: 'Adesso sono pronto. Se a Dio piace, eseguirò il mio lavoro.' Il tema che scelse era la natività di Gesù. Vi lavorò un anno senza uscire dalla sua cella, nutrendosi di parco cibo, pregando di continuo. Allo scadere di dodici mesi il quadro era pronto. Era un miracolo del pennello. E' bene sapere che né i confratelli né il priore avevano grandi cognizioni di pittura, eppure tutti furono sbalorditi dall'eccezionale santità delle figure. Il sentimento di divina mitezza e umiltà sul viso della Madre purissima china sul neonato, la profonda pensosità negli occhi del divino fanciullo, che parevano penetrare nel futuro, il solenne silenzio dei Re Magi colpiti dal divino miracolo e prosternati ai suoi piedi; e, infine, la sacra ineffabile calma di cui era soffuso l'intero quadro, tutto questo apparve con tanta armoniosa forza e potente bellezza che l'impressione fu magica. L'intera comunità cadde in ginocchio di fronte alla nuova immagine e il priore commosso disse:

'Un uomo, con l'aiuto della sola arte umana, non può creare un quadro simile: una santa forza superiore ha guidato il tuo pennello e la benedizione del cielo riposa nella tua fatica.' In quel tempo io terminai gli studi all'Accademia. Ottenni la medaglia d'oro e, insieme con essa, la gioiosa speranza d'un viaggio in Italia: il sogno più bello per un artista ventenne. Mi restava soltanto da congedarmi da mio padre, dal quale ero separato ormai da dodici anni. Avevo molto sentito dire della santità della sua vita, e m'immaginavo di trovare un anacoreta incartapecorito, estraneo ad ogni cosa al mondo eccetto la sua cella e la preghiera, macerato, inaridito dai digiuni e dalle veglie. Come mi meravigliai invece quando vidi davanti a me un vecchio meraviglioso, quasi divino! Sul suo volto non si scorgeva traccia di privazioni: esso scintillava della luce della beatitudine celeste. La barba bianca come la neve e i capelli sottili, quasi aerei, dello stesso colore argenteo, si spandevano in modo pittoresco sul petto e sulle pieghe della tonaca nera e cadevano fino alla cintura che cingeva il suo povero abito monastico, ma più sorprendente di tutto fu per me sentire dalle sue labbra parole e pensieri sull'arte che, vi assicuro, custodirò a lungo nell'anima con il sincero desiderio che ogni mio collega faccia lo stesso.

'Ti aspettavo, figlio mio, diss'egli quando mi accostai per averne la benedizione. 'Ti attende il cammino per il quale d'ora innanzi procederà la tua vita. Il tuo cammino è pulito, non deviare da esso. Tu hai talento; il talento è un dono prezioso di Dio, non ucciderlo. Esplora, studia ogni cosa, assoggetta al pennello tutto ciò che vedi, ma in tutto sappi trovare l'idea interiore e in primo luogo sforzati di comprendere il grande mistero della creazione. Beato l'eletto che lo possiede. Per lui non v'è soggetto spregevole nella natura. Nell'insignificante, l'artista creatore è grande come nell'eccelso; la cosa più bassa per lui non è bassa, perché invisibilmente trapela in essa l'anima meravigliosa di chi crea, e la cosa bassa viene così sublimemente espressa, perché passa attraverso il purgatorio della sua anima.

Nell'arte, è racchiusa un'allusione al divino, al paradiso celeste, e già per questo essa è più alta d'ogni altra cosa. E quanto la quiete solenne è più alta d'ogni agitazione mondana, la creazione della distruzione, l'angelo con la sola pura innocenza della sua anima luminosa di tutte le innumerevoli forze e le orgogliose passioni di Satana, tanto una sublime creazione dell'arte è più alta d'ogni altra cosa che esista al mondo.

Sacrificale tutto e amala con passione, non con la passione che alita terrestre concupiscenza, ma con la quieta passione celeste; senza di essa l'uomo non ha il potere di sollevarsi da terra e non può emettere i mirabili suoni che danno la pace. Poiché è per acquietare e pacificare che scende nel mondo la sublime opera d'arte. Essa non spinge l'anima all'insoddisfazione, ma con risonante preghiera eternamente tende a Dio. Ma vi sono momenti, oscuri momenti... ' Qui si fermò e io vidi d'un tratto rabbuiarsi il suo volto luminoso, come se vi fosse passata una nube subitanea.

'C'è stato un avvenimento nella mia vita... non riesco a capire ancora oggi chi fosse quella strana figura di cui dipinsi un giorno il ritratto. Ma certo era qualcosa di diabolico. Lo so, il mondo nega l'esistenza del diavolo, e perciò non parlerò di questo; dirò soltanto che dipinsi quel ritratto con repulsione, che non provai durante quel tempo nessun amore per la mia opera.

Pure, volli vincermi con la violenza e, soffocato tutto, essere passivamente fedele al vero. Ma quella non fu una creazione d'arte e perciò i sentimenti di chiunque la guardi sono sentimenti di rivolta, sentimenti di angoscia, non i sentimenti che genera un artista, perché un artista anche nell'angoscia esprime tranquillità. Mi hanno detto che quel ritratto passa di mano in mano suscitando impressioni funeste, generando nell'artista il sentimento dell'invidia, un cupo odio verso il fratello, la malvagia bramosia di attuare persecuzioni e oppressioni. Ti protegga l'Altissimo da queste passioni! Non c'è niente di più terribile. Meglio sopportare l'amarezza di tutte le persecuzioni che infliggerne ad altri anche una sola. Salva la purezza della tua anima. Chi racchiude in sé del talento deve avere l'anima più pura di ogni altro. Ad un altro molto si perdona, ma a lui non si perdonerà. A chi è uscito di casa con un chiaro abito festivo basta una sola macchia di fango schizzata da una ruota perché tutta la gente lo circondi e lo segni a dito e parli della sua sporcizia, mentre la stessa gente non nota le molte macchie sugli altri passanti vestiti di abiti quotidiani. Perché sugli abiti di tutti i giorni non si notano le macchie.' Mi benedisse e mi abbracciò. Nella mia vita non mi ero mai sentito trasportato così in alto. Con venerazione, più ancora che con sentimento filiale, mi strinsi al suo petto e lo baciai sui fluenti capelli d'argento. Una lacrima brillò nei suoi occhi.

'Esaudisci, figlio mio, una mia preghiera,' mi disse quando ormai ci congedavamo. 'Forse ti accadrà di vedere in qualche posto il ritratto di cui ti ho parlato. Lo riconoscerai subito dagli occhi insoliti e dalla loro espressione innaturale; distruggilo ad ogni costo...'

Potete voi stessi giudicare se avrei potuto non promettere, non giurare di esaudire quella preghiera. Per quindici anni non mi è mai capitato di trovare nulla che in qualche modo assomigliasse alla descrizione fattami da mio padre, quando a un tratto, adesso, a quest'asta..." L'artista, senza terminare la frase, rivolse gli occhi alla parete per guardare ancora una volta il ritratto. Lo stesso movimento fece istantaneamente la folla degli ascoltatori, cercando con gli occhi l'insolito ritratto. Ma, con la massima meraviglia di tutti, esso non era più sulla parete. Un parlottio indistinto e un brusio corsero per tutta la folla e subito dopo si udì chiaramente la parola "...rubato".

Qualcuno era riuscito a portarlo via. A lungo i presenti restarono perplessi, non sapendo se avessero effettivamente visto quegli occhi terribili o se non si fosse trattato di una visione balenata in un istante ai loro sguardi affaticati.

 

 

 

 Le memorie di un pazzo

 

3 ottobre.

Oggi è successo un fatto insolito. Questa mattina mi sono alzato abbastanza tardi e, quando Mavra mi ha portato le scarpe pulite, ho domandato che ora fosse. Saputo che erano passate da un pezzo le dieci, ho cominciato in fretta a vestirmi. Confesso che non sarei andato al ministero, perché sapevo in anticipo che faccia acida avrebbe fatto il nostro caposezione. E' da un pezzo che mi dice: "Che ti piglia, mio caro, che hai sempre in testa un tale guazzabuglio? Certe volte ti agiti come un indemoniato, imbrogli talmente le cose che nemmeno Satana ci capisce più nulla, nei titoli metti la minuscola, ti dimentichi i numeri e le date." Airone maledetto! Certamente è invidioso perché sto nell'ufficio del direttore e tempero le penne per sua eccellenza. Insomma, non sarei andato al ministero se non avessi avuto la speranza di vedere il cassiere e magari di chiedere a quell'ebreo qualcosina d'anticipo sullo stipendio. Ecco un'altra bella creatura! Mai che dia i soldi un mese prima! Signoriddio, è più facile che arrivi il giudizio universale. Pregalo, sbatti la testa nel muro, puoi avere un bisogno estremo, mica te li dà, razza di diavolo calvo!

E poi a casa la serva lo schiaffeggia! Questo lo sa tutto il mondo. Non capisco i vantaggi di prestare servizio in un ministero. Non c'è proprio nessuna prospettiva. Ecco, nell'amministrazione provinciale dei tribunali è tutt'altra cosa:

lì, ecco, c'è magari uno che se ne rimane nel suo angoletto e scrive. Un vestituccio, schifoso, un grugno che ti viene voglia di sputarci sopra, eppure guarda che dacia che può prendersi in affitto! E non portargli in regalo una tazza di porcellana dorata:

"Questo," dice, "è un regalo da dottore"; a lui devi dare una coppia di trottatori, oppure un carrozzino, o una pelliccia di castoro da trecento rubli. A vederlo è così tranquillo, parla con tanta delicatezza: "Prestatemi il temperino per temperare la penna", e intanto ti ripulisce in modo tale che ti lascia indosso soltanto la camicia. E' vero, da noi in compenso il servizio è perfetto, dappertutto c'è una pulizia che l'amministrazione provinciale nemmeno se la sogna, le scrivanie sono di mogano, e tutti i capi danno del lei. Sì, confesso che se non fosse per la bontà del servizio, avrei lasciato da un pezzo il ministero.

Mi sono messo il vecchio cappotto e ho preso l'ombrello, perché veniva giù una pioggerella fitta. Per strada non c'era nessuno; soltanto delle comari che si coprivano con le falde dell'abito e sotto gli ombrelli; e poi mi sono capitati sotto gli occhi anche dei cocchieri. Di gente distinta c'era soltanto un nostro fratello funzionario che arrancava. L'ho visto ad un incrocio. Come l'ho visto, mi sono detto subito: "Eh! No, colombella, tu non vai in ufficio, tu stai correndo dietro quella lì, ecco, che ti scappa davanti, e le guardi i piedini." Che razza di bestia è il nostro collega!

Perdio, non è da meno di un ufficiale: se passa una con il cappellino, immancabilmente l'aggancia. Mentre pensavo a questo, ho visto una carrozza che si fermava davanti ad un negozio. L'ho riconosciuta subito: era la carrozza del nostro direttore. Lui non ha motivo d'entrare in quel negozio, ho pensato; di certo è sua figlia. Mi sono addossato al muro. Il lacchè ha aperto gli sportelli e lei è svolazzata fuori dalla carrozza come un uccellino. Che occhiate ha dato a destra e a sinistra, che balenio di ciglia e di occhi... Signoriddio! Ero perduto, completamente perduto. E perché poi era uscita con un tempo così piovoso? E va' poi a raccontare che le donne non perdono la testa per tutti quegli stracci! Non mi ha riconosciuto, e del resto anch'io di proposito mi sono imbacuccato il più possibile, perché avevo indosso un cappotto molto sudicio e di vecchio taglio. Adesso si portano i mantelli con il collo a scialle, mentre il mio è abbottonato sino in cima; anche la stoffa non è affatto buona. La sua cagnetta, che non aveva fatto in tempo ad infilare la porta del negozio, è rimasta sulla strada. Conosco questa cagnetta. Si chiama Meggy. Stavo lì appena da un minuto quando, ad un tratto, sento una vocina sottile: "Salve, Meggy." Questa sì che era bella!

Chi aveva parlato? Mi sono guardato in giro e ho visto due signore che camminavano sotto a un ombrello: una era vecchia, l'altra abbastanza giovane.

Ho udito di nuovo: "Guai a te, Meggy!" Che razza di diavolo!

Allora ho visto che Meggy annusava l'altra cagnetta che seguiva le signore. Eh! mi sono detto, questo è troppo, non sarò ubriaco?

Davvero, per quanto mi risulta è una cosa che succede molto di rado. "No, Fidèle, fai male a pensare così". Giuro che era Meggy a parlare. "Sono stata, bau! bau! Sono stata, bau, bau, bau! molto ammalata." Ah, razza di cagnetta! Confesso d'essermi molto stupito a sentirla parlare nella lingua degli uomini. Ma poi, quando ho ragionato per bene su tutto questo, ho cessato di meravigliarmi. Effettivamente, al mondo ci sono già stati parecchi esempi del genere. Si dice che in Inghilterra sia venuto a galla un pesce il quale ha detto due parole in una lingua stranissima che da tre anni ormai gli scienziati si sforzano di decifrare, ma finora non hanno scoperto nulla. Sui giornali ho letto anche di due vacche che sono entrate in un negozio e hanno chiesto una libbra di tè. Ma, lo confesso, mi sono meravigliato molto di più quando Meggy ha detto: "Io ti ho scritto, Fidèle; di certo Polkan non ha portato la mia lettera!" Che non riceva lo stipendio se in vita mia avevo mai sentito che un cane potesse scrivere. Solo un nobile può scrivere correttamente. Sì, naturale, anche certi mercanti e persino i servi della gleba talvolta scrivono, ma il loro scrivere è per lo più meccanico: né virgole, né punti, né stile. Questo mi ha meravigliato. Lo confesso, da qualche tempo mi succede di udire e di vedere cose che nessuno finora ha mai visto né udito. Adesso, mi sono detto, vado dietro a questa cagnetta, così saprò chi è e come la pensa.

Ho aperto l'ombrello ed ho seguito le due signore. Siamo passati in via Goròchovaja, abbiamo svoltato in via Mescànskaja, di là in via Stoljàrnaja, finalmente verso il ponte Kokuskìn e ci siamo fermati davanti ad una grande casa. Questa casa io la conosco, mi sono detto. E' la casa di Zvèrkov. Che casermone! E che gente ci abita: cuoche, polacchi, e moltissimi funzionari, uno sopra l'altro, come i cani. Anch'io ho un amico che abita lì; suona bene la tromba. Le signore sono salite al quinto piano. Bene, ho pensato, adesso non ci vado, ma mi segno il posto e alla prima occasione non mancherò di approfittarne.

4 ottobre Oggi è mercoledì e perciò sono nel gabinetto del nostro capo. Sono arrivato apposta prima del solito e, sedutomi, ho temperato tutte le penne. Il nostro direttore dev'essere un uomo molto intelligente. Tutto il suo gabinetto è pieno di scaffali e gli scaffali sono pieni di libri. Ho letto alcuni titoli: tutta scienza, una scienza tale che quelli come me non ci arrivano proprio: tutto in francese oppure in tedesco. E, a guardarlo in faccia: caspita, che luce di importanza gli brilla negli occhi!

Finora non l'ho mai sentito dire una parola. Soltanto quando gli porgi le carte, domanda: "Che tempo fa fuori?" "Umido, vostra eccellenza!" Sì, la gente come me non gli sta alla pari! Un uomo di Stato. So comunque che a me è particolarmente affezionato.

Anche se la figlia... eh, canaglia!... Fa niente, niente, silenzio! Ho letto l'"Ape". Che stupido popolo, i francesi!

Beh, che vogliono? Li prenderei tutti, perdio, e li frusterei con le verghe! Lì, infatti, ho letto la divertentissima descrizione di un ballo, scritta da un proprietario di terre di Kursk. I proprietari di terre di Kursk scrivono bene. Ad un certo punto ho notato che era già mezzogiorno e mezzo e il nostro non usciva ancora dalla sua camera da letto. Verso l'una e mezzo, è successo un avvenimento che nessuna penna può descrivere. Si è aperta la porta, io credevo che fosse il direttore e sono balzato su dalla sedia con le mie carte; ma era lei, proprio lei! Santi del cielo com'era vestita! Aveva un abito bianco come un cigno: caspita che lusso! e come guardava: un sole, perdio, un sole! Mi ha salutato e ha detto: "Il papà non è stato qui?" Ahi, ahi, ahi! Che voce! Un canarino, davvero un canarino!

Signorina, avrei voluto dire, non ordinate di giustiziarmi, ma, se proprio volete farmi giustiziare, giustiziatemi con la vostra nobile manina. Sì, il diavolo mi pigli, la lingua chissà perché non mi si muoveva e ho detto solamente: nossignora, no. Lei ha guardato me, i libri, e ha lasciato cadere il fazzoletto. Io mi sono precipitato, sono sdrucciolato su quel maledetto pavimento e per poco non mi si scollava il naso, tuttavia mi sono rialzato e ho raccolto il fazzoletto. Santi del cielo, che fazzoletto!

Finissimo, di batista: ambra, perfetta ambra! e pure esso emanava qualcosa di generalizio. Lei mi ha ringraziato e ha sorriso appena appena, tanto che le sue labbruzze zuccherine quasi non si sono mosse, e poi se n'è andata.

Io sono rimasto lì ancora un'ora; poi è venuto il lacchè e ha detto:

"Andate a casa, Aksèntij Ivànovic, il signore è già uscito." Io non posso sopportare i domestici: sono sempre stravaccati in anticamera e non si scomodano neanche a farti un cenno con la testa. Questo è niente: una volta una di quelle bestie ha avuto l'idea di offrirmi del tabacco senza nemmeno alzarsi dal suo posto. Ma lo sai, stupido servo, che io sono un funzionario, sono d'origine nobile? Comunque ho preso il cappello e mi sono messo da solo il cappotto, perché quei signorini non ti aiutano mai, e me ne sono andato. A casa sono rimasto a letto. Poi ho copiato dei bellissimi versi:

"L'amata un'oretta non vedendo, pareami non vederla da un anno.

Così la mia vita odiando, m'andavo chiedendo vale viverla." Dev'essere un'opera di Pùskin. Verso sera, tutto avvolto nel cappotto, sono andato sotto il portone di sua eccellenza e ho aspettato a lungo nella speranza che lei uscisse per guardarla ancora una volta. Non è uscita.

6 novembre.

Il caposezione s'è infuriato. Quando sono arrivato al ministero mi ha fatto chiamare.

"Beh, dimmi per piacere, che stai facendo?" "Come, che cosa? Io non faccio niente," ho risposto. "Beh, rifletti bene! Hai già passato la quarantina, sarebbe ora di mettere giudizio. Che cosa t'immagini? Tu corri dietro alla figlia del direttore! Ma guardati un po', pensa almeno a questo: chi sei? Perché sei uno zero, niente di più. Non hai neanche un soldo. Guardati almeno la faccia nello specchio, come puoi pensare ad una cosa simile!" Il diavolo lo pigli, lui che ha la faccia che assomiglia a un'ampolla da speziale, e ha in testa un ciuffetto di capelli arricciati come una cresta di gallo, e li tiene anche voltati all'insù, e li unge con una pomata, sicché crede addirittura d'essere il solo che può tutto. Capisco, capisco perché ce l'ha con me. E' invidioso; forse ha visto qualche segno di benevolenza rivolto preferibilmente verso di me. Ma io ci sputo sopra! Che grande importanza, consigliere di corte! Ha attaccato una catenella d'oro all'orologio, ordina scarpe da trenta rubli, che il diavolo se lo porti! E che, io sono forse un plebeo, il figlio di un sarto o d'un sottufficiale?

Io sono un nobile. E che? Anch'io posso fare carriera. Ho solo quarantadue anni, l'età in cui il vero servizio comincia appena.

Aspetta, amico! Diventeremo anche noi colonnelli e forse, se Dio lo concederà, anche qualcosa di più. Ci faremo pure noi una reputazione anche migliore della tua. Che cosa ti sei messo in testa? Che all'infuori di te non ci sia una persona perbene? Dammi un frac fatto all'ultima moda, mettimi al collo una cravatta come ce l'hai tu, e non sarai neanche degno di lustrarmi le scarpe.

Sono povero, questo è il guaio.

8 novembre.

Sono stato a teatro. Davano una farsa con Filatka, lo scemo russo.

Ho riso molto. C'era anche una vaudeville con certi versi divertenti sugli imbrattacarte, uno speciale su di uno scrivano, scritti in modo assai libero, tanto che mi sono meravigliato che la censura li abbia lasciati passare, mentre dei mercanti dicevano apertamente che imbrogliano il popolo e che i loro figli si danno alla bella vita e s'intrufolano fra i nobili.

Anche sui giornalisti c'era un couplet molto divertente: che a loro piace dire male di tutto e che l'autore chiede la protezione del pubblico. Al giorno d'oggi gli autori scrivono delle cose molto divertenti. A me piace andare a teatro. Non appena mi trovo in tasca quattro soldi, non resisto e ci vado. Ma fra noialtri funzionari ci sono dei veri maiali: a teatro, gli zotici, non ci vanno assolutamente; forse soltanto se gli dai il biglietto gratis. Un'attrice cantava molto bene. Io mi sono ricordato di quella... ah, canaglia!... niente, niente... silenzio.

9 novembre.

Alle otto sono andato al ministero. Il caposezione ha fatto una faccia, come se non avesse notato che ero arrivato. Anch'io da parte mia, come se fra di noi non ci fosse stato nulla. Ho esaminato e confrontato certi incartamenti. Sono uscito alle quattro. Sono passato davanti all'appartamento del direttore, ma non si vedeva nessuno. Dopo il pranzo per lo più sono rimasto a letto.

11 novembre.

Oggi sono rimasto nel gabinetto del nostro direttore e ho temperato per lui ventitré penne, e per lei, ahi! ahi!... per lei, quattro penne. A lui piace molto che ci siano tante penne. Uh! che testa dev'essere! Sta sempre zitto, ma nella sua testa, penso, pondera tutto. Mi piacerebbe sapere a cosa pensa più di tutto:

cosa si muove in quella testa. Avrei voglia di vedere più da vicino la vita di questi signori, tutti questi equivoci e questi trucchi di corte, come sono, che cosa fanno nel loro ambiente, ecco quello che avrei voglia di sapere! Varie volte ho pensato di attaccare discorso con sua eccellenza, solo che, il diavolo mi pigli, la lingua non mi vuol dare assolutamente retta: dico solamente se fuori fa caldo o fa freddo e di più non riesco assolutamente a dire. Avrei voglia di dare un'occhiata nel salotto, che certe volte vedo attraverso la porta aperta, e anche nell'altra stanza, dopo il salotto. Eh, che ricco arredamento! Che specchi e che porcellane. Avrei voglia di sbirciare in quella parte dell'alloggio dove sta lei, ecco dove avrei voglia di sbirciare! Nel boudoir, dove ci sono flaconi, bottigliette, fiori che solo ad annusarli c'è da aver paura, i suoi abiti sparpagliati qua e là, più simili all'aria che non a vestiti.

Vorrei dare un'occhiata nella camera da letto... là, penso, devono esserci prodigi; là, penso, deve esserci un paradiso come non ce ne sono neanche in cielo. Vedere lo sgabello sul quale lei poggia il suo piedino quando si alza dal letto, vedere come infila nella calzina bianca come la neve quel piedino... ahi! ahi! ahi! niente, niente... silenzio.

Oggi tuttavia è stato come se una luce mi rischiarasse: mi sono ricordato della conversazione delle due cagnette che avevo udito sulla Prospettiva Nevskij. Bene, ho pensato fra me: adesso sì che saprò tutto. Basta solamente intercettare la corrispondenza che tengono fra di loro quelle due schifose cagnette. Così, di certo, qualcosa verrò a sapere. Confesso, una volta ho persino chiamato Meggy e le ho detto: "Ascolta, Meggy, ecco, adesso noi siamo soli; se vuoi, posso chiudere la porta a chiave così nessuno potrà vedere; raccontami tutto quello che sai della signorina, che cosa fa e com'è. Ti giuro che non lo rivelerò a nessuno." Ma l'astuta cagnetta ha messo la coda fra le zampe, si è rimpicciolita di due volte ed è uscita zitta zitta dalla stanza come se non avesse sentito nulla. Sospettavo da tempo che il cane fosse molto più intelligente dell'uomo; ero persino sicuro che potesse parlare, ma che in lui ci fosse una specie di testardaggine che gli impediva di farlo. E' un politico straordinario: osserva tutto, tutti i passi dell'uomo.

A qualunque costo domani mi recherò a casa di Zvèrkov, interrogherò Fidèle e, se mi riuscirà, mi porterò via tutte le lettere che Meggy le ha scritto.

12 novembre.

Alle due del pomeriggio sono uscito, deciso a vedere Fidèle e a interrogarla. Io non posso sopportare il cavolo, il cui odore viene fuori a fiotti da tutte le bottegucce della via Mescànskaja; per giunta, da sotto il portone di ogni casa emana un tanfo tale che mi sono messo a correre a spron battuto tappandomi il naso. E poi anche quegli infami artigiani mandano fuori fuliggine e fumo dalle loro officine in tale quantità che una persona come si deve non può assolutamente andare a passeggio da queste parti. Quando sono arrivato al sesto piano e ho suonato il campanello, è uscita una ragazza per niente brutta, con delle piccole lentiggini. L'ho riconosciuta. Era la stessa che camminava insieme alla vecchia. E' diventata rossa e io ho capito subito: tu, colombella, desideri un fidanzato.

"Cosa desiderate?" ha detto lei.

"Ho bisogno di parlare con la vostra cagnetta." La ragazza era scema! Ho compreso subito che era scema! La cagnetta intanto era corsa abbaiando; io volevo acchiapparla, ma per poco non era lei, brutta schifosa, ad acchiapparmi per il naso. Ho visto tuttavia in un angolo la sua cuccia. Eh, ecco quello che mi ci voleva! Mi sono avvicinato, ho frugato fra la paglia dentro la cassetta di legno e, con mia grande contentezza, ne ho tirato fuori un mazzetto di piccole carte. La schifosa cagnetta, vedendo questo, dapprima mi ha morso ad un polpaccio, e poi, quando ha fiutato che avevo preso le carte, ha cominciato a guaire ed a fare moine, ma io ho detto: "No, colombella, addio!" e mi sono messo a correre. Penso che la ragazza mi abbia preso per matto, perché si è spaventata in modo incredibile. Arrivato a casa, avrei voluto subito mettermi al lavoro per decifrare quelle lettere, perché alla luce delle candele ci vedo male. Ma Mavra aveva avuto la cattiva idea di lavare il pavimento. Queste stupide finniche sono sempre pulite a sproposito. Perciò me ne sono andato a passeggiare e a meditare sugli avvenimenti. Adesso, finalmente, conoscerò tutte le imprese, i propositi, i motivi e finalmente scoprirò.... queste lettere mi sveleranno tutto. I cani sono persone intelligenti, conoscono tutti gli intrighi e perciò di sicuro lì ci sarà tutta la verità: il ritratto e tutte le azioni di quell'uomo. Ci sarà qualcosa anche su quella che... niente, silenzio! Verso sera sono arrivato a casa. Per lo più sono rimasto a letto.

13 novembre.

Su, adesso guardiamo: una scrittura abbastanza nitida. Comunque nella calligrafia c'è qualcosa di canino. Leggiamo:

"Cara Fidèle! non posso ancora abituarmi al tuo nome piccolo borghese. Come se proprio non potessero dartene uno migliore, no?

Fidèle, Rosa, che tono volgare, lasciamo però tutto questo da parte. Sono molto contenta che abbiamo avuto l'idea di scriverci." La lettera è scritta in modo corretto. La punteggiatura e persino le "acca" sono sempre al loro posto. Così, davvero, non scrive nemmeno il nostro caposezione, benché racconti che chissà dove ha studiato all'università. Vediamo ancora:

"Mi sembra che condividere i propri sentimenti e le impressioni con qualcun altro sia uno dei massimi beni di questo mondo." Hummm! il pensiero è attinto da qualche opera tradotta dal tedesco. Non ricordo il titolo.

"Dico questo per esperienza, benché non abbia visto il mondo oltre il portone di casa nostra. Non trascorre forse nel piacere, la mia vita? La mia signorina, che il papà chiama Sophie, mi ama follemente." Ahi, ahi!... niente, niente. Silenzio!

"Anche il papà sovente mi fa delle carezze. Bevo il tè e il caffè con la panna. Ah, ma chère, devo dirti che non vedo alcun piacere in quelle grandi ossa spolpate che il nostro Polkan si divora in cucina. Le ossa sono buone solamente quando sono di selvaggina e inoltre quando nessuno ne ha ancora succhiato il midollo. E' molto bello mischiare svariate salse insieme, però senza capperi né verdura; ma io non conosco niente di peggio dell'abitudine di dare delle molliche di pane ai cani. Un qualsiasi signore seduto a tavola, che nelle sue mani ha tenuto ogni sorta di porcherie, comincia a spiaccicare con quelle mani del pane, ti chiama e ti ficca fra i denti una pallottolina. Rifiutare in un certo senso non è gentile, e così mangi; con disgusto, ma mangi..." Lo sa il diavolo che cos'è questa roba. Che stupidaggini! Come se non ci fossero argomenti migliori. Guardiamo l'altra pagina, se c'è qualcosa di più concreto.

"Sono pronta a informarti di tutti i fatti che succedono da noi.

Ti ho già detto qualcosa del signore che qui è più importante e che Sophie chiama papà. E' un uomo molto strano." Ah! Ecco, finalmente! Sì, lo sapevo: loro vedono tutto con occhio politico.

Vediamo un po' cosa dice di papà:

"... molto strano. Per lo più sta zitto. Parla assai di rado, ma una settimana fa non ha fatto che dire incessantemente fra sé:

'L'avrò o non l'avrò?' Con una mano prendeva una carta, stringeva l'altra, vuota, a pugno e diceva: 'L'avrò o non l'avrò?' Una volta s'è rivolto anche a me con questa domanda: 'Che cosa ne dici, Meggy, l'avrò o non l'avrò?' Io non riuscivo a capirci proprio niente, gli ho annusato una scarpa e me ne sono andata. Poi, ma chère, una settimana dopo il papà è arrivato tutto felice. Per tutta la mattinata sono venuti da lui dei signori in uniforme e si congratulavano per qualcosa. A tavola il papà era contento come non l'avevo mai visto prima, raccontava barzellette e, dopo il pranzo, mi ha preso in grembo e mi ha detto: 'Guarda un po', Meggy, che cos'è questo?' Ho visto una specie di nastrino. L'ho annusato, ma non ci ho trovato assolutamente nessun profumo; finalmente, l'ho leccato, senza dare nell'occhio: era un po' salato." Hummm! Questa cagnetta, mi pare, è già troppo... purché non le diano una frustatina! Ah! Sicché lui sarebbe ambizioso! E' una cosa di cui si dovrà tener conto.

"Addio, ma chère, Scappo, eccetera... eccetera... Domani finirò la lettera. Beh, salve! eccomi di nuovo a te. Oggi la mia signorina Sophie..." Ah! Dunque vediamo cosa dice di Sophie. Eh, canaglia!... Niente, niente... continuiamo.

"...la mia signorina Sophie era tutta in trambusto. Si preparava ad andare a un ballo ed io ero molto contenta perché in sua assenza avrei potuto scriverti. La mia Sophie era straordinariamente contenta di andare al ballo, benché quando si veste, si arrabbia quasi sempre. Io non riesco a capire, ma chère, il piacere di andare a un ballo. Sophie arriva a casa dal ballo alle sei di mattina e quasi sempre, dalla sua faccia pallida e dal suo aspetto smunto, indovino che là, poverina, non le hanno dato niente da mangiare. Ti confesso che io non potrei mai vivere così.

Se non mi dessero la salsa di starna o l'arrosto di alucce di pollo, io... non so che cosa ne sarebbe di me: E' buona anche la salsa con la polentina. Ma le carote, le rape, oppure i carciofi non saranno mai buoni... " Uno stile estremamente ineguale. Si vede subito che non è un uomo che scrive. Comincia come si deve e finisce alla canina. Guardiamo ancora quì, quest'altra letterina. E' piuttosto lunghetta. Hummm!

e non c'è neanche la data.

"Ah! cara! Come si sente l'avvicinarsi della primavera. Nelle orecchie mi sento un eterno ronzio. Tanto che qualche volta rimango per parecchi minuti in ascolto davanti alla porta con una zampetta sollevata. Voglio svelarti un segreto: ho molti corteggiatori. Spesso, stando seduta alla finestra, me li guardo tutti. Ah, sapessi che mostri ci sono fra loro! Ce n'è uno ultragoffo; è un cane da caccia, terribilmente stupido, con la stupidità dipinta in faccia; cammina con una grande aria d'importanza per la strada e s'immagina di essere un personaggio importantissimo; crede che tutti lo ammirino. Proprio per niente.

Io non gli faccio neanche caso, come se neanche l'avessi visto. E che terribile molosso si ferma davanti alla mia finestra! Se si rizzasse sulle zampe posteriori, cosa che questo zoticone di certo non sa fare, sarebbe di un'intera testa più alto del papà della mia Sophie, che è anche lui di statura abbastanza alta e piuttosto grasso. Questo stupido dev'essere anche un terribile sfacciato.

Gli ho ringhiato contro, ma lui non ci ha fatto caso. Avesse almeno aggrottato la fronte! Macché, ha tirato fuori la lingua, lasciando penzolare le sue orecchie enormi, e stava lì a guardare verso la finestra, un vero bifolco! Ma forse tu penserai, ma chère, che il mio cuore sia indifferente a tutte le proposte? Ah, no... Se tu vedessi il cavaliere che ha saltato lo steccato della casa vicina e che si chiama Trésor. Ah, ma chère, che musetto grazioso!" Puah, al diavolo!... Che porcheria! Come si possono riempire delle lettere di simili stupidaggini! Datemi un essere umano! Voglio vedere un essere umano; ho bisogno di un cibo che possa nutrire e deliziare la mia anima; e, invece, queste sciocchezze... Voltiamo pagina, forse ci sarà qualcosa di meglio:

"... Sophie era seduta al tavolino e cuciva qualcosa. Io guardavo fuori dalla finestra perché mi piace osservare i passanti. Ad un tratto è entrato il lacchè e ha detto: 'Teplòv!' 'Fallo accomodare!' ha gridato Sophie e si è precipitata ad abbracciarmi.

'Ah, Meggy, Meggy! Se tu sapessi chi è: è bruno, è un maestro di camera, e che occhi! neri e splendenti come il fuoco.' Sophie è corsa in camera sua. Un minuto dopo è entrato un giovane maestro di camera con dei basettoni neri; si è avvicinato allo specchio, s'è ravviato i capelli ed ha esaminato la stanza. Io ho ringhiato e mi sono seduta al mio posto. Ben presto è tornata Sophie e ha ricambiato con allegria il suo grande inchino. Io zitta, come se non avessi notato nulla; continuavo a guardare fuori dalla finestra; però avevo un po' inclinato la testa e cercavo di ascoltare quello che dicevano. Ah, ma chère, di che stupidaggini parlavano! Dicevano che una certa signora, ballando, invece d'una figura ne aveva fatta un'altra; che un certo Bobòv con il suo jabot assomigliava a una cicogna e per poco non era cascato per terra; che una certa Lidina s'immaginava di avere gli occhi celesti mentre invece sono verdi, e così di seguito. Quando mai, pensavo io frattanto, si può paragonare questo maestro di camera con Trésor! Cielo! Una tale differenza!

Innanzi tutto il maestro di camera ha una faccia larga, assolutamente liscia e intorno gli scopettoni, come se si fosse messo ai lati un fazzoletto nero; Trésor, invece, ha un musetto affilato e proprio sulla fronte una piccola macchia bianca. Il personale di Trésor, poi, non si può nemmeno paragonare con quello del maestro di camera. Anche gli occhi, i modi di fare, i gesti non sono quelli. Oh, che differenza! Non so che cos'abbia trovato nel suo maestro di camera. Per che cosa se ne entusiasma tanto?..." Anche a me sembra che qui ci sia qualcosa che non va. Non può essere che un gentiluomo di camera abbia potuto ammaliarla così.

Vediamo oltre.

"Mi sembra che se le piace il maestro di camera, presto le piacerà anche quell'impiegato che se ne sta seduto nell'ufficio di papà.

Ah, ma chère, se tu sapessi che mostro è quello. Una vera tartaruga nel suo guscio... " E chi sarebbe quest'impiegato?

"Ha un nome stranissimo. Sta sempre seduto e tempera le penne.

Sulla sua testa, i capelli sembrano proprio fatti di fieno. Il papà lo spedisce sempre in giro a fare commissioni, al posto dei domestici... " Mi sembra che questa schifosa cagnetta ce l'abbia con me. Ma dov'è che ho i capelli come il fieno, io?

"Sophie non riesce mai a trattenersi dal ridere quando lo vede." Racconti frottole, dannata cagnetta! Ah, che brutta lingua! Come se non sapessi che è tutta invidia. Come se non sapessi chi gioca questi tiri. Sono tiri di caposezione. Quest'uomo mi ha giurato eterno odio e cerca continuamente di rovinarmi. Ma guardiamo ancora una lettera. Forse la cosa si chiarirà da sé.

"Ma chère Fidèle, scusa se non ti ho più scritto da tanto tempo.

Ero in preda a una vera e propria ebbrezza. Non so quale scrittore ha detto che l'amore è una seconda vita. Per giunta in casa nostra sono in corso grandi cambiamenti. Adesso il maestro di camera viene da noi ogni giorno. Sophie è innamorata di lui alla follia.

Papà è molto allegro. Ho persino sentito dire dal nostro Grigòrij, che lava il pavimento e parla quasi sempre da solo, che presto ci saranno le nozze, perché papà vuole assolutamente vedere Sophie sposata con un generale o con un maestro di camera o con un colonnello dell'esercito... " Il diavolo ti pigli! Non posso più leggere... Sempre maestri di camera oppure generali. Tutto quello che c'è di meglio al mondo, tutto va ai maestri di camera oppure ai generali. Ti trovi un piccolo tesoro, credi afferrarlo, macché, un maestro di camera oppure un generale te lo strappa di mano. Al diavolo! Vorrei anch'io farmi generale, ma non per avere la mano di Sophie e il resto. No, vorrei essere generale solamente per vedermeli scodinzolare davanti a fare moine e poi dirgli che gli sputo in faccia a tutt'e due. Il diavolo se li porti. Mi fanno una rabbia!

Ho fatto a pezzi le lettere della stupida cagnetta.

3 dicembre.

Non può essere. Fandonie! Queste nozze non si devono fare! Che importa se lui è un maestro di camera! Non è altro che un'onorificenza; non è una cosa che si può vedere, che si può prendere in mano. Mica gli si aggiunge un occhio sulla fronte per il fatto che è un maestro di camera. Non ha il naso fatto d'oro, ha un naso come il mio, come quello di chiunque; ci annusa e non ci mangia mica; ci starnutisce, non ci tossisce. Già varie volte mi sono chiesto l'origine di tutte queste parzialità. Perché io sono un consigliere titolare e per quale ragione sono un consigliere titolare? Forse sono magari un conte o un generale che però sembra un consigliere titolare? Forse non lo so neppure io chi sono. Quanti esempi ci sono infatti nella storia! Prendiamo un uomo qualsiasi, neppure un nobile, ma semplicemente un piccolo borghese qualsiasi, ed ecco che tutt'a un tratto si scopre che è un gran signore, certe volte persino un sovrano. Se a volte accade una cosa simile persino ad un contadino, cosa può uscire da un nobile? Tutt'a un tratto, per esempio, io entro in un posto in uniforme da generale: ho una spallina sulla spalla destra e una spallina sulla spalla sinistra, sul petto un nastro azzurro, ebbene? Come canterà allora la mia bella? Che cosa dirà papà, il nostro direttore? Oh, è un grande ambizioso! Un massone, sicuramente un massone. Anche se si fa passare per questo e per quell'altro, io ho capito subito che è un massone: se dà la mano a qualcuno, porge solamente due dita. Forse che io non potrei essere nominato in quest'istante stesso generale governatore, o intendente o qualcosa del genere? Mi piacerebbe sapere perché sono consigliere titolare. Perché proprio consigliere titolare?

5 dicembre.

Ho letto i giornali per tutta la mattina. Strane cose succedono in Spagna. Non sono nemmeno riuscito a capirle bene. Scrivono che il trono è vacante e che i dignitari si trovano in una situazione difficile perché si tratta di scegliere l'erede, sicché, in conseguenza di ciò, si producono disordini. Questo mi pare molto strano. Come può essere vacante il trono? Dicono che una certa "doña" deve ascendere al trono. Assolutamente non può. Sul trono ci dev'essere un re. Ma dicono che non c'è il re. Non può essere che non ci sia un re. Uno Stato non può stare senza re. Il re c'è, solamente che si trova in qualche posto in incognito. Può anche darsi che si trovi proprio lì, ma certe ragioni familiari o timori da parte delle potenze confinanti, come dire le Francia o altri paesi, lo costringono a nascondersi; oppure c'è qualche altra ragione.

8 dicembre.

Ero ormai deciso ad andare al ministero, ma varie ragioni e considerazioni mi hanno trattenuto dal farlo. Non poteva uscirmi di testa la questione spagnola. Come può essere che una donna diventi regina? Non lo permetteranno. E in primo luogo non lo permetterà l'Inghilterra. E poi ci sono anche gli affari politici di tutta l'Europa: l'imperatore austriaco, il nostro sovrano...

Confesso che questi avvenimenti mi hanno talmente prostrato e talmente sconvolto, che non sono riuscito ad applicarmi a nulla per tutto il giorno. Mavra mi ha fatto notare che a tavola ero molto distratto. Dev'essere vero, perché, pare, nella mia distrazione ho fatto cadere in terra due piatti, che si sono subito rotti. Dopo il pranzo sono andato sui monti. Non ho potuto trarne nulla di istruttivo. Quindi sono ritornato e per lo più sono rimasto sdraiato a letto ragionando sulle faccende della Spagna.

Anno 2000, 43 aprile.

Oggi è una giornata d'immenso trionfo! In Spagna c'è un re. E' stato trovato. Questo re sono io. L'ho saputo solo oggi. Confesso che, di colpo, è stato come se avessi avuto un'illuminazione. Non capisco come abbia potuto immaginarmi di essere un consigliere titolare. Come mi sia passato per il capo un pensiero così stravagante. Meno male che nessuno ha pensato allora di mettermi in manicomio. Adesso è tutto chiaro. Adesso vedo tutto come sul palmo della mano. Mentre prima, chissà perché... tutto mi stava davanti come in una nebbia. Tutto questo, credo, avviene perché gli uomini ritengono che il cervello umano si trovi nella testa; nient'affatto. Lo porta il vento dalla parte del mar Caspio.

Dapprima ho annunciato a Mavra chi sono io. Quando ha sentito che dinanzi a lei stava il re di Spagna, ha battuto le mani e per poco non moriva dalla paura. Stupida, lei non ha mai visto il re di Spagna. Tuttavia ho cercato di tranquillizzarla e, con parole affettuose, ho cercato di rassicurarla circa i miei sentimenti, e che non me la sarei presa ricordando che certe volte lei mi ha pulito male le scarpe. Mavra fa parte della plebaglia. A loro non si può parlare di argomenti elevati. Lei si è spaventata, perché è convinta che tutti i re di Spagna assomigliano a Filippo secondo.

Ma io le ho spiegato che fra me e Filippo non c'è nessuna affinità e che io non ho nemmeno un cappuccino... Al ministero non sono andato. No, amici, adesso non mi attirate più; non mi metterò a copiare le vostre schifose carte!

86 marzobre. Fra il giorno e la notte.

Oggi è venuto il nostro messo perché mi presentassi al ministero, dopo che sono già tre settimane che non vado in ufficio. Per scherzo allora mi sono recato al ministero. Il caposezione credeva che l'avrei salutato e che mi sarei messo a scusarmi, ma io l'ho guardato con indifferenza, senza troppa ira e senza troppa benevolenza, e mi sono seduto al mio posto come se niente fosse successo. Guardavo tutto il canagliume burocratico e pensavo: se sapeste chi è che sta seduto fra voi... Signoriddio! Che parapiglia farebbero; persino il caposezione si metterebbe a farmi degli inchini fino a terra, come quelli che fa adesso dinanzi al direttore. Mi avevano messo davanti certe carte, perché ne facessi un estratto. Non le ho nemmeno toccate con un dito. Dopo qualche minuto tutto s'è messo in agitazione. Dicevano che arrivava il direttore. Molti funzionari si sono messi a correre a gara per farsi notare. Io non mi sono mosso. Quando lui ha attraversato la nostra sezione, tutti hanno abbottonato i loro frac fino all'ultimo bottone, ma io, niente! Cos'è un direttore? Perché devo alzarmi in piedi davanti a lui? Mai! E poi che direttore è? Un tappo, non un direttore. Un comune tappo, un semplice tappo, niente di più. Di quelli con cui si tappano le bottiglie. Più di tutto mi sono divertito quando mi hanno rifilato una carta affinché la firmassi. Loro credevano che proprio in fondo al foglio avrei scritto: impiegato tal dei tali. Cos'altro avrei potuto scrivere? Io invece, nel punto più importante, dove firma il direttore, ho vergato: "Ferdinando ottavo". Bisognava vedere che reverente silenzio s'è diffuso intorno, ma io ho fatto soltanto un cenno con la mano, dicendo: "Non è necessaria alcuna manifestazione di sudditanza!" e sono uscito. Di là sono andato direttamente nell'alloggio del direttore. Il direttore non era in casa. Il lacché non voleva lasciarmi passare, ma gli ho detto qualcosa per cui ha lasciato cadere le braccia. Sono entrato direttamente nella toilette. Lei era seduta davanti allo specchio, è balzata in piedi e ha indietreggiato. Non le ho detto tuttavia che sono il re di Spagna. Le ho soltanto detto che l'attendeva una felicità come non poteva nemmeno immaginarsi e che, nonostante gli intrighi dei nemici, le nostre vite si sarebbero unite. Non volevo dire altro e sono uscito. Oh, che perfido essere è la donna!

Solamente adesso ho capito che cos'è la donna. Finora nessuno ha mai saputo di chi è innamorata; io per primo l'ho scoperto. La donna è innamorata del demonio. Sì, senza scherzi. Gli scienziati scrivono stupidaggini: che la donna è questo e quello; ma lei ama unicamente il diavolo. Ecco, vedete, da un palco di prima fila punta l'occhialino. Credete che guardi quel grassone con una decorazione? Nient'affatto, guarda il diavolo che sta in piedi alle spalle del grassone. Ecco che gli si è nascosto dentro la decorazione. Ecco che le fa cenno con un dito! E lei lo sposerà.

Lo sposerà. E tutti questi loro padri altolocati, tutti questi che strisciano da tutte le parti e s'insinuano a corte, e dicono di essere patrioti e questo e quest'altro: rendite, rendite vogliono questi patrioti! Per i soldi venderebbero la madre, il padre, Dio!

Ambiziosi, mercanti di Cristo! Tutto questo è ambizione e l'ambizione viene dal fatto che sotto la lingua si trova una vescichetta e in essa c'è un piccolo verme della grandezza d'una capocchia di spillo, e tutto questo lo fa un barbiere che abita sulla Gorochòvaja. Non mi ricordo come si chiama. Ma la causa principale di tutto questo è il sultano turco che paga il barbiere e vuole diffondere in tutto il mondo l'islamismo. Si dice che in Francia già una gran parte della popolazione riconosca la fede di Maometto.

Nessuna data. Un giorno senza data.

Sono andato a passeggio in incognito sulla Prospettiva Nevskij. E' passata in carrozza sua maestà l'imperatore. Tutta la città si toglieva i berretti e io pure; non ho dato a vedere in alcun modo di essere il re di Spagna. Ho ritenuto sconveniente rivelarmi lì davanti a tutti, perché prima di tutto bisogna presentarsi a corte. Mi ha fermato solamente il fatto che non ho ancora il costume regale. Dovrei almeno procurarmi un manto. Volevo ordinarlo al sarto, ma i sarti sono perfetti asini, inoltre trascurano il loro lavoro, si sono dati alle speculazioni e per la maggior parte lastricano le strade. Ho deciso di fare un mantello con l'uniforme nuova che ho messo solamente due volte. Ma perché quei farabutti non possano sciuparmela, ho deciso di confezionarmela da solo, affinché nessuno possa vedermi. L'ho tagliata tutta con le forbici, perché il taglio deve essere tutto diverso.

Non ricordo la data. Neanche il mese c'era.

Solo il diavolo sa cos'era.

Il manto è pronto e cucito. Mavra s'è messa a strillare quando l'ho indossato. Tuttavia non mi decido ancora a presentarmi a corte. Finora non è arrivata alcuna deputazione dalla Spagna.

Senza deputati non sta bene. La mia dignità non avrebbe alcun peso. Li aspetto di ora in ora.

Giorno n. 1.

Mi stupisce moltissimo il ritardo dei deputati. Quali ragioni possono averli trattenuti? La Francia forse? Sì, è la potenza più sfavorevole. Sono andato a informarmi alla posta se non fossero arrivati i deputati spagnoli. Il capufficio è stupido, non sa nulla: no, dice, qui non c'è nessun deputato spagnolo, ma se volete scrivere delle lettere, noi le accetteremo secondo le norme correnti. Che il diavolo se lo pigli! Che c'entra una lettera? Una lettera è una stupidaggine. Sono i farmacisti che scrivono lettere...

Madrid, 30 febbraio.

E così sono in Spagna. Tutto è successo così rapidamente che ho fatto appena in tempo a fiatare. Questa mattina si sono presentati da me i deputati spagnoli e sono salito con loro in carrozza. M'è sembrata strana l'insolita velocità. Andavamo così lesti che in mezz'ora abbiamo raggiunto la frontiera spagnola. Del resto, adesso in tutta l'Europa ci sono strade ferrate e i treni viaggiano velocissimi. Strano paese la Spagna: quando siamo entrati nella prima stanza ho visto una quantità di persone con la testa rapata. Però ho intuito che dovevano essere domenicani o cappuccini, perché loro si rapano la testa. Mi è sembrato molto strano il modo di fare del cancelliere di stato, che mi ha preso per mano, mi ha spinto in una piccola stanza e ha detto: "Siediti qui, e se seguiti a raccontare di essere re Ferdinando, te la levo io la voglia." Ma io, sapendo che quello era solamente un modo per tentarmi, ho risposto picche, per la qual cosa il cancelliere mi ha battuto due volte sulla schiena con un bastone e in modo così doloroso che per poco non lanciavo un grido, ma mi sono trattenuto ricordando che si tratta d'un uso cavalleresco quando si assurge ad un alto titolo, giacché in Spagna sono ancora oggi in vigore gli usi cavallereschi.

Rimasto solo, ho deciso di occuparmi degli affari di stato. Ho scoperto che la Cina e la Spagna sono la stessa identica terra e solo per ignoranza li considerano due stati diversi. Consiglio a tutti di provare a scrivere su un pezzo di carta "Spagna": verrà fuori "Cina". Mi ha tuttavia straordinariamente amareggiato un avvenimento che deve aver luogo domani.

Domani alle sette si compirà uno strano fenomeno: la terra si poserà sulla luna. Ne scrive anche il celebre chimico inglese Wellington. Confesso che mi sono sentito stringere il cuore considerando l'insolita morbidezza e la fragilità della luna. La luna infatti di solito viene fatta ad Amburgo, e viene fatta malissimo. Mi stupisco come l'Inghilterra non se ne interessi. La fa un bottaio zoppo ed è evidente che quel cretino non ha nessuna nozione della luna. Adopera del catrame e olio; per questo su tutta la terra c'è un lezzo terribile, tanto che bisogna tapparsi il naso. E' per questo che la luna stessa è un globo così tenero che gli uomini non possono viverci e adesso lassù ci vivono solamente i nasi. E' per questo anche che noi non possiamo vedere i nostri nasi, giacché si trovano tutti sulla luna. Quando ho considerato che la terra è una materia pesante e, posandosi, può schiacciare i nostri nasi, mi ha preso un'inquietudine tale che, infilatemi calze e scarpe, sono corso nella sala del consiglio di stato per dare ordine alla polizia di non autorizzare la terra a posarsi sulla luna. I cappuccini, di cui ho trovato un gran numero nella sala del consiglio di stato, erano gente molto intelligente, e, quando ho detto: "Signori, salviamo la luna, perché la terra vuole posarsi su di lei", immediatamente si sono precipitati tutti ad eseguire la mia sovrana volontà e molti si sono arrampicati sul muro allo scopo di agguantare la luna, ma proprio in quel momento è entrato il grande cancelliere. Vedendolo, tutti sono scappati via. Io, in quanto re, sono rimasto solo. Con mia meraviglia, il cancelliere mi ha colpito con il bastone e mi ha cacciato nella mia stanza. Tanto potere ha ancora oggi in Spagna l'usanza popolare.

Gennaio dello stesso anno, che viene dopo febbraio.

Non riesco ancora a capire che razza di paese sia la Spagna. Le usanze e l'etichetta di corte sono proprio insolite. Non capisco, non capisco, proprio non capisco. Oggi mi hanno rapato la testa sebbene gridassi con tutte le forze che non desideravo farmi monaco. Ma non sono più capace di ricordare che cosa ne è stato di me quando hanno cominciato a versarmi sulla testa dell'acqua fredda. Un inferno simile non lo avevo mai provato. Ero lì lì per montare su tutte le furie, tanto che a fatica potevano trattenermi. Non capisco assolutamente il significato di questa strana usanza. Usanza stupida, insensata! Mi è incomprensibile l'irragionevolezza dei re, che ancora non l'aboliscono. A giudicare da tutte le apparenze, credo d'indovinare. Forse sono caduto nelle mani dell'Inquisizione e quello che ho preso per il cancelliere forse è il Grande Inquisitore. Solamente non riesco ancora a capire come il re possa essere sottomesso all'Inquisizione. E' vero che potrebbe essere una cosa che viene dalla Francia, e probabilmente da Polignac. Oh, quella bestia di Polignac! Ha giurato di danneggiarmi mortalmente. Ed ecco che mi perseguita. Mi perseguiti, ma io lo so, amico bello, che è l'inglese che ti guida. L'inglese è un gran politico. S'intrufola dappertutto. E' ormai universalmente noto che quando l'Inghilterra fiuta il tabacco, la Francia starnuta.

Giorno 25.

Oggi il Grande Inquisitore è venuto nella mia stanza, ma io, avendo sentito da lontano i suoi passi, mi sono nascosto sotto una sedia. Vedendo che non c'ero, lui ha cominciato a chiamarmi. Prima ha gridato: "Popriscìn!" e io, neanche una parola. Poi: "Aksèntij Ivànovic! Consigliere titolare! Nobile!" Io, sempre zitto.

"Ferdinando ottavo, re di Spagna!" Avrei voluto cacciare fuori la testa, ma poi ho pensato: no, bello, non me la fai! Ti conosco, mascherina: mi vuoi versare di nuovo dell'acqua fredda sulla testa. Lui però mi ha visto e col bastone mi ha fatto uscire di sotto la sedia. Quel maledetto bastone colpisce in una maniera incredibilmente dolorosa. Comunque, di tutto questo mi ha ricompensato la scoperta che ho fatto oggi: sono venuto a sapere che ogni gallo ha una Spagna e che essa si trova sotto le sue penne. Il Grande Inquisitore, tuttavia, se n'è andato furibondo, minacciando chissà che castigo. Io non ho fatto assolutamente caso alla sua rabbia impotente, sapendo che lui si comporta come una macchina, come uno strumento degli inglesi.

Li 34 slo Mc gdao febbraio 349.

No, non ho più la forza di sopportare. Dio! che cosa fanno di me!

Mi versano in testa acqua fredda. Non mi ascoltano, non mi vedono, non mi danno retta. Che cosa gli ho fatto? Perché mi torturano?

Che cosa vogliono da me, poveretto? Che cosa posso dargli? Io non ho niente. Non ho la forza, non posso sopportare tutte le loro torture, la testa mi brucia e tutto mi gira intorno. Salvatemi!

Portatemi via! Datemi una tròjka di cavalli veloci come il vento!

A cassetta, mio cocchiere; tintinna, campanella; impennatevi, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Lontano, più lontano, che non si veda nulla, nulla. Ecco che il cielo turbina davanti a me. Lontano brilla una stellina; sotto di me corre la foresta con gli alberi scuri e con la luna; una nebbia bluastra si stende sotto i miei piedi. Nella nebbia, vibra una corda; da una parte c'è il mare, dall'altra l'Italia; ecco che si vedono anche le isbe russe. E' la mia casa quella che azzurreggia lontano? E' mia madre quella che siede alla finestra? Mamma, salva il tuo povero figlio!

Stringi al petto il tuo povero orfano! Non c'è posto per lui al mondo! Lo perseguitano! Mammina! abbi pietà del tuo bambino malato! Ma lo sapete che il re di Francia ha un bernoccolo proprio sotto il naso?

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